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Appunti di "Filosofia della Prassi Umana", Appunti di Filosofia

Appunti di "Filosofia della Prassi Umana" riguardanti il libro " Nati per incominciare" presi durante le lezioni della professoressa Alessandra Papa (primo semestre), facoltà di scienze dell'educazione e delle formazione

Tipologia: Appunti

2020/2021
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Caricato il 28/01/2021

francesca07022000
francesca07022000 🇮🇹

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Scarica Appunti di "Filosofia della Prassi Umana" e più Appunti in PDF di Filosofia solo su Docsity! Filosofia della prassi umana 5/10/2020 La sua filosofia è un tutt’uno con la sua vita. Hannah Arendt è stata una filosofa ebrea tedesca naturalizzata statunitenze. Era anche una teorica politica ma anche una storica. Amava definirsi una teorica politica. Nasce il 14 ottobre del 1906 ad Linden(un sobborgo della città di Hannover), ma la sua fame arrivò molto tardi, perché è stata a lungo dimenticata e dovremmo aspettare gli anni 50 per riscoprire questo talento filosofico. La sua carriera accademica si è interrotta per la shoah, per riprendere vivacità negli anni 50. Infatti dagli anni 30/50 è caduta nel dimenticatoio. È stata riscoperta grazie a filosofi come Habermas, un filosofo tedesco che celebrò “vita attiva” negli anni 70. Questa sua celebrità come filosofa è andata ad alimentarsi. È una vera e propria icona della filosofia. Anche se lei rifiuta l’etichetta di filosofa. Infatti la filosofia accademica l’aveva delusa, quella filosofia imbragata, chiusa negli steccati. Lei aveva in mente un’idea di filosofia altra, non amava le categorizzazioni, la filosofia per lei non poteva essere una professione nel senso più povero del termine. Un pò per polemica e per staccarsi dalla tradizione, nelle varie interviste si definisse come una TEORICA POLITICA E FENOMENOLOGICA. In un’intervista che concesse alla tv della repubblica federale tedesca, nell’ottobre del 1964, in occasione di uno dei suoi rientri in Germania. Gunther dos, un famoso giornalista, punzecchiò A. definendola filosofa. Lei rispose che non può farci nulla, riferendo che si fosse congedata una volta per tutte. Non amava definirsi come una filosofa. Voleva innovare la filosofia. Per tutti è una filosofa con la f maiuscola. In anni di crisi della filosofia, stretta ai fianchi dalla pedagogia ecc.. , sembrava fosse finita come la metafisica. H.A. cerca di riscattare la filosofia. La sua non era ostilità nei confronti dalla filosofia, ma voleva essere libera dell’accademismo. Non voleva essere una pensatrice di professione, voleva essere libera e neppure cadere nella trappola di pensarsi come un’intellettuale. Era ostile agli intelletualismi che aveva visto quando era una giovane studentessa all’università di Marburgo, allinearsi al nazismo. Associa l’intelletualismo all’allineamento al terzo reich. Si pensava tedesca prima ancora che ebrea ma deve fare i conti con la sua ebraicità. La grande fuga dalla Germania, si trasferisce negli USA; lavorò come giornalista e come insegnate delle superiori. Rimase apolide fino al 1951, la cittadinanza arrivò tardi. La sua fu una vita difficile. La sua storia è intrecciata con la sua teoresi. La sua filosofia non può essere compresa se non si passa dalla sua vita, dalla sua biografia. L’amicizia come pure l’amore e l’esilio, furono fondamentali per comprendere la sua filosofia. La sua vita da ebrea diventa una sorta di cifra di un secolo difficile. La sua vita è un racconto di quello che è stato il 900. La sua vita è una vita storta( come la definì Kant quando parla del male), vivendo sulla sua pelle il grande male della Shoah. La sua esistenza è quasi un romanzo di se stessa. La sua vita viene poi colpita dalle leggi raziali. La sua sembrava un’esistenza tranquilla, poi invece si trovò a fronteggiarsi con il “colpo della storia” che innesca la macelleria, il tritacarne del 900. Si respira una forte LIBERTA’ nei suoi scritti, è difficilmente collocabile a livello politico, proprio per questo ha pagato caramente finendo nel dimenticatoio. Aveva fame di libertà, era stata testimone degli orrori del nazismo, in quei “tempi bui”della storia(espressione ripresa dal drammaturgo Brecht). Voleva pensare senza attriti, senza barriere, assumendosi la responsabilità del pensare. Si assume i rischi che la libertà implica. Essere liberi non ha però a che fare con l’irresponsabilità. Noi siamo delle creature plurali, la nascita è la prima forma di agire, la prima responsabilità, avendo cura degli altri e del nostro mondo. In tal senso quando si fa filosofia si deve sporcare le mani(non come faceva Hegel che interpretava quando le cose erano già accadute), leggendo quello che accade intorno, denunciando ciò che accade. Era consapevole che la sua ebraicità la spingeva verso un pensiero altro rispetto ai canoni e alla mentalità storica. Sempre nell’intervista sopra citata, H.A. confida il fatto che si sentiva diversa, ma non inferiore nell’essere ebrea. Rifiutare l’ebraismo era fuori discussione. Questa consapevolezza era già forte nell’infanzia. Questo sentirsi diversa che l’accompagnerà per tutto il suo percorso, che sarà messo a tema filosoficamente, in quando nella sua filosofia entrano in gioco anche temi privati, temi biografici, come il sentirsi estranea, come il tema della responsabilità. La concezione del bambino che nasce, ad esempio, viene dall’educazione che gli fu impartita. Sua madre fu molto presente, le insegnerà ad essere un’ebrea diversa ma non inferiore, cercando di farle costudire questa sua diversità. 1937= il regime nazista le ritirò la cittadinanza. Questa data fu fondamentale per le sue vicende. H.A. viene educata seguendo il modello della BILLDUNG tedesca modello educativo a cui di solito avevano accesso solo i figli maschi. Era un modello vincente nella cultura tedesca. Ricevette un’educazione molto maschile. Lo stesso termine billdung, ha un significato molto ricco, perché rimanda ad una formazione interiore, ad un apprendistato, simile al modello greco della paideia (tecnica di preparazione alla vita, un’educazione permanente che investiva sugli aspetti spirituali dell’adulto da educare). La costruzione interiore era una sorta anche di pre-condizione politica, per chi volesse partecipare alla vita della poleis. Oltretutto la billdung è simile anche al modello latino dell’humanitas. L’aspetto politico dell’essere tra gli altri si costruisce. Questo modello ebbe un centro di diffusione nelle università, divenendo un modello di successo europeo. Si pensi a Froumbolt e Gothe che promossero questo modello educativo. L’ideale era quello di formare un essere umano libero interiormente, capace di tenere in equilibrio la ragione con una sensibilità artistica e letteraria. È un’educazione che ha una sua profondità interiore. Si intuisce la sua profondità verso gli aspetti pedagogici. Si rende conto di quanto sia decisiva l’educazione, perché l’uomo rammenti sempre a se stesso di essere un uomo e non un animale. È importante che il bambino non si esposto all’ideologia. Non è un’ educazione piatta, non è un semplice educere, portando solo fuori le capacità del soggetto. Diverge in tal senso dal modello americano. L’educazione è piuttosto per lei un percorso di formazione intellettuale e di auto- disciplina. Tale modello venne poi riscoperto negli anni 80 durante la crisi educativa. H.A. aveva già colto tale crisi fin dagli anni 70, scrivendo un piccolo testo sulla crisi, enunciando la necessità di avere un progetto educativo nelle scuole. Educare un bambino da adulto significa di volta in volta interrogarci sul nostro compito. L’educazione ha una funzione politica, non può essere altrimenti, si pensi al terzo reich. L’ideologia tentata di omologare in pensiero, introducendo le divise, il saluto nazista. Riflettè anche sull’adulto che deve educare, essendo però un buon insegnate responsabile. EDUCAZIONE PER HANNAH ARENDT: è un passaggio che decide di noi in quanto protagonisti del mondo; è il momento in cui dobbiamo dimostrare di amare abbastanza il mondo e di salvarlo dalla rovina, innovandolo, dando spazio ai giovani, a esseri nuovi preparati al compito di innovare il mondo. 6/10/2020 12/10/2020 Le opere di Hannah Arendt(scritte in tante lingue) Nel 1951, quando scrive le “origine del totalitarismo”, un’opera che contiene un tassello della fenomenologia del natality (dall’edizione del 1958, in cui sarà inserito un articolo chiamato “ideologia e terrore” già uscito nel 1952-revisione). Questa edizione riveduta raccoglie un articolo precedente dato alle stampe anni primi. - “Le origini del totalitarismo” = testo complesso con un architettura complessa, ad oggi considerato un classico, sulla trattazione storica dei regimi totalitari. Inizia dall’analisi dell’antisemitismo. Partendo da questo punto H. realizza quello che considera le forme più pure dei totalitarismi (nazismo e comunismo), escludendo il fascismo, commettendo un errore storico. L’obiettivo del fascismo fu solo quello di affermare le proprie elitè secondo la Arendt(dittatura che purtroppo ci sono sempre state nella storia degli uomini). Le macchine totalitarie non si accontentano del potere a discapito del fascismo (portare al potere le proprie elite, in tal senso lo stato non viene demolito). I totalitarismi hanno delle precise caratteristiche che le rendono riconoscibile che sono: il CONSENSO DI MASSA ( disintegrazione delle classi sociali; le classi sociali nel 900 diventano come liquefatte, divenendo massa) L’USO DEL TERRORE E DELLA VIOLENZA, LA DISTRUZIONE DELLA SFERA PUBBLICA E PRIVATA (se un cittadino ha uno spazio pubblico o privato è come se lo perdesse), la presenza di un CAPO CARISMATICO (Hitler e Stalin), L’ASSENZA DI LIBERA’. Ad li la di queste peculiarità, H. inaugura una filosofia che è sulla storia. Cerca di comprendere quello che è accaduto nel 900, cercando di comprendere come possa essere successo tutto ciò. Da una prospettiva filosofica, rintraccia una causa nella massificazione delle classi sociali, della propoganda. I totalitarismi sono delle vere e proprie macchine. Nella sua prospettiva sarebbe un errore pensare che i regimi totalitari siano una sorta di stato. Per A. l’apparato totalitario è una macchina assestante che non si è mai vista, che ha una sua epifania nel pieno del 900. Il capitolo aggiunto nella revisione= è una riflessione dei danni prodotti dal terrore, è interessante perché c’è anche un primo tassello della filosofia dell’avvento. La chiusura dell’articolo, riprende l’immagine agostiniana della lieta novella dell’avvento della nascita, riponendo molta fiducia delle nuove generazioni. Per la prima volta H. fa riferimento alla capacità straordinaria del venire al mondo ( ogni nascita è un inizio). È la prima volta che H. fa riferimento alla nascita come capacità di agire dell’uomo. È la nascita che ci salva dalla desertificazione del mondo, dalla banalità del male. Quando il mondo è minacciato “della tempeste di sabbia del terrore ideologico.” Ci va a spiegare quello che è avvenuto nel 900. È un’opera che ricostruisce le malvage architetture dei totalitarismi. Nei totalitarismi le categorie tradizionali delle politiche sono inutilizzabili (polis greca). Il prodigarsi per gli altri, il vivere nella pluralità. Questi scenari sono implosi secondo H. a causa delle macchine totalitari, che hanno fatto collassare le categorie tradizionali che l’uomo ha usato per comprendere lo stare assieme. Non sono fuori uso solo le categorie della politica ma anche della filosofia, dell’etica, della giurisprudenza. Non siamo nemmeno più capaci interrogarci sui valori dell’uomo. Sono venute meno le categorie della tradizione. Tutto è come finito risucchiato dalle tempeste ideologiche. Il valore uomo è andato perso. - Nel 1958 scrisse “Vita attiva “= è un testo di antropologia filosofica anti-marxista che ha al centro la domanda “chi è l’uomo”, che cosa è diventato l’uomo nella società di massa, cosa è rimasto dell’uomo che si è frantumato nei tempi moderni, nel cuneo che ha spaccato il secolo breve. Un capitolo quindi riguarda la teoria dell’azione. È un’opera che ragiona sul consumismo ma anche sul fare scientifico, quel fabbricare che stava stravolgendo l’essere umano. H. fa il punto su ciò che resta dell’umano. Porta a riflessione la modernità, fa vedere come la modernità stia crescendo a scapito dell’esperienza umana, che è più erosa. Le società in cui