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APPUNTI di Letteratura Latina I (corso base) a.a. 2018-19, Appunti di Letteratura latina

Appunti completi relativamente al corso di Letteratura Latina I (base) tenuto dalla prof.ssa Bonadeo. Sono presenti, all'interno del documento, anche le traduzioni delle satire svolte in aula.

Tipologia: Appunti

2019/2020

Caricato il 16/06/2020

elisagalimberti
elisagalimberti 🇮🇹

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Scarica APPUNTI di Letteratura Latina I (corso base) a.a. 2018-19 e più Appunti in PDF di Letteratura latina solo su Docsity! LETTERATURA LATINA 1) Lezione del 26 febbraio 2019  Preparazione personale di due testi di cui si richiederà una traduzione ragionata e di cui verranno verificate le competenze linguistico-grammaticali. Per la metrica dell’Eneide (esametro): A. Traina, G. Bernardi Perini, “Propedeutica al latino universitario”, Bologna, Pétron, 2007 → cap. dedicato a “Prosodia e metrica”  Letteratura latina: inquadramento dei singoli autori nello spazio e nel tempo all’interno del genere letterario di appartenenza, cogliere le informazioni e collocarle in un disegno storico, osservando come ogni genere letterario si evolve nel tempo e le sue caratteristiche, nel modo in cui ciascun autore le declina.  Corso monografico: dispensa di testi (raccolti alla fine anche sulla piattaforma KIRO): i testi vengono tradotti a lezione e, in sede d’esame, verrà richiesto un commento critico-letterario sulla base di quanto visto a lezione. La satira, secondo l’Enciclopedia Treccani, è una composizione poetica che rivela e colpisce con lo scherno o con il ridicolo concezioni, passioni, modi di vita e atteggiamenti comuni a tutta l’umanità o caratteristici di una categoria di persone o di un solo individuo che contrastano o discordano dalla morale comune o dall’ideale dell’autore e sono perciò considerati vizi o difetti. Bersaglio: l’intento della satira è quindi colpire atteggiamenti che possono appartenere ad un singolo individuo o ad una comunità più ampia e contrastano con la morale comune o con l’etica individuale dell’autore satirico; può essere quindi una satira “ad personam” (un singolo individuo viene messo alla berlina) o un bersaglio più generale (categoria di persone affette da quel vizio), per cui si sceglie un “rappresentante” per bollare il vizio di cui è/sono affetto/i. Tono: il tono può essere comico/parodico, quindi volgere verso la caricatura, oppure violento/ aggressivo per colpire e fare del male. Intento: può esserci anche un intento più o meno moralistico → c’è la satira che mette in ridicolo solo per strappare un sorriso piuttosto che quella con l’intento preciso di sradicare o correggere questo vizio. Possiamo quindi avere una satira con una “pars destruens” o una satira con una “pars costruens” (atteggiamento virtuoso da proporre in alternativa a quello vizioso messo alla berlina). Forma: l’altra cosa importante è che la satira è una forma letteraria → noi usiamo il termine “satira” in due sensi: per esprimere il senso di forma letteraria, come appena detto, oppure in senso esteso per indicare una critica che può stare anche al di fuori di un’opera puramente letteraria (ad esempio, si può fare satira anche in una conversazione con un amico). Quindi noi possiamo distinguere tra la satira propriamente detta, cioè la forma letteraria, dal tono o intento satirico riscontrabili in un qualsiasi componimento letterario non deputato a fare satira (ad esempio una commedia) oppure possiamo avere un intento satirico anche al di fuori della letteratura, ad esempio in una conversazione, piuttosto che con la mimica, usando un certo tono di voce, ecc. Ciò che risulta più interessante per noi è la forma letteraria della satira che, per noi contemporanei, può essere declinata secondo varie forme:  composizione poetica (da un singolo componimento breve ad un intero poema satirico);  opere letterarie in prosa (come un romanzo satirico/pamphlet);  satira artistica laddove abbiamo una variazione diamesica (quando cambia il mezzo con cui ci esprimiamo, cioè quando passiamo dal mezzo della scrittura, cioè dalla satira letteraria, ad altre forme artistiche come le vignette satiriche, alcuni tipi di pittura, la satira televisiva…), cioè ci spostiamo dall’ambito della letteratura all’ambito di altre forme artistiche. La satira nel mondo latino (cosa pensavano gli antichi di questo genere letterario) Vedi SCHEDA 1 Diomede è un grammatico latino tardo (vive nella seconda metà del IV sec. d.C.), autore di un’ “Ars gramatica” (manuale di grammatica). All’interno di quest’ultima, sebbene sembri strano, compare un discorso sulla satira. A questo proposito, bisogna fare una precisazione sul fatto che il concetto di “grammatica” nel mondo antico aveva un significato più ampio rispetto al nostro: la scuola di un maestro di grammatica può essere paragonata in qualche modo alla nostra scuola media, con un livello quindi intermedio, a cui vanno coloro che sanno già leggere/scrivere; si insegna una teorizzazione delle nozioni che i ragazzi hanno finora appreso e ci si occupa di critica ed esegesi dei testi letterari. Ciò ci permette di comprendere perché all’interno di un manuale di grammatica vi sono anche considerazioni teoriche relative ad un genere letterario come quello della satira. Quindi, riprendendo quanto già detto, Diomede è autore di un manuale grammaticale articolato in tre libri (fonetica, fonologia, metrica e stilistica → in cui si occupa di questioni più letterarie). “Keil”: noi leggiamo questo testo dall’opera monumentale di Keil, in cui viene raccolto tutto ciò che resta dei grammatici latini. Normalmente si cita: Diom (Diomede), vol. 1°, 485 e seguenti sono le pagine del Keil in cui il testo si trova. “Si dice che la satira presso i Romani è un genere maldicente composto per criticare i vizi degli uomini secondo il carattere della commedia antica come scrissero Lucilio, Orazio e Persio” = al tempo di Diomede si considera satira presso i contemporanei un genere poetico (carmen, parola connessa etimologicamente a “cano” = cantare, quindi il carmen è qualcosa che si canta e quindi è una forma di canto poetico/poesia) ed è un genere maldicente (componimento che dice male di qualcosa o qualcuno) e ha un intento moralistico, mettendo alla berlina i vizi degli uomini; collega la satira latina ad un precedente letterario molto importante (non una filiazione diretta da un genere all’altro) ma un riconoscimento di affinità di toni e ripresa di elementi con la commedia arcaica, ovvero quella greca. Per commedia arcaica greca intendiamo la commedia ateniese di V sec. a.C., ovvero una commedia che ha fortissimi agganci con l’attualità politica del suo tempo (personaggi e intrecci che rappresentano forti allusioni alla vita politica del tempo, in cui quindi possono esserci forti spunti satirici). C’è poi un elemento particolare, ovvero la parabasi = una delle parti di cui si compone la commedia greca ed è un momento particolare in cui il coro si toglie la maschera. (secondo cui gli dei altro non erano che uomini distintisi per gesta eccelse, assurti poi al rango di divinità); “Edyfagetica”, opera chiaramente greca che significa “Prelibatezze, leccornie alimentari”, è forse il primo esempio di poesia esametrica latina e si rifanno alla poesia di Arc… di Gela; “Sotta” che fa riferimento al poeta greco Sotta; le “Sature”, di cui ci rimangono solo 134 versi, ma la caratteristica che le connota è la polimetria (le satire sono scritte in metri vari). La varietà sembra essere una delle caratteristiche che connotano la satira più antica di Ennio e Pacuvio rispetto alla satira di Lucilio, Orazio e Persio. Le caratteristiche che sembrano differenziare le due satire sono probabilmente il fatto che nella satira più recente sembra esserci una spiccata componente di aggressività che invece non sembra essere sottolineata a proposito della satira più antica mentre in quella più antica Diomede sembra accentuare maggiormente il carattere della varietà. Questa varietà fa probabilmente riferimento alla varietà metrica (che anche noi possiamo riscontrare in ciò che resta della satira di Ennio) e alla varietà di tipo contenutistico. Per questo, alcuni, pensando a questa “composizione composta di vari componimenti”, hanno ipotizzato che allora le satire di Ennio potessero essere un contenitore all’interno del quale era contenuta tutta la produzione di Ennio (al di fuori degli Annales e della produzione teatrale) → è una tesi oggi abbastanza tramontata, perché i testi manoscritti che ci hanno tramandato ciò che ci resta dell’opera di Ennio normalmente citano i titoli delle singole opere (non avrebbe senso averle tramandate con titoli individuali se invece facevano parte di un unico contenitore). Non sarebbe giusto stabilire una frattura così netta tra satira antica e moderna, ma in qualche modo c’è una linea di evoluzione anche se è pur vero che gli autori successivi a Orazio, dichiarando i propri ascendenti letterari, fanno sempre riferimento a Lucilio, non a Pacuvio o Ennio, come se il loro fosse un genere a parte. Ciononostante, è vero che effettivamente esiste una linea di continuità tra questi due tipi di satira, perché la polimetria non è solo una caratteristica della satira di Ennio, ma anche di Lucilio; anche la varietas (varietà di temi) è caratteristica delle raccolte di Lucilio, Orazio e Persio. Inoltre, la varietas viene identificato come tratto caratteristico della satira anche dalle varie etimologie della parola satira che Diomede ci viene a proporre subito dopo. 2) Lezione del 27 febbraio 2019 Dopo l’ipotesi genetica, Diomede ci dà una serie di spiegazioni sull’origine della parola “satira”. “La satira prende nome (sive = forma disgiuntiva, che introduce le varie ipotesi di Diomede) dai satiri perché, similmente, in questo genere di poesia, vengono dette cose ridicole e oscene le quali vengono proferite e vengono fatte come da dei satiri”. La prima ipotesi è quella che collega la parola satira al nome dei satiri: i satiri sono creature mitologiche semi- ferine, dal corpo in parte umano e in parte caprino o equino, sono immaginate come creature dei boschi, personificazioni della fecondità della natura, appartengono generalmente al dio Bacco, sono creature lascive spesso rappresentate nell’inseguimento delle ninfe (personificazione degli elementi della natura). Il riferimento probabilmente è a una forma del teatro geco di V sec. a.C. all’interno della quale erano presenti i satiri → dramma satiresco: normalmente, lo spettacolo tragico nella Grecia di V sec. consisteva di una trilogia drammatica e spesso erano collegate da un filone drammatico e, alla fine di tale trilogia, per alleggerire l’atmosfera, veniva mandato in scena un dramma satiresco che era uno spettacolo comico-parodico; all’interno di questo dramma satiresco, il coro era rappresentato dai satiri che mettevano in scena tragedie mitologiche con un linguaggio e con gesti grossolani. Quindi, qui Diomede sta proponendo una tipologia satira latina derivata dal greco “satyros” (si pronuncia satura), da cui deriva il nome più arcaico della satira in latino cioè “satura”. Poi, ad un certo punto, quando a Roma penetra la cultura greca si comincia ad adottare nella traslitterazione delle lettere greche si adotta la y greca → “satyra”, che nel latino colto si pronunciava “satura” mentre in quello popolare degli incolti si pronunciava “satira”, da cui si è diffusa anche la grafia con i semplice “satira”. Quindi Diomede propone un accostamento etimologico tra latino e greco e propone anche si spiegare l’origine della satira alla presenza di tali satiri e del dramma satiresco. È un’ipotesi che oggi è stata abbastanza scartata per due motivi: - un motivo etimologico: le due parole si somigliano, ma “satyros” è maschile, da cui è difficile ricavare il femminile “satura” o “satyra”; - in nessuno degli esempi di satira latina che ci sono rimasti non vediamo mai la presenza dei satiri. Tale ipotesi permetteva ancora un collegamento: secondo alcuni, sarebbe esistito uno spettacolo a Roma chiamato “satira”, che deriva da una testimonianza di Livio: Livio è uno storico di età augustea autore di un’opera monumentale (dovevano essere 142 libri) → “Ab urbe condita” = storia di Roma dalle origini al suo tempo; nei libri giunti fino a noi, Livio si concede anche excursus e digressioni e tra queste c’è la storia del teatro latino: lui ci parla di un’antica satira scenica come uno spettacolo con musica, mimica, canto, un testo scritto che però non ha intreccio unitario perché nasceva da improvvisazione, uno spettacolo di origine popolare, etrusca e poi esportata in territorio italico. Ci sono chiaramente punti di contatto tra satira letteraria (di Orazio, Persio…) e questa satira scenica di cui ci parla Livio: l’aggressività, l’invettiva, la varietà formale, Livio riferiva che tale satira era “in pleta modus” (=piena di ritmi) quindi c’era varietà metrica, elemento mimico-dialogico (dialogo + descrizione che rende quasi la mimica dei personaggi in scena) quindi ci potrebbe essere un collegamento tra la satira letteraria e quest’antica satira scenica. I sostenitori di questa presenza satira scenica importata dall’Etruria ci consentirebbe di collegare in qualche modo il greco “satyros” al latino “satyra”, perché in mezzo ci sarebbe un termine medio etrusco. Questa parola di origine etrusca si suppone indicasse concetti di pienezza/fecondità e sarebbe stata in origine connessa con rituali agresti di propiziazione della fecondità legati ai satiri e a figure del corteggio di Dioniso. Elementi chiave di questi rituali potrebbero essere stati la licenziosità del linguaggio e l’aggressività verbale che sarebbero passati dalla satira scenica a quella letterale. Anche questa ipotesi presenta difficoltà, perché tale satira scenica è in realtà una chimera: nessuno degli autori di satira che riflettono sulle origini della satira parla di questa satira scenica/drammatica; ad esempio, Orazio, parlando dell’origine della satira si ricollega alla tragedia arcaica greca → non c’è nessuna testimonianza latina al di fuori di Livio che ci parli di tale satira drammatica. La testimonianza di Livio è però molto sospetta: Livio la fa all’interno di un discorso più generale sulle origini del teatro romano che Livio pone tutto interno penisola italica mentre noi sappiamo che il teatro romano ha origine dal teatro greco (esistono palliata = commedia ambientate in grecia / togata = ambientata a Roma). Il primo dramma rappresentato a Roma è un testo tragico rappresentato da Livio Andronico, considerato il primo autore della letteratura latina, anche se lui di fatto è un greco quindi ci sono evidenti origini greche del teatro romano. Ecco perché la testimonianza di Livio risulta sospetta. Scartata la prima ipotesi di Diomede, verifichiamo quindi le altre ipotesi che, pur nella loro differenza, fanno perno sull’idea di varietà e miscela che, sia da un punto di vista all’origine metrico sia contenutistico, sono i tratti caratteristici della satira letteraria. “oppure la satira (dicta est dalla prima frase) prende nome dal piatto saturo/pieno che, pieno di molte e varie primizie (ablativo di abbondanza), veniva offerto agli dei nel tempio presso gli antichi e veniva chiamato saturo (concorda con quae, che concorda a sua volta con lance) dall’abbondanza e dalla saturazione del contenuto e di questo genere di piatti si ricorda anche Virgilio nelle Georgiche (meminit regge il genitivo ed è un perfetto logico con valore di presente perché ha un valore risultativo), quando dice così (L. 2, 194) in piatti profondi offriamo le viscere fumanti e porteremo piatti e focacce.” A questo punto abbiamo un collegamento del termine “satura” con il piatto pieno di primizie che in ambito rituale veniva offerto in sacrificio agli dei: anche Virgilio si ricorda di tale tradizione nelle Georgiche. Virgilio non è soltanto autore dell’Eneide ma anche di un poema epico didascalico in quattro libri che sono appunto le Georgiche, poema sull’agricoltura, definito epico perché scritto nell’esametro ma noi sappiamo che l’epica può essere declinata in vari modi (non solo eroica mitologica, ma anche storica o didascalica, un’epica che cioè vuole esporre una materia da insegnare / tratta di una materia tecnica come appunto quella dell’agricoltura). Qui ci dà quindi due citazioni del poema di Virgilio in cui si ricorda l’usanza di offrire agli dei piatti pieni. All’idea di pienezza, poi, si ricollega anche una terza ipotesi relativa, secondo Diomede, alla possibile origine della parola satira. “oppure ancora la satira prende nome da un certo genere di ripieno (farcimen da farcio) che, composto di molti ingredienti, Varrone dice essere stato chiamato satira. Questa informazione di Varrone si trova nel II libro del Questiones plautine. La satira consiste di uva passa (uvetta), orzo (polenta), pinoli cosparsi di miele. A questi ingredienti altro aggiungono anche granelli di melagrana (punico grana).” L’altra ipotesi, che fa ancora perno su un’idea di mescolanza/varietà, è che il nome della satira possa derivare da “satura”, ovvero il nome di un genere di ripieno la cui ricetta ci viene indicata da Varrone come questa rappresentata – Varrone è un erudito romano vissuto a cavallo tra II e I sec. a.C.; è autore di moltissime opere e quelle che si sono conservate sono un trattato sull’agricoltura in tre libri (“De rustica”) e una fonte per noi preziosissima di informazioni grammaticali ovvero il “De lingua latina”, un’opera sull’origine e sull’evoluzione della lingua con indagini sull’etimologia e notazioni grammaticale, di morfologia, sintassi, stilistica; era in 25 libri ma a noi sono arrivati solo i libri 5-10. Ma Varrone era anche autore di molte opere perdute, alcune delle quali relative alla commedia plautina, come quella citata: Plauto era forse il più grande commediografo latino vissuto tra III e II sec. a. C. autore di “palliatae” (tratte da modelli della commedia greca): era molto popolare a Roma per la sua comicità scoppiettante e il suo successo ha comportato che fin con un solo libro e anche oggi ci sono dei poeti satirici illustri e che un giorno saranno nominati”. Quintiliano parte col dirci che la “satira è tutta nostra”, nel senso di noi romani → Quintiliano fa rubriche di generi greci e romani a confronto e riconosce che in tutti i generi Roma dipende dalla Grecia, cioè non ha inventato nessun genere letterario; per la satira non è così, perché la satira è un’invenzione tutta romana. Diomede ha detto diversamente: ma sappiamo che non dobbiamo intendere la satira come una filiazione genetica perché in Grecia non abbiamo nessun genere poetico che può essere considerato satira. Bisogna distinguere quello che è la satira come genere letterario dagli spunti satirici di altri generi letterari deputati ad altro scopo (ad esempio la poesia giambica greca). Quintiliano rivendica orgogliosamente l’origine latina della satira. Poi non ci cita né la satira scenica né il primo tipo di satira ricordato da Diomede (cioè quella di Ennio e Pacuvio), ma parte direttamente indicando Lucilio come il primo che conseguì grande fama all’interno della satira → non significa che è stato l’inventor della satira, ma ha estimatori che lo antepongono agli altri poeti. Tra questi estimatori non c’era Orazio che diceva invece che Lucilio scorreva in modo fangoso, cioè lo accusa di mancanza di rifinitura formale: Lucilio scriveva tanto ma non si curava della forma. Quintiliano ha una posizione intermedia: non va d’accordo né con il giudizio negativo di Orazio né col giudizio estremamente positivo degli estimatori di Lucilio. Però Quintiliano dice che dopo Lucilio è venuto Orazio il cui stile è molto più sorvegliato e rifinito e quindi, interviene una nota valutativa nel catalogo, che ritiene Orazio come l’autore principale; dopo di lui viene Persio che acquista comunque grande fama nonostante abbia scritto un solo libro. Quintiliano tenta invece di non nominare i nomi degli autori contemporanei: c’erano un certo Turno e Giulio Eurupo che facevano satire al tempo di Quintiliano, ma non ci è rimasto nulla. Quintiliano non cita Giovenale perché Giovenale è più tardo. 3) Lezione del 28 febbraio 2019 Un’altra opera di Varrone andata perduta sono le “Satire menippee” → ha i caratteri della satira letteraria, ma prende il suo nome da un autore greco Menippo di Gadara, autore greco del III sec. a.C. che produce una satira diversa quindi non progenitrice della satira letteraria da cui si distingue per due caratteristiche fondamentali: - una di tipo contenutistico: la satira letteraria è caratterizzata da una cifra fondamentale di realismo; la satira menippea unisce a spunti di critica anche una componente fantastica, assente nella satira letteraria. - una di tipo formale: è un prosimetro (abbinamento di prosa e poesia). Naturalmente, quando Quintiliano fa riferimento a questo antico genere di satira sta sicuramente pensando alla satira menippea, quindi un filone distinto da quella letteraria. Oltre a Varrone, a Roma praticano la satira menippea Seneca (Apokolo?) → Seneca ci è noto per la produzione filosofica e per la produzione tragica (abbiamo tragedie, per la maggior parte coturnatae, una sola pretexta ma di attribuzione dubbia): è una produzione molto interessante perché rappresenta un omento di reminiscenza del teatro tragico latino, che aveva avuto un momento di grande fioritura e si era poi interrotta. La tragedia di Seneca va legata alla produzione filosofica: qualcuno ha parlato di drammi a tema, quasi come esemplificazione delle teorie filosofiche di Seneca. Sono due facce complementari della produzione di Seneca: la teoria cardine è quella del dominio delle passioni e di questo trattano molte delle sue opere filosofiche. La tragedia mette in scena il trionfo delle passioni e le nefaste conseguenze che esse possono portare. Tra questi due grossi ambiti trova spazio anche un’operetta comico-satirica, ovvero “Apokolokyntosis” (“Usus de morte de Claudii”) = opera che tratta della morte e divinizzazione dell’imperatore Claudio (era tradizione a Roma che il princeps venisse, dopo la sua morte, divinizzato). Questa operetta mette in ridicolo la divinizzazione dell’imperatore Claudio con il quale Seneca aveva motivi di risentimento poiché Claudio lo aveva esiliato da Roma; già dal titolo capiamo che l’intento è satirico. Si discute su cosa possa significare il titolo: tradotto o come la “zucchificazione dell’imperatore” o “divinizzazione di uno zuccone”. Si fa una parodia delle scene epiche: c’è un concilio degli dei (scena tipica della mitologia in cui gli dei hanno un grande ruolo nel determinare le sorti delle vicende umane), l’anima di Claudio morto sale al cielo aspettandosi di essere accolta per la sua divinizzazione e invece gli dei lo rimandano agli Inferi dove viene condannato con una pena del contrappasso, cioè ad essere schiavo di un liberto (in vita Claudio aveva dato nella sua corte grande spazio ai liberti) e ad essere condannato a giocare costantemente a dadi in un’operazione vana (con bussolotto sfondato) perché in vita era stato un accanito giocatore. È un’opera di chiaro intento satirico, anche se è chiaro che la cifra non sia di osservazione realistica ma fantastica; soprattutto, l’altra caratteristica importante è quella di essere un prosimetro. Quintiliano quindi inserisce anche il filone della satira menippea come un filone a parte rispetto alla satira di cui ci occupiamo. Orazio, in una delle satire (1-4), ci racconta qualcosa sull’origine della satira. Prima però dedichiamo una piccola parentesi all’ESAMETRO. La metrica antica si differenzia rispetto alla nostra metrica italiana per una caratteristica fondamentale: la metrica italiana è governata dal principio del cosiddetto isosillabismo (l’identità di un verso è definita dal fatto di avere sempre lo stesso numero di sillabe). La metrica antica, invece, per lo più è una metrica quantitativa, in cui cioè quello che conta per definire l’identità del verso non è il numero delle sillabe, tranquillamente variabile, ma la quantità delle sillabe, ovvero l’alternanza di sillabe lunghe e sillabe brevi disposte secondo particolari configurazioni che noi chiamiamo piedi o metri, che sono le unità ritmiche del verso. Il piede base dell’esametro è il dattilo, tant’è che noi parliamo di esametro dattilico, composto da una sillaba lunga e due sillabe brevi (daktylos, in greco, vuol dire dito = falange lunga + due brevi): _ U U Un esametro è una esapodia dattilica catalettica in disyllabum → esapodia significa che l’esametro è composto da sei piedi; dattilica perché il piede base dell’esametro è il dattilo, composto da una sillaba lunga e due sillabe brevi e ciò significa che l’esametro è composto da 6 dattili: _ U U | _ U U | _ U U | _ U U | _ U U | _ U U | → questo schema base ammette talvolta sostituzioni → il dattilo teoricamente può essere sostituito dallo spondeo, un piede che si compone di una sillaba lunga + un’altra sillaba lunga: _ _ → sostituzione razionale, perché è una sostituzione in cui torna il conto dei tempi primi (il tempo primo o mora è la sillaba breve, cioè l’unità minima di cui si compone il piede). Per convenzione faccio valere la mora; la sillaba lunga equivale a due tempi primi (il doppio della sillaba breve). Se facciamo i conti, due sillabe brevi + una sillaba lunga conta 4 tempi primi; Posso mettere spondeo o dattilo ma i tempi primi sono sempre uguali. In qualsiasi