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Appunti di letteratura latino, Appunti di Letteratura

Appunti completi del corso di letteratura latina, con un percorso dalle origini fino alla fine dell'impero e alla patristica. Corso basato sul manuale di Giovanna Garbarino.

Tipologia: Appunti

2019/2020

In vendita dal 26/04/2020

serena-fagioli
serena-fagioli 🇮🇹

5

(9)

28 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Appunti di letteratura latino e più Appunti in PDF di Letteratura solo su Docsity! Corso di letteratura e civiltà latina I Prof. Balbo 22.02.2018 La letteratura ha un valore intrinseco in sé e per sé ed è orientato alla fruizione estetica; un autore produce il testo perché questo sia bello ed interessante. La letteratura ha una sua specificità ed una sua autonomia di metodo e di indagine. Tutto ciò vale per la letteratura moderna come per quella antica. L'oggetto specifico della letteratura è un testo, che ha sia una funzione estetica sia, soprattutto per le opere antiche, un carattere formale e retorico, destinato ad un pubblico ben preciso e connotato di aspettative ben definite. Gli scritti antichi sono caratterizzati dall'appartenenza ad un genere letterario. L.E. Rossi sosteneva che i testi latini avessero sia leggi scritte sia consuetudini, abitudini ed aspettative non scritte. Ad esempio, il pubblico può risultare scontento se il genere dell'opera non rispetta determinate regole. Le commedie di Terenzio, in particolare l'Hecyra, necessitarono di alcune messe a punto, poiché il pubblico era scontento della poca ilarità dell'opera e preferì alla messa in scena uno spettacolo di mimi ed uno di gladiatori. La letteratura è una delle manifestazioni linguistiche e testuali di una civiltà, ma non l'unica. Non tutto ciò che arriva di scritto dal mondo antico è letteratura. La quantità di reperti arrivati non è così elevata. Al concetto di storia della letteratura, si affianca il concetto di storia della civiltà letteraria, che comprende tutti gli scritti con cui si è espresso un popolo. Lo scrivere degli antichi si è esercitato anche in ambiti giuridici, agronomici, epigrafi (che solo in minima parte hanno argomento letterario), papiracei (per lo più esercitazioni di scuola e testi bilingui in greco e latino) e scientifici. Una grossa parola sul tema è stata data da I. Lana ne Le considerazioni sul classico, in cui si considera problematica l'idea di esemplarità. Egli credeva che questa idea dovesse essere in parte accantonata, per andare alla ricerca degli apporti di pensiero. Lana ragionava in termini di vicinanza del classico ai moderni, giustificando il dedicarsi alla letteratura latina. La letteratura latina non è che una delle tante risposte ad alcune domande umane. La civiltà letteraria dà queste risposte in prospettiva più ampia. La letteratura latina è la base per alcune risposte riprese e ritoccate, se non ampliate, dalla letteratura italiana dai principi fino al Novecento. Si guarda attraverso la letteratura di un'epoca sfaccettata e molto diversificata, che va vista anche attraverso lo specchio di altri elementi, per indagare i bisogni basilari dell'uomo che non sono mutati nel tempo. Si pone anche il problema dell'identità latina, occidentale, in un mondo odierno sempre più plurale. L'antichità non era un'epoca monolitica, ci sono molte manifestazioni dell'essere uomo greco o latino. L'impero romano, dal punto di vista della gestione, nei confronti di molti popoli assumeva caratteristiche tipiche di un organismo simile al commonwealth. Ciò permette di ragionare su una certa polifonia della letteratura latina all'interno di una letteratura europea polifonica e plurale. La prima rappresentazione di un dramma (fabula) a Roma risale al 240 a.C. La data di fine del periodo in analisi è il 529 d.C, quando Giustiniano chiude l'accademia platonica e, contemporaneamente, S. Benedetto fonda l'abbazia di Montecassino. Il contesto geografico della letteratura latina non si limita al contesto italiano, ma gli scrittori latini vengono sia dall'Italia (entro e oltre il confine del Rubicone), sia dalle provincie (Gallia, Spagna, Africa); ciò che li accomuna è la lingua latina, ma sono diversi per il contesto di provenienza ed alcune credenze. È un mondo che ha molte sfaccettature e volti diversi. Tra il 241-201 a.C si ha la nascita di questa letteratura e una serie di conflitti culturali. La cultura ellenica comincia ad entrare nell'ambito latino. I conflitti culturali esplodono tra il 200 ed il 169 a.C quando si ha una vera e propria opposizione all'ellenizzazione culturale. Ci saranno dei gruppi di impronta catoniana (fondatore: Marco Porcio Catone, il Censore), che si oppongono ferocemente al processo grecizzante. Dal 168 al 100 a.C si ha un periodo con pochi autori rappresentativi, ma con forti cambiamenti economici e sociali. Roma fino al 272 a.C è una potenza esclusivamente italiana, che mette fine in quegli anni alla presenza greca in Italia con la distruzione di Taranto. In seguito i rapporti con Cartagine, che prima erano tutelati da cinque trattati di alleanza, si deteriorano. Roma ora controlla fino allo stretto di Messina. ridimensionati. Molte volte raschietto e spugna non tolgono tutto l'inchiostro vecchio, per questo esistono tripalinsesti, ovvero si vedono più strati di inchiostro e scritture diverse. A volte, anche il caso gioca un ruolo cruciale nella dispersione di alcuni rotoli e componimenti. Si hanno due grandi strozzature della tradizione manoscritta tra III-IV secolo con il passaggio dai rotoli ai codici (Roberts aveva calcolato che nel II secolo si aveva il 2,31% di codici, nel II-III il 2,90%, nel III secolo il 16,80%, nel III-IV secolo il 48,14% e nel IV secolo il 73,95%). La forma a rotolo è piuttosto macchinosa da utilizzare, in quanto richiede uno svolgimento ed un riavvolgimento contemporanei. Il motivo fondamentale è legato all'avvento del cristianesimo, in quanto è quasi sicuro che le prime copie dei vangeli siano state vergate su taccuini che avevano dato forma ai codici. I vangeli acquisiscono autorità e questa si estende anche alla forma. Il mondo cristiano per questo sostituisce il rotolo con il codice e la letteratura pagana pian piano la segue. Alcuni testi greci si conservano, ma vengono trascritti in minuscola e non più in maiuscola per risparmiare spazio. Nel mondo greco si passa alla minuscola e, in seguito, comincia a diffondersi la carta fatta con gli stracci. Non si hanno ancora i segni di punteggiatura, se non negli scritti teatrali, per indicare il cambiamento d'attore o di battuta. Nel mondo latino la rivoluzione arriva con l'epoca carolingia. I codici venivano ricopiati nella minuscola carolina, che era più leggibile, trascurando i codici più antichi, che verranno poi ritrovati dagli umanisti. Nelle scuole palatine veniva copiato Cicerone, Virgilio, Stazio, Servio (De finalibus, ovvero un prontuario di grammatica), Sallustio, Lucano, Terenzio, Tibullo, Vittore e Claudiano. Dal X-XI secolo l'attività di copiatura ferve, come si vede a Montecassino. I vari classici nel XII secolo sono più richiesti grazie alle neonate università. Nel XII secolo c'erano Cicerone, Sallustio e alcuni autori minori, come Lucano. Nel 1086 Americo di Gatino lascia una lista di autori, divisi per l'importanza. Con l'Umanesimo avvengono le grandi riscoperte. Tra gli Umanisti si ricordano Salutati, Poliziano e Valla, che sono sia ricercatori sia autori. Nella stessa epoca ci sono tre eventi importanti: la caduta di Bisanzio (molti letterati erano già fuggiti in occidente per salvarsi); l'invenzione della stampa; la riforma protestante. Il libro a stampa, tuttavia, richiedeva un capitale notevole, soprattutto se si stampava in greco. Cambia anche psicologicamente il tipo di lavoro. Il curatore deve compiere delle scelte: o si accontenta del manoscritto o li confronta con altri. Nei libri delle persone colte, come Aldo Manuzio e la famiglia Giunti, il curatore crea una prefazione. Ci sono edizioni che riproducono litografie precedenti, ma senza permesso, creando una sorta di violazione di copyright. Nasce con il tempo anche la filologia classica, che per riprodurre un testo sceglie il migliore possibile. È un esercizio di scelte che non si fonda sull'auctoritas. Per incunabolo si intendono i libri dalla loro origine fino al Cinquecento ed il 70% erano in latino. La lectio difficilio prevede che uno scrittore scriva un testo, e se qualcuno lo copia tempo dopo, ma banalizzando le forme più complesse, crea il motivo per cui questo non viene preso in considerazione per la trasmissione. Prima di produrre un testo, lo scrittore deve pensare a come inserirsi in un genere letterario, che è la condizione di un componimento e che rappresenta un motivo di riconoscimento per il fruitore. L'ellenizzazione della cultura romana prevede l'incorporazione della cultura greca in quella romana. Ciò avviene con l'arrivo di maestri di retorica greci in territorio romani e con l'arrivo di opere greche dopo le conquiste. Ciò porta una crisi nel sistema dei valori romani. Il momento di crisi più alto avviene nel II secolo a.C quando Terenzio si fa portavoce di questo nuovo movimento, contrapposto a quello di Catone. Il vincitore è l'ellenismo e la visione tradizionalista e conservatrice perderà. Con l'ellenizzazione si ha un inizio di filantropia (interesse all'uomo in quanto tale) e la capacità della cultura di sviluppare e rafforzare l'immagine dell'uomo, che potrebbe diventare ancora più uomo grazie alla cultura. La grecizzazione non piace a tutti, tra cui Lucilio, che riferendosi ad Albucio, lo riprende di aver preferito il rito di saluto greco a quello romano Luc. Fin . 1.9.2: Graecum te, Albuci, quam Romanum atque Sabinum, municipem Ponti, Tritani, centurionum, praeclarorum hominum ac primorum signiferumque, maluisti dici. Graece ergo praetor Athenis, id quod maluisti, te, cum ad me accedis, saluto: chaere, inquam, Tite. Lictores, turma omnis chorusque: "Chaere, Tite". Hinc hostis mi Albucius, hinc inimicus.'5 Chaere è il saluto di avvento greco, l'ave latino. Un pretore dovrebbe rivolgersi ad un concittadino con l'ave e non con chaere. Lucilio prende in giro Albucio per il suo essere eccessivamente filo- greco. Catone, in un frammento citato da Plinio il Vecchio preso dai libri Ad Marcum Filium, dice che bisogna solo dare un'occhiata alla loro letteratura, ma non impararla a fondo Plin. Nat . 29.14.1: Dicam de istis Graecis suo loco, Marce fili, quid Athenis exquisitum habeam, et quod bonum sit illorum litteras inspicere, non perdiscere. Vincam nequissimum et indocile esse genus illorum. et hoc puta vatem dixisse, quandoque ista gens suas litteras dabit, omnia conrumpet, tum etiam magis, si medicos suos huc mittet. Iurarunt inter se barbaros necare omnis medicina, sed hoc ipsum mercede facient, ut fides iis sit et facile disperdant. Nos quoque dictitant barbaros6. Catone sostiene che i greci siano nemici, in quanto chiamano i romani barbari, poiché non sono greci e non parlano greco. La cultura greca dà spazio ad idee non compatibili con i mos maiorum. La parte conservatrice, però, perde ed il risultato si vede con Orazio, in un'epistola, in cui sostiene che la conquista greca si è trasformata in conquista culturale di Roma da parte dei conquistati (Graecia capta ferum victorem cepit et artis intulit agresti Latio7). 5 O Albucio, tu preferisci essere chiamato Greco anzichè Sabino, compaesano di Ponzio, Tritano, di questo centurione, uomini illustri e valorosi alfieri. Quindi ad Atene, poichè hai dimostrato di preferirlo, quando io avevo la carica di pretore, quando ti presentasti a me, ti ho salutato in greco: «Chaere, – dissi – O Tito!». E tutta la corte, la folla, i littori: "chaere, o Tito!". E fu proprio da quell'istante che Albucio mi venne contro, che mi diventò nemico 6 Dirò a suo tempo di questi Greci, Marco figlio mio, quello che ho acquisito ad Atene e quale bene ci sia nel conoscere la loro letteratura, non approfondirla. Dimostrerò molto malvagia e indocile essere la loro gente. e pensa che un vate disse: "e quando questa gente diffonderà la sua letteratura, corromperà tutto, anche maggiormente, se manderà i suoi medici. Hanno giurato fra loro di uccidere tutti gli stranieri con la medicina, ma esercitano questa stessa, affinchè ci sia fiducia per loro e facilità per uccidere. Definiscono anche noi barbari. 7 La Grecia conquistata (sul piano politico e militare) conquistò (sul piano culturale) il rozzo vincitore (Roma) e portò le arti (la cultura e la letteratura) nel Lazio agreste 23.02.2018 C'è una necessità di analizzare alcuni concetti: imitatio, aemulatio e intertestualità. La letteratura greca e latina sono intertestuali, in quanti si collocano in una sequela di altri testi e autori che hanno praticato lo stesso tipo di arte, quindi è naturale che ogni scrittore greco e latino si confronti con dei modelli, anche per liberarsi dell'idea romantica che l'opera letteraria sia un'opera creativa completamente nuova. L'innovatività esiste nella misura in cui parte dal noto e lo ricrea, trasformandolo, in quanto anche il pubblico attende e condivide un orizzonte di attesa con l'autore, giocando con le stesse regole. La citazione è una esplicito recupero di una porzione di testo con attribuzione autoriale. La ripresa è una sorta di citazione che può essere anche parafrastica, anche restituendola solo in parte e non necessariamente reca il nome dell'autore. L'imitazione è legata allo stile di scrittura. L'allusione può essere più o meno scoperta, in quanto è un riferimento che può essere esplicito o implicito in un determinato contesto culturale. Ci sono due modalità di composizione: imitativa o competitiva, quindi imitatio o aemulatio. O si cerca di imitare un modello o si cerca di migliorarlo. L'imitazione viene spiegata in un saggio di Conte: esisteva l'abitudine di una prassi di manipolazione del testo piuttosto comune nei ceti alti della popolazione latina. L'intertestualità può vantare o un modello esemplare (ripresa puntuale di parole o formule) o un modello genere (spinta a scrivere in una determinata maniera, riprendendo tal autore, ma variando e modificando). Un esempio del modello esemplare è Enea, che nell'Eneide8 riprende il verso di un carme catulliano, a sua volta ripreso da Callimaco ne Chioma di Berenice. Virgilio, così facendo, si dimostra un attento lettore di Catullo e trae un verso particolarmente utile alla sua narrazione. Alla fine non si capisce bene il perché di questa scelta, ma si capisce che è un verso che è molto più adatto a Virgilio che a Catullo. Un esempio del modello genere è quando l'elegia, che può avere contenuti molto diversi in greco, diventa un componimento d'amore in latino, come si vede in Properzio. I poeti elegiaci hanno percepito che scrivere in distici, significava scrivere d'amore. Nel sistema di produzione di un testo letterario antico si sa che sull'autore agiscono diverse sollecitazioni binarie, in un rapporto dialogico. L'autore interagisce con un pubblico più o meno ampio, al di fuori della propria cerchia, e con un dedicatario. Il dedicatario è molto spesso qualcuno che legge l'opera in anticipo e che propone delle modificazioni nell'opera stessa. Quando si parla di poesia e di gruppi di amici che condividono ideali poetici, succede spesso che si scambino i versi con il gruppo ed è ciò che sembra avvenisse nel gruppo del circolo catulliano. Questo avviene almeno con personaggi come Cinna e Calvo. A volte il condizionamento avviene dal potere politico e/o culturale, come è visibile nel circolo di Mecenate, che aveva chiamato gli intellettuali dell'epoca a dare un sostegno culturale e poetico al nuovo regime, con un sistema di consensi e rifiuti, come Virgilio che non scrive un Agusteide, ma l'Eneide. Anche il sistema letterario può avere delle conseguenze sulle scelte dell'autore. Il testo poi composto può essere pubblicato ed inviato ai copisti. Livio Andronico (270 ca.- post 207 a.C) fu probabilmente un liberto, catturato durante le guerre di sottomissione meridionale italiane. Livio Andronico e altri autori (Nevio, Ennio, Pacuvio e Accio) sono importanti, poiché condividono una serie di elementi interessanti: sono poligrafi (si dedicano a più generi letterari, come la poesia epica, la traduzione letteraria, la poesia tragica e comica e una certa voglia di emulare i prodotti della letteratura greca); sono orientati verso la latinizzazione dei generi greci; sono tutti frammentari, quindi consentono solo interpretazioni parziali; stretto rapporto con la tradizione greca, un po' per natura (origini; Ennio si vantava di aver avuto tre cuori: greco, osco e latino); attenta ripresa del mito; attenta indagine sulla letteratura teatrale greca. Si fa riferimento nelle opere teatrali di Livio Andronico a opere importanti, come il ciclo troiano, l'uccisione di Agamennone, figure femminili mitologiche (Hermione, Danae,..). Da Livio fino a Ennio passa la costruzione del poema epico-storico. Ennio comporrà gli Annales, ovvero un componimento che si fonda sulla storia di Roma. Si passa dal metro indigeno (saturnio) a quello 8 Scena dell'abbandono di Cartagine e di Didone 15.03.2018 Gli elementi fondamentali di Ennio come scrittore si collocano all'interno del contesto letterario della poesia epica. Ennio ha un'origine osca e padroneggia tre lingue (latino, greco ed osco). Dedica la sua opera principale al genere epico storico attraverso gli Annales, che è arrivato frammentato. Ennio scrisse in XVIII libri un poema epico con una scansione annuale, di natura storica, in cui racconta le guerre di espansione romane fino alla prima metà del II secolo a.C. I primi sei libri riguardano le relazioni con i popoli italici e gli invasori esterni, come Pirro. Dal settimo in avanti si hanno le guerre di espansione, in cui si esce dal territorio italico e si va verso le isole di Sardegna e Sicilia, verso la Spagna e Cartagine. Dall'XI si va verso oriente con le guerre siriache contro Antioco e le guerre di espansione in Grecia, che non si vengono riportate interamente, vista la morte dell'autore. Lo scopo storico si unisce a quello celebrativo. Si fa vedere come la storia di Roma sia sempre più importante in un contesto culturale in espansione. La celebrazione di Roma passa anche attraverso l'autocelebrazione dell'autore. Ennio si inserisce non nella tradizione neviana, ma in quella greca, nella sequela dell'Iliade e dell'Odissea. Si passa dalla Camena di Livio Andronico alle divinità tipiche dei poemi epici greci, quindi le muse. Le muse vengono collocate sull'Olimpo per legarle all'epopea degli dei, che sono i protagonisti dei poemi epici greci. Un altro elemento di celebrazione e autocelebrazione è quello di presentare l'immagine di Omero in un suo sogno. Quella rappresentazione porta Omero a scegliere Ennio come suo successore. Ennio usa il termine poeta, che è un termine di derivazione greca. È colui che compone i versi, che li tesse. Legandosi così profondamente all'antico poeta si autoelogia. Quando si ha un sogno che si presenta con molta forza ha un valore sacrale quasi profetico, soprattutto se vicini all'alba. Si ha una sorta di profezia poetica della qualità dell'autore. Nel lamento di Ilia, la figlia di Enea e la sua sposa latina15, racconta alla sorellastra di un sogno che ha fatto. En. Ann . Fr.32: Et cita quom tremulis anus attulit artubus lumen, talia tum memorat lacrimans, exterrita