la scienza non ha limiti, su cui si decide delle vite come un bottone, facendo esplodere delle bombe. L’uomo vive come un alienato, staccandosi dall’etica. Lancia un allarme in merito alla tecnologia, dove la capacità di agire è divenuta una sorta di capacità dello scienziato nel suo laboratorio che si arroga della capacità di agire per se e per gli altri a seconda delle sue invenzioni. Dobbiamo tornare a scoprire l’uomo nella sua essenza. Bisogna anche riflettere sulle relazioni che stiamo tessendo in queste società così complicate, difficili, in cui abdichiamo sulla nostra capacità di agire e pensare (l’uomo della società odierna sta perdendo la capacità di agire, reagire, imparare a stare con gli altri nel rispetto reciproco). Bisogna mettere dei bastoni tra le ruote alla scienza che pretende di sapere chi è l’uomo. - Nel 1963 scrisse “la banalità del male”= la sua opera in qui si presenta nelle vesti della storica, dove si propose come corrispondendo a New York, dove sarà presente al nazista Eichmann. Questi 5 articoli furono scritti a partire dal 1961 e H. seguirà tutte le sedute processuali e scriverà gli articoli editati molto tardi per poi essere raccolti nella banalità del male. È un testo piuttosto giornalistico perché la sua penna doveva essere giornalistica. Questi articoli la posero ancora una volta sotto i riflettori. Susciterà delle polemiche che si innescano a partire della sua frase “Eichmann non è un mostro”; la sua tesi è che la shoah era stato innescato dalla doppia obbedienza degli ebrei(non reagivano ma piegarono la testa di fronte all’orrore), così come l’obbedienza critica dei tedeschi che si erano allineati tutti con questa ideologia(obbedienza acritica; rinunciano a restare umani e a pensare, inclinando la testa alla legge ingiusta di Hitler). Il male non è il male radicale, non ha radici in un essere malvagio, il male non è causato da qualcosa che è sopra di noi, ma è causato dalla banalità, della normalità che scade nella banalità. Si interroga sull’obbedienza. - “on revolution” = è un giudizio negativo sulla rivoluzione francese e russa. Passa in rassegna le due epifanie per andare a riflettere tra libertà e politica. È interessante per H. spiega cosa sia la politica, come una vera e propria cura del mondo, degli altri, è una responsabilità che ci viene dal fatto che dobbiamo tenere tra le mani il mondo che ci viene consegnato e che dobbiamo costudire, come un’attività di cura che preserva lo stare assieme. Si mette in dialogo con due voci classiche: Virgilio e Macchiavelli. Affiora la sua passione per i classici quando affiora il carme virgiliano della quarta egloga (bucoliche), dove compare il “bambino alba” che lampeggia sull’umanità e che nascendo, salverà l’umanità da se stessa. Forte di questa suggestione arriva a riflettere sulla nascita, le sembra che Virgilio divinizzi la nascita. È un bambino che annuncia un destino buono per l’umanità. - “the life of mind” = è un’opera molto filosofica, conclusiva. Quest’opera non è mai stata conclusa perché morì durante la sua stesura. Sul finire degli anni 70 venne pubblicata postuma, in quando H. morì il 4 dicembre del 1975 . La sua migliore amica viene editata come opera postume. La filosofia della nascita non è mai stata sistematizzata in una sola opera, ma in molte. 13/10/2020 Il concetto di natality Il concetto di natalità è la categoria centrale del pensiero filosofico di H. è una sorta di parola chiave che ci consente di aprire le sue opere filosofiche. Quanto abbia investito su natality, scelto di fare natality una categoria di pensiero è difficile dirlo. Il natality non è una filosofia sistematica ma è piuttosto spontanea. Alla somma la filosofia del natality non è ne esplicita ne consapevole. Il dubbio suscitato da Hans Jonas (pioniere della bioetica; è stato un compagno di studio della A. , allievo anche lui di Heidegger). Hans ha questo dubbio, se H. abbia portato a riflessione la nascita in modo consapevole oppure no (“il dato imbarazzante della filosofia”= la nascita era sempre accostata al peccato, alla colpa). Jonas a sua volta sollecitava il lettore, ritenendo che H. non abbia intuito questa negligenza nella storia della filosofia. Il natality non è in tal senso un investimento consapevole, ma è quasi un eco dei suoi studi agostiniani. I rimandi nei testi alla tematica è discontinua nelle sue opere. Lo si incontra affidato a delle immagini evocative (come il vangelo), ad immagini che hanno una funzione di apologo, dove il natality è ridotto in schegge nelle sue opere. È molto difficile ricostruire la genesi di questo termine. Non sappiamo da quale fonte abbia tratto questo termine, probabilmente il vangelo. Di fatto il natality è un termine intraducibile in italiano. Le semantiche del termine inglese non trovano corrispondenza nell’italiano. Non è causale la scelta. È improprio tradurlo come “natalità” (quasi una cifra demografica). Forse, a suggerire il concetto di natality, è un termine hidegeriano (che potremmo tradurre dal tedesco come inizio). Infatti vi è un precedente.  Heidegger utilizza questo termine in “essere e tempo”, la sua opera monumentale. Comprare esattamente in un passaggio dove Heideggern riflette sull’esistenza della l’uomo. L’esistenza per Heidegger è compresa tra due termini: quello di Anfang und tod (inizio e morte). Aggiunge tra i due, il telos che investe di significato l’esistenza umana di significati è la morte stessa. Heideggern non ne fa un uso puntale. Mentre il concetto di morte continuerà a tornare con molto vigore nella letteratura di Heidegger la nascita rimarrà un concetto primitivo. L’esistenza non trova senso nella vita in se, ma nell’incontrare la morte. Inoltre Heidegger inserisce un trattino tra i due, che non indica una frattura, ma indica una direzione di senso (essere-per-la-morte). L’essere umano trova significato nella morte. Heidegger usa il concetto di inizio, però non sviluppa l’essere-per-inizio, non investe sull’inizio, solo sulla morte. La pulsione della morte è l’unica forma di comprensione possibile dell’esistenza umana (meditatio mortis). Quindi, l’essere umano, trova valore di se solo di fronte alla morte stessa. Un altro concetto tematico di Heidegger: “nativamente”(verbo che si usa per indicare il luogo di nascita). L’esserci è definito anche - Ideologia Quindi va inteso, per totalitarismo, un sistema politico autoritario dove tutti i poteri sono concentrato in un partito unico, in un gruppo dirigente ristretto che controlla tutta la società. Il collante è l’ideologia che conduce alla costruzione di un nemico oggettivo, come è poi accaduto nel terzo reich. La persona è il bersaglio della macchina totalitaria, che ha come obbiettivo la distruzione della persona dai suoi modi di essere (togliendo il nome, si pensi nei lager). La trasformazione del cittadino in un mero individuo omologato: si strappa il nome, quelle maschere che assumiamo per proteggersi (personalità giuridica, nome). Quello che rimane è l’uomo naturale, che resta fuori dalla res pubblica, dove non c’è il nome, una personalità, non c’è nemmeno più una persona umana, ma un semplice individuo che non riesce più a salvarsi. L’uomo è ridotto a nuda vita. Quando restiamo nudi siamo profughi, fragili, cerchiamo scampo. La violenza totalitaria spoglia l’uomo delle sue piccole e grandi difese lasciandolo nudo. Essere uomini di per se non ci garantisce di fronte ad altri esseri umani. Gli ebrei vengono precipitati come animali, la loro corporeità è distrutta dalla violenza totalitaria, la capacità di agire è annullata, per cui gli esseri umani sono ridotti a dei bisogni materiali, viene negato loro qualsiasi diritto, così come la qualità dell’essere uomini. I lager sono visti come delle fabbriche di non umani, una sorta di esperimento a cielo aperto che trasforma gli esseri umani a cani di Pavlov. L’ebreo che viene internato è come se non fosse mai nato. Si cerca di distruggere la nascita, perché dei nemici non deve restare nulla, ne il nome ne alcun legame. Quei poveri corpi non devono appartenere a nessuno. H. riflette su come cambia la fisionomia del carnefice. Le SS sono indifferenti alla morte, alla vita, ma non sono delle belve, sono nati come esseri umani, ma sono diventati bestie. Uomini imbevuti di ideologia, capaci di distruggere esseri umani, distruggere colui che nasce. La filosofa del male, in queste sue opere, cercherà di portare a riflessione l’orrore a partire dal: - 7 aprile del 1933(leggi razionali), che comportarono l’esclusione degli ebrei - Leggi di Norimberga del 1935 che aprirono la strada allo sterminio che avrebbero distinto l’ebreo in categorie (puro, mezzosangue). - 1938 dove fu avviato un censimento degli ebrei e dei loro beni. - Nella notte tra il 9/10 novembre del 1938 dei cristalli, vi fu l’arresto di molteplici ebrei, la distruzione delle sinagoghe, dei loro negozi. - Il 20 gennaio del 1942 con la conferenza di Vanze, dove fu definita la soluzione finale. Tra gli organizzatori della conferenza furono Heydrich, ma anche Eichmann(personaggio ambiguo, che si accreditava di essere esperto delle questioni ebraiche). La Germania aveva avuto le sue terribili leggi, dove ogni cittadino tedesco avrebbe dovuto obbedire, comandavano lo sterminio degli esseri umani, non di difendere la vita. A partire dagli anni 50 comincia a riflette sui totalitarismi, sull’obbedienza (“le origini dei totalitarismi” “la banalità del male” ). Dunque ad un certo punto, comincia a chiedersi perché i tedeschi abbiamo obbedito a quelle leggi. Leggi terribili che mancavano di pietas. I novelli filosofici arentiani riflettevano sulle motivazioni dell’obbedienza alle leggi. Molti intellettuali del suo tempo si erano allineati all’hitlerismo stesso. Perché obbediamo a leggi ingiuste? Cosa si spezza dentro di noi? Perché non ci interroghiamo sul fatto che le leggi fossero ingiuste? Ciascuno di noi dovrebbe fare continuamente cittadinanza attiva, pensare a da se, esercitare una capacità critica senza balaustre. Solo il pensiero ci permette di rimanere umani. La massa fa di noi dei meri individui atomizzati che in date circostanze possono diventare delle macchine mortali, dei meccanismi di un sistema dove si annulla la capacità di pensare. I totalitarismi hanno annullato il pensare da se delle persone. Le atrocità commesse sono commesse da persone normali che pure furono capaci di crimini efferati. Eichmann è uno dei responsabili della soluzione finale. È un uomo che non ha la capacità di pensare, ma è anche un uomo normale, non è il demonio. La tesi sarà che l’olocausto è stato generato dall’obbedienza rassegnata, i tedeschi obbedirono anche loro senza mai fare appello alla loro capacità di giudizio. Ciascuno di noi può cedere la sua volontà, il male non è causato dalla mentalità perversa, ma è causata dalla normalità, è una tesi che fa saltare le normali teorie. Sarebbe stato confortante pensare che fossero dei mostri, ma in realtà gli uomini come Eichmann sono nomali, gente che si limita ad assicurare la propria famiglia, uomini di terribile normalità. Hannah ci aiuta a comprendere come il male sia nel tacere, nel far finta di non capire, nel cercare delle zone di confort. Il male nei soggetti, nelle persone insignificanti, nelle persone dozzinali. Eichmann era un uomo ideologico, obbediente. Dirà che fu obbediente come un cadavere. La terribile obbedienza è una mostruosità dove tutti noi possiamo restare vittime. Immaginava che le SS fossero materi, corporei, di stazza. Si ritrova avanti un omino raffeddato, magro, calvo. Quest’omino sembra anche quasi innocente, facendo emergere di come egli avesse rispettato la legge. citando anche Kant, egli doveva rispettare la legge della Germania. Il male è nella normalità, nelle tasche dei vestiti buoni. Come mai il buon padre di famiglia si era trasformato in un carnefice? Quando gli esseri umani sono imbevuti di ideologia si trasformano in altro, nella società di massa restano isolati, perdendo il senso, l’umanità. L’ideologia è quello che trasforma l’essere umano in altro, in qualcosa di terribile. Quel passaggio che ci massifica, ci omologa agli altri, cediamo al carisma di un capo, lasciamo che l’ideologia produca delle verità anche se magari sono delle falsità confezionate. Lo stesso Eichmann aveva rinunciato a giudicare, il dialogo interiore con se stesso, non è più capace di rielaborare il significato del suo agire. Era un uomo totalmente riflessivo, che aveva smesso di pensare, di riflettere sulle conseguenze del suo agire. Grazie alla terribile obbedienza dei padri di famiglia, nei lager gli ebrei erano ridotti come degli scarti, destrutturando la persona umana. Gli ebrei sono stati RIDOTTI A DELLE NON PERSONE, a cui restavano in piedi solo delle mere funzioni biologiche. Comprendere questi atti non significava però perdonare. Eichmann ha smesso di ascoltare la voce della coscienza, divenendo un uomo che obbediva solo alla legge. In “lezione della filosofia morale” parla, come in altre opere, dell’uomo 2 in 1 : Eichmann fa del male, rinunciando a pensare, perché la sua coscienza non problematizza, una coscienza tranquilla. Eichmann non pensa, non si chiede cosa stia facendo, non è mai giudice di se stesso. BISOGNA PENSARE E RICORDARE CHE NOI POSSIAMO DIVENTARE UNO STRUMENTO DEL MALE; possiamo perdere le capacità di ragionare. Restare umani significa avere la capacità di prendersi cura del mondo, custodendo altre vite umane. Significa assumersi la responsabilità del pensare. Anche la disubbidienza è necessaria. Non sempre l’obbedienza è una virtù e un diritto. 