sede il dattilo può essere sostituito dallo spondeo: quello che definisce l’identità del verso non è il numero delle sillabe (non conta il numero delle sillabe, ma la disposizione/alternanza di sillabe brevi e lunghe secondo particolari figure che noi chiamiamo “piedi”). La differenza tra piede e metro nell’esametro non c’è, perché si equivalgono; in altri metri, come quelli a base giambica (che hanno come base un piede formato da una breve e una lunga), c’è differenza. Un’ulteriore differenza tra dattilo e giambo è il fatto che nel dattilo come nello spondeo noi abbiamo un ritmo discendente; nel giambo abbiamo invece un ritmo ascendente. La parte tonica del piede è sempre rappresentata nel dattilo come nello spondeo dalla prima lunga del piede. L’accento corrisponde di fatto ad un innalzamento del tono della voce. L’accento per noi è prevalentemente di tipo intensivo, cioè io per pronunciare la sillaba tonica metto una maggiore forza espiratoria. L’accento antico, invece, è un accento prevalentemente musicale, cioè immagino il mio verso come un pentagramma in cui le sillabe toniche corrispondono alle note più alte mentre quelle atone alle note più basse. Quindi, in un piede come il dattilo il ritmo è discendente: la voce parte alta e poi scende → ritmo discendente. In un piede come il giambo abbiamo all’inverso un ritmo ascendente (la voce parte bassa e poi sale). Di solito si fa una distinzione: si chiama arsi la parte tonica del piede e tesi la parte atona → la terminologia deriva dal greco: arsi = innalzamento; tesi = abbassamento [su alcuni manuali la terminologia è invertita perché chi chiama all’inverso fa riferimento all’idea del solfeggio, ovvero battere e levare del piede → abbasso il piede con la sillaba tonica, lo alzo in corrispondenza di quella atona]. Normalmente lo spondeo si trova in sostituzione del dattilo in tutte le sedi, è più raro che si trovi in quinta sede e quando succede tutto l’esametro viene detto spondaico, ovvero un esametro che presenta uno spondeo in quinta sede. Il caso di esametri interamente spondaici è raro e in questo caso sono detti olospondaici o viceversa possiamo avere il caso di esametro tutto fatto di dattili e quindi detto olodattilico. Lo schema teorico in realtà non si realizza mai perché l’ultimo piede è sempre composto da due sillabe → se non c’è la sostituzione dello spondeo, nell’ultimo piede interviene sempre una catalessi dell’ultima sillaba breve del dattilo → in disillabum perché lascia poi due sillabe: l’ultimo piede ha sempre due sillabe che possono essere o uno spondeo o ciò che rimane del dattilo dopo la catalessi dell’ultima sillaba, cioè il trocheo (piede composto da una sillaba lunga e una breve) → una lunga e una lunga = spondeo; una lunga e una breve = trocheo. COME AVVIENE LA SILLABAZIONE IN LATINO La sillabazione in latino avviene grossomodo come in italiano, tenuto conto però del fatto che in latino quando noi abbiamo un gruppo di due consonanti, queste due consonanti vengono sempre tra loro separate in due sillabe diverse anche quando in italiano abbiamo gruppi consonantici che vanno sempre insieme. es. agnus (=agnello) → ag | nus; discere (=imparare) → dis | ce | re; magister (=maestro) → ma | gis | ter. Fa eccezione il gruppo muta (consonante occlusiva) + liquida (L, R): esso può infatti avere trattamenti diversi/oscillanti. es. patrem (=padre) → pat | rem oppure pa | trem. Questa distinzione per noi è abbastanza  2o verso: anche qui è una semiquinaria o un terzo trocheo → c’è una cesura maschile quindi è una semiquinaria;  16o verso: la voce cade due volte → siamo nella situazione tra le più frequenti nell’esametro in cui ho semiternaria o semisettenaria: dopo tre mezzi piedi, ho la semiternaria + dopo quattro mezzi piedi, ho 3+4 mezzi piedi quindi mi trovo di fronte a una semisettenaria;  34o verso: ho due pause: una dopo “cornu” e l’altra dopo “longe fuge”→ 3 arsi e, dopo l’arsi del terzo piede, ho una cesura pentemimera o semiquinaria mentre dopo “longe fuge” vengono isolati il quinto e il sesto piede. ORAZIO (65 a.C. - 8 a.C.) Orazio è un autore di età augustea, originario di Venosa (colonia romana al confine tra le regioni dell’Apullia e della Lucania) ed è figlio di un liberto (ovvero uno schiavo affrancato) → le origini definiscono in buona parte l’identità del poeta satirico: un poeta che fa poesia che implica aggressione personale può o non può permettersi certi toni a seconda della sua posizione sociale. Cionostante, il padre fa di tutto per garantirgli un’educazione ottimale, quindi ricevuta una prima educazione a Venosa, Orazio si trasferisce a Roma dove frequenta la scuola del maestro Orbilio (soprattutto per l’aggettivo “plagosus”, che Orazio ha coniato nei suoi confronti). Inoltre, Orazio riuscirà a permettersi anche un viaggio di formazione in Grecia (considerato molto importante per le persone che volevano acculturarsi). È anche un momento importante per il suo coinvolgimento politico perché la Grecia è il quartiere generale dei cesaricidi, ai quali ideali di “libertas” Orazio si avvicina, soprattutto allo schieramento di Bruto fino alla resa di Lippi → confisca dei beni. Nel 38 arriva un momento importante: presentazione a mecenate da parte di Virgilio → ciò gli consente di entrare nel circolo cosiddetto di Mecenate; questo Mecenate contemporaneo di Orazio è un notabile nobile di Roma che, nonostante il suo rango, ha scelto di rimanere estraneo alla vita politica attiva nel senso che non ricopre mai nessuna carica in via ufficiale ma è consigliere di Ottaviano e, in qualche modo, tira le fila da dietro le quinte. È un personaggio paradossale perché pur essendo promotore di tutto il programma di recupero della mos maiorum, è in realtà un personaggio, nella vita personale, dedito al lusso, ai piaceri, è un esteta, ha il culto dell’amicizia, è autore di una poesia di tono minore, di carattere privato, di nessun impegno sul piano politico… viceversa si fa promotore di una letteratura ufficiale, con temi impegnati come veicolo e specchio dell’ideologia augustea (e da lui prende il nome il termine “mecenatismo”), raccogliendo intorno a sé una cerchia di letterati/intellettuali a cui elargisce favori anche di natura economica, tra cui Virgilio e poi lo stesso Orazio. Grazie a questo ruolo, Orazio potrà dedicarsi alla sua carriera e rifiutare anche la proposta di Augusto di diventare suo segretario personale. Quindi la sua esistenza trascorrerà fino alla morte nell’8 a.C. La prima opera sono i cosiddetti “Epodi”, ovvero 17 componimenti stesi tra 31 e 30 a.C. e usciti probabilmente nel 30 insieme al secondo libro delle “Satire”. Il termine “Epodi” indica un tipo di componimento in cui a un verso più breve fa seguito un verso più lungo (coppia di due versi, che possono ripetuti all’infinito). Il ritmo prevalente è il giambico e i metri prevalenti sono quelli che hanno come base il piede giambico, tant’è che Orazio stesso, riferendosi alla sua produzione, li chiama “iambi” (= giambi), probabilmente anche per rifarsi ad alcuni dei suoi modelli di poesia greca arcaica, ovvero poesia di VII-VI sec. a.C.. Il suo modello in particolare è Archiloco, un poeta greco arcaico, di poesia giambica: la poesia giambica greca è caratterizzata essenzialmente dall’invettiva, dall’aggressività (“skom” in greco); naturalmente, Orazio lo riprende, dicendo di aver ripreso gli spiriti di Archiloco, i ritmi di Archiloco ma non le sue res (Archiloco faceva una poesia legata alla vita politica del suo tempo e della Grecia). Orazio fa riferimento a Roma, mantiene il tono aggressivo ma non può permettersi, a differenza sua, la violenza espressiva ad personam. Abbiamo anche epodi di carattere erotico, civile nonché di carattere gnomico (dal greco “gnome” = opinione → un componimento di carattere sentenzioso, in cui si esprime e si commenta un’opinione); il tutto è racchiuso in un contenitore che si apre con un componimento celebrativo dedicato proprio a Mecenate. Un altro punto di vista importante è la produzione di “Satire” di cui abbiamo 2 libri → il primo di 10 componimenti pubblicato nel 35 e il secondo di 8 componimenti pubblicato nel 30 a.C. Questa volta parliamo di componimenti tutti esametrici. Ancora una volta, l’invettiva qui è decisamente smorzata, ancora più smorzata rispetto agli “Epodi”: qui i bersagli si fanno ancora più sfumati; spesso sono personaggi fittizi o rappresentanti di una categoria per colpire il vizio di cui la persona è portatrice → l’intento è quello di castigarli → non è una satira graffiante e nemmeno particolarmente moralistica. La cifra dominante è quella del realismo con il quale si osserva la realtà, anche con un sorriso per bollare dei vizi, ma cercando di andare anche a correggerli (non c’è solo una pars destruens ma, soprattutto nel primo libro, un tentativo di pars costruens). È una morale di buon senso che si basa su due ideali: l’ideale del giusto mezzo e la fuga dagli eccessi (“in medium stat virtus”), quindi la ricerca della medietà che rappresenta una condizione di equilibrio, e l’altro ideale è quella dell’autarchia (il senso è quello di “bastare a se stessi”, “essere contenti di ciò che si ha”, “essere autosufficienti” = non andare alla ricerca di nulla all’esterno e quindi non farsi travolgere da passioni, fonti di turbamento, ma raggiungere invece un equilibrio interiore). Le tematiche all’interno della satira sono poi varie (la varietas è una delle cifre definitive della satira): si passa da satire di invettiva a quelle di carattere autobiografico (in cui Orazio riflette sulla propria condizione sociale → l’osservazione dell’ego è anche un modo per riflettere sulla società stessa), quella odeporica (cioè la satira di viaggio, un resoconto di viaggio → il viaggio è un pretesto per osservare le diverse realtà con le quali si viene a contatto durante il viaggio) oppure quella gastronomica (lunghe satire in cui abbiamo elenchi di bevande e portate ma non fini a se stesse: c’è ancora un intento moralistico legato al fatto che il lusso alimentare rappresenta una manifestazione del vitium e naturalmente qui ci sono osservazioni alla base del carattere sociale sulla base della passione per il lusso). C’è quindi un’evoluzione tra primo e secondo libro delle Satire: nel primo, prevale la componente di pars costruens ma queste certezze sembrano venir meno nel secondo in cui si nota una maggiore incertezza di Orazio, che ritira in parte questa voce satirica: viene meno la componente autobiografica e si lascia più spazio agli interlocutori: un tratto fondamentale della satira oraziana è quella di essere di carattere dialogico, basata sul contrasto tra Orazio e una voce di un interlocutore reale o fittizio → caratteristica diatribica con riferimento alla diattriba (= modalità di divulgazione filosofica che ha le sue origini nella filosofia greca ellenistica che si diffonde a livello di tematiche filosofiche: non si fonda sull’esposizione, ma sull’argomentazione basata sull’elemento dialogico/sulla conversazione/sulla discussione con l’interlocutore reale o fittizio che pone domande). Se nel primo libro c’è quindi predominanza della voce satirica, nel secondo libro c’è invece predominanza dell’interlocutore e un arretrare della voce autoriale la cui voce satirica viene smorzata. L’altra caratteristica stilistica importante, oltre a tale struttura dialogica, è quella che lui stesso, nella satira 1, 4 definisce come il “sermo” (= una forma di conversazione che si distingue dalla prosa soltanto per l’uso del metro), distinguendola di fatto da quella che è la poesia. Naturalmente dobbiamo prende con le pinze tale affermazione: se non ha l’ispirazione dei grandi generi, non dobbiamo comunque pensare che si possa parlare di negligenza prosastica; infatti i modelli di Orazio sono la poesia greca di epoca ellenistica e poesia alessandrina, dove lavorano un gruppo di intellettuali, il cui rappresentante più importante è Callimaco di Cirene, promotore di una poesia estremamente curata e raffinata nonché elitaria. Naturalmente Orazio aderisce a tali ideali. Con il titolo di “sermones” lui designa il complesso di due sue opere: le “Satire” e le “Epistole. Le “Epistole” sono epistole poetiche, cioè scritte in poesia esametrica (si discute se siano reali piuttosto che fittizie, probabilmente a volte inviate anche come omaggio ai destinatari). Non si tratta di una novità assoluta: tracce di poesia esametrica si trovavano anche in Lucilio; tuttavia, Orazio, con tale raccolta, è l’introduttore di questo nuovo genere. Esse sono organizzate in due libri: il primo è pubblicato nel 20 a.C. e consta di 20 componimenti, incorniciati di una prima lettera di dedica a Mecenate e nell’ultima il topo del commiato dell’opera (invocazione alla lettera stessa, nella quale si immagina l’accoglienza presso il pubblico). Le tematiche sono varie, alcune di carattere occasionale (invito a cena, richiesta di informazioni per un soggiorno fuori Roma o su cosa stiano facendo gli amici…), altre di carattere gnomico (contrasto tra vita di città e quella di compagna, tra la vita turbolenta di Roma e il suo piccolo podere in Sabina…). Il secondo libro è composto tra il 19 e il 13 a.C. ed è stato pubblicato postumo: qui abbiamo soltanto due epistole → la prima è rivolta ad Augusto e vengono affrontate tematiche di carattere ?: Orazio fa una critica all’arcaismo (passione per poeti arcaici che si sta diffondendo) e traccia uno sviluppo della letteratura a Roma che è per noi una fonte preziosa di informazioni mentre la seconda epistola è di carattere poetologico ma in tema più personale (addio alla poesia da parte di Orazio). Si discute poi se faccia parte del secondo libro l’Ars poetica, la cosiddetta Epistola ai Pisoni, in cui riflette sulla poesia drammatica. L’altra produzione è costituita dai “Quattro libri ?”: componimenti lirici in metri vari pubblicati nel 23. Poi c’è una lunga pausa: Orazio per un po’ non si dedica alla poesia lirica → tornerà a fare poesia nel 17 su richiesta di Augusto per la celebrazione dei nubi secolari → il “Carmen seculare” è un canto popolare interpretato da un coro di 27 ragazzi e 27 ragazze per l’invocazione della divinità al fine di assicurare fortuna e prosperità alla città di Roma. Dopo questa ripresa a distanza della lirica, giungerà, nel 13 a.C., un quarto libro di odi con 15 componimenti di cui la caratteristica è la varietas, sia metrica che contenutistica → punti fermi: odi iniziali e conclusive dei singoli libri (per la posizione marcata) in genere dedicate a poeta greco di epoca ellenistica Callimaco, propugnatore di una poesia estremamente raffinata e breve (ideale di brevitas → in greco si direbbe “oligostichìa” = pochi versi, al contrario del poema longum), che permette proprio la ricerca del preziosismo. La brevità del componimento che va di paripasso con la rifinitura è ovviamente in un rapporto di proporzionalità inversa con il tempo di gestazione → agrypnìa (poeta che passa la notte insonne per realizzare il lavoro finché non raggiunge i valori di perfezione contenutistica e formale). Ecco perché Lucilio, che rinuncia a questi ideali, produce componimenti fangosi e nello scorrere limaccioso c’è un riferimento a Callimaco che aveva usato l’immagine del grande fiume Eufrate che scorre con una grandissima corrente ma limacciosa, con fanghiglia e a questa Callimaco oppone la propria poesia del poema piccolo e rifinito che paragona, sempre con la metafora dell’acqua, a una spilla che zampilla leggera nell’acqua. Quella dell’acqua è l’immagine poetica per eccellenza, poiché è fonte di ispirazione (i poeti, sul Monte delle Muse, bevevano dell’acqua per l’ispirazione). Labor indica la fatica della rifinitura, con la quale si identifica la buona scrittura. A questo punto arriva un antagonista di Orazio e parte la struttura dialogica della satira in cui abbiamo l’interlocutore che pone obiezioni e dà occasione ad Orazio per ribadire le sue teorie poetologiche. “Crispino mi provoca cento a uno (minimo), prendi le tavolette, se ci stai, anche io le prenderò. Ci siano dati un luogo, un’ora e dei testimoni. Vediamo chi di noi due riesca a scrivere di più. Gli dei hanno fatto bene / ringrazio gli dei per il fatto che mi hanno fatto di animo modesto (pussilli animi = genitivo di qualità) che parla di rado e assai poco (loquentis = grammaticalmente concordato con animi, ma dal punto di vista logico concorda non con l’animo ma con Orazio → figura retorica dell’anallage = abbiamo un termine che grammaticalmente si accorda con un altro termine ma dal punto di vista del significato è collegato ad un termine diverso da quello con cui concorda) ma tu imita (imitare = imperativo dal verbo deponente) pure come preferisci l’aria chiusa nei mantici di pelle (auras = plurale poetico / ircinis = di pelle animale) che soffia senza posa (laborantis = desinenza arcaica is in luogo di es per accusativo plurale) finché il fuoco riesca a fondere il ferro”. Crispino è l’interlocutore che arriva improvvisamente, un filosofo storico e versificatore dozzinale, contro il quale Orazio si era opposto anche in altri componimenti. Crispino lancia una sfida ad Orazio per chi riesca a scrivere di più → sostenitore della teoria poetologica opposta ad Orazio. “Minimo” è un ablativo del superlativo “minimus” e presuppone la presenza di un sostantivo. I commentatori antichi ci danno diverse spiegazioni; abbiamo due commenti di età tardo-antica: uno del III sec. d.C. di un erudito e grammatico che è Porterione e l’altro risale al II sec. d.C. ed è di Acrone (spesso indicato come Pseudo-Acrone perché il testo come ci è arrivato non è un originale ma frutto di rimaneggiamenti e aggiunte successive). Qeusti due commenti tardo-antichi già ci danno due possibili interpretazioni:  sottintende “minimo dito” = sollevare il dito mignolo in senso di sfida come a dire “io anche solo con un mignolo ti posso sbaragliare”;  sottintende “minimo pretium” a intendere la posta in gioco della scommessa e Crispino è talmente sicuro di vincere che è come se dicesse “Orazio tu metti pure poco e io di più, tanto sono sicuro di vincere”. È una sfida regolamentata: innanzitutto lo invita a prendere le tavolette (tavolette cerate sulle quali si scriveva con lo stilo → supporto scrittorio utilizzato per una scrittura di consumo, quindi è un supporto provvisorio) e poi a fissare un luogo, un’ora e dei testimoni che fungano da arbitri, per vigilare sulla regolarità della sfida (perché nessuno dei due bari portando versi già scritti → è una gara di velocità e quantità). Orazio è molto attento, anche nella costruzione del verso, a dimostrare la sicurezza di Crispino che si traduce nel fatto di voler fare una sfida in fretta, come vediamo nella ripetizione di “accipe” (imperativo) e “accipiam” (futuro) → qualcuno parla della figura del poliptoto = lo abbiamo quando c’è una stessa parola che ricorre in due casi diversi a breve distanza (deriva dal greco “poli” = molto + “ptosis” = caso → una stessa parola che ricorre, a breve distanza, in due casi diversi); l’idea di concitazione è data anche dall’asindeto “locus”, “ora”, “custodes”… = elenco incalzante di questi oggetti coordinati tra loro per asindeto (parliamo di polisindeto quando abbiamo una congiunzione, mentre asindeto quando manca la congiunzione) → ritmo veloce, effetto di accumulo e accumulazione a rendere anche a livello fonico la concitazione di Crispino. Finita la battuta di Crispino, Orazio ribadisce la sua teoria: ringrazia gli dei per averlo fatto “di animo piccino (forma di anastatement che va letto in chiave anticastica → Orazio si sminuisce in realtà per innalzarsi) che parla poco (ma bene) e di rado” → poetica del carmen breve. Un’altra metafora interessante è quella dei mantici che soffiano senza posa finché il fuoco riesce a far liquefare il ferro e Orazio dice a Crispino di imitarli pure: è una metafora tratta dalla metallurgia → l’aria è un’altra metafora tipica per indicare la poesia → l’ispirazione è il soffio divino che il poeta accoglie in sé ricevendo ispirazione dalla divinità. Anche l’immagine della metallurgia forse nasce dal modello di Orazio con Callimaco: la fucina di chi lavora i metalli come metafora di fucina poetica → il referente è Callimaco perché anche lui di fatto aveva designato i suoi antagonisti, cioè sostenitori di una poeta opposta alla sua, chiamandoli “telchini” (in greco demoni maligni che erano però ritenuti abilissimi lavoratori di metalli). In questa immagine dei mantici che soffiano senza posa c’è quindi una precisa allusione al modello di Callimaco alla cui poetica sta dichiarando di aderire: anche qui ci sono sparse nel lessico una serie di allusioni e termini che ci rimandano all’idea del piccolo (pusilli, raro, perpauca) e quindi all’idea del carmen breve. Inoltre, laborare (idea del labor/fatica e rifinitura poetica) e molliat (termine che assume una connotazione poetologica interessante = l’idea di una poesia molle per intendere una poesia leggera → il carme di Orazio non è solo breve di dimensione, ma si appunta anche su argomenti più leggeri e disimpegnati). Opposizione di “mollis” e “durus” (accusa verso Lucilio al v.8). In superficie sembra un’immagine riferita alla metallurgia, mentre scavando sembra un’allusione al carattere poetologico. Viene poi proposto un altro antimodello di Orazio, ovvero Fannio. “Beato Fannio che divulga i libri e il ritratto di propria iniziativa (de latis divulgati taxis = letteralmente un ablativo assoluto) mentre invece (cum avversativo) i miei scritti non li legge nessuno, gli scritti di me che temo/esito a recitare i miei versi in pubblico per questo motivo perché ci sono persone alle quali questo genere (di poesia) non piace affatto giacché i più (pluris = forma arcaica di accusativo plurale) sono degni di biasimo”. Fannio lo ricaviamo da indizi interni a Orazio (dalla Satira 1,10): Fannio è un poetastro che non gode di nessuna stima da parte di Orazio ed egli si fa propaganda da solo cioè porta le casse che contengono i suoi libri con il suo ritratto (per indicare l’autore stesso) alle botteghe del libraio senza che nessuno glielo abbia chiesto e poi se ne sta lì a rimirare mentre vanno in vendita a bocca aperta. Qualcuno è ancora più ironico e intende che “deferre” non voglia dire solo portare dal libraio, ma addirittura occuparsi personalmente della vendita. Qualcuno ha dato invece interpretazioni ancora diverse: qualcuno ritiene che le casse e i ritratti siano stati addirittura esposti in una biblioteca pubblica (improbabile perché sappiamo per certo che al tempo di orazio l’unica biblioteca pubblica era quella fondata da Asinio Polione, fondatore della prima biblioteca pubblica; egli l’aveva ornata solo e soltanto con ritratti di grandi autori del passato, quindi è improbabile che ci fosse Fannio). L’ipotesi più probabile è quindi che Fannio sia uno che si fa propaganda da sé. Orazio si contrappone a lui perché dice che nessuno legge i suoi scritti e ha anche esitazione a recitarli in pubblico (la pratica della recitazione pubblica dell’opera a volta precedeva anche la sua pubblicazione). Orazio ci dice che lui esista a farlo non perché tema degli insuccessi, ma il discorso è qui di sfiducia nei confronti del pubblico: aristocraticamente, ha sfiducia nel volgus che non è in grado di apprezzare la sua opera: Orazio è molto aristocratico e anche questo il suo modello è Callimaco, che sapeva di scrivere una poesia per pochi (Fannio odia tutto ciò che è volgare e diffuso, per fare invece una poesia per pochi eletti, per un’élite). Orazio ha sfiducia nella gente perché essa basa al fatto che sia una poesia moralistica e non va a genio alle persone che si sentono punte dal vivo da questa poesia. “prendi/scegli uno qualsiasi (letteralmente “uno che tu vuoi”) in mezzo alla folla e è tormentato o per l’avidità o per un’ambizione misera (dal punto di vista stilistico: variatio = variazione del costrutto, perché abbiamo laborat con due compl.di causa con variazione di costrutto per esprimere il medesimo complemento) questo impazzisce per l’amore delle donne sposate, questo invece per l’amore dei fanciulli, questo lo rapisce lo splendore dell’argento, va in estasi davanti ai bronzi e questo baratta merci (mercante che si sposta) da dove sorge il sole fino a quel luogo in cui intiepidisce la regione vespertina/occidentale (immagine per indicare i punti cardinali: da oriente, dove il sole sorge, a occidente, dove tramonta, quando compare il vesper = stella della sera) anzi si getta a capofitto (letteralmente a testa in giù) attraverso i pericoli come polvere sollevata dal turbine atemendo di perdere qualche cosa dal suo capitale (summa = abl. di provenienza) o per ampliare il proprio capitale (“Timeo ne non / ut” + congiuntivo). Tutti costoro temono i versi e odiano i poeti”. Dopo averci detto che la gente non ama Orazio, ci fa una rassegna di tutti i vizi della gente che sono quelli colpiti dalla satira, scanditi dalla ripetizione del pronome dimostrativo “hic, haec, hoc” (anafora) in poliptoto. Compare il motivo frequente della condanna della mercatura perché connessa all’idea di avidità, ricerca di lusso e quindi connessa all’idea di corruzione morale. Ovviamente, tutti questi uomini odiano i poeti (odere = desinenza “ere” arcaica per “-erunt” cioè 3 a persona del perfetto → pur essendo un perfetto è solo stesso piano del presente perché viene da un verbo “odi, odisti, odiste”, cioè verbo difettivo che ha solo le forme del perfetto, che noi traduciamo col presente perché è un perfetto logico: non indica un’azione interamente conclusa nel passato, ma un’azione passata che ha effetti che perdurano ancora nel presente → per accentuare il risultato presente di un’azione passata). Il riferimento è ovviamente al genere della satira che sta in odio a queste persone poiché ne smaschera i vizi. Noi leggiamo Lucilio tramite l’edizione di riferimento di Friedrich Marx che appunto ha raccolto i “Lucili carminum reliquiae”, un’edizione in 2 volumi pubblicata a Lipsia per gli editori Teubmer nel 1904-05. All’origine dovevano essere 30 libri di satire, quindi un’opera molto corposa, forse non tutta pubblicata dallo stesso Lucilio in vita. Diciamo che la scansione che ammettiamo dovesse avere quest’opera era dovuta a un’edizione postuma fatta dal grammatico Valerio Catone nel I sec. d.C. ha organizzato questo materiale secondo un criterio metrico. Egli quindi distingueva:  1-21: in esametro;  22-25: distici elegiaci (esametro + pentametro);  26-30: metri dattilici e trocaici (hanno come base il piede trocheo) → i metri giambici e trocaici erano quelli tipici della commedia, sia greca che latina. Tale divisione non corrisponde alla cronologia dell’opera. Si pensa che i componimenti degli ultimi libri siano stati in realtà i primi ad essere stati composti, probabilmente quelli che lui stesso pubblicò in vita; si ritiene che invece sia approdato alla scelta dell’esametro nell’ultima fase della sua produzione. Probbailmente si è rivolto all’esametro con intento polemico e oppositivo alla tradizione alta dell’epica e, molto probabilmente, scegliere l’esametro abbassandolo a tematiche e stili molto più quotidiani e meno elevati, ha un intento di rottura nei confronti di questi generi alti. Il titolo dell’opera è “Sature”, ma probabilmente non è un titolo suo in quanto egli non si riferisce mai all’opera in questo modo ma probabilmente gli è stato attribuito dalla tradizione successiva. Viceversa, abbiamo casi in cui Lucilio si riferisce all’opera con i termini di “Poema”, “Sermones” o “Ludus ac sermones” (a sottolineare il carattere dialogico e giocoso/scherzoso di questi componimenti). Abbiamo anche testimonianze successive che ci dicono che Lucilio avrebbe utilizzato anche il termine greco di “schédia” nel significato di “improvvisazioni” (una poesia che si vuole presentare come una poesia di improvvisazione, non come una poesia elaborata). Le cifre fondamentali sono la varietas (metrica e contenutistica → cambiano i contenuti da libro a libro ma anche all’interno di uno stesso libro), l’invettiva, la voce personale dell’autore e quindi l’autobiografia, realismo collegato ad un intento moralistico, il dialogo e anche una varietà stilistica di accenti/stili/toni… ci sono tratti di lingua quotidiana, anche con forti variazioni diastratiche, così come molti termini appartenenti a lingue tecniche (linguaggio tecnico della gastronomia, della politica); quindi Lucilio usa un pastiche linguistico. Si tratta di una poesia che non vuole essere rivolta ad un pubblico elitario, ma ad un pubblico di cultura media. SCHEDA 2 Nella prima parte doveva essere rappresentata una scena di consiglio divino (Concilium deorum). Per capire ciò, possiamo leggere la testimonianza di Servio, un commentatore tardo-antico di Virgilio, erudito di V sec. a.C.; il suo commento a tutta l’opera di Virgilio è giunta in due versioni, una più breve e una più ampia, detta “Servius altus” o “Servius Danielinus”, probabilmente rinvenuta tramite l’umanista → le incongruenze interne di quest’opera ci fanno capire che sia risultato di una raccolta successiva. Qui Servio fa riferimento al verso 104 del libro X dell’Eneide (la parte iliadica = scontro tra i troiani capeggiati da Enea e la coalizione dei popoli italici con cui vengono a scontro) → siamo in un momento importante dello scontro in cui viene messo in scena un concilio degli dei per deliberare le sorti umane e lo fanno con modalità che ricordano quelle dell’assemblea politica. Servio ci dice che questa modalità di rappresentazione affonda probabilmente le sue radici in Lucilio. Infatti, Servio dice: “Questo passo dell’Eneide è tratto dal primo libro di Lucilio, dove vengono rappresentati gli dei nell’atto di tenere un consiglio e di trattare in primo luogo della morte di un certo Lupo, pessimo giudice, (e poi sono rappresentati) nell’atto di procedere al voto.” Le modalità di azione sono simili a quelle del Senato romano: prima il dibattito e poi la fase di voto. Questo rappresentare il concilio divino secondo la prassi della politica romana deve essere ciò che Virgilio ha recuperato da Lucilio. Tale tematica verrà ripresa anche nell’ “Apolokyntosis” di Seneca, insieme allo spunto parodico presente in Lucilio. Infatti, Lucilio presenta un concilio divino in piena regola → v.4: “discutevano di affari di somma importanza per gli uomini (anastrofe)” = gli dei discutono di come garantire la salvezza di Roma e del popolo romano e decidono dunque di decretare la morte di Lupo: egli è probabilmente Lucio Cornelio Lentulo, morto nel 128, che doveva essere stato un giudice corrotto che, espulso, era stato poi reintegrato nel 131 ed eletto princeps senatus; è quindi personaggio di spicco ma avverso al partito politico degli Scipioni, al cui circolo Lucilio era invece vicino (sembra strano, considerando che quello degli Scipioni era un circolo particolarmente filo-ellenico, quindi di mentalità aperta; diciamo che qui il filoellenismo convive però col rispetto per il mos maiorum e la restaurazione di una certa tradizione etica tipicamente romana, quindi la posizione moralistica di Lucilio non è conflittuale con la sua vicinanza al circolo degli Scipioni). Ovviamente, coloro che sono nemici degli Scipioni lo sono anche di Lucilio e quindi non ci stupisce che quest’ultimo attacchi, anche in modo personale, il personaggio di Lupo, tanto da darcene anche un ritratto (vv.43 e seguenti): “Quale volto ha quell’uomo? Quel volto al pari dell’aspetto è morte, malattia e veleno”. È un ritratto psico-fisico: quelli che sono i tratti della corruzione morale di Lupo, si riflettono in qualche modo nel suo aspetto fisico che è mortifero/ammorbato da veleni, che non sono altro che i veleni della sua corruzione morale. Si pensa che la composizione di Lucilio sia stata prodotta dopo la morte di Lupo. Il concilio divino decreta che Lupo muoia di indigestione, come dice il verso 54: “O Lupo (vocativo → attacco ad personam) ti uccidono le saperde/sarde e il brodo di siluro”. In questo verso si è voluto cogliere un gioco di questo tipo: saperde e siluri dovevano essere pesci piccoli; probabilmente Lupo, oltre ad essere un nome proprio, doveva essere anche il nome di un pesce grande → forse un gioco di parole sul nome di Lupo, creando un doppio senso: i pesci piccoli, come siluri e saperde, riescono ad avere la meglio su un pesce grande come il lupo. I pesci piccoli sono molto probabilmente i detrattori di Lupo, tra cui anche lo stesso lucilio, che si ritiene un personaggio piccolo ed estraneo alla politica, che però riesce ad avere la meglio su Lupo anche grazie a questa rappresentazione satirica. Lucilio qui sta lanciando la sua critica non solo contro a Lupo, quindi non c’è solo invettiva politica, ma Lucilio sta anche parodiando una scena tipica dell’epica, cioè quella del concilio divino. Normalmente è una scena molto seria e il far agire il consiglio divino su cose così banali con le modalità del senato romano ci mette il confronto il modulo epico con la realtà della politica → confronto schiacciante perché il modulo epico si rivela essere una mera convenzione, senza presa sulla realtà. Oltre alla critica politica, si aggiunge anche uno spunto di critica poetologica (perdita di importanza dei generi alti rispetto ai quali propone un’innovazione nei generi, tramite una proposta più realistica e attuale). Dal punto di vista della critica moralistica, l’intento di invettiva nei confronti della singola persona si coniuga in Lucilio anche con un intento moralistico di carattere più generale, di osservazione della realtà e dei tipi umani che va al di là del singolo individuo, come vediamo al v. 1228 e seguenti (appartengono al gruppo di versi che il Marx, nella sua edizione, cita come versi che ci rimangono ma non si sa bene dove collocare → il Marx li situa in una parte finale ordinati alfabeticamente); sono versi ancora in esametri e quindi potrebbero appartenere al primo gruppo di libri dove ci viene data una rappresentazione morale della società del tempo, afflitta da una forma di corruzione. In questi versi possiamo osservare il fenomeno della -S caduta: “U|ni| se at|que ei|dem| stu|di| o om|nes| de|de|re e|t ar|ti”. La sillaba iniziale è lunga e porta l’accento, la 2 a è una sillaba aperta e tutto dipende dalla quantità della vocale al suo interno: è una vocale lunga e quindi è una sillaba lunga; mi aspetto che ci sia un’altra sillaba lunga perché inizia un nuovo piede e quindi è una sillaba lunga; la 4a sillaba è aperta e contiene al suo interno un dittongo e quindi è sicuramente una sillaba lunga, dunque abbiamo un altro spondeo; parte un altro piede e mi aspetto che la sillaba sia lunga e infatti è così, perché è una sillaba chiusa; poi abbiamo due sillabe aperte e la loro quantità dipende da quella della vocale contenuta al loro interno: il vocabolario dice che è breve in entrambi i casi e quindi abbiamo un dattilo; parte un nuovo piede e “o om” è una sillaba chiusa lunga; a questo punto, mi aspetto che “nes” sia una sillaba chiusa e quindi lunga, ma non è così perché questa è una vocale di tipo breve → non funziona il conto perché dopo ho ancora un’altra sillaba aperta, che ha al suo interno una vocale lunga e quindi è una sillaba lunga. Qui succede allora il particolare della S caduta: a volte, nella metrica arcaica, quando abbiamo una parola che termina per -S e la parola successiva inizia per consonante, la -S può annullarsi prosodicamente (è come se non ci fosse) e quindi la sillaba diventa a questo punto aperta. Se la sillaba è aperta il computo metrico torna perché dopo “o om” lunga, abbiamo “ne” senza -S che è una sillaba aperta e dipende dalla quantità della vocale al suo interno, che è breve, e quindi la sillaba è aperta. → torna il conto. Questo fenomeno di -S caduta è tale per cui quando ho una sequenza di parola che finisce con vocale+S ed è seguita da una parola che inizia per consonante, tale -S può annullarsi prosodicamente in modo tale che la sillaba che la contiene non è chiusa ma aperta. È un fenomeno che riscontriamo in metrica che probabilmente rispecchiava un indebolimento fonetico della -S che si realizzava nella lingua comune, come testimoniano alcune iscrizioni. Ad esempio, noi troviamo il nome “Cornelio”, che in origine era “Cornelius” → le iscrizioni antiche presentano spesso una testimonianza perché il lapicida lavora per persone di cultura ma lui non lo è, quindi non scrive secondo le convenzioni ortografiche, ma scrivono come si pronuncia. “Ora (vero rafforzativo, che ci oppone la condizione del presente rispetto a una condizione passata), invece, dal mattino fino a notte (mani = forma arcaica; di solito, si usa “mane” per personale della morte della figlia lo ha indotto alla meditazione); questo è un trattato in 3 libri dedicato al figlio Marco in cui affronta i problemi dell’utile e dell’onesto e del possibile conflitto tra i due. Definisce la appropriatezza di azioni e comportamenti dell’uomo come qualcosa che ha fondamento in ciascuno e possa determinare scelte anche in parte diverse dal mos maiorum come dedicarsi alla cura del patrimonio, allontanarsi alle cariche pubbliche per dedicarsi a interessi scientifici… Questa coincidenza di Cicerone con Lucilio nella definizione dell’utile, dell’onesto e del loro rapporto con la graduatoria degli interessi per patria/famiglia/individuo si spiega con la fonte comune del filosofo stoico Panezio, che vive a Roma al tempo di Lucilio (che probabilmente lo ha incontrato durante la sede a Numazia), ha partecipato al circolo degli Scipioni ai quali Lucilio era vicino. Da un punto di vista formale, questo testo, come quello precedentemente letto, si caratterizza per un’estrema rifinitura formale a dispetto dell’accusa di non-curanza stilistica rivoltagli da Orazio, che si manifesta in tutta una serie di figure di suono che sono una caratteristica non soltanto di uno stile attento e rifinito ma di tutta la poesia arcaica latina e hanno una funzione precisa anche in ambito metrico, in una metrica tutto sommato sperimentale, fornendo un’armatura ritmica al verso. Ai versi 1326-27, sono presenti forti allitterazioni (P, V) e il parallelismo (quis … quis … quis → struttura pronome + verbo ripetuta). Ai versi 1328-29 c’è la figura opposta al parallelismo, ovvero il chiasmo (ordine invertito delle parole → inversione nella successione sostantivo – verbo, ripetuti nello stesso modo creando un effetto di cosa sonora): homini scire – scire homini. Al verso 1329 e seguenti ci sono una serie di omeoteleuti (rectum honestum + inhonestum → si crea anche un effetto di rima in posizione marcata a fine verso che viene definita rima ecoica = non una semplice rima in cui sono uguali, nelle due parole, tutte le sillabe dalla tonica alla fine di parole ma, come qui, intendiamo una rima in cui una delle due parole è per intero investita dall’omofonia con l’altra). Poi ancora, ai versi 1330, c’è ancora l’anafora martellante del pronome interrogativo (que, que, quid), al verso 1332 c’è la solita allitterazione (P) che riprende la stessa espressione dei vv. 1326-27 con una variatio: qui c’è la forma più familiare posse, non potesse. Al v. 1334 c’è ancora un omeoteleuto (inimicum…). Al v. 1336 c’è il poliptoto. Allitterazioni forti ai versi 1337-38 (P). Frammento costruito ad arte con insistenza su figure retoriche, principalmente di suono. La critica che noi troviamo qui nei confronti di Albino, mascherata dietro a un atteggiamento didascalico di chi insegna, la ritroviamo in maniera più aperta ai vv. 88 e seguenti (fotocopia 1), dove ancora una volta Lucilio se la prende con un bersaglio preciso e questa volta lo sbeffeggia per un suo atteggiamento che è quello filellenico spinto all’eccesso (anche Lucilio è vicino al circolo degli Scipioni, di cui il filellenismo è noto, ma qui il personaggio è bollato quasi come un maniaco e quindi preso in giro). Questi versi dovrebbero appartenere al libro II e ci troviamo ancora una volta di fronte ad un frammento esametrico. “O Albucio, tu hai preferito essere chiamato “greco” piuttosto che romano e sabino e compaesano (municipem = colui che appartiene allo stesso municipio) di Ponzio, Tritano (identità incerte: erano centurioni che servivano lealmente lo Stato romano e venivano non propriamente da Roma ma da qualche municipio italico schifato dal comportamento di Tito Albucio), centurioni, uomini illustrissimi e valorosi portabandiera (signiferum = genitivo arcaico → signifer è un composto di sapore epico ed è colui che porta le insegne: fero + signum). Io, pretore in Atene, cosa che tu hai preferito, quando ti avvicini a me, te saluto alla greca. Dico “chaere” (saluto in greco con traslitterazione latina) ? e tutta la folla “Salve, o Tito” e da quel momento Albucio è stato mio nemico pubblico e di lì mio nemico privato.” (mihi = l’H intervocalica e muta e non impedisce la contrazione tra le due vocali quindi possiamo trovare la forma contratta “mi”). Probabilmente questo libro II doveva contenere una descrizione del processo intentato da Tito Albucio contro Muscio Scevola per un reato di ?. Naturalmente, Albucio è una specie di grecomane che aveva voluto vendicarsi intentando questo processo (conclusosi in realtà in un nonnulla) → voleva vendicarsi del suo rivale che in pubblico lo aveva salutato pubblicamente alla greca per farsi gioco di lui. I fasci vittori con verghe e scure erano immagine del supplizio da infliggere ai condannati, poiché questi vittori eseguono le sentenze dei magistrati. Era stata evidentemente un’offesa pubblica ma naturalmente Tito Albucio si era in qualche modo meritato questa messa alla berlina pubblica per il suo atteggiamento filellenico maniacale. Gli strali di Lucilio non si dirigono solo ed esclusivamente contro personaggi ben definiti, ma talvolta contro categorie di persone e in particolare una categoria di persone è quella delle donne. È una satira molto misogina, che inaugura un filone satirico che avrà molto successo, essendo ripreso anche da Giovenale, il quale dedicherà un’intera satira alle donne per sbeffeggiarle per i loro malcostumi. Siamo ai vv. 678 e seguenti che, secondo il Marx, appartengono al libro XXVI: è un frammento in versi settenari trocaici (piedi formati da una sillaba lunga e una sillaba breve, ovvero il trocheo). “Gli uomini si procurano da sé questa pena e questo malanno, prendono moglie (espresso col termine tecnico per indicare il matrimonio dell’uomo che sposa la donna → nubere aliqui → nubere + dativo), generano dei figli, ai quali dare queste cose, una famiglia infida (in + fibus = le donne sono considerarsi tutte fedifraghe) e una casa contaminata”. “Placitam” è un problema: è stampato in corsivo dall’editore per indicare che è una lezione dubbia perché vorrebbe dire “gradita” (dal verbo “placeo”), che qui però non concorda col significato tutto in negativo → le donne sono una molestia e un malanno per chi se le sposa, che va avanti di generazione e in generazione perché i figli sono destinati allo stesso malanno dei padri. Probabilmente potrebbe esser caduto qualcosa in mezzo e forse doveva esserci un altro verso in cui partiva un’interrogativa (qualcosa del tipo: io dico se sia possibile a chi sia piaciuta una moglie, una famiglia infida e una casa impura?). Tutti questi accusativi, sintatticamente, funzionano se li pensiamo come esplicativi di “quibus...” però non ci sta dentro il “placitam” di significato; o si tratta di una parola diversa, o dobbiamo presupporre la presenza di qualcosa che è caduto. Viene espressa una requisitoria generale contro le donne. Le notizie che ci hanno tramandato però ci orientano a pensare che tale testo appartenesse alla satira 3 del libro XXVI (che doveva contenere tre satire) e che era rivolta verso un personaggio in particolare, Quinto Metello Macedonico, nemico degli Scipioni e quindi anche di lucilio, che è stato censore nel 131 (terminus post quem per la composizione della nostra satira) e autore, in funzione di censore, di una legge contro il celibato, per la qual difesa aveva pronunciato anche una difesa, nella quale proponeva una campagna contro il celibato in funzione demografica (tutti dovevano prender moglie per accrescere la poplazione con i figli). Evidentemente Lucilio in questa satira misogina critica e condanna il costume delle donne con una condanna più precisa nei confronti di questa legge di Quinto Metello Macedonico. Finora abbiamo visto satire di carattere skommatico o moralistico; ora osserviamo un altro carattere tipico della satira. Fotocopia 2, versi 303 e seguenti: un altro argomento della satira è l’atteggiamento di carattere autobiografico. Lucilio ha dimostrato un certo disprezzo nei confronti delle donne viste come vittori ma non ha disprezzo nei confronti delle meretrici, viste come oggetto sessuale, per le quali mostra una certa passione. Questi versi derivano dal libro VIII, quindi ancora una volta è un frammento esametrico. Qui abbiamo una rappresentazione, anche abbastanza cruda, di quella che è la sessualità [al verso 305 bisogna integrare una s a “latu” → “latus”). “Quando bevo con il medesimo bicchiere (poclo come sincope da da poculo), quando la abbraccio, quando pulisco le mie labbra con le labbrucce di quella ingannatrice, cioè quando mi sento bruciare dalla libidine/passione (traslitterazione in latino di un verbo greco), allora lei congiunge la sua coscia con la mia coscia, il suo petto con il mio petto e ha intenzione di incrociare le sue gambe con le mie gambe / sta per incrociare le sue gambe con le mie gambe” (diallaxon come traslitterazione di un termine greco, il participio futuro “diallasso” che significa “scambiare, incrociare” → idea finale o valenza di imminenza). I segni finali ci indicano che il verso è mutilo. La descrizione è molto chiara e cruda, con un’alta carica di erotismo ed è stata anche uno degli argomenti per abbassare la data di nascita di lucilio dal 180 al 168 perché probabilmente, questi libri in esametri che sono stati gli ultimi ad essere composti, sarebbero stati composti in età adulta e quindi per alcuni stonava il fatto che un uomo anziano desse rappresentazioni così crude della descrizione di un amplesso, adottando strategie tipiche della poesia erotica: v. 303 “labellis” è un diminutivo (non ha comunque valenza diminutiva, nel senso che non indica labbra piccole, ma tende a veicolare valenze affettive/vezzeggiative e quindi probabilmente vuole essere complimentoso), labrum-labellis accostati a produrre una figura di suono; poi abbiamo l’uso del greco che in Lucilio è abbastanza frequente: psolo copumai e diallaxon sono grecismi diffusi nella poesia erotica e greca, giudicata come lingua di svenevolezza d’amore → si usa il greco in funzione parodica (non è il caso di Lucilio in questo frammento, che tende a dare una descrizione vivida). Frequenti sono anche i poliptoti, a indicare anche la reciprocità, lo scambio affettivo e sensuale tra le due persone, dove però la descrizione è ancora molto appassionata ma puramente fisica. Torniamo quindi al discorso della donna apprezzata come oggetto di un eros fisico: nei suoi confronti c’è ancora una condanna → fictrix = dal verbo fingere → condanna morale nei confronti della donna attraente e seduttiva che rimane però sempre un’ingannatrice. Rimanendo nel tema dell’autobiografia, possiamo leggerne un altro tipo, stavolta non erotico: si tratta di un resoconto di viaggio e quindi l’inaugurazione, da parte di Lucilio, di un tema qualcosa di erotico. Nella battuta successiva si rivolge agli schiavi che accompagnavano Lucilio nel viaggio e Lucilio chiede loro se possano fornire della legna per scaldarsi. Infine c’è la descrizione del pasto fornito, che ovviamente non è un pasto pregiato (anafora → elenco in negativo: nulla … nulla … nulli in poliptoto). Non ci sono nemmeno gli asparagi, inferiori ai molluschi prima elencati, ma comunque superiori al piatto di ruta e cavolo, considerato prelibato in quelle zone. Tutto questo elenco di vivande in negativo ci rimanda ad un altro tema tipico della satira, ovvero quello della satira gastronomica in cui troviamo una serie di elenchi di vivande che ha a che fare con il motivo della critica al lusso, che talvolta si esplicava anche sulle tavole. Proseguendo sul filone autobiografico, ora andiamo a vedere un frammento di Lucilio in cui troviamo un rapporto con un amico e quindi, di fatto, una notizia relativa alla biografia stessa di Lucilio (anche se parlando di “autobiografia” di un autore, dobbiamo sempre stare attenti). I vv. 181 e seguenti sono tratti, secondo il Marx, dal libro V: la satira è ancora esametrica e qui è indicato anche il testimone che ci ha tramandato tali versi, i quali ci arrivano in gran parte per tradizione indiretta, cioè tramite autori che lo citano ma non con l’intento di tramandare il testo di Lucilio, ma di servirsi della tradizione luciliana a supporto delle loro argomentazioni → questi versi ci sono tramandati dalle “Noctes attices” di Gellio, autore del II sec. d.C. dell’opera prosastica in 20 libri “Le notti attiche” di carattere erudito, miscellanea, in cui si occupa delle questioni più varie (filosofia, storia, scienza, notizie antiquarie…) che prende il nome da un viaggio intrapreso da Gellio stesso in Grecia, culla della cultura per antonomasia; nel II sec. siamo in un momento di forte penetrazione della cultura greca a Roma → possiamo parlare infatti di biculturalismo, poiché molti intellettuali hanno una cultura sia latina sia greca. Gellio immagina di aver intrapreso questo viaggio e di aver ascoltato durante le notti di veglia molte conversazioni di dotti e di aver preso appunti dalle quali si è sviluppata questa opera miscellanea in cui si susseguono, senza un principio ordinatore, i vari argomenti che avrebbe ascoltato in queste notti. All’interno del libro XVIII, cap. 8, sta affrontando il problema di varie figure retoriche legate alle somiglianze coniche tra le parole e cita l’homoioteleuta (→ identità nel finale delle parole). “Gli omeoteleuti e tutte le altre ricercatezze (da scio = sapere) di questo tipo quanto siano insulse, inutili e puerili, per Ercole! (forma sincopata per Ercule) con grandissima arguzia lo indica Lucilio nel quinto libro delle Satire”. Usa Lucilio per la sua argomentazione contro l’uso eccessivo di queste figure di suono e testimonia che il frammento che va a citare successivamente appartiene al quarto libro delle Satire. “Infatti, quando si è lamentato con un amico per il fatto che non andava a trovarlo quando era malato, a quel punto aggiunge queste affermazioni in modo scherzoso”. Ci riferisce il contesto, evidentemente Lucilio si sta lamentando e forse lo fa per lettera (epistola poetica) con un amico (di cui non conosciamo l’identità: forse un retore che faceva grande uso di questi artifici, forse Scipione stesso poi citato) che non è andato a fare visita quando Lucilio doveva essere malato (diseret = verbo derivato da dideo → è u verbo desiderativo, che si forma aggiungendo alla radice del verbo base un suffisso -SSO = didsso → assimilazione della d davanti alla s → dissso → caduta esemplificazione delle -S- → diso). Qui abbiamo l’espressione scherzosa che Lucilio rivolge all’amico “Anche se non lo chiedi (tam etsi = scritto separato con la figura retorica che dal greco viene chiamata tmesi, cioè taglio → noi abbiamo tale figura quanto in qualche modo qualcosa viene tagliato quando invece dovrebbe essere tutto unito; infatti, noi troviamo spesso tametsi tutto unito ed è una congiunzione subordinata concessiva → “benché” “anche se”) io ti mostrerò come io stia (iperbato) dal momento che (quando = falso amico che indica una congiunzione causale) sono rimasto in quel numero nel quale non si trova la maggior parte degli uomini (si riferisce al n° dei vivi → espressione ironica) … sicché tu vuoi che sia morto colui che non hai voluto vedere anche se avresti dovuto; se non ti piace questa cosa (l’ho fatto senza arte → non mi sono impegnato a fare tale omeoteleuto) e se la trovi isocratica (fa riferimento all’oratore greco di IV-V sec. a.C. Isocrate che in una delle sue dichiarazioni ha dichiarato di scrivere non per il certame giudiziario, ma per il diletto delle orecchie → prototipo dell’oratore che va alla ricerca voluta dei giochi fonici, come gli omeoteleuti, per accattivarsi il favore del gruppo), sciocco e puerile, non mi dai danno se tu sei così di tal patta”. Da un lato abbiamo uno scherzo, un bonario rimprovero nei confronti dell’amico (se non sei venuto a trovarmi, forse volevi che io fossi morto → è un dovere degli amici assisterli durante i momenti di bisogno). Ma comunque Lucilio vuole dire come sta. L’atteggiamento è scherzoso ma caratteristico della satira luciliana è proprio lo scarto tra i vari toni → dal tono leggero si passa ad una riflessione espressa con una maggiore gravitas di carattere non più interpersonale, ma di carattere metaletterario (momento in cui la letteratura riflette su se stesso) → speculazione di carattere letterario/poetologico sull’uso eccessivo che Lucilio imputa all’amico, perché se lui usa tutte queste raffinatezze/affetazioni, lui non si danna e anzi dice che a lui sono sfuggite, sono venute così senza metterci impegno anche se, naturalmente, visti i versi letti finora, ci risulta difficile capire questa affermazione (“fate come dico e non come faccio” / frutto di due momenti diversi del pensiero di Lucilio). In un’occasione come la lettera ad un amico può venir comodo fare una tale affermazione, ma questo concetto può essere sconfessato in un altro momento – non dobbiamo cercare una coerenza nell’opera di Lucilio. Il carattere metaletterario ci indirizza ad altri versi in cui Lucilio fa una riflessione e spiega il suo modo di intendere la letteratura. Un tema caro alla satira luciliana è il razionalismo, il quale si concretizza in una polemica contro il mito, la superstizione e quindi, indirettamente, contro i generi elevati di epica e tragedia e contro le quali Lucilio scaglia i suoi strali prendendo posizione in favore di un genere come la satira, genere minore che lui vuole nobilitare e che rigetta il mito per dedicarsi all’osservazione della realtà → vv. 480 e seguenti (di carattere esametrico): versi che appartengono al libro XV, forse potrebbero appartenere ad una satira in cui Lucilio magnifica i benefici della filosofia che ha il potere di liberare l’uomo, attraverso il razionalismo, di tutto ciò che è mito e irrazionalismo, fonti di ansia. Nell’ultimo verso, nella parola “longus” (v. 482) e nella parola “malus” (v. 483) dobbiamo ipotizzare il fenomeno della S caduta (altrimenti il computo metrico non risulterebbe). “Gli uomini ritengono che molte creature meravigliose, portentose, plasmate dai versi di Omero (→ il verbo “fingere” ha una sua polisemia → fingo significa plasmare quindi è anche il verbo da cui deriva l’idea di scultura ma ovviamente ha anche il senso della finzione → Omero è un creatore di tale figure che sono però frutto di finzione; con Omero viene invocata la materia epica che si nutre di illusioni) siano dei mostri, tra le quali creature meravigliose in primo luogo c’è il ciclope Polifemo lungo duecento piedi e aveva (huic = dativo di possesso) un bastoncino (bacillum è in realtà un diminutivo da baculum → ironico) più grande che l’albero maestro (ex navi cordita ullast = che proviene da qualsiasi nave da carico → ullast = figura di suono dell’aferesi o prodelisione → è una elisione che interessa la parte anteriore della parola, cioè cade la vocale iniziale della parola → ullast sta per “ulla est” → è caduta la vocale iniziale di “est”; quindi si verifica quando la prima parola finisce per vocale o vocale+M o is/us, seguita da una vocale che inizia per vocale) di qualsiasi nave da carico”. Il ciclope Polifemo è l’essere enorme da un unico grande occhio che Ulisse ha incontrato nelle sue peregrinazioni e al quale è fuggito ingannandolo e accecandolo; qui si sottolinea il carattere portentoso di questo gigante per mostrare i portenti frutto della poesia di un poeta. Su questo tono proseguono anche i versi successivi: “Queste Lamie terrestri che crearono i fauni e i Numa Pompilio, costui ne ha paura e vi ripone tutto (crede a loro in tutto per tutto), come dei bambini (in+fantes = che non parlano ancora) credono che tutte le statue di bronzo siano dotate di vita e siano degli uomini e così costoro ritengono vere tutte queste fandonie/sogni inventati e credono che nelle statue di bronzo (anastrofe e iperbato) ci sia un cuore/un’anima; in realtà una galleria di invenzioni, tutte cose plasmate ad arte”. Le Lanie sono nella credenza popolare delle specie di streghe che si credeva divorassero i bambini e che sono state invenzioni dei Fauni e dei Numa Pompili → Fauno era un mitico e antico re del Lazio che si credeva dotato di virtù profetiche e Numa Pompilio è il secondo re di Roma al quale si fanno risalire molte istituzioni religiose e quindi loro due, come personaggi in qualche modo qualificati, sono individuati come creatori di invenzioni che però fanno presa sulla gente perché hanno paura con l’ingenuità di un bambino, perché vanno a credere che quelle che sono solo statue (signa = tutto ciò “che lascia un segno”) siano dotate di vita e invece sono soltanto sogni di immaginazione e loro li credono veri ma in realtà sono soltanto una galleria (pergula = loggia di un palazzo in cui spesso venivano esposte opere d’arte → torna il doppio senso di “fingo”). Nei vv. 540 e seguenti, questo atteggiamento fortemente razionalistico viene a conciliarsi con la misoginia caratteristica di Lucilio: “Ma tu credi forse (num = particella che introduce un’interrogativa retorica che si aspetta una risposta negativa) che non sia possibile che una dalle belle trecce o dalle belle caviglie (termini greci tratti dal greco senza adattarli minimamente al latino → sono aggettivi accusativi femminili accordati con “pullam”) abbia il seno pendente fino all’utero o fino all’inguine (letteralmente “tocchi con le mammelle l’utero o anche l’inguine” → immagine dissacrante del bello e dello stile epico di Omero → riprende questi aggettivi di intonazione alta e li abbassa) o che anche Alcmena, la sposa (acoetin = traslitterazione del greco), la moglie di Anfitrione, sia stata con le ginocchia valghe o con i piedi storti? E così anche altre. E infine la stessa Elena, non voglio dire, vedi tu e scegli il termine di due sillabe che ti pare o non credi che sia possibile che una qualche ragazza (kowren in latino) di buona famiglia (“di buon padre”) abbia avuto un qualche difetto che spicca: un porro, un neo, un piccolo segno o un dentino un po’ sporgente (nella lingua arcaica unus non ha ancora assunto il valore enfatico di “uno solo”). Anche qui l’immagine è acculturate, né per quelle troppo indotte. Non voglio che leggano questi miei componimenti Manilio (probabilmente giurista o poeta di grande cultura) e Persio, voglio invece che mi legga Giunio Congo (da una testimonianza di Cicerone sappiamo che era uno storico, profondo conoscitore di antichità, forse a lui è dedicata una delle tre satire del libro luciliano a cui appartengono tali frammenti che stiamo leggendo; è la persona di media cultura che non è né troppo né troppo poco acculturata)”. Una volta che Lucilio ha definito il pubblico per cui scrive, difende anche le sue scelte poetiche. Leggiamo i vv. 620 e seguenti, frammento dal libro XVI, forse dalla satira I; questo, probabilmente, è il primo libro ad essere stato pubblicato: non ci stupisce allora che lui faccia considerazioni di carattere poetologico e programmatico (linee del suo lavoro che veniva, per la prima volta, a presentare al suo pubblico). Il metro è quello della commedia. Qui abbiamo un dialogo tra Lucilio e un interlocutore che, a causa dello stato frammentario dell’opera, non sappiamo chi sia. Forse è proprio Congo → recusatio = termine tecnico per indicare una movenza tipica dei poeti di età augustea e posteriore, per cui un personaggio solitamente di rango elevato dà al poeta un invito a praticare un genere elevato, in genere celebrativo, mentre il poeta garbatamente rifiuta tale invito, in genere dichiarandosi non all’altezza (forma di garbo che in realtà sottende una forma poetica diversa, ovvero di praticare un genere tradizionalmente avvertito come minore ma, nel quale, l’autore crede e cerca di poter elevare a pari dignità rispetto all’epica e ai generi tradizionalmente elevati). Congo si rivolge a Lucilio con il congiuntivo esortativo “sumas”: “Intraprendi un’opera (labor normalmente indica fatica → connota il lavoro epico come faticoso/pesante) che ti procuri (qui va portato in testa a laudem per anastrofe → relativa impropria con valore consecutivo caratterizzante) gloria e vantaggio.” La poesia epica, rispetto a quella satirica che attira inimicizie, porta gloria e vantaggi perché la persona celebrata può ricambiare con favori economici o appoggi sociali. “Fai risuonare (verbo onomatopeico che rende col suono della parola la voce della poesia epica) la battaglia di Popilio (allitterazione in P → Popilio è il console nel 139 e autore di una battaglia finita in modo disastroso contro la città di Numanzia, fatta capitolare da Scipione l’Emiliano) e canta le imprese di Cornelio (Scipione l’Emiliano che ha riscattato la sconfitta di Popilio facendo capitolare Numanzia).” Ma Lucilio rifiuta garbatamente (nella struttura dialogica tipica della satira): “Ma io, per quello che sono e per la piccola corazza di cui sono rivestito (follicolus indica la pelle/ il rivestimento), non posso” → movenze della recusatio: il poeta si schernisce da questo invito adducendo la sua pochezza/incapacità di dedicarsi ad un’opera così importante. La frase rimane un po’ in sospeso, ma prosegue poi la risposta di Lucilio dicendo che lui non bada all’utile (forse Congo gli aveva fatto notare che, dall’epica, avrebbe potuto trarre vantaggi): “Queste cose (le celebrazioni epiche) per questo motivo a te stanno a cuore (doppio dativo: compl.termine + compl.di effetto) perché tu la ritieni utile e perché ti trasporta in una situazione di tranquillità fuori dalle tempeste furiose perciò è meglio praticare questo genere (l’epica) piuttosto che quello (la satira) e qui dedicare tutto il tuo zelo” → la satira è paragonata ad una tempesta perché attira gli odi della gente che punzecchia. Il testo è un po’ franto, abbiamo un “ut” che potrebbe essere consecutivo: “Cosicché io rifuggo da tutto ciò che capisco che tu invece, in primo luogo, desideri ottenere. E ciò che a te sta grandemente a cuore, a me invece dà molto fastidio.” Anche qui, dopo essersi dichiarato inizialmente non all’altezza, afferma di non badare all’utile e alla sicurezza che a lui stanno a cuore, ma preferisce avventurarsi in un genere poco sicuro come la satira. Questi passi di Lucilio serviranno da modello anche a Orazio stesso, cioè il genere della recusatio, che è stato inaugurato in qualche modo da Lucilio, verrà poi ripreso da Orazio. Leggiamo Hor.,sat, 2, 1: Orazio ha già esordito presso il grande pubblico con il primo libro di satire, le quali gli hanno attirato delle antipatie. Le satire di Orazio, a differenza di Lucilio, forse anche per la sua posizione sociale, non si rivolgono a personaggi di spicco del tempo, ma avevano se non altro colpito personaggi minori che se ne erano risentiti. Qualcuno lo aveva accusato di essere troppo duro, qualcuno di essere senza nerbo. Per questa ragione, Orazio chiede consiglio ad un amico, Gaio Prebazio Testa, un giureconsulto originario più o meno degli stessi luoghi di Orazio. Testa ha una certa autorevolezza, oltre che per la sua posizione anche per la sua età: Testa gli dà il consiglio di non scrivere più; Orazio rifiuta perché scrivere è nella sua indole e dunque testa gli dice di rivolgersi allora ad un altro stile, quello epico, per celebrare le imprese di Ottaviano così come Lucilio aveva fatto con Scipione Emiliano. Orazio rifiuta garbatamente l’invito, adducendo le sue poche forze, anche per il fatto di scrivere in un momento poco opportuno perché Ottaviano potrebbe essere infastidito da una forma di adulazione e questo potrebbe quindi essere controproducente. Orazio ribadisce allora la sua scelta di comporre satire e si rifa al modello di Lucilio, sostenendo una satira che per certi aspetti possa far ricorso all’aggressività, ma che nella sua satira sarà solo a scopo difensivo (non attacca per primo). Prebazio, a quel punto, incalza con la sua argomentazione e gli dice di badar bene al fatto che con quel sistema sarà presto abbandonato dalle persone potenti, riferendosi al fatto che Orazio si trova nel circolo di Mecenate. Orazio risponde sostenendo che anche Lucilio riuscì ad attaccare personaggi della sua epoca grazie alle amicizie degli intellettuali del circolo degli Scipioni che non lo hanno mai abbandonato; quindi, anche nel suo caso, i “malacarmina” (e lo dice scherzando) potrebbero essere apprezzati da Ottaviano → Prebazio, usando l’espressione “malacarmina” fa riferimento ad un uso del termine in senso giuridico: tutto il componimento è giocato su doppi sensi; Prebazio è un giurista e viene fatto parlare come tale. Orazio invece è un poeta e quindi molti dei termini usati da Prebazio in senso tecnico-giuridico, Orazio li interpreta in senso estetico e poetologico, quindi molto è giocato sul doppio senso delle parole. A Ottaviano potrebbero non piacere i componimenti perché contro la diffamia e la calunnia vi erano precisi reati: nel 30 a.C., Ottaviano aveva avocato a sé anche poteri giuridici e quindi Orazio potrebbe non gradire tali “malacarmina” perché fuorilegge. Orazio li interpreta in modo estetico e poetologico, cioè come “carmi fatti male” dal punto di vista estetico. Orazio termina allora in modo ironico: “cosa succederebbe se questi fossero “bona carmina”?” Prebazio deve capitolare: in questo caso tutto finirebbe in una risata e Orazio sarebbe assolto. La satira è composta circa nel 30 a.C.: nell’assemblaggio finale della raccolta, questa è finita come prima satira anche se noi capiamo che in realtà questa viene scritta per ultima. Qui cogliamo segnali infatti di commiato dal genere, perché dopo il secondo libro di satire Orazio passa al genere delle epistole, che lui classificava con lo stesso titolo di “sermones” con cui classificava le satire (carattere di colloquialità e quotidianità) ma hanno in meno la componente aggressiva, rispetto alle satire. I segnali di commiato sono visibili anche nel giudizio che Orazio ci dà di Lucilio (come avevamo già visto nella Satira 1, 4). Qui l’atteggiamento critico nei confronti di Lucilio sembra smorzarsi perché qui Lucilio non viene tanto considerato dal punto di vista dello stile, quanto dal punto di vista dei contenuti: c’è la componente dell’invettiva che anche Orazio sposa anche se in termini difensivi, ma ciò che sembra interessargli maggiormente è l’autobiografismo, l’attenzione a temi etici (come la virtù, l’amicizia) quindi aspetti di maggiore riflessione. Questo mutato atteggiamento nei confronti di Lucilio potrebbe essere un sintomo in questa satira del cambiamento di atteggiamento di Orazio di abbandonare il genere satirico per dedicarsi a quello epistolare → passaggio che corrisponde al mantenimento dell’interesse realistico e autobiografico, rinunciano al carattere skommatico. “O: Ci sono alcune persone alle quali, nella satira, io sembro essere troppo aspro e oltrepassare la misura. (altera pars in iperbato) Altre persone ritengono che qualsiasi cosa io abbia composto sia senza nerbo e che versi simili ai miei se ne possano fare mille al giorno. O Prebazio, che cosa dovrei fare? (congiuntivo indipendente di natura dubitativa). Dimmelo tu! P: Stattene tranquillo. O: Ma allora tu dici di non scrivere in assoluto versi? P: Si dico proprio questo. O: Che mi venga un colpo se questa non era la soluzione migliore. Però non posso dormire. P: Quelli che hanno bisogno di un sonno profondo (opus est ha una costruzione impersonale → la persona che ha bisogno è posta al dativo mentre la cosa di cui si ha bisogna all’ablativo), spalmatisi d’olio, per tre volte attraversino a nuoto (imperativo futuro) il Tevere e, sul far della notte, si spalmino il corpo (letteralmente “abbiano il corpo spalmato”) di vino puro.” Orazio comincia con l’annunciare le critiche che sono state mosse alle sue satire del libro I, ormai pubblicate e circolate. Per la prima volta, qui, lui usa il termine “satura” in riferimento alla propria opera. Prima ne aveva parlato in modo generico mentre stavolta usa per la prima volta il termine tecnico “satira” forse per distinguerlo dal genere degli epodi, pubblicato insieme al II libro delle satire, per dire che queste critiche se le è attirate non solo per gli epodi, ma anche con la satira. I tipi di critica sono due: a qualcuno sembra che lui sia stato troppo duro → “acer” può avere un doppio senso: duro/aspro nel senso che erano mala carmina, cioè carmi maldicenti; oppure può avere una connotazione medica indicando la patologia di chi è in presa all’ira (furor) quindi vicino alla follia. C’è quindi quasi un triplo senso: quello estetico-poetologico, quello giuridico ma anche un senso medico, perché Orazio si rivolge di fatto a Prebazio chiedendogli consiglio quasi come si fa con un medico perché dia una prescrizione per risolvere il problema. Lo stesso gioco si nota anche nell’espressione “ultra legem”, che potrebbe essere intesa in senso giuridico: un’opera che è andata oltre il confine della legge ed è diventata un malum carmen. Il secondo tipo di critica è invece opposto: si pensa che sia stato troppo molle perché se l’è presa con personaggi basso profilo o serve a sottolineare, visto che è menzionato insieme ad Ottaviano, un rapporto di confidenza e di amicizia. Si dice quindi che le parole di Flacco non andranno all’orecchio attento di Ottaviano se non al momento opportuno → interpretato come “Orazio è una persona sempre attenta a cogliere qualsiasi particolare” o “non entreranno nell’orecchio di Ottaviano per coglierne l’attenzione” → sembra più probabile la prima rispetto alla seconda che sembra sminuire Ottaviano. Proprio perché è attento ed è una persona corretta, odia la piangeria e quindi Orazio non lo loderà mai a sproposito (dextro tempore = fa riferimento alla simbologia della superiorità della destra rispetto alla sinistra) → se gli fai il contropelo (cioè se aduli una persona), Ottaviano, come un puledrino non domato, scalcia da ogni parte per mettersi al sicuro. A questo punto continua nel dialogo la battuta dell’interlocutore: P: “Quanto è più giusto questo (il celebrare Cesare), piuttosto che offendere con versi amari il buffone Pantolago e lo scialacquatore Nomentano giacché ciascuno ha paura per se stesso per quanto non sia colpito dalla critica e concepisce odio.” Prebazio riprende e dice che sarebbe più corretto, ponendo l’accento sulla questione morale e giuridica della scorrettezza della satira, dedicarsi alla poesia celebrativa piuttosto che offendere con versi amari i versi satirici e cita Orazio → riferimento intratestuale → riferimento alla Satira 1, 8 dove erano stati presi in giro questi personaggi che il pubblico del tempo doveva ben conoscere. Il buffone è “uno che prende tutto” mentre Nomentano è definito uno scialacquatore, cioè uno che ha ereditato ma sperpera le sue sostanze. La reazione del pubblico è che ciascuno comincia ad avere paura per sé quindi anche se non è ancora stato toccato dagli strali di Orazio comincia a provare antipatia per il poema satirico. Ciononostante, Orazio ribatte dicendo che scrivere versi di questo tipo fa parte della sua indole: “Milonio si mette a ballare non appena il calore del vino / i fumi del’alcool (iperbato) gli raggiungono e gli prendono la testa e si accresce il numero delle lanterne”. Qui si gioca sul doppio significato di accessit, verbo di fervor e ?: due significati → “allucinarsi” o “aggiungersi”. Milonio, dal commento di Propilione, comprendiamo che è un altro buffone che, quando è allegro, si mette a ballare (“salto” = verbo frequentativo derivato dal verbo base “salio” con il significato di “salto” → “continuare a saltare” → “ballare”). Il ballare in pubblico era considerato un comportamento disonorevole per un cittadino romano, quindi è l’atteggiamento di un buffone che si mette a ballare non appena i fumi dell’alcool gli hanno dato alla testa e comincia a vederci doppio (da una lanterna ne vede 2 o 4). Inoltre dice che come Milonio ha questa attitudine, qui prosegue: “Castre gode dei cavalli e il suo gemello gode del pugilato” → si riferisce a Castore e Polluce: Castore era un abile domatore di cavalli, mentre Polluce si diletta di pugilato. Orazio conclude con un’espressione proverbiale “quante migliaia di teste vivono, altrettante di inclinazioni/passioni” → ciascuno ha le sue inclinazioni/passioni, così come lo stesso Orazio: “Infatti a me piace chiudere le parole nei versi alla maniera di Lucilio che è migliore di entrambi noi (utroque ablativo per il 2 termine di paragone)”. La passione di Orazio è quella di chiudere le parole all’interno del piede, cioè dell’elemento minimo del verso. La metrica è una sorta di carcere per le parole, una costrizione per il poeta. Lucilio è presentato quasi con un’aura sacrale, migliore di loro: l’auctoritas va ad un grande del passato, migliore di Orazio perché aveva un rango superiore a quello di Orazio, perché è stato lui l’inventor. C’è allora una presentazione di Lucilio: O: “Quello (Lucilio) un tempo affidava ai libri i suoi segreti come a dei fidati compagni e, non allontanandosi mai (letteralmente “verso nessun altro luogo”) né se le cose gli erano andate male né se gli erano andate bene e ne consegue che tutta la vita di quel vecchio (iperbato) è aperta / perspicua e descritta come su di una tavola votiva”. Qui abbiamo la rappresentazione di Lucilio che rappresenta i suoi libri come compagni fidati a cui lui confessa i segreti della sua vita. Ne consegue quindi che la vita di quel vecchio (attribuito a Lucilio in due senti: perché è un autore antico o perché ha iniziato a scrivere satire in età avanzata). La vita di quel vecchio rimane visibile a tutti come se fossero descritto su un quadro votivo → torna l’immagine sacrale e religiosa: il quadro votivo è un’opera d’arte che si vota alla divinità in genere per ringraziarla di uno scampato pericolo. In qualche modo, il poeta satirico che fa opere autobiografiche che fa scampare dei pericoli all’autore perché se lui mette in piazza i suoi segreti, non è più attaccabile. La sottolineatura della componente autobiografica dell’opera è funzionale ad un’indicazione di poetica di Orazio che, in questo, si definisce erede di Lucilio. La sua satira sarà infatti autobiografica e ci rimanda al discorso in base alla qual questa sarebbe la satira messa in testa al libro ma è stata probabilmente composta per ultimo e ci dà indicazioni su Orazio che prende commiato dalle satire per indirizzarsi ad un nuovo genere, quello delle epistole. “E io seguo costui (Lucilio) non so se Lucano oppure Baculo. Infatti, il colono di Venosa ara la sua terra sotto entrambi i confini; il colono inviato per questo una volta scacciati i sabelli, (anastrofe) a quanto narra un’antica tradizione. Per questo, al fine di evitare che il nemico assalga i romani, attraverso uno spazio vuoto, sia che il popolo di Apullia sia che la Lucania bellicosa minacciasse guerra”. Orazio si dice erede di Lucilio in questa componente autobiografica, esattamente come in 1, 4 aveva detto di dipendere da lui per quanto riguardava la componente aggressiva. Lucilio non sa se definirsi Lucano o Apulo → “anceps” = “a due teste” cioè che vale da una parte e da un’altra, cioè non sa se definirsi originario della Lucania o dell’Apullia, perché è originario di Venosa che si trova al confine tra Lucania e Apullia. Ci fa quindi un excursus storico sulle origini di Venosa che è una colonia romana che, come narra un’antica tradizione, è stata inviata in quel territorio sottratto a dei nemici (Sabelli) e i romani hanno mandato la popolazione in quel territorio per evitare che rimanesse una zona vuota che poteva essere punto debole per Roma, poiché poteva essere terreno libero per i nemici per far incursione → non ci deve stupire che troviamo un quo ne finale senza comparativo. Quo ne è epanalettico e riprende ad hoc del verso precedente. Rinuncia in toto alla componente aggressiva che forse gli viene anche dall’indole dei popoli della sua terra: la Lucania è detta violenta → questo carattere è stato in parte ereditato da Orazio che non disdegna attacchi personali. Essi non sono utilizzati a scopo di attacco, ma solo difensivo. “Ma questo mio stilo non attaccherà spontaneamente anima viva e mi custodirà come una spada protetta dal fodero, spada che perché io dovrei tentare di sguainare/destringere quando sono al sicuro da briganti ostili? O padre e signore Giove, che questo dardo perisca (perea = congiuntivo ottativo rafforzato dalla particella “ut”) consumato dalla ruggine e che nessuno nuoccia a me che sono desideroso di pace. (commorit = forma sincopata di commoverit) Ma quello che mi stuzzicherà, e è meglio che non mi tocchi, piangerà e sarà sulla bocca di tutta la città alla berlina”. Orazio prende l’immagine dello “stilus” = lo strumento scrittorio → ambiguità: è lo strumento scrittorio ma, essendo appuntito, può essere uno strumento di offesa → lo si paragona ad un’arma che non attaccherà mai spontaneamente nessuna anima viva (anima = soffio vitale che caratterizza tutti gli esseri animati). Sempre paragonata ad un’arma, questo stilo sarà un’arma difensiva come una spada che sta nel fodero. Si chiede infatti perché sguainarla dato che è al sicuro da briganti ostili. Qui c’è anche un’affermazione dispregiativa nei confronti di futuri o eventuali detrattori di Orazio paragonati a dei briganti. C’è poi un’invocazione di Giove con i suoi epiteti abituali di padre e signore; rimanendo nella fodera, la spada è consumata dalla ruggine. Quindi viene richiesto a Giove di non essere attaccato da nessuno, poiché lui è desideroso di pace e non vuole attaccare nessuno in prima battuta. Qui “cupidus” è usato in maniera ironica: lo avevamo già visto nel v. 12 dove in realtà era solo una forma di cortesia e quindi anche qui potrebbe proiettarsi una luce ironica e dire “è proprio vero che Orazio è così desideroso di pace oppure, tutto sommato, farà ancora qualche attacco?”. Egli dice in ogni caso che chi lo stuzzicherà/chi lo farà muovere letteralmente dalla sua posizione di tranquillità, nel senso che lo attaccherà e lo spingerà a contrattacchera a sua volta, è meglio che non lo tocchi perché ne subirà le conseguenze: la difesa sarà durissima e infatti sarà cantato da tutta la città. Nei versi successivi Orazio fa una galleria di persone che hanno comportamenti viziosi ma non possono fare a meno di adottarli perché è la loro vita che li spinge a fare così quindi anche Orazio non può privarsi del vizio di fare satira perché appartiene alla sua indole. v. 57 – O: “Ma sia che una tranquilla vecchiaia mi attenda sia che la morte mi aleggi intorno con le sue ali nere, ricco o povero, a Roma o se la sorte comporterà questo esule, qualunque sarà la mia condizione di vita, io scriverò”. Orazio qui ci dà tutte le alternative che si prospettano: una tranquilla vecchiaia, la morte (raffigurata come un uccello rapace → “ater” è un aggettivo latino per dire “nero”, diverso da “niger”. “Niger” significa “nero brillante” mentre “ater” significa “nero opaco” → nel mondo antico, sul parametro della tonalità, prevaleva il parametro dell’intensità luminosa; nello stesso modo “albus” (bianco opaco) e “candus” (bianco splendente) → qui forse Orazio ha presente anche rappresentazioni iconografiche della morte), ricco o povero… ma qualunque sia la condizione, lui scriverà. Nel v. 60 riprende, nella struttura dialogica, la battuta di P: “Ma, o ragazzo, io ho paura che tu non abbia vita lunga e che qualcuno dei tuoi amici potenti ti colpisca con la sua freddezza”. Prebazio si rivolge ad Orazio come “puer” per il suo atteggiamento paternalistico e dice di temere che qualcosa che desidera non accada → Prebazio desidera che Orazio sia vitalis ma ha paura che non possa farlo per colpa della sua satira; teme che piuttosto qualcuno degli amici più potenti di Orazio lo abbandonino e abbiano quindi un atteggiamento freddo nei suoi confronti (addirittura qualche commentatore intende che uccidano Orazio → il freddo potrebbe essere della morte). O: “Ma come quando Lucilio osò per primo comporre carmi alla maniera di questa opera (hunc potrebbe essere in anallage: letteralmente è riferito ad amorem, ma dovrebbe essere riferito a ?) e strappare la pelle in grazia della quale ciascuno avanzava tutto lustro in volto sei la più cara di tutte le cose per me?” “Bene, almeno per ora dico, e ti auguro tutto ciò che vuoi””. La satira si apre subito con un’indicazione di carattere topografico, sintomo di realismo: avviene a Roma dove c’è la via sacra, il principale asse di Roma che collegava Esquilino e il Campidoglio, passando per il Foro Romano (qui era avvenuta la pace tra Romolo e Tito Tazio). Dunque, Orazio sta passeggiando per questa via sacra e introduce una notazione autobiografica “come era mia abitudine fare” e dà un’interpretazione di sé di basso profilo “meditando non so quale sciocchezza” → c’è uno scarto: “medito” rimanda a pensieri profondi che contrasta con le “sciocchezze” a cui Orazio sta pensando. Qualcuno ha pensato che potesse essere un riferimento di tipo letterario, indicando versi leggeri → “nuge” era come Catullo definiva una parte dei propri componimenti di carattere leggero e quotidiano. Per quanto ne sappiamo, però, Orazio non fa versi di questo tipo; quindi “nuge” è probabilmente un’indicazione più generica, a indicare “pensieri da poco”. “Forte”, tradotto con “per caso”, ha fatto un po’ discutere: la posizione ci direbbe “camminavo per caso per la via sacra”, ma questo contrasta con “sicut…” (se era abitudine, non può essere una casualità); qualuno lo collega a “meditando per caso”, ma anche questo è poco soddisfacente. In generale, potrebbe quindi far riferimento alla casualità dell’incontro; poi, questo “forte” è un po’ un incipit narrativo tipico. A quel punto, gli viene incontro il seccatore (accurro = marca subito lo scarto tra l’atteggiamento di Orazio, che non si aspetta una cosa del genere, e il seccatore che gli corre incontro: lui era lì ad aspettarlo). Subito, questo seccatore viene presentato da un lato con un certo disprezzo (“quidam” con idea quasi spregiativa → non merita di essere chiamato per nome), dall’altro la non volontà di non individuare una persona precisa ma il rappresentante di una categoria. Vediamo quindi la risolutezza violenta del seccatore che afferra la mano di Orazio (verbo arripere, tipico per significare l’atto di “trascinare un accusato in tribunale” → è ironico perché questo sarà ciò che capiterà veramente al seccatore → effetto di ironia tragica = quando un personaggio sulla scena non sa che su di lui sta per incombere un tragico destino mentre il pubblico sa cosa accadrà e coglie l’ironia della rappresentazione: il personaggio mette in scena un comportamento del quale, inconsapevolmente, sarà vittima di lì a poco). La gentilezza del seccatore è melliflua, artefatta e spropositata considerando che i due si conoscevano solo di vista/di nome, lusinga dal quale Orazio si difende rispondendogli: “suaviter” (riprende l’immagine della dolcezza) “almeno per il momento” → forma usata in modo scaramantico per scarnare mali futuri. Formalmente, però, anche lui si mantiene su un tono di gentilezza → formula ratilogica, cioè abbreviata, perché sottintende il verbo di desiderio o accadimento. “Ma siccome quello continuava a seguirmi lo prevengo “Ma vuoi forse qualcosa?” ma quello dice: “Dovresti conoscermi (novis = forma sincopata per noveris → è un perfetto logico cioè al perfetto ma con valore di presente perché indica un’azione del passato con effetti che perdurano nel presente → probabilmente di valore potenziale) perché io sono un dotto/intenditore di poesia/poeta” e io rispondo “Beh, a questo punto, per questo tu varrai di più ai miei occhi (pluris = genitivo di stima)” cercando invano di svicolare eccomi andare ora andare più veloce (per rendere più vivida la narrazione, infinito presente costruito come verbo di modo finito con soggetto al nominativo e non all’accusativo), talvolta fermarmi e dire un non so che nell’orecchio al mio schiavo mentre il sudore mi colava giù fino ai talloni e dicevo tra me e me “Oh Bolano beato te (felicem ha duplice valenza: “beato te” e “beato te che sei iracondo”) che sei iracondo (genitivo riferito al cervello, poiché era sede dell’ira)” mentre quello continuava a blaterare qualsiasi cosa gli venisse in mente e lodava i vicoli e la città”. Il seccatore non ha nessuna intenzione di mollare Orazio: continua a inseguirlo (radice del verbo “sequor” ma con valenza frequentativa → verbo tecnico tipico per indicare il seguito a cui avevano diritto coloro che si candidavano durante una campagna elettorale, non mollando mai i loro datori di lavoro). Orazio cerca di prevenire il seccatore e gli chiede “vuoi forse qualche cosa?” (num quid = quid riduzione di aliquid mentre num ha valenza ironica perché introduce una interrogativa retorica che si aspetta risposta negativa); ma lui dice “mi dovresti conoscere” e comincia ad auto-incensarsi (nos per dire me → uso del plurale maiestatis) e millanta una sua competenza poetica (doctis sumus → qualcuno ha inteso che l’uso del plurale volesse includere anche Orazio, ad avvicinare il seccatore e Orazio, ma comunque è una villanteria). Allora Orazio gli risponde in modo ironico; a questo punto, vediamo il punto di vista interno di Orazio che appunto cerca (quaero + infinito = costrutto popolare/colloquiale) di arretrare di qua e di là, andare via in ogni direzione ma “misere”, cioè tristemente dal punto di vista di Orazio → la sua tattica è di accelerare a volte, a volte di bloccarsi di colpo (resa anche dalla sintassi franca: infiniti che si collegano tra loro per asindeto, cioè collegati senza l’uso di congiunzioni coordinanti a darci l’idea di una foga) e fa l’indifferente, cercando di dire qualcosa all’orecchio del puer. Ciononostante, lui stesso sembra capire che non funziona, tant’è che i sudori freddi gli corrono giù lungo la schiena fino ai piedi perché capisce il pericolo che corre, cioè quello di non riuscire a svincolarsi. Allora parlotta tra sé e sé (figura retorica di ossimoro = due concetti in contrasto l’uno con l’altro, come qui “dicevo in silenzio”, ad esprimere le reazioni contrastate di Orazio) e fa un makarismos (makar = beato in greco → makarismos = beatificazione) e si proclama beato Bolano che, da Portiglione, capiamo essere stato un personaggio noto per la sua iracondia; Orazio lo dice beato perché lui, a differenza di Orazio, aveva sempre avuto il coraggio di dire ciò che pensava e in un’occasione del genere avrebbe tirato fuori la sua ira e si sarebbe liberato. Intanto, il seccatore continuava a garrire → verso che continua a ripetersi e continua a ripetere anche banalità, cioè parla a vanvera. “Siccome io non gli rispondevo niente, ecco che dice “Ma tu cerchi invano di andare via, è già da un po’ che lo vedo, ma non ci riesci; ti terrò in pugno sempre e ti seguirò di qui fino a dove sei diretto (letteralmente “dove è la via per te”)”. L’indifferenza di Orazio scatena la reazione del seccatore → “io ti seguirò fino alla fine”: “persequar” (per ha il valore perfettivo davanti al verbo, quasi a rendere l’idea di “perseguitare” + idea dell’ironia tragica, perché è la sorte che toccherà al seccatore dopo, che verrà “perseguito”). “Ma non c’è bisogno che tu faccia dei grandi giri: io voglio andare a visitare una persona che tu non conosci. Costui giace malato lontano, al di là del Tevere, presso gli orti di Cesare”. Orazio cerca di scoraggiarlo dicendo che deve fare grandi giri e se lo segue gli tocca camminare molto e fare una cosa che non gli interessa (viso è verbo desiderativo derivato da “video” = desidero vedere quindi visitare): visitare un malato (cubo = chi giace malato). I giardini di Cesare erano stati lasciati in eredità alla città e stavano ai piedi del Gianicolo, quindi molto lontano. Il seccatore però non si lascia abbindolare da Orazio. “Ma io non ho niente da fare e non sono pigro, ti seguirò sempre”. È ovviamente un’affermazione ironica perché il seccatore è citato in giudizio, quindi qualcosa dovrebbe fare. A questo punto abbiamo la reazione di Orazio: “abbasso le orecchie come un asinello (non un asino piccolo, ma un povero asino) stizzito quando si mette sulla groppa un peso troppo pensante (letteralmente “quando con il dorso va sotto un peso troppo pesante)”. L’immagine di un asinello che deve sopportare il peso ci proviene dal favolista greco Esopo: favole animali in cui i personaggi sono in realtà maschere che rappresentano esseri umani. Il riferimento alla favolistica c’era anche nella Satia 2.1 laddove si parlava di Lucilio che strappava la pelle dalla faccia con cui la gente si lustrava quando andava in giro → in una favola l’asinello si vestiva con la pelle di leone per sembrare ciò che non era ma poi veniva smascherato. L’avvicinamento satira-favola non ci deve stupir, perché anche la favola ha una conclusione moralistica. “Se ben mi conosco, tu non stimerai come amico di più né Visco né Vario; infatti chi potrebbe scrivere più versi o più rapidamente di me? Chi potrebbe muovere le membra più mollemente di me? Anche Ermogene invidierebbe quel che io canto”. Qui il seccatore fa una gaffe clamorosa, perché va a toccare Orazio in quelli che sono i suoi amici, perché Vidio e Visco e Vario Rupo sono due membri del circolo di Mecenate e Vario è anche un famoso poeta sia epico che tragico, uno di quelli che probabilmente hanno curato l’edizione postuma di Virgilio. “Se ben mi conosco” è una forma di vana gloria: quando una persona tesse l’elogio dice “se ben ti conosco” → è un’inversione. Non solo tocca gli amici di Orazio, ma anche i motivi per cui lui crede di essere stimato sono le “bestie nere” di Orazio: torna il motivo di scrivere versi a palate con cui, nella Satira 1,4, Orazio aveva bollato negativamente Lucilio → era il suo difetto e di tutti i poeti che non accettano la teoria callicamistica di Orazio della rifinitura/limatura. Poi Ermogene è probabilmente Ermogene Tigellio, contro il quale Orazio scaglia spesso i suoi strali, come un poetastro e cantore; si fa riferimento alle due pratiche: quella della danza, molle ed effeminata, e del canto → due mode che avevano preso piede a Roma e provenivano dall’Oriente, terra da cui vengono mosse e abitudine che snervano la mos maiorum di Roma e dunque non si addicono ad un civus romanus, e perciò non sono i motivi per cui Orazio potrebbe stimare maggiormente il seccatore. “Hai una madre (dativo di possesso), dei parenti che abbiano bisogno di te sano e salvo (quis = forma arcaica per quibus, quindi un dativo voluto dalla costruzione impersonale di “opus est” → la persona che ha bisogno è posta al dativo, mentre la cosa o persona di cui si ha bisogno all’accusativo)?” “No, non ho nessuno (ancora dativo di possesso). Li ho seppelliti tutti.” “Beati loro. Adesso resto io” Orazio cerca di bloccarlo toccando la corda degli affetti o della salute oppure si può pensare alla convinzione, secondo gli antichi, che chi era troppo bravo suscitava anche l’invidia degli dei che si vendicavano, in qualche modo, con la morte di questo individuo. Anche questa soluzione non attacca, perché li ha messi tutti sotto terra (componere verbo tecnico per aver messo sotto terra la salma del defunto). A questo punto Orazio proclama beati i defunti ritenendo che ora è rimasto solo lui e quindi il suo destino sarà lo stesso. 12) Lezione del 21 marzo 2019 “da una parte e dall’altra”). Orazio lo fa perché l’amico lo liberi (arripio riprende v. 4 ma qui indica l’azione opposa dello svincolare → verbo di sapore epico perché di solito usare per indicare il sottrarre l’eroe ad un pericolo incombente; continua la mitopoiesi di Orazio che si paragona ad un eroe). A questo punto, il segnale dato da quella lentissima brachia: “Ma quello spiritoso, a sproposito, ridacchiando, faceva finta di niente e intanto la bile faceva finta di niente”: salsus indica il sale ma anche lo spiritoso, l’arguto (senso metaforico). Sdoppiamento tra l’io poetico personaggio di Orazio e l’io autoriale di Orazio stesso, che appare divertito dal comportamento di Fusco Aristio. La bile, per la rabbia, gli brucia il fegato, considerato dagli antichi la sede delle passioni (→ torna immagine della malattia). A questo punto, Orazio si rivolge ad Aristio Fusco dicendo “Dunque tu dicevi che tu volevi parlarmi di un non so che in privato”: Orazio qui cerca di ricordare una conversazione, vera o presunta che sia, tra lui e Aristio che sarebbe rimasta in sospeso e che quindi ora poteva concludersi; ma anche qui Aristio continua ad essere male salsus: “Me ne ricordo bene (memini = perfetto logico con valore di presente) ma te ne parlerò in un momento migliore; oggi, è sabato ed è plenilunio. Vuoi forse offendere i giudei circoncisi?” e Orazio risponde “Io non ho nessuno scrupolo religioso” e Aristio “Io sì! Io sono un po’ troppo debole, uno dei tanti. Mi perdonerai ma te ne parlerò in un altro momento”. Fusco Aristio, all’inizio, suscitando l’ennesima speranza di Orazio, sembra abboccare perché dice di ricordarsi; tuttavia, gli dice che glielo dirà in un momento migliore (forte enjambement: meliore tempore → ci dà un’idea della lunghezza del tempo con cui Fusco Aristio differisce). L’interpretazione della frase successiva è complessa: qualcuno ha pensato “il trentesimo sabato dell’anno” e, siccome poi si parla dell’offendere i giudei, si è cercato nel calendario ebraico una particolare festività ebraica che cadesse nel trentesimo sabato dell’anno, per rispetto della quale non si può fare niente, neppure una conversazione. È stata una soluzione questa un po’ insoddisfacente perché non si è identificata nessuna festività che cada il trentesimo sabato. Sembra poco probabile che Orazio abbia inventato una festività che non esiste, anche perché Orazio è un buon conoscitore della comunità ebraica, quindi è improbabile che Orazio non conosca le usanze. L’ipotesi più probabile è che il numerale “trincesima” non faccia riferimento al trentesimo sabato, quindi alla trentesima settimana dell’anno, ma al trentesimo giorno del mese lunare → novilunio: giorno sacro per gli ebrei, tanto più se cadeva di sabato. Orazio viene quindi invitato a non offendere (vin = forma colloquiale per visne: 2a pers. del verbo “volo” → vis + particella enclitica “ne”, cioè particella interrogativa; avviene l’apocope della e finale e poi abbiamo un’assimilazione tra s e n; poi -nn- si scempia e si arriva a questa forma // oppedere = scoreggiare in faccia agli ebrei letteralmente). Lo pseudo-Acrone cercava di dare un’etimologia che potesse ripulire tale verbo: nel verbo oppedere aveva colto la radice “pes, pedis” e quindi aveva interpretato “mettere il piede contro gli ebrei” quindi “offendere”. Forte è anche l’immagine dei tronchi spezzati che allude alla circoncisione (immagine di antisemitismo romano). Orazio anche stavolta risponde “A me non interessa, non ho nessuno scrupolo religioso (religio). Qui si sta mettendo in scena anche il pensiero filosofico di Orazio che è un pensiero di adesione alla scuola filosofica epicurea: l’epicureismo è una posizione di ateismo, cioè gli epicurei immaginano la religione tradizionale romana e pagana come in realtà uno scrupolo religioso, una serie di miti costruiti per impaurire gli uomini e tenerli sotto scacco anche politicamente per la paura; l’epicureismo si propone come un messaggio salvifico di liberazione dalla paura dell’uomo per la divinità. Gli epicurei non sostengono che le divinità non esistano, ma che vivano negli intermundia (cosmologia che prevede il nostro mondo come uno dei tanti possibili nell’universo, intervallati dagli intermundia, spazi vuoti tra i mondi, sedi delle divinità che vivono sereni in uno stato di totale indifferenza nei confronti dell’uomo). Orazio è senza scrupolo religioso e invece Fusco Aristio lo ha (at mihi est sottinteso), dice di essere più debole rispetto ad Orazio (comparativo relativo) oppure, se lo intendiamo come comparativo assoluto, un po’ troppo debole perché è uno dei tanti che è ancora vittima dello scrupolo religioso (non ha ancora abbracciato, come Orazio invece ha fatto, l’epicureismo). Con questo pretesto, quindi chiede a Orazio di perdonarlo. Crolla l’ennesima speranza di Orazio: “Che giornata nera che è spuntata per me! Questo sciagurato se la svigna e mi lascia sotto la mannaia”. Orazio prerompe nell’esclamazione di stizza costruita con acc.+infinito (caso e modo tipici dell’esclamazione latina). “Huncine” è composto da hic, haec, hoc + la particella “ce” (particella deiticca, cioè dimostrativa; hic, haec, hoc ha questa particella già al suo interno) non apocopata + la particella “ne” (particella deittica asseverativa) → huncene → apofonia con chiusura di e>i quindi = huncine (agglutinato di particelle dimostrative). La metafora del nero come negativo ha orgine dalla consuetudine romana di mettere ogni giorno, in un’urna, un sassolino bianco o nero a seconda che la giornata fosse stata positiva o negativa cosicché da poter fare un bilancio a fine vita. Aristio se ne va e lascia Orazio sotto il coltello/la mannaia. Arriva ora lo scioglimento della situazione, stavolta davvero per caso: “Per caso gli venne incontro (al seccatore) il suo avversario (in tribunale) e, a gran voce, esclama “Dove vai malarnese?” e rivolto a Orazio “è possibile chiamarti a testimone?” E io gli porgo l’orecchio. Lo trascina in giudizio. Grida da ogni parte (frase nominale), un accorrere di gente da ogni parte. Così mi salvo Apollo”. Casu riprende i versi precedenti. Si para lungo la via del seccatore il suo avversario e gli si rivolge in modo molto spregiativo e l’avversario vuole a questo punto trascinarlo in tribunale ma per farlo ha bisogno di un testimone. La pratica antica prevedeva che, quando uno non si presentava in tribunale e voleva eludere la giustizia, il suo avversario aveva la possibilità di trascinarlo con la forza attraverso una pratica di imposizioni (in+iacio = mettere le mani sopra a uno). Per trascinarlo in tribunale, bisognava però avere un testimone per sottolineare che il testimone non era andato spontaneamente in giudizio. Chiede quindi a Orazio se può “antestare” (testimoniare davanti) e Orazio ascolta (auricula diminutivo senza differenza dal sostantivo-base): porge l’orecchio perché l‘accettazione avveniva in questo modo → ci si faceva toccare l’orecchio, come spiega Plinio il Vecchio (autore di età flavia dell’opera Naturalis Historia che è un’enciclopedia in cui sono raggruppate varie discipline/forme di sapere e che per noi è fonte anche di varie curiosità secondo cui l’orecchio era appunto la sede della memoria), per ricordare alla persona testimone di venire. Questa espressione richiama “denitto auriculas” del v. 20, quando in un momento di disperazione, abbassava le orecchie come un povero asinello; qui invece è tutto pronto a dare l’orecchio perché questo è un segnale di speranza. Lo trascina quindi in giudizio e vediamo compiuta la sorte dell’essere rapito laddove il seccatore inizialmente “rapiva la mano” di Orazio. Ci sono grida da entrambe le parti e, da ogni parte, ci sono i curiosi che si avvicinano per vedere la scena. La chiusa “così mi ha salvato Apollo”: Apollo è il dio dei poeti; Orazio è un poeta quindi è in qualche modo un protetto di Apollo e quindi attrae la sua poesia in una sfera di poesia alta, pur facendo satira. Apollo lo protegge come si conviene che faccia con i poeti ma questo, almeno a detta già dei commentatori antichi, è un’allusione al XX libro dell’Iliade, in cui Apollo salva Ettore da un duello con Achille e ancora una volta c’è quindi un’immedesimazione in una scena epica, in qualche modo l’innocente Ettore è Orazio e il prevaricatore Achille è il seccatore e naturalmente interviene la divinità a salvare Ettore/Orazio. Prosegue il gioco di mitopoiesi da un lato e dall’altro di abbassamento di una scena epica ad una situazione più quotidiana. Probabilmente c’è anche un omaggio a Lucilio perché questo verso 223 dell’Iliade era già stato citato da Lucilio nel VI libro → anche in chiusa c’è ancora un omaggio a Lucilio. Come si sviluppa la satira dopo Orazio, cioè con gli autori che avevamo visto essere, fin dalla testimonianza di Diomede, Persio e Giovenale? Con Orazio abbiamo ancora una satira che primariamente nasce all’interno di una cerchia di amici, quelli del circolo di Mecenate. Con la satira post-oraziana, questo orizzonte cambia: ci orientiamo verso una satira da subito pensata per il grande pubblico, per chiunque possa leggere la satira che, naturalmente, allora è un messaggio che può essere rivolto ai pochi benpensanti di una società individuata come viziosa e corrotta, per la maggior parte bisognosa di cura (rappresentata dalla morale della satira stessa), che allora sarà gradita e si indirizzerà solo a questo ristretto gruppo. Questo allargarsi della dimensione del pubblico comporta anche un cambiamento di atteggiamento del poeta nei confronti del suo pubblico, cioè comporta l’instaurarsi di un rapporto verticale poeta-pubblico. Orazio, nei confronti del suo pubblico di amici, ha un rapporto più orizzontale, non maestro-allievo, ma si mette alla stregua dei suoi lettori, spesso coinvolti nella ricerca di una morale positiva in mezzo a tanti esempi negativi → avvicinamento che si fa insieme, in un rapporto di complicità. Tale atteggiamento cambia nella satira post-oraziana, dove gli autori tendono a porsi un po’ più su un piedistallo, con un tonno di ammaestramento e quasi predicazione. Anche il modo di guardare la realtà cambia: la cifra distintiva della satira oraziana era il realismo, anche bonario; nella satira post-oraziana, invece, prevale un atteggiamento di condanna molto più aspro. Cambiano allora anche le modalità di fruizione della satira stessa: inizia a farsi piede la pratica della pubblica recitazione, cioè la satira, prima ancora di essere pubblicata sotto forma di libro, è un testo che viene presentato oralmente al pubblico; ciò comporta che, per certi aspetti, fa il suo ingresso nella satira oraziana una componente retorica molto più forte. Quello di Orazio era un sermo, una conversazione quotidiana che appunto ci può essere tra amici; nella satira post-oraziana, la colloquialità tende a cambiare anche in conseguenza di questa modalità di fruizione. Aulo Persio Flacco Le notizie che abbiamo su questo autore ci vengono sostanzialmente da una biografia di I sec. d.C. di Valerio Probo, grammatico e commentatore delle satire di Persio. Egli nasce da ricca famiglia equestre, nel 44 d.C. (territorio etrusco) → Aulus è la forma romanizzata di “Le muse abitatrici dell’Elicona e la pallida Pirene (accusativo che mantiene la desinenza greca e nesso allitterante), io le lascio a coloro i cui ritratti sono circondati da edera flessibile”. Pirene era un’altra fonte che si credeva sempre sgorgata dal tocco dello zoccolo di Pegaso, si trovava a Corinto, ed era un’altra fonte di ispirazione poetica; viene detta “pallida” nel senso causativo, cioè fa impallidire chi beve le sue acque, quindi i poeti (→ l’attività poetica sfianca chi ci si dedica). Esse vengono lasciate ai poeti, i cui ritratti (imago = ritratto; la radice di imago era collegata a quella del verbo imitor) sono circondati dall’edera. Fa probabilmente riferimento alla consuetudine di mettere nelle biblioteche private e pubbliche i ritratti dei poeti famosi che erano circondati dall’edera. Quindi Persio si sta in qualche modo “togliendo” dalla schiera dei poeti famosi. “Però anch’io, seppur poeta a metà, comunque porto il mio canto alla sagra/al sacro patrimonio dei vati”. Persio vuol dire di non considerarsi un poeta ispirato come fanno tanti della sua epoca, ma comunque dà il suo contributo alla poesia. “Semipaganus” è un termine discusso: “semi” è il prefisso che significa “a metà”, mentre “paganus” fa riferimento a “pagus” = villaggio, quindi potrebbe far riferimento a qualcosa di rustico/campagnolo; Persio sta facendo forse riferimento alle sue origini provinciali, rivendicando uno stile rusticus, un linguaggio alieno agli orpelli stilistici di molti suoi contemporanei. Effettivamente, della lingua di Persio, possiamo dire che lui propone un linguaggio scabro, semplice, che lui stesso chiama i “verba toge” (“parole della toga”, cio dell’abbigliamento di tutti i giorni, quindi quotidiane, estranee ad arcaismi/rifiniture tipici di una poesia troppo concettosa e degli artifici della retorica). Questa opzione di semplicità che lui asserisce, in direzione del sermo oraziano, in realtà è più un’affettazione teorica che non una prassi poetica, poiché la lingua di Persio non è assolutamente facile, in quanto se usa parole in sé semplici e quotidiane, le abbina però in modo molto particolare, ricercando una iunctura acris (sintagma duro/difficile), sia dal punto di vista fonetico (suoni dure, urtanti, stridenti tra loro) sia dal punto di vista del significato (numerosi ossimori = parola greca che significa “acutamente folle”, cioè indica l’accostamento di parole che stridono tra loro per significato, metafore) → lingua dà impressione di naturalezza, ma in realtà è deformata per renderla più espressiva, per renderla mimetica dei contenuti: Persio si occupa soprattutto del vizio, della sua degradazione, i paradossi a cui induce l’umanità (è una satira fortemente moralistica), anche nelle deformazioni del corpo (un’immagine ricorrente è quella del ventre prominente), e per renderla foneticamente viene utilizzato anche questo linguaggio particolare. Sono comunque parole quotidiane e forse proprio a questo fa riferimento “semipaganus”. Secondo altri, i pagani sono coloro che vengono dallo stesso pagus (villaggio) quindi celebrano gli stessi usi e miti; metaforicamente, questi sarebbero i poeti ispirati che, naturalmente, condividono gli stessi riti in onore delle divinità che concedono l’ispirazione. In questo senso, “semipaganus” significherebbe “mezzo-poeta”, ritornato quindi al concetto secondo il quale Persio non si annovera tra i veri poeti. Riecheggia anche un tema oraziano della satira 1, 4 in cui Orazio dice che il sermo non è poesia, sostenendo quindi che la sua satira non è poesia, poiché non è frutto di una mente divina. c’è quindi in questo esordio/conclusione di Persio un richiamo al precedente di Orazio, ma forse in una visione ancora più radicale, cioè Persio sembra quasi negare che per fare poesia ci voglia un’ispirazione divina; basta una coscienza morale per fare una poesia con l’utilità morale di aiutare a sradicare il vizio. Deve essere una poesia a sua volta casta e pura, come dice nei versi successivi, dove se la prende con la matrice venale della poesia, cioè il bisogno economico come origine non nobile e sbagliata della poesia. Tale motivo è in parte oraziano perché anche lui lo aveva sviluppato in una delle Epistole. Quindi improvvisamente abbiamo lo spostamento di focus dal motivo dell’ispirazione a quello del denaro che spinge a fare poesia; il passaggio è anche abbastanza brusco, tant’è che qualcuno ha sollevato problemi di unitarietà dei coliambi, sostenendo che si tratti in realtà di due componimenti diversi. In realtà non è necessario pensarlo perché un’altra caratteristica fondamentale di Persio è proprio questo procedere per quadri staccati, dando immagini senza continuità e saltando da una parte all’altra e rendendo difficile la sua comprensione. “Chi ha suggerito al pappagallo il suo ‘salve’ (il pappagallo è un animale esotico perché di provenienza tropicana, quindi molto apprezzato dai ricchi parvenus che si vantavano di avere tutto ciò che era di provenienza lontana → motivo tipico di lusso ed esibizionismo, che è qui condannato; il pappagallo veniva ammaestrato a parlare in modo da salutare gli ospiti che entravano in casa: ‘chere’ è la trasposizione greca di ‘caire’ cioè ‘salve’) e chi ha insegnato alla gazza a imitare le nostre parole (doceo + frase infinitiva: verbo all’infinito e ente cui si insegna all’accusativo)?” Capiamo che la gazza è un animale loquace; godeva di meno pregio del pappagallo ma anche lei veniva ammaestrata a ripetere le parole umane (“nostra” = “umane”, anche se qualcuno ha interpretato come “latine”). “Il maestro dell’arte e il donatore dell’ingegno è il ventre (verso con figura del chiasmo = inversione dell’ordine delle parole: prima il sntagma “magister artis”, cioè NOM+GEN, poi “ingenique largitor”, GEN+NOM), abilissimo (artifex che regge infinito) nell’imitare quelle voci che sono state negate dalla natura”. Dopo la domanda, Persio dà la risposta: colui che è artefice ed abile nell’imitare le voci negate agli uccelli dalla natura (per natura non sono voci proprie a loro) è naturalmente il “ventre”, ovvero la tecnica per cui gli ammaestratori davano il boccone soltanto se gli animali facevano bene quello che si stava insegnando loro. Naturalmente, gli uccelli sono figure dei poeti che vengono ammaestrati dal ventre, cioè dal bisogno di cibo che, nella società umana, diventa bisogno di denaro. Anche qui, però, abbiamo un piccolo stacco da un quadro all’altro, tanto che qualcuno ha ipotizzato che sia caduto un verso dopo il verso 11, cioè ci sia una lacuna che spiegherebbe tale frattura: abbiamo infatti un’immagine che si ricollega a quella dei poeti-uccelli, ma spostando l’attenzione. “Ma se (quod = forma di passaggio) balenerà (letteralmente “sarà balenata” ma tale futuro anteriore ci presenta quasi una certezza) la speranza del fallace denaro, potresti credere che i poeti cordi e le gazze poetesse (poetridas è un termine con desinenza greca) cantino un canto dolce quanto il nettare di Pegaso.” Questi poeti cordi e poetesse gazze sono naturalmente cattivi poeti, cioè fanno poesia di pessima qualità, ma sfruttano il mezzo del denaro che è ingannevole. In questo senso fa riferimento non a quanto stava dicendo prima, cioè che devono far poesia per il bisogno, ma nel senso che sono poeti che usano il denaro per prezzolare il pubblico, cioè si pagano quelli che facciano applausi/apprezzamenti a pagamento → il denaro offusca il senso critico di chi li riceve: pur pensando che siano cattivi poeti, dà un buon giudizio. Quindi si potrebbe credere che stiano cantando un canto dolce quanto il nettare di Pegaso, cioè il nettare delle muse (poesia soavissima).Questi poeti, pur professandosi poeti ispirati, sono estranei alla vera poesia. Tale tema ritorna in continuità anche all’interno della SATVRA I, ancora basata sul problema della decadenza della poesia, criticata poiché va o verso un concettismo estremo o vero una pomposità esagerata → degenerazioni formali che sono riflesso di una degradazione morale della figura del poeta, spinto unicamente da esibizionismo e smania di successo. Qui torniamo al metro consueto dell’esametro: è una satira che presenta una struttura dialogica, come molte della satire di Persio, e viene ripreso il motivo dalla diàtriba, modo della predicazione filosofica di esposizione della materia fatta in forma interlocutoria (voce autoriale + interlocutore, che in genere è fittizio, serve solo da spalla per dare il destro al poeta attraverso le sue obiezioni). Già in questa prima satira, l’interlocutore si stempera ulteriormente, tanto che qualcuno ha ritenuto che si trattasse di una sorta di monologo interiore di Persio. Proprio per il problema di oscurità del linguaggio di Persio, uno dei problemi più complicati ai quali gli editori devono dare risposta è la distribuzione delle battute tra Persio e l’interlocutore. Teniamo per buono che, in questa edizione, il virgolettato (‘...’) indica le parole dell’interlocutore, mentre il resto indica le parole di Persio. “(esclamazione con interiezione “o”) O passioni umane! (tema centrale della satira di Persio: le passioni umane che, nella logica storica, sono una rovina per l’uomo → lo stoicismo predica l’imperturbabilità del sapiens a tutte le passioni fonti di turbamento e destabilizzanti) o quanta vanità c’è nelle cose!” Il primo verso è molto enfatico e solenne. Gli scoli lo attribuiscono a Lucilio → gli scoli sono note a margine (linguistiche, segnalanti richiami testuali, annotazioni di carattere storico...) apposte dai lettori sui manoscritti. Quando il testo veniva copiato, venivano ricopiati anche gli scoli che alla fine costituivano un commentario all’opera stessa, nato dall’aggregazione di più note. Negli scoli, si dice che questo doveva essere un verso di Lucilio e ciò concorda con una notizia che proviene dalla “Vita di Persio” ad opera di probo, secondo la quale Persio avrebbe iniziato a scrivere le sue satire impressionato dalla lettura del X libro delle satire di Lucilio e avrebbe scelto di ispirarsi all’inventor della satira per il suo spirito di denuncia e anche per il suo stile che era non particolarmente attento alla rifinitura, vicino all’ideale di Persio dei “verba toge”. Per noi tale citazione non è luciliana, ma ritroviamo una frase di questo tipo nel “De rerum natura” di Lucrezio: Lucrezio è un poeta di I sec. a.C., autore di un poema epico-didascalico (scritto in esametri ma né di contenuto mitologico né storico ma didascalico, poiché ci dà ammaestramenti) che dà esposizioni delle teorie del filosofo greco Epicuro e della dottrina epicurea, quindi una dottrina che ha punti di contatto con lo stoicismo nel motivo di liberarsi delle passioni per raggiungere uno stato di atarsia, indifferenza, imperturbabilità → Epicuro è rappresentato come un eroe epico nel liberare l’uomo di tutte le sue passioni attraverso questa teoria. “’Chi leggerà queste cose?’ A me tu chiedi questo? (min = mii+ne = pronome personale “me” + particella enclitica interrogativa) Nessuno per Ercole” ‘Nessuno?’ O due o nessuno. ‘Che cosa turpe e vergognosa!’ Perché? (ne = possiamo intepretarlo come una forma negativo (senso dispregiativo); l’occhietto è un’immagine tipica della poesia erotica. Qui si sta forse cercando di prendere in giro questa cosa: al declamatore è attribuito l’occhietto femmineo che l’uomo apprezza nella donna-amante come a dire che lui è un po’ smidollato così come tutti quelli che godono della sua esibizione. “E allora potresti vedere i Titi grandi e grossi trepidare indecentemente (con un costume non decente) e con voce turbata quando i carmi penetrano nei loro lombi e quando le loro parti più intime sono accarezzate da tuoi tremuli versi”. C’è questa scena che vira verso un’accusa di languore ed effeminatezza: la poesia viene recitata in modo languido e gli ascoltatori hanno, nell’ascoltarla, un piacere quasi erotico. I Titi grandi e grossi sono i romani: Titus era un praenomen antico tipico dei romani che suscita l’idea dei rozzi romani delle origini (rudi contadini virili) che qui stanno però palpitando, quasi come femminucce, in preda al piacere. Quando sentono scendere la poesia nel loro profondo, suscita in loro un’eccitazione quasi erotica (tremulus ha una valenza oscena) e comportamenti estranei alla dignitas e alla gravitas di un civus romanus. Si rivolge poi direttamente al declamatore dicendo: “E tu (ne = particella interrogativa), vecchietto come sei, raccogli allettamenti per le orecchie altrui, orecchie (ripreso in anafora) alle quali poter dire, distrutto nell’aspetto, basta!” Qui si rivolge al declamatore e lo definisce ancora “vecchietto”: ancora lo stesso discorso per il diminutivo, che ha quasi una valenza affettiva nel senso dispregiativo → diminutivo usato nella lingua degli affetti e dell’eros in modo parodico, a connotare la mollezza e il languore di questa figura. La vecchiaia non è anagrafica ma precoce, indotta dagli eccessivi piaceri. Egli raccoglie allettamenti per le persone altrettanto languide e per le loro orecchie (auricula, diminutivo di auris, rientra a pieno nello stesso discorso del diminutivo → accumulo di diminutivi ne potenzia l’effetto). (cute indica l’aspetto esteriore in generale) tu sei sfatto, porti tutti i segni della tua vita dissoluta anche nell’aspetto ma ricevi comunque un grande applauso dal pubblico al punto di dover dirgli “adesso basta con gli applausi!”. Anche qui, con un piccolo salto, abbiamo l’obiezione di un letterato vanitoso che, a un certo punto, gode del fatto che le sue opere subiscano tale trattamento perché le veicola al grande pubblico e le fa conoscere. Il letterato ribatte: “Ma a cosa serve (avverbio interrogativo di moto a luogo) l’aver imparato/studiato se questo fermento e questo caprifico (nome di una pianta quindi, come tutti i nomi di piante è femminile) che, una volta che è nato dentro di noi, rotto il fegato, non verrà fuori”. A cosa fanno riferimento tale metafore? Il fermento, che letteralmente indica il lievito, è un’idea dell’ispirazione poetica; anche il caprifico fa riferimento alla stessa cosa: è una pianta selvatica che cresceva tra le rocce ed era molto forte, le spaccava pur di crescere; qui è paragonato a qualcosa che nasce dentro, una passione (il fegato è la sede delle passioni), ma che non riesce a venir fuori → non intende solo il fatto di scrivere, ma di scrivere per la declamazione; il senso è: a cosa serve l’aver fatto gli studi per diventare poeta se poi l’ispirazione non viene conosciuta dal grande pubblico?. L’ironia nel rappresentarci il punto di vista di Vanesio è evidente anche nell’immagine del caprifico, una pianta sterile, ornamentale. Quindi si vuole connotare come sterile ed improduttivo questo atteggiamento del letterato vanesio. E Persio prorompe in un’esclamazione: “Ecco (interiezione) il pallore e la vecchiaia (sintomi dell’invecchiamento sui libri, immagine del letterato emaciato che invecchia velocemente per la fatica che mette nei suoi studi e nelle sue opere)! O costumi, a tal punto non vale niente il tuo sapere se non c’è un altro che sappia questo che tu sai” Persio gli sta dicendo che il sapere non è una ricchezza per se stesso, ma lo è solo nella misura in cui qualcun altro sa che lui sa → per Persio il sapere è un valore che ti tieni dentro e non devi mostrare. Arriva nuovamente l’obiezione di Vanesio: “Ma è bello/piacevole l’essere segnato a dito e (dicier = forma arcaica dell’infinito presente passivo del vb dicere: dici) essere soggetto della frase. Non stimerai niente (pendo = pagare; pro nilo = espressione di stima → “per niente”) il fatto che tu sia stato il dettato di cento riccioluti”. L’essere segnato a dito significa essere indicato come una persona famosa ed è piacevole, così come il fatto che le poesie siano state ciò che veniva dettato (frequentativo di dico) ai cento riccioluti → metafora per indicare i bambini riccioluti. Cioè è un motivo d’onore che la poesia di queste persone sia diventata motivo di studio per i ragazzini nelle scuole. Con la sua solita tecnica, Persio cambia improvvisamente il quadro e ci va a parlare di una cosa completamente diversa; introduce una scena nuova e ci rappresenta un banchetto durante il quale si fa la recitazione della poesia tra gli applausi e i commensali. Il banchetto, da tempo, era luogo di poesia: non è solo occasione per una composizione improvvisata, ma anche per una recitazione di poesia già composta che si vuole esibire al pubblico dei commensali → torniamo al motivo dell’esibizionismo. “Ecco tra i bicchieri i discendenti di Romolo satolli sono desiderosi di sapere di cosa narrino i divini poemi e a questo punto uno che ha intorno alle spalle una mantellina color giacinto, dopo aver pronunciato con un balbettio nasale (dat di provenienza = dalla narice balbettante) una storiellina muffa/sciocchezzuola, e se c’è qualcosa di piagnucoloso dei poeti, ecco che lo va a recitare ardatamente e fa scivolare le parole sul suo tenero palato”. Abbiamo la scena del banchetto, in mezzo ai bicchieri; abbiamo i discendenti di Romolo (patronimico per intendere i Romani con espressione pomposa per farci pensare a persone dotate di gravitas e invece sono persone ormai soggette al vizio) che chiedono un’esibizione poetica per capire di cosa parlino i poemi divini (da divus, diva) → qui è ironico: divini perché ispirati dalla divinità ma ritorna il motivo della poesia che si pretende ispirata del suo tempo in realtà è solo fatta di “tromboni” che rappresentano cose raffinatissime ma sostanzialmente vuote; di contro, Persio propone una poesia superficialmente di basso profilo ma profonda nei contenuti. Si alza quindi uno con la lena, la mantellina che si indossava quando faceva freddo durante i banchetti, spesso con colori sgargianti, che viene preso in giro perché parla con voce nasale, qui simbolo di innaturalezza e affettazione e bofonchia qualcosa di stantio. Qui la stoccata va alla poesia di temi mitologici, sentiti come triti, ammuffiti, lontani dai veri interessi che riguardano la morale a cui la satira indirizza la sua attenzione. Le fillidi e le ? sono eroine del mito greco entrambe donne protagoniste di vicende di amore non corrisposto: qui diventano il simbolo di una poesia mitologica vuota, piagnucolosa e qui la stoccata potrebbe essere anche ad un genere di poesia erotica, elegiaca, in cui si raccontano amori infelici del mito ma comunque tutte cose estranee alla realtà. Si cantano tutte con una voce impostata (eliquare = verbo tecnico dell’enologia per indicare la filtratura dei vini per renderli più raffinati) avvertita come snervata, femminea. L’elegia era un genere abbastanza squalificato a Roma, con tematica erotica e anche perché il sistema di vita del poeta elegiaco lo mette in contrasto col mos maiorum perché dedica la sua vita all’otium, rifiutando il negotium; gli amori elegiaci erano inoltre amori adulterini, quindi contrari al valore del matrimonio. Il riferimento a poemi elegiaci porta con sé l’idea di squalificazione: tener è un epiteto riferito alla poesia elegiaca ma anche alla persona effeminata → sta dando dell’effeminato al declamatore. Subplantare = fare sgambetto a qualcuno → fare sgambetto alle parole significa che il declamatore, volendo fare il raffinato, ha una parlata così affettata che va addirittura a storpiare le parole. Ciononostante, questo provoca il plauso sia degli ascoltatori sia dei poeti che godono del fatto che le loro poesie subiscano tale trattamento perché è quello che ne consente la diffusione presso il grande pubblico. “E gli uomini (il pubblico) (viri ironico perché questi uomini sono femminucce) applaudirono. Ora quella cenere famosa/illustre del poeta non è felice, non meno pesante il cippo ora preme/grava sulle sue ossa, i convitanti applaudono, e da quegli illustri mani (spiriti dei defunti), da quel tumulo e da quella fortunata cenere (fortunata favilla = nesso allitterante) non nasceranno le viole?” Ad essere contenti non sono solo i romani che assistono alle recitazioni, ma anche il poeta; addirittura si immagina che anche il poeta morto si compiaccia della recitazione. Abbiamo una serie di motivi relativi all’epigramma funerario, un’opera letteraria che può essere scritta in occasione di una morte per la celebrazione del defunto ma, prima di diventare opera funeraria, nasce come epigrafe, cioè qualcosa scritto sopra come la lapide tombale. Man mano si emancipa da questa origine concreta per diventare opera letteraria. Un motivo di questa opera era quello del fatto che la cenere del defunto potesse provare sensazioni anche nell’aldilà, del fatto che la pietra tombale non gravasse troppo profondamente sul defunto lì sepolto o l’immagine dei fiori che nascono dalla cenere a indicare che c’è una continuità della vita anche nell’aldilà. Sono immagini di gioia del poeta che proverà piacere, non sentirà troppo grave il peso del cippo su di sé perché sarà alleggerito dal godimento che deriva dal successo della sua poesia e nasceranno viole dalle sue ceneri, perché se la sua poesia continua ad essere recitato, rimane fecondo. Riprende la battuta dell’interlocutore, che risponde: “Ma tu scherzi e arricci troppo il naso (letteralmente “sei troppo indulgente nei confronti del tuo naso adunco”)” Torniamo alla metafora già usata da Lucilio del naso usato come simbolo del senso critico, della sagacia. Egli dice che Persio sta criticando troppo gli atteggiamenti delle persone e la poesia di un certo tipo. “Ma forse ci sarà mai qualcuno che rifiuterà di voler essersi guadagnato la bocca del popolo/di voler stare sulla bocca di tutti? E dopo aver cantato poesie degne dell’olio di cedro non si rifiuterà di lasciare poemi che non temano né gli sgombri né l’incenso”. Torna alla carica l’interlocutore che sostiene la parte di chi ritiene giusta l’ambizione del poeta. Si fa riferimento all’olio usato per preservare i libri dalle tarme → poesia degna di essere conservata. Tali poesie non devono temere gli sgombri, i pesci che comprati venivano avvolti nella carta, e l’incenso, intese le spezie, anch’esse avvolte con la carta; la carta utilizzata era di poco pregio. Se una poesia era usata per questo, era brutta poesia. C’è un riferimento a Catullo, poeta di I sec. a.C. che si ispira ai dettati di Callimaco e quindi fa poesia breve e rifinita che, prendendosela con un poeta del suo tempo, Volusio, dice che la sua poesia epica proprie facoltà espressive. Tale atteggiamento non è alieno da una certa ironia dai generi elevati da cui proviene tale stilema: lo notiamo dall’uso iniziale, in posizione evidente, di “vates” → è il poeta ma è ovviamente quello ispirato dalla divinità (vates = poeta/indovino, inteso come profeta, ispirato cioè dalla divinità). Ciò ci fa capire che qui si sta parlando di poesia ispirata, che proviene da un’ispirazione divina; è tale ispirazione che viene per certi aspetti però rifiutata. Qui Persio sta usando una movenza da poesia alta con funzione celebrativa, anche se è consapevole di non voler fare poesia alta e di non volersi conformare a quei generi. Naturalmente, sempre in omaggio a questo adeguamento dello stile ai contenuti, adottiamo anche stilemi alti e qui vediamo alcuni stratagemmi tipici della poesia elevata, ad esempio l’anafora di “centum” che ritorna per tre volte, nel v.2 anche a incorniciare il verso, occorrendo nelle due posizioni marcate iniziale e finale; esso qui è inoltre marcato dal chiasmo. Sono tutti i modi per imitare la poesia elevata che in apparenza sembra conformarsi, per l’occasione della lode di cornuto. Questa è un’abitudine tipica dei generi elevati, subito dopo nominati: la tragedia e l’epica. La tragedia è la fabula, in latino il termine tecnico per indicare l’opera drammatica. Capiamo che si tratta di una fabula tragica perché viene proposta perché sia declamata da un declamatore tragoedo mesto. “Iare” letteralmente vuol dire “spalancare la bocca” e “ianda” potrebbe fare riferimento per esempio alla bocca tipicamente spalancata della maschera dell’attore tragico. “Da far declamare a un attore” perché in questo periodo anche le opere teatrali, di cui purtroppo ci rimane pochissimo, non per forza erano rappresentate sul palcoscenico, ma potevano essere semplicemente oggetto di pubbliche letture. L’epica viene evocata nel verso successivo attraverso un’immagine di contenuti tipicamente epici, come appunto le battaglie, le ferite inflitte ai Parti (si pensa a un genere di epica storica, poiché i Parti sono il maggior nemico a Oriente di Roma in questo periodo); essi erano abilissimi arcieri e l’immagine può far riferimento o al parto che si piega su se stesso per estrarre la freccia confitta nell’inguine o potrebbe essere un’immagine del Parto ferito, che sta cadendo da cavallo e che in un estremo impeto di coraggio cerca di strapparsi dall’inguine. Persio individua come una movenza tipica dei generi elevati questo richiedere le cento bocche ma, in realtà, capiamo da subito che il tono della sua poesia non è quello della poesia elevata e lo capiamo per mezzo di una battuta di discorso diretto che interviene da parte del consueto interlocutore che interrompe il discorso di Persio. Questo interlocutore probabilmente è Cornuto stesso che, a un certo punto, si fa portavoce della posizione in termine di scelte poetiche, assunta da Persio stesso. Ad un certo punto Cornuto, quasi a schernirsi da questo elogio forse eccessivo, fa notare che tutto sommato questo augurio è fuori luogo e non è consono a quelle che sono le scelte tipiche di Persio, che allora vengono puntualizzate per mezzo della battuta dell’interlocutore che è anche un modo per far procedere il discorso e per puntualizzare meglio alcuni concetti importanti. “Ma a che cosa vuoi arrivare con tutto questo? O quanti bocconi di robusta poesia tu ingoi affinché sia giusto/equo fare affidamento su cento gole”. Cornuto, naturalmente, chiede a cosa possa puntare tutto quello e si chiede che bisogno ci sia dicendo “quanti bocconi tu ingerisci di robusta poesia?” → “offas” è ciò che si può appallottolare con la mano, quindi il boccone proprio sbocconcellato/arrotolato con la mano come un pezzo di polenta appallottolato fino a farne un boccone da ingerire. È un termine che ha una tradizione molto elevata, ha attestazioni nell’epica arcaica di Ennio, Virgilio (in un punto elevato dell’Eneide, libro VI v. 420: parla della catabasi, cioè della discesa agli inferi di Enea accompagnato dalla Sibilla cumana → per fermare Cerbero, gli lancia appunto un’offa)… → celebrare Cornuto e mostrare di saper imitare la poesia elevata, pur rifiutandola e proponendo un’altra opzione. Il significato quindi è di qualcosa che si mangia ma qui Cornuto sta giocando sul doppio senso che ha il valore di “bocca”: organo con cui si ingeriscono i bocconi, ma anche organo con cui si produce la poesia → “quali generi alti stai attaccando? → “robustus” può avere un doppio senso: in riferimento al cibo indica un alimento tosto, fortemente nutritivo, mentre in riferimento alla poesia ne indica una tosta come l’epica. “Quanti mirano (locutori = coloro che hanno intenzione di fare poesia elevata) al grandioso raccolgano nuvole sull’Elicona e lo facciano se ci sono persone per le quali bollirà la pentola di progne e tieste, la pentola da dare spesso in pasto all’insulso Glicone.” Anche qui torniamo al motivo, al rifiuto della poesia elevata, fatto per bocca di Cornuto. Solo chi ha intenzione di far poesia elevata, vadano a raccogliere le nuvole sull’Elicona (montagna delle muse, da cui si attinge l’ispirazione) → le nuvole a indicare qualcosa di vaporoso/pomposo, ma senza sostanza, come è la poesia epica e tragica nell’ottica di Persio: ha stilemi pomposi, ma manca di contenuto perché i contenuti mitologici, di cui per lo più si occupano questi generi, sono contenuti vuoti e vacui rispetto a quelli realistici e moralistici della satira ispirata non dalla divinità dell’Elicona, ma dalla vera coscienza dell’uomo. Prognes: forma di genitivo con desinenza greca (fa riferimento a un’eroina greca) → sono due miti tipicamente tragici che ruotano intorno al motivo della pentola: Progne, secondo il mito, aveva messo in pentola e imbandito poi da far mangiare al marito Tereo il figlioletto per vendicarsi dell’offesa che Pereo le aveva fatto violentando la sorella Filomena; Tieste è un altro mito tragico intorno allo stesso motivo: Tieste si era visto imbandire a mensa da suo fratello i suoi stessi figlioli → scena di cannibalismo che ruota intorno al motivo del cibo. Questi sono rappresentati come tipici miti tragici tanto impressionanti ma altrettanto vacui. Continua la metafora alimentare. Perché questi cibi sono dati in pasto (cenanda = gerundivo concordato con olla) a Glicone? Glicone era un attore tragico a cui vengono dati in pasto, nel senso che glieli si danno da recitare miti e tragedie, e lui li canta perché viene pagato per farlo. Naturalmente, di questo Glicone Persio non ha grande stima perché viene definito come un attore inetto/insulso → radice di sal: “senza sale” nel senso “insipido”, quindi senza verve/“insulso” per metafora. A questi esempi di vacuità e vanità letteraria, Cornuto oppone invece la scelta di Persio, perché gli dice: “Infatti tu non sospingi i venti/l’aria con il mantice che soffia, mentre il blocco di metallo cuoce/fonde nella fornace né tu gratti rauco tra te e te non so quali solenni sciocchezze con misterioso brontolio né ti sforzi di far esplodere le guance gonfie con uno schioppo”. Tutte queste immagini fanno riferimento ancora al carattere tumido/gonfio/da trombone della poesia elevata. Le immagini attraverso le quali la poesia elevata viene negata a Persio sono:  immagine tratta dal mondo della metallurgia: abbiamo il mantice che soffia in continuazione e sposta l’aria mentre il blocco di metallo si cuoce all’interno della fornace; è una metafora che noi abbiamo già incontrato in Orazio, satira 1,4, vv. 19 e seguenti (satira in cui Crispino sfidava Orazio a comporre di più → per smontare l’interlocutore, ricorreva all’immagine del mantice come di una poesia opposta al suo stile poetico, cioè un carmen longum di contro al suo carmen brevem); questa immagine del mantice, cioè della poesia come uscita dalla fucina, era ritrovabile già in Callimaco che si rivolgeva ai suoi detrattori paragonandoli a metallurghi, i telchini.  immagine della poesia recitata a pieni polmoni era già presente nella satira I di Persio: il pulmo era rappresentativo delle aspirazioni del poeta che punta al genus elevato.  immagine della cornacchia (cornaris = verbo derivato dal sostantivo cornix, cornicis → quindi è verbo denominativo che indica il gracchiare della cornacchia come l’aggettivo “raucus” è spesso usato come epiteto della cornacchia) è per bollare in modo negativo la poesia di chi attenta al genus grave, ma inetta→ figura di ossimoro: è qualcosa che ha una sua gravitas/dignitas ma in modo assolutamente inadatto = vengono fuori cose solenni, ma sono solenni sciocchezze che il poeta del genere elevato, nell’enfasi della sua produzione, gracchia tra sé e sé con un misterioso brontolio (è ancora chiuso nella sua torre d’avorio per comporre queste cose grandi che in realtà si rivelano sciocchezze). È significativo l’uso del termine “inepte” perché Persio, ai vv.43-46, dice che quando scrive qualcosa di valido è un uccello raro → quel “un po’ più buono” lo dice con “aptius” comparativo di “aptus” qui negato tramite “inepte”. Persio non aspira ad essere genius grande, ma produce qualcosa di buono, contro a coloro che aspirano ma finiscono per fare qualcosa di “inepte”.  L’ultima immagine è quella del gonfiore della poesia: le guance sono gonfie mentre si pronunciano tali carmi ed essi sono fragorosi perché la poesia nasce dallo scoppio di queste guance gonfie d’aria (scloppo = termine onomatopeico). Tutta questa enfasi epico-tragica è estranea a Persio: “Tu invece cerchi (letteralmente insegui) le parole della toga/comuni, abile/esperto nel sintagma difficile (congiunzione di parole in modo difficile) e rifinisci le parole con la bocca arrotondata nella giusta misura, valoroso nel radere (letteralmente raschiare) i costumi viziosi (pallentis = accusativo arcaico) e abile nel colpire (letteralmente sradicare) la manchevolezza con scherzo ingenuo non volgare”. Dopo la parte critica ai generi elevati, arriva la scelta positiva professata e proposta da Persio, che è una scelta di parole comuni, quindi un linguaggio che rifugge dalla pomposità/elevatezza della lingua epico-tragica, ma che in realtà ha una sua forma di affettazione che nasce dall’uso espressivo che si fa di queste parole, dalla combinazione aspra/dura/difficile delle parole (metafore, parole stridenti tra loro foneticamente o semanticamente), perché è un linguaggio mimetico degli oggetti che va a descrivere: stridente è il vizio, stridente è il linguaggio che lo rappresenta. Le parole vengono quasi logorate → espressione che normalmente indica la perfezione stilistica del linguaggio, cioè “os rotundus”, espressione coniata da Orazio nell’Ars poetica per indicare la perfezione di linguaggio; qui abbiamo “one modico”, cioè la bocca che conserva la giusta misura, quindi una dizione elegante ma non troppo, cioè non l’os rotundus dei generi elevati, ma modico, una giusta misura (non rozzo, ma nemmeno perfettamente rifinito). Con queste caratteristiche Persio è doctus (+ infinito; in un costrutto più prosastico ci saremmo aspettati in+gerundio/gerundivo) nel raschiare i costumi viziosi → “pallentes” letteralmente significa “pallidi” ma anche qui c’è la solita metafora del pallore come sintomo di consunzione fisica indotta dal vitium. Persio, e la sua poesia, hanno l’obiettivo di raschiare/sradicare il vizio: la Giovenale, rispetto a Persio, ci presenta una lingua più diversa. Abbiamo visto che Persio presentava una certa naturalezza del linguaggio, utilizzando parole appartenenti al sermo quotidiano; nella pratica, in realtà, la lingua di Persio era complessa non tanto perché comportava l’elevatezza delle parole, ma per la difficoltà degli accostamenti delle parole, stridenti sia sul piano fonico che sul piano del senso, in modo da rappresentare anche l’asprezza del vizio. A ciò si aggiungeva l’uso della metafora, l’accostamento ossimorico non solo delle singole immagini e dei singoli sintagmi, ma anche nei segmenti testuali (da un quadro ad un altro, rendendo difficile la comprensione). Quella di Giovenale è una lingua più semplice e lineare; a differenza dei suoi predecessori, scegli però un linguaggio più elevato: non più il sermo, ma toni sublimi, parole elevate, che si accostano a parole più semplici e quotidiane anche se la scelta rimane mediamente elevata. Giovenale, per certi aspetti, rappresenta la radice/origine satira che tutti riconoscevano nel modello della commedia greca arcaica. Giovenale usa maggiormente una lingua tragica, un linguaggio più alto ed elevato perché da un lato c’è un’influenza della pratica delle recitationes (Giovenale stesso ha dovuto praticarle e, pur criticandone l’esibizionismo, ne rimane influenzato): c’è un’impostazione retorica, il ricorso ad exempla per attirare l’attenzione del pubblico, stabilire un contrasto con esso, illustrando il concetto che si vuole esporre attraverso una casistica di esempi che aiutano l’ascoltatore a catalizzarsi sull’argomento; dall’altro lato, l’indirizzarsi verso una lingua sublime è una conseguenza del principio di adeguamento della forma al contenuto. Il contenuto è di carattere realistico, non mitologico, che fa riferimento al vitium, verso il quale Giovenale proclama tutta la sua indignatio. La satira di Giovenale si limita a denunciare il vizio. Se il contenuto è tragico, anche la lingua deve adattarsi a ciò e assumere movenze tragiche per rendere il gigantismo e dinamismo proprio del vizio, tramite figure come l’iperbole, l’esagerazione e talvolta l’accostamento di parole elevate con altre più quotidiane proprio per rendere questa incongruenza e bruttura del vizio. IUVENALIS SATURA VI Giovenale sfodera tutta la sua ironia in questa famosa satira contro le donne. La critica si è posta una domanda: è una forma di misoginia (“odio nei confronti delle donne”) o misogamia (“odio contro il matrimonio”)? Questo perché, almeno in apparenza, Giovenale non colpisce tutte le donne ma solo quelle sposate  requisitoria contro il matrimonio, indirizzata contro un amico di Giovenale presentatoci come in procinto di sposarsi (è già stato celebrato il fidanzamento, vuole sposarsi ma Giovenale intende dissuaderlo da questa scelta). La presenza dell’amico è sporadica: innanzitutto, non viene nominato subito ma più tardi e compare 2-3 volte all’interno di una satira di 661 vv. probabilmente perché Postumo è solo un pretesto che incarna la scelta di più uomini romani che optano per la vita matrimoniale. La requisitoria non è contro il matrimonio in sé (istituzione sacra per il cittadino romano), ma in quanto istituzione non più praticabile al suo tempo per la degenerazione dei costumi che ha coinvolto soprattutto il sesso femminile, sul quale, a causa della sua infedeltà, si scaricano le colpe del fallimento del rapporto di coppia. Gli stralichi di Giovenale non si indirizzano contro tutte le donne, ma contro le matrone (= donna di condizione libera e di condizione sociale anche elevata). Questo perché la morale sessuale classica romana non è fondata su un concesso di virtù universalmente valido per tutti, ma è basata sulla divisione della società romana in classi: non tutte le donne sono vincolate agli stessi obblighi e alla stessa etica, ma i loro doveri sono in rapporto alla loro condizione. Il rapporto sessuale fuori dal matrimonio da parte di una donna di libera condizione (per godimento, al di fuori dei fini riproduttivi) non è concepito come colpa; la donna che lo pratica non incorre in nessuna punizione. Diversa è la condizione della matrona che invece è vincolata alla fides matrimoniale: violandola, incorre in gravi conseguenze sociali e legali. Quello che interessa a Giovenale è la figura della matrona, soprattutto della virgo (che si prepara al matrimonio) o della vidua (matrona ormai rimasta vedova). Tutte le altre donne non interessano, se non come termine a confronto per suggerire cosa diventa la matrona degenerata. Non è tanto una misoginia generalizzata, anche se comunque essa è il presupposto scontato di questa visione di Giovenale (la donna è comunque un essere inferiore, che deve essere sottomesso). La matrona, rappresentata come l’ideale etico, non è una figura naturale ma plasmata dalle convenzioni sociali che la fanno abdicare, in un certo senso, alla sua natura di femmina. La libido e la passione la portano poi verso comportamenti inaccettabili. E nei confronti dell’uomo? Anche verso l’uomo c’è una certa critica: l’uomo è accusato di debolezza, di essersi femminilizzato perché accetta di fatto i comportamenti della matrona, che invece avrebbe dovuto reprimere. Egli è accusato di passività e di impassibilità coercitiva. Allora entrambi i sessi tradiscono la loro natura: la donna tradisce la sua natura di femmina diventando matrona (tradimento positivo, che la società si aspetta); l’uomo invece tradisce la sua natura di maschio e la sua tendenza alla supremazia (tradimento degenerativo). Quali sono le radici e le cause che portano la donna ad allontanarsi dalle convenzioni sociali per realizzare la sua natura di femmina? Secondo Giovenale le radici sono da individuarsi nel venir meno del metus ostili (dopo la distruzione di Cartagine), in quanto Roma è ormai un grande impero, ha imposto la sua supremazia ovunque, e ciò garantisce una stabilità e pace che però è responsabile di un rilassamento dei costumi e di un benessere anche economico che ha introdotto lusso e denaro fonte di corruzione. È il momento in cui scatta l’identificazione tra lussuria antica (amore per il lusso) e lussuria attuale (amore per il sesso). Perché se la donna è ricca può lasciarsi andare alle pulsioni sessuali? Perché il potere economico le consente di emanciparsi dalle figure maschili che la tenevano a freno (padre e marito). Se la possibilità economica della donna le consente una certa libertà, le consente un’emancipazione e il suo sganciarsi dai vincoli della società. Viene quindi rivolta una critica anche verso tutto ciò che rappresenta la donna: vi sono exempla di donne che si danno ad attività maschili (atletica, oratoria, letteratura…)  sono exempla negativi di emancipazione che allontanano la donna dalla sottomissione. Qui in parte si sente anche una certa carica di rivolta sociale del cliens di Giovenale (che soffre della condizione di indipendenza economica) che si sfoga contro la classe più elevata. La satira è in esametri e comincia con un preambolo di 10 versi. “Credo che la pudicizia si sia affermata sulla terra al tempo del re Saturno e si sia lasciata vedere a lungo allorquando una fredda spelonca (iperbato) offriva un modesto rifugio (iperbato) e racchiudeva il focolare, il lare, il bestiame e i padroni sotto un’ombra comune, quando la moglie montanara (iperbato) preparava un giaciglio silvestre con fronde e paglia e pelli delle vicine fiere (che si aggiravano lì intorno). La moglie non simile a te (tintura retorica della litote che potenzia un concetto negandone un altro), o Cinzia, e da te i cui occhi splendidi turbò la morte del passero. La moglie pronta a portare ai robusti figli le mammelle da bere/succhiare e la moglie spesso più scarmigliata del marito che ruttava rigurgitando il pasto di ghiande”. Questa è un’immagine che ci riporta all’età di Saturno: Saturno si collega ai sata (campi coltivati) quindi è un’ancestrale divinità agricola romana. Tuttavia, c’è stato un parallelismo con la divinità greca Crono: Crono è un dio greco, padre di Zeus, quindi una divinità pre- olimpica, che appartiene ad una generazione precedente agli dei dell’Olimpo che vedono il loro padre in Zeus. Intorno a questa figura di Saturno/Crono si è sviluppato il mito dell’età dell’oro, che avrebbe avuto luogo al suo tempo: l’età dell’oro è un tempo mitico di prosperità, abbondanza, in cui non c’è bisogno di nulla perché la terra produce spontaneamente i frutti dando sostentamento agli uomini, il clima è mite senza bisogno di rifugi e dimore, non c’è ingiustizia, odio, non ci sono guerre quindi non c’è nemmeno bisogno di leggi per tenere a freno gli istinti malvagi dell’uomo; è quindi una mitica età della prosperità. Giovenale recupera allora questa immagine con una prospettiva particolari: non sono uomini felici, ma trogloditi che hanno a che fare con una vita abbastanza dura e povera che non riflette quella del mito. Questa è una prima spia del fatto che in realtà a questa prima età dell’oro che sembra aprirci ad una prospettiva universalistica Giovenale sta sovrapponendo l’immagine della Roma delle origini, una Roma dei contadini, di uomini poveri e ancora animati da solidi valori morali confermati da una dura vita di fatica, lavoro e difficoltà. Questo mito pauperistico della Roma delle origini viene collegato all’età dell’oro perché, nella prospettiva di Giovenale secondo la quale l’età contemporanea è corrotta, la Roma delle origini rappresentava l’età dell’oro dove la difficoltà e la resistenza mantenevano intatti i valori originali. Si dice infatti che in questa età dell’oro abbia soggiornato Pudicizia: Pudicizia è un’ipostasi (personificazione) della virtù della pudicizia, qui eretta a dea. Nell’ottica romana dobbiamo distinguere pudicitia e pudor: a Roma pudicizia è più specifico, un sottoinsieme di pudor legata solo alla morale sessuale e coniugale mentre pudor è un concetto morale più generale che non investe solo la sfera coniugale, ma chiunque viola le regole sociali. La pudicizia è legata solo alla sfera sessuale e coniugale. Pudicizia, personificata come dea, aveva un suo culto a Roma che era quello che veniva fatto alle matrone, anche che avevano un solo marito alle quali rimanevano fedeli, anche se rimaste vedove. Già il fatto che una delle prime parole della satira sia Pudicizia è un primo indizio del fatto che l’obiettivo è più che altro una misogamia che una misoginia: non tutte le donne, ma le matrone, coloro che sono vincolate al culto di Pudicizia. Si dice che al tempo di Saturno, Pudicizia abbia soggiornato in terra (che non è sua sede naturale) grazie alle condizioni di diffusa moralità ai tempi di Saturno; per questo lei si è lasciata a lungo vedere: fa riferimento a una condizione di teossemia (ospitalità dei confronti degli dei)  gli dei sono ospitati in terra e vivono in un rapporto di comunione con gli esseri umani. Normalmente è impossibile che l’uomo possa vedere la divinità nelle sue vere sembianze, la sua bellezza è insostenibile all’uomo. La divinità deve sempre assumere un travestimento ritrovabile anche in Virgilio, sono nati dalle piante (fenditura della quercia) oppure sono stati creati da un creatore che li crea dal fango  riferimento al mito di Prometeo: Prometeo è uno dei Titani (generazione pre-olimpica) che ha plasmato i primi uomini dal fango infondendo in essi il fuoco che aveva rubato agli dei. Naturalmente, queste immagini di autoctonia sono abbastanza significative per riferimenti intratestuali all’opera di Giovenale: ad esempio, nella satira XIV c’è una requisitoria contro il ruolo negativo delle madri corrotte che, essendo tali, non possono far altro che corrompere i figli nell’educarli; stesso discorso si troverà nella stessa satira VI (vv. 231 e seguenti): la requisitoria è contro le suocere che, nel loro ruolo di educatrici delle nuore, non possono far altro che corromperle. Qui, il fatto che gli aurei trogloditi non abbiano genitori è un fatto positivo perché non c’è corruzione. In seguito a questo lungo preambolo, si passa ad un momento successivo: “Forse molte vestigia/tracce dell’antica pudicizia, o almeno alcune, saranno rimaste anche al tempo di Giove ma di un Giove ancora imberbe (senza barba) quando non c’erano ancora i Greci pronti a spergiurare con la testa di qualcun altro quando nessuno temeva un furto per i suoi cavoli, i suoi frutti, e quando si viveva senza recintare gli orti, i campi”. Passiamo dall’età di Saturno all’età di Giove, il figlio di Saturno, che rappresenta un’età in cui Pudicizia comincia un pochino a ritirarsi dalla terra: non è completamente sparita ma ne rimangono solo alcune tracce. Giove non ha ancora la barba: è un Giove ancora giovane, bambino quindi il riferimento è a un’età intermedia che non è più l’età dell’oro (in Giovenale la Roma delle origini) ma ad un’età non ancora del tutto corrotta. Anche qui abbiamo un’altra spia del fatto che la storia universale si sovrapponga, nell’ottica di Giovenale, alla storia particolare di Roma: ci dice che in quest’età antica di Giove non c’erano ancora i Greci pronti a spergiurare. I Greci ci proiettano nella prospettiva di Roma in cui i primi contatti con la Grecia e la sottomissione della Grecia da parte di Roma ha provocato la degenerazione dei costumi  Greci come germe della corruzione in un’ottica xenofoba. Quest’età di Giove bambino però vede una vita tranquilla, senza istinti negativi. Non ci sono più le piante, ma è subentrata l’agricoltura: l’alimentazione è però ancora povera (cavoli) come ci dice Giovenale nella I satira concernente il motivo della povertà. Tale povertà, a quel tempo, è ancora positiva mentre è degenerata al tempo di Giovenale, dove povertà significa esclusione. Gli uomini vivevano in campi aperti perché non esisteva la violazione della proprietà privata, subentrata dopo. Arriviamo poi ad una terza fase, del Giove ormai adulto, cioè ad un’età in cui ormai la pudicizia si è allontanata del tutto dalla Terra: “A poco a poco Astraea si è ritirata presso gli dei superi in compagnia di questa (cioè di Pudicizia) (hac comite = abl.assoluto) e le due sorelle insieme sono fuggite (fugere è forma arcaica per fugerunt)”. Astraea è una delle figlie di Giove, quindi sorella di Pudicizia ed è una vergine, simbolo di purezza, innocenza, individuata come la giustizia; anche qui, il mito ci racconta che, scesa in terra nell’età dell’oro, poi disgustata, via via se ne allontana rifugiandosi prima in campagna (con la solita opposizione città = luogo di raffinatezza ma anche corruzione / campagna = luogo di rusticitas ma anche purezza) e poi in cielo, dove rimane visibile come la Costellazione della Vergine. Astraea, vergine e simbolo di purezza, dea della giustizia, è la divinità che giudica i crimini che violano la giustizia, soprattutto attinente alla sfera sessuale (soprattutto i crimini di adulterio). La scelta di Astraea non è allora casuale. Entrambe le donne si allontanano insieme in cielo nella terza fase. “O Postumo, è un costume/usanza antica sconquassare il letto altrui e profanare il genio sacro del talamo nuziale (?) (sacer = c’è un sacro vincolo che sorregge il matrimonio). Poi l’età del ferro ha introdotto tutti gli altri crimini ma l’età argentea ha visto i primi adulteri”. Progressivamente, vediamo che il focus si stringe sul tema matrimoniale caro a Giovenale in questa satira. Al v.21 viene invocato Postumo, il dedicatario, che capiremo poco più sotto in procinto di sposarsi. Si incominciano a vedere i crimini: il primo è quello di violare il letto altrui e profanare, disprezzando, il talamo nuziale. Il genium è un genio, cioè il nume tutelare che ognuno aveva a Roma; anche il letto, simbolo di unione matrimoniale, ha un proprio nume tutelare che viene profanato ovviamente dall’adulterio. L’età del ferro ha introdotto tutti gli altri crimini, mentre quella dell’argento ha visto i primi adulteri (moechos = parola greca che significa “adulteri”; tale parola è messa a fine verso, in posizione marcata in corrispondenza con “uxor” del v.5 e “marito” del v.10 quasi a creare visibilmente questo triangolo amoroso). Capiamo che se l’età di Saturno era l’età dell’oro, l’età di Giove imbarbato è quella dell’argento e quella di Giove barbato è del ferro. In questa età ci sono tutti i crimini, compreso l’adulterio, il quale era però già comparso prima, nell’età dell’argento. Qui si sta facendo riferimento al mito tradizionale delle varie età dell’uomo, che si sono susseguite cioè nello sviluppo dell’umanità: il mito delle età associate ai metalli fa capo ad Esiodo. Esiodo è un poeta greco dell’VIII sec. a.C. cui avevamo accennato in Persio (nella Teogonia Esiodo raccontava la sua iniziazione poetica). Esiodo è autore anche del poema didascalico “Le opere e i giorni” che contiene ammaestramenti di varia natura, indirizzato al fratello. All’interno di questa opera ci racconta il mito delle età dell’evoluzione dell’uomo, che è un mito, se vogliamo, di degenerazione: l’evoluzione dell’uomo può essere vista nel mondo antico secondo due visioni, di cui una progressista (rappresenta un progressivo incivilimento umano dal caos) ed una opposta, regressi sta (c’è un progressivo recedere da una condizione positiva dell’età dell’oro ad una degenerazione). In Giovenale, questa seconda visione nella scala discendente della preziosità dei metalli è ben evidente. In Esiodo la suddivisione delle età non era così lineare: Esiodo rappresentava cinque età (oro, argento, bronzo, eroi, ferro)  l’inserzione dell’età degli eroi che esula rispetto alla lista dei metalli e che ci rimanda ad un’idea di positività eroica turba un po’ questa linearità della discesa, però, indipendentemente da ciò, lo schema generale è di tipo degenerativo che qui in Giovenale viene applicato in maniera evidente:  l’età di Saturno è l’età dell’oro, rivisitata in chiave pauperistica per assimilarla alla Roma delle origini;  l’età di Giove ancora bambino è quella dell’argento, in cui vi sono ancora tracce di pudicizia anche se è già comparso l’adulterio;  l’età del ferro vede la scomparsa di pudicizia e l’arrivo di tutti i crimini  è l’età più negativa ed è quella contemporanea a Giovenale. 