somno: «Eurudica prognata, pater quam noster amavit, vires vitaque corpus meum nunc deserit omne; nam me visus homo pulcher per amoena salicta et ripas raptare locosque novos; ita sola postilla, germana soror, errare videbar tardaque vestigare et quaerere te neque posse corde capessere: semita nulla pedem stabilibat. Exim compellare patrem me voce videtur his verbis: “o gnata, tibi sunt ante gerendae aerumnae, post ex fluvio fortuna resistet.” Haec ecfatus pater, germana, repente recessit nec sese dedit in conspectum corde cupitus, quamquam multa manus ad caeli caerula templa tendebam lacrumans et blanda voce vocabam. Vix aegro cum corde meo me somnus reliquit.»16 Videor, come passivo, assume l'accezione di sembrare. Il sogno annuncia il prossimo concepimento dei due gemelli, figli di Ilia e Marte. Ennio comprime enormemente la storia, siccome la distanza tra Enea ed i discendenti di Alba Longa, fino a Rea Silvia è molto più ampia. Voce […] his verbis suona quasi ridondante. Sunt ferendae (gerundivo di fero) Aerumnae porta un significato di necessità in forma passiva; il gerundivo con essere crea una perifrastica passiva, che è il modo più semplice che ha il latino per esprimere il verbo dovere. Il fatto che il sogno sia particolarmente carico di valenza profetica è dato dal verbo ecfatus, molto raro, che significa dire in modo solenne, 15 Lavinia, figlia del re Latino 16 E quando, veloce, la vecchia con le mani tremanti portò il lume, allora piangendo ricorda queste cose, spaventata dal sonno: «Figlia di Euridice, che nostro padre ha amato, le forze e la vita ora abbandonano tutto il mio corpo; infatti mi sembrò che un uomo di bell’aspetto mi trascinasse per bei saliceti e rive e luoghi sconosciuti; così sola in seguito, sorella cara, mi sembrava di vagare qua e là e lenta andare cercando e cercare invano te e di non poterti raggiungere: nessun sentiero offriva un saldo sostegno al piede. In seguito mi sembra che il padre mi chiami a gran voce con queste parole: “O figlia, tu prima devi subire delle sofferenze, poi dal fiume risorgerà la fortuna”. Detto ciò il padre, sorella, all’improvviso sparì e non mi comparve più davanti agli occhi, sebbene desiderato dal profondo del cuore, sebbene a lungo tendessi verso gli azzurri spazi del cielo le mani piangendo e lo chiamassi con voce carezzevole. A stento il sonno mi abbandonò con il mio cuore in affanno». profetare. Si preannuncia l'arrivo dei gemelli e l'avvio della stirpe che fonderà Roma. L'aspetto interessante è il tessuto fonico che sottolinea la tensione con le consonanti sibilanti; vi sono anche: forme arcaiche o grecizzanti, l'uso di iperbati, un tono solenne dato dal vocativo con la O e un enjambement tra i versi 42 e 43. Lo stile di Ennio è quindi elevato e solenne, che a volte esagera. L'eccesso allitterante di 1,90: O Tite, tute, Tati, tibi tanta, tyranne, tulisti17 è un esempio classico dell'esagerazione enniana. Questo modo di scrivere non riesce a mantenere quella certa qual misura importante per una materia così importante e complessa come la storia delle conquiste romane. Ann . 1, 132-138: Certabant urbem Romam Remoramne vocarent. Omnibus cura viris uter esset induperator. Expectant veluti consul quom mittere signum Volt, omnes auidi spectant ad carceris oras Quam mox emittat pictos e faucibus currus: Sic expectabat populus atque ore timebat Rebus utri magni victoria sit data regni18. Si può notare Omnibus cura viris, che è un dativo di possesso e Uter esset induperator che è un'interrogativa indiretta. Si immagina il circo romano di forma ellittica; nel circo potevano gareggiare fino a un certo numero di carri lungo il percorso ed uscivano dalle carceres, ovvero delle rimesse, che si aprivano con dei battenti a cancello, chiamati fauces. La gente aspettava l'esito della discussione tra Romolo e Remo come si aspetta che il console dia inizio alla gara dei carri. Il circo è per le corse, l'anfiteatro è per i combattimenti tra gladiatori. Il mondo romano, come quello greco, è estremamente colorato nelle tracce letterarie, ma non era così nella realtà. Ennio usa un riferimento del tutto noto ai suoi lettori, concreto e particolarmente efficace per la piena comprensione di quanto scriveva. Ann . VII, 1: scripsere alii rem Vorsibus quos olim Faunei vatesque canebant19. Il nuovo proemio indica la volontà dell'autore di dividere il poema in esadi. La consuetudine di inserire proemi all'interno dell'opera diventa molto sviluppata, tanto che si trova anche in Tito Livio. Cicerone lo cita nel Brutus (opera sull'eloquenza). Si indica la consapevolezza di Ennio di una tradizione della storia romana in letteratura, quindi conosce Nevio. C'è un certo disprezzo per la tradizione. Si tratta di altri che scrivono in una forma così antica da essere incomprensibile. Implicitamente è un'asserzione di originalità e modernità per la sua opera. L'esempio dei carri rende evidente questo principio. Viene ripreso anche nel frammento successivo: nec dicti studiosus quisquam erat ante hunc dicti studiosus20. È una definizione data ad Ennio. Dicti studiosus è assimilabile al greco philologos, siccome era particolarmente attento alla dimensione stilistica e lessicale della sfera poetica. Vuole usare uno stile elevato. Istituisce una precisa relazione con il mondo alessandrino, siccome i poeti greci sono anche filologi, siccome si occupano della restituzione al testo della forma più prossima all'originale. Non solo Ennio si lega al mondo greco in senso tradizionale, ma anche alle sue contemporanee interpretazioni, che sono quelle del mondo alessandrino. È un poeta estremamente moderno per la sua epoca. È un poeta particolarmente importante dal punto di vista della concettualizzazione di elementi letterari che si ripresenteranno successivamente. Il teatro mette di fronte a una serie di fenomeni curiosi. Il primo è che il teatro latino raggiunge dei livelli elevati molto presto, per poi decadere e sparire quasi completamente. In secondo luogo, il teatro romano è strettamente legato al mondo greco, tanto che traduce dei testi greci. La traduzione 17 O Tito Tazio, proprio tu, hai sopportato da signore così tante difficoltà per te stesso 18 Discutevano se chiamare la città Roma o Remora. Tutti gli uomini si preoccupavano di quale dei due fosse il comandante. Attendono come quando il console vuole lanciare il segnale e tutti quanti desiderosi guardano alle bocche di uscita dei carri colorati per sapere quali facciano uscire per primi dai battelli. Così il popolo aspettava e nel volto esprimeva il suo timore su quale dei due di fatto fosse data la vittoria nel regno. 19 Altri scrissero di queste vicende nei versi che un tempo cantavano i fauni ed i profeti. 20 ne vi era alcuno prima di costui che fosse amante della parola è profondamente diversa da quanto ci si aspetta. È un teatro non di traduzione, ma di reinterpretazione. A Roma esistono quattro tipologie teatrali: due commedie e due di tragedia. Le palliate sono commedie di argomento greco e sono infinitamente più numerose delle altre. Le togate sono commedie di argomento latino, che implicano una nascita non immediata, ma in una seconda fase teatrale. Le tragedie si dividono in cothurnatae, di argomento greco, che prendono il nome da delle calzature indossati dagli attori per essere più alti. La praetexta è la tragedia di argomento latino, che prende nome dalla toga, bordata di rosso dei senatori. Il teatro romano aveva dei momenti dedicati. Si fa teatro durante i ludi, ovvero nei momenti di spettacolo e di feste pubbliche, che sono per lo più feste religiose. I giorni di lavoro per i romani erano pochi, a causa del sistema servile. I quatto ludi principali sono i ludi romani (quelli più antichi, che si tengono a settembre in onore di Giove, in cui si tenne la prima rappresentazione del 240 a.C), i ludi plebei (tra il 4 ed 17 novembre; nascono come ricordo della fine delle passate discordie tra patrizi e plebei), i ludi Megalenses ( in onore della Magna Mater Cibele21; sono un tipo di celebrazione che si lega all'entrata del culto di Cibele a Roma, che era una dea analoga alla grande madre di altri territori del Mediterraneo. Viene importata tra il III ed il II secolo a.C in relazione con l'intensificarsi delle relazioni con l'Asia e con Pergamo. Si tengono tra il 4-10 aprile) e i ludi Apollinares (in onore di Apollo, si tengono tra il 5 ed il 13 luglio). Non si può organizzare liberamente uno spettacolo; ci vuole un controllo censorio degli spettacoli, siccome lo stato paga gli spettacoli e non vuole che ci sia satira politica, creando la più grande differenza con il mondo greco, che aveva molti spettacoli basati sulla satira, soprattutto quelli di Aristofane. Solo nel 55 a.C si ha il primo teatro in muratura ed è quello di Pompeo; prima vi erano solo teatri in legno provvisori e con scenografie trasportabili. A teatro vanno uomini e donne, ma non gli schiavi; gli spettatori non pagavano, ma le prime 14 file erano riservate prima a senatori e poi ai cavalieri. Le compagnie erano di attori esclusivamente uomini. In una forma di teatro inferiore, come il mimo e la pantomima si poteva avere donne sulla scena. A livello terminologico, si ricordano il dominus grecis, ovvero il capocomico, che dirige la grex (compagnia). Gli attori si chiamavano historiones, un termine derivato dall'etrusco. Il teatro vero ha solo interpreti maschili, che possono essere truccati e/o mascherati. Mentre in Grecia le maschere ci sono di sicuro, sul teatro romano arcaico di Plauto e Terenzio ci sono dei dubbi, mentre successivamente si sa che potevano esserci, anche perché utili come amplificatori di suoni. Nelle commedie di Plauto e Terenzio ci sono molti riferimenti ad ammiccamenti e gesti di occhi e viso che non sono compatibili con l'uso delle maschere. È stato poi fatto un conto per i tempi necessari per passare da un ruolo ad un altro e da un personaggio ad un altro; si è visto che i tempi non collimano con l'indossare delle maschere. Ci sono tempi troppo stretti o troppo lunghi per fare dei cambi di vestiario o di trucco, che fanno supporre che le maschere non venissero usate e si preferissero trucchi e parrucche. Le opere teatrali sono chiamate fabulae. Esistevano delle forme teatrali preletterarie nel mondo italico, che erano chiamate fabulae atellanae, che erano fatte a canovaccio; si dava una sorta di modello di trattazione, a cui l'attore doveva ispirarsi ed inventare. L'atellana ha anche la caratteristica della presenza di personaggi fissi, quali il vecchio, il giovane, il servo ed il lenone (tenutario di bordello). La tradizione popolare italica si innesta solo parzialmente su quella del teatro classico. La fabula non è divisa in atti, ma in parti recitate (deverbia) ed in parti cantate (cantica), con dei recitativi nel mezzo (canto modulato). Ci sono dei musicisti di accompagnamento, solitamente dei flautisti. Il teatro romano tragico dell'epoca è quasi sparito, se non per pochi frammenti. Si hanno solo frammenti di Pacuvio ed Accio, che avevano recuperato molto profondamente la tragedia mitologica greca (ciclo di troia, ciclo tebano, ciclo peloponnesiaco22). Questi temi vengono importati e devono essere conosciuti per piacere al pubblico. Si cerca di soddisfare i gusti del pubblico, che si sta ellenizzando, quindi è propenso a vivere i drammi della mitologia greca. 21 Dea della natura, degli animali e dei luoghi selvatici; compagna del dio Attis. 22 Il ciclo troiano è un insieme di poemi, che narrano la guerra di Troia ed il suo seguito, infatti si includono anche Iliade ed Odissea. Nel ciclo tebano si narrano le vicende che ruotano attorno alla città di Tebe e sono: l'Edipodia, la Tebaide, gli Epigoni e l'Alcmeonide. sono anche delle forme metaforiche. Sovente, accanto alle rotture di quarta parete si ha il metateatro, ovvero delle riflessioni nel teatro sul teatro, di cui un esempio è nella Casina. Pla. Cas : Faciam ut iubes. propter eam rem hanc tibi nunc veniam minus gravate prospero, hanc ex longa longiorem ne faciamus fabulam28. La commedia non deve essere infinita o rischia di diventare noiosa. Dovrebbe stare sui 1300 versi. I modelli plautini sono problematici. Nell'Ottocento le commedie romane venivano viste come delle traduzioni di quelle greche. Nel Novecento, invece, si riscopre la ricerca degli elementi plautini nelle sue stesse opere. I modelli di Plauto sono la commedia di mezzo e quella nuova, ovvero quelle commedie che vengono dopo Aristofane e che, a volte, vengono anche esplicitate. Molte vengono da Menandro. Plauto poteva ricorrere anche ad elementi tragici, come quelli euripidei, abbastanza frequenti e che ritornano soprattutto nella caratterizzazione dei personaggi. Euripide fu uno scrittore che dedica molto spazio alla sua analisi psicologica dei personaggi. Alcune affermazioni parallele tra i due sono state trovate. Di tipico plautino ci sono cinque elementi: Il perfezionamento del ruolo dello strato L'uso della terminologia militare L'umorismo con riferimenti romani Lo sviluppo dei cantica Una ricerca linguistica ricercata, ma che padroneggia tutti i registri possibili Nell'Asinaria all'inizio si ha un'affermazione particolare: nunc quod me dixi velle vobis dicere, dicam: huic nomen graece Onagost fabulae; Demophilus scripsit, Maccus vortit barbare; Asinariam volt esse, si per vos licet. inest lepos ludusque in hac comoedia, ridicula res est.29 Usa il verbo vertere, che significa volgere da una lingua all'altra. Il latino viene definito barbarico, mettendosi quindi dalla parte dei greci. Maccus è il nome con cui Plauto spesso si presenta. Macco è anche uno dei nomi di figure di Atellana. Le occasioni di confronto tra Plauto ed i modelli di Menandro sono pochissimi. Si riesce a capire da questi che le versioni sono abbastanza diverse. Plauto non solo non traduceva alla lettera, ma cambiava i personaggi, cambiava le battute, inseriva delle parti o modificava la struttura. Anche Cecilio Stazio fa qualcosa di simile, ma è leggermente più attinente all'originale. Le commedie di Plauto parlano di cose apparentemente diverse, ma hanno uno schema comune. Propp analizza le favole di magia della tradizione russa, trovando una struttura di fondo che si ripeteva sempre, per cui un soggetto mira ad un oggetto ed il soggetto può allearsi con un aiutante per vincere l'oppositore. Qualcuno vuole che l'oggetto vada ad un destinatario, che può essere o meno il soggetto. Nell'attività di Bettini si ha una situazione simile per le commedie di Plauto. Si ha un personaggio che desidera qualcosa o qualcuno contro un personaggio (lenone, vecchio o soldato) ed entrambi vogliono un oggetto. Il personaggio principale può avere un sostenitore. Questa struttura può essere anche doppia, ovvero avere due personaggi principali e due nemici. Centrale per la lotta e il desiderio dell'oggetto è la commissione di una trasgressione verso una consuetudine sociale, che permette di mettere in moto la commedia. Le commedie si risolvono quasi sempre con un riconoscimento. Tramite il riconoscimento si ricompone l'ordine iniziale, per questo le commedie rimangono conservatrici. Ci possono essere schiavi che aiutano oppure aiutanti che sono 28 Farò come vuoi. Per un altro motivo ti concedo il perdono senza tante difficoltà: per non allungare oltre una commedia già abbastanza lunga 29 La commedia in greco si chiama asinaio e l'ha scritta Demofilo e Macco l'ha tradotta in lingua latina; vuole che si chiami asinaria se a voi sta bene. In questa commedia c'è gioco e satira tali senza esserne consapevoli. Anche il caso ha una grande importanza nelle commedie di Plauto. Publio Terenzio Afro è un ex-schiavo di origine africana, che muore molto giovane e scrive solo sei commedie. Le commedie di Terenzio hanno titoli greci. L'Eunuchus ed il Phormio piacciono al pubblico, mentre l'Hecyra non viene apprezzata e deve essere riscritta più volte. Muore giovane dopo essersi recato in Grecia per cercare nuova ispirazione. Terenzio è legato molto ad un gruppo molto influente, di cui è anche portavoce, ovvero il Gruppo degli Scipioni (Lucio Emilio Paolo, Publio Cornelio Scipione Emiliano e Panezio di Rodi), che è filo-elleno. Il gruppo è osteggiato da molti a Roma, perché accusato di essere troppo aperto all'ellenizzazione. Terenzio viene accusato di pratiche disdicevoli, quali essere un prestanome e di contaminare i modelli. Fare da prestanome è disdicevole per due motivi: perché evita la responsabilità autoriale e perché scrivere di commedia a Roma non è un'attività ben vista, siccome non è da schiavi e da liberti, né da nobili che si concentrano su oratoria e storiografia. Nel prologo dell'Andria si ha la testimonianza del perché venisse tacciato di contaminazione dei modelli. Ter. And . Prologo: Poeta quom primum animum ad scribendum adpulit, id sibi negoti credidit solum dari, populo ut placerent quas fecisset fabulas. verum aliter evenire multo intellegit; nam in prologis scribundis operam abutitur, non qui argumentum narret sed qui malevoli veteris poetae maledictis respondeat. nunc quam rem vitio dent quaeso animum adtendite. Menander fecit Andriam et Perinthiam. qui utramvis recte norit ambas noverit: non ita dissimili sunt argumento, [s]et tamen dissimili oratione sunt factae ac stilo. quae convenere in Andriam ex Perinthia fatetur transtulisse atque usum pro suis. id isti vituperant factum atque in eo disputant contaminari non decere fabulas. faciuntne intellegendo ut nil intellegant? qui quom hunc accusant, Naevium Plautum Ennium accusant quos hic noster auctores habet, quorum aemulari exoptat neglegentiam potius quam istorum obscuram diligentiam. de(h)inc ut quiescant porro moneo et desinant male dicere, malefacta ne noscant sua.30 Il prologo di Terenzio è diverso da quello di Plauto. Lui sa che il ruolo del prologo dovrebbe raccontare la storia in anteprima, ma non lo può fare perché deve rispondere ad un vecchio poeta, ovvero Luscio di Lanuvio, che lo attacca per un procedimento stilistico particolare. Il prologo di Terenzio è di natura esegetico-letteraria. L'autore dice di aver traslato e utilizzato ciò che dalla Perinthia si è trasferito all'Andria, per questo viene tacciato di contaminazione. Dice di aver provveduto a svolgere un atto, ovvero preso parti di una commedia e messe in un'altra, portando ad una contaminatio, ovvero non crea una vera traduzione. Terenzio risponde che questo atto è comune anche a Nevio, Plauto ed Ennio. Questo non è comprovabile, però quello a cui fa riferimento Terenzio è la contaminazione con l'inserimento di versi o battute (piccola contaminazione) o con l'inserimento di personaggi od intere scene (grande contaminazione). Questo è un elemento per lui di emulazione, che è uno dei concetti chiave per interpretare l'evoluzione della storia della letteratura latina. Si preferisce emulare l'atteggiamento limitante dei grandi personaggi, piuttosto che la negligenza letteraria di altri. Si ha uno dei primi canoni della letteratura teatrale latina. Terenzio non considera Livio Andronico, perché non era toccato dal problema della contaminatio. Le commedie di Terenzio sono statarie, di carattere, con dialoghi molto ampi. Sono commedie dove i cantica perdono di importanza e spariscono. Il dialogo è di natura fortemente intellettuale, tanto 30 Quando per la prima volta si dedicò a scrivere, il poeta credette che gli fosse assegnato questo solo compito, che al pubblico piacessero le commedie che