26/10/2020 “Vita Activa” (1958) “Vita activa” il cui titolo originario era la condizione umana (human condition) è un’opera arentiana che certamente è tra le più riuscite, celebri. Fu pubblicata nel 1958, nel periodo statunitense. Proprio li si era recata nel 1941 (dopo essersi recata a Praga, Ginevra e a Parigi). Non è in effetti la sua prima opera statunitense, la prima fu infatti “le origini del totalitarismo”(1951) che pubblicò quando oramai ebbe 45 anni e che la fa tornare alla luce come pensatrice e filosofa dal momento che era caduta nel dimenticatoio nella storia della filosofia. “Le origini del totalitarismo” è un’opera monumentale, che scrisse con la collaborazione di Bluker(secondo marito),il suo interlocutore privilegiato per la stesura del suo libro. Fu la più grande trattazione del totalitarismo stesso, anticipazione teorica della “banalità del male stesso”. “Vita activa” arrivò quando H. si era riguadagnata una fama accademica postuma alla stesura della sua opera monumentale sopra citata. Aveva infatti avuto un grosso impatto editoriale, pubblicato in piena guerra fredda dove la A. puntava il dito contro lo stalinismo. Questo suo complesso accusatorio l’avrebbe esposta a molte critiche. Quando nel 1958 edita e pubblica vita attiva, vi è già molto clamore intorno alla stessa. Questo suo capolavoro venne attuato quando essa aveva 50 anni. È un testo straordinario che è necessario al fine della comprensione dell’antropologia arentina. Il senso dell’opera è che l’agire è una peculiarità del tutto umana, dove l’agire è una caratterista propria dell’uomo che non condivide con alcun essere vivente. Vuole essere una riflessione sulle azioni dell’essere umano. L’azione diventa significativa, politica, solo quando viene condotta coralmente, quando si agisce assieme agli altri e con gli altri. entriamo nelle pieghe della teoresi politica della stessa, dopo il congedo della stessa dalla filosofia per dedicarsi alla teoresi politica. “The human condition” fu il titolo originario, anche se fin dall’inizio la stessa avrebbe voluto che l’opera fosse intitolata “vita activa”però si scontrò con la testardaggine del suo editore, dovendo adottare la prima. Il titolo da lei desiderata viene poi rispettato nella versione italiana (pubblicato 6 anni dopo, nel 1964, con il titolo di vita attiva, la condizione umana). Il titolo vita attiva non è semplice. Rinvia ad un problema filosofico antico, quello della vita attiva. I greci antichi avevano distinto tra vita attiva(la dimensione alta ma non la più alta perché l’uomo creava e lavorava, occupandosi della sua vita terrena, perché doveva circondarsi di oggetti materiali che gli avrebbero consentito di sopravvivere nella natura, rendendo gli oggetti utili e durevoli per servirsene ;capacità di produrre oggetti materiali, erano anche oggetti che facevano guadagnare agli esseri umani una sorta di immortalità perché gli oggetti sopravvivono anche dopo la morte ) e vita contemplativa ( la seconda dimensione esistenziale che era la vera vita per i greci; una vita dedicata al pensare, al pensare sulle cose grandi, era la dimensione dove l’uomo ricercava il divino, l’eternità). Da un lato abbiamo l’agire e dall’altro il pensare. Ma la seconda dimensione era quello che conduceva l’uomo all’ascesi, che faceva in modo che l’uomo fosse uomo superiore agli animali, la dimensione dove l’uomo si serviva del logos. Secondo A. era vero che i greci investivano nella vita contemplativa, ritenendo che il theorein fosse una dimensione più alta rispetto alla prassis, una dimensione che nobilitava l’uomo rispetto allo “sporcarsi le mani” per garantire la sua sopravvivenza. Però H. faceva notare come in fondo le due dimensioni erano tenute in equilibrio. Almeno i greci della polis, che avevano una precisa idea della politica, in realtà tentavano di tenere in equilibrio le due dimensioni (necessaria e nobilitante). produzione, nell’operare. In queste due dimensioni che ci sono necessarie non siamo tra gli altri se non quando costruiamo delle relazioni comunicative. Siamo capaci di compiere azioni autentiche. Siamo cittadini del mondo non già dei semplici lavoratori. Solo quando siamo capaci di dialogare, ci realizziamo come esseri umano. Nella vita plurale vi è il passaggio da una vita naturale ad una vita autenticamente umana. È un passaggio molto importante di vita attiva. Stabilisce una struttura a livello teorico piramidale: Alla base vi è il lavoro (labor); quell’attività dove l’uomo di garantisce la sopravvivenza tramite il proprio corpo. In questa dimensione è costretto a lavorare per sopravvivere ma non è ancora un uomo ma una nima allaborans. È in una condizione umana. È certo un atto indispensabile ma alla realizzazione dell’animale uomo. Mette al sicuro la propria esistenza corporea, garantendosi una durata della propria vita nel tempo stesso. è certamente un’attività connessa alla natura, una dimensione dell’agire dove siamo dentro alla natura, una condizione di animalità più precipitata all’interno della natura. Si muove all’interno dei circoli naturali per soddisfare i bisogni della nostra vita biologica perché è inevitabile che noi siamo degli esseri biologici, ma non solo. Si consuma in fretta che non lascia molto traccia di se(tutto si consuma, si dissolve nella consumazione immediata dallo stesso prodotto). L’attività circolare è quello della consumazione e della produzione (ciclo). Sono prodotti necessari ma è una condizione ancora animale a cui corrisponde una condizione del progredire della vita. Per quanto sia necessario, è una condizione ancora poco autentica. Corrisponde al consumo Salendo di grado vi è una seconda attività che è propria dell’uomo e che quella dell’operare (work). Questa attività raggiunge il suo culmine con la fabbricazione di un oggetto, cioè l’uomo è un fabbricante di oggetti, che sa produrre oggetti fabbricati. In questa dimensione sono decisive le mani(che gli animali non hanno). Fabbricano una molteplicità di manufatti che vanno a costruire il mondo in cui viviamo rendendoli confortevoli. Qui non si parla più di oggetti di consumo ma di prodotti d’uso. L’uomo è un essere vulnerabile che ha bisogno degli oggetti d’uso che ci proteggono (come le case) dalla natura ostile. Ci consentono di detenere una sorta di stabilità. All’opera corrisponde l’uso. Hanno la caratteristica di durare nel tempo, godendo un’indipendenza dell’uomo che gli ha creati. Il mondo artificiale si stabilizza relativamente perché il mondo artificiale cambia forma a fronte degli oggetti fabbricati. Siamo veramente umani quando lavoriamo o operiamo? 27/10/2020 Stiamo parlando sull’agire dell’uomo arrivando a ragione di quella azione, della forma di agire che è propria dell’uomo nonchè il venire al mondo. Per H. corre una differenza tra il lavoro e l’operare. Il lavorare (condizione esistenziale del possesso della vita) è svolto dall’animal laborans, perché l’uomo è posto nella dimensione naturale. Invece nella dimensione dell’operare è realizzato dall’homo faber, che è più nobile perché opera in un mondo ridisegnato. La sua forza è quella di controllare la natura attrezzando il mondo che lo circonda. All’opera fa corrisponde il mondo dei manufatti, costituito dagli oggetti che l’uomo fabbrica con le sue mani, oggetti strutturati e stabilmente costruiti dagli esseri umani. Questi oggetti vanno di volta in volta a ridefinire il mondo, siamo in una dimensione più alta. L’opera caratterizza l’essere nel mondo. In questa dimensione l’uomo non è ancora autenticamente uomo ma l’essere umano già sperimenta una condizione più alta del lavorare perchè nella dimensione del work fioriscono le civiltà. La civiltà fiorisce a fronte della capacità umana dell’opera, della fabbricazione, del lavoro, che sono strumenti di controllo di cui l’uomo dispone per controllare il mondo naturale, strumenti dove l’uomo si fa padrone della natura. Nella action abbiamo la condizione della pluralità, non usando mani ne il nostro corpo per lavorare, ma dialoghiamo, parliamo, usando la fonetica, il logos, che costruiamo delle straordinarie relazioni senza bisogno della materia. Da questo impianto corre la critica a Marx (MATERIALISMO STORICO) Procede successivamente un’analisi storica fine alla critica di Marx. Diventano un pretesto filosofico per muovere una critica al materialismo storico di Marx= per H. nell’antichità almeno in una prima battuta, agire e contemplare erano tenute assieme con anche le tre dimensioni dell’agire, nonché lavorare, operare e agire. Tre dimensioni distinte ma in equilibrio. I greci erano consapevoli che nella dimensione del lavoro l’uomo non è ancora essere umano perché è troppo preoccupato della propria sopravvivenza. Questo ripiegamento fa in mondo che non riesca ad incanalare le sue energie verso le dimensioni più alte come dell’operare o dell’agire politico stesso. Nell’età moderna gli equilibri sono collassati. L’autore che ha condotto alla distruzione dell’equilibrio è proprio Marx. H. era un filosofo anti-marxista, pur contestualizzando il tutto, perché sapeva che Marx stesso era stato un filosofo importante perché nasceva da precise esigenze (come migliorare le condizioni di lavoro, garantire la giustizia sociale). H. avvicina Marx (riteneva che la filosofia dovesse risolvere i problemi dell’uomo) con molta cautela. Di fatto però lo critica perché seconda lei il materialismo storico aveva costruito un’immagine di uomo deformata perché lui stesso inneggiava al lavoro, ritenendolo come la vera linfa vitale umana. Tutto il materialismo è incentrato sul lavoro come fulcro dell’essenza umana, la sorgente della civiltà. Secondo H. lui non si rende conto che alla somma, anche antropologicamente, c’è una follia nel suo lavoro filosofico. Come è possibile che il lavoro uomo si caratterizzi per la sua capacità produttiva? Il lavoro per lei isola, non costruendo delle relazioni umane autentiche. Alla somma Marx capovolge l’equilibrio tra vita pratica e contemplativa, rovesciando la piramide. Per Marx l’uomo è un lavorare, e il valore risiede nella capacità umana di lavorare, perdendo di vista l’autenticità dell’uomo stesso. Inoltre per lei aveva commesso un errore perchè aveva confuso l’opera e il lavoro, aveva perso di vista la distinzione tra opera e lavoro, generando degli equivoci: L’uomo avesse valore non in quanto tale, ma come lavoratore, che il valore dell’uomo dipendesse dalla sua vita attiva, dalla capacità di essere produttivo. L’attività del lavoro diventa ipertrofica dove il primato del lavoro va a decidere dell’umano e quindi il lavoro stesso annienta le capacità umane e soffoca l’opera che è una forma di fare più alto (come l’oggetto artistico) e soprattutto annienta l’azione. La condizione della pluralità viene annientata (l’uomo è libero quando non si frappone la materia tra gli esseri umani). Le vere relazioni sono quelle affidate al dialogo. Le tre dimensioni formano la vita attiva e queste tre dimensioni vanno venute in equilibrio. Marx ha rovesciato questa concezione facendo si che solo l’animal laborans sia il più importante. La società moderna è in tal senso divenuta una società del lavoro fagocitando le altre due dimensioni dell’agire. o Nel lavoro ci isoliamo, dove l’uomo si immiserisce, perdendosi di umanità. La vera condizione dell’uomo è la pluralità. Il fatto è che sulla terra vi sono gli uomini. Certamente è condizionato dai suoi bisogni stretti e