17) Lezione del 3 aprile 2019 Da v.25 “Eppure ai nostri tempi tu comunque prepari il patto e il contratto e la festa di fidanzamento e ormai ti fai pettinare da un maestro parrucchiere e forse hai messo al dito un pegno del tuo amore; di certo tu eri sano di mente ma prendi moglie. Di’ da quale tisifone e da quali serpenti tu sei sconvolto?” Nostra riferito al tempo di Giovenale ci fa capire che l’età di Giovenale è quella del ferro e “tempestate” è un termine volutamente alto, elevato ed arcaizzante per sottolineare la gravità della situazione, la mostruosità dei tempi così come la scelta del matrimonio definito in termini contrattuali → è un patto in cui gli sponsali partecipano ad una cerimonia ufficiale in cui avveniva l’assunzione, da parte dei due contraenti, dei reciproci obblighi. Il fidanzato si fa agghindare per l’occasione e ha dato l’anello come pegno d’amore. Ma arriva l’accusa di Giovenale: “eppure eri sano di moglie! Come ti è venuto in mente di prendere moglie?”. Tisifone è un nominativo che mantiene la desinenza greca ed è una delle Erinne con la chioma tutta fatta di serpenti → quale furie gli hanno fatto perdere la condizione di sanità mentale che avevi prima? “Tu puoi sopportare una qualsiasi padrona mentre ci sono a disposizione tante corde mentre si aprono alte e vertiginose finestre, mentre si offre vicino a te il ponte Emilio o, se non ti piace nessuno di questi molti modi (de multis = partitivo) di suicidarsi, allora non pensi che sia meglio questo, cioè che dorma accanto a te un ragazzino che di notte non litiga, che non chiede da te nessun regalino per il fatto di giacere lì con te e non si lamenta del fatto che tu risparmi i tuoi fianchi e del fatto che non ansimi quanto lei ha ordinato” Qui Giovenale sta presentando il matrimonio come una schiavitù, infatti “tu puoi sopportare una dominam (= padrona”) → riferimento al codice elegiaco introdotto con le figure tipiche dell’amore elegiaco, Cinzia e Lesbia, quella del poeta al servizio della donna, che ne domina interamente la vita. Di contro a ciò, Giovenale fa una proposta molto forte, quella del suicidio: le corde per impiccarsi, le alte finestre per buttarsi giù e il ponte Emilio (primo ponte in muratura a Roma) da cui buttarsi ancora giù. E se non apprezza nessuna di queste soluzioni, vi è l’alternativa della pederastia (unirsi con ragazzini → pedofilia): per gli antichi non vi era nulla di perverso, perché era parte dei rituali maschili di passaggio all’età adulta l’avere una relazione con un uomo di età adulta. Il ragazzo, una volta diventato adulto, doveva interrompere tale pratica perché ciò che era scorretto per l’uomo dell’antichità era l’omosessualità passiva dell’adulto. Attraverso l’immagine del ragazzino, vengono delineati i difetti della donna: la moglie di notte attacca brighe col marito, (munus = diminutivo con valenza spregiativa) chiede regali anche grandi (donna accusata di venalità: concede prestazioni in cambio di regali) ed è pura libidine perché si lamenta che il marito non sia abbastanza focoso (fianco inteso come sede della virilità), non ha prestazioni all’altezza dei capricci e non ansima quando la donna lo desidera → vengono delineati i difetti della donna elencata nei versi 35-206: si arriva a teorizzare che il matrimonio è impossibile perché manca il materiale umano: non ci sono donne adatte a tale ruolo, sono tutte immorali, superbe, grecomani (forma di affettazione che riproduceva mode e costumi di una società frutto di corruzione), avide… → vengono tracciati bozzetti in climax di donne che descrivano i più svariati tipi di donne romane che si abbandonano a lussuria e adulterio e la galleria di nobili donne in cui ritroviamo il più volte citato ritratto di Messalina, moglie di Claudio, quintessenza della lussuria e dell’infedeltà coniugale. Questo è un non sempliciotte alle lettere (tabellae = tavolette incerate) mandate dall’amante clandestino che manda lettere d’amore alla donna sposata e la suocera fa da mezzana in questo rapporto e le dice cosa rispondere per attizzarne ulteriormente la passione e favorisce incontri clandestini perché aiuta la moglie a eludere la sorveglianza messa dal marito per evitarne l’infedeltà arrivando a corrompere i sorveglianti col denaro (probabilmente del marito stesso). Arriva a mettere in scena anche piccole farse: “E allora pur essendo perfettamente sana manda a chiamare Archigene (accusativo alla greca) un celebre medico siriano del tempo dell’età di Traiano (quindi dello stesso Giovenale) e scuote via (iacto = verbo frequentativo di iacio) le coperte pesanti e intanto l’adultero se ne sta nascosto quatto quatto e impaziente nell’attesa se ne sta in silenzio e manovra il prepuzio”. C’è l’immagine dell’incontro tra l’amante e la donna sposata → c’è difficoltà interpretativa di tali versi: la traduzione è forse l’interpretazione più probabile perché presuppone che la suocera finga una malattia per fare in modo che la moglie possa allontanarsi dalla casa del marito e incontrare l’amante; vi sono anche altre interpretazioni: alcuni riferiscono il “perfettamente sana” alla figlia e ciò presuppone che l’incontro non avvenga in casa della madre ma in casa della figlia, da cui il marito sarebbe forse stato allontanato per la venuta del medico; un’altra interpretazione è che il soggetto di tutto non sia la suocera ma la figlia che, pur essendo sana, manda a chiamare il medico e scuote le coperte per farsi visitare → soluzione meno probabile perché presuppone che ci sia improvvisamente un cambio di soggetto. La più probabile sembrerebbe la prima interpretazione. L’amante rimane lì, impaziente dell’attesa: lui è impaziente della visita del medico perché dopodiché avverrà il suo incontro con la donna. Si torna poi al motivo della suocera “Tu ti aspetti che la madre consegni alla figlia dei costumi onesti e diversi da quelli che ha lei. Inoltre è utile per una vecchietta dai vergognosi costumi allevare una figlioletta anche lei dai vergognosi costumi”. Ci sono di fatto due motivi per i quali le madri educano le figlie in un certo modo:  necessità genetica: non è possibile che una madre che ha costumi non onesti, consegni alla figlia costumi diversi dai suoi → prospettiva di pessimismo inevitabile;  “porro” introduce un’alternativa ancora più maliziosa: questa vecchietta turpe ha anche una convenienza ad allevare (producere = termine tecnico della pedagogia usato in una prospettiva distorta) una figlioletta con costumi vergognosi (insistenza sul motivo della vergogna: turpi, turpem = poliptoto) → l’insinuazione maliziosa di Giovenale è che la madre sia una ruffiana in tutti i sensi, quindi intende che la faccia prostituire per denaro. È evidente che le alternative del suicidio e del giacere con un ragazzino sono volutamente provocatorie per accentuare la mostruosità del matrimonio, dovuta alla mostruosità del vizio femminile. Nei versi tra 242-286 segue una rassegna di donne che tentano di assumere una condizione emancipata, tendendo a virilizzarsi, assumendo i ruoli di gladiatori o soldati (figure maschili). Si arriva quindi alla ricerca delle cause che hanno portato ad una tale degenerazione morale: riprendendo l’immagine dell’età dell’oro, si parla ora di una Roma storica, ma di un tempo ormai lontano, cioè la Roma dell’età annibalica in cui le matrone erano ancora virtuose. Vengono individuati alcuni motivi topici della critica moralistica romana, già presenti nell’opera di Sallustio: assenza della guerra e della povertà che sono capaci di agire come potenti freni e fermare sul nascere gli eccessi del lusso e della lussuria. “Tu vuoi sapere da dove o da quale fonte (scaturiscano) queste mostruosità (termine monstrum per indicare la depravazione del vizio, non concepita soltanto come un mero errore ma con un mostro con sapore quasi tragico)? Un tempo (opposizione con nunc = ora → opposizione tra felice passato e triste presente) la umile condizione manteneva caste le donne latine e non permettevano che quelle fossero contaminate dal vizio le modiche dimore, la fatica, la brevità dei periodi dedicati al sonno/riposo e le mani sfiancate e rese dure dalla lama etrusca (dal fatto di lavorare la lana etrusca) e la vicinanza di Annibale alla città e i mariti che stavano di guardia sulla torre della porta Collina.” La condizione umile di povertà favoriva la castità: c’è l’opposizione contraria luxus-luxuria (amore del lusso-lussuria). Le donne non erano proprio toccate (contingi = composto apofonico di tango)/contaminate dal vizio grazie alle case piccole (segno di una modesta condizione in opposizione ai fastosi palazzi del tempo di Domiziano), il lavoro, la fatica di una vita dura (in opposizione alla vita facile delle donne del tempo di Giovenale che non lavorano), le mancanza di sonno e la lavorazione della lana etrusca (matrona lanificatrice → forma di mistificazione del mondo antico: probabilmente la matrona non aveva mai lavorato da sola la lana). Sull’altro fronte c’è il pericolo incombente della guerra, quella annibalica, dopo la quale, anche secondo Sallustio, la cessazione del metus hostilis avrebbe introdotto una rilassatezza dei costumi anche a Roma; a quel tempo gli uomini stavano di guardia su una colonna eretta vicino a porta Collina a Roma. Rispetto a questa condizione idilliaca del passato: “Ora noi subiamo i danni di un lungo tempo di pace e l’amore per il lusso, più esiziale delle armi, è piombato su di noi e vendica il mondo sconfitto e non manca alcun crimine/delitto dettato da libidine/lussuria da quando la povertà romana è venuta meno”. Se prima era il metus hostilis a rendere casti i costumi, ora si scontano i tempi negativi di un lungo periodo di pace, cioè il lusso, più terribile delle armi perché ha indotto la libido, la luxuria, quindi la mancanza di casti costumi. Vendica il mondo sconfitto nel senso che fa riferimento all’imperialismo romano che ha sottomesso tutto il mondo, compresa la Grecia e le regioni d’Oriente, cioè regioni dai costumi rilassati, la cui venuta a contatto con Roma è stata oggetto di corruzione → vendetta di questi popoli sconfitti: la Grecia conquistata, in realtà, ha a sua volta conquistato il conquistatore, imponendo i suoi costumi certo più raffinati di quelli dei rozzi romani delle origini, ma anche più molli e scostumati. Tale immagine viene ripresa con variatio nel finale della satira in cui vi è l’immagine del mondo orientale, vittima nuovamente/a sua volta di Roma. Da quando è venuta meno la povertà delle origini romane, non c’è stato più limite alle vittime della lussuria. “E dall’Oriente si sono riversati su questi colli (7 colli di Roma) Sibari, Rodi, Mileto e Tarano inghirlandata e sfacciata ???”. Dall’Oriente sono arrivati flussi (fluere che indica lo scorrere del fiume ci introduce la metafora di una devastazione portata dall’alluvione) → nomi di città/toponimi si fanno metonimia per indicare costumi che vengono da Oriente, zone note per la corruzione dei loro costumi - Sibari, Rodi, Mileto (da cui proveniva la fabula milesia = racconti sconci). Taranto è una città in cui si indossano corone, in cui si beve (madium = riferimento al vino → Taranto come zona vinicola / madido nel senso di impregnato o di vino o di profumo / riferimento alle molle raffinatezza dei banchetti che si tenevano nella zona di Taranto). “E allora l’osceno denaro (in senso causativo → il denaro rende osceno chi lo possiede) per la prima volta introdusse costumi stranieri (peregrinitas = estraneità sia geografica che morale rispetto a Roma) e le molli ricchezze piegarono le generazioni con un vergognoso amore per il lusso. Che scrupoli si fa la libidine unita all’ebrezza?”. 18) Lezione del 4 aprile 2019 Ricomincia la seconda parte della satira che si rimodella sulla prima. Qui il culto di Bonadea (esempio dell’uxor pudica) che nella Roma moderna diventa un momento di svago per le donne che cedono al piacere, si ubriacano e fingono di mascherare dietro a ragioni culturale comportamenti lascivi, si uniscono a gente di spettacolo e a schiavi, sono capricciose e addirittura si vantano di conoscere poesia e grammatica, atteggiamenti che tendono ad emanciparle, si truccano con eccesso e soprattutto, ciò che le differenzia rispetto alle donne antiche, è il fatto che, per queste condizioni lascive, loro non accettano la condizione di puerpera che spesso segue a tali atteggiamenti → mentre la donna antica accettava sempre la maternità, le donne moderne ricorrono a diverse pratiche per rifiutare i figli; per Giovenale è positivo perché evitano di dare alla luce figli clandestini. vv.627-661: la perversione delle donne arriva all’infanticidio o all’omicidio dei propri mariti → fatti reali spinti da motivazioni molto più basse: se le eroine mitiche lo facevano perché motivate da un sentimento vero, spesso queste donne agiscono invece solo per calcolo e per denaro. “(oderunt = perfetto logico) Odiano i figli della concubina (frutto del tradimento del marito). Che nessuno lo vieti: ormai è lecito uccidere il figliastro.” Ormai siamo ad un’epoca tale di degenerazione che viene considerato legittimo uccidere il figliastro: Giovenale, con congiuntivi esortativi, dice che nessuno deve opporsi, ormai è un costume inevitabile che suscita lo sdegno di Giovenale che è dimostrato dalla ripetizione di “iam”. Qui ci sono commenti degli scoliasti sull’identità della paelix: priuignum sarebbe il figlio della prima moglie del marito; ma allora la paelix potrebbe non essere la concubina, ma la prima moglie che per gelosia della nuova moglie viene apostrofata come una concubina in tono ironico, dato che il rapporto era legittimo. In ogni caso, il figlio è figlio soltanto del marito e non della donna, ecco perché lei lo ha in odio: questa uccisione per odio è stata quindi sdoganata. Tuttavia, vi sono uccisioni ben peggiori, le quali sono indicate nei versi successivi: “Ma io vi ammonisco o pupilli che avete un patrimonio abbastanza cospicuo. State attenti alla vostra vita e non fidatevi di nessun cibo che vi viene imbandito (credo + dativo); i pasticcini (adibata = assonanza con qualcosa di grasso) ribollono lividi di veleno materno. Qualcuno addenti prima qualunque cosa vi avrà porto colei che vi ha generato e il pedagogo (papas = nominativo con desinenza greca) assaggi prima i vostri calici”. Qui, l’oggetto cambia: i pupilli che hanno un patrimonio ampio sono i figli della stessa matrona che, a seguito della morte del padre, sono diventati eredi, e quindi sono in qualche modo oggetto di possibili agguati da parte della loro stessa madre che li può uccidere per interesse, per impadronirsi della loro delitto” c’è un problema testuale: “nocentes” è tradotto come predicativo di “hunc sessum” → letteralmente “a rendere tale sesso delittuoso”. Nocentes non concorda numericamente con hunc sessum: qualuno emenda/corregge il testo in “nocentem” per creare la concordanza; forse si può mantenere tale testo pensando ad una concordanza a senso: il sesso è singolare ma nel senso è collettivo, nel senso “l’insieme delle donne” e per questo si concorda con un participio plurale. “Le donne di questo sesso si lasciano trascinare a precipizio dalla rabbia che infiamma il loro fegato, (similitudine) come dei massi staccati dai gioghi di una montagna, massi ai quali viene meno di sotto la montagna e la parete si ritira lungo la pendenza”. Giovenale dice che dobbiamo prestare fiducia ai racconti mitologici della tragedia, racconti che lui ha sempre rifiutato: dobbiamo credergli perché ciò che ci raccontano che può sembrare invenzione, in realtà trovano riscontro nella realtà di tutti i giorni, come il mito di Medea e quello di Procne. Procne è una giovane ateniese, sposa di un uomo originario della Tracia Pereo, da cui ha un figlio: Tereo abusa di Filomela, sorella di procne, e poi le taglia la lingua perché non possa raccontare l’orribile delitto di cui è stata vittima. Filomela ricama l’accaduto su un telo, che fa avere a Procne; per punire il marito, commette infanticidio uccidendo il figlio Iti avuto da lui. Anche qui torna la concezione del vitium/perversione come un monstrum, grande in duplice senso: perché è di proporzioni enormi e normalmente si adatta al genus grande. Tali donne mitologiche sono più giustificate perché avevano motivazioni più nobili di quelle delle donne di oggi: Medea e Procne sono sdegnate da un delitto commesso dal marito; le donne del giorno d’oggi lo fanno solo per il denaro. Ci si deve quindi stupire meno di mostruosità quando c’è una motivazione come l’ira che spinge le donne al delitto e le donne hanno la rabbia che brucia loro il fegato, sede delle passioni. Le donne si lasciano allora trascinare quasi a precipizio dalla rabbia e qui c’è una similitudine (che innalza il tono → Giovenale assume toni da genus grande): donne paragonate a massi staccati da una montagna che rotolano giù come se la montagna sotto essi venga meno → come le donne si sono viste crollare il loro sostegno (il marito) e sono trascinate unicamente dalla rabbia nei suoi confronti. Giovenale non ha pietà per le donne che si macchiano di questi delitti per calcolo: “Ma io non potrei sopportare (potenziale) colei che calcola e commette un grande delitto a mente lucida/serena (non offuscata dall’ira come le eroine della tragedia); ??? guardano lei a teatro che si fa carico del destino del marito e, se fosse concesso loro un simile scambio, preferirebbero salvare la vita della loro cagnetta con la morte del marito. Ti verranno incontro ogni mattina molte Belidi e Erifile e tutti i quartieri avranno (doppia negazione afferma) una Clitemestra”. Alcesti era un’eroina del teatro tragico che continuava ad essere rappresentato anche a Roma: lei è figlia del re di Tessalia Pelia, cioè figlia dello zio di Giasone, che sposa il re di Fere in Tessalia; Admento ottiene la mano di Alcesti perché il padre Pelia aveva stabilito una gara: l’unico che fosse riuscito ad aggiogare due tremende bestie feroci avrebbe avuto in sposa la figlia. Admento ci aiuta con l’aiuto di Apollo, il quale gli presenta però il conto, chiedendogli di auto-sacrificarsi per rendere grazie dell’aiuto. Admento è disperato perché non vuole andare incontro a morte, chiede ia genitori di sacrificarsi al posto suo mentre invece Alcesti, pietosa, sceglie di sacrificarsi al posto suo per andare incontro ai voleri di Apollo. Poi ci sarà un incontro dell’eroe Ercole che impietosito sceglie nell’Ade recuperando Alcesti, riportandola in vita tra le braccia del marito → Alcesti è morta per salvare il marito, si è presa sulle spalle il suo destino. Giovenale paragona le donne di oggi ad Alcesti dicendo che, se anche loro potessero avere uno scambio di questo tipo, preferirebbero far morire il marito per aver salva la vita della loro cagnetta (catella = diminutivo in senso spregiativo) → il paradigma mitologico serve per abbassare e degradare ulteriormente l’atteggiamento delle donne contemporanee. Poi dice che ogni mattina (ad accentura che questi che sembrano episodi lontani del mito sono in realtà quotidiani, che si incontrano tutti i giorni nei quartieri, degni di entrare a far parte della realistica satira) si possono incontrare le Belidi ce le Erifile. Le Belidi sono le cosiddette Danaidi, perché figlie di Danao, re di Libia, figlio a sua volta di Belo → patronimico (linguaggio dell’epica); esse sono costrette al matrimonio con i cugini, che loro rifiutano e, istigate dal padre, dato che durante la fuga sono inseguite dai cugini, uccidono nella prima notte tutti i loro sposi, cioè sono donne che di fatto hanno ucciso il loro marito; le Erifile è plurale poetico di Erifila, una giovane che va sposa al marito Anfiarao, un indovino della città di Argo (sono tutte eroine greche) e tradisce il marito provocandone la morte in cambio di una collana d’oro → è la prima donna che, per un motivo economico/venale, tradisce il marito. Quindi anche nell’elenco delle eroine tragiche ci sono donne che agiscono per motivi più biechi. Clitemnestra, eroina della tragedia greca, è la moglie di Agamennone (eroe anche dei poemi omerici e signore di Nargolide), è padre della figlia Ifigenia che la dea Artemide vuole sia sacrificata per una colpa commessa da Agamennone durante una battuta di caccia e vuole che come risarcimento sia sacrificata la figlia Ifigenia perché, altrimenti, la flotta di Agamennone in partenza per Troia resterà bloccata dal maltempo e non potrà partire. Agamennone sacrifica sua figlia e di Clitemnestra: al ritorno di Agamennone, la moglie sarà spinta ad uccidere il marito spinta dall’ira per l’uccisione della figlia; però, Clitemnestra era anche un’adultera, poiché si era unita ad Egisto, che la aiuterà a perpetrare il delitto di Agamennone. Donne di questo tipo si incontrano quotidianamente nella Roma di tutti i giorni. “Ma questo soltanto importa, il fatto che (esplicativo di hoc) la famosa tindaride teneva con due mani una scure bipenne rozza e inetta. Ma ora invece la cosa si sbriga con un minuscolo polmone di rospo. Ma anche con la spada ??? preventivamente assunto l’antidoto del tre volte sconfitto re del Ponto (figura retorica dell’enallage = “Pontica”, grammaticalmente, è riferito a “meditamina”; dal punto di vista logico, “Pontica” si riferisce a “regis” → un termine si riferisce grammaticalmente a un referente diverso da quello che è il suo referente logico)” La Tindaride è un altro patronimico (altro segnale di linguaggio elevato): è la stessa Clitemnestra, figlia di Tindaro. Lei ha ucciso il marito con una scure bipenne (con la lama da due parti) → arma ritenuta poco femminile, tant’è che lei doveva sostenerla con la destra e la sinistra, cioè a due mani e rozza e inetta nel senso che lei la sapeva poco manovrare, non pertineva alla sua natura femminile, ma lei siè virilizzata per commettere tale delitto, spinta dall’ira per l’uccisione della figlia da parte di Agamennone e ha svolto una parte da uomo. La differenza è che al giorno d’oggi (at con valenza oppositiva) le donne non solo sono spinte da motivazioni meno nobili, ma usano anche metodi più vigliacchi e femminili, sbrigando tutto con un minuscolo “polmone di rospo”, ovvero col veleno; esso è detto “tenui” perché più leggero e femminile e poi è piccolo rispetto alla bipenne e si nasconde meglio ad esempio in una pietanza. Anche le donne del tempo sono talvolta disposte a virilizzarsi e far ricorso al ferro (la spada → metonimia) se il loro marito (Atride è un altro patronimico → è Agamennone stesso, figlio di Atreo) è stato accorto e ha assunto l’antidoto al veleno, l’antidoto del re del Ponto: ci avviciniamo ad un personaggio della storia, vicina a Roma → Nitridate era il re del Ponto, regno dell’Anatolia che si affacciava sul Mar Nero, venuto a scontro più volte con Roma (3 guerre nitridatiche: una condotta da Silla, una da Lucullo e una da Pompeo) da cui era stato sconfitto; in decadenza, vorrebbe suicidarsi col veleno ma non riesce e deve ricorrere all’aiuto altrui che lo finisca con una spada perché, per paura di essere avvelenato in vita, si era assuefatto ad assumere piccole quantità di veleno in modo da non danneggiarsi ed abituarsi al veleno stesso in modo che, qualora gli fosse stato dato a tradimento, non sarebbe morto. Quindi se il marito di una di queste donne sterminatrici, come Nitridate, si fosse assuefatto al veleno e quindi il polmoncino di rospo non fosse bastato, queste donne erano pronte a virilizzarsi e imbracciare la spada per uccidere i mariti → con l’immagini di tale donne calcolatrici che uccidono i mariti si chiude la satira di Giovenale → immagine di morte: la morte è la fine e quindi segnale di chiusura che chiude la satira di Giovenale.
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