aveva composto. Invece si accorse che le cose stavano molto diversamente; infatti consuma il tempo dello scrivere i prologhi non per narrare il contenuto della commedia ma per rispondere agli insulti di un vecchio poeta malevolo. Ora per favore fatte attenzione che cosa gli imputano a colpa. Menandro ha composto “La ragazza di Perito”; chi conosce bene l'una e l'altra delle due le conosce entrambe: infatti non sono di contenuto diverso e tuttavia sono di diversa struttura e di diverso stile. Le parti che confluirono nell'Andria ammette di averle trasferite dalla Peritia e di averle adoperate come proprie. Costoro lo rimproverano di aver fatto questo e a tale proposito discutono che non è bene contaminare le commedie. Forse che pur comprendendo fanno finta di non comprendere nulla? Quando costoro accusano costui, accusano Nevio, Plauto, Ennio che costui considera suoi maestri dei quali preferisce imitare la negligenza piuttosto che la loro oscura pignoleria. Dunque li esorto a stare tranquilli e a cessare di calugnare per non conoscere le proprie magagne. che c'è una riflessione da parte dei personaggi, che hanno maggiore profondità psicologica. Alcuni personaggi riescono ad essere anche più realistici e plausibili, rispetto a quelli di Plauto. Nel suo teatro emergono due aspetti urgenti, ovvero i temi educativi e quelli famigliari, che assumono una connotazione rivoluzionaria. Nella realtà le sue proposte filo-elleniche sono dirompenti rispetto a quelle plautine. Con Terenzio emerge la percezione di una natura umana comune, che riguarda anche i più deboli e che fa sì che non ci si debba mai sentire soli, siccome la solitudine è un dramma ed una tragedia. Terenzio si occupa di ogni tipo di personaggio, anche di quelli che venivano evitati da Plauto. Si cerca di capire i comportamenti di tutti. Uno degli esempi fondamentali è dato dagli Adelphoe. Sono messi a confronto due modelli educativi; quello di Demea è basato sul giudizio esterno, sul fatto che bisogna dare l'esempio e specchiarsi nell'atteggiamento altrui, mentre Micione si basa sulla spinta interiore, quindi bisogna comportarsi come ci si sente. Il rapporto padre e figlio nel secondo caso si basa sull'affetto, mentre nel primo sulla paura. Terenzio sembra fare il tifo per la proposta di Micione. Verso la fine, Demea attraverso una serie di espedienti e ribaltamenti si guadagna la fiducia di entrambi i figli e mette in difficoltà il fratello, tanto che lo obbliga a sposarsi. Micione viene costretto a pagare i matrimoni dei due fratelli e anche la madre della cortigiana, che viene sposata da Micione stesso, dopo che Demea lo inganna. Tutto finisce con i due figli che dicono al padre naturale di rimettersi a lui, perché è l'unico a sapere cosa è bene per loro. Il finale è un po' artificioso, ovvero Terenzio era stato così bistrattato dal pubblico, che per avere successo non la dà vinta a Micione e accetta la visione tipica della famiglia romana. Il contentino dato al pubblico non rivela quello che è reale nel pensiero terenziano, ovvero la fiducia in un'educazione liberale. militare dell'isola, mentre Catone propone l'assoluzione dei Rodiesi. Vince Catone, ma Rodi viene punita con la privazione delle provincie di Licia e Caria, ricevute da Roma nel 188 a.C. Le relazioni si ristabiliscono tre anni dopo, nel 164 a.C. Dal punto di vista stilistico Catone è assolutamente rilevante. Interessante è una particolare frase di una orazione. Cat. Pro Rhodiensibus : Scio solere plerisque hominibus rebus secundis atque proxilis atque prosperis animum excellere atque superbiam atque ferociam augescere atque crescere32. Il ritmo è fondato su forme tricolari, ovvero una sequenza di tre elementi (es. rebus secundis/atque prolixis/atque prosperis); questa è una scelta retorica estremamente comune, consacrata dall'antichità, usata anche nel Novecento, alternata da quella bicolare. Gli elementi sintattici (cola) e sono elementi di almeno due parole e coordinati per polisindeto (atque). Vi è anche una continua scelta allitterante. Inoltre si trovano anche dei parallelismi. Tra il II secolo ed il I a.C si assiste ad una Roma che consolida le sue conquiste nel Mediterraneo, ma la repubblica entra in crisi sia per le lotte interne sia per le difficoltà di gestione del territorio in espansione. Roma domina Italia, Spagna, Grecia continentale, parte dell'Asia Minore e Africa settentrionale. Rimangono fuori Siria e Egitto e le tribù galliche e germaniche. La cultura è ormai ellenizzata ed il mos maiorum non è più il solo elemento di riferimento per i valori sociali. Emerge il disimpegno politico; ci sono autori che pur potendo impegnarsi politicamente, volutamente non lo fanno e sono Lucrezio e Catullo. Tito Lucrezio Caro ha una vita di cui si sa ben poco, poiché chi ne ha parlato è un suo avversario ideologico, siccome lo accusano di materialismo. Lucrezio è collocabile nel I secolo a.C, tra il 98 ed il 55 a.C. Si pensa che sia nato tra il 98/94 a.C e morto intorno al 55/51 a.C. Cicerone dà notizia della sua opera, di cui si è assunto l'onere editoriale. Lucrezio non ha origini certe, ma si sa che fosse competente di filosofia, una in particolare. Si ha l'opera De rerum natura, in sei libri in esametri, quindi è un poema epico di natura didascalica; vuole insegnare la filosofia epicurea. Dopo la morte di Aristotele e di Platone, si generano una serie di scuole filosofiche in Grecia. Le scuole principali derivanti sono: da Platone l'accademia e da Aristotele il liceo o Peripato. Ci furono anche altri pensatori che danno vita ad una sequela scolastica, ovvero: Epicuro con la scuola del Giardino (kepos) e la filosofia epicurea; Zenone con la filosofia della stoà e degli stoici; i cinici, che sono un mondo a sé, che si basano su Diogene e sulla sua durezza (omnia mea mecum porto33); gli scettici, che sono una derivazione degli accademici e sono filosofi derivati soprattutto da Arcesilao di Pitane e sono dei filosofi che si interrogano sulla natura della conoscenza, mettendo in crisi la possibilità di una verità raggiungibile, arrivando a stabilirsi sulla sospensione del giudizio. Mentre Platone e Aristotele lasciano opere scritte proprie, degli altri si ha molto poco, qualche lettera e molti frammenti che sono raccolti da vari studiosi, soprattutto tedeschi (es. von Arnim e Usener). Diogene Aerzio è un autore tardo antico che si occupa di recuperare lettere e frammenti e di unirli in Vite di filosofi. Il problema che accomuna le filosofie è in cosa consiste la felicità, quindi sono essenzialmente filosofie etiche, che però non prelude a speculazioni metafisiche. Ogni filosofia da risposte diverse, come il piacere, la virtù, l'autosufficienza, ecc. Il problema etico è centrale in tutte queste filosofie e non si capirebbero senza l'attenzione etica di base. 32 So che la maggioranza degli uomini quando le cose vanno bene e prosperano l'animo prende forza e crescono la superbia e la ferocia e aumentano di importanza 33 Porto con me tutte le mie cose 22.03.2018 Tra le varie scuole che seguono l'esperienza di Platone ed Aristotele ci sono tre scuole principali: Scetticismo, Epicureismo e Stoicismo. Tutte e tre le scuole si legano alla figura di un personaggio di riferimento, che fa da fondatore e tutte si costruiscono sulla base di una serie di riferimenti alla sua produzione, alla sua parola, che viene caricata di una particolare autorevolezza, che va anche al di là del suo pensiero. Lucrezio fu un poeta-filosofo epicureo. L'Epicureismo è la filosofia che prende il nome da Epicuro. La scuola di Epicuro ha sede nel Kepos di Atene. Epicuro lascia un certo numero di opere, che però non sono arrivate fino ad oggi. Ad oggi sono arrivate delle lettere in cui si presentano problemi generali di fisica ed etica e delle massime. Queste scuole incentrano la loro attenzione sull'etica eudemonistica34, quindi basata sulla ricerca della felicità. L'epicureismo prevede una visione per cui il mondo è fatto da atomi. La realtà esiste, è percepibile, ma formata da infiniti corpuscoli indivisibili, chiamati atomi. I corpuscoli sono di tipi e forme diverse, ma sono quasi invisibili all'occhio umano. Da questi atomi si formano i corpi più grandi, quelli percepibili dall'occhio umano e questo avviene attraverso la combinazione con altri elementi. Gli atomi in latino venivano chiamati corpora od elementa. Gli atomi si muovono, quindi esiste un movimento ed un vuoto che lo permette. Lucrezio dà due informazioni un po' contraddittorie. Secondo la concezione tradizionale c'è un moto parallelo dall'alto verso il basso. Secondo la fisica aristotelica, che passa agli epicurei, tutti gli elementi pesanti tendono a scendere; quindi il luogo di tutti i corpi con un peso scendono, mentre i corpi di fuoco e aria tendono all'alto. I corpi si formano attraverso delle deviazioni di natura casuale, che Lucrezio chiama clinamina, un calco del greco klisis. Sulla base delle deviazioni gli atomi si incontrano e fanno nascere qualunque corpo, che si caratterizza in base alle caratteristiche degli atomi. Il secondo movimento prevede un volteggio casuale nel vuoto come se fosse aria e Lucrezio fa il paragone con la polvere visibile in controluce. La conseguenza della costruzione di corpi porta la vita e la morte ad essere semplici aggregazioni e disgregazioni di atomi. Dal punto di vista fisico il mondo è una continua aggregazione e disgregazione di corpi. La conseguenza è che non esiste necessariamente un inizio od una fine. Se gli atomi sono teoricamente infiniti, come gli spazi e le velocità, non è detto che ci sia un unico universo, inteso come mondo percepibile. Possono esistere tanti mondi diversi nello stesso momento. Se la morte e la vita non sono che aggregazioni e disgregazioni, se possono esserci diversi mondi che coesistono o si susseguono, le divinità non hanno nessuno spazio; gli dei per Lucrezio non sono necessari, esistono, ma vivono in luoghi particolari, che stanno tra i mondi (intermundia) e non si interessano delle cose umane. La conseguenza pratica è che l'uomo quando vive, lo fa cercando di superare una serie di paure (della morte, del dolore, degli dei, dell'infelicità, delle sofferenze e di quanto lo circonda). La filosofia epicurea è una medicina, che cura la paura della morte, in quanto quando l'uomo c'è la morte non c'è e viceversa. Il dolore non è sostanziale, non è legato alla natura umana, è solo un cattivo funzionamento. Gli dei non sono interessati agli uomini, quindi, le pratiche che li riguardano non hanno senso. Quello che è attorno non può fare paura, perché anche gli altri sono nella stessa condizione. Il filosofo si vede come un medico. La vista per gli epicurei prevede un velo che si distacca dai corpi, che si attacca agli occhi e, siccome il simile conosce il simile, così si è in grado di conoscere quanto si vede. Se l'uomo è fatto di atomi, tutto ciò che è materiale dell'uomo è fatto di atomi; tutto ciò che è immateriale, come sogni e desideri, sono delle modificazioni intervenute nelle interazioni tra gli atomi, che non hanno una realtà profonda. Anche i sentimenti non sono che delle affezioni momentanee ed alcuni sono particolarmente pericolosi, come l'amore, poiché allontana dalla via della ricerca della felicità. Il pensiero di Lucrezio si concentra sul termine atarassia, la mancanza di turbamento. Se si riesce a tenere sotto controllo i sentimenti con la forza dell'intelligenza, si può mantenere un certo equilibrio. Questo implica una liberazione dai desideri. 34 L'eudemonismo è la dottrina morale che riponendo il bene nella felicità (eudaimonia), la persegue come un fine naturale della vita umana. Dall'eudemonismo va distinto l'edonismo che si propone come fine dell'azione umana il «conseguimento del piacere immediato», nteso come godimento (come pensava la scuola cirenaica di Aristippo) o come assenza di dolore (secondo la concezione epicurea). Anche la competizione politica va evitata, in quanto crea tensioni. Il vero epicureo deve mettere in pratica il “vivi nascosto” e tenersi lontano dall'agone politico. Il libro di Lucrezio, De rerum natura, è diviso in diadi; la prima è di elemento fisico, ma si apre con un doppio proemio all'opera. Nel corso delle diadi, in particolare nei proemi, Lucrezio si trova a ricordare, citare ed esaltare la figura di Epicuro, che da prima è un uomo capace di vincere la superstizione, poi è interprete della natura ed infine Dio dell'umanità. Nella seconda diade, di argomento antropologico, si passa dal cosmo all'uomo, che nella visione epicurea è bipartito (corpo, intelletto, che è bipartito). L'anima e l'animus sono legati all'atto del respiro. L'animus è un insieme di strutture mentali che permettono al corpo di funzionare. L'idea di aggregazione e disgregazione del corpo porta alla decadenza dell'idea platonica dell'innatismo, per cui conoscere è ricordare. Nella visione platonica le anime si reincarnano nei corpi e quando questa riesce a ricordare quello che era, conosce davvero la realtà. Per Epicuro l'anima è solo uno strumento di sopravvivenza. L'ultima diade, la terza, ritorna a superare l'uomo senza abbandonarlo ed è di argomento storico- cosmologico. Riflette sul mondo e sulla sua natura. Secondo Lucrezio, anche se tutto è destinato a perire, esiste comunque una sorta di evoluzione dal caos al cosmos. Il passaggio dal disordine all'ordine viene visto: Come passaggio da un'età all'altra Positivamente sotto il profilo dello sviluppo tecnico Negativamente perché lo sviluppo tecnologico corrisponde ad una crisi di senso e di rapporti (aumento dei conflitti). Quello che consente all'uomo di sopravvivere sono il dolos e la virtus. Lo sviluppo tecnologico porta ad un'evoluzione della furbizia e dell'intelligenza, ma non del senso etico. L'ultimo libro è dedicato ad Atene ed è uno dei modelli da cui Boccaccio trae spunto per la descrizione della peste della Firenze trecentesca. Accanto alla visione positiva della città, si affianca quella della peste del 430 a.C, che sta agli esordi della guerra del Peloponneso. Fu un disastro con moltissimi morti e la rottura delle parentele, delle amicizie e dei legami sociali. Vi è il crollo della compagine statale. Esiste una testimonianza di Cicerone, che in una lettera al fratello Quinto dà un giudizio particolare. Cic. Epistolario : Ad Quintum fratrem, Lucreti poemata ut scribis ita sunt, multis luminibus ingeni, multae tamen artis35. Il tamen crea una correzione, per cui il senso di multae artis è diverso da ingeni. Il poema è brillante, interessante e piacevole, ma la maestria tecnica è superiore; quindi, è un poema più intellettuale che poetico. Il De Rerum Natura ha vari problemi, ma due sono insistenti: il primo è quello del riferimento alla trattazione degli dei che manca; il secondo è la ripetizione pari pari di una lunga sezione di versi, che viene posta alla fine del primo libro e all'inizio del quarto. Potrebbe essere il segno di una bozza dell'opera, che doveva essere rifinita. La parte finale è in equilibrio con quella iniziale; l'ottimismo iniziale si equilibra con il pessimismo finale. Il libro presenta anche una simmetria centrale ed uno sviluppo graduale, quindi era sicuramente in una fase molto avanzata di stesura. Epicuro non è l'unica fonte; Lucrezio ha modo di conoscere bene anche altri filosofi greci, in particolare Empedocle di Agrigento e Anassagora. Empedocle vede nella realtà la presenza dei quattro elementi canonici, che sono governati da due forze: amore e odio. Le due forze sono macrocosmiche e governano tutto l'esistente e favoriscono l'aggregazione degli elementi e la disgregazione degli elementi. Anassagora è il filosofo delle omeomerie, delle parti simili, quindi dell'esistenza di parti uguali ed omogenee, modulari, della realtà che si fondono insieme. Ci sono anche fonti mediche e successivamente poetiche con Esiodo. Sulla poesia sorge un problema: la poesia, determinando emozioni, scompagina la ragione; quindi perché scrive un poema? Lucrezio lo spiega nella fine del 35 Al fratello Quinto, i poemi di Lucrezio sono così come tu scrivi, caratterizzati da molti lampi di ingegno e tuttavia connotati da grande maestria compositiva delle ultime testimonianze di sacrifici umani. Questo serve a Lucrezio per dire, che in nome di una paura irrazionale degli dei si mette a morte una persona innocente. Lucrezio è un poeta razionalista, che ha voglia di comunicare le verità dell'epicureismo, tanto da essere carico di elementi retorici nel proprio stile. Trova inutile il mito, ma lo usa per i suoi scopi. Il suo poema è sia una terapia contro le paure, ma rivela anche la nozione di imperfezione del mondo. È tipico del De Rerum Natura la commistione di pessimismo ed ottimismo. Con Lucrezio e Cicerone nasce il vero linguaggio latino astratto, in quanto si devono tradurre in termini comprensibili i termini della filosofia. Si lamenta della povertà del linguaggio latino, poiché esso è insufficiente a tradurre la filosofia ed è costretto a creare nuove parole. Le nuove parole derivano dai calchi e dai prestiti; i primi si rimodellano sulle parole greche di origine, i secondi sulla riscrittura in latino del termine greco. Lucrezio è importante, perché è il primo testo su cui si può esercitare la filologia classica. Le riflessioni filologiche classiche scientifiche nascono con le edizioni di Lucrezio e quelle moderne nascono con Karl Lachmann, che è il primo ad applicare il procedimento scientifico di riduzione dell'attestazione plurima, ovvero si ha un procedimento a più fasi: Recensio: ritrovare i testimoni di un'opera identificandone i rapporti tra di loro, che sono identificabili attraverso errori comuni oppure la concordanza in errore Emendatio: correzione del testo, con l'obiettivo di arrivare più vicino possibile al testo licenziato dall'autore originale (archetipo) Per arrivare all'emendatio si può passare o per i manoscritti (ope codicum) o per ingegno (ope ingenii). Quando i manoscritti non danno senso si usa l'ingegno. I criteri che si usano sono pochi: lectio difficilior e usus scribendi. Per identificare e scegliere una lezione, tra due equivalenti si sceglie quella più difficile, poiché quando si copia si tende a banalizzare. L'usus scribendi porta lo studio dello stile dell'autore che permette di identificare certi modi e forme dello scrivere dell'autore che sono applicate al testo in questione. Lucrezio è estremamente importante perché ha costruito un mondo di interpretazioni e l'interesse di molti personaggi. Nella romanità pagana è poco interessante, ma diventa importante per l'ambito cristiano, che lo attacca pesantemente, per questo sia Tertulliano sia Arnobio lo criticano, pur usandolo. Con il tempo diventa poi il poeta degli atei e degli scienziati. Dante non lo nomina mai, nemmeno quando si riferisce agli epicurei. Dante nel XIV del Paradiso descrive il turbinio delle anime, riprendendo Lattanzio, che a sua volta conosceva Lucrezio. Riecheggia anche nel I dell'Inferno, poiché nel II libro di Lucrezio c'è la raffigurazione del sapiente che è beato perché in una condizione di pace ed è soave guardare verso il mare in tempesta stando sulla battigia. Anche Foscolo si interessa a Lucrezio in ambito dantesco. Che Dante potesse leggere il De Rerum Natura non è impossibile, ma si tende ad escluderlo. Come Dante rappresenta un modello letterario e linguistico, così può esserlo Lucrezio, dopo essere stato rivalutato. Lucrezio possiede una