contingenti di sopravvivenza ma l’essere umano, con la capacità di agire, si porta oltre i bisogni individuali, con la capacità di trascenderli. Questa spinta di superare l’interesse individuali viene dal fatto che non sia solo, è generato non riprodotto. L’essere umano sa di non essere solo, di doversi assumere la responsabilità degli altri, del mondo. È fortemente critica nei confronti di Marx perché secondo lei il tema vero è quello della libertà. Perché se lo definiamo come un mero lavoratore lo leghiamo ad una concezione efficentista, vincolandolo alla materia. La libertà natale non può essere definita dal mero interesse individuale. Il lavoro ci rende degli schiavi, caratterizzato dalla mancanza di libertà. Il lavoro è ancorato alla necessità: io devo lavorare. I greci lo sapevano bene perché il lavoro era alla base della schiavitù. L’operaio è equivalente allo slaves. Lavorare per i greci era il fondamento della schiavitù e quando volevano negare i diritti di un essere umano lo costringevano a lavorare forzatamente (legato alla dimensione naturale). il lavoro è necessario biologicamente per soddisfare i nostri bisogni. Il lavoro in tal senso mortifica l’essenza dell’essere umano stesso, che non può essere isolato attuando un ripiegamento sui propri bisogni corporei. Non è una creatura che può vivere costretta al privato, ma ha bisogno di apparire, di vivere con gli altri, di comunicare tra e per gli altri. Questa enfatizzazione del lavoro in chiave marxista devasta la libertà, la dimensione pubblica e politica dell’essere umano. Se siamo preoccupati delle nostre condizioni privati risultiamo essere dei meri animali, ripiegati sulle nostre concezioni individuali, dove la preoccupazione è sulla mera sopravvivenza. Se ci contentiamo di sopravvivere non saremo mai degli esseri umani nel senso autentico. Se salvaguardiamo solo i nostri bisogni stretti, significa chiudersi in noi stessi, escludendo il mondo con gli altri nonostante la necessità altrui. La nostra vita è legata alla relazione. Se siamo appiattiti sulle cose necessarie significa che quello che facciamo lo facciamo per noi stessi. riconosciuta una dimensione altra. In effetti noi percepiamo i fenomeni ma la ragione deve pur pensare i fenomeni, tramite la maturazione della conoscenza compiuta. Le categorie non costituisco per Kant dei semplici modi di essere delle realtà come sosteneva Aristotele. Sono per Kant dei modi dove l’“io penso” conosce la realtà stessa, la giudica, la pensa, è una rivoluzione copernicana attuata da Kant stessa. Sembrano simili ma in realtà vi è uno scollamento. Kant numera 12 categorie ma ritiene che l’io sia attivo di fronte alla realtà e le categorie non possono essere percepiti come semplici modi di essere della realtà perché di fronte alla realtà l’uomo non recepisce solo la realtà ma la pensa addirittura. Rovescia i poli dell’indagine conoscitiva (soggetto -oggetto). L’uomo conosce la realtà, la pensa, la giudica. Le categorie per Kant non sono modi di essere della realtà, esiste certamente una realtà altro da noi e fuori ma noi (inesplorazione, in relazione delle capacità conoscitive). H. userà il termine categoria in un modo esclusivamente politico, facendo collassare i categoriali rigidi aristotelici e kantiani (otto categoriale Kantiano). Ritiene che l’essere umano possa essere compreso in una maniera più disinvolta, a partire dalla categoria di pensiero del venire al mondo. L’uomo può essere compreso solo partendo dal fatto che è generato. Entra in gioco anche la parola MONDO= spazio plurimo, condiviso, abitato dagli altri, insieme agli altri, lo spazio natale in cui si viene alla luce e ci si assume la responsabilità. L’uomo è un CHI che nasce e non è possibile comprendere nulla dell’uomo se non a partire da questa esclusiva forma di agire, la morte non ci dice nulla sull’essere umano. H. scrisse che gli uomini non sono nati per morire ma per incominciare. In order to die (al fine di...) = la morte viene descritta con un telos negativo, però il vivere è descritto non come un dovere ma come una finalità positiva. Nascere è lo scopo ultimo dell’azione peculiare di vivere (diritto). Siamo coloro che erediteranno il mondo e che lo salveranno. Fa si un uso esclusivo del natality ma lo avvicina ad altre categorie che non vengono molto usate in filosofia ma nel lessico teologico: miracolo, promessa, fede e speranza(descrizione della nascita stessa). Sono termini che gettano una luce. Nascere è una sorta di atto di fede e speranza in un mondo che potrà essere un nuovo inizio, perché la nascita interrompe ciò che sembra già immobile. Il miracolo della nascita si ripete sempre. Il bambino porta fede, speranza, va a rompere quel dato implacabile delle morte che sembra schiacciare l’essere umano stesso. La filosofia del natality è una sorta di baluardo nei confronti delle dottrine che si alimentano di evoluzionismo perché H. guarda con un certo sospetto all’evoluzionismo di Darwin. Il suo natality è la celebrazione del singoli(unici, originali, non siamo l’anello di una specie ma siamo speciali). La morte non può distruggere colui che è nato, l’uomo nasce per agire, per fondare, per agire. Ogni nascita è un vero e proprio miracolo. 3/11/2020 L’intera filosofia di Arendt sia una filosofia dell’avvento, perché la pensatrice affida il suo corpus filosofico alla categoria del natality. Farà del natality una categoria filosofica. Categoria= è ciò che ci aiuta a comprendere la realtà, sono gli strumenti che ci aiutano ad esprimere dei giudizi di valore. Pur tuttavia si è visto come per la lei la categoria sia qualcosa di diverso dalla tradizione, non semantizzandolo in maniera aristotelica(modi di essere dalla realtà) e da Kant( è l’intelletto che mette ordine nel mondo e per il mondo). L’aspetto cruciale della categoria del natality non sta nel fatto che sovverta la tradizione filosofica (Cavarero) e che aggiunga il suo natality all’orto filosofico tradizionale, ma con il suo natality non completa i quadri tradizionali o gli arricchisce. Ha la forza di imporre una sola e nuova categoria del pensiero attaccando l’orto alla base. La nascita è il fondamento dell’esistenza umana, il radicamento di chi nasce, a cui non si può prescindere. Fa esplodere l’intero impianto categoriale tradizionale. Un categoriale dove da Platone in avanti era centrale la morte stessa. Tutta la filosofia millenaria si è definita come un vivere per la morte stessa. Dire che gli uomini non sono nati per morire ma per incominciare è un bel capovolgimento. Perché la morte? Perché la filosofia ha dedicato così tanta attenzione alla morte? H. ricerca di comprenderne il perché. Secondo lei la morte diventa ad un certo punto così centrale perché è una sorta di esercizio di desensibilizzazione che viene operato in filosofia. Sin dall’antica Grecia, il pensiero filosofico ha lavorato in tal senso. Fin da Platone, teneva in dispregio il corpo stesso, così come la conoscenza che veniva depotenziata. La filosofia era una mortificazione del corpo, tutto ciò che ha bisogno dei sensi per essere visto e sentito. La morte diventa centrale per un fraitendimento, insistendo sul fatto che la filosofia debba svalutare ciò che è plurale, mobile, corporale. Quindi la DOXA (apparenza) non scaturisce né verità né conoscenza. Alla mera apparenza comincia a contrappore la filosofia dell’essere, il fondamento del mero apparire (vero mondo). In tal senso le cose corporee sono un mero apparire. L’essere (la parolina é) per il filosofo greco non muta, non passa e non muore mai. La filosofia dell’essere, per H, si sono registrati due passaggi fondamentali: 1. Anassimandro (detto anassimandreo) = Il frammento dell’antico è anche il più antico modus razionale del pensiero occidentale, la testimonianza filosofica di comprensione dell’universo. 2. “L’essere” di Parmenide, padre indiscusso della metafisica(siamo intorno al 5/6 secolo a.c.) = la metafisica è quella parte della filosofia che si occupa della cose altre, che va altre gli elementi fisici (metata-fisica). Ha l’obbiettivo l’investigare nella sfera dell’essere, del sapere più alto. Deve occuparsi non delle cose del mondo materiale, perché la verità non deriva dall’esperienza sensibile perché ciò che appare è forviante. La morte distrugge ciò che è corporeo, dandoci l’accesso al mondo vero oltre la materialità. Su questo pregiudizio, si basa la filosofia occidentale che finisce con il contrapporre theoreo(pensiero) e praxis (il mondo delle cose che si fanno, delle cose pratiche, della materia). In tal senso è la contrapposizione tra ciò che è e ciò che diviene. La verità non era nei corpi per i filosofi antichi. È riferibile al fatto che la filosofia delle origini era basata sulla convinzione che la vera filosofia sia legata al theoreo(pensare). Doveva essere la teoria a sostenere la prassi e che il pensiero debba precedere l’agire pratico. Per cui la filosofia del pensiero puro, precede la filosofia pratica che è legata all’esperienza, legata al mondo fabbrile. H. riterrà che teoria e prassi sono interdipendenti. È impossibile sostenere che il pensiero preceda l’agire pratico. Non si può pensare che la vera filosofia sia solo quella contemplativa del sapere puro, rispetto a quella che indaga sulla pratica e sull’esperienza. La morte La morte è quel processo di desensibilizzazione per eccellenza. Dal greco in avanti era inevitabile che avesse una valenza positiva perché separa la mente dal corpo. Il greco investe nella filosofia del pensiero teorico che ha poco a che fare con la prassi. La separazione (TEORIA DEI DUE MONDI) tra mondo vero e apparente, theoreo e praxis, della filosofia contemplativa e pratica, hanno portato il filosofo ad investire di senso la morte, perché la nascita deve essere mortificato. Per H. non esiste nulla e nessuno sulla terra che non detenga uno spettatore= quando si nasce abbiamo degli spettatori e non esiste niente e nessuno a cui non sia necessario uno spettatore. Se io nasco sono, che essere e apparire coincidono. Non le piace l’idea che la filosofia non si debba occupare di cose altre, perché da atea ritiene che non esiste un mondo perfetto contrapposto a quello dei sensi. Si interroga sulla filosofia pregiudiziale nei confronti della nascita, sulla frattura del pensare che tutto ciò che è materiale sia imperfetto, a quali risultati si producono in una simile filosofia. Per H. imparare a pensare e a giudicare deve avere come premessa l’imparare a stare al mondo, dal mondo partiamo per imparare a pensare. Il pensare è un esercizio e l’agire non è il contrario del pensare, ma è la CONDIZIONE del pensare, umana. In “Vita della mente” insisterà su questa condizione (editata a 3 anni dalla sua morte grazie alla sua amica Mary McCartney). Qualsiasi riflessione che non sia giudicata da scopi pratici, interrompe ogni attività ordinaria. Rifletto sull’importanza dell’agire pratico. Questa è quella che viene descritta con il nome della TEORIA DEI DUE MONDI (tendenza della filosofia antica di contrappore il mondo vero al mondo del mero apparire) . questa contrapposizione danneggia l’essere umano costituendo un vero e proprio problema. La proposta è quello di investire sul gesto della nascita. Il bambino che nasce viene messo in contrapposizione con la filosofia dell’”e” (essere). Sconvolge di fatto la filosofia regolata in una nozione curiosa, che la filosofia abbia a che fare con la morte piuttosto che con la nascita. Che la filosofia debba investire sulla morte che sul venire al morte, perché la morta è la sola benefattrice che libera il pensiero. Zenone, ad esempio, insisteva sulla morte come fato, come origine definitiva, quindi nascere è un male fisico, la morte è risolutiva e ciò che è necessario è quel telos dell’esistenza a cui si deve andare incontro affinchè la nostra esistenza abbia un significato (assumi i colori dei morti). Lo stesso Platone nel “fedone” racconta della filosofia come se fosse un esercizio di incontro con la morte. (inseguimento della morte e come valore in se, evento esistenziale significativa). H. riconosce alla morte un valore, però in realtà la morte è un fatto, un contenuto concreto dell’esistenza umana, perché è contenuta tra due situazioni (nascita e morte) che definiscono la vita umana. Rimane perplessa nei confronti della meditatio mortis. Il mondo ha bisogno di nuovi nati, nuove risorse, nuove energie, con la morte l’uomo non agisce, non avendo la capacità di rinnovare il mondo, la morte non può intendersi come azione. La