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Gestione e comunicazione dei rischi naturali, Appunti di Analisi del Rischio

L'analisi del rischio, ovvero l'insieme dei processi di identificazione, analisi e risposta al rischio. Si concentra sui rischi naturali e non antropici, definendo il concetto di rischio e pericolo e le tre variabili che compongono il rischio: pericolosità, vulnerabilità ed esposizione. Vengono inoltre descritti i danni tangibili e intangibili e il triangolo del rischio. Infine, si parla del livello di sicurezza e del tempo di ritorno.

Tipologia: Appunti

2022/2023

In vendita dal 04/02/2024

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Scarica Gestione e comunicazione dei rischi naturali e più Appunti in PDF di Analisi del Rischio solo su Docsity! Gestione e comunicazione dei rischi naturali Per analisi del rischio s’intende l’insieme dei processi di identificazione (risk identification), di analisi in senso stretto (risk analysis, risk evaluation o anche risk assessment) e di risposta (risk response) al rischio. In generale, mentre il processo di identificazione definisce i potenziali accadimenti di rischio, l’analisi determina gli effetti degli stessi sul sistema in esame e, infine, il processo di risposta pianifica e mette in opera le azioni di prevenzione e di protezione nonché quelle di monitoraggio e controllo del rischio. A livello generale, per rischio si intende la possibilità che un fenomeno naturale o indotto dalle attività dell’uomo possa causare effetti dannosi sulla popolazione, gli insediamenti abitativi e produttivi e le infrastrutture, all’interno di una particolare area, in un determinato periodo di tempo. Il nostro corso si concentra prevalentemente sui rischi naturali, ovvero quelli legati alla possibilità di realizzazione di un evento che accadrebbe a prescindere dall’azione umana (terremoti, tsunami, eruzioni…), non tanto sui rischi antropici, che al contrario sono legati alla possibilità di realizzazione di un evento legato all’azione umana (frana, inquinamento, incidenti…). Perché diciamo rischio invece che disastro naturale? Perché si è arrivati in maniera quasi univoca a stabilire che non esiste il disastro naturale ma l’evento naturale, che può portare o meno al disastro. Come si comunica, gestisce l’evento naturale comporta la creazione o meno di un disastro Colui che si dovrebbe occupare di ciò, ovvero che dovrebbe avere sotto controllo tutti i livelli di comunicazione, le caratteristiche e riuscire a prendere delle decisioni riguardanti i rischi e, soprattutto, in caso di emergenza è il risk manager, che in Italia coincide spesso con il responsabile di protezione civile e perciò il sindaco della città. Non si tratta quindi di una figura tecnica, come sarebbe necessario, ma l’idea alla base di questa scelta è che per gestire un’emergenza è necessaria una persona che conosce il territorio, l’area, e il sindaco è la persona più adatta da questo punto di vista. Come abbiamo già detto, il rischio è un concetto probabilistico che indica la probabilità che un dato evento, capace di causare un danno alle persone, a dei beni o all’ambiente, accada; la nozione stessa di rischio, perciò, implica l’esistenza di una sorgente del pericolo e della possibilità che questa possa trasformarsi in un danno. Infatti, rischio e pericolo non sono la stessa cosa: il pericolo è rappresentato dall'evento calamitoso che può colpire una certa area (la causa), il rischio è rappresentato dalle sue possibili conseguenze, cioè dal danno che ci si può attendere (l’effetto). Per valutare concretamente un rischio, quindi, non è sufficiente conoscere il pericolo, ma occorre anche stimare attentamente i possibili danni: proprio per questo, il rischio è rappresentato da una funzione composta da ben tre variabili, la pericolosità, la vulnerabilità e l’esposizione (r= p*v*e). In realtà questa è un’ulteriore elaborazione dell’equazione base del rischio, la quale è R (rischio) = P (pericolo) * D (danno)→ dato che il danno è a sua volta composto da due variabili moltiplicate tra loro - D= E (valore degli elementi esposti al rischio) * Gv (grado di vulnerabilità) -, si ottiene alla fine l’equazione completa sopra mostrata. La pericolosità (p) è la variabile