eco anche nel proemio della Gerusalemme Liberata di Tasso, che si rende conto dell'importanza del De Rerum Natura sotto il punto di vista metapoetico. Anche Primo Levi se ne ricorda ed in una sua antologia e lo annovera tra i testi a lui cari. del mare dovrà essere pagata con un terribile sacrificio, quello di Ifigenia, la figlia minore di Agamennone dopo Elettra e Oreste. Clitennestra sviene dalla paura, mentre Agamennone riprende a litigare con Menelao, che gli suggerisce di non continuare le risse, ma di affrontare il problema chiamando Ulisse e Diomede. Costoro andranno a prelevare Ifigenia dal suo palazzo, con la scusa che deve partire per Ftia dove l'attende Achille, pronto a sposarla. Ifigenia tutta contenta si fa guidare da Diomede e Ulisse fino alla piazza della città, dove l'attende un sacerdote, pronto a compiere il sacrificio. Quando Ifigenia si accorge dell'amara realtà, cerca di svincolarsi, ma poi si fa condurre all'altare, pronta a favorire il volere degli Dei. Agamennone non osa guardare e nemmeno Clitennestra, che lo maledice sottovoce e medita già la vendetta dopo il ritorno del re da Troia. Dopo la morte della ragazza sopraggiunge Achille, il quale è stato avvertito dell'inganno mosso contro Ifigenia. Egli è irato per essere stato citato in quella situazione e si mette a insultare con violenza Agamennone, che ha osato uccidere sua figlia solo per andare a Troia per il potere. Agamennone lo maledice e poi si mette a discutere di nuovo con Menelao. Achille esprime il suo dissenso e il suo odio fondato per la politica e per i politici e si allontana verso la sua nave. La lite tra i due continua finché tutti i greci non decidono di partire affranti per la perdita di Ifigenia. Catullo visse tra l'84-82 a.C ed il 54-52 a.C. Sono anni in cui la situazione politica a Roma è estremamente drammatica, con scontri tra potenti politici e con uno stato che ne viene danneggiato. Di Catullo si sa che viene da Verona e che la sua famiglia era amica di Cesare. Fece un viaggio in Oriente, in Bitinia, dove un fratello morì. Il contesto letterario, in cui agisce Catullo è un contesto che come elementi generali vede la composizione del poema lucreziano, l'inizio di carriera di Cicerone e la crisi della crisi di retorica. Comincia a svilupparsi in questo periodo un altro piccolo genere letterario, ovvero la poesia lirica d'amore con alcuni personaggi minori, chiamati poetae novi, poeti che si accostano all'amore con un attenzione di tipo erudito e di tipo personale e/o frivolo. Levio nella Erotopaegnia fa emergere potentemente la frivolezza d'amore, la quale è un'esperienza che viene narrata solo in pochi frammenti arrivati sino ad oggi. Valerio Catone vi dedica una serie di elegie nel Lydia. Il termine poetae novi è di Cicerone ed è un calco greco, che indicava i poeti più recenti, mentre per Cicerone non ha una valenza positiva, perché è una formula che indica poeti che si scostano da qualcosa di tradizionale, cosa che nell'ambiente conservatore romano non è particolarmente apprezzato. Questo si lega alla nuova visione ellenizzata dell'amore come più libero. Gaio Valerio Catullo è un poeta che lascia un solo testo, ovvero il Liber, che secondo la struttura moderna comprende 116 poesie. Le 116 poesie vengono distinte in tre parti: nugae (1-60), carmina docta (61-68) e gli epigrammi (69-116). Cat. Car. I: Cui dono lepidum novum libellum arida modo pumice expolitum? Corneli, tibi: namque tu solebas meas esse aliquid putare nugas iam tum cum ausus es unus Italorum omne aevum tribus explicare cartis doctis, Iuppiter, et laboriosis. Quare habe tibi quicquid hoc libelli qualecumque; quod, <o> patrona virgo, plus uno maneat perenne saeclo.39 La struttura è in endecasillabi faleci. Il libro viene definito libellum, ovvero libretto modesto. Cornelio Nepote è uno scrittore latino, autore di una serie di biografie di uomini illustri, che sono sopravvissute solo in parte, in particolare quelle di Catone, di Attico e di una serie di generali greci e cartaginesi. Catullo fa riferimento ad un'opera in tre libri che parla di tutta la storia romana, ovvero il Chronicon di Cornelio Nepote40. Catullo gli dedica il testo per dire che era l'unico a considerare valide le poesie catulliane. Gli elementi interessanti sono: lepidus, novus e expolitus, perché indica una virtù di scrivere alessandrina (equilibrio, perfezione espressiva e cura dei particolari), perché è nuovo e perché è stato assottigliato, ovvero è stato sottoposto ad una cura formale continua e tutte le parole sono state limate. Il livello stilistico molto alto è una novità In fondo si ha l'auspicio della sopravvivenza del libro per più di un secolo ed è un tema che torna anche in Orazio ed Ovidio. Ciò indica la consapevolezza che ci sono lettori capaci di apprezzarla e di autoapprezzamento. Doctis e laboriosis indicano il lavoro e la fatica che sta dietro il lavoro, in quanto è dotta nugas indica i primi sessanta carmi, che hanno vari temi e un metro vario. Sono caratterizzati anche da varietà di toni. I componimenti da 61 a 68 sono i carmina docta e si occupano di vicende impegnative, mitologiche e narrative, tanto che la lunghezza aumenta. Gli epigrammi invece sono più corti. Pare che sia stato proprio Nepote a costruire la struttura del Liber, che originariamente era in tre libri: le nugae (metro vario fino a 800 versi), i carmina docta (più impegnativi e di 800 versi) e gli epigrammi (in distici elegiaci e di numero minore). La raccolta in tre libri era abbastanza normale nella classe di poeti Alessandrini, che scrivevano in metri diversi. 39 A chi dedicherò questo libretto tutto nuovo e or ora levigato ai bordi con scabra pomice? A te, Cornelio: infatti solevi attribuire qualche valore a queste mie bazzecole, già allora, quando tu solo fra gli Italici osasti narrare la storia d'ogni tempo, in tre volumi eruditi e,per Giove, laboriosi! Accetta perciò il contenuto di questo libretto, qualunque ne sia il valore. Ed esso, o vergine protettrice, possa vivere perenne, ben oltre una sola generazione 40 L'opera era strutturata in tre libri e che era una sorta di compendio di storia universale, dall'età mitica fino a quella contemporanea a Nepote, forse basato sull'omonima opera del greco Apollodoro. Il primo tema è quello dell'amore per Lesbia. Questa donna è una donna reale, presumibilmente una certa Clodia, in quanto si sa da Apuleio che nell'Apologia rivela i nomi delle donne amate dai grandi autori del passato. L'amore per Lesbia è un amore socialmente non accettabile, in quanto è una donna più matura e sposata, oltre che di rango sociale diverso. Viene chiamata Lesbia per usare un nome isometro, richiamando quello originale, e per omaggiare l'isola di Lesbo e i poeti di quell'isola, in particolare Alceo e Saffo. Con questo nome Catullo rivolge un omaggio alla fonte di poesia dell'isola greca, in cui Saffo, che lui traduce, aveva dato vita ad un cenacolo poetico. Il primo incontro si identifica nei versi 70-76 del carme 68. l'inizio dell'amore è nel carme 51 e la fine è nell'11. Si ha l'incontro con anche altre donne, come Ameana e Quinzia. L'ordine caotico dei carme sembra suggerire ulteriormente che non sia stato Catullo a sistemare i componimenti del Liber. In alcuni carme sembra esserci anche un amore omoerotico per Giovenzio, ma utilizza gli stessi termini che usa per Lesbia. Lesbia non era una donna facile, molto colta, libera e con molti amanti, tanto che lo tradisce ripetutamente e lui ne soffre altamente. L'altro tema che governa il Liber è l'amicizia e l'inimicizia. Tra i veri amici si annoverano Allio, Veranio, Fabullo e Cornelio. Ci sono poi degli amici poeti, ovvero Calvo e Cecilio. In seguito ci sono amici-rivali, ovvero Marco Celio Rufo, uno degli amanti di Lesbia. Poi ci sono i falsi amici, quindi Furio ed Aurelio e Alfeno. Tra i nemici si ricordano Egnazio, Ravido, Quinzio e Gellio. Successivamente ci sono le persone rozze, come Asinio Marrucino, Tallo, Emilio, Vettio e Arrio. L'ultima parte è dedicata ai politici, quali Mamurra, Cesare e Cicerone. Nel carme dedicato a Cicerone, Catullo scherza dicendo di essere un poeta tanto pessimo, quanto Cicerone era un ottimo avvocato, ma può essere inteso anche in altro senso, ovvero come avvocato di tutti, che difende chiunque pur di guadagnare. Carme 51: Ìlle mì par èsse deò vidètur, ìlle, sì fas èst, superàre dìvos, quì sedèns advèrsus idèntidèm te spèctat et àudit dùlce rìdentèm, miserò quod òmnes èripit sensùs mihi: nàm simùl te, Lèsbia, àspexì, nihil èst supèr mi vòcis in òre; lìngua sèd torpèt, tenuìs sub àrtus flàmma dèmanàt, sonitù suòpte tìntinànt aurès, geminà tegùntur lùmina nòcte. Òtiùm, Catùlle, tibì molèstus: òtio èxsultàs nimiùmque gèstis: òtium èt regès prius èt beàtas pèrdidit ùrbes. 41 Riprende una poesia saffica42 e segna, con il carme 11, l'inizio e la fine della storia d'amore. Sono in strofe saffiche minori. Mentre sulla 11 non c'è alcun dubbio ed è decisamente una poesia di commiato. Questa è ambivalente: quella più comune è l'inizio della storia d'amore; l'altra la vede come un carme di gelosia. Nel carme dice di vedere un quadretto con la sua donna ed un altro uomo. Forse anche l'altro è un rivale in amore e cade totale preda per la passione amorosa per Lesbia. Seguono la divinizzazione dell'amante e l'introduzione dei sensi come portatori dell'immagine integra della persona. Catullo toglie la strofa sulla gelosia e aggiunge una sull'otium, ovvero la situazione in cui si trovava una persona priva di amore, che ora si risveglia preso dalla passione. Nelle prime tre strofe rende bene quello che c'è nel testo di Saffo, ma poi c'è una reinterpretazione del testo saffico, quando la poetessa fa l'amore. 41 Quello mi sembra essere pari a un dio, quello, se è lecito(dirlo), (mi sembra) superare gli dei, che sedendoti di fronte ti guarda e ascolta incessantemente che ridi dolcemente a me misero strappa tutti i sentimenti O lesbia ogni volta che ti vedo nulla sopravvive a me di voce Ma la lingua è paralizzata, una fiamma sottile si diffonde sotto le membra Le orecchie tintinnano per un suono loro gli occhi sono coperti da una duplice notte L’amore, o catullo, ti è molesto A causa dell’amore ti esalti e smanii troppo L’amore in passato ha mandato in rovina re e città beate 42 A me sembra beato come un dio quell’uomo che seduto a te di fronte t’ascolta, mentre stando a lui vicino dolce gli parli e ridi con amore; si sgomenta il cuore a me nel petto, non appena ti guardo un solo istante, e di parole rimango muta. La voce sulla lingua si frantuma, sùbito fuoco corre sottopelle, agli occhi è cieca tenebra, e agli orecchi rombo risuona. Sudore per le membra mi discende e un brivido mi tiene; ancor più verde sono dell’erba; prossima alla morte sembro a me sola Carme 72: Dicebas quondam solum te nosse Catullum, Lesbia, nec prae me velle tenere Iovem. Dilexi tum te non tantum ut vulgus amicam, sed pater ut gnatos diligit et generos. Nunc te cognovi: quare etsi impensius uror, multo mi tamen es vilior et levior. Qui potis est, inquis? Quod amantem iniuria talis cogit amare magis, sed bene velle minus.46 Questo è un carme in distici elegiaci e parla direttamente all'amante. Lesbia ha già tradito Catullo e gli ha recato offesa. Quello che è interessante è l'atteggiamento psicologico dell'uomo nei confronti della donna. Diligo, in latino, è l'atto di amare in maniera pura di relazioni affettive, come un padre per i figli. Catullo introduce una concezione affettiva dell'amore, il suo amore non è prettamente sessuale, ma che avrebbe voluto costruire in maniera più profonde. Per lui l'amore sensuale è unito a quello affettivo e famigliare. Questa sua idea rende ancora più amara la situazione di tradito. Carme 85: Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris. Nescio, sed fieri sentio et excrucior.47 Quello che dice è che lui nei confronti di Lesbia sente di provare un sentimento ambivalente; sente di amare la donna, ma allo stesso tempo la odia per i suoi tradimenti. Il primo elemento interessante è dato dalla contrapposizione dei due verbi odi e amo. Il perfetto di odi indica il processo che porta all'odio, in quanto è un verbo difettivo e non dovrebbe avere questa forma. L'odio ha avuto un inizio e porta all'astio, anche se l'amore continua infinitamente. C'è una persona indefinita, un tu, che fa una domanda ipotetica. Il verbo requiro indica una richiesta intensa, forte. Lui dichiara di essere in un completo empasse psicologico. Il verbo excrucior è difficile da tradurre in italiano, anche per l'accompagnamento di ex più crucior, più la forma deponente che complica la situazione. Indica la sofferenza più grande per un romano, la croce, che viene dall'esterno, ma che coinvolge così tanto l'intimo da dover usare un verbo di forte impatto emotivo. Carme 87: Nulla potest mulier tantum se dicere amatam vere, quantum a me Lesbia amata mea est. Nulla fides ullo fuit umquam foedere tanta, quanta in amore tuo ex parte reperta mea est48 Usa il termine mulier, la forma più generica per indicare una donna in latino, che è sposata ma non è sua moglie. É la stessa forma che usano i poeti elegiaci. Qui si vuole un rapporto paritario con la donna, fondato su due principi: la fides (lealtà personale) ed il foedus (il patto che invera la relazione). Quello che Catullo brama è una certa stabilità del patto, che rende accettabile la relazione dal suo punto di vista, più che da quello sociale. Carme 101: Multas per gentes et multa per aequora vectus advenio has miseras, frater, ad inferias, ut te postremo donarem munere mortis et mutam nequiquam alloquerer cinerem. Quandoquidem fortuna mihi tete abstulit ipsum. Heu miser indigne frater adempte mihi, nunc tamen interea haec, prisco quae more parentum tradita sunt tristi munere ad inferias, accipe fraterno multum manantia fletu, atque in perpetuum, frater, ave atque vale.49 46 Una volta dicevi di conoscere solo Catullo, Lesbia, e di non voler avere nemmeno Giove al posto mio. Una volta ti amavo, non tanto come la gente comune ama un’amica, ma come un padre ama i generi ed i cognati. Adesso ti ho conosciuto: perciò anche se ardo con maggiore violenza tuttavia mi sei molto più senza valore e di poca importanza. Come è possibile dici? Perché tale offesa costringe l’amante ad amare di più, ma a voler bene di meno 47 Odio ed amo. Come lo faccia, forse chiedi. Non so, ma sento che accade e mi tormento 48 Nessuna donna può vantarsi di essere stata amata così sinceramente, quanto la mia Lesbia fu amata da me. Nessun patto fu mai rispettato così fedelmente, come, per tutto il tempo che ti amai, io per conto mio l'ho rispettato 49 Di gente in gente, di mare in mare ho viaggiato, o fratello, e giungo a questa mesta cerimonia per consegnarti il funereo dono supremo e per parlare invano con le tue ceneri mute, poiché la sorte mi ha rapito tè, proprio tè, o infelice fratello precocemente strappato al mio affetto. ora queste offerte, che io porgo, come comanda l'antico rito degli avi, dono dolente per la cerimonia, gradisci; sono madide di molto pianto fraterno; ti saluto per sempre, o fratello, addio Il carme 101 è una composizione in distici e che presenta molti rimandi letterari e parallelismi. Catullo si reca alla tomba del fratello in Bitinia e la visita. È un carme in morte, un epicedio, che ricorda una serie di temi interessanti dal punto di vista contenutistico ed antropologico. Il defunto non riesce a comunicare, ovviamente, ma può ancora ricevere delle offerte tradizionali, quali liquidi come latte, vino od olio. Si ha la ripetizione di una serie di parole nella stessa posizione. Quello che è interessante, è smontare una determinata ipotesi; questo carme viene detto modello del sonetto di Foscolo, In morte del fratello Giovanni, ma non è proprio così. Ci sono dei riferimenti al carme catulliano e sono innegabili, ma l'exordium foscoliano e quello catulliano riprendono quello omerico dell'Odissea. Catullo si identifica con un Ulisse, mentre si mette in viaggio per raggiungere il fratello. La questione del cenere muto in Foscolo porta per lo più alle elegie di Tibullo. Nella VI elegia del II libro ritorna il muto cenere. Nelle terzine Foscolo inserisce anche degli elementi che in Catullo non esistono. Sembra quasi riprendere Seneca e Petrarca con l'idea della vita come un viaggio in un mare tempestoso. I carmina docta vanno dal 61 al 68; i primi due sono carme per il matrimonio, di cui uno a canto amebeo. Il terzo è un poema per Attis, un devoto della dea Cibele. La devozione per questa dea della fertilità portava i suoi sacerdoti, i galli, ad evirarsi e sacrificare la propria virilità alla dea, scadendo nel parossismo. Il 65 è dedicato ad Ortensio Ortalo, un amico di Catullo, un oratore nemico di Cicerone. Il 66 è una traduzione della Chioma di Berenice50. Nel 67 una porta racconta di tutti gli amanti che entrano in una casa di Verona. Il 68 è un carme in due parti ed è una proto- elegia. Catullo parla all'amico Allio della morte del fratello e lo ringrazia di aver favorito il suo amore per Lesbia, inserendo anche la storia d'amore di Protesilao e Laodamia51, che però è un amore che termina in tragedia. Legge le proprie esperienze amorose con lo sguardo del mito. Il discorso che fa Catullo diventa particolarmente significativo nel carme 64, il più importante dei docta, in esametri. È un epilio, ovvero di breve estensione che prende degli aspetti un po' marginali del mito, quotidiani o sentimentali, che vengono intrecciati tra di loro, secondo una tradizione alessandrina. Vengono intrecciati i motivi delle nozze di Peleo e Teti e l'abbandono di Arianna da parte di Teseo sull'isola di Nasso. Ha una struttura particolare: Gli Argonauti partono per conquistare il vello d’oro e le Nereidi li guardano: 1- 18 Peleo, uno degli Argonauti, si innamora della Nereide Teti: 19-30 Matrimonio: 31-383 Visita dei Tessali alla casa di Peleo: 31-49 50 Una delle elegie di Callimaco. La storia è quella della chioma della regina Berenice, moglie di Tolomeo III Evergete. Quest'ultimo, appena assunto il potere, dovette abbandonare l'Egitto per prendere parte ad una campagna militare in Siria: in quell'occasione Berenice fece voto solenne di consacrare ad Afrodite la sua bellissima chioma, se il marito fosse tornato sano e salvo. Al ritorno di Tolomeo ella mantenne la promessa, ma la chioma dopo qualche tempo sparì. 