morte non è più forte della nascita, la nascita è sempre più potente perché i nuovi nati garantiscono la creatività linguistica, che fanno si che il mondo vada avanti, che si apra un tempo nuovo. Per Heidegger la morte era una soluzione definitiva, momento eroico, arrivando a dire che l’uomo muore mentre l’animale perisce. H. sin dalla sua tesi di laurea, insisterà sulla filosofia della vita (in contrasto con l’essere per la morte). La vita costantemente minacciata dalla morte non può essere vita, nella morte non può esserci alcuna garanzia dell’esistenza umana. Il frammento di Anassimandro(capitolo V) Il frammento ha una storia antichissima. Il detto di Anassimandro(filosofo ma anche politico, esponente delle scuola di Mileto in cui caposcuola fu Talete. Il termine scuola intendeva una comunità di persone con un comune obiettivo di lavoro e ricerca, dove rinoscevano il caposcuola nel più anziano) è il più antico tentativo di comprensione dell’universo. Gli antichi filosofi hanno l’ambizione di fare scienza. La filosofia è nata con l’affermazione del 530 d.c.) che raccoglie un testo anassimandreo. Simplicio incappa in questo commento perché era uno studioso e commentatore di Aristotele(ne parla ai suoi alievi). Dichiara di averlo a sua volta di averlo appresso indirettamente studiando i testi di Teofrasto(discepolo di Aristotele, scolarca del liceo di Aristotele). Viene appreso da Teofrasto, citato da Simplicio in merito alla fisica di Aristotele. Grazie alla testimonianza di Simplicio arriva fino ad oggi o Anassimandro= secondo la tradizione dossografica, è stato un filosofo ionico che deteneva forti interessi naturalistici: studiava a fisis, la natura come un pò tutti i primi greci(fisiologi). Era amico e discepolo di Talete, fondatore della sua scuola. Collocato nel 610 a.c., con lui siamo nella fase AURORALE della filosofia. Fu proprio lui ad usare la parola archè ( termine che indica l’inizio, il principio di tutte le cose). Però Anassimandro identifica non l’archè nella terra, nell’acqua, nel fuoco, nell’aria, ma lo identificò come la miscela chiamata “apeiron” che si distingueva per un spiccata indeterminatezza (parola greca che deriva dalla forma ionica a-peras, significa illimitato e infinito). L’apeiron è l’inizio di tutte le cose, il principio costituente di tutto l’universo. La immaginava come una sostanza indeterminata, come una sostanza primordiale, una materia indefinita da cui nascono tutte le cose naturali e dove tutte le cose nate vanno a dissolversi o Il testo rappresenta il primo modus razionale di comprensione della realtà, in modo scientifico. A ben vedere questo detto, è terribile. Perché non parla di accoglienza, di ospitalità nei confronti del nascituro, ma conserva una sua terribilità. Si parla del giorno della nascita come un giorno fatidico, di lutto, perché questo giorno ci consegna ad un lento e inesorabile destino di morte. Per Anassimandro, il tutto era l’apeiron. Ad un certo punto tutte le cose che erano unite armoniosamente, pretendono di staccarsi e di vivere per se stessi, macchiandosi di una sorta di una colpa originaria(non specificata). Si staccando in un movimento rotatorio, si separarono in coppie di contrari, dando vita al cosmo. È da qui è la nascita di tutti gli esseri, è anche la loro colpa originaria di aver chiesto per se di avere un’esistenza individuale così che gli uomini debbano pagare il fios vivendo. L’esistenza stessa è vista come una condanna e solo la morte potrà sollevare colui che ha preteso di nascita da questa colpa. Con la morte potranno tornare nel senza fine(apeiron). Il termine dissoluzione indica il perire di ciò che ha preteso di nascere per se stesso. Ciò che nasce è destinato a corrompersi, a mutare, perché si è macchiato da questa colpa, interrompendo la quiete della perfezione. o Gli studiosi ne hanno discusso in merito all’originalità. Si sono interrogati a lungo sull’autenticità senza ad arrivare ad una soluzione univoca. Molti studiosi ritengono che questo frammento fosse così all’origine anche se forse non nella letteralità (molte traduzioni). Si tende ad accoglierlo integralmente. o È possibile dividere il frammento in due parti: nella prima vi è il tema fondamentale, la seconda ci da una spiegazione del principio generale (tema+spiegazione) o Lo stile è prosaico, poetico, che fa uso di espressioni poetiche. A tal proposito nella prima parte del commento si può osservare una struttura a chiasmo (simile alla figura retorica), nonché una forma incrociata di parole. Vi è una figura retorica del chiasmo, “chiasmus” che significa forma incrociata, forma di figure tra parole (è come se questo detto fosse intersecato da due linee). Donde viene agli essere la nascita ivi anche la loro dissoluzione= da dove hanno origine le cose ivi vi hanno la loro distruzione (ivi= esprime la necessità). È giusto che sia così, come se fosse una norma, una legge. Inoltre un altro segno poetico è l’uso di una forma identica, che va a chiudere le due parti del testo (secondo la necessità, secondo l’ordine del tempo). Vi è una musicalità (gioco stilistico con pesi e contrappesi). Vi è un lessico dove le parole poetiche si intrecciano con parole di uso comune del greco di allora. Queste parole quotidiani si intersecano anche con termini giuridici come pensa, espiazione, giustizia, non solo altro che termini propri del diritto. Vengono usati in senso metaforico, per fare sintesi. o Parafrasi= laddove tutte le cose hanno origine(nascono, pretendono di vivere per se stessi), devono andare a finire (laddove vive), esse pagano reciprocamente la pena, l’ingiustizia che hanno commesso, secondo la legge del tempo. o Tutte le cose che nascono hanno compiuto un’ingiustizia secondo la legge del tempo= abbiamo un riferimento a EMPO, divinità di Kronos, divinità orfica che temporalizzava gli eventi degli esseri umani. È interessante perché ci da un’informazione in più sul frammento in filigrana, rivelandoci che il frammento ha una matrice orfica, che è stato il più grande fenomeno religioso alla civiltà greca, riferito ad orfeo, sullo sfondo vi era un’ideale etico che riteneva che il corpo intrappolasse l’anima di un essere umano e che quindi fosse necessario uno sforzo di estraneazione. Il corpo era considerato la tomba dell’anima. Chi nasce, si sottomette alle leggi del dio Kronos che vuole che il corpo debba necessariamente disfarsi tramite la legge del tempo. Kronos vuole appunto che chiunque nasca si sottometta alle sue leggi, il corpo prigione dell’anima deve necessariamente incontrare la morte. Aristotele introduce 10 categorie, classi molti ampie per descrivere la realtà. Vi è una categoria in particolare che è la sostanza, la categoria portante che va ad indentificare ciò che è un ente è in quando tale. Poi vi sono altre 9 categorie che vanno a fondarsi su questa prima categoria. La sostanza è autonoma (sub-stantia ciò che sta sotto), ciò che sta sotto all’apparenza delle cose così come accadono(scopo della filosofia stessa). Vuole individuare quest’è il più importante tra i molti modi con cui diciamo che cosa è. Si pensi alla domanda ontologica. Se io voglio rispondere a questa domanda, non è sufficiente attuare una descrizione, però in senso aristotelico, se io vado a dire che l’uomo è razionale, sto usando la categoria sostanziale, perché la razionalità non può non esserci nell’essere umana. Quindi passare dalle caratteristiche personali non caratterizzano l’uomo in senso universale, perché sono degli accidenti che possono mutare, invece la sostanza come categoria è immutabile. Per riconoscere l’uomo devo passare dalla categoria sostanziale che lo riguarda che è la razionalità. Non basta descrivere secondo delle caratteriste accidentali, ma bisogna passare dalla categoria necessaria. Se io dico che l’uomo è razionale ho colto l’uomo in senso universale. È stato primo a usare il termine “categoreo”. Predicando, hanno una funziona informatica, ordinativa rispetto alla realtà. Kant è l’altro autore che parla di categorie. È un filosofo prussiano, nato a Conisberg nel 700. Con lui si è aperta la stagione critica della filosofia= criticismo perché la sua preoccupare è quella di sottoporre a vaglio critico le certezze a qui l’uomo può giungere, perché secondo lui la ragione umana ha dei limiti, deve sottoporsi all’autocritica. Si può affidare alla ragione ma si avvede che la ragione umana ha dei limiti, deve essere correttamente usata per prendere consapevolezza che ci sono domanda dove l’uomo non può rispondere (come dio, il noumeno). Può conoscere, investigare, ma per conoscere devo compiere due mosse la ragione: 1. Affidarsi ai giudizi 2. Usare le categorie per costruire una conoscenza compiuta= hanno, ci consentono di unificare il molteplice comprendendo la realtà delle cose. Noi conosciamo inizialmente tramite i sensi e poi diamo un nome a questo oggetto, collocarlo, riconoscerlo, venendo in aiuto l’intelletto che va oltre la semplice percezione maturando una conoscenza compiuta, spingendosi oltre alla percezione. Deve affidarsi alle categorie. Ne individua 12, non costituiscono i modi dell’essere della realtà (Aristotele), sono il modo dell’io penso di conoscere la realtà, delle forme di intelletto a volte a volte imposte dalla realtà. Attua una rivoluzione copernicana perché quando ripensa ai categoriali parte da una certezza, che l’uomo di fronte alle cose, è attivo. Le categorie sono modi dell’essere, di come percepisco le cose, è il soggetto che pensa la realtà. Per millenni era l’oggetto, per Kant è l’uomo, è il soggetto, che è attivo, osserva senza subirla passivamente. L’uomo conoscere. Ecco perché le categorie funzionano in maniera diversa rispetto ad Aristotele. Perché se fossero delle categorie delle realtà, l’uomo subirebbe passivamente gli oggetti. Secondo H., oltre che per Anassimandro, è con Parmenide che la nascita si estingue. Parmenide di Elea è stato un filosofo dell’antichità, è considerato il padre del passaggio dalla fisica alla metafisica. I primi filosofi erano interessati alla natura (fisiologi). Lui introduce un elemento di novità, nonché la riflessione sull’essere cominciando a congetturare su quello che è la verità dell’essere, la vera realtà. I sensi ci ingannano in quanto uomini, è ovvio che la prima forma di conoscenza passa tramite i senti ma dei sensi non è opportune fidarci. Arriva a congettura l’esistenza di un mondo vero, dell’essere, sostenendo che dopo la natura vi sia il vero essere della realtà (realtà vera che è oltre le mere apparenze che la verità dell’essere). Parmenide immaginava l’essere come immobile, fisso, statico. E questo è evidente perché ciò che è mobile muta. L’essere non può che essere fedele a se stesso. s Soprattutto per Parmenide l’essere non nasce mai, proprio perché è eterno. Usa l’espressione in una sua opera, descrivendo l’essere come il cuore che non trema del bel rotonda verità, senza inizio né fine(una sfera senza fratture, che è perfetta, non ha inizio ne fine). Si comincia con il distinguere due mondi: - Mondo di sopra =cielo, mondo divino, perfetto, che verrà idealizzato da Platone, che può essere solo pensato in contrapposizione al mondo mortale. Da qui la polarità tra mortali e divini, tra esseri divini ed essere mortali. Da qui viene a comporsi la TEORIA DEI DUE MONDI (per H) teorizzando l’esistenza del theoreo e il mondo della praxis (mortali) - Il mondo di sotto= terra, mondo umano, dei mortali, che si corrompe Parmenide quando congettura l’essere come sfera che non nasce e non perisce, che non conosce corruzione, statico, congettura l’esistenza di un mondo vero così che i mortali vengano messi in contrapposizione con gli immortali. Da qui la “quadratura del mondo”(espressione di Heidegger): mortali/divini, terra/cielo. Da qui anche una sorta di cortocircuito culturale che ha oscurato la nascita, si compie il processo di desensibilizzazione che inizia ad innescarsi con l’apeiron di Anassimandro che si compie del tutto con Parmenide(congettura della realtà fittizia). La morte viene descritta come il sommo valore dell’esistenza umana. Si oscura la possibilità di intendere gli uomini non già come mortali ma come natali. Tutto si gioca su questo piano. Per Parmenide la morte diviene valore perché è la morta che ci libera dal corpo tomba dell’anima. l’uomo, spostando i significati della creazione umana. L’importa della donna è appiattiva, vi è una diminuzione dell’umanità femminile. Muove un appunto ad Agostino quando nella “città di Dio”, Agostino sembra addirittura ignorare il passo della genesi, scrivendo che l’uomo è stata creato (singolare). Questo gioco di tradizione decide sulla forza della donna e sulla sua femminilità. Si può dire che San Paolo in alcune sue lettere, insiste su una donna che deve essere sottomessa all’uomo, che deve imparare il silenzio, che non deve insegnare all’uomo, l’insistenza sul fatto che prima fu creato Adamo. Bisogna sempre contestualizzare queste letture del messaggio biblico. Viveva immerso in una cultura insistita sulla fragilità della donna. La cultura giudaica colloca in maniera circoscritta la donna nella società. H sostiene che Gesù cristo è molto più potente per il rapporto con le donne, mentre Paolo tende a chiudere la donna nel domestico, così come lo stesso Agostino. In un altro passaggio insiste sulla donna come mago dei (Agostino). H. non è convinta, prende le distanze da Paolo criticandolo addirittura. Insiste sul passo evangelico di Matteo dove torna il “li” creò. Perché è una teorica della pluralità, perché non si può agire in solitudine, abbiamo sempre bisogno di stare con gli altri, la pluralità è la condizione umana per eccellenza. La differenza è un valore, così come la differenza di genere. La legge di natura è che se non sussiste differenza alcuna, non può esserci la pluralità. Gli esseri umani hanno la caratteristica di essere plurali(differenti= unici, speciali). Senza la pluralità sarebbe impossibile agire. Vuole mantenere la differenza di genere. Questa differenza è fondante rispetto alla sua teoria dell’agire comunicativo. Però anche se si accreditava come teoria politica, non sentiva la causa femminista come un’urgenza in senso politico. Distante dalle rivendicazioni di genere (fine anni 50), per lei essere maschi e femmine era una semplice fatto di natura. Non scriverà mai di emancipazione femminile, non si poneva il problema della soggezione. Per lei esistevano solo gli esseri umani. Nell’intervista del 1964(citata antecedentemente), H. risponde su questi temi in modo schietto, rispondendo che è un individuo ebreo, genericamente femminile. Gunther dos ritorna a pungolarla sulla questione femminile e lei tira fuori dal cilindro delle affermazioni della serie che non è opportuno che le donne occupano dei lavori pesanti ecc…. sembra una donna d’altra tempi, era conservatrice di fatto. Per lei si può parlare di qualità femminili, non è una femminista, si tratta di coltivare le qualità femminili. Avendo ricevuto un’educazione maschile, non aveva mai sentito questo problema sulla propria pelle. In un passaggio successivo, Gunther dos le fa notare che la filosofia è stata sempre una professione maschile. Lei risponde in maniera molto rilassata del fatto che lei non si è mai posta questo problema, in quando lei volesse solo comprendere. Sono risposte molto lapidarie, sconcertanti. Però H. era una persona complessa, per lei non esisteva la donna in senso politico, esistevano le qualità femminili, ciò non vuol dire che fosse attratta dagli esempi politici di grandi donne(scriverà dei saggi). Questi saggi restano veramente interessanti, circoscritti, perché la questione femminile si tocca poco. Scrisse solo una recensione per il testo di una femminista. È vero che nei suoi iscritti non si illude mai il materno. Negli scritti femminili c’è una forte rivendicazione materna a discapito dal patriarcato. H. non è attratta dalle parole figlio(il bambino non è mai figlio) o da materno(al massimo di una materno che è accostata alla questione delle lingua delle origini, farà sempre salva la lingua tedesca a discapito delle concezioni dell’epoca, celebrandola come lingua materno). Non ci sono le letture tipiche della lettura femminista, nonostante il fatto che il natality sia una categoria femminile. Era lontana da questo imprinting femminista. Vi era però una sensibilità evidente. Ci sono degli sguardi femminili sulle cose, come quando si accenna alla cura del mondo (altro tema centrale), anche se lei è lontana alla filosofia di genere. Nell’intervista concessa, negli anni 60, Guther Dos cerca di tirare dentro H. in questi temi. La questione della lingua (se il tedesco dovesse essere decodificato), alla domanda di Dos su cosa le fosse rimasto della Germania prima dell’avvento di Hitler lei rispose: “la lingua materna”. Non risponde genericamente con la lingua tedesca, ma con la lingua materna(paradosso rispetto alla sua concezione). “Anche quando il nazismo era al potere lei ha pensato questa cosa?” ”sempre”. Quello che colpisce è che non avesse alcuna esitazione. Colpisce la sua tranquillità perché la questione della lingua tedesca era una questione spinosa. Si stava discutendo di disarticolare la lingua tedesca (la si riteneva come lingua responsabile dal nazismo, troppo sporca di ideologia). Era vista come una lingua maligna. In tal senso doveva essere purificata. Non ha dubbio, non è il tedesco la lingua che deve essere puntato sul piano degli imputati, perché alla lingua tedesca non vi sono alternativi. L’ha chiamata lingua materna perché sua madre le aveva insegnato il tutto, non era la lingua impazzita ma gli uomini. Nella lingua materna il concetto è forte. Il materno è ciò che ti resta dentro, un pensiero che si porta in cuore, che si tiene a mente, è una lingua che ti consente di compiere azioni straordinarie, io posso agire, ricordare, tenere a mente. Il ricordo è un compito politico che ci spetta tutti, abbiamo il dovere di ricordare. Quindi questa capacità morale ci viene solo perché una madre ci ha insegnato a parlare, ci ha messo in bocca delle parole (uno scrigno che conserva le cose più belle, ci insegna a ricordare, a tenere a mente, è una lingua poetica). Non esiste mondo senza poesia. Quindi la lingua materna ci è indispensabile per metterci in relazione con gli altri, per tessere legami. In Germania è accaduto che la lingua sia stata strumentalizzata, ma per H. la lingua non può impazzire. I ritratti femminili Ci sono dei saggi scritti di pugno dedicati a delle donne: - Il ritratto di Rosa Luxemburg= una rivoluzionaria di origini polacche, impegnata sul fronte politico(social-democrazia tedesca). È stata una donna protagonista degli scenari rivoluzionari. La si ricorda perché ha fondato il partito rivoluzionario tedesco, la si ricorda per la sua capacità di fare politica affrontando temi forti di giustizia sociale. Fu poi assassinata nel 1919. H dedicherà un articolo dal titolo “elogio di Rosa Luxemburg”, degli scritti pubblicati su delle riveste scientifiche. H. è molto caustica con John Netter, perché sostiene che il biografo di Rosa Luxemburg era una maschilista e che la biografia risulta illeggibile perché piena zeppa di pregiudizi maschili (definita dallo stesso come mezzo maschio perché ritiene che avesse delle capacità maschile, come quella di mettere in piedi un partito, oppure usa espressioni come “timidamente donna”). H. si accosta a questa intellettuale con molta prudenza. La attraevano molte cose, come il fatto che fosse una sempre spostata, una sorta di outsiders perché era ebra polacca e donna. - Il ritratto di Isac Dinesen (pseudonimo maschile di Karen Blixen) - Testo giovanile dedicato a “Rahel varnhagen. Storia di un’ebrea”= è una biografia, l’unica di questo tipo. Tra l’altro c’è un lavoro di ricerca enorme. Questo testo si interrompe nel 1933 (le leggi raziali la costringono a lasciare la Germania, nel suo esilio francese tenterà di riprendere il testo, ma lo riprese solo negli USA 20 anni più tardi quando era una cittadina statunitense). La ripresa fu complicata perché si basava sul carteggio di questa intellettuale, che furono perduto per i bombardamenti. È una biografia però sono tante le riflessioni. C’è quasi una seconda voce (citazioni dirette) e poi si inserisce la voce di H. ne viene fuori un saggio filosofico sull’ebraismo sull’assimilazione e sulla normalizzazione. Rahel Levin Varnhagen (cognome che assunse da sposata) è un intellettuale donna, che nasce a Berlino nel 1771. Nasce da una famiglia benestante ebrea(nata in Prussia, il suo vero cognome è Levin, tipico cognome ebreo), ma non ricchissima. Lei ebbe modo di ricevere un’educazione famigliare. È una donna che respira l’illuminismo, crescere in un ambiente illuminista, è una donna intelligente, talentuosa che costruisce la sua cultura studiando da se la lingua, amava frequentare intellettuali e il suo salotto divenne uno dei più dei più frequentati della Berlino romantica. Ma come tutte le donne di quel tempo non ci lascerà dei saggi perché alle donne l’editoria alta era inaccessibile. Abbiamo diari, lettere, appunti di conversazione. Le donne non avevano la possibilità di accedere alla nobile editoria. Rahel è un’ebrea e visse gli anni dell’invasione napoleonica dove l’antisemitismo era la norma. Tenta di assimilarsi(H. detesta questo assimilazionismo rinunciando alla propria ebraicità prendendo una forma nazionalistica. Assimilazione risale all’800, gli ebrei rinunciano alla loro identità). Significa che rinuncia all’essere ebrea. L’assimilazione è il contrario di integrazione (persone che devono mantenere la propria unicità pur vivendo in una società altra. Nell’800 si genera questo fenomeno per cui gli ebrei rinunciano alla propria ebraicità, tentando di assimilarsi). Trascorrerà una vita intera tentando di acquisire un cognome tedesco (e ci riuscirà sposando un tedesco e facendosi battezzare). H. leggerà con molto passione queste epistole e il dolore di Rahel diventà il suo. Si avvede che nelle lettere emerge una donna schiantata dal dolore: da una parte vuole dimenticare le sue origini, però dall’altro comprendere che il processo sia doloroso (figura atopica, senza luogo). Viene fuori un ritratto di una donna estranea a se stessa. Userà la parola “sleming”, un personaggio della poetica ebraica medievale. Quando H. deve definirla la definisce appunto come una sleming, una sognatrice sfortunata. Rahel non è una donna non bella, ne ricca(in una società dove le donne dovevano portare con se una ricca dote), ed è ebrea. È una donna segnata tre volte, tre ferite. Era una donna per altro intelligente, in una società dove le donne non dovevano mettere in imbarazzo gli uomini con la loro intelligenza. Rahel non ha armi nella sua faretra, l’unica arma è la sua intelligenza. Comincia con l’ossessione di conquistare un cognome tedesco che potesse cucirle addosso un’identità sociale tedesca, tentando di liberarsi della propria nascita. H. la giudica, la ammonisce, perché non è possibile per un essere umano liberarsi dalla propria nascita. L’assimilazione è vista male dalla H., non tanto perché ci si porta fuori dall’ebraicità stessa ma perché l’assimilazione è temibile perché distruttiva, rompo un vincolo che ho con me stesso, vado a disarticolarmi come persone. Non ha possibilità di uscire. Questo tentativo le si ritorcerà contro (ossessione del diventare “normale”), cominciando a mentire a se stessa, diventerà anche una mendicante sentimentale ed emotiva, si concederà ad amanti tedeschi, attendendo il dono dell’assimilazione, di un cognome normale. Vi è poi la battuta economica della sua famiglia, tramite un tracollo, lei è una donna, non sposata, con 40 anni, e questo concerne con una dipendenza della famiglia e dei fratelli. A 40 anni incontrerà Carl varnhagen, che ha 14 anni meno di lei. È un uomo colto, i due si comprendono. Decidono di convolare a nozze. Tra i due molta c’è molta intesa intellettuale e nel settembre del 1914 si sposano. Perde la sua identità, pagando un prezzo di cui si renderà conto soltanto in punto di morte (marzo del 1933). È in punto di morte che tenderà di riscattare la propria origine, rivendicando la sua ebraicità, non vuole più portare maschere, paradossalmente si sente guarita, ma oramai è troppo tardi perché lascia in eredità un cuore esploso in mille pezzi, un’esistenza che è una bancarotta (H.) 23/11/2020 da collezione, che vengono trafisse da vive con uno spillo. Un’immagine molto forte che ricorre per difendere questo intellettuale da quelle accuse che lo avrebbero trascinato in un tribunale. L’infanzia è un forte sigma, gli adulti decidono cosa tu sarai da grande, questa è l’immagine negativa dell’infante. A fronte di ciò c’è un uso positivo in Bariona(primo lavoro teatrale di una lunga carriera), dove si descrive un bambino ricoperto di baci: un racconto natalizio, il bambino di cui si parla è Gesù, che sarà poi molto simile a quello di H. descritto in vita attiva. In tal senso Bariona è un testo molto interessante, perché accenna ad una sorta di filosofia della filiazione. È un testo scritto nel 1940 e viene scritto in circostante particolari, perché Sartre lo scrive da prigioniero, detenuto in Germania in un campo militare di concentramento dove venivano imprigionati i militari che erano caduti nelle mani dei tedeschi. Era stato catturato da ufficiale in Lorena, da li trasferito in questo campo. Era stato inviato al fronte da graduato ma non aveva mai sparato un colpo, perché fu fatto prigioniero il 21 giugno del 1940 (giorno del suo compleanno). Dopo circa 9 mesi sarebbe riuscito ad evadere. Si immagini questo uomo detenuto, si avvicina il natale, in quel campo ci sono dei sacerdoti a cui stringe un rapporto di amicizia, e fu scritto in poche settimane. In questo senso è un testo anomalo perché lui è un senza Dio e non a caso ha sempre tentato di distruggere questo manoscritto, prendendo le distanze dal testo e rinnegandolo in tutte le sue interviste, temeva questo testo scritto in condizioni di detenzione, potesse suggerire l’idea che egli nel dicembre del 40 avesse avuto un cedimento. Per anni non ne ha mai autorizzato la pubblicazione, solo nel 62 ne ha autorizzato un’edizione limitate di 500 copie fuori commercio che volessero essere un regalo per gli ex compagni di prigionia. Nel 67 pubblicò un’altra edizione ancora fuori commercio. Al momento della sua evasione dal campo, neppure se lo portò dietro: è grazie ai suoi compagni che venne conservato e ne costudirono alcune poche copie scritte a mano. Lo considerava un testo mal uscito. voleva essere un regalo per i suoi compagni di prigionia in prossimità del Natale, quegli stessi compagni che lo rappresentarono in occasione delle feste natalizie nonostante i pochi mezzi che avevano. Con i sacerdoti con cui strette un’amicizia, per delle forte consonanti politiche: anche loro resistettero al nazismo. Sentiva di avere qualcosa in comune con questi preti. È un lavoro di pregio, dal punto di vista letterario e filosofico, perché fa un uso della metafora dell’infanzia molto simile a quello di H. 20 anni dopo. Si rammenti che il testo di Sartre rimase un testo a se, non sviluppò più questa intuizione della filosofia della nascita. I due si erano anche conosciuti a seguito di un semestre del professore Ermond Usses, si erano piaciuti pochi e quando qualcuno aveva chiesta ad Arendt cosa pensasse di Sartre rifilava l’argomento sostenendo che fosse troppo francese e cartesiano. Viene pensato come un testo teatrale, un atto unico in 7 quadri, una storia ambienta in Giudea, oppressa dai romani, con protagonista Bariona, un capo di un piccolo villaggio oppresso dai romani, vessato da continue richieste di tasse e tributi. Questo capo stanco delle continue violenze, stabilisce alla sua gente di non mettere al mondo più bambini. Bariona fa comandare agli uomini del suo villaggio di non avere rapporti con le proprie donne perché non si doveva perpetrare la vita. Questo lavoro teatrale nella struttura ricorda la tragedia antica greco, dove sullo sfondo vi è un coro, a cui affida le domande più terribili, come una sorta di voce della coscienza, questo coro fa irruzione chiedendo se sia possibile vivere senza un bambino? È possibile pensare l’esistenza senza bambini? Dall’altro vi è il comando terribile di non provocare, che vede l’esistenza come una lebbra violenza. Accanto a lui c’è Sara, sua moglie, che è un personaggio di una rara bellezza incinta. Quando scopre che è incinta, cerca di convincerla ad abortire. Sara è una voce feconda, che si rifiuta di prendere le erbe velenose del villaggio per indurre l’aborto. È determinata a mettere il mondo il suo bambino. Sono due figure distanti. Sara ha scelto di partorire, è una disobbediente, che è determinata a trasgredire il comportamento del marito. Questa eroina delle fecondità, è pronta a mettere al mondo un bambino che non si sceglie ma che si aspetta: lo ama in anticipa anche se fosse brutto, storpio. Lo amerebbe comunque. Questa eroina palestinese, supplica il marito di far nascere il bambino che è la nuova possibilità per il mondo. Questo è un canto di natività. Ci sono tutti i personaggi della natività, del presepe. C’è l’angelo che annuncia la nascita del messia, che appare ai pastori, che invita i pastori e gli abitanti che annuncia di recarsi a Betlemme. Tutto il villaggio si mette in viaggio, tranne Bariana, abbandonato e lasciato solo anche da Sara stessa. Bariona resta solo con se stesso, a remuginare, prendendo la decisione di uccidere il messia. Effettivamente raggiungerà Betlemme ma quando si troverà di fronte lo sguardo di Giuseppe, un padre estasiato, cambia idea, difendendo il bambino minacciato dai soldati di erode, morendo per lui. Quello di Sartre è un lavoro di umanesimo fortissimo, è una nascita che mette in cammino, un nuovo inizio che è un’opportunità per l’umanità, che può riabilitarsi. Esattamente come accade in H. è un miracolo, Sartre trova nella vita una sorta di valore assertivo. È grazie alla nascita che tutti gli possono ricominciare da capo. Quindi un bambino messianico, che costringe a metterci in cammino, un bambino che ci costringe a compiere il nostro dovere di uomini, il dovere è quello di sperare. Avere cura del mondo I punti di contatto sulla filosofia di Arendt e quella di Heidegger. La politica per H. è prendersi cura del mondo, tramite l’agire in senso vero quando si incontrano gli altri, nella dimensione della pluralità. Partendo da questa definizione, analizziamo il concetto di pluralità: presenta delle assonanze con il concetto di Heidegger mittesain, un termine tedesco che traduciano con l’espressione esser-con (-di altri). il tratteggio indica una direzione di valore. È una prospettiva in base alla quale l’essere umano si prende non solo cura delle cose ma anche di altri uomini. Quindi in Heidegger con in H. possiamo descrivere una filosofia della cura(di cui teorico è Heidegger che ebbe l’intuizione di lavorare su questo concetto passando da zoorghe, insistendo sul fatto che l’essere umano abbia la capacità di cura). Anche in H. è possibile descrivere una filosofia della cura che è un po un diverbero dell’impianto a tesi di Heidegger: vero è che il rimando della filosofia della cura è di Heidegger ma la ritroviamo anche in H. Heidegger= definisce la cura come la radice dell’esistenza umana, quindi il concetto di cura è un concetto valoriale molto forte, a volere lo si può distinguere come un compito morale dell’uomo, un assumersi delle esistenze degli altri. non è un caso che per dire cura usa il termine zoorghe che conserva molto sfumature semantiche: significa attenzione, interessarsi (avrebbe potuto usare altri concetti come medico cure, lega, flies come cura diligente, osservante, songfalt che significa accurato). Sceglie questa parola perché in tedesco a che fare con l’interessamento, attenzione, una parola emotiva che suggerisce uno stare in pena. I suoi allievi, la stessa H. sono deditori di questa impostazione, come Jonas, anche Gadamer (ultimo dei suoi allievi). In un certo qual modo riprendono le concettualizzazioni che Heidegger fa nell’”essere e tempo” (un’opera incompleta editata nel 1927 e poi rieditata, dove i temi fondanti sono il tema della cura, che riprenderà in un’altra sua opera con i “seminari di zollikon”, un’opera non scritta di suo pugno, sono le trascrizioni di alcuni suoi seminari che tenne a zollikon ai medici). Heidegger introduce il tema della cura facendo riferimento al mito di cura, alla favola di Iginus e la Dea Cura. Il primo ero uno scrittore romano vissuto interno al 1 secolo a.c., che ci ha tramandato il mito della dea cura, sappiamo che era un astronomo, uno studioso del catastelismo, una scienza che studiava il processo di trasformazione di un eroe in stella, in costellazioni. Iginus raccolse i miti di trasformazione degli eroi, ne individua 227 raccogliendole in “fabula”, un manuale scolastico. Tra questi, vi è il mito della dea Cura, che si rifà al mito della creazione dell’uomo. La dea cura era una dea romana, molto amata dagli intellettuali tedeschi come Gothe, in filosofia sarà Heidegger che lo troverà amabile, lo userà per fare un tema filosofico. Il lettore ,ad un certo punto, inciampa in questo mito di cura, inserito nel celebre paragrafo 42. Inserita prima in latino per poi tradurla in tedesco. È una favola molto semplice e ingenua, rispetto al resto del testo. Heidegger è incuriosito da questo antico mito e ci lavoro con una bella passione. Non a caso le pagine che dedica a questo mito sono delle pagine fondamentali. Era entrato in contatto con questo mito studiano i testi di Buddak, linguista e filologo, dove Heidegger aveva analizzato un’opera del 1923 che era il“Fausto e la cura”. Il primo interesse è di tipi filologico. Usa il termine il termine zoorghe e in questo paragrafo arriva a dire che l’uomo è in quanto cura, che è la radice primaria dell’essere umano. La cura è una naturale disposizione dell’uomo. È un bisogno dell’uomo, insistendo sulla differenza uomo, animale. Etimologicamente il termine cura deriva dal latino “Cor”, ciò che scalda il cuore. Si comprende anche perchè Heidegger prediliga zoorghe (preocuppazione angosciosa e protezione), perché a che fare con un sentimento doloroso, un qualcosa di emotivo che ci consuma, l’apprensione. Per cui la cura è ciò che distingue l’uomo dall’animale, è un discrimine in termine di responsabilità del farsi carico dell’altro. Usato altre due espressioni tedesche: Besorghen e furzorghe che traduciano come prendersi e avere cura in modo autentico. 1. Il primo è un agire strumentale, farsi verso l’altro per procurarli ciò che l’altro ha bisogno. è una cura imperfetta che manca di interesse, di progettualità rispetto all’altro, perché mi faccio carico di procurare e provvedere senza responsabilità. È una forma di cura ma non perfetta. Questo agire comporta il rischio di ridurre l’altro a cosa, dedicandogli solo cose già pronte, un agire tecnico. 2. La seconda, la cura autentica, è altro. è premura, non deve essere un fare strumentale, io non devo usare l’altro, deve essere premuroso per salvaguardare l’altro non perdendo di vista la storia, la sua unicità. La cura è autentica solo a condizione che non riduca l’altro a cosa e che lo circondi di cose. Devo progettare con l’altro. La Ferfallen(eiezione) è una non cura, un agire falso, rinvia alla defecazione, per dire che la eiezione è una sorta di caduta, una sorta di agire negativo, dove manco l’attenzione all’altro, in cui si verifica un agire superficiale. Io mi muovo verso l’altro solo perchè si fa così, dei luoghi comuni dove tutto perde di senso, come il linguaggio, le parole. Dice che la eiezione si realizza nella chiacchera, nell’impersonalità dove non assisto l’altro, le relazioni perdono di senso, non c’è nessuna progettualità, mancando l’essere con l’altro, non preoccupandomi dell’altro, soccorre l’altro, essergli di beneficio. Per avere cura dell’altro è necessario dedicarli tempo che non deve essere un tempo misurato, ma deve essere dilatato, fatto di emozioni, angoscia per l’altro, non può la cura esaurirsi in un breve lasso di tempo, episodico, ma deve essere inteso come un vivere progettante in cui entro in relazione con l’altro, questo perché l’uomo non è mai isolato, ma vive con gli altri. Essere con gli altri è una condizione originaria. Le assonante con H : insiste sulla cura, la pluralità, sulle relazioni autentiche, è come se in vita attiva, H. dialogasse con Heidegger sui temi della cura. Anche se lei ne farà una questione politica e non ontologica. Noi siamo responsabili in nome di noi stessi e facendoci attenti agli altri. In vita attiva introduce la tripode dell’azione, affermando che agisce in tre dimensioni: labour, work(non un altro, l’altro ha preso un impegno e questa cosa non ci farà mai sentire soli. Alla promessa è un impegno, per cui di fronte all’altro apprendimento a noi stessi. La promessa è sempre pubblica, recitata ad alta voce di fronte ad un qualcuno di cui ci sentiamo responsabili (non vale nel momento in cui la facciamo a noi stessi, atto vuoto, privo di realtà). Tutte le volte che faccio una promessa fondo qualcosa, un ancora nel futuro. Questo agire, ci rivela di fronte agli altri, la nostra moralità (agire politico in senso morale). Da qui, sposa il piano di riflessione, verso la letteratura politica, verso MACCHIAVELLI: un filosofo molto amato della filosofia politica, dove però prende delle distanze in “Vita Attiva”; nel “Principe” si parla di infingimento(simulazione). La menzogna per Macchiavelli in politica è necessaria, mentre per lei la simulazione non può fondare il nostro agire tra gli altri e con gli altri. Secondo la stessa in politica non può quello che noi non siamo essere eguale a come noi siamo (si apparare nella realtà). Apprezza il concetto di fondazione, ma celebra delle distanze rispetto a questo pensatore, in molti aspetti: Macchiavelli pensa che l’uomo abbiamo una sorta di cattiverai in corpo, corrotto, instabile, maligno (visione pessimista dell’uomo), la cattiveria viene usata dal principe nel momento in cui tradisce la parola data. Deve e può tradire. Un crudo realismo che non convince fino in fondo H., non se la sente di giustificare le azioni riprovevoli dell’uomo in nome dello stato. La doppiezza è per Macchiavelli il segno della capacitò di governare, dove si deve ricorre alla falsità. Anche la parola data, a seconda delle circostanze, deve essere tradite anche a fronte del fatto che gli uomini si lasciano ingannare. H. ama il filosofo fiorentino, apprezzandolo per aver separato la politica dalla religione (contributo alla filosofia, alla cultura umana). Però, non lo giustifica del tutto, anche se talvolta sembra essere indulgente ma non lo giustifica mai fino in fondo(dirà che è stato frainteso, distorcendone le consegne teoriche, non voleva sostenere che bisognasse essere malvagi e cattivi, ma che in realtà i potenti dovevano non cedere alle trappole dei principi religiosi). Macchiavelli diventa un pretesto per ragionare sulla promessa, intesa anche come CIO’ CHE CI PORTA FUORI DALL’ANIMALISTA’ (primitivismo) passando anche per Nietzsche, al quale riconosce di essere stato il primo a riflettere sulla promessa in relazione all’animalità stessa. Nietzsche nella “Genealogia della morale” insiste sull’incapacità di promettere dell’animale. C’è da aggiungere che Nietzsche criticherà anche la promissione, vista come un rischio per l’uomo perché molto spesso, cede alla promessa con troppo facilità, divenendo un “esile levriero obbediente”. Per paradosso, diventa poi un qualcosa che lo mortifica nella sua dignità(quando promette troppo facilmente e troppe volte a quello che gli altri si aspettano da lui), il rischio è quello di divenire una creatura prevedibile, calcolata, tanto che la volontà di potenza(sovranità, dominio di se stesso) diviene la soluzione all’agire obbediente. H prende le distanze dal filosofo e lo critica: se è vero che la promessa è una sorta di volontà forte, di memoria della volontà, questa volontà non può mai ledere, causare danni alla pluralità, perché non posso mai essere perfettamente sovrano di me stesso, devo contare sugli altri, in quanto sono un individuo relato e in quanto tale, non posso avere la sovranità completa su me stesso a scapito e a danno degli altri, vivo nella pluralità. Le sembra che la visione di Nietzsche renda l’uomo solo, senza tener conto delle relazioni con gli altri. La promessa, non si autorizza al fingimento, non può essere menzogna, né può essere uno strumento di controllo degli altri(non solo degli oggetti), non può divenire un calcolo, è un potere non individuale ma deve essere messo al servizio degli altri. La pluralità precede sempre il potere. Se ci portiamo fuori dalla relazione umana, dal contesto, ci impoveriamo, usciamo dal contesto umano, non si può fare promessa per un poro scopo calcolatore, facendo il bene solo per noi stessi= PERDITA DI MONDO (the lost of world) Il perdono Cosa succede quando un’azione messa in campo va oltre quello che avevamo previsto? Cosa accade quando ha delle conseguenze che non avevamo calcolato? Possiamo agire senza avere avvedutezza, senza sapere cosa stiamo facendo. Qual è il rimedio? Causiamo male agli altri. Il rimedio è il perdono (rinvia ad un dono però insiste che non possiamo perdonarci, autoassolverci per qualcosa che abbiamo fatto). Se la promessa è il rimedio per l’imprevedibilità dell’agire, il perdono(stabilizza) è il rimedio alla irreversibilità. L’unico rimedio dove non è più possibile tornare indietro è la capacità di perdonare gli altri, è un dispositivo di controllo dell’agire umano necessario, perché capita di commettere delle gravi azioni, ma l’errore non deve decidere dell’esistenza umana: non si può pensare che un unico errore, azione sbagliata, possa stigmatizzare un essere umano. È di segno opposto alla vendetta (non è un rimedio, innesca altri errori, delle reazioni a catena). Invece il perdono è qualcosa d’altro, all’opposto della vendetta. È evidente che la promessa e il perdono sono facoltà dell’agire che hanno a che fare con la temporalità, con il tempo, perché se la prima stabilizza il futuro(incerto) la seconda a che fare con il passato e rimedia allo stesso, che altrimenti resteremmo vittime di noi stessi, della nostra incapacità di valutare le conseguenze. Usa delle immagini letterario, passando dall’apprendista stregone di Gothe: una ballata, in cui il letterato (scrittore) narra di un giovane aiutante di un mago, questo apprendista deve tenere in ordine lo studio del suo maestro. È anche molto pigro, cercando di scantonare i compiti a lui affidati, rubando una formula magica (che apparteneva allo stregone) e che anima gli oggetti (da vita alla scopa, al secchio, ordinando di pulire lo studio del maestro), andrà in conto in un disastro perché non fa fermare l’incantesimo(lo studio si allagherà). Non ha saputo prevedere le conseguenze del suo atto disonesto e la sua furbizia. Qualcuno dovrà pur perdonare il giovane, se no vi è il rischio che la sua esigenza sia recisa da questo errore. Il perdono porta conforto, lenisce le sofferenze, riavvolgendo il filo, riporta indietro a come era una volta. Ci tira fuori dalle conseguenze delle nostre azioni. Non può che essere così perché l’idea che non si possa tornare indietro mai non viene concepita. Senza il perdono rimarrebbe intrappolato in questo suo unico errore. Quando l’acqua irrompe su ogni gradino, il giovane apprendista supplica gli oggetti di smettere, ma non può controllare gli eventi(SFUGGONO DI MANO) . Le parole del perdono ci fa tornare alla persona che eravamo prima di sbagliare. Deve essere inaspettato, perché è un dono non calcolato, ci viene donato dagli altri (sono gli altri che ci perdonano). Secondo la stessa H. il primo ad aver compreso il valore del perdono è Cristo, che ci impone di perdonare le offese ricevute= occorre una differenza tra il perdonare di Dio (comanda di perdonare 70 volte 7) e quello degli uomini, Dio in quanto uomo(per la sua natura è capace di fare dono ad altri uomini). Riflette anche sulla differenza tra colpa e colpevole: in effetti si perdona una persona, non per l’azione commessa, che resta sempre incomprensibile (Gesù che nell’episodio di Giovanni perdona la donna adultera anche se i peccati restano restituendole una nuova vita, non perdonando le sue azioni). In “Vita Attiva” passa dal gesto estremamente umano di Gesù cristo, che riabilita una donna che non conosce, chiedendole la responsabilità di non farlo mai più. Il perdono per H. non a che fare con l’amore (Gesù non la conosce la donna), non è un questione privata(non necessariamente si perdona per il sentimento, come l’amore visto come una forma antipolitico perché si esclude il mondo nella coppia, non vedendo le differenze dall’altro, rischiando gli perdonare qualsiasi cosa perché lo amiamo). Va oltre il peccato, in fondo il peccato è il segno che siamo vivi, che ci porta a peccare, a sbagliare. Senza il peccato non si può agire. È uno sbaglio che deve essere perdonato, altrimenti non potremmo continuare a vivere. Sono gli altri che ci liberano dai nostri errori e dai nostri peccati (ci consentono di tornare a essere liberi). Senza il perdono non sarebbe possibile la seconda nascita. Ma, NON TUTTO PUO’ ESSERE PERDONANTO: il male criminale, che si fa deliberatamente, che si fa perché non si sentono gli altri come una propria responsabilità, che scandalizza i bambini superiore, fortificato contro il ferito, in un’idea di super uomo). L’essere umano vuole essere il creatore di se stesso, in laboratorio, appropriandosi dei segreti custoditi dalla natura. L’uomo vuole essere creatore di se stesso, chiuso nel suo laboratorio, controllando la natura e dei suoi segreti, anche del miracolo della vita. L’uomo si sta appropriando delle parole di Dio, tra cui “creare”, che prima veniva usato per le azioni di Dio. È importate il passaggio nonostante il fatto che sia atea. Si stia appropriando del verbo creare. Questo è il timore più forte, che l’uomo si stia appropriando di un’azione che non gli compete, l’azione di creare era un’azione di Dio. Gli uomini iniziano con le nascite, l’uomo rinchiuso tra le pareti del laboratorio, si sta pensando come un Dio creatore, come un creato. Questa è una sorta di blasfemia dell’uomo occidentale. Perché quello che dovrebbe essere spontaneo, si sta di produrre un cambiamento nell’essere umano. Quello è più sconcertante è che l’eugenetica abbia autorizzato l’essere umano a manipolare la propria nascita, da qui la trasformazione della nascita, come se fosse indisponibile, divenendo un evento controllabile e manipolabile. È una mera procedura che introduce l’innaturalità anche nella sfera pubblica, in quando sono delle azioni politiche. Hanno una ricaduta sull’uomo, come si immagina, la qualità delle relazioni umani. Si è creato un fraintendimento con delle conseguenze. Il 1957, oggi, si ritiene, che lo spazio dell’apparire, lo spazio delle relazioni, possa essere compiuto, governato e compiuto. Si sta introducendo l’artificialità della vita pubblica, ritenendo che lo spazio dell’apparire, pubblico, del natale, possa essere governato e portato a compimento. Mette in guardia anche sulle trasformazioni della lingua: lo spazio pubblico può essere governato ricorrendo alle parole della biologia e al linguaggio della tecnica. Quindi, la sua preoccupazione è per rispondere alla domanda chi è l’uomo, dobbiamo davvero passare tramite il linguaggio della biologia, tramite dei linguaggi scientifici? Purtroppo la biologia, sta imponendo i suoi linguaggio, l’uomo oramai ambisce all’uso della parole della biologia, in generale, il linguaggio scientifico. Nelle origini aveva fatto delle riflessioni su questi problemi, quando riflette sul governare la vita, parlando di tasso di natalità, future generazioni, di sostituire le classi dominanti, di fabbricazione di nuovi elité. Per dire a se stesso, l’uomo usa le parole della scienza. la risposta la troviamo nelle origini quando riflette sul governare la vita, per controllare le future generazioni, fabbricando delle nuove elité, era necessario il miglioramento delle doti naturali (come nella Germania nazista, che chi controlla la vita naturale, la Zoe, è in grado di controllare il Bios, come vita sociale, razionale). Chi controlla la vita, controlla anche la politica. Zoe e Bios, sono dei termini aristotelici. Le biotecnologie sono uno strumento di selezioni, dove si eliminano i difettosi, i malati, coloro che sono in una condizione di vulnerabilità, che per i nazisti rappresentano un gravio per la polis. H. è preoccupata che il natale, la nascita, possa essere governato anche a partire dalle parole, che autorizzano. Usare le parole che appartengono al linguaggio della tecnica, comporta molti rischi per l’essere umano= essere politico coinvolto, noi ci definiamo con le parole, siamo le parole che usiamo. Se diciamo che l’uomo è solo, materico, un insieme di cellule, penso l’essere umano e lo definisco in un modo rischioso. Noi siamo le parole che usiamo. L’avvertimento è che si ricorre alle tecniche della storia, come nella Germania Nazista, nel tentativo di migliorare l’essere umano e le sue doti naturali. H. nota una riduzione delle libertà ingenite, la cosa più grave è che la tecnica ha introdotto una logica funzionale, producendo una sua idea di uomo. La vita ghiacciata è corretta, manipolata. Quando la vita è così cessa di essere imprevedibile perché la vita diventa modificabile, prevedibile, cessando di essere inaspettata. Si entra pericolosamente in una logica funzionale, l’idea è costruire uomini forti, venendo meno la distinzione tra cominciamento spontaneo e cominciamento indotto. L’uomo, se io posso controllare la nascita disegnandola, l’uomo è un mero materiale biologico, incatenato alla materiale, cessando di essere libero. Sta accadendo qualcosa di grande in un senso terribile.
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