legata solamente all’evento naturale e alle sue caratteristiche, non all’azione umana, dato che ci indica la probabilità che tale evento, quello preso in analisi, accada in un certo periodo di tempo, in una data area (probabilità che ci sia un terremoto, che ci sia un’alluvione, uno tsunami…). Le altre due variabili sono invece legate agli effetti che tale evento potrebbe avere su un determinato sistema, e quindi più all’azione umana. La vulnerabilità (v) è la variabile che indica la predisposizione di beni, persone e territori a subire danni e/o modificazioni in conseguenza delle sollecitazioni indotte dal verificarsi di quell’evento (es. una scuola senza sistema anti-sismico è più vulnerabile a un terremoto di una che lo possiede). L’esposizione, o valore esposto, (e) è il numero di unità di ognuno degli elementi a rischio presenti in una data area, come le vite umane o gli insediamenti. I danni, che sono il risultato dell’interazione tra queste due variabili, possono essere di vario tipo. Ci sono danni sia tangibili che intangibili: i primi sono quelli a cui possiamo dare valore economico, mentre i secondi non possono essere monetariamente valutati ma causano comunque problematiche varie (shock psicologico, interruzione del traffico…). I danni tangibili possono poi essere divisi in diretti, quelli causati dall’evento naturale in sé e per sé, e indiretti, che sono più che altro la conseguenza dell’interruzione di attività fisiche ed economiche connesse con la produttività. Il rischio quindi dipende da questi tre macro-fattori ed è importante valutarli tutti e tre per comprendere effettivamente qual è il danno previsto per quell’evento naturale. Molti degli eventi naturali della storia non sarebbero diventati disastri se si fossero attuate determinate azioni, tanto che ad oggi sono stati creati numerosi uffici dedicati all’analisi del rischio e ogni Stato parte dell’Onu ha un ufficio dedicato alla prevenzione e alla gestione del rischio (in Italia è la Protezione Civile). Dall’unione di queste tre variabili, poi, si ottiene come risultato un triangolo, chiamato anche triangolo del rischio, che ci indica a livello visivo, attraverso la sua area, il rischio che si sta analizzando sulla base delle tre variabili. Sempre in ambito di rischio, importante è anche il concetto di livello di sicurezza, che indica la probabilità che, per una data tipologia di eventi, non avvenga un guasto o non si abbiano come risultati dei danni a cose o persone. Questo livello di sicurezza riguarda quindi un’opera o una porzione di territorio specifica e si calcola dividendo il numero di eventi che possono essere contenuti in sicurezza per il numero di eventi complessivi (S= n< /N), per cui il risultato sarà un numero compreso tra 0 e 1. Il suo opposto è la probabilità di non superamento. Quando si parla del rischio e, nello specifico, della probabilità che un determinato evento accada, uno stimatore interessante molto utilizzato è il tempo di ritorno, parametro che esprime il numero medio di osservazioni necessarie affinché un dato evento si verifichi: in pratica si prendono in considerazione gli anni per indicare con quale probabilità un riconosciuta come una teoria veritiera, efficace nel descrivere come funziona la Terra. Circa 30 anni dopo la morte di Wegener, quindi, la comunità scientifica dovette ammettere il suo modello, almeno negli assunti fondamentali, era corretto. L’unica cosa che egli non era riuscito a spiegare correttamente era perché i continenti si muovessero, sostenendo semplicemente che questi galleggiassero sopra l’oceano. La realtà è invece ben diversa. Il movimento descritto attraverso la tettonica a placche è dovuto all’esistenza di correnti convettive (movimento dei fluidi dovuto alla variazione della loro temperatura e quindi della loro densità) nel mantello, il secondo strato terrestre: il magma presente nella parte inferiore del mantello si riscalda perché si trova a contatto con il nucleo esterno, estremamente caldo, quindi perde densità, diventa più leggero e comincia a spostarsi verso la parte esterna del mantello, il cui materiale più freddo comincia ad affondare. Si genera così un moto continuo più o meno circolare che causa, a sua volta, il movimento delle placche che si trovano sopra, a contatto con il mantello. I terremoti si concentrano lungo le faglie, territori in cui si accumulano tensioni dovute proprio al movimento delle placche che esplodono in questo evento naturale. I margini tra due placche possono essere di tre tipi: 1. Se le placche si allontanano l’una dall’altra abbiamo dei margini divergenti, come avviene in Islanda tra la placca euroasiatica e quella nordamericana, con l’isola si allarga di anno in anno 2. Se le placche si avvicinano l’una all’altra abbiamo dei margini convergenti, come ad esempio avviene in Giappone tra la placca pacifica e quella euro-asiatica, che possono portare, se si tratta di due placche continentali, alla formazione di montagne 3. Se le placche scorrono l’una parallela all’altra ma in direzioni opposte abbiamo dei margini trascorrenti, di cui l’esempio più tipico è la faglia di San Andreas, al confine tra la placca pacifica e quella nordamericana. Perché avvengono i terremoti? Come abbiamo già detto, la maggior parte dei terremoti avviene lungo i margini delle placche. Qui le placche si muovono l’una rispetto all’altra nelle tre possibilità che abbiamo visto ma sono generalmente tenute sotto controllo dalla forza d’attrito: questa, infatti impedisce lo scivolamento delle due placche lungo il margine e conseguentemente si crea della tensione nelle rocce che si trovano lì, lungo il margine. L’accumulo di tensione può andare avanti per diverse decadi ma, finché le forze d’attrito riescono a pervenire lo scivolamento, non avviene nessun terremoto nell’area. Ad un certo punto, comunque, la tensione elastica rompe il blocco dell’attrito e quando ciò avviene i due ammassi di roccia su entrambi i lati della faglia scivolano improvvisamente, generando un movimento che può essere lungo anche diversi metri (dipende da quanto tempo la tensione si è accumulata), una vibrazione del terreno, ovvero un terremoto, e potenzialmente anche una faglia, una frattura del terreno visibile ai nostri occhi. Lo scivolamento tra i due blocchi comincia sempre in un punto preciso che si trova sottoterra, chiamato fuoco, da cui poi si ricava l’epicentro, il quale corrisponde praticamente al punto della superficie terrestre che si trova direttamente sopra il fuoco. L’energia rilasciata a partire dal fuoco durante questo movimento dei blocchi si trasmette in tutte le direzioni attraverso delle onde sismiche, motivo per cui il terremoto si percepisce anche lontano (più o meno a seconda dell’energia rilasciata) dal punto in cui è avvenuto il movimento. Esistono in particolare due tipi di onde sismiche in base alla velocità e al tipo di movimento con cui queste viaggiano attraverso le Terra:  Le onde P, o primarie, sono più veloci e viaggiano all’incirca a 6 km/s. Le onde P possono essere pensate come delle onde push and pull, nel senso che quando queste passano le particelle del terreno sono prima spinte e poi tirate indietro nella stessa direzione di movimento dell’onda, e riescono a passare attraverso tutti i stati della materia, solido, liquido e gassoso.  Le onde S, o secondarie, viaggiano invece a circa 3,6 km/s. Al passaggio dell’onda, le particelle si muovono in maniera perpendicolare alla sua direzione, verso l’alto e poi verso il basso, ma queste sono in grado di propagarsi solo attraverso i solidi, non nei liquidi o nei gas. A queste onde, che passano in profondità nella crosta terrestre, dobbiamo poi aggiungere le onde superficiali, quelle che causano la maggior parte dei danni che avvengono durante i terremoti dato che viaggiano lungo la superficie terrestre, con una velocità leggermente inferiore a quella delle onde S. Anche queste onde si dividono in due categorie, con un tipo che fa sì che gli oggetti si sollevino e cadano, mentre l’alto che gli oggetti vengano sbattuti da una parte all’altra. Lo strumento che viene utilizzato per registrare le onde generate dai terremoti si chiama sismografo. Questo è composto da una parte fermamente ancorata alla crosta terrestre, che quindi si muove questa durante un terremoto, da un peso sospeso con una puntina attaccata e infine da un pezzo di carta attaccato alla parte del sismografo ancorata alla crosta. Quando la crosta si muove, la puntina segna una linea sulla carta che corrisponde, perciò, all’onda sismica che ha causato il movimento della crosta la quale viene così registrata. L’ampiezza della registrazione, ovviamente, dipende dall’energia dell’onda sismica registrata. Il risultato di questa registrazione è chiamato sismogramma e dalla sua analisi possiamo ottenere tutte le informazioni geo-fisiche del terremoto. Quando un terremoto si scatena, dal fuoco si propagano i tre tipi di onde prima menzionate: le onde P, essendo più veloci, sono le prime ad arrivare al sismografo e quindi le prime ad essere registrate, poi arrivano le onde S ed infine le onde superficiali, quelle che causano i maggiori movimenti del terreno. Le onde P e S possono essere utilizzate per localizzare l’epicentro del terremoto: infatti queste, pur essendo generate dallo stesso punto, viaggiano a velocità diverse e perciò misurando l’intervallo di tempo tra l’arrivo delle prime e delle seconde possiamo facilmente ottenere la distanza dell’epicentro dal sismografo. Confrontando il risultato ottenuto con quello di altri sismografi, è possibile trovare un’ubicazione piuttosto precisa dell’epicentro del terremoto. Per misurare l’intensità di un terremoto, definita con il termine tecnico magnitudo, esistono diverse scale. La più conosciuta ed utilizzata ad oggi è sicuramente la scala Richter, la quale si basa sull’ampiezza del picco maggiore tracciato sul sismografo: questa scala, quindi, misura la pericolosità del terremoto. Un'altra scala molto utilizzata invece in passato era la scala Mercalli, che misurava il danno causato dal terremoto: se la scala Richter è una scala oggettiva, quest’ultima è soggettiva perché la sua misurazione si basa su diversi fattori, non solo sul terremoto in sé e per sé. Questo non vuole tuttavia dire che è da buttare: si tratta di due scali complementari, che nel caso del rischio sismico ci danno la caratterizzazione del rischio stesso da più punti di vista. I terremoti, tra l’altro, possono innescare anche altri eventi naturali, come ad esempio le frane, le alluvioni o gli tsunami. Gli tsunami Il termine tsunami deriva dal giapponese e può essere letteralmente tradotto come “onda del porto”, definizione che appare in modo lampante come adatta se consideriamo i terribili effetti che questo evento provoca sulle regioni costiere sulle quali si abbatte. Esistono anche altri termini utilizzati per indicare questo evento, come “onda sismica marina” e “maremoto”, che tuttavia appaiono almeno in parte fuorvianti perché portano il nostro pensiero ad immaginare il movimento sismico come unica causa di tsunami, quando in realtà non è così. Infatti, in generale si può affermare che qualunque causa in grado di perturbare verticalmente una colonna d'acqua sufficientemente grande, muovendola dalla sua posizione di equilibrio, è in grado di originare uno tsunami. Un terremoto che ha come epicentro un punto del fondale marino può quindi causare uno tsunami ma non solo: possono a pieno titolo diventare causa di tsunami anche eruzioni vulcaniche, esplosioni, frane e movimenti tettonici sottomarini. Tornando al caso in cui lo tsunami sia causato da sismi che avvengono sotto la superfice del mare o dell’oceano, quando parte del fondo oceanico si muove durante un terremoto la colonna d’acqua che vi sta sopra ne segue il movimento: il movimento che ha dato origine al terremoto, infatti, trasmette un impulso all'acqua, creando una cresta (crest) in corrispondenza dell'innalzamento della crosta stessa e un ventre (trough) in corrispondenza di un suo abbassamento. La cresta e il ventre nel loro insieme rappresentano l'onda di tsunami che è stata appena generata. Se le normali onde generate dai venti interessano solo i centimetri o i metri della colonna d’acqua posti più vicini alla superficie, le onde generate da un terremoto interessano invece tutta la colonna d’acqua. Quest’onda si propaga in mare aperto con un'altezza di poche decine di centimetri (pari all’altezza dello spostamento avvenuto lungo la faglia che si trova sul fondo dell’oceano) ma con grande lunghezza d'onda e cresce in altezza man mano che si avvicina alla costa→ nel mare profondo uno tsunami viaggia a 800 km/h; quando l’onda entra nelle acque poco
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