51 Protesilao era uno dei pretendenti di Elena ed era innamorato di Laodamia, figlia di Acasto. Sulle prime il re non concesse la mano della figlia a Protesilao, poiché il suo regno era molto piccolo e poco potente, ma alla fine acconsentì al matrimonio a causa dello scoppio della guerra di Troia. Nel matrimonio tra Elena e Menelao tutti i re della Grecia avevano giurato che se qualcosa avesse interferito con l'unione tra i due, questi sarebbero dovuti intervenire ed Acasto, non volendo partire per Troia decise di far sposare velocemente la figlia con il giovane Protesilao cogliendo l'opportunità di farlo partire al suo posto. Protesilao, dopo aver passato una sola notte con la neo sposa dovette partire conducendo quaranta navi con sé a Troia, ma ebbe la sfortuna di trovarsi nella stessa nave del grande eroe Achille. Prima della partenza per Troia un oracolo aveva profetizzato che il primo Greco a toccare terra scendendo dalla nave, sarebbe stato anche il primo a morire ed Achille vedendo che nessuno degli achei si faceva avanti decise di lanciarsi nel suolo troiano ma Teti lo fermò con una mano e con l'altra spinse Protesilao che fu ucciso da Ettore. Protesilao implorò Ade e Persefone di poter rivedere ancora una volta la sposa ed i due dèi gli concessero un ultimo giorno di vita fuori dall'Ade. Laodamia vedendo il marito far ritorno quasi impazzì dalla gioia ma Protesilao le spiegò che generosamente i sovrani dell'Ade gli avevano concesso un ultimo giorno e che avendo poco tempo egli aveva intenzione di passarlo a fare l'amore con lei. Laodamia decise di realizzare una statua con le fattezze del marito per poterla abbracciare e dormire con essa. Acasto, nei giorni successivi, mandò un suo servo a spiarla ed il servo riferì al re che sua figlia stava tutto il giorno chiusa nella sua camera ad amoreggiare con una statua e Acasto, per il bene della figlia, decise di farla sciogliere nell'olio bollente, così Laodamia mentre la statua si scioglieva si gettò nel calderone ricongiungendosi così all'amato. Descrizione della coperta nuziale di Teti e Peleo: 50-264 Arianna vede allontanarsi Teseo: 50-75 Impresa di Teseo contro il Minotauro: 76-123 Lamento di Arianna abbandonata: 124-201 Punizione divina: Teseo provoca la morte di Egeo: 202-250 Bacco salva Arianna: 251-264 Ritiro dei Tessali: 265-277 Gli dei giungono a banchetto: 278-306 Le Parche intonano un canto per gli sposi in cui profetizzano il destino del loro figlio, Achille: 307-383 Riflessione del poeta: gli dei non visitano più la terra nel presente: 384-408 Questa è una struttura ad incastonamento successivo. Usa una tecnica ecfrastica, ovvero di descrizione, che indica un proseguire e retrocedere. A. Traina mette in evidenza come ci sia un gioco continuo di riferimenti temporali, tra il passato ed il presente. Catullo a differenza di Lucrezio viene letto subito nell'antichità, tanto che Tacito lo nomina negli Annales, composti intorno ai primi anni del II secolo d.C. Bibaculo è un poeta dell'età catulliana di cui non rimane quasi nulla. Nelle loro poesie c'erano molte prese in giro nei confronti di Cesare. In età tiberiana le poesie di Catullo e Bibaculo sono continuamente lette, quindi, accettandone anche l'aspetto polemico. Catullo ha una certa fortuna sia tra i poeti italiani in lingua latina successivi, sia in musica, oltre che nella letteratura europea. Marco Tullio Cicerone è un altro dei personaggi massimi della prima parte del I secolo a.C. Il suo contesto cronologico e storico si trova tra le guerre civili e l'età cesariana. La sua biografia è strettamente intrecciata con l'attività politica e quella letteraria. Cicerone è un uomo che viene da una famiglia della classe media di Arpino. La famiglia lo manda a studiare a Roma e studia retorica, diritto e filosofia. Come la maggior parte dei giovani, desidera fare carriera politica. Fa parte di una famiglia che non annovera dei magistrati, quindi è un homo novus52. Il mezzo con cui gli homines novi fanno carriera è proprio la retorica. Cicerone inizia sin da subito a farsi notare ed i suoi interessi sono vastissimi; fu oratore, studioso di oratoria e retorica, introduttore della filosofia a Roma. Non ha scritto opere storiche e pochissime opere poetiche. Rimangono moltissime parti dei suoi epistolari. Cicerone inizia la sua carriera mettendosi in luce attraverso una serie di processi che vedono implicati dei personaggi molto vicini a Silla, per cui crea delle orazioni in difesa. È curioso che un giovane romano, non ancora molto esperto, si dedichi alla difesa, siccome i giovani dell'epoca preferivano i ruoli di accusa. Comincia a trovare i toni giusti per dire la verità e per non inimicarsi troppo Silla, ma siccome deve anche attaccare Crisogono, un liberto di Silla, capisce che non tira aria buona ed è meglio allontanarsi; ne approfitta e se ne va in Grecia, ad Atene, poi in Asia, a Pergamo e Magnesia, ed infine a Rodi. Parte da Roma con una capacità naturale come oratore già notevole, ma con un bagaglio culturale non sufficiente, ma con una tendenza a parlare coerente con l'epoca, ma che risultava tronfia ed eccessiva, poco armoniosa ed equilibrata. Il suo viaggio di studio in Grecia lo porta ad incontrare una serie di personaggi, tra cui Apollonio Molone, che gli dà una formazione retorico-oratoria più approfondita e ricca. Quando torna può iniziare la sua carriera politica, che comincia nel 75 a.C, quando diventa questore a Trapani. I governatori di provincia avevano bisogno di questori, i quali erano preposti alla riscossione delle tasse. Si fa ben volere dai siciliani. Nel 70 a.C i siciliani intentano una causa problematico contro Caio Verre53, il 52 Furono homines novi di grandissimo rilievo: Catone il Censore; Mario; Agrippa e Sallustio. 53 Gaio Verre, nato intorno al 115 a.C. era di origine gentilizia e probabilmente etrusca, e Cicerone ne delinea un ritratto di adolescente dissoluto. Iniziò il suo cursus honorum nell'84 a.C come questore del console Gneo Carbone in Gallia Cisalpina. Nonostante fosse dedito a vizi ed incapace, Carbone fu prodigo con lui di benefici e favori, che ricambiò rubando del denaro e dandosi alla fuga. In seguito passò dalla parte di Silla sbarcato a Brindisi. Qualche tempo dopo Gneo Cornelio Dolabella, designato governatore della Cilicia, lo scelse come legatus, e in seguito lo nominò vicequestore, ma questo non bastò ad evitare che Verre lo tradisse. Nel 74 a.C lo troviamo pretore urbano, ruolo in cui continuò la sua opera di saccheggio di templi e appropriazione di beni. Dal 73 a.C. al 71 a.C. fu propretore della Sicilia, designato dal Senato, e quindi acquisisce potere di imperium: funzioni militari, chiamato anche anadiplosi, dei due vivit. Dal punto di vista contenutistico l'idea di contrapposizione ha due elementi chiave, ovvero i cittadini onesti sono quelli che devono governare Roma e Catilina non lo è. Queste orazioni sono un successo, Catilina fugge da Roma, i suoi complici vengono imprigionati e vi è una deliberazione che consente ad ogni cittadino romano di uccidere Catilina, che fugge in Etruria, dove trova una parte dell'esercito romano, che lo sconfigge e lo spinge al suicidio. I congiurati erano tutti cittadini romani, quindi avevano diritto ad un processo di appello, che potrebbe portare a delle sommosse popolari. Si apre un dibattito testimoniato da Sallustio, in cui intervengono soprattutto Giulio Cesare, che non è completamente ostile a Catilina e propone l'esilio dei congiurati, e Catone l'Uticense, un filosofo storico particolarmente rigido, che in un suo discorso propone la messa a morte degli accusati. Cicerone dopo il voto del senato fa uccidere i congiurati, tramite una mossa giuridica non proprio legale. Nel 62 a.C difende un personaggio minore, un poeta, Archia di Antiochia, accusato di aver usurpato la cittadinanza romana. Questa orazione non è particolarmente importante, ma in essa Cicerone mette in chiaro un concetto chiave del suo pensiero, ovvero l'importanza dell'humanitas, della formazione culturale. Secondo Cicerone merita l'assoluzione perché la cultura serve ad arricchire lo spirito romano. Il suo astro si scontra con una situazione estremamente complicata, ovvero quella della convergenza di due problemi a Roma: la presa di potere da parte di Giulio Cesare, Gneo Pompeo (famoso generale) e Crasso (uomo ricchissimo, che tra il 73-71 represse la rivolta servile di Spartaco); a Roma i populares, la fazione più catilinaria, nutre un odio ferocissimo contro Cicerone ed emerge la figura di Publio Clodio Pulcro, il fratello della Clodia di Catullo. Clodio fa parte di una famiglia patrizia, ma non riusciva per il suo carattere irascibile ad emergere, quindi chiede l'adozione plebea, fino a diventare tribuno della plebe e modificando il nome Claudio in Clodio. Clodio comincia ad attaccare Cicerone e quest'ultimo risponde. Clodio riesce a far votare una serie di leggi che mandano Cicerone in esilio come assassino dei personaggi uccisi nella congiura. Cicerone deve lasciare la moglie a Roma, la sua casa sul Palatino viene rasa al suolo e sostituita da un tempio alla dea Libertas56. Dell'esilio lascia tracce nel suo epistolario, testimonianze di una tragedia umana e personale, siccome l'esilio per un cittadino romano è una sorta di morte, come sosteneva il minore Pubilio Siro. Clodio a Roma spadroneggia, mentre i dinasti si sono spartiti il potere: Cesare ottiene le Gallie; Crasso e Pompeo si spartiscono Roma, ma è soprattutto Pompeo ad avere il potere. Questi cominciano a temere Clodio e anche gli amici romani di Cicerone lo temono. Riescono a far richiamare Cicerone a Roma nel 57 e attraverso una serie di orazioni di rendimento di grazie, mira alla ricostruzione di un tessuto politico e di alleanze che si era interrotto. Quando torna la sua posizione non è più quella di prima. Nel 56 a.C i triumviri rinnovano gli accordi con il patto di Lucca e Cicerone deve assistere, ma nello stesso anno da vita a due orazioni, la Pro Caelio e la Pro Sestio. La prima è la difesa di Celio Rufo contro l'accusa pesantissima, non infondata, di favoreggiamenti in omicidio, più furti e ruberie. La storia è torbida e dovette avere una eco impressionante all'epoca, fino ai Vangeli, anche se lì è senza nomi. Vengono uccisi degli ambasciatori egizi, protetti dalla legge romana, mentre si recano in una villa. Celio è uno dei tanti amanti della Lesbia di Catullo. Lesbia lo accusa di averla tradita e di aver cercato di derubarla. Cicerone la tratta nei modi più terribili, ma dà anche una serie di indicazioni sulla posizione di questa donna. La Pro Sestio è un'orazione che viene formalmente identificata come orazione di difesa, ma che è l'occasione per esplicitare una serie di concetti politici. Il 56 a.C è il periodo degli accordi di Lucca, per cui le istituzioni repubblicane sono svuotate del loro potere. Cicerone sottolinea la necessità di superare le crisi sociali e politiche, in modo che tutti trovino una concordia politica che restituisca 56 Dea dell'antica Roma, che impersonificava la Libertà. A Roma furono edificati due templi dedicati alla dea: uno sull'Aventino e uno sul Palatino. Il primo fu fatto costruire nel 238 a.C. da Tiberio Gracco, il secondo fu fatto costruire tra il 58 e 57 a.C. da Publio Clodio Pulcro, dove prima si trovava la casa di Marco Tullio Cicerone, così da assicurarsi che il luogo non potesse essere più abitabile. Nel tempio sull'Aventino la Dea era rappresentata come una matrona romana, vestita di bianco. In una mano teneva uno scettro e nell'altra un berretto, mentre ai suoi piedi era disteso un gatto. La statua di Libertas era accompagnata dalle due statue di Abeona e Adeona, che questo caso assumevano il senso dell'andare e del venire, a significare che la Libertas poteva andare dove più desiderava valore alle istituzioni, chiamata anche concordia ordinum, la quale si realizza attraverso una formula, che definisce come cum dignitate otium, ovvero la pace e la tranquillità si ottengono con il rispetto della dignitas, ovvero dei diritti, delle prerogative e delle capacità di ogni gruppo sociale. Bisogna emarginare tutti gli estremisti. L'obiettivo nascosto di queste idee è Clodio. Nel 53 a.C c'è la battaglia di Carre, in cui i romani combattono contro i Parti in Oriente; vengono battuti e muore Crasso, che era geloso di Pompeo e Cesare e cercava uno spazio politico per sé, quindi l'Oriente della Siria e dell'Asia Minore. La battaglia fu molto tragica, tanto che vennero perse anche le insegne della repubblica. Si spezza così anche l'equilibrio del triumvirato. Nel 52 a.C si verifica un altro fatto importante, ovvero il buon Clodio, che ormai capeggia una fazione autonoma a Roma, di grande peso politico e popolare, crea problemi a molte personalità, tra cui Cesare e Pompeo, che gli solleva contro Tito Annio Milone57. Nel 52 a.C, mentre Clodio si stava recando a compiere degli uffici di magistrato in una città vicina, gli venne teso un agguato e fu ucciso. Cicerone sosterrà che fosse Clodio stesso l'autore dell'agguato. Quando la notizia arriva a Roma, questa viene messa a ferro e fuoco dai sostenitori di Clodio. Viene assediato anche il Senato. Pompeo deve intervenire e con la nuova legge contro la violenza; inoltre, fa istituire un processo contro Milone, che viene aiutato da Cicerone. La difesa è problematica e si tiene fuori dalla curia, al cui esterno ci sono i soldati di Pompeo per evitare che il popolo entri in contatto con i senatori ed i magistrati. Cicerone perde ed è consapevole che la sua orazione non fosse degna. La sua orazione, pubblicata in seguito, però è un capolavoro retorico e comunicativo. Fa vedere la differenza tra l'orazione pubblicata e quella pronunciata. Cicerone la ripensa e la trasforma in un manifesto della libertà della repubblica, che chiama in causa una serie di giustificazioni, fino ad usare strumenti di difesa della causa quasi paradossali. Clodio viene definito peste e maledizione dello Stato. Cesare vorrebbe ripresentarsi al consolato nel 49 a.C, ma iniziano i litigi con Pompeo ed il senato, che vorrebbe processarlo per una serie di accuse. Cesare ha tra le mani circa 60mila soldati ben addestrati e fedelissimi, provati da otto anni di campagne. Dopo una serie di schermaglie diplomatiche si arriva al Rubicone e all'entrata in armi in Italia; Pompeo ed il senato se ne vanno in Grecia. Da lì inizia la guerra civile. Cicerone si schiera dalla parte di Pompeo, che viene sconfitto a Farsalo, da dove scappa in Egitto, luogo in cui viene decapitato e offerto a Cesare. L'Egitto da Cleopatra in poi diventa un territorio che risponde solo al fisco imperiale. Le tentazioni monarchiche di Cesare lo portano ad essere dittatore perpetuo. Nel 44 a.C i congiurati guidati da Bruto e Cassio lo uccidono. Cicerone è al settimo cielo e lo testimonia in una lettera. La presunzione di Cicerone lo porta a commettere degli errori. Bruto è un suo amico e Cassio è una creatura di Bruto. Cicerone trascura le figure di Antonio, che pensa di poter manipolare, e Ottaviano, il quale è un genio, che riesce a raggirare tutti. Riesce ad impadronirsi dei tesori di Cesare e delle sue truppe. Antonio, che non vuole accettare questa situazione, si ribella e scoppiano le guerre di Modena e Perugia. Cicerone crea le Filippiche contro Antonio, le quali riprendono i modelli di Demostene, che si era rivolto contro Filippo di Macedonia ai tempi della battaglia di Cheronea e prima ancora per esortare Ateniesi e Greci a combattere contro di lui. Non vengono tutte pronunciate, ma sono tutte pubblicate. Cicerone, ormai è vecchio e stanco, umanamente provato, soprattutto dopo il divorzio dalla prima moglie e la morte della figlia Tullia, che muore di parto. Commette l'errore di fidarsi di Ottaviano, che con un colpo di genio, si allea con Antonio e Lepido, costituendo il secondo triumvirato, coniugato con una legge liberticida, per condannare gli uccisori di Cesare senza processo. Una delle clausole che Antonio mette è la testa di Cicerone e Ottaviano non si ribella. Cicerone si allontana da Roma, ma viene raggiunto ed ucciso. La sua morte è molto simbolica, in quanto viene ucciso e decapitato, in più mani e piedi gli vengono tagliati e inchiodati sopra la tribuna oratoria da cui si era espresso molte volte. Attraverso la pubblica esposizione si vuole colpire la figura dell'oratore in generale. Della produzione oratoria rimangono una cinquantina di discorsi interi e alcuni frammenti. Le parti epidittiche sono rare, presenti nelle opere seguenti l'esilio. Cicerone cerca anche di difendere la 57 Fu un politico romano, legato alla famiglia di Silla dal matrimonio con la di lui figlia. Fu accusato dell'omicidio di Clodio sulla Via Appia. Venne condannato all'esilio e dovette riparare a Marsiglia. Più tardi riuscì a tornare a Roma e si alleò con Rufo per una sollevazione anti-cesariana, ma nel 48 a.C venne ucciso durante l'assalto alla città di Compsa. causa di alcuni amici che hanno combattuto contro Cesare dopo la sconfitta di Pompeo. Le orazioni venivano pronunciate dopo essere mandate a memoria e poi pubblicate anche in corpora. Si sa che pubblicò dopo il consolato (61-60 a.C) le orazioni che aveva tenuto durante il consolato, tra cui le Catilinarie. In un discorso fa riferimento ad elementi di mimica facciale. Indica e osserva per mezzo degli occhi, quindi fa riferimento allo sguardo, che viene tradotto in un messaggio minaccioso. La capacità migliore di Cicerone come oratore è l'etropea, ovvero con poche battute riesce a far capire i caratteri di chi è soggetto. Riesce a creare un ordine unico nelle orazioni. Riesce anche a coinvolgere completamente chi lo ascolta. Egli pone la sua sorte e quella dello stato come legate ed in simbiosi. Lui è l'ultimo grande difensore di una repubblica che stava morendo. Non può andare oltre questo; bisogna tenersi sempre una via d'uscita. Cicerone è anche un retore, ovvero uno studioso teorico di retorica. Cicerone oltre a scrivere e pronunciare orazioni, si preoccupa anche di come sia fatta l'oratoria. Lascia tre opere principali e tre minori. Le principali sono: Il De oratore; è situato nel 55 a.C, quando Cicerone si trova in isolamento politico. In questo testo, un dialogo, dà vita ad una riflessione sulla natura dell'oratore, su chi sia e quali siano gli elementi principali dell'oratoria. Il dialogo è di natura platonica e vi fa riferimento esplicito. Il dialogo platonico è di natura retorico-filosofica, che ha dei personaggi letterariamente autonomi. Diverge da un altro dialogo senecano, di tipo aristotelico storico- cinico, in cui gli interlocutori non sono presenti come personaggi autonomi, ma sono fittizi. Il dialogo è retrodatato, ovvero si svolge nella generazione precedente e mette in campo due oratori ovvero Marco Antonio e Licinio Crasso Censore, che parlano di quale sia il luogo della cultura nella formazione dell'oratore. Per Antonio sono essenziali le doti naturali, ledendo un poco la nozione di scuola, Crasso invece difende la posizione opposta e dice che è essenziale che l'oratore abbia una formazione culturale ad ampio spettro. La visione di Crasso è sostanzialmente legata al modello di Isocrate, ovvero attribuisce alla retorica una preminenza tra le discipline. Il dibattito fa sì che ci si orienti più sulla visione di Crasso, in quanto l'oratore è un uomo di alto profilo, di grande qualità e notevoli doti. All'interno ci sono anche varie dissertazioni interessanti. L'opera nasce da un contesto culturale che vede centrali un'operetta di Cicerone dedicata alla inventio (De inventione) e un testo, Rhetorica ad Herennium, che è un manuale di retorica di paternità incerta, in quanto non si sa se fosse di Cicerone o di Cornificio. Il Brutus; Cicerone si dedica anche a questioni stilistiche e a tracciare una storia dell'oratoria nel Brutus, dedicato all'amico cesaricida. Racconta una storia dell'eloquenza e dell'oratoria romana, che dovrebbe culminare con Cicerone stesso. Accanto a queste si trovano opere più tecniche, tra cui il De optimo genere oratorum (una prefazione alla traduzione di due orazioni greche di Demostene e Eschine) ed il Hitopica (una traduzione con ripresa di un'opera aristotelica, che si occupa di trovare gli argomenti di ambiti giudiziari). L'idea di humanitas di Terenzio (filantropica, non connotata alla cultura) si differenzia da quella di Cicerone (basata sull'educazione; paideia). L'Orator. I temi sono interessi per il Cicerone Filosofo sono l'ambito politico, che si svolge per lo più nel De Repubblica e nel De Legibus, e l'ambito teoretico morale. Ci sono due periodi principali: tra il 54- 51 a.C e tra il 45-44 a.C. La prima area di interesse ha come opera principale il De repubblica, un dialogo di natura platonica in sei libri. Il dialogo era la riproposizione latina della Repubblica di Platone. Cicerone si concentra sulle caratteristiche positive ed importanti dello stato romano, che funziona poiché i suoi poteri sono in equilibrio, il quale si basa sulla iustitia, per cui gli elementi sono in armonia tra di loro. Cicerone mette come elementi monarchici il senato, aristocratici i magistrati e democratici i comizi. Dalla monarchia deriva la tirannide, che provoca l'aristocrazia che degenera in oligarchia e dalla democrazia si degenera in monarchia. Il termine anakiklose è il termine che si trova nel riciclaggio, per questo dalla democrazia si ritorna alla monarchia. Nel De Repubblica le forme di governo che degenerano, la forma romana era la migliore, siccome si faceva strada l'immagine del rector republicae, che governa come interprete della città e dello stato. sotto Tiberio e Caligola, fino ad arrivare ad una serie di sillogi. Sono dedicate al fratello Quinto, a Bruto, agli amici e ai parenti e ai conoscenti politici, infine quelle ad Attico, amico prediletto ed editore ateniese. Le lettere ciceroniane sono testi che non venivano rivisti per la pubblicazione, con l'eccezione della fam. 1,26, in cui difende la propria carriera politica e la quin. 1,1,1-46. Molte volte Cicerone dice che le lettere non sono altro che dei colloqui in assenza. Le lettere pongono come problema la fuoruscita di un'immagine di Cicerone che lui non voleva venisse divulgata. 