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Appunti di Letteratura Contemporanea Italiana A, Appunti di Letteratura Italiana

Appunti presi alle lezioni del prof. Fabio Angelo Pusterla.

Tipologia: Appunti

2016/2017

Caricato il 24/03/2017

Giulia95Italy
Giulia95Italy 🇨🇭

4.3

(20)

20 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Appunti di Letteratura Contemporanea Italiana A e più Appunti in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! Letteratura italiana contemporanea Il filo conduttore del corso sarà il realismo, applicato al genere letterario del romanzo. Quest’ultimo è un genere piuttosto giovane dal momento che fiorisce negli ultimi 300/200 anni e che si sviluppa in particolar modo nel Novecento. Milan Kundera nell’Arte del romanzo riflette su cosa significhi per un romanziere scrivere un romanzo e traccia la storia del genere, prendendo come punto di partenza il Don Chisciotte di Cervantes. Evidenziamo una frase significativa di questo saggio: “Mentre Dio andava a separare il bene dal male e tutto abbandonava il suo ordine, don Chisciotte usciva di casa, incapace di riconoscere il mondo”. La verità che abbiamo creduto essere assoluta (Cartesio: COGITO ERGO SUM) si scinde in piccole realtà relative, cosa che provoca una confusione totale in don Chisciotte, convinto di essere l’ultimo rappresentante dei cavalieri. La grottesca vicenda di questo pseudo eroe incarna il declino dei valori cavallereschi, finisce un’epoca in cui i valori tradizionali perdono senso e inizia una fase nuova rappresentata dalla nascita del romanzo, elemento che entra a far parte di un mondo in cui prevalgono le conoscenze di natura scientifica e tecnologica. A questo punto Kundera si interroga su quale possa essere il ruolo del romanzo in questo contesto: è il periscopio che i tempi moderni si sono dati per scandagliare l’essere umano (cita i filosofi novecenteschi Husserl e Heidegger). Questa tesi può essere applicata anche alla poesia, prendiamo ad esempio Leopardi e il romanticismo tedesco: la poesia deve ora indagare quelle zone dell’esistenza che sembrano essere individuabili e rappresentabili solo con gli strumenti della letteratura, nient’altro pare in grado di portare alla luce una tale realtà. Tornando a Kundera, il suo ragionamento ha delle implicazioni: se questo è il compito prioritario del romanzo, allora sia il romanzo che il romanziere hanno la responsabilità di rappresentare un frammento di verità fino ad allora sconosciuto, cosa non scontata ma, nonostante il rischio, se il romanzo non persegue questo scopo ha già fallito in partenza. Detto questo, Kundera divide il romanzo in due tipi: ci sono quelli che vale la pena leggere perché mirano al nobile scopo di cui si è detto, e quelli che si indirizzano al pubblico con il fine dell’intrattenimento. In merito al realismo, potremmo pensare subito al realismo dantesco, molto vivo nell’Inferno, o ancora prima al realismo di Omero e dell’Antico Testamento (vedi Mimesis di Erich Auerbach). Attraverso questi esempi viene da dire che il realismo appartiene alla storia della letteratura da sempre, ma noi ci concentriamo su un periodo preciso: dagli ultimi decenni dell’800 agli ultimi del ‘900 dove il concetto assume significati più complessi, come nel naturalismo francese. Uno dei primi a usare il termine “naturalismo” è stato Balzac per poi arrivare alla sua massima definizione con Emile Zola. Il naturalismo deve la sua origine alla volontà di creare un sodalizio tra il romanziere e il naturalista, aspetto che ritorna con il Verismo italiano di Verga, seppur con le debite differenze. Con il Neorealismo si vuole riprendere proprio questo primo realismo, sia francese (europeo) che nostrano. Non è semplice definire il realismo, in breve si evidenzia la volontà dello scrittore di scandagliare una porzione di realtà. Quando parliamo di realismo dobbiamo distinguerlo dal realismo di superficie in quanto quello vero si propone di andare più a fondo delle apparenze oggettive. Segnaliamo due polarità distinte ma complementari: il personaggio e la società che lo circonda, ovvero due terreni di ricerca che si influenzano reciprocamente. Anche da questo punto di vista possiamo notare come negli ultimi 150 anni siano cambiati il modo e la strumentazioni con cui un romanziere può creare i suoi personaggi, basti pensare allo strumento formidabile della psicanalisi: chi sarebbe stato Zeno senza il contributo della nascente psicanalisi freudiana? Veniamo alla società: rappresentarla significa portare a galla asservimenti, giochi di potere, lotte di classe, rapporti con il lavoro, etc. (ad esempio Kafka, Dostoevskij e Tolstoj). La prima novella in odore di verismo di Verga è Nedda (1874), seguono Vita dei campi, I Malavoglia e Mastro don Gesualdo (questi ultimi due prima parte di un ciclo mai compiuto: il Ciclo dei vinti). Verga si dedica a questo genere dopo una carriera di romanziere d’altro genere, il suo ripensamento avviene in un periodo delicato della storia italiana: la realtà neocreata è molto diversa da quella agognata durante il Risorgimento, emergono grandi contraddizioni e problematiche come la nota Questione meridionale, caratterizzata dalla piaga del brigantaggio e dal disquilibrio nord-sud. Nel 1898 a Milano l’esercito italiano guidato da Bava Beccaris spara sugli italiani manifestanti, triste manifestazione della critica situazione sociale. Anche il neorealismo prende piede in un periodo delicato della storia d’Italia: il decennio tra il ’45 e il ’55 rappresenta la fase della ricostruzione di un Paese che è un cumulo di macerie sia fisicamente che psicologicamente. Nel ’43, quando la Guerra conosce una svolta decisiva (battaglia di Stalingrado e indebolimento della Germania sia sul fronte orientale con l’avanzata dell’Armata rossa, sia sul fronte occidentale con lo Sbarco in Normandia un anno dopo), la resistenza italiana si intensifica e tra le sue file figurano autori che saranno proprio rappresentanti del neorealismo, come Italo Calvino e Beppe Fenoglio, parliamo dunque di autori giovani (a parte Pavese e Vittorini) che sentono il dovere di raccontare quello che hanno vissuto in prima persona. Citiamo il libro I principi della comunicazione letteraria di Maria Corti, filologa e narratrice del secolo scorso: qui si parla delle forze (una centrifuga e una centripeta) complementari della letteratura, una di queste tende ad attirare la letteratura verso il centro (la tradizione) che garantisce un ordine rassicurante e una continuità, ma l’altra forza tende ad allontanare dal centro l’opera letteraria. Quando c’è equilibrio tra le forze ci troviamo nel classicismo, ma quando prevale la forza centrifuga gli scrittori tendono alla novità (sia espressiva che stilistica), cosa che scatena un campo di tensione. In luce di questa riflessione, possiamo dire che il verismo, il neorealismo e la terza fase che stiamo per enunciare sono dei campi di tensione. In quest’ultima fase (passaggio dal dopoguerra agli anni ’60) emerge Pier Paolo Pasolini, il quale parla di civiltà del pane, una civiltà umile e agricola sempre più arretrata che sta per essere accantonata per fare spazio a una nuova civiltà (o inciviltà) basata sul consumismo (noi oggi parliamo di globalizzazione): la civiltà della merce. Anche Lucio Mastronardi e Paolo Volponi a modo loro ci parlano di questo, soprattutto Mastornardi che era originario di Vigevano, una delle prime città che subiscono una trasformazione radicale (si moltiplicano le fabbriche di scarpe mentre le risaie e i campi si assottigliano). La rapida industrializzazione porta la popolazione a una tensione spasmodica al denaro, tensione che però ha un caro prezzo come l’abbandono della cultura. Mastronardi scrive una triste trilogia: il Calzolaio di Vigevano, il Maestro di Vigevano e il Meridionale di Vigevano. Veniamo a Volponi, nome che si lega ad una figura chiave dell’industrializzazione italiana: Olivetti, la cui celebre fabbrica aveva sede principale a Ivrea. Olivetti sognava un compromesso tra il socialismo e l’utopia comunista: un sistema che si basasse sull’autogestione degli operai, assumendo anche intellettuali ed editori per preservare il valore culturale. Tra questi intellettuali si muove proprio Volponi, il quale analizza soprattutto la contraddizione del sistema industriale, fino al cupo romanzo finale: Le mosche del Capitale, titolo che ne ricorda uno altrettanto amaro: Petrolio di Pasolini. In tutto questo, per lo scrittore italiano c’è un altro problema: la lingua. “e un romanziere italiano vuole rappresentare realisticamente una fetta del mondo non può non porsi drammaticamente la questione linguistica. Come sappiamo, il primo a interrogarsi a proposito è stato Manzoni (e prima di lui Cesare Beccaria con i suoi colleghi illuministi). Breve excursus: dopo l’invenzione e la diffusione della stampa, ci si chiede come scrivere l’italiano ma la scelta di un modello di riferimento non è solo linguistica ma anche politica (Machiavelli vota per il fiorentino, suscitando le ire del Ducato di Milano.) Castiglione allora propone di prendere una parte migliore da ogni lingua, compromesso diplomatico ma impraticabile. Interviene allora il cardinale Pietro Bembo che si appoggia al latino: come in latino si parte dai classici (Cicerone), bisogna fare lo stesso con l’italiano, così con le Prose della volgar lingua Bembo erge a modello per la prosa il Boccaccio e per la poesia il Petrarca. A questa prima impresa segue quella del Vocabolario della Crusca che si propone di definire il lessico ufficiale della lingua italiana. Tutto questo passaggio comporta un problema: l’italiano nasce già vecchio di 2 secoli, in questo modo con il passare dei secoli l’italiano diventa sempre più vecchio fino a scatenare la reazione degli illuministi e dei fratelli Verri che rifiutano il modello della Crusca. Bisogna allora inventare una nuova lingua italiana, problema che si pone il Manzoni e ritorniamo da dove siamo partiti: Manzoni vuole scrivere un romanzo nazionale e adotta la soluzione finale che conosciamo con il nome di “risciacquare i panni in Arno”. Tuttavia il problema non è risolto pienamente da Manzoni: Verga ci riprova e sceglie di concentrarsi sulla povera gente del sud, adottando il dialetto siciliano. Ma il dialetto non basta, il potere interventistico del romanzo verista si riassume in una delle grandi trovate di Verga: la scelta del narratore corale, o regredito. Anche i neorealisti si interrogano sul problema della lingua: dopo l’italianizzazione del fascismo (aboliti tutti i nomi stranieri, anche di città) essi desiderano rompere gli schemi. IL VERISMO Premessa: il naturalismo francese Per sondare il retroterra del verismo italiano bisogna per forza parlare del naturalismo francese. Il termine naturalismo risale al critico francese Hyppolite Taine che nel 1858 usa per primo questo concetto parlando dell’opera di Honoré de Balzac, autore del monumento letterario (più di 100 romanzi) “La comédie humaine”, tradotta da Taine con ““toria naturale dell’uomo”: da questa idea deriva proprio il concetto di naturalismo che caratterizzerà il periodo che va dalla fine di questo decennio ai 20 anni successivi. Già nella prefazione del suo capolavoro (1842), Balzac aveva scritto che la sua raccolta si proponeva di indagare la storia dell’uomo (modello dantesco), inoltre inaugura il romanzo ciclico che sarà ripreso da Zola (Rougon- Macart) e Verga (progetto del Ciclo dei Vinti). Nella prefazione Balzac scrive che il concetto di animale è uno ma poi questo unico modello assume i suoi caratteri specifici negli ambiti in cui è chiamato a evolversi, pertanto le specie zoologiche sono il risultato di tale differenziazione. Ma a questo punto fa uno scarto argomentativo e dice che la società assomiglia alla natura: “la società non fa forse dell’uomo tanti uomini differenti quante sono le specie nella zoologia?” Balzac parla così di “specie sociali”. Nella società la complessità e la diversificazione è ancora maggiore di quanto non avvenga in natura, ad esempio il naturalista Leclerc de Buffon nel suo catalogo degli animali descrive esaustivamente il leone ma dedica alla leonessa poche righe, nella società invece la donna non si limita a ricoprire il ruolo della femmina del maschio. Balzac, in quanto romanziere, si propone di assumere come compito la descrizione della realtà sociale e non biologica: questo significa che il romanziere fa della società il suo campo di indagine e che l’approccio che adotterà non sarà dissimile da quello dello scienziato. I 100 e passa romanzi della Comédie scandagliano tutti gli elementi della società, interpretata da Balzac come un oceano che va esplorato alle sue varie profondità: il romanziere sta assumendo su di sé e affidando ad un genere preciso della letteratura un grandissimo compito, ovvero rappresentare, studiare e interpretare la complessità sociale. Nel 1857 a Parigi la letteratura con due grandi titoli è balzata al centro della scena: Le fleurs du mal di Baudelaire e il romanzo Madame Bovary di Flaubert (generazione successiva di Balzac). Questi due capolavori letterari vengono processati subito dopo la pubblicazione perché secondo l’opinione pubblica risultano dannosi alla morale e lesivi dell’integrità della coscienza. Il processo avrà esiti diversi: Madame Bovary viene assolto (non è un romanzo scandalistico ma riesce comunque a far cadere le maschere della società francese del tempo) mentre Baudelaire viene definito “perverso corruttore” e la sua raccolta Le fleurs viene privata di alcune poesie. Queste due opere letterarie inaugurano l’indagine da parte della letteratura (attraverso il romanzo) delle zone d’ombra della società, quelle zone che non sono di facciata ma che risultano contradditorie, drammatiche. È importante considerare anche lo sfondo filosofico di questi anni, ovvero il positivismo: una corrente di pensiero che invita ad assumere uno sguardo puramente scientifico per indagare la realtà, cosa che deriva da una visione del tutto positiva dell’approccio scientifico, nonché di una totale fiducia nei benefici della scienza che ha il potere di “determinare esattamente”. Il manifesto di questa filosofia è Le origini della specie di Darwin, cui ne seguono altri. Davanti a questo panorama, i romanzieri si chiedono che cosa spetti loro fare e la prima risposta letteraria, considerata il primo vero romanzo naturalista, è Germinie Lacerteux dei fratelli De Goncourt. Quest’opera viene subito bollata come scandalosa ma un giovane Emile )ola scende in campo per difenderne il contenuto. I due De Goncourt hanno seguito una vicenda giudiziaria: il caso di una donna che aveva per molti anni svolto il ruolo di governante presso una famiglia dell’alta borghesia parigina sempre ottenendo i favori dei suoi padroni a quali però aveva sempre nascosto la sua seconda vita, una vita notturna e dissoluta che, anche per colpa di un amante manipolatore, l’ha portata a rubare in casa dei padroni. Riprendendo per sommi capi questa vicenda reale, i due fratelli hanno scritto Germinie Lacerteux, proponendosi di capire come la protagonista possa gettarsi così verso il baratro, travalicando i limiti posti dalla morale comune. Il romanzo come dicevamo viene pubblicato e benché abbia molto successo viene considerato immorale. Nella prefazione i De Goncourt scrivono che la gente ama i romanzi falsi, questo è invece un romanzo vero che viene dalla strada. Il libro è “severo e puro”, “che il pubblico non si aspetti un romanzo che non sconvolge la digestione e l’abitudine perché questo libro è fatto per nuocere all’igiene del pubblico”, “questo libro è la clinica dell’amore”, “oggi che il romanzo comincia a essere la parte viva dello studio letterario e della ricerca sociale può rivendicare quell’autonomia di cui la scienza già gode”. Quello che i fratelli De Goncourt vogliono dire è che il romanzo sta diventando la coscienza contemporanea, il luogo di rappresentazione dei problemi. Dicevamo che Zola scende subito in prima linea per difendere questo romanzo ma non si ferma qui visto che scrive lui stesso un romanzo naturalista: Thérèse Raquin: una donna di media classe sociale cresce il propone un caso umano, un documento: la vicenda parla di Peppa, una delle più belle ragazze di Licodia, destinata al compaesano Candela di Sego (Compare Finu), un bel giovane che aveva terre, una mula. Era un buon partito. Tuttavia il matrimonio salterà perché Peppa s’innamorerà della leggenda del brigante Gramigna senza averlo mai visto. Peppa abbandona la casa e la famiglia per raggiungerlo, seguirlo come compagna, mettere al mondo un bambino, assistere ferita alla sua cattura violenta, seguirlo nella sua incarcerazione e sopravvivergli allevando il marmocchio. La figura femminile esce dal copione predisposto sulla base di una violenta passione. La trama ricorda Germinie Lacerteux o Therèse Raquin di Zola, perché ha in comune con essi l’attenzione per il caso umano inspiegabile per il mondo in cui la vicenda si svolge. Nel proemio Verga si concede una pausa teorica. Ha la forma di una lettera all’amico “alvatore Farina, giornalista e autore di romanzi popolari, direttore della Rivista minima di scienze lettere e arti su cui era stata pubblicata la prima redazione di questa novella, dapprima intitolata L’amante di ‘aia. Il “gran libro del cuore” è accompagnato dal verbo studiare. Verga accenna a uno scrupolo scientifico che vuole studiare le passioni umane. Il paragrafo successivo si apre con una frase che segnala la coscienza dell’autore che crede di sapere di essere sul punto di rinnovare potentemente la gloriosa tradizione che ha bisogno di essere innovata. Il raggiungimento dell’impersonalità è posto come il punto d’arrivo dello sviluppo del romanzo. Il narratore deve scomparire e la vicenda deve sembrare essersi fatta da sé. Questa è la via che il romanzo, “la più completa e la più umana delle opere d’arte”, deve percorrere per proseguire sul cammino dello studio delle passioni. C’è senza dubbio una profonda analogia con il programma di )ola e dei naturalisti, cui si aggiunge un motivo tipicamente verghiano e italiano, il voler scrivere “con le medesime parole semplici e pittoresche della narrazione popolare”. Emerge il problema della lingua: anche )ola aveva tentato di mettere sulla pagina di Germinal la parlata verosimile dei minatori; ma per un autore italiano che sceglie di ambientare l’opera in Sicilia la questione è più drammatica. Le vere parole della narrazione popolare sarebbero state in dialetto, la lingua dei personaggi reali che l’opera vuole riprodurre; ma se Verga avesse scritto in dialetto siciliano si sarebbe precluso un’ampia fetta di pubblico. Con “parole semplici” sta indicando un procedimento espressivo fondamentale, di cui non svela gli elementi ma è il vero nodo della questione: come utilizzare un italiano che il lettore percepisca come verosimilmente prossimo alla realtà linguistica dei fatti narrati. In questa pagina proemiale viene sostanzialmente definito il verismo italiano; definizione in cui possiamo trovare analogie con il naturalismo francese, ma in cui possiamo anche percepire le differenze: Verga propone una realtà materica e indubitabilmente realistica e popolare, ma come immobilizzata in un territorio mitico e astorico. La storia sembra scivolare sui territori e sui personaggi quasi senza lasciare traccia. Gli ambienti descritti dai naturalisti sono invece profondamente immersi nel processo storico. Se Zola vuole portarci nel cuore delle contraddizioni contemporanee, Verga ci porta in un territorio lontano da ciò che accade nella società contemporanea. Questo dipende da due fattori: • ambientazione geografica: la Sicilia è una delle regioni d’Italia più distanti dai grandi processi di trasformazione; • scelte politico-culturali del Verga conservatore, scettico nei confronti del progresso (più distruttivo che costruttivo). Cavalleria rusticana La prima stesura risale probabilmente al novembre del 1879 e verosimilmente riprende e modifica alcuni frammenti di un’altra originaria narrazione, “Padron ‘Ntoni”, la prima breve redazione dei che nascono dallo stesso nucleo compositivo originario. Lola e il suo ex fidanzato Turiddu sono i protagonisti. Mentre lui è a militare, lei si mette con uno più ricco. Turiddu torna e si arrabbia: mette in atto un piano di vendetta (sedurre Santuzza, la giovane figlia di un mercante che abita davanti a Lola, per farla ingelosire). Pubblicata sul Fanfulla della Domenica il 14 marzo 1880. Pochi mesi dopo uscirà la raccolta in volume Vita dei Campi. Nel gennaio 1884 assistiamo alla prima messa in scena di una riproduzione teatrale della novella Cavalleria rusticana, rappresentata a Torino. La parte di personaggio secondario. Questa prima rappresentazione dà una grande visibilità alla novella di Verga. Il dramma teatrale di successo diventerà la base di numerose versioni melodrammatiche, la più famosa delle quali viene composta da Mascagni, rappresentata nel 1890 per la prima volta. In queste nuove versioni il ruolo di Santuzza viene ad assurgere a parte principale mettendo in ombra Turiddu e Lola. Una novella brevissima diventa quindi un successo che dopo 10 anni continua ad essere oggetto di grande attenzione non solo da parte di lettori e critici, ma anche da parte del mondo teatrale e melodrammatico. Il titolo si potrebbe interpretare quasi come un ossimoro: “cavalleria” rimanda a un codice comportamentale tipicamente medievale e a una casta sociale aristocratica (i personaggi verghiani sarebbero rientrati nella casta dei lavoratores); “rusticana” ci sprofonda nella realtà del lavoro della terra. Invece nello sviluppo della vicenda riusciamo a distinguere un codice di comportamento simile a quello dei cavalieri, ma declinato in modi e forme campagnoli. Nella novella la figura, la cultura, le opinioni dello scrittore sembrano completamente assenti. A parlare è solo la situazione, i personaggi e la coralità della comunità. Il successo della novella probabilmente devono parecchio non solo alla vicenda drammatica, ma anche al fatto che in sostanza rispetta le unità aristoteliche di luogo e di tempo (circa una stagione). Già nella prima frase, il narratore dà per scontato che noi sappiamo chi è la gnà Nunzia, madre di Turiddu. “i rivolge quindi alla comunità in cui è universalmente nota l’identità di Nunzia. La seguente pennellata descrittiva dà dettagli sull’apparenza di Turiddu. Improvvisamente un altro elemento importante: “che sembrava quello della buona ventura…”: è una similitudine che riprende un elemento tipico del mondo come se fosse proprio parte di esso. La voce del narratore non ha nulla in comune con quella dell’autore. “Le ragazze se lo rubavano con gli occhi mentre andavano a messa con il naso dentro la mantellina”: questo dettaglio ricorda una forma di pudore subito contraddetta dallo sguardo. Questi dettagli sono dati direttamente dall’interno della narrazione, sono detti come ovvietà. Non è il narratore che dà un’informazione culturale dall’esterno. Il periodo successivo ha una struttura logico-narrativa strana: ci sono dei non detti (non sappiamo chi sia Lola, né perché doveva farsi vedere). L’abitante del luogo lo decifra immediatamente: il non apparire né a messa né sul ballatoio ha un significato esplicito per chi fa parte di questo mondo. Queste indicazioni date per scontate ci danno sempre di più la mentalità della comunità, così come la causale seguente: “ché si era data sposa…”. Verga non lo spiega non per volontà ellittica, ma perché il narratore corale interno alla situazione sa benissimo cosa significano queste cose e non ha bisogno di spiegarle. Il paesano capisce subito che quei quattro muli sono la ragione per cui Lola ha tradito la promessa fatta a Turiddu. Oltre all’impersonalità emerge anche un altro aspetto. Il narratore sta raccontando come Turiddu ha preso la notizia: “Dapprima Turiddu, come lo seppe, santo diavolone! voleva trargli fuori le budella dalla queste parole del narratore sentiamo le parole del discorso diretto di Turiddu, non solo perché c’è un’esclamazione che sicuramente ha pronunciato lui, ma soprattutto per il tratto sintattico della ripetizione enfatica del verbo, che è perfetta riproduzione del parlato. Eppure non siamo in un dialogo, ma dentro la narrazione per bocca del narratore. Il discorso indiretto libero unisce in un tuttuno ciò che è regolarmente separato, narrazione e dialogo. Con questo periodo quasi senza filtri (le virgolette) siamo entrati dentro il personaggio di Turiddu. Il Verga mostra anche che sta cercando di usare un registro linguistico popolare, parlato, facendo dimenticare al suo lettore che nella realtà dei fatti, Turiddu avrebbe parlato in dialetto siciliano. Il lettore non ci pensa, tanto è forte la sensazione che questo italiano orale di livello medio- basso ci stia davvero portando nella realtà linguistica verosimile del personaggio. Alcuni tratti linguistici sono tipici della parlata centro-meridionale, ad esempio il “ché” iniziale nella domanda. Poi la similitudine della “passera solitaria”, che noi avremmo fatto al maschile. “ono lievi spostamenti all’interno della varietà italiana che inducono il lettore a credere che ciò che legge sia davvero stato detto. La vera sicilianità è affidata solo all’appellativo “gnà”. Proseguendo troviamo una serie di fenomeni che rendono l’italiano usato nei dialoghi quanto più parlato possibile (“a me mi hanno detto”; “la volontà di Dio la fate col tira e molla”). Ci sono poi una serie di modi di dire che accentuano la dimensione popolare. Quando inizia il dialogo seduttivo tra Turiddu e “anta: “Perché non andate a dirle alla gnà Lola, ste belle cose?” (pleonasmo “le”, abbreviazione di “queste”). “Una signorona” e “un re di corone” sono espressioni idiomatiche. Il re di corona rimanda alle carte che valgono di più. atteggiamento siciliano di attribuire a ciascuno un santo protettore. espressione idiomatica con inserzione in dialetto. “Avete paura che vi di vista degli abitanti del villaggio questo pregiudizio è dato per scontato. espressione proverbiale, altro grande ingrediente di cui Verga si servirà a lungo anche nei Malavoglia, in cui costituiranno un elemento fondamentale del discorso. Verga sarà affannosamente alla ricerca di strumenti che gli consentano di conoscere i proverbi siciliani. Troverà infatti una raccolta con traduzione italiana. L’unione della figura del narratore e di questi aspetti stilistico-retorici funziona per creare un mezzo espressivo che sostituisce efficacemente il dialetto e dà al lettore l’impressione di entrare davvero nella realtà narrata. Nel mondo che viene raffigurato la scelta individuale è rigorosamente inserita in un contesto di controllo sociale e culturale fortissimo. Questo codice di comportamento definisce con esattezza le sorti dell’individuo. Il momento in cui ciò appare con maggior evidenza è nell’osteria: da quando Santuzza fa la spia, tutto segue un preciso ordine (il rifiuto del bicchiere, il bacio della sfida, il morso dell’orecchio, l’uso di parole allusive, la riduzione delle parole al minimo), i due sfidanti sanno precisamente come comportarsi e riconoscono i significati che il codice attribuisce a ogni gesto. Le persone del luogo lo conoscono intuitivamente, noi lettori impariamo a conoscerlo durante la narrazione. Al lettore non viene neanche il dubbio che la storia potesse finire ecco perché “cavalleria”. L’unico punto in cui il codice sembra infrangersi è il finale, quando compare Alfio compie un gesto vile (getta la terra negli occhi di Turiddu). È un’infrazione che porta Alfio a uscire negativamente dalla vicenda, mentre conferisce una statura quasi d’eroe a Turiddu. È completamente assente la dimensione borghese e storica, ci troviamo in un mondo che funziona secondo meccanismi a noi sconosciuti che esercitano su di noi stupore e fascino. Soprattutto nella scena finale, i personaggi che sembravano figure semplici, sembrano acquisire la statura di eroi tragici che si affrontano come Achille ed Ettore. Questa dimensione tragica è possibile perché questo mondo così veristico e credibile è in realtà uscito dal focolare di Nedda come un mondo mitico, estraneo ai meccanismi storici, alla modernità. Esiste una psicologia dei personaggi, ma è elementare e lontanissima dalla psicanalisi, e permette ai personaggi di raggiungere questa statura tragica assoluta. Rosso Malpelo La questione filologica è meno complessa, la prima redazione risale al luglio del 1878. Anche se tendiamo a leggerla come espressione del Verga più maturo è precoce rispetto alle altre novelle di Vita dei Campi e vicina a Nedda (1874). La prima pubblicazione avviene sul Fanfulla (Roma) nel 1878. La seconda stampa avviene su un opuscolo a cura della Lega italiana del patto di fratellanza, nel 1880, collana Biblioteca dell’Artigiano, sostenuta dalla rivista mensile delle società operaie di mutuo soccorso e delle casse di previdenza sociale. Questa collocazione comunica sulla ricezione da parte del pubblico, che coglie nella novella un’attenzione alla problematica del lavoro infantile. Particolare importanza ha l’attacco con la doppia causale che mostra chiaramente l’introduzione del narratore corale: la voce che racconta rappresenta la voce dell’intera comunità del personaggio. Il secondo aspetto che emerge dal primo periodo è che di Malpelo, come di altri personaggi della novella, scompaiono le identità vere e proprie e rimangono soltanto i soprannomi. Il padre di Malpelo è l’unico di cui conosciamo velocemente il nome, Misciu, ma subito viene oscurato dal soprannome Bestia (ingenuità e stupidità). È l’unica persona che sembra avergli voluto bene e muore sepolto vivo dalla sabbia. Quando il cadavere sarà trovato, Malpelo riceverà i suoi pantaloni e le scarpe troppo grandi che custodirà sotto il letto. I soprannomi che sembrano determinati dalla situazione sociale e culturale danno indizio di come i destini individuali siano determinati dai tre fattori citati da Taine (bagaglio ereditario, ambiente, momento storico). “in dall’inizio emerge subito il mondo animale che accompagnerà Malpelo fino alla fine della novella. Malpelo è subito paragonato a un cane rognoso. Questo primo paragone produrrà una genealogia sterminata di paragoni animali e di animali veri e propri. Il Verga tenta di riprodurre sulla pagina la lingua parlata, grammaticalmente scorretta, che comunica il pensiero e l’espressione della comunità. L’animalità verso la quale si abbassano i personaggi risuona anche nel soprannome di Ranocchio e si coagulerà nell’emblema di tutte le vite disperate che si muovono nella cava, l’asino Bigio, troppo vecchio e malandato per lavorare all’aperto. “u di lui di scaricano tutte le percosse e la rabbia dei lavoratori della miniera. Quando Malpelo picchia Ranocchio gli dice che deve imparare a difendersi e dice che se l’asino Bigio potesse ribellarsi li ucciderebbe, ma non può e quindi tutti lo picchiano sopraffazione. Malpelo ha interiorizzato la legge che regola i rapporti di lavoro nella cava e i rapporti esistenziali nella comunità. In questa rappresentazione dell’ingiustizia non c’è un solo punto in cui sentiamo un fremito di sdegno dell’autore. Tutto è raccontato dall’interno senza alcuno spirito di denuncia, la narrazione è impersonale, le vicende sembrano essersi fatte da sé. La quarta sequenza ribadisce quanto detto all’inizio aggiungendo “davvero”: l’aspetto minaccioso di Malpelo viene presentato come necessario e vero, come se non potesse essere diversamente. L’essere un brutto ceffo è accompagnato da tre aggettivi che tendono verso la trasformazione di bestia. Poco dopo si descrive l’atteggiamento di Rosso all’ora del pasto, le bestie vengono presentato come pari di Malpelo —> assimilazione definitiva al mondo animale. Quando il narratore dà notizia della morte del padre dirà impietosamente che ha fatto la morte del sorcio. Questo episodio dà alla novella per un istante la possibilità di mostrarci uno scorcio del mondo al di fuori della cava. Il mondo esterno appare anche quando si presenta Ranocchio che faceva un altro mestiere. Rosso è fulmineamente un sognatore, immagina di fare il manovale, ma il sogno è irraggiungibile perché è nato nel mestiere. Questa espressione fa capire che non c’è margine di modifica o cambiamento (come in Nedda: così era stato di sua madre, immutabile. Soprattutto però il mondo esterno appare nell’episodio della morte del padre: gli operai vanno a cercare l’ingegnere che è a teatro di cui è un grande amatore. • Il padre muore per “ingenuità” • Ranocchio muore per malattia perché è troppo debole • L’asino Bigio muore per le percosse Queste tre figure riassumono i principali avvenimenti della cava di Rena Rossa. I luoghi più fortemente connotati sono: • I cunicoli sotterranei della cava nei quali alla fine Malpelo scompare • La desolazione in cui viene gettato il cadavere dell’asino Bigio, la “sciara”, territorio roccioso e desertico in cui non va mai nessuno, tranne Malpelo e Ranocchio che ogni tanto ci vanno. Come per insegnargli come vanno le cose nel mondo, Malpelo di fronte alla carcassa dell’asino gli dirà che il mondo va così: quando era vivo l’asino soffriva, adesso che è morto le botte non possono più ferirlo, ma sarebbe stato meglio non essere mai nati sono la morte o il non essere mai venuto al mondo. Malpelo dirà che per coloro che son fatti per vivere sottoterra dovrebbe essere buio sempre e dappertutto. La novella è attraversata da una grande oscurità. Nei cunicoli della cava il lettore sente un’ideale vicinanza con la miniera di carbone di Germinal. Anche quello è un romanzo sotterraneo che mostra misere condizioni di lavoro, mantiene una fortissima contrapposizione tra il mondo basso e il mondo alto dei padroni, vi sono animali che vivono sotto terra (un cavallo). Altrettanto evidenti sono le differenze: nella miniera di Zola, nonostante tutto e nonostante il finale tragico, sembra germinare l’idea di un progresso sociale. L’intenzione di )ola è quella di denunciare una situazione sociale per contribuire alla creazione di una coscienza civile e politica e quindi al cambiamento positivo. Verga, parlando di Malpelo, non rappresenta alcuno spirito di rivolta. Tra i colleghi di ‘osso Malpelo, come in generale tra i Vinti verghiani, non c’è la coscienza che Marx avrebbe detto “di classe”, ovvero di essere sfruttati da qualcuno che si trova in una situazione migliore. Al contrario c’è rassegnazione a un destino inevitabile e al massimo una litigiosa convivenza in cui i deboli e i diversi vengono schiacciati ed emarginati. Non c’è sogno di emancipazione in un mondo che sembra non essere stato toccato né dalla rivoluzione francese né dalla rivoluzione industriale (Germinal invece è proprio nel cuore dello sviluppo industriale francese). La rivolta non è mai possibile per il Verga, c’è solo uno spiraglio di ribellione che viene sempre schiacciata e dimenticata. Se Zola rappresenta situazioni dinamiche tese al futuro, le situazioni di Verga sono immobili e cristallizzate in uno statico presente. I Malavoglia Luigi Capuana parla del romanzo (principale strumento di rappresentazione e di analisi della società e del suo rapporto con l’individuo): • Importanza dell’impersonalità che avrà come conseguenza un’attenzione sempre più mancata nei confronti di realtà definite e riconoscibili (nazionali, anzi regionali) • Con impersonalità e regionalismo il romanzo potrà dare alle sue creazioni la stessa varietà che permea le creazioni della natura (cfr. Balzac) Nella sequenza 3 comincia ad apparire la forza cupa che condurrà verso la catastrofe: le burrasche. Alla Provvidenza si affianca la casa del nespolo e insieme vengono indicate come i due emblemi della famiglia, attorno ai quali ruotano la forza e l’armonia. Dopo il naufragio la casa del nespolo dovrà essere venduta e questo lacererà i Malavoglia. Sul finire di questa sequenza appare il patriarca, che per spiegare la fortuna della famiglia che ha resistito alle burrasche usa la prima di una grande serie d’immagini di carattere proverbiale, che sintetizzano la visione del mondo. La descrizione della famiglia mostra subito una gerarchia immutabile che si snoda dal vertice rappresentato dal nonno. L’ordine sembra garantire la conservazione dell’armonia, basata su conoscenze proverbiali (“donna di telaio, gallina di pollaio e triglia di gennaio” = le cose stanno come devono stare). L’autore non sente il bisogno di spiegarci il termine dialettale o il proverbio, Verga usa i proverbi per farci entrare nel modo di pensare e nella visione del mondo dei personaggi. La loro forza espressiva sta proprio nel non avere il bisogno di essere spiegati. In quest’ordine immutabile e armonioso irrompe l’inquietudine del benessere come miraggio del progresso. In Germinale si può notare, soprattutto nelle descrizioni paesaggistiche, l’autore sembra proporre la grande retorica letteraria. Nei Malavoglia il paesaggio è diverso: ad esempio nella penultima sequenza del primo capitolo, dopo varie premonizioni del naufragio, quando la Provvidenza salpa per andare a pescare, si può leggere in alcune queste immagini un presagio di sventura (montagna nera di nubi, onde che presto cominceranno ad alzarsi). Il paesaggio in sé è descritto con gli occhi di Maruzza e Padron ‘Ntoni, sono loro che propongono similitudini pertinenti (“l’anitroccola”, lanterna appesa). Due persone osservano questo notturno: Maruzza tace, Padron ‘Ntoni commenta con un proverbio tranquillizzante, che però sbaglierà. In questa scena abbiamo una donna con una bambina in braccio che osserva dalla riva la barca su cui il marito salpa e qualcosa dentro di lei si è fatto presentire. La barca si chiama Provvidenza. Anche nel Manzoni abbiamo una scena di una donna e una barca. Alla fine del capitolo 8 dei Promessi Sposi, la barca su cui sono Renzo e Lucia si allontana dal paese per raggiungere la riva opposta dove si separeranno. Lucia si volta a guardare il mondo che sta lasciando, pensa nostalgicamente a ciò che ha perduto e tuttavia esprime la sua fiducia in Dio, che si trova ovunque. Nel Verga invece gli stessi protagonisti sono disposti diversamente. La figura femminile è ferma sulla riva, mentre il marito si allontana su una barca chiamata Provvidenza. Verga quindi propone un romanzo parzialmente “figlio” dei Promessi “posi, ma sostanzialmente diverso. Dopo lo scoppio della peste, Renzo, preoccupato per Lucia, torna a nel Ducato di Milano per cercare la donna, confidando nel fatto che la peste abbia allentato la morsa della polizia. Per prima cosa va al suo paese, sperando di trovare Lucia, ma trova la devastazione e Don Abbondio. Prima di andarsene e dirigersi verso Milano, entra in quella che era la sua vigna a cui teneva tanto e vi trova una specie di giungla abbandonata a se stessa. A un certo punto il narratore riprende le parole con cui Lucia sulla barca esprime l’onnipresenza di Dio: “il rovo era per tutto”. È il punto di massimo pessimismo del romanzo, a Renzo e ai lettori tutto sembra perduto. È questa la situazione in cui si muove Verga, opposta a quella fiduciosa di Lucia. IL NEOREALISMO Premesse • Storico-politica: l’Italia fascista e gli ultimi anni del secondo conflitto mondiale con la nascita della ‘esistenza partigiana, profondamente legata a quest’esperienza letteraria; • Letteraria: l’etichetta “neorealismo” è stata usata con accezioni ed estensioni cronologiche molto varie. Tra Verga e il Neorealismo ci sarebbero molti altri autori che andrebbero considerati in ottica realista (Italo Svevo, Pirandello). Ad esempio Demetrio Pianelli di De Marchi (1889), autore di Il cappello del prete (1888), il romanzo che inaugura la pubblicità editoriale: ambientato a Napoli, è stato preceduto da una promozione misteriosa (manifesti con cappelli da prete, poi con l’aggiunta del titolo) —> curiosità del pubblico. Il terzo passaggio ha poi spiegato che era il titolo del nuovo romanzo di Emilio De Marchi. Il critico Gaetano Mariani scrive: “se l’autore de i Malavoglia offriva nelle sue pagine l’accordo di quella sinfonia che aveva avuto dal Manzoni in poi come protagonista il povero, De Marchi apre la strada alla drammatizzazione dell’eroe di tutti i giorni, che negli anni a venire sarebbe stato il personaggio centrale della narrativa fino a Svevo e Pirandello”. In Verga si tocca la stazione terminale del viaggio cominciato con i Promessi Sposi, che mette al centro dell’attenzione il povero. Con De Marchi appare sulla scena un nuovo personaggio: l’eroe di tutti i giorni è l’impiegato (Demetrio Pianelli), una figura umana non eroica in senso tradizionale, spesso grigia, che conduce una vita media e abitudinaria e che talvolta dal lavoro poco interessante è oppressa e frustrata. Demetrio Pianelli potrebbe richiamare anche Andrea Sperelli, il protagonista del Piacere di D’Annunzio, personaggio antitetico. Sperelli prende vita nel 1889, lo stesso anno di Demetrio Pianelli. Appartiene alla figura superomistica, non può essere ascritto tra gli eroi di tutti i giorni che D’Annunzio avrebbe aborrito. In realtà, la grande letteratura del Novecento, non deriva da, “tipo “perelli”, ma dal “tipo Pianelli”. Se ci spostiamo dalla fine del 1800 al primo 1900, oltre a Svevo e Pirandello, potremmo ricordare anche Scipio Slata, Riccardo Bacchelli, Corrado Alvaro, poi quel gruppo di autori toscani (Federico Tozzi, Nicola Risi). Nel 1929 un giovane non ancora ventenne, Alberto Pincherle, divenuto famoso come Moravia, pubblica “Gli indifferenti”. Negli stessi anni cominciano ad apparire le prime opere di Carlo Emilio Gadda, che nel 1931 pubblica la raccolta di racconti La Madonna dei Filosofi e nel 1934 Il Castello di Udine. Il momento in cui l’esigenza di organizzare una serie di opere con un forte realismo viene identificato con il nome di Neorealismo italiano, che sin dal nome si riferisce al Verismo verghiano (un realismo di riferimento precedente). In questi anni viene studiato alla luce di una nuova realtà nazionale (Italia unita che sprofonda nella dittatura e della guerra). Mussolini prende il potere ufficialmente nel 1925 (Marcia di Roma: 1922), anno in cui il fascismo si trasforma in dittatura e vengono messi fuori legge tutti gli altri partiti. Nel 1924 si ebbe l’assassinio Matteotti. Nel 1925 inizia anche l’opera di censura, si crea il Tribunale speciale e hanno inizio gli arresti degli intellettuali (come Gramsci) e la pratica del confino politico (Cristo si è fermato a Eboli), obbligo di risiedere in paesini sperduti e di presentarsi ogni giorno al comando dei carabinieri. Nel 1934 ha inizio l’avventura imperiale nel Nord Africa e l’avvicinamento dell’Italia alla Germania nazista. In questi anni nasce il concetto di autarchia economica, ma anche linguistica e culturale. La linguistica del fascismo imponeva un modello di lingua fortemente centralizzato su base toscana, tendenzialmente classicheggiante, con alcuni aspetti tipicamente fascisti (divieto di usare la formula di cortesia la discendenza dall’Antica Roma (anche il nome rimanda ai Fasci Vittori). Si scoraggiava il dato regionale ed era vietato usare parole straniere —> cambiamenti importanti in determinati campi, come lo sport, ma anche la toponomastica (Cortemaggiore per Courmayeur, “zone barbariche” di Bolzano). Nel 1936 viene fondato l’Impero mussoliniano, in concomitanza con l’inizio della guerra civile spagnola tra i democratici e i franchisti, le cui milizie vennero apertamente appoggiate da Hitler e Mussolini. L’episodio più cruento fu il bombardamento di Guernica nei Paesi Baschi da parte di una squadriglia di caccia tedesca (legione Condor) inviata da Hitler per aiutare Franco. Fu il primo bombardamento di una città: fino a quel momento, tendenzialmente, la guerra era stata uno scontro tra eserciti; con Guernica e la Seconda guerra mondiale il concetto di guerra cambia su tutti i fronti e si fa strada l’idea di colpire i civili per annientare l’avversario (fino a Hiroshima e Nagasaki). Nel 1937 Mussolini fonda il Ministero per la Cultura popolare, che si occupa della censura e prende in esame tutto ciò che viene diffuso e pubblicato in Italia (giornali, trasmissioni radiofoniche, libri) —> ovviamente si vietano i libri che possono gettare ombra sul fascismo, ma anche la maggior parte della letteratura inglese e francese. In questi anni Cesare Pavese conosce una studentessa diciottenne, Fernanda Pivano, che diventerà la grande traduttrice della poesia e della prosa americana del dopoguerra. Chiede aiuto a Pavese, che le dà L’Antologia di Spoonriver. Decidono che bisogna provare a pubblicarlo in italiano. Pavese inventa un trucco: presenta al MinCulPop Antologia di S. River con una copertina inaccettabile, che doveva distrarre i funzionari dall’esame del contenuto. Infatti così andò e il libro si poté pubblicare, perché pensavano che stesse per “anto. “Uomini e topi” di Steinbeck fu un altro dei libri tradotti da Pavese prima della guerra. Nel 1938 appare il Manifesto della ‘azza, dichiarazione d’intenti che sancisce la superiorità della razza ariana e l’inferiorità di tutte le altre, soprattutto di quella ebraica. È anche l’anno in cui Hitler organizza l’esposizione itinerante sull’Arte degenerata, con i roghi di libri. Nel 1939 si stringe il patto d’acciaio italo-tedesco e inizia la Seconda guerra mondiale il primo settembre. L’Italia entra in guerra il 10 giugno 1940. Hitler s’impadronisce di buona parte dell’Europa continentale e del Nord-Africa, dove Rommel sembra sbaragliare ogni resistenza anglo-americana. Hitler tenta di organizzare una manovra a tenaglia, ma Leningrado e Stalingrado resistono nel 1942-43. Nel 1941 gli USA sono entrati in guerra a seguito dell’attacco di Pearl Harbor. Nel 1943 si ha una svolta nella guerra: per la battaglia di Stalingrado (Vita e Destino, Grossman) Hitler invia 300 mila uomini. Stalin ha dato un ordine assoluto: la città non può cadere, perché anche Stalin ha un piano ardito: invece di spedire il grosso delle truppe a Stalingrado, le ha mandate più a sud, verso il Mar Nero, tentando si passare sotto il fronte e prendere i tedeschi alle spalle —> ha bisogno che la città tenga l’assedio nell’inverno tra il 1942 e il 43. Il piano di “talin alla fine funziona e Von Paulus scopre di essere accerchiato, manda un telegramma a Hitler (l’unica possibilità è ripiegare) e Hitler risponde “i soldati tedeschi non ripiegano mai”. L’armata tedesca è distrutta, l’avanzata verso est s’interrompe e l’armata rossa ricaccia l’esercito tedesco verso Berlino. Anche i reparti italiani, soprattutto gli alpini, parteciparono alla battaglia di Stalingrado. La battaglia finale dell’esercito italiano ha luogo a Nikolaievka, da cui avrà inizio la ritirata di Russia. Nella descrizione di Nuto Revelli decine di migliaia di soldati italiani sono presi in una sacca su cui piovono le bombe e “urlano in tutti i dialetti”. In Nord Africa Rommel viene sconfitto nella battaglia di El Alamein e gli Alleati prendono il controllo della costa mediterranea Montecassino) era una delle tante barriere difensive. Di lì a poco, sul fronte occidentale, si avrà lo sbarco in Normandia. Focalizzando sulla realtà italiana, realizziamo che la rotta di Stalingrado, la ritirata degli alpini, la coscienza della fragilità del fascismo hanno conseguenze importanti. Nel Nord si ha un’ondata di Mussolini viene arrestato, l’8 settembre il re d’Italia firma l’armistizio suo reparto speciale a liberare Mussolini sul Gran Sasso. Fonda la RSI a nazista e viene affidata alle Brigate nere. Tutti questi avvenimenti bellici fanno sì che nel corso del 1943 si sviluppano prima spontaneamente, poi in modo sempre più organizzato, dei fenomeni di resistenza partigiana, soprattutto nel centro e nord Italia. La situazione permane circa fino alla fine della guerra e alla fuga di Mussolini, che viene fucilato insieme all’amante Claretta Petacci. Alcuni giorni dopo i loro corpi vengono esposti in Piazzale Loreto a Milano, che era stato teatro di una terribile rappresaglia nazi-fascista che aveva trucidato molti civili. Il concetto di rappresaglia è proprio legato alla mentalità hitleriana. Nascita del Neorealismo I giovani letterati neorealisti avevano preso posizione nella lotta partigiana che li aveva portati a conoscere molte persone che se non fosse stato per la resistenza non avrebbero mai conosciuto. Alla fine della guerra sentono il bisogno e la responsabilità di mettere sulla carta questa realtà, anche a nome di coloro che ne hanno fatto parte e non hanno voce. Non hanno intenzione di produrre letteratura di fantasia o d’illusione, ma vogliono parlare della realtà della guerra, della resistenza, della vita popolare, tutto ciò che il fascismo ha taciuto e oscurato fino a vietare la lingua usata dai soggetti. L’Italia esce massacrata dalla guerra, fisicamente e moralmente. Coloro che hanno preso posizione contro il fascismo sentono di vivere un’epoca di ricostruzione e di poterlo fare ognuno a modo suo: gli scrittori vogliono scrivere romanzi che partecipino a questa ricostruzione. Nella citazione di Nuto Revelli c’è la sintesi di una situazione italiana ben diversa dall’immagine classicheggiante e centralizzata promossa dal fascismo. Gli scrittori che nell’immediato dopoguerra si affacciano al panorama della letteratura riconoscono questa situazione linguistica e culturale variegata come un dato positivo cui si vuole dare voce. Si pongono dunque il consueto problema della lingua e il tentativo di evitare il rischio di cadere nella retorica della lotta partigiana, di enfatizzare i due poli della “guerra civile”. Principalmente Italo Calvino si porrà questo problema in maniera assoluta. Nel Sentiero dei Nidi di Ragno sceglie come protagonista il bambino Pin, che attraversa le vicende senza capirle e sarebbe pronto a seguire l’uno o l’altro degli adulti che incontra indipendentemente dalle sue idee, purché quell’adulto fosse buono con lui. Questa prospettiva è estremamente acuta ed evita il rischio della retorica. Definizione L’espressione neorealismo non nasce in letteratura, ma nell’ambiente cinematografico nel 1942. Il primo a usarla sembra essere un montatore che lavorava con Luchino Visconti. Poi la parola si espande per indicare un certo tipo di cinematografia e poi di letteratura. Su questa parola non è difficile intendersi a prima vista (rivisitazione dell’antico realismo verghiano), ma se si vuole approfondire emergono diversi problemi, soprattutto di periodizzazione. L’etichetta è stata usata dai critici e dagli stessi letterati in maniera molto generica. A partire da questa vaghezza 30 o 40 anni fa muove Maria Corti per definire questo fenomeno attraversando il Novecento italiano. Il filo conduttore è il concetto di campo di tensione: secondo Corti (storica della lingua e filologa), prendendo da scuole critiche straniere nuovo metodi di critica (strutturalismo, semiologia, concezione organica della letteratura), la letteratura è dominata da due grandi forze costantemente in atto: 1. Forza centripeta, rappresentata dal peso della tradizione, che porta al classicismo; 2. Forza centrifuga, rappresentata dal rinnovamento, che genera campi di tensione, tra cui si ascrive il neorealismo. Un altro aspetto evidenziato dalla Corti è come i vari critici e storici della letteratura hanno usato questa etichetta. Dall’esame di queste modalità, Maria Corti trae una conclusione: bisogna cercare ragioni intrinseche alla letteratura (stilistiche, tematiche, ideologiche) per definirne le caratteristiche. Corti conclude delimitando il neorealismo al periodo 1945-metà anni 50. (Pag. 25) “Chi fa iniziare il movimento con Gli indifferenti di Moravia del 1929, chi dopo la seconda guerra mondiale, chi si limita a discutere quando non a sermoneggiare sulla categoria realismo in generale. Alla base di tutto ciò sembrano esservi due equivoci. In primo luogo si tende a confondere il concetto di continuum ideologico di un lungo periodo con quello di continuum letterario. La coscienza antifascista e l’aspirazione al rinnovamento possono manifestarsi per 20 anni intatti, ma le loro manifestazioni letterarie mutare consistentemente. Poiché è di letteratura che si tratta le differenze diventano altamente pertinenti. Il secondo equivoco, naturale conseguenza del primo, è dimenticanza del fatto che la legge costitutiva di un testo letterario si crea al punto d’incontro fra livelli tematico-ideologici e formali, solo lì si concreterà l’invariante neorealistica”. Per parlare di testo letterario bisogna innanzitutto identificare le reali caratteristiche letterarie, ed è sbagliato proiettare sulla letteratura delle ragioni che provengono da altri settori della cultura e della storia (politiche, religiose). Le ragioni del testo si collocano in quel punto d’incontro (terminologia tipica dello strutturalismo) tra i livelli tematico-ideologici e formali. La categoria di livelli del testo è stata introdotta da alcuni decenni: 1. Livello formale 2. Livello tematico 3. Livello ideologico Che a loro volta possono essere sezionato (ad es. il concetto di forma si può declinare in molti modi nella concreta realtà letteraria). “e si vuole capire il neorealismo bisogna cercarle nell’intersezione tra forma, tema e ideologia. Chi ha usato il termine in modo generico ha creduto che a definirlo bastasse una categoria extra-letteraria, quella dell’antifascismo, che si comincia a cogliere nel romanzo di Moravia del 1929. Maria Corti e Cesare Segre hanno modificato la concezione della letteratura sia con la rivista Strumenti Critici (1966) sia pubblicando nel 1970 I metodi attuali della critica in Italia, in cui espongono diversi approcci critici e danno a tale diversificazione un’importanza centrale nel dibattito culturale dell’epoca. Lo studio della letteratura era soprattutto riflessione sui metodi da usare per compierlo. Nel pamphlet La litérature en perile di Tzvetan Todorov, autore di I formalisti russi, l’autore avverte il rischio che un eccesso di metodologia critica stia uccidendo al piacere della lettura. Si riferisce ai licei francesi, in cui i programmi sono fortemente centralizzati e gli aspetti metodologici molto codificati. È un importante segnale d’inversione di tendenza rispetto all’euforia metodologica che inizia alla fine degli anni Sessanta. Quando scrive Maria Corti, Giancarlo Ferretti aveva appena pubblicato (1974) Introduzione al neorealismo. Ferretti aveva già pubblicato nel 1968 La letteratura del rifiuto. Ma il bersaglio più grosso di Maria Corti (chi “sermoneggia”) era probabilmente Alberto Azor Rosa, che in quegli anni aveva pubblicato Scrittori e popolo. Il populismo nella letteratura italiana contemporanea (prima ed. 1965). Dal 1965 al 1976 se ne producono 7 edizioni —> grande successo. La riflessione critica sulla letteratura non è un’operazione priva di asprezza. Toccare il neorealismo, cioè una letteratura strettamente connessa all’antifascismo e alla lotta partigiana, significa trattare una zona delicatissima della storia non solo letteraria, ma anche politica. La Repubblica si basa sul concetto di Resistenza, quindi rimettere in discussione il concetto di neorealismo significa rischiare di addentrarsi in un terreno pericoloso. Questo rischio è accolto da Corti che cerca di definire meglio il concetto di Neorealismo. Prima di tutto ragiona sulla questione cronologica. La prima ipotesi è di far iniziare il neorealismo dal 1941 e farlo finire al 1955. Nel 1941 appare Paesi tuoi di Cesare Pavese, mentre nel 1955 potrebbe essere un limite cronologico poiché in quegli anni si sta esaurendo la forza di una collana letteraria prestigiosa, I Gettoni di Einaudi, nella quale erano apparsi la maggior parte dei romanzi definiti neorealisti. Nel 1954 appare l’ultimo titolo interessante, La Malora di Beppe Fenoglio. Ma alla fine questa ipotesi non convince la studiosa, che vuole ridurre ulteriormente il periodo. Dà quindi la nuova cronologia 1943-1950: “nel 1943 ha inizio al Resistenza, così vitale e produttiva, come si vedrà, agli effetti dello strutturarsi di una scrittura neorealistica, mentre nel 1948 prende avvio l’involuzione politica italiana con le conseguenti delusioni degli intellettuali e il declino della narrativa fiduciosamente impegnata”. Il 1948 è l’anno del referendum, i partigiani depongono le armi, sale al potere la Democrazia Cristiana e svaniscono le speranze politiche della società italiana. Nel 1951 appare Inchiesta sul neorealismo di Carlo Bo, quindi si può confermare che il fenomeno in questione si fosse già esaurito. Inoltre quando Mario Serandrei usa il termine neorealismo è proprio il 1942 e sta lavorando al film Ossessione di Luchino Visconti. In realtà nella sua mente probabilmente era un termine imparentato con una categoria tedesca più che al Verga, come invece faranno gli scrittori. Questa origine cinematografica della parola verrà ricordata dal 1951 da Montale, rispondendo alle domande di Carlo Bo sull’origine dell’etichetta. Quindi due punti di partenza: • Il più importante: Resistenza • Meno importante: la prima apparizione in ambito cinematografico. La Resistenza non ha solo una prevalenza tematica nel neorealismo. Lo scrittore che con maggior lucidità ha ragionato sul fenomeno è Italo Calvino, che pubblica nel 1947, a 24 anni, il romanzo d’esordio Il Sentiero dei nidi di ragno. 17 anni più tardi ripubblica il testo identico aggiungendo una prefazione, uno dei documenti più notevoli a proposito del neorealismo (pag. II-III). Calvino segnala la preistoria del neorealismo che ha origine dall’anonimo narratore orale che narrava le storie della ‘esistenza attorno al fuoco, sui volantini di propaganda, ecc. Suggerisce così una specie di scansione: La Prefazione al Sentiero dei nidi di ragno (1964) Accanto alle critiche di Gadda bisogna porre anche la Prefazione al Sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino, una lucida riflessione sul neorealismo da parte di un neorealista. Riparlando della propria esperienza dà anche un grande affresco del movimento. Una delle caratteristiche più evidenti è l’anafora: le sezioni della Prefazione cominciano quasi tutte allo stesso modo. Il primo paragrafo contiene un’idea importante: Calvino afferma che il libro sembra scritto generalmente dal clima di un’epoca più che da lui. Emerge anche l’idea che i giovani autori usciti dal ventennio fascista possano sentirsi vincitori e guardare al futuro con una speranza espressa da una “voce anonima dell’epoca”, quella dell’anonimo narratore orale della tradizione appena nata. Il neorealismo è nato da un’acerba volontà di fare letteratura. Non fu una scuola, ma un insieme di voci in gran parte periferiche, una molteplice scoperta delle diverse Italie fino allora più inedite per la letteratura (il caso più estremo, anche se non propriamente neorealista, è Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi). Senza la varietà dei dialetti da impastare nella lingua letteraria non ci sarebbe stato neorealismo, ma non fu paesano nel senso del verismo regionale ottocentesco. Calvino fa riferimento a un verismo minore rispetto al Verga, che metteva in scena una realtà regionale che aveva rischiato di diventare folkloristica, paesana. La caratterizzazione locale neorealista voleva dare spessore a un’immagine in cui tutta l’Italia doveva riconoscersi. Il modello di riferimento sono gli autori americani degli anni 30: Faulkner, Steinbeck, Coldwell, Hemingway. I loro romanzi parlano delle grandi campagne americane devastate dalla crisi economica, con masse popolari disperate, disoccupati che cercano un lavoro. Tuttavia l’ultima cosa che preoccupa, quando si leggono questi romanzi, è identificare il luogo esatto in cui la narrazione è ambientata, perché parlano di una condizione umana in cui tutti si riconoscono. È questo lo scopo della connotazione regionale dei neorealisti. Per questo motivo erano importanti il linguaggio, lo stile e il ritmo, che dovevano distinguere il neorealismo dal naturalismo. Calvino identifica tre romanzi di partenza: • I Malavoglia • Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini (anni 30) • Paesi tuoi di Cesare Pavese Che rappresentano l’orizzonte della tradizione italiana cui il neorealista può guardare da un proprio punto di vista, formato dalle proprie esperienze e al proprio bagaglio culturale. Calvino prosegue con una descrizione del paesaggio propriamente suo, che poteva rappresentare solo facendolo diventare secondario rispetto a delle persone e a delle storie: la resistenza rappresentò la fusione tra paesaggio e persone. La lotta partigiana si svolge dentro il paesaggio che talvolta è urbano, ma più spesso è campagnolo o montano. Proprio gli autori che vogliono rappresentare le vicende belliche fanno assumere un ruolo particolare al paesaggio e spesso nelle descrizioni si avverte chiaramente il pluristilismo: gli autori si concedono di utilizzare un italiano più letterario, quasi lirico. Calvino ricorda che i libri non nascono mai solo dalla realtà, ma anche dalla letteratura, dagli orizzonti culturali e tradizionali cui gli autori guardano. Per chi suona la campana di Hemingway fu il primo libro in cui i neorealisti si riconobbero, tramite esso trasformarono in motivi narrativi ciò che avevano visto e vissuto. La vicenda ruota intorno a un gruppo di partigiani spagnoli presso i quali viene paracadutato un ufficiale inglese che li addestri e li indirizzi verso una missione suicida, ovvero far saltare un ponte su cui passeranno i corazzati franchisti. I neorealisti percepiscono la somiglianza tra la propria esperienza e la narrazione di Pablo e Pilar. Calvino ricorda il giudizio di Pavese riguardo il Sentiero dei nidi di ragno. In gioventù ogni libro che si legge è un nuovo occhio che va a integrarsi con gli altri e nella produzione letteraria rivivono tutti gli universi letterari che si son visti tramite i vari libri-occhi. Il Sentiero dei nidi di ragno si rifà chiaramente a Per chi suona la campana, ma anche ad altre letture come all’Isola del tesoro di Stevenson. Pavese indovinò dal romanzo tutte le preferenze letterarie di Calvino, parlò per primo del “tono fiabesco” di Calvino. Parla poi della difficoltà di scrivere che reca disagio. Solitamente l’autore parte da se stesso, ma quel se stesso gli pare mediocre e poco interessante. La soluzione specifica per Calvino è l’oggettività legata all’anonimato. Alla fine della Prefazione, dopo alcune considerazioni sulla “cronologia” e sulla “durata” del neorealismo (già negli anni ‘50 il quadro era cambiato, a partire dai maestri: Pavese morto, Vittorini si opponeva con il silenzio, nuovo significato di Moravia, corso elegiaco del romanzo italiano), Calvino indica in Beppe Fenoglio colui che è riuscito a scrivere il Romanzo della Resistenza (Una questione autori, riesce a conservare quella forza tipica della seconda metà degli anni ‘40 e a realizzare il sogno dei neorealisti. Gadda temeva che la raffica di mitra esaurisse il catalogo della realtà e che nel romanzo neorealista mancasse il mistero. Calvino sostiene che nel romanzo di Fenoglio c’è anche ciò che sfugge. Elio Vittorini - Uomini e No Partiamo ad analizzare quello che anche Calvino designa come il primo romanzo neorealista (1945). Vittorini aveva esordito nel 1931 (nato nel 1908) con il romanzo Piccola Borghesia e in seguito il Garofano rosso. Ma soprattutto aveva già pubblicato un’opera fondamentale che avrebbe segnato la produzione neorealista di tutti gli scrittori successivi: Conversazioni in Sicilia. Vittorini oltre a essere scrittore era un organizzatore culturale, ovvero era in grado di influenzare profondamente una civiltà letteraria. A questo autore si deve anche la stesura della cosiddetta Antologia americana, anticipatrice per i tempi (apparve nel 1942), che trattava dei massimi scrittori americani. L’antologia era davvero ampia: partiva da Melville (‘800) per arrivare a Allan Poe, citando i contemporanei Steinbeck, Hemingway e Faulkner. Uno degli autori che Vittorini ha proposto al pubblico italiano è Saroyan (di cui Vittorini stesso era il traduttore, anche se forse dietro le sue traduzione c’era un’altra mano, si pensa anche a Pavese), la cui opera più celebre è una raccolta di racconti. In questi anni Vittorini si avvicina anche al partito comunista italiano, fondato da Gramsci. Nel 1945 arriviamo alla fine alla pubblicazione di Uomini e No. gli anni successivi vedono in particolare la sua attività di organizzatore culturale: Vittorini era collaboratore editoriale della celebre casa Einaudi che nel 1945 pubblica una collana curata da Vittorini intitolata I gettoni (figurano molte opere neorealiste); ancora nel 1945 fonda la rivista Il politecnico, titolo che in realtà era una citazione visto che una rivista con questo nome era esistita un secolo prima ed era stata fondata da Carlo Cattaneo. Quest’ultimo aveva scelto questo titolo perché riteneva che la cultura italiana (e lombarda) in un momento storico così effervescente (l’Unità è vicina) doveva aprirsi alle maggiori idee che in vari campi del sapere circolavano in Europa (tali idee erano riportate da Cattaneo in compendi). A Carlo Cattaneo si deve anche l’inaugurazione del primo liceo ticinese (era in esilio a Lugano), in occasione della quale pronunciò una celebre prolusione che termina così: “Voi siete liberi, giovani ticinesi. Ma a che gioveravvi la libertà del pensiero se voi non avrete pensiero?” L’invito è quello di sviluppare un pensiero critico, da qui il titolo della rivista. Un secolo dopo, quando si apre la fase della costruzione, ecco che Vittorini ripesca Il politecnico: è necessario riavvicinarsi alle grandi idee che stanno circolando, bisogna lasciarsi alle spalle il totalitarismo e la chiusura mentale del fascismo. La rivista garantisce fama e stima a Vittorini, il quale però non si accontenta e un decennio dopo torna sulla scena: la nuova posizione di Vittorini, che lo vede accanto a Mastronardi, Volponi e Pasolini, si contestualizza con la rivoluzione industriale che l’Italia sta vivendo. Lo scrittore sensibilizza i suo colleghi, invitandoli a cercare nuovi temi: bisogna scrivere della condizione operaia, delle fabbriche e bisogna anche inventare un nuovo linguaggio. Nasce un dibattitto sulla cosiddetta “letteratura industriale”, che rappresenta il terzo capitolo del nostro percorso. Uomini e No si caratterizza per una forma curiosa, presenta infatti dei capitoli scritti in corsivo che segnalano l’ingresso dello spirito dell’autore nel libro che dialoga con il protagonista della narrazione, un personaggio che non ha un nome registrato all’anagrafe ma che si distingue per una sigla, un “nome di battaglia” che rivela il suo essere partigiano: N2. L’armamentario retorico di Vittorini cambia così da una arte all’altra del romanzo: talvolta ci sembra di scorgere un Vittorini neorealista, in altre casi notiamo un Vittorini più simbolico e lirico che usa immagini evocative. Il romanzo è ambientato in città, anche questo aspetto è importante perché la maggior parte dei romanzi neorealisti sono ambientati in campagna o comunque in contesti periferici. N2 è il responsabile dell’organizzazione partigiana a Milano, il protagonista e i suoi compagni sono in continua tensione e movimento per difendersi dagli attacchi e dalla rappresaglie nazi-fascista. Alcuni momenti chiave del romanzo vedono una rappresaglia che finisce in un eccidio di massa e l’arresto di un civile (l’ambulante Giulai) che non c’entra assolutamente niente con la ‘esistenza e i partigiani: Giulai viene avvicinato dalla cagna di un ufficiale nazista, per difendersi tira un calcio all’animale e il soldato lo fa sbranare lentamente dai suoi cani. Alla fine del romanzo N2 decide di non fuggire, ma di tentare di uccidere il suo nemico giurato, il capo delle Brigate fasciste detto Cane Nero. Il titolo allora ci sembra più chiaro: la contrapposizione vede la bestialità dei fascisti e l’umanità di chi combatte per la causa e, come il protagonista, è pronto a sfidare la morte. Questa antitesi è troppo manichea e porta Vittorini a correre il rischio di sfociare nella retorica. C’è anche un altro filone nel romanzo: N2 vive una storia d’amore con Berta, donna che però è già sposata e non se la sente di lasciare il marito. A ciò si aggiunge il piano della riflessione di N2 e dei suoi compagni, senza dimenticare la voce del narratore che interviene. N2 e gli altri partigiani che partecipano alla resistenza sono convinti di essere dalla parte del giusto, ma organizzando attentati che rischiano di provocare la rappresaglia nazista e conseguenti eccidi, questi uomini vedono morire dentro di loro la propria umanità. Ecco che il titolo assume qui un altro significato, più sottile e profondo. Ogni scrittore neorealista decide di tradurre la realtà battendo una determinata strada. Quella scelta da Calvino, come abbiamo già detto, vede come protagonista il giovane Pin. L’idea di descrivere la realtà partigiana attraverso gli occhi di un bambino comporta un grande salto che innesca dei cambiamenti anche a livello linguistico. Dal canto suo Vittorini sceglie un’altra strada. Già solo nella lettura delle prime righe, rileviamo il tratto della ripetizione, dell’iterazione di alcune immagini e parole, ad esempio l’espressione “Questo è l’inverno più mite che abbiamo avuto dal 1908” è ripresa più e più volte da vari personaggi. Tale tratto iterativo diventerà a lungo andare nevrotico. Nello stesso tempo il tema dell’inverno mite comincia a creare un paesaggio metereologico rassicurante che entra in contrasto con il sentimento umano post- bellico, freddo e abbandonato. Notiamo che figura un’immagine antitetica: “il sole sulle macerie di novembre”, e un’espressione lirica piuttosto aulica: “alberi ignudi”. Comincia a questo punto un breve dialogo tra il libraio e N2 che gli passa vicino e appoggia la bicicletta. Il protagonista riparte e in piazza della Scala incontra Berta, cui bacia la mano. I due si allontanano dalla folla, viene ripetuta la frase dell’inverno. Lo scambio di battute tra la coppia ci fa capire qualcosa in più: scopriamo che il 1908 è la data di nascita della donna, dunque la frase reiterata assume un significato diverso, ovvero che l’ultimo inverno così mite era tale perché ha visto la donna nascere. Vediamo qui anche la dichiarazione d’amore di N2 verso Berta alla quale dice di averla sempre amata a tal punto da esserle accanto il giorno della sua nascita. I due proseguono a camminare, lui le chiede se è contenta di rivederlo, lei risponde di sì e da pallida diventa rossa in volto…gli confessa di sentirsi come si sente una “cattiva donna” che giace con più uomini. Vittorini usa la strategia delle parti dialogate per rendere gli effetti dell’oralità, come se noi stessimo assistendo allo scambio di battute tra i due innamorati. Il registro dialettale tuttavia non lo percepiamo: non è attraverso la creolizzazione del lessico che Vittorini vuole farci vedere la realtà, i suoi personaggi parlano “un italiano qualsiasi”, pertanto è ancora più evidente di come Vittorini abbia optato per lo stratagemma della costante iterazione di brevissime battute e per una sintassi decisamente paratattica. L’iterazione non è solo costante, ma anche frenetica perché l’autore vuole già farci percepire la drammaticità della vicenda che lega N2 e Berta, si capisce in effetti da subito che la loro storia è intensa e va avanti da tempo, motivo per cui la donna si sente lacerata in due. Anche N2 vive una lacerazione: da una parte il dovere verso la causa partigiana, dall’altra la tensione verso questo amore impossibile. Vediamo un altro capitoletto (66), caratterizzato da una parte meno dialogata ma più descrittiva. Si parla dei morti che sono seguiti alla battaglia di Largo Augusto. L’iterazione è applicata anche alla descrizione, emerge sempre il senso di drammaticità che vuole riprodurre l’atrocità del massacro, in cui hanno perso la vita degli innocenti tra cui due ragazzi, una bambina, un anziano e due donne. A questo punto emerge un ulteriore quesito: la ricerca di un senso in tutto questo. “Perché la bambina?” dice N2 guardando la piccola, la risposta sembra venire dalla bimba stessa: questo è l’unico modo per colpire l’uomo nella sua umanità più profonda, colpendolo nell’infanzia, nella debolezza della vecchiaia, nella giovinezza, nell’amore. Chi ha causato tutto ciò è il lupo, il carnefice. Evinciamo da questo passo anche lo sforzo letterario di Vittorini e la forza dell’espressione che, come possiamo immaginare, aveva una potenza straordinaria sul lettore del ’45. Capiamo anche perché un romanzo come Uomini e No abbia giocato un ruolo così decisivo all’epoca. Un limite che possiamo rilevare, come abbiamo anticipato, è che una troppo netta contrapposizione tra bene e male, tra carnefici e vittime, può scadere nella retorica…ma è un rischio che Vittorini decide di correre. Oreste del Buono – Romanzo d’inverno Oreste del Buono probabilmente non ebbe la fortuna editoriale che meritava, ma è comunque un autore che diede un grande contributo sia alla letteratura neorealista che all’editoria. Le sue opere vengono raccolte nell’Antimeridiano, le principali sono La parte difficile e ‘acconto d’inverno. A noi interessa in particolare ‘acconto d’inverno, unico romanzo italiano che narra una condizione importantissima ma sottaciuta: la situazione degli italiani prigionieri nei campi di lavoro tedeschi. Un altro autore che dedica un’opera a questo tema è Vittori “ereni che in Diario d’Algeria racconta l’esperienza italiana nei campi di lavoro del Nord Africa. Del Buono già con il titolo evoca un’idea di freddezza. Cerchiamo di capire come questo autore declini l’istanza realista, leggendo a partire da pag. 25: ci rendiamo conto che l’espressività è diversa da quella di Vittorini in quanto Oreste del Buono, benché usi anch’egli una sintassi paratattica, tratta della quotidianità faticosa del campo, in cui non succede praticamente niente. Il lessico è volutamente “sporco”: un operaio esordisce con una bestemmia e i compagni usano altri intercalari che rendono bene l’idea della fatica estrema provata da questi uomini, stremati anche dal freddo. Il tempo è inizialmente al passato, poi si passa al presente. Per tornare alla sintassi, ci rendiamo conto che fino a qui non ci sono coordinate, le frasi infatti non sono collegate da rapporti logici: Oreste Del Buono vuole suggerire l’impressione del rapido fluire dei pensieri. Sul piano tematico intravediamo il grande paesaggio invernale che a un certo punto si trasforma in qualcosa di più profondo: “L’inverno non è una stagione ma una condizione dell’animo”, svelando la chiave di lettura suggerita dal titolo. Ai margini del neorealismo Alla luce di questo percorso, possiamo dire, tenendo anche presente la prefazioni ai Sentieri di Calvino, che il fenomeno del neorealismo era una convergenza di fattori storici e politici che determinavano un andamento comune, infatti il neorealismo non viene inteso come una scuola. Possiamo inoltre ribadire come il contributo di Maria Corti sia stato fondamentale per definire il fenomeno. La chiarezza definitoria della Corti è particolarmente efficace via via che ci avviciniamo al cuore pulsante del neorealismo: tentativo di regionalizzare la lingua attraverso a creolizzazione, la tendenza a riprodurre il parlato, etc. se ci allontaniamo da questo nucleo centrale, le osservazioni della studiosa diventano meno evidenti, più sfumate, come abbiamo visto nel romanzo di Oreste del Buono, ‘acconto d’inverno, già a partire dall’ambientazione: non siamo più nel cuore della lotta antifascista, ci troviamo infatti tra le montagne del nord Europa in un campo di lavoro. Anche i personaggi hanno un ruolo emblematico: il protagonista si chiama Tommaso perché, come l’apostolo, non crede in una futura salvezza. Figura anche il personaggio di Ulisse che, come l’eroe omerico, anche una volta tornato a casa non trova pace perché il so viaggio lo ha troppo cambiato. Questi due personaggi agiscono meno e riflettono di più nelle loro condizioni di prigionia e al momento del ritorno. Anche per questo motivo, è meno evidente la dimensione dell’oralità (battute di discorso diretto rade, a differenze di Uomini e No di Vittorini), prevale la dimensione narrativa, soprattutto meditativa. Il nucleo del neorealismo esercita una forza attrattiva, gravitazionale, è pertanto interessante notare come le opere neorealiste che chiamiamo capolavori sono in realtà le opere che si distaccano di più da questo nucleo. Tale aspetto è l’opposto rispetto al fenomeno Verga: le sue opere hanno rappresentato il momento più alto del verismo italiano e della produzione dello stesso autore, mentre se pendiamo Calvino possiamo certamente affermare che per quanto i Sentieri sia un libro straordinario, non rappresenti il momento più alto della sua scrittura. Fenoglio invece è vicino al nucleo del neorealismo ed è l’autore che ha raggiunto il livello più alto. Il caso Primo Levi – Se questo è un uomo Un caso a sé stante è rappresentato da Primo Levi che si colloca in una dimensione intermedia, da una parte si avvicina al neorealismo, dall’altra se ne distacca. Zetlan Todorov, autore che ha curato negli anni 60 un antologia, “I formalisti russi”, che ha determinato un orientamento nuovo di apprendimento. Egli ha anche scritto un testo che ha come centro il totalitarismo, i totalitarismi, che secondo l’autore sono il fenomeno centrale del novecento. Quando egli parla del totalitarismo tedesco e dei campi di sterminio, cita proprio primo levi. Questo romanzo di primo levi, però, non è affatto neorealistico, anche se nessuno come lui si è avvicinato alla realtà terrificante del campo di sterminio. Perché il romanzo di Levi non è neorealista? Innanzitutto per ragioni tematiche: non c’è attinenza diretta alla lotta partigiana e al terreno comune degli scrittori neorealisti. Anche Primo Levi, come Oreste del Buono, è stato allontanato con forza dalla scena politica italiana, fino a essere deportato ad Auschwitz. Il tema cardine, sperimentato sulla pelle dello stesso autore, è l’annientamento dell’uomo prima ancora della sua cancellazione fisica. La poesia che apre l’opera ha un impatto molto forte sul lettore, il linguaggio si basa sull’anafora martellante che sottolinea la gravità e la solennità del dettato. Gli ultimi versi in particolare hanno un effetto particolare: viene usato un linguaggio quasi biblico, che riprende le maledizioni del Testo Sacro. La caratteristica più forte della scrittura di Leivi è proprio quei, sul punto di incontro tra la descrizione della realtà più abbietta (il campo di concentramento) e la descrizione della demolizione della realtà umana. Di fronte a tutto questo, Levi si colloca come attento osservatore e scrittore che tenta di usare la dignità della lingua come ultimo argine per contrastare questa distruzione totale. Emblematico a questo propositi è il capitolo in cui Levi tenta con tutte le sue forze di ricordare il canto dantesco di Ulisse e di ripeterlo ai suoi compagni non italiani. Questa attività di salvaguardia di un valore altissimo è uno dei pochi tentativi che si possono mettere in atti per non arrendersi allo smantellamento dell’umanità. Linguisticamente, Primo Levi usa termini realistici che riprendono il linguaggio ibrido tipico del campo di concentramento, per questo la sua operazione può essere simile a quella dei neorealisti, ma proprio nei capitoli come in quello di Ulisse il linguaggio cambia, si fa più alto. Carlo Levi: Cristo si è fermato a Eboli Anche Carlo Levi è un autore periferico al fenomeno del neorealismo. Il protagonista, Carlo Levi, era un medico, pittore e intellettuale torinese che viene messo al confino in un paesino del sud, dove trascorre la sua esistenza in quasi totale isolamento (ogni giorno deve recarsi all’ufficio dei carabinieri per attestare la sua presenza). La popolazione di Eboli sembra non aver conosciuto gli ultimi 200 anni di storia, un mondo quasi più vicino al medioevo, anche dal punto di vista linguistico (uso di un dialetto stretto e localizzato) e culturale (cristianesimo fuso a pratiche rituali antiche). In questo contesto, Carlo non può che sentirsi disorientato, data la sua conoscenza delle scienze e della cultura. Eppure, piano piano riesce a entrare nelle maglie di questa società e tenta di ricostruire una cultura italiana sconosciuta perché ignorata da buona parte della nazione. A marcare subito la differenza rispetto alla produzione neorealista c’è la distanza del narratore che guarda il mondo che descrive con affetto e simpatia ma non ne fa parte, questo tronco linguistico, in cui il dialetto non ha più il suo valore culturale e l’italiano non raggiunge il grado di lingua di prestigio, si colloca un gergo che fa riferimento a espressione idiomatiche, a un parlato tecnico che si lega all’industria dalle scarpe, oppure a parole un po’ più auliche per designare il ceto borghese. In ogni caso, il quadro che risulta ci mostra uno stato degradato e depauperato della lingua, riflessione della catastrofe antropologica che sta distruggendo Vigevano e la sua comunità. Il concetto di ibridismo, che abbiamo già visto nell’esperimento neorealista, ritorna. I neorealisti però volevano riprodurre un modo di parlare orale, avevano pertanto un obiettivo antitetico a quello di Mastronardi: per loro il regionalismo linguistico aveva un valore fondamentale e positivo, inoltre si opponeva al linguaggio posticcio dei fascisti. Per Mastronardi invece lo scopo è mostrare la catastrofe che ha svuotato la popolazione dei suoi valori. Abbiamo prima accennato alla connotazione negativa della parola gente, ricordiamo a questo proposito il libro L’è il dì di mort alegher dello scrittore milanese Delio Tessa in cui viene detto che il popolo è il maestro e il suo parlato dialettale è degno e positivo. Possiamo dunque contrapporre l’accezione di popolo a quella di gente: popolo è una parola antichissima, i romani scrivevano Senatus popolusque romanorum proprio per indicare come popolo comprendesse tutti i membri della società romana, compresi schiavi e popoli sottomessi. Anche l’origine di gens è emblematica e dimostra come sin dall’origine le due parole fossero profondamente contrapposte: la gens per i romani era la famiglia aristocratica, un’oligarchia che si distingue dal resto della popolazione, del popolo appunto. In definitiva, per riprendere quello che abbiamo detto prima, possiamo affermare senza riserve che a Vigevano il popolo è scomparso. Nei romanzi di Mastronardi sfilano alcuni personaggi che cercano di sottrarsi a questo processo di depauperamento culturale e identitario. Ma il destino dei personaggi che tentano di resistere e preservare la propria dignità è rovinoso, anche loro infatti finiranno inghiottiti da questo vortice. Nel Maestro di Vigevano il protagonista, dopo essere più e più volte umiliato dalla moglie che gli rinfaccia di essere “solo” un insegnante, cede alla tentazione del progresso e dell’industrializzazione. L’epilogo della sua storia è drammatico: il maestro scopre che suo figlio, l’unico appiglio di speranza e conforto che ormai gli restava, non è suo figlio naturale ma è nato dal tradimento della moglie con un altro uomo. Mastronardi ci sta insomma presentando un divenire dell’Italia tra gli anni ’50 e ’60 che rischia di produrre qualcosa di catastrofico. Torniamo ora al racconto Gli uomini sandwich, riprendendo da dove ci siamo interrotti. La sorella di Claudia, Tina, indovina il costo dei fiori che Carlo ha portato alla fidanzata. Claudia tronfia dice che il suo “moroso” lavora anche in un banchetto di fiori vicino al cimitero, per arrotondare il guadagno della fabbrica. La mamma di Claudia, che dà importanza alle cose solo in base al loro valore pecuniario, lo guarda di cattivo occhio (“lo malguarda” facendo riferimento alla miseria che intasca. Claudia ancora entra in difesa del fidanzato e dice che “cudisce” le tombe di molti padroni, anche qui “cudisce”, cioè “accudisce” è una traslazione linguistica. Improvvisamente compare Paolo, il fratello di Claudia e Tina, ben vestito. La mamma a questo punto parla dei figli e anche a questo proposito torna a parlare in termini economici, dice che Tina ha 19 anni e vuole sposarsi ma l’altro figlio, Ercolino, a 18 anni si è sposato e inizialmente non le ha reso niente. Poi fortunatamente lui e la Nives (l’articolo davanti al nome proprio ci fa capire che si sta parlando di qualcuno che noi non conosciamo ma che ci viene presentato come se lo conoscessimo, è un aspetto tipico del parlato orale), sua moglie, hanno fatto fortuna aprendo dapprima una fabbrica e poi un’altra ancora: ora hanno sotto un bel po’ di operai (l’espressione “sotto” significa “alle dipendenze” e delinea un rapporto di sopraffazione di un più potente sui più deboli). La donna prosegue a parlare dei figli, di Paolo dice che le consegna parte dei suoi guadagni e lo invita a dire (“disaci Paolo”, altra espressione dialettale) al resto dei presenti quanto di fatto guadagna. Mentre parlano, Claudia si alza dal tavolo esausta (dice “sono ciuca”) perché ha cucito troppo (“ha giuntato 50 pare di tomere”). La madre approfitta della situazione per fare ancora una volta riferimento alla situazione economica dei figli e dice che la Claudia è bravissima a cucire, tanto che i padroni se la contendono e le fanno il filo, ma lei preferisce continuare a lavorare a casa. Arriva il momento del pranzo: viene servita la polenta con il formaggio, il burro e la salsiccia. Anche a tavola la madre parla dei figli, stavolta si riferisce a Tina e fa il conto di quanto guadagna, la elogia dicendo che lavora senza mai perdere tempo, lavora anche quando il suo fidanzato viene a trovarla e la guarda incantato dicendo che “è uno spettacolo”. “i fa riferimento anche al fidanzato di Tina che lavora come portinaio presso una delle fabbriche di Ercolino. L’attenzione si sposta per un breve momento sul pranzo: si passa a mangiare il cervello di maiale. A questo punto Claudia racconta il sogno che ha fatto e Carlo cerca di interpretarlo con il libretto del lotto di Claudia, il fatto che il libro sia consumato ci fa capire che la ragazza lo usa regolarmente. Tina si intromette e mostra orgogliosa (anche troppo, avvicina agli occhi di Carlo l’anello al punto da colpirgli quasi un occhio) a Carlo l’anello e il bracciale che le ha regalato il fidanzato, ma la madre la rimprovera perché Carlo non ha abbastanza soldi per comprare un regalo a Claudia e dunque non sta bene che lei ostenti gli ori che le ha donato il suo fidanzato. A questo punto la donna chiede a Carlo se hanno il gabinetto in casa, Carlo risponde sì. Allora gli chiede se hanno anche il bagno in casa, ancora sì. Gli domanda quindi quanto pagano di affitto, quante stanze ha la casa e in quanto ci vivono. Carlo risponde che pagano 200 mila lire e che vivono in 3 dopo che la sorella si è sposata. La donna risponde “che bellezza” e in seguito indaga anche sulla sua pensione, su quella di sua madre e di suo padre. A questo punto arriva il momento più terribile: la mamma di Claudia si avvicina a Carlo e gli dice: “Siete proprio un ragazzo di giudizio, avete pensato bene al vostro avvenire, avete pensato “adesso mi sistemo” con Claudia, con lei vi mettete i piedi al caldo, volete fare il dritto”. Claudia domanda se i genitori di Carlo sono contenti di lei e il ragazzo risponde di sì ma la madre continua ad accusarlo di opportunismo e sostiene che i simili devono prendersi i simili, operai con operai e maestri con maestri, mai mischiare. Improvvisamente fa capolino Ercolino, il fratello che si è arricchito con le fabbriche. Entra, si toglie il soprabito e dice che non si sente bene, ha preso la purga ma senza alcun effetto. Si torna a parlare ancora degli abiti e Claudia chiede a Ercolino quanto ha pagato le scarpe che indossa. La madre intanto va a “sgurare” i piatti. Ercolino indaga insistentemente sull’abito di Carlo, chiede dove lo ha preso, quanto lo ha pagato, di che materiale è fatto, lo tocca sospettoso e con superiorità. L’aspetto più evidente e drammatico è che ogni rapporto umano è interpretato in chiave di vantaggio o svantaggio. Questa dimensione di merce e profitto rapido agisce come una malattia contagiosa, nessuno può resistere e chi tenta è spinto ai margini della società. Certamente la famiglia di Claudia ha poco a che vedere con i Malavoglia. Se questa famiglia vale come campione significativo di un’intera società, quali sono le aspettative future? Allo stesso modo, se la Vigevano di Mastronardi è il prototipo della situazione italiana in quegli anni, che ne sarà dell’Italia intera? Tale prospettiva drammatica sarà ancora più evidente negli scritti di Pasolini. Pier Paolo Pasolini È l’autore che ci propone un raggio d’azione più diversificate. Nasce a Bologna nel 1922, trascorre gran parte della sua giovinezza in Friuli e muore assassinato nel 1975 a Ostia. Nel 1942 appare il suo primo libro di versi Poesie a Casarsa, in dialetto friulano, che vengono notate dal critico d’eccezione Gianfranco Contini. Seguono altri componimenti poetici: l’Usignolo della Chiesa cattolica, le Ceneri di Gramsci, Trasumanar e organizzar. Fin dagli anni ’40 un’altra parte di lui si dedica al romanzo, il primo abbozzo è intitolato Il sogno di una cosa ma sarà pubblicato solo anni più avanti. L’esordio vero e proprio avviene nel 1955 con la pubblicazione di Ragazzi di vita, seguito da Una vita violenta, pensato come sequel. Il terzo romanzo dell’immaginaria trilogia non viene mai realizzato. L’ultimo grande romanzo di Pasolini, pubblicato postumo (anni ’90) è Petrolio, opera che però rimane inconclusa, anzi per meglio dire ferma ad uno stato di abbozzi. Ciò nonostante la lettura di Petrolio è impressionante e lascia capire, forse proprio grazie a questa suo stato di incompletezza, la realtà presentata dall’autore. La fase narrativa di Pasolini si esplica anche in un altro ambito, quello cinematografico: la passione per il cinema era già nata negli anni di formazione all’università di Bologna. Tra i molti film prodotti ricordiamo Accattone, Uccellacci e uccellini, la Trilogia della vita (il Decamerone, i Racconti di Canterbury, Il fiore dalle Mille e una notte) e Salò (incentrato sulla violenza del fascismo). Infine non si può dimenticare il Pasolini intellettuale e critico non solo letterario ma anche dei costumi socio-politici italiani. Capiamo insomma che la sua personalità occupa la seconda metà del secolo scorso in modo del tutto significativo e anche “scomodo”: Pasolini è stato un intellettuale molto aperto per il suo tempo, esplicitamente di sinistra ma allo stesso tempo politicamente schietto da accanirsi contro i politici di sinistra, omosessuale in un’epoca in cui l’identità sessuale era un punto delicato. Dal punto di vista politico, Pasolini iscrive molti interventi, molto spesso pubblicati su giornali importanti come Il corriere della sera, che inserirà poi in due raccolte: - Lettere luterane - Scritti Corsari Egli si è inoltre dedicato alla poesia dialettale, ne è stato uno dei primi esegeti, ne ha sottolineato e avvallato l’importanza perché si interessava a sperimentare nuove forme espressive. Da parte sua c’è il tentativo frenetico di raggiungere un pubblico il più ampio possibile e questo ci fa capire per quale ragione la poesia venga poi accostata al linguaggio della narrativa che ha più speranze di toccare un vasto pubblico. Per lo stesso motivo, Pasolini si dedica infine al cinema, un mezzo di comunicazione che si rivolge alle masse. Scritti Corsari, 1974 – “Lettera aperta a Italo Calvino” Era nata una polemica tra Pasolini e Calvino, gli autori più centrali nel campo della narrativa, della letteratura e dell’organizzazione culturale italiana negli anni ’70. Cavino aveva rimproverato al collega di rimpiangere “un’Italietta che non esiste più”, ovvero un’Italia piccolo- borghese che oggi era ormai scomparsa. Era un’accusa pesante, cui Pasolini reagisce proprio in questa lettera con toni altrettanto accesi. Nella lettera viene fatto riferimento alla continua censura con cui le sue opere, sia letterarie che cinematografiche, venivano sempre bollate. Pasolini inoltre dice a Calvino che si rivolge al mondo contadino, sottoproletario e operaio, e non al mondo preborghese che faceva parte dell’ “Italietta”. L’universo contadino è transnazionale, l’avanzo di una civiltà precedente e la classe dominante, nazionalista, lo dominava secondo i propri fini politici. È questo mondo contadino pre-nazionale e pre- industriale che Pasolini dice di rimpiangere e lo ricerca nel Terzo Mondo, benché anche questo si stia affacciando all’industrializzazione. Quindi, Pasolini non nega di provare un rimpianto ma nega due cose: - che l’oggetto del suo rimpianto sia l’ “Italietta” intesa da Calvino, anche perché in quella è stato solo processato e accusato (da qui il riferimento alla censura delle sue opere) - che al rimpianto vada associata un’accezione per forza negativa: rimpiangere il passato porta Pasolini a diventare critico del presente, di un presente caratterizzato da uomini che non vivono più nell’età del pane, come gli abitanti dell’Italia pre-industriale (consumatori di beni primari e necessari), bensì da uomini che vivono nell’età della merce (consumatori di beni effimeri e non elementari). Secondo Pasolini il più grande rischio dell’età della merce è che anche la vita stessa venga vista via via come qualcosa di superfluo. Con la sua grande intelligenza e lungimiranza, Pasolini prevede la globalizzazione, intuendo che la società dei consumi, a lui contemporanea, stia proponendo un sistema totalitarista che promuove un modello unico, uguale per tutti. Totalitarismo è una parola pesante che Pasolini usa con molta consapevolezza: si tratta di un termine che appartiene al XX secolo e che nell’immaginario collettivo di tutti ha una significato drammaticamente preciso, il totalitarismo attraverso i suoi mille strumenti pervasivi di controllo e repressione penetra nelle maglie più intime e segrete della società e gli italiani lo hanno provato sulla loro pelle. La dittatura di questa totalitarismo non è politica, ma è quella della merce. In questo contesto le varietà regionali e i colori del dialetto vengono accantonati e i lettori non sarebbero in grado di comprendere il linguaggio di un’opera scritta 15 anni prima, come Ragazzi di vita. Per questo motivo Pasolini quando lo ripubblica anni dopo decide di aggiungere un glossario per aiutare a capire il pastiche linguistico dei personaggi che comprende Italiano, dialetto romanesco e gergo malavitoso delle borgate romane. Pasolini si scaglia insomma contro un capitalismo che sarà presto globale e che si sta già insinuando perfino nei Paesi del Terzo mondo. Ragazzi di vita Ragazzi di vita mette in scene più o meno questa antitesi tra l’età del pane, che rappresenta la parte più debole del ragionamento di Pasolini, e l’età della merce. L’ambientazione è rappresentata dalle borgate romane, dobbiamo a questo punto considerare che Roma è una città a sé, particolare e molto diversa dalle altre città europee. La sua estensione è tale che agglomera dei quartieri popolari, chiamati appunto borgate, in cui la cultura e il modo di vivere e penare sono profondamente diversi rispetto a quelli diffusi nel centro della città. In questi quartieri dilagano miseria ed emarginazione, qui Pasolini sceglie di ambientare il suo primo romanzo che possiamo considerare un romanzo di formazione. Il protagonista,Ricetto, è un bambino abbandonato che cresce in questo contesto di marginalità e illegalità. Dopo varie esperienze (tra cui i primi approcci alla vita sessuale) esce da questo mondo e trova un lavoro da impiegato che lo porta a disconoscere i valori della borgata ma che lo relega anche nella totale anonima. Citiamo un episodio significativo che spiega il suo percorso di formazione: verso l’inizio del romanzo Riccetto si getta nel Tevere rischiando la vita per salvare un uccellino, alla fine del libro vede un uomo in difficoltà che sta affogando ma non lo salva perché non ha tempo e deve andare al lavoro. È evidente che tra questi due estremi non è avvenuta una crescita positiva, bensì una crescita volta all’alienazione. “E sotto er monumento de Mazzini…” è la frase di una canzone popolare che viene trascritta da Pasolini in apertura del romanzo e si riferisce all’epigrafe sotto il monumento di Mazzini sull’Aventino (Mazzini viene chiamato in causa perché è stato il grande “fallito” del Risorgimento). Fin dall’inizio, la narrazione viene interrotta dall’irruzione del dialetto, della parlata popolare. Pasolini si riferisce spesso alla toponomastica, nomina con grande precisione quartieri e chiese che il lettore non conosce ma che suggeriscono con efficacia l’idea di questo contesto popolare. Emerge la contrapposizione tra l’ “Italietta” borghese e Riccetto. Nel secondo capitolo notiamo ancora di più il miscuglio dei dialetti: Riccetto parla una variante del romanesco mentre il suo interlocutore, un imbroglione napoletano, che insieme ai suoi compagni, anch’essi napoletani, parla il suo dialetto. In questo incontro appaiono da un lato l’organizzazione del piccolo truffatore, dall’altro la scelta di tratti fisici che ritornano nei film di Pasolini (ad esempio i tre napoletani sono sdentati). Pasolini si inserisce sicuramente tra gli autori realisti dell’Italia industriale insieme a Mastronardi e Volponi ma la realtà di cui parla non è stata ancora inghiottita dal consumismo e dall’industrializzazione che si erano già impadroniti della Vigevano di Mastronardi. Per questo ci viene forse da dire che Pasolini è meno pessimista di Mastronardi che già mostra una realtà alienata e devastata dal modello della scarpa. In realtà però Pasolini fotografa la stessa medesima catastrofe, tentando di illuminare con i suoi mezzi espressivi quelle zone della realtà italiana che cercano di resistere, ma ad una ad una le vedrà cedere e scomparire. il mondo popolare del Riccetto (tanto che ripubblicherà Ragazzi di vita con il glossario) così come scomparirà l’età del pane, perfino dal Terzo Mondo. Petrolio Anche in questo caso partiamo da un estratto degli Scritti Corsari. Si tratta di un articolo (vedi piattaforma online) che Pasolini scrive sul Corriere della Sera e che da molti viene ritenuto la causa scatenante della sua uccisione, andando ad avvallare l’ipotesi del complotto politico. Pasolini dichiara il suo essere scrittore e intellettuale che lo porta a conoscere anche in assenza di prove la realtà così com’è (anafora “io so”), quella realtà che si tace. Questo articolo è importante anche perché rivela il suo progetto di romanzo e fa riferimento all’espressione “romanzo delle stragi” che poi si concretizzerà in Petrolio. Con questo ultimo romanzo non si entra più nella realtà del pane ma in quella del potere, si penetra tra le maglie del potere per conoscerne gli sviluppi, sia sul piano collettivo che politico. Pasolini pone particolare attenzione al corpo e alla sue manifestazione (compreso il tema della sessualità) e anche questa sarà una delle caratteristiche fondamentali di Petrolio. Il titolo rivela il filo conduttore della storia italiana del dopoguerra intorno al quale ruotano interessi giganteschi e intorno al quale si sono dipanati i grandi poteri mondiali, fino elle stragi degli anni ’70. In Petrolio non abbiamo più tracce del mondo di Riccetto, ma siamo proiettati in maniera turbinosa nel nostro mondo che vede una devastazione identitaria dei personaggi e una delle prime conseguenze è il loro disorientamento sessuale. Se questa è la parabola che ci conduce da Ragazzi di vita a Petrolio, è una parabola in cui l’ultimo Pasolini deve riconoscere l’orrore del modello unico che schiaccia ogni orizzonte. Ritroviamo anche la parabola del Pasolini regista: da Accattone, che si dimostra una pellicola fraterna al mondo di Riccetto, a Salò, dove sconvolge la violenza del potere. Di quest’ultimo film la cosa più impressionante è il finale: un ufficiale dal binocolo guarda impassibile una scena atroce di tortura. Lo spettatore si rende conto che anche lui sta guardando immobile da quel binocolo, provando un piacere quasi sadico. È allora evidente che la violenza di Salò è solo apparentemente una violenza precisa e storicizzata (regime fascista) perché in realtà è la violenza che tocca la realtà contemporanea, è anche per questo, soprattutto per questo, che il film sconvolge e turba. Lo spettatore può essere infastidito da un film come Salò, così come il lettore può essere infastidito da un libro come Petrolio, ma la capacità di Pasolini è proprio quella di penetrare come un bisturi nelle contraddizioni del presente. Paolo Volponi Appartiene alla famiglia degli autori meno noti, benché sia stato un grandissimo scrittore. È nato nel 1924 a Urbino ed è morto ad Ancona nel 1994. Il luogo principale della sia attività non furono però le Marche ma i poli urbani e industriali dell’Italia del nord. Nel 1950 Volponi incontra Adriano Olivetti, un industriale che segna profondamente la sua vita. Siamo nel momento di ricostruzione post bellica e in una fase politica in cui i Italia e nel mondo si stanno fronteggiando le due superpotenze della Guerra Fredda: USA (modello di sviluppo capitalistico) e URSS (modello di sviluppo comunista). In questo contesto Olivetti propone una terza via: non è comunista e non approva il capitalismo sfrenato. La sua industria a Ivrea è un polo d’eccellenza innovativo perché coinvolge le maestranze operaie attraverso un compromesso tra lo sfruttamento dell’operaio dall’alto (capitalismo) e l’autogestione (modello sovietico). Secondo Olivetti è importante coinvolgere gli operai sia in senso produttivo sia in senso culturale. Addirittura Olivetti fonderà un partito politico, Movimento di Comunità, che non avrà molto successo ma che riflette la sua visione democratica del lavoro. Tra gli intellettuali accolti da Olivetti c’è proprio Volponi che inizia a lavoravi nel 1956 fino al ’71. Inizialmente è un collaboratore generale, poi dirige i servizi sociali e infine passa alla dirigenza delle relazioni aziendali. Il progetto di Adriano Olivetti subisce un brusco arresto nel 1960 quando l’industriale muore. Gli eredi non sono all’altezza di portare avanti il sogno di Adriano e nel giro di 10 anni un disilluso Volponi se ne andrà, per iniziare a lavorare alla Fiat di Torino. Da qui si dimetterà in seguito all’iscrizione al Partito Comunista, inviso alla famiglia Agnelli. Inizia la carriera politica di Volponi: nel 1983 viene nominato senatore e nel ’91 deputato al Parlamento nelle file del Partito di Rifondazione Comunista. Volponi è stato un grande protagonista intellettuale del secolo scorso, ha una personalità ben definita, tutte le sue opere sono legate dal filo conduttore dell’industria, strettamente legato alla sua diretta esperienza. Volponi è stato un importante romanziere ma anche poeta, la sua prima raccolta lirica si chiama Il ramarro e contiene un'illustre prefazione di Carlo Bo. Einaudi dal 1946 al 1994. Il suo romanzo d’esordio è Memoriale, apparso nel ’62 (appena dopo la morte di Adriano), ma era stato elaborato negli anni ’50. Il titolo originario doveva essere La fabbrica del dolore, poi modificato forse per volere della stessa Olivetti. Un altro personaggio che ha profondamente toccato la vita di Volponi è stato l’amico Pasolini con cui ha collaborato sulla rivista Officina. Nel ’65 appare il secondo romanzo di Volponi: La Macchina Mondiale, che ottiene subito il prestigioso premio Strega. Nel ‘74 viene pubblicato Corporale, nel ’75 Il sipario ducale, nel ’79 Il pianete irritabile, nell’81 Il lanciatore del giavellotto e nell’89 il più celebre Le mosche del capitale. Nel ’91 infine pubblica Le strade per Roma. Anche nel caso di Volponi, dobbiamo considerare il romanzo d’esordio e il romanzo d’arrivo tra i quale possiamo delineare un percorso in salita dal punto di vista stilistico e artistico, ma in discesa per quanto riguarda l’ottimismo relativo all’attività industriale italiana come ci suggerisce l’esito catastrofico de Le mosche del capitale. Fra i principali studiosi di Paolo Volponi va sicuramente citato Massimo Reffaeli, autore dei saggi Don Chisciotte e le macchine e Volponi: il coraggio dell’utopia. In entrambi i casi vediamo che si vuole presentare lo scrittore come un utopista, nel primo caso in modo ironico, nel secondo in modo positivo. Secondo
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