12.04.2018 Le lettere di Cicerone non sono state pubblicate in vita, ma post mortem e ciò spiega anche la suddivisione di queste lettere. La fortuna di Cicerone e la sua ricezione nel pensiero successivo sono un tema veramente ampio. Si sa che la sua ricezione è maggiore nell'antichità classica e sul Settecento, fino alle singole opere sul pensiero politico. Resta scoperta quella che è la ricezione di Sei, Otto e Novecento, oltre all'Alto Medioevo. Il Cicerone novecentesco è per lo più un nome con valenza antonomastica di rappresentazione del mondo latino per eccellenza. Diventa uno dei nomi canonici nel Novecento per il latino scolastico. Si comincia a definire le guide Cicerone a partire da un volume di Burckhardt del 1855. Poi Cicerone è divenuto anche nell'accezione più comune il simbolo della crisi di un'epoca. Cramme censisce ben 62 opere narrative di genere storico con Cicerone come protagonista, ma per lo più all'estero. In Italia paradossalmente si preferisce Ovidio. Robert Harris crea un ciclo di tre romanzi sulla vita di Cicerone. La funzione di Cicerone in Gadda viene svalutata. Gli studi attuali gli danno torto e sostengono che possa essere anche un personaggio originale capace di creare e modificare nuove teorie. La figura di Cicerone è ancora così complessa ed articolata, da consentire a Colombi di individuare delle figure e delle personalità, fino a dei modelli e delle funzioni, che possono essere paradossali e in contrasto con la filologica attenzione ai testi. La storiografia latina, come la biografia, viene trattata maggiormente da quattro autori: Cesare, Sallustio, Livio e Cornelio Nepote. Il contesto storico è sempre quello delle guerre civili e dei triumvirati, quindi con il passaggio dalla repubblica all'impero augusteo. Di questo periodo rimangono un certo numero di opere integre, tra cui quelle di Cesare, Sallustio e Livio. Successivamente di opere intere se ne ha solo un numero ridotto. Giulio Cesare è un personaggio che, come Cicerone, ha un ruolo politico e letterario, sussidiario al primo. Nasce nel 100 a.C e muore il 15 marzo del 44 a.C. Come uomo politico nasce come pontifex, ruolo da cui riesce con fatica a liberarsi. La sua famiglia può vantare un'antichissima discendenza. Come politico si pone come un fautore dei populares. Populares ed optimates sono fazioni organizzate non come partiti che esercitano pressioni di classe. Queste fazioni sono gruppi di potere, che nelle loro dichiarazioni dei rappresentati più influenti mirano a sostenere le istanze di un popolo non ben definito e legate ad una diminuzione dei debiti, a una redistribuzione del benessere terriero e a un maggior accesso alla politica (populares) o alla difesa delle prerogative dell'aristocrazia (optimates). I leader politici dei primi sono degli ottimati, che li usano per le loro finalità. Cesare aveva sentimenti di controllo di potere attraverso la gestione di rapporti di patronato, che gli permettono di avere ampie relazioni e di conseguenza si può proporre come una delle figure fondamentali della politica romana degli anni Sessanta a.C. Un suo errore è quello di non essere ostile a Catilina, motivo per cui in Sallustio pronuncia un discorso molto ampio con cui invoca la clemenza contro i congiurati catilinari catturati a Roma. Questo non gli conferisce la fama di persona equilibrata e di qualità, ma viene dimenticato questo errore. A Roma emergono dopo la morte di Silla tre figure importanti, ovvero Pompeo, Cesare e Crasso. Cesare nel 58 a.C riceve il proconsolato nel territorio Illirico e Gallico. La provincia delle Gallie all'inizio dell'incarico di Cesare era limitato alla Provenza e a pochi altri territori limitrofi. Nel De bello Gallico, Cesare racconta di come i Romani, alleati con gli Eduli ed i Seculi, che sono colpiti dall'immigrazione di massa degli Elveti, che scappavano dai Germani, chiedono aiuto a Cesare. Quest'ultimo capisce che la Gallia è un territorio molto promettente per la gloria romana. Cesare massacra le tribù germaniche e poi i belgi, passando poi ai bretoni e agli aquitani. Nel 55 a.C Cesare, a cui viene rinnovata la carica proconsolare con gli accordi di Lucca, intraprende campagne contro i Germani e una prima campagna in Bretagna contro i Celti. In una prima campagna Cesare si limita a stabilizzare le basi commerciali romane in Bretagna. Nel 54 a.C torna per sottometterla, ma non ci riesce, siccome scoppia una ribellione generale in Gallia, che lo richiama sul territorio francese. La grande rivolta dei Galli obbliga Cesare a sottomettere le tribù del nord, per poi scendere al centro per la Battaglia di Alesia. Cesare pone fine alla rivolta con la sconfitta di Vercingetorige, accettandone la resa dopo un assedio e una campagna militare molto complessi. Cesare ha una decina di legioni più truppe ausiliarie, tra cui emerge la cavalleria mercenaria dei germani, quindi circa 60mila uomini. Gli alleati dei nemici raccolgono un esercito di circa 300mila uomini, che arrivano alle spalle di Cesare. Cesare scava due linee di fortificazione, una per circondare Alesia e l'altra per difendersi dagli altri Galli. Da un lato bisogna mettere un esercito ben organizzato e disciplinato, con grande esperienza. Dall'altra parte bisogna mettere una serie di uomini ben addestrati, ma ormai alla fame (prima linea di fortificazione), a cui seguono i 300mila Galli, che arrivano alle spalle dei romani. I Galli avevano un'organizzazione basata sui clan, in cui se il capo ingaggiava battaglia tutti lo seguivano, guerrieri e contadini. Dei 300mila, i guerrieri non erano più di un quinto, se non un sesto del totale. All'ultima battaglia i Galli danno tre assalti pesanti e l'ultimo era mirato al punto debole delle fortificazioni romane con circa 60mila soldati, ovvero gli uomini non feriti ed armati a sufficienza, oltre che con una buona preparazione. Cesare dice che egli stesso deve arrivare a galvanizzare le truppe. Cesare ha ancora una riserva, la cavalleria mercenaria, che viene mandata alle spalle dei Galli, che vengono massacrati fino a costringerli alla fuga. Finita la ribellione finisce anche il libro VII. Il Libro VIII racconta gli eventi tra il 51 ed il 50 a.C, ma che non è scritto da Cesare, bensì da un suo luogotenente. Cesare cerca di convincere Pompeo a non rompere definitivamente i legami e passerà due anni a respingere nuovamente delle ribellioni, che però erano di minore intensità. Oltre al De bello Gallico, Cesare scrive anche il De Bello Civili. Finita la vicenda bellica gallica, Cesare ricomincia a scrivere e racconta la guerra civile tra Cesare e Pompeo. Il De Bello Civili si conclude con l'assassinio di Pompeo da parte di Tolomeo XIII, che viene deposto e sostituito dalla sorella Cleopatra, grazie all'aiuto di Cesare. L'Africa e la Spagna sono filo-pompeiane. In Spagna con una flotta sconfigge Marsiglia e il generale Afranio. Nel frattempo manda in Africa il suo luogotenente, Gaio Curione, che riesce a far massacrare il suo esercito. A quel punto Cesare porta la guerra in Grecia, sconfigge a Farsalo l'armata di Pompeo, che tenta la fuga in Oriente, dove nessuno dei suoi clienti lo accoglie o lo aiuta, negando soldi e truppe. A quel punto Pompeo ripara in Egitto, luogo che ha beneficato, ma Tolomeo è dominato dai suoi ministri, quindi fa decapitare Pompeo e ne dona la testa a Cesare. Sallustio riesce a vivere fino all'alleanza tra Ottaviano e Antonio, ma non la battaglia di Azio. L'approccio di Sallustio è tendenzialmente moralistico, quindi il governo delle azioni della storia è legato alle azioni dell'uomo, permettendo così di capire i due discorsi contrapposti di Catone e di Cesare, che spiegano come non si possa prescindere da una valutazione della giustizia e un'osservazione alla lettera delle leggi, pena la distruzione dello stato romano. Il giudizio sallustiano sembra un canto del cigno della repubblica. È un interprete di un dramma profondo a cui non sa dare soluzione. Il contesto del Bellum Iuguthinum è abbastanza simile, come per la struttura, ma c'è un motivo ben particolare per la scelta di questo evento rispetto ad altri. Questa monografia nonostante sia la seconda ad essere composta tratta di un evento precedente alla prima. Tratta della guerra contro il re Giugurta (112-105 a.C). Racconta le vicende relative alla presa del potere in Numidia, la parte dell'Africa settentrionale, accanto alla provincia d'Africa romana. Morto il re di questa terra, aveva lasciato due eredi, ma questi due non sapevano di un terzo erede, Giugurta, che corrompendo i romani, riesce ad ucciderli e prenderne il posto. Giugurta si erge anche contro i romani, per cacciarli dall'Africa. I romani gli mandano contro un esercito, di cui Giugurta corrompe i generali. Viene mandato un secondo esercito con Gaio Mario e Silla, che riescono a sconfiggerlo, grazie al pagamento di un ex fedelissimo di Giugurta. Si ha un proemio e la formazione di un tema, a cui segue una retrospettiva sui fatti della guerra. Segue un excursus geografico. Successivamente si raccontano le vicende dei due eserciti, che viene seguito dall'excursus sulla politica, che fa il paio con quello della monografia precedente. In conclusione vi è il discorso di Silla, che cerca di chiarire le cause della corruzione. Ritornano quindi, i temi dell'introduzione, della spiegazione e chiarificazione e della morale. Gli ottimati che basavano il potere sull'auctoritas delle grandi famiglie non potevano arrivare a conservare la loro posizione di preminenza a causa del livello profondo di corruzione che vi era a Roma. Il controllo di Silla sullo stato romano determina la privazione della libertà. Sallustio ha molta stima per gli homines novi, come Gaio Mario. È interessante anche vedere il disinteresse o la sostanziale mancanza di attenzione che Sallustio mostra nei confronti di Cicerone, che viene svalutato. Bellum Catilinae, 4: statui res gestas populi Romani carptim, ut quaeque memoria digna videbantur, perscribere, eo magis, quod mihi a spe, metu, partibus rei publicae animus liber erat.63 Perscrivere si traduce con scrivere diffusamente. Vuole sottolineare il valore qualitativo delle azioni dei grandi uomini che hanno dato lustro al popolo stesso. Vi è anche un importante processo selettivo, mostrato dall'uso del verbo carptim, da carpere. 63 Decisi di narrare le gesta del popolo romano per episodi, così come mi risultavano degne di memoria, tanto più che avevo l'animo scevro da speranze, timori, passioni politiche. Ci sono vicende storiche come quelle di Catone, che non hanno processi di selezione. Una volta selezionato l'argomento e definito il contesto, bisogna esporlo in maniera dettagliata ed ampia. Per scrivere di storia bisogna che ci si trovi in una condizione di tranquillità, la quale però è un po' particolare. Un animo privo di speranza non si aspetta più nulla. Un animo privo di paura non teme nulla. Un animo libero dalle fazioni dello Stato è libero. Per un romano questo è una caratteristica tragica, ma è l'unico modo per scrivere di storia e di fare politica, anche se in maniera passiva. Il ritratto di Catilina: Catilina, nobili genere natus, fuit magna vi et animi et corporis, sed ingenio malo pravoque. Huic ab adulescentia bella intestina caedes rapinae discordia civilis grata fuere, ibique iuventutem suam exercuit. Corpus patiens inediae algoris vigiliae, supra quam quoiquam credibile est. Animus audax subdolus varius, cuius rei lubet simulator ac dissimulator, alieni adpetens, sui profusus, ardens in cupiditatibus; satis eloquentiae, sapientiae parum.Vastus animus inmoderata incredibilia nimis alta semper cupiebat. Hunc post dominationem L. Sullae lubido maxuma invaserat rei publicae capiundae; neque id quibus modis adsequeretur, dum sibi regnum pararet, quicquam pensi habebat. Agitabatur magis magisque in dies animus ferox inopia rei familiaris et conscientia scelerum, quae utraque iis artibus auxerat, quas supra memoravi. Incitabant praeterea conrupti civitatis mores, quos pessuma ac divorsa inter se mala, luxuria atque avaritia, vexabant. Res ipsa hortari videtur, quoniam de moribus civitatis tempus admonuit, supra repetere ac paucis instituta maiorum domi militiaeque, quo modo rem publicam habuerint quantamque reliquerit, ut paulatim inmutata ex pulcherruma atque optuma pessuma ac flagitiosissima facta sit, disserere.64 Come nell'arte del paradosso si accostano affermazioni apparentemente contraddittorie, così in questi ritratti di giustappongono elementi positivi e negativi per farne emergere i limiti. La struttura ossimorica si costruisce con elementi positivi (nobiltà d'origine e forza) e negativi (animo malvagio). Dal punto di vista delle idee e dei concetti era una persona d'eccezione, ma dal punto di vista dei progetti era malvagio. I temi della simulatio e della dissimulatio continuano in tutta la storiografia romana, soprattutto in Tacito riguardo Tiberio. Vi è anche una struttura di contrapposizioni che rientra all'interno di una valutazione negativa, attraverso il parallelismo della prodigalità e dell'avarizia. In posizione chiastica (satis e parum) si ha la valutazione dell'eloquenza secondo Sallustio, che ne ha una buona stima, ma non come quella di Cicerone. Catilina era un uomo abbastanza eloquente, ma non è saggio. La saggezza non è insita dell'eloquenza, come sembra emergere dal De oratore di Cicerone. Le Historie sono un tentativo di trattare la storia contemporanea, creando un'opera di più ampio respiro. Si vuole leggere la realtà dei fatti come se fosse prossima a chi sta scrivendo, che ne è implicata in prima persona. Sallustio vuole ancorare alla tradizione la realtà delle vicende da lui narrate. Vuole collegare al mos maiorum le vicende di cui è interprete. Sallustio vuole dare un insegnamento morale attraverso l'enucleazione di alcuni determinati momenti storici. Le Historie sono comprese in cinque volumina, composti tra il 78 ed il 67 a.C. La struttura delle Historie comprende diverse personalità del mondo romano, che spaziano da Silla 64 Catilina, nato da nobile famiglia, fu di grande forza sia dell'animo che del corpo, ma di indole malvagia e depravata. A questo fin dalla giovinezza furono gradite le guerre civili, i massacri, le rapine, la discordia civile, e lì esercitò la sua età matura. Il corpo era tollerante alla fame, al freddo, alla veglia, più di quanto possa essere credibile per chiunque. L'animo era temerario, subdolo, incostante, simulatore e dissimulatore di qualsiasi cosa, desideroso dell'altrui, prodigo del proprio, focoso nei desideri; aveva abbastanza eloquenza, ma poca saggezza. L'animo mutevole desiderava sempre cose smoderate e troppo alte. Dopo la dittatura di Silla lo aveva occupato il massimo desiderio di impadronirsi dello stato; e non gli importava per niente con quali mezzi conseguisse questa cosa, pur di procurarsi il regno. Il suo animo impetuoso era agitato sempre di più di giorno in giorno dalla mancanza di patrimonio familiare e dalla consapevolezza dei delitti, entrambe le quali cose egli aveva accresciuto con quelle arti che ho ricordato in precedenza. Inoltre lo incitavano i costumi corrotti della cittadinanza, che i mali peggiori e diversi tra di loro – ovvero l'amore per il lusso e l'avidità - tormentavano. L'argomento stesso sembra esortarmi, poiché la circostanza mi ha fatto ricordare dei costumi della città, a ritornare indietro e a descrivere con poche parole le istituzioni degli antenati in pace e in guerra, in che modo abbiano governato lo stato e quanto grande l'abbiano lasciata, e come essendo mutato poco per volta sia diventato da bellissimo e ottimo, pessimo e scelleratissimo. e Lepido a Lucullo e Pompeo. La struttura prevede: Libro I: Silla e Lepido Libro II: le guerre di Pompeo in Spagna e Macedonia Libro III: la guerra mitridatica, la fine della guerra contro Sertorio e la rivolta di Spartaco Libro IV: la conclusione della guerra servile (72-70 a.C) Libro V: l'esito della guerra di Lucullo e la guerra di Pompeo contro i pirati. Sallustio ha una sorte ricca quanto quella di Cesare. Anche Nietzsche si interessa di Sallustio, che si presta bene allo stile sentenzioso ed essenziale del filosofo, che a sua volta coglie bene il carattere della gravitas sallustiana. Catilina con Sallustio diventa l'emblema del rivoluzionario, ovvero il modo in cui lo legge Voltaire. Tito Livio nasce tra il 64-59 a.C a Padova e studia a Roma, dove entra in contatto con il mondo di Augusto, di cui è pressoché contemporaneo, come lo è di Virgilio, Orazio, Ovidio e dei poeti elegiaci. Egli riesce a vedere l'ultima parte della repubblica e vive nell'impero. Muore nell'Italia settentrionale nel 17 d.C. Essendo di famiglia benestante e possidente terriero si può dedicare alla scrittura. L'opera che si conosce maggiormente è l'Ab Urbe condita libri, un'opera in 142 volumina, di cui ne rimangono solo 35. Questi libri dovevano andare dall'origine di Roma, fino all'epoca augustea. L'ipotesi più accreditata è che ci dovessero essere 150 libri, ma che Livio morì troppo presto per concluderli. Quelli che restano si concludono con il 9 a.C. Restano i primi dieci libri e dal XXI al XLV. Degli altri furono fatti dei riassunti, delle periochae, molto brevi. Questi riassunti vengono fatti, perché in età post-classica copiare 142 rotoli è un'impresa erculea, tanto quanto conservarli. Queste periochae sono molto diverse tra loro, tanto che vanno trattate come un'opera a sé. Del testo liviano, quando hanno cominciato a capire che andava conservato, se ne sono trovati due grossi segmenti, ovvero le vicende che vanno dalle origini al 243 a.C, quelle che trattano della II guerra punica, fino alle battaglie dopo Pidna, quindi con la conquista greca. Rimangono proprio questi testi perché si misero insieme questi volumina che erano considerati più coerenti. I copisti o gli editori si erano resi conto che Livio componeva a pentadi o a decadi. Non si sa se non abbia più scritto perché troppo vecchio o perché non gli convenisse durante il periodo dell'impero augusteo, durante la perdita di tutti gli eredi legittimi di Augusto, tanto che dovrà adottare Tiberio. Aveva nominato come eredi: il nipote Marcello, Agrippa, compagno d'armi ad Azio, ed i nipoti Gaio e Lucio Cesare, ma nessuno gli sopravvive. L'ultimo periodo di vita di Augusto è abbastanza triste: egli vede congiure ovunque, ne reprime un paio e dà inizio ai roghi dei libri. Livio dissemina di varie prefazioni i suoi libri. Livio è diverso da Cesare, che non ha proemi, ed è simile a Sallustio, il quale riflette sulla decadenza di Roma e sul significato della scrittura su Roma, mentre Livio ragiona sulla scrittura in sé e sulla capacità della persona di portarla a termine. Livio si ritiene migliore di tutti quelli che hanno scritto libri sulla storia di Roma. Anche la sua trattazione è un'impresa enorme, tornando alla comparazione con Sallustio, nonostante egli fosse più ridotto. Tenta di parlare moralmente della storia anche riferendosi a tutta la storia, quindi senza selezioni, siccome la rievocazione di eventi lontani provoca piacere nel lettore, che dimentica delle tribolazioni presenti. Non si sa quando Livio cominci a scrivere la praefatio, probabilmente intorno al 27 a.C. Nello stesso anno Ottaviano viene eletto augustus. Probabilmente la prefazione è precedente la battaglia di Azio, siccome parla di mali attuali. Vuole essere anche un avvertimento e ammonimento al princeps. Le fonti più antiche sono leggendarie ed egli lo riconosce. 13.04.2018 La biografia storica è un sub-genere storiografico. Cornelio Nepote non è il primo biografo latino, ma è il primo che lascia una quantità di opere sufficientemente amplia da permettere di capire il suo modo di concepire la storiografia. La sua vita passa per la crisi dello stato romano. Nasce nel 100 a.C e muore nel 27 a.C. È verosimilmente il dedicatario del Liber catulliano. I Chronica sono una sua opera, ma il suo testo più importante era il Liber de excellentibus ducibus exterarum gentium, dove due uomini, uno romano e uno straniero, erano messi a confronto. Tra gli stranieri erano privilegiati i greci, ma non erano gli unici. Rimangono un libro con 20 biografie sui generali greci ed orientali più le biografie di Amilcare e Anibale, a cui seguono quelle di Catone ed Attico, che dovevano rientrare nella sezione degli storici. Non si può, quindi, vedere il confronto visto che il resto è andato perduto. La biografia nasce nel mondo ellenistico e che si dispone in due forme, ovvero cronologica oppure per argomenti o rubriche (species), che possono essere di diversi ambiti. Anche il fatto che le species siano delle sezioni di argomento fa sì che le rubriche siano sostanzialmente organizzate in forma cronologica anche se in minima parte. Quello che varia è che l'attività militare può comprendere fatti della prima o della seconda parte della vita. Le biografie di Nepote se sono lunghe usa le forme per species, se sono brevi usa la forma per tempora. L'ordine cronologico può essere stravolto in virtù del fatto che il personaggio abbia fatto azioni importanti per la città di Roma in un determinato periodo ed un esempio è la biografia di Annibale, che inizia quasi dalla fine e poi va a ritroso. Vi è un particolare interesse per i dati aneddotici di figure latine, ovvero alle parole e alle azioni di un personaggio, con l'esigenza di sottolineare la presenza di membri di famiglie aristocratiche, che deriva dall'usanza delle laudatio funebris, ma questo è un particolare poco presente nelle biografie di Cornelio Nepote. Liber , I, 1-3: Non dubito fore plerosque, Attice, qui hoc genus scripturae leve et non satis dignum summorum virorum personis iudicent, cum relatum legent, quis musicam docuerit Epaminondam, aut in eius virtutibus commemorari saltasse eum commode scienterque tibiis cantasse. 2 Sed hi erunt fere, qui expertes litterarum Graecarum nihil rectum, nisi quod ipsorum moribus conveniat, putabunt. 3 Hi si didicerint non eadem omnibus esse honesta atque turpia, sed omnia maiorum institutis iudicari, non admirabuntur nos in Graiorum virtutibus exponendis mores eorum secutos.67 Nepote lascia anche una prefazione, in cui fa una dichiarazione di relativismo culturale. Alcuni potrebbero criticarlo, poiché parla di uomini importanti, ma mettendo in evidenza dati futili della loro vita, tralasciando altri eventi che sono preminenti, i quali però fanno parte alla storia e non alla biografia, quindi solo alla parte del docere e non del delectare. Expertes indica coloro che sono mancanti di qualcosa. Ciò che è giusto o sbagliato viene dettato dagli instituta maiorum, quindi si può parlare di relativismo culturale. I relativismi sono molteplici, che possono essere assoluti o moderati. Quello assoluto fa sì che solo il singolo sia soggetto della propria esistenza e giudichi tutto in base solo alla propria soggettività, portando ad una sorta di anarchismo. Quello che dice Nepote non è questo, ma dice che sono equivalenti gli usi ed i costumi dei popoli governati dagli insistuta maiorum, quindi dalle consuetudini, dalle norme e dalle abitudini degli antenati, quindi bisogna capirle. Roma continuando ad espandersi incontra sempre di più popoli diversi, quindi anche costumi diversi e in un'ottica imperiale non può dire che tutto deve essere uguale a Roma. Di conseguenza bisogna educare i lettori romani a pensare così; quindi chi non conosce la letteratura greca deve imparare a conoscerla, anche attraverso l'ellenizzazione della cultura romana. 67 So bene, Attico, che saranno parecchi coloro i quali giudicheranno questo mio genere di scrittura storiografica leggero e indegno delle personalità di uomini illustri, quando vi leggeranno chi abbia insegnato a Epaminonda la musica o che vengono annoverate tra le sue qualità l’agilità nella danza e l’abilità nel suonare il flauto. Ma saranno forse quelli che, digiuni di cultura greca, riterranno che nulla sia apprezzabile a meno che non si conformi ai propri personali costumi. Ma quando costoro avranno appreso che i concetti di “onestà” e di “disonore” morale non sono identici per tutti e che ogni comportamento deve essere valutato sulla base delle tradizioni patrie, non si stupiranno del fatto che, nell’esporre le virtù dei Greci, io abbia tenuto conto delle loro usanze. La differenza tra biografia e storia è importantissima e Nepote lo sostiene all'inizio della biografia di Pelotida, un comandante tebano. Pel . 1: quod vereor, si res explicare incipiam, ne non vitam eius enarrare, sed historiam videar scribere.68 Enarrare indica una narrazione completa ed esaustiva, molto amplia, che si oppone alla selezione perpetrata dallo storico. Prendendo tutti i fatti si raggruppano anche fatti poco interessanti per il lettore. Ci si trova davanti a vicende del tutto prive di particolare importanza, ma che permettono di particolareggiare i caratteri dei personaggi. L'obiettivo principale delle biografie è duplice, ovvero delectare e docere. Dal punto di vista culturale bisogna fare una riflessione. Nepote ragiona anche su usi ed abitudini quotidiani. Nepote dà un tipo di interpretazione che cerca di comprendere e rispettare gli stranieri. La vita di Annibale però fa capire come Nepote sia dispiaciuto che non fosse romano. Nepote venne studiato anche da Comenio, che lo raccomanda come autore scolastico. La filologia tedesca lo devasta, invece, per il suo carattere aneddotico. Lo stesso Goethe si lascia andare a dei giudizi terrificanti su Nepote. Il termine satira o satura in latino è un termine abbastanza complesso. È un aggettivo che si trova nell'espressione satura lanx, che significa piatto pieno o vassoio d'offerte per le divinità. Ritorna anche nella terminologia giuridica per le leggi miste, ovvero con diversi argomenti e temi. Si hanno testimonianze di testi satirici poliedrici da parte di Ennio, ma non si hanno frammenti significativi. Il termine sembra imparentato con i satiri, ovvero le figure semi-divine che seguono il corteo di Dioniso e che sono legate al mondo della battuta, del convitto, del banchetto e del simposio. Ma satiri in greco hanno un'etimologia diversa. Il carattere primario della satira è la sua varietà e non la presa in giro. Diomede nella sua Ars grammatica dà una definizione di satira. Diom. Gramm . 1, 485-30-34: Satyra dicitur carmen apud Romanos nunc quidem maledicum et ad carpenda hominum vitia archaeae comoediae charactere compositum […] et olim carmen quod ex variis poematibus constabat satyra vocabatur. Diomede non connette satira con satyri in greco. Dice che nella sua epoca la satira è una poesia che parla male degli altri e prende in giro i vizi, modellata sulla commedia. La commedia antica greca e latina potrebbero essere i modelli della satira tardo antica, ma precedentemente era un poema composto da altri sub-poemi. Anche una testimonianza tardo antica avvalora l'idea che la satira abbia come caratteristica principale la varietà. Le prime satire importanti sono quelle di Lucilio, poi si hanno Varrone, Orazio, Seneca, Persio e Giovenale. Lucilio vive tra il 180 ed il 103 a.C. Scrive circa 30 libri di satire, di cui restano 1370 versi, ma nessuna satira intera. Lucilio come titolo dà Ludus, mentre i grammatici parlano di Saturarum libri. Questi erano divisi metricamente, attraverso un metodo alessandrino; vi erano metri che variavano dai giambi agli esametri. C'è un'evoluzione che va dai metri drammatici agli esametri. Prima vi è una serie di metri contenuti, anche nei toni, poi Lucilio per esporre la sua poesia preferisce l'esametro, siccome essendo un verso abbastanza lungo è in grado di reggere una certa colloquialità. Questa idea resta anche nella satira antica, quindi anche Orazio parla delle sue satire come sermones, ovvero chiacchierate. Secondo i grammatici antichi sono quelli esametrici, nonostante fossero gli ultimi ad essere composti, poiché questa scelta dell'esametro è diventata prescrittiva. Colui che parla in prima persona, ovvero il satirico, è uno scrittore e poeta, quindi fa riferimento ad una precisa modellizzazione greca, attaccando scrittori e poeti da strapazzo latini. L'ambientazione è di tipo quotidiano. La satira prevede anche un carattere imitativo, quindi contiene scene di natura 68 Temo che, se mi mettessi a raccontare i fatti, non darei l’impressione di raccontare la sua vita, ma di comporre un’opera storiografica. epica, anche se vengono piegate in una versione più leggera, come il concilio degli dei, che è una scena di genere. La comicità di Lucilio deve molto a Plauto. C'è un passaggio continuo tra il riso mentale e la derisione esplicita. Nella satira vi è anche l'attacco ad personam, il quale viene adottato prudentemente con personaggi già morti. Quindi la satira diventa mezzo di attacco e insulto personale, come si vede nell'esempio di Lentulo Lupo, un princeps senatus. Ma rimangono anche alcuni passi di tipo filosofico, come quello sulla virtus, che dà una prima definizione di cosa sia la virtù. Ludus, Virtù: virtus, Albine, est, pretium persolvere verum quis in versamur, quis vivimus rebus, potesse, virtus est, homini scire id quod quaeque habeat res, virtus, scire, homini rectum, utile quid sit, honestum, quae bona, quae mala item, quid inutile, turpe, inhonestum, virtus quaerendae finem re scire modumque virtus divitiis pretium persolvere posse, virtus id dare quod re ipsa debetur honori, hostem esse atque inimicum hominum morumque malorum, contra defensorem hominum morumque bonorum, hos magni facere, his bene velle, his vivere amicum, commoda praeterea patriai prima putare, deinde parentum, tertia iam postremaque nostra.69 La virtù intesa da Lucilio è molto tradizionale, siccome ritornano i temi del rectum e dell'honestum e del bene. La virtù è la conoscenza di tutto ciò che ha a che fare con il reale. La virtù poi è anche una forma di equilibrio, come riprende anche Orazio. La virtù implica anche l'essere nemici ed avversari dei mali e dei cattivi costumi degli uomini malvagi. La virtù è civica, è difesa dello stato, per cui gli obiettivi sono la difesa della patria, dei genitori e solo in ultima battuta della persona (pietas erga patriam, pietas erga deos, pietas erga parentes). Quinto Orazio Flacco è un poeta di età augustea, che scrive satire, che chiama sermones, ma anche altre opere. Nasce nel 65 a.C e muore nell'8 a.C. Nella tradizione di Orazio si hanno due libri di satire, che sono esametriche e che sono piuttosto ampie. La sua è una satira che attacca i comportamenti e non le persone in particolare. Le Satire di Orazio sono una delle prime opere, precedute dagli Epodi. La satira per Orazio è l'occasione di riflettere filosoficamente sul mondo. I temi delle satire sono molteplici, come si vede nelle satire del Libro I: 1 Contro l'avidità e l'incapacità di accontentarsi e un elogio del giusto mezzo 2 Contro l'adulterio e il desiderio sessuale, i quali comportano dei rischi, soprattutto se extra- coniugali 3 Attacco alla maldicenza; siccome tutti sono capaci di errare bisogna essere indulgenti 4 Satira di natura poetica, che prevede il legame molto forte con la commedia, ma se ne distacca per toni e metro. Orazio rivendica la sua autonomia da Lucilio e la sua personalità poetica 5 Satira di viaggio, a Brindisi, con modello luciliano. 6 Contro l'ambizione politica, che affatica l'uomo. Orazio da giovane si era schierato dalla parte dei cesaricidi, ma si dovette ricredere e abbandonò lo scudo. 7 Processo a Rupilio Re e prende in giro alcuni usi processuali 8 Descrive la vittoria sulle streghe Canidia e Sagana, che vengono cacciate da un peto del dio Priapo. 9 Descrizione di un dialogo con un seccatore che vuole farsi raccomandare presso Mecenate, amico e protettore di Orazio e incaricato da Augusto di gestire la sua politica. 10 Satira sulla poetica satirica 69 Virtu', Albino, e' poter assegnare il giusto prezzo alle cose fra cui ci troviamo e fra cui viviamo, virtu' e' sapere cosa valga ciascuna cosa per l'uomo, virtu' sapere cosa per l'uomo e' retto, utile, onesto, e poi quali cose son buone, quali cattive, che cos'e' inutile, turpe, disonesto; virtu' e' saper mettere un termine, un limite al guadagno, virtu' poter assegnare il suo vero valore alla ricchezza, virtu' dare agli onori quel che veramente gli si deve: esser nemico e avversario degli uomini e dei costumi cattivi, difensore invece degli uomini e dei costumi buoni, questi stimare, a questi voler bene, a questi vivere amico; mettere inoltre al primo posto il bene della patria, poi quello dei genitori, al terzo e ultimo il nostro non seguono gli esempi degli antichi e ne danno di pessimi ai giovani (8 e 14). Inoltre, c'è la condanna della ricchezza, della misoginia, della xenofobia e del sentimento di emarginazione. C'è un mutamento di tono dopo l’ottava satira: l’indignatio si affievolisce e si passa a uno sguardo disincantato che recupera l’atteggiamento moralistico della diatriba stoico-cinica. Il riso amaro diventa l’elemento costitutivo della realtà e ne produce una distorsione, per cui accanto a una descrizione «realistica» abbiamo una deformazione espressionistica. La satira dopo l’antichità diventa una satira allegorica con gli animali nel Medioevo (che raffigurano il clero e i potenti), mentre elementi di satira politica sono presenti, per esempio, nelle invettive dantesche o nel Corbaccio boccacciano, ma non solo. In età umanistica si recupera la tradizione romana: forme satiriche sono presenti nelle opere di Erasmo da Rotterdam. In Francia l’elemento satirico intride fortemente il Pantagruel (1532) e il Gargantua (1534) di Rabelais. Ariosto scrisse sette componimenti in terzine tra 1517 e 1525. Sono satire dialogiche su modello oraziano di tipo dialogico che ripensano le questioni di corte, dando un ampio spazio alle questioni autobiografiche e da lì partendo per riflessioni sul senso dell’esistenza. Seguono i violenti attacchi del Lasca e di Pietro Aretino e le rime giocose di Berni. Nel Seicento, accanto alle pagine di Cervantes, si ha Salvator Rosa. Nel Settecento Parini e Alfieri. Nell’Ottocento si ricordano l’Ipercalisse di Foscolo, scritta in latino con forte imitazione oraziana, poi Giusti, Porta e Belli, in cui entra però la tradizione epigrammatica. Echi della satira contro le donne si trovano in Eros e Priapo di Gadda (1967), in cui egli stigmatizza il comportamento idolatra di molte «femine» nei confronti di Mussolini durante il Ventennio fascista. Ampissimi sono gli echi nella letteratura novecentesca in tutte le lingue europee. La satira è garantita dagli articoli 21 e 33 della Costituzione italiana che riguardano la libertà di pensiero e quella di elaborazione artistica e scientifica. Questo postula una serie di problemi: relazione con la diffamazione, uso politico, tolleranza e rispetto. La tradizione manoscritta di Orazio è la più ricca, insieme a quella di Virgilio: comprende circa 850 manoscritti (e la cifra è destinata a lievitare, perché affiorano continuamente nuovi frammenti o interi fogli ricavati dalle antiche legature di incunabuli e cinquecentine) e 250 codici con commenti in testo continuo, dove il lemma è seguito dalla relativa glossa. Altri elementi confermano la straordinaria fortuna del poeta: fra l'XI e il XII secolo i suoi testi sono spesso musicati; e insieme a Virgilio è l’autore classico più spesso provvisto di glosse alto-tedesche, segno evidente di un suo uso nelle scuole. Con Virgilio è anche il solo autore classico che Dante riconosca come proprio maestro nel De vulgari eloquientia. Dopo essersi spostato ad Atene si schiera con Bruto e con i cesaricidi. Si reca in battaglia e fugge abbandonando lo scudo, il che comporta la confisca dei beni, poichè così dimostrò la propria mancanza di onore. Conosce poi Mecenate, tramite Viriglio e Vario. Con Mecenate stringe una vera e profonda amicizia, tanto che Mecenate gli dona una piccola villetta. Orazio trascorre il resto della sua vita diventando un poeta ufficiale di Roma: con una serie di componimenti che inserirà nel terzo e nel quarto libro delle sue Odi, e con una composizione autonoma, il Carme seaculare, una poesia che doveva essere cantata da due cori, a carattere politico di elogio della grandezza di Roma e della politica augustea. Le opere principali si Orazio sono i Sermones, i libri delle Odi e Epodi (17, componimenti scritti tra il 41 e il 30 a.C, dedicati all’invettiva, alla presa in giro e alla percezione di una grave difficoltà dell’uomo nel mondo in cui vive). Orazio è un poeta estremamente legato alla poesia greca e, nel caso delle Epodi, il modello è Archiloco. Per quanto riguarda le Odi, i modelli di Orazio sono di stampo greco, tra cui Alceo e Saffo, come dimostra l'uso dellastrofa alcaica e saffica. Sia Alceo, sia altri poeti che Orazio imita, sono poeti che praticano una serie di scelte poetiche legate strettamente ad una dimensione o simposiaca (banchetto, amore) o al mondo degli affetti. I temi affrontati sono essenzialmente due: quello del tempo che sfugge dalle mani e quello della ricerca della felicità. A questo si affiancano altri sub-temi, come l'amore e la celebrazione di Roma. Ode , I: Tu ne quaesieris (scire nefas) quem mihi, quem tibi Finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios Temptaris numeros. Ut melius quicquid erit pati, seu pluris hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam, quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare Tyrrhenum: sapias, vina liques et spatio brevi Spem longam reseces.74 Si tratta di un’ode breve, ma estremamente importante, in quanto Orazio vi svolge con suprema limpidezza e senso della misura alcuni dei punti fondamentali della morale delle Odi. L’idea dell’incertezza del futuro è espressa come sfiducia nella divinazione (in armonia con la dottrina epicurea) e trova il suo referente simbolico nell’immagine della furia del mare tempestoso. Complementare a questo spunto è il consiglio di vivere il presente, che dapprima si sviluppa nel motivo simposiaco (diffuso nella lirica greca arcaica) dell’invito a bere e a non nutrire speranze eccessive, poi si traduce nel precetto epicureo di cogliere il piacere del momento. Quest’ultimo è espresso con tale essenziale icasticità da esser divenuto proverbiale. Il poeta si rivolge, con quell’impostazione, a un personaggio femminile da un nome parlante, Leuconoe. Nefas indica ciò che è illecito sotto il profilo della legge di natura; non è possibile sapere qualcosa del futuro perché non è nella natura umana. È una morale di natura epicurea. Il senso del testo è che, non sapendo quale sia il nostro fine e la conclusione della nostra vita, è meglio accettare ciò che arriva. Il messaggio oraziano è di impegno forte sull’oggi, perché il futuro è incerto. Car. II, 14 Eheu fugaces, Postume, Postume, labuntur anni, nec pietas moram rugis et instanti senectae adferet indomitaeque morti, non, si trecenis, quotquot eunt dies, amice, places inlacrimabilem Plutona tauris, qui ter amplum Geryonen Tityonque tristi compescit unda, scilicet omnibus, quicumque terrae munere vescimur, enaviganda, sive reges sive inopes erimus coloni. Frustra cruento Marte carebimus, fractisque rauc fluctibus Hadriae;75 Il tema della brevità della vita e della inevitabilità della morte è tra i più frequentemente ricorrenti in tutta la poesia antica. Orazio lo svolge in questo celebre carme con un tono intensamente malinconico, a partire dall’esclamazione iniziale di lamento eheu; anche l’iterazione del nome del destinatario suona grave ed accorata. Le prime tre strofe sono costituite da un unico, ampio periodo, ulteriormente dilatato dagli enjambements, come a voler esprimere il flusso continuo del tempo che scivola e fugge, inarrestabile. La descrizione dell’oltretomba, con la menzione dei grandi peccatori del mito, risponde a una convenzione letteraria (l’epicureo Orazio non crede alla sopravvivenza dopo la morte) e riecheggia in particolare un frammento di Alceo: «una volta varcato l’Acheronte vorticoso, / non tornerai più a vedere la luce pura / del sole. Suvvia, non nutrire speranze grandi. / Anche Sisifo, il re figlio di Eolo, / di tutti il più scaltro, pensava di vincere la morte. / Pur molto accorto, ma soggetto al destino, / due volte varcò il vorticoso Acheronte / e una pena grande diede a lui da soffrire sotto la terra nera / il re Cronide». Questa parte accentua, con la sua cupa mestizia, l’impressione di sconsolata tristezza che emana dal carme. Car. I, 9: Vides ut alta stet nive candidum Soracte nec iam sustineant onus silvae laborantes geluque flumina constiterint acuto. Dissolve frigus, ligna super foco large reponens, atque benignius deprome quadrimum Sabina, o Thaliarche, merum diota. Permitte divis cetera, qui simul stravere ventos aequore fervido deproeliantes, nec cupressi nec veteres agitantur orni. Quid sit futurum cras, fuge quaerere, et quem Fors dierum cumque dabit, lucro adpone, nec dulces amores sperne, puer, neque 74 Tu non domandare - è un male saperlo - quale sia l'ultimo giorno che gli dei, Leuconoe, hanno dato a te ed a me, e non tentare gli oroscopi di Babilonia. Quanto è meglio accettare qualunque cosa verrà ! Sia che sia questo inverno - che ora stanca il mare Tirreno sulle opposte scogliere - l'ultimo che Giove ti ha concesso, sia che te ne abbia concessi ancora parecchi, sii saggia, filtra il vino e taglia speranze eccessive, perché breve è il cammino che ci viene concesso. 75 Ahimè, fuggevoli, Postumo, Postumo, scorrono gli anni, né la religiosità arrecherà ritardo alle rughe e alla vecchiaia che incalza e alla morte inevitabile, neppure se, tutti i giorni che passano, con trecento tori tu cercassi di placare, o amico, lo spietato Plutone che trattiene il tricipite Gerione e Titio con la triste onda che certamente tutti noi che ci nutriamo del dono della terra dovremo attraversare, sia se saremo re sia se poveri coloni. Invano staremo lontani dal sanguinoso Marte, e dalle ondate infrante del fragoroso Adriatico; tu choreas, donec virenti canities abest morosa. Nunc et Campus et areae lenesque sub noctem susurri composita repetantur hora, nunc et latentis proditor intimo gratus puellae risus ab angulo pignusque dereptum lacertis aut digito male pertinaci.76 L’ode si articola in tre momenti: nel primo un paesaggio invernale offre l’occasione per sviluppi simposiaci, nel secondo l’immagine della tempesta diviene simbolo dell’insondabile alternanza che regola le vicende umane, nel terzo l’inconoscibile incertezza del futuro è lo spunto per un invito a godere del presente. Particolarmente interessante è la prima sezione, che richiama un frammento di Alceo: «Zeus piove. Dal cielo un grande / temporale. Sono gelati i corsi dei fiumi. / ... Scaccia via quest’inverno, attizzando il fuoco, / e mescendo senza risparmio vino / dolce; e intorno alle tempie / cingi fasce morbide di lana». Benché non manchino riprese puntuali, le differenze sono notevoli. Alceo ci presenta genericamente una tempesta in pieno svolgimento; Orazio ci offre, invece, il quadro topograficamente ben localizzato di un paesaggio invernale: la bufera è ormai finita e il monte Soratte, un'altura nei dintorni di Roma, si staglia nitido, mentre i rami degli alberi si piegano sotto il peso della neve. Al dinamismo un po’ indeterminato del testo greco si sostituisce la profonda quiete di luoghi familiari. Il successivo movimento simposiaco presenta riecheggiamenti precisi, ma appare in Orazio ridotto all’essenziale, con l’eliminazione del particolare un po’ troppo confidenziale delle fasce di lana. Non sappiamo se il modello alcaico proseguisse con uno svolgimento gnomico, ma certo l’invito a non far conto del futuro e a trarre frutto da ogni gioia dell’esistenza è profondamente connaturato con le convinzioni oraziane. Lontanissimi poi dalla sensibilità del lirico arcaico sono i giochi fra innamorati che esemplificano le gioie della vita: essi ci riportano nell’ambito della cultura ellenistica dominante nella Roma mondana. Orazio rivive dunque con spirito moderno i temi e i modi dell’antico Alceo. Da un lato c’è l’invito positivo agli dei di lasciare a loro ciò che è di loro competenza. Quest’ultimi sono considerati potenti, però non hanno nulla a che vedere con gli uomini. Orazio invita ancora una volta a evitare di chiedere, a vivere pienamente ciò che la sorte ti può dare e a non preoccuparsi del futuro. Car. I,5: Quis multa gracilis te puer in rosa perfusus liquidis urget odoribus grato, Pyrrha, sub antro? Cui flavam relĭgas comam simplex munditiis? Heu quotiens fidem mutatosque deos flebit et aspera nigris aequora ventis emirabitur insolens, qui nunc te fruitur credulus aurea, qui semper vacuam, semper amabilem sperat, nescius aurae fallacis. Miseri, quibus intemptata nites: me tabula sacer votiva paries indicat uvida suspendisse potenti vestimenta maris deo.77 È una squisita variazione sul tema dell’addio all’amore, intrecciato nell’ultima parte con un modulo tipico dell’epigramma dedicatorio, che s’iscriveva, o si fingeva venisse iscritto, su un ex-voto; la bellissima e volubile Pirra è passata ad un altro amore e il poeta compiange il giovane ingenuo che non sa quale sorte lo attende. La metafora marina domina nell’ultima strofa, in cui il poeta si presenta, con leggera e sorridente autoironia, come il navigante scampato alla tempesta. Il fascino del carme, oltre che dalle immagini, scaturisce dall’arte finissima con cui le parole sono incastonate nei versi: si notino in particolare le sapienti dislocazioni (traiectiones) degli aggettivi, di norma anticipati rispetto ai sostantivi corrispondenti, specialmente nella prima e nell’ultima strofa. È 76 Vedi come per l’alta neve candido s’erge il Soratte! Già le selve cedono al peso affaticate e i fiumi ristanno stretti per il gelo acuto. Sciogli il freddo, altri legni al focolare aggiungendo abbondanti, e mesci prodigo, Taliarco, vino di quattr’anni dall’anfora sabina bi-orecchiuta. Lascia il resto agli Dei, che appena i venti, in lotta sul ribollente mare, hanno placato, ecco, i cipressi non s’agitano più, non i vecchi orni. Cosa domani t’accadrà, non chiedere. Qualsiasi giorno ti darà la sorte, metti a guadagno; e i dolci amori non disprezzare, giovane, e le danze, finché dall’età verde sia lontana la canizie bisbetica. Ora il Campo e le piazze, e i tenui a sera sussurri, torna a cercare all’ora convenuta, e il delizioso riso che tradisce la ragazza nascosta nel canto più oscuro, e il pegno che le strappi ai polsi, e al dito che resiste appena. 77 Qual delicato giovane asperso di puri profumi ti preme su un letto di rose, o Pirra, in un grato antro? Per chi tu annodi la tua bionda chioma, con semplice eleganza? Ahi, quante volte piangerà gli dèi mutati, l’amor suo tradito, e guarderà inasprirsi le onde ai neri venti, incredulo, colui che fiducioso or gode del tuo aureo sembiante, e per sempre libera, per sempre amabile ti spera, ignaro dello spirar d’inganni! Miseri coloro ai quali splendi non provata. In quanto a me, appesa alla sacra parete una tabella votiva dice ch’io ho offerto le mie vesti umide di naufragio al possente dio del mare. attinenti al teatro, che toccano il coro e la necessità per l'arte di utilizzare la gradevolezza e l'utilità insieme. Il concetto dell'unità dell'opera d'arte emerge nel verso 25. Persio, fa il verso all'Ars poetica, dicendo che non basta un'astuta connessione di parole, ma questa deve essere dura e colpire. Bisogna utilizzare le parole della tradizione per costruire qualcosa di nuovo. Orazio si pone in una posizione completamente opposta a Cesare, come dimostrano i versi 72-74. Cesare ammette anche l'uso di parole della pratica corrente, ma anche analogismi, mentre per Orazio l'uso è il padrone della scelta delle parole. Bisogna anche entrare nell'argomento piuttosto precisamente (in medias res). I versi 333-334 sostengono che bisogna mescolare l'utilità e la piacevolezza, dilettando ed istruendo il lettore. Orazio è un autore centrale della poesia latina. È stata identificata una sorta di età oraziana tra il X e l'XI secolo. Dante legge Orazio e lo considera principalmente satirico, pur non escludendo la lettura di parte dei carmina. Petrarca fa trascrivere in un manoscritto quattro odi di Orazio e gli dedica un'epistola metrica. Il XXIV libro delle epistole di Petrarca è dedicato ad autori antichi, salvo le prime dedicate ad alcuni amici. Fa un omaggio all'Orazio autore di lettere, ma fa un gioco su un verso tipico di Orazio. Per Petrarca è soprattutto un poeta lirico, a differenza della visione di Dante. Anche Belli cita direttamente Orazio in due suoi sonetti; nel primo riprende l'attacco di Orazio contro la brevità della poesia, mentre nel secondo si riprende l'ammonimento a non vivere nella paura. La tradizione manoscritta di Virgilio è la più grande. Sono rimasti antichi codici datati V-VI secolo. I codici sono codici con subscriptiones, ovvero delle firme di coloro che hanno lavorato o posseduto il codice. Virgilio fruisce anche di una enorme tradizione indiretta, come citazioni e testi scolastici. L'Eneide diventa il nuovo poema epico dei romani, soppiantando Livio Andronico ed Ennio. Sono rimasti i commenti di Servio, che si occupa di gran parte delle opere di Virgilio, Servio Danielino e un altro. Il testo virgiliano ha due grandi problemi: Una recensione aperta senza archetipo; il numero di manoscritti virgiliani riconducono ad una serie di famiglie, che portano ad un unico archetipo. Alcuni problemi testuali portano a delle congetture sintattiche. La prima opera importante, le Bucoliche, hanno avuto una doppia redazione e nella prima si trovava grandissima traccia di un poeta, Cornelio Gallo, che era il favorito di Ottaviano Augusto. Gallo aveva mostrato un'eccessiva autonomia e Ottaviano temeva una congiura. Per evitare il giudizio del tribunale Gallo si suicida. Non essendo più appropriato valorizzare la figura di Gallo, Virgilio lo mette ai margini delle Bucoliche. Vi è la presenza di una serie di versi tramandati dalla tradizione manoscritta, che però non sembrano autentici. Virgilio è un autore unico nella letteratura latina e mondiale. Nasce ad Andes, vicino a Mantova, da una famiglia abbastanza agiata nel 70 a.C. Studia a Cremona e Mantova. Produce una serie di testi poetici già in età giovanile, che lasciano in dubbio sull'autenticità. Esiste una raccolta, l'Appendice virgiliana, che raccoglie composizioni di vario genere che sono virgiliane, anche se alcune non lo sono e vi sono rientrate solo per la tradizione manoscritta scolastica, che li ha integrati. Virgilio studia sia la retorica sia le scienze. Ha modo di frequentare a Napoli una scuola epicurea guidata da Sirone, dove avrebbe consultato una serie di volumi ormai persi. Virgilio nell'epoca delle guerre civili si trova di fronte ad un problema. Le terre di Mantova e Cremona devono essere confiscate per essere date ai veterani dei triumviri. In un primo momento le sue non vengono toccate, ma poi ne viene spossessato. A Roma gode dell'amicizia con Mecenate e con Ottaviano Augusto, che lo porta a svolgere un'attività confermata da molte fonti, ovvero leggere parti e libri interi dell'Eneide all'imperatore mentre la stava componendo. Si hanno notizie della lettura che diede di fronte ad Augusto, Livio e Giulia. Diventa un intimo dell'imperatore. Nel 19 a.C compie un viaggio di studio e approfondimento in Grecia, durante il quale si ammala. Ritorna a Brindisi e lì muore, probabilmente di febbre. Lascia un solo mandato, di bruciare l'Eneide. Ottaviano interviene e lo impedisce, autorizzandone la pubblicazione. Le Bucoliche sono 10 componimenti in esametri. Il nome Bucoliche deriva da un termine greco, che rimanda al termine pastore di buoi. Sono poesie di argomento pastorale in cui i protagonisti sono personaggi di quel mondo. Le Bucoliche si costruiscono attorno ad una struttura particolare. Vengono chiamate anche Egloghe. La loro tradizione deriva da un modello greco, che è soprattutto proprio di Teocrito. Non sono traduzioni, ma rivisitazioni. Le narrazioni sono rappresentazioni, riflessioni e ragionamenti dove il paesaggio è centrale. Vi è la caratteristica del locus amoenus, che è un luogo senza tempo, caratterizzato dalla tranquillità e da alcuni elementi fissi. Non subisce attacchi o ripercussioni della storia. La presenza scenica del locus amoenus è abbastanza costante. Si raccontano anche una serie di fatti di natura diversa, che comportano dei canti e degli scambi di battute. Ci sono anche una serie di richiami interni, come si nota tra la I e la IX bucolica, che sono di matrice autobiografica; in queste si parla di pastori che devono abbandonare le proprie terre o che riescono a mantenerle grazie ad un certo Deus. Buc . I, 1-10: MELIBOEUS. Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi silvestrem tenui musam meditaris avena; nos patriae finis et dulcia linquimus arva; nos patriam fugimus; tu, Tityre, lentus in umbra, formosam resonare doces Amaryllida silvas. TITYRUS. O Meliboee, deus nobis haec otia fecit: namque erit ille mihi semper deus; illius aram saepe tener nostris ab ovilibus imbuet agnus. Ille meas errare boves, ut cernis, et ipsum udere quae vellem calamo permisit agresti.80 Nella I bucolica ci sono due pastori, che dialogano. Titiro rappresenta Virgilio, che con la protezione del Deus (Ottaviano), aveva mantenuto le proprie terre. Il pastore Melibeo si rivolge a Titiro. Si fa riferimento ad una poesia di rango intermedio, molto legato ad un modello di raffinatezza, ma non alla solennità della poesia epica. Il canto mette in rilievo la domanda di Melibeo, per cui Titiro non è costretto a lasciare le sue terre, a sua differenza. C'è il richiamo al personaggio di Amarilli, che come altri nomi dei personaggi, è un nome greco della tradizione letteraria bucolica. Virgilio usa una costruzione letteraria simile a quella di Plauto, che riprende personaggi greci. Titiro sta riposando sotto l'ombra di un faggio, improvvisando canti per una fanciulla. Melibeo, al contrario, deve abbandonare i dolci campi. L'autore denuncia il fatto che alcuni devono abbandonare le loro fonti di sostentamento; si sta applicando un fatto storico-politico, che contrasta enormemente con la vicenda di Titiro. La storia entra in un mondo, che si potrebbe definire arcadico. Le sicurezze possono essere messe in dubbio, mette in evidenza la fragilità della vicenda a cui è chiamato a partecipare. Nella IX bucolica la protezione non è più accordata nemmeno a Titiro e la confisca colpisce tutte le terre. La X bucolica è un'egloga di commiato. Le egloghe IV, V e VI occupano una posizione particolare. La IV di bucolico ha ben poco; è un componimento con l'auspicio del ritorno della pace data dalla nascita di un misterioso puer. Nella VI egloga si ha una corrispondente riflessione da parte di Sileno, che leva un canto relativo alla storia del mondo e alla sua generazione. La III e la VII e la II e l'VIII sono opere dialogiche o monologiche. Le dialogiche sono opere a risposta dove ogni parlante usa sempre lo stesso numero di versi durante delle gare poetiche. Si ha una riflessione amarissima su come la storia e le vicende politiche siano più forti della poesia, del locus amoenus. Sono la dimostrazione di come la letteratura non riesca a cambiare la storia. La storia penetra con violenza anche negli spazi che le dovrebbero essere preclusi. 80 Melibeo : O Titiro, tu, disteso sotto la volta di un ampio faggio, moduli una silvestre melodia su sottile zampogna; noi lasciamo le terre dei padri e i dolci campi; noi abbandoniamo la patria; tu, Titiro, adagiato nell’ombra, insegni alle selve a ripetere il nome d’Amarillide bella. Titiro: O Melibeo, un Dio mi ha donato questa pace (lett.: ha fatto per me quest’ozio): e per me almeno, egli sarà sempre un Dio; spesso un tenero agnello (uscito) dai miei ovili (lett.: dai nostri ovili) intriderà (del suo sangue) l’altare di lui; egli permise che le mie giovenche continuassero a pascolare, come vedi, e che anch’io potessi cantare quel che volevo su agreste zampogna. Bucolica 6, 1-5: Prima Syracosio dignata est ludere versu nostra, neque erubuit silvas habitare, Thalia. Cum canerem reges et proelia, Cynthius aurem vellit, et admonuit: “Pastorem, Tityre, pinguis pascere oportet ovis, deductum dicere carmen”.81 Viene nominata Thalia, la musa della poesia bucolica. Cynthius è Apollo e viene definito così per uno dei giochi di Parnaso. Virgilio dichiara di aver avuto una fase in cui ha pensato alla poesia bellica, ma l'intervento di Apollo lo ha richiamato all'ordine del modello bucolico. Tityre è Virgilio. Virgilio lavora come autore nascosto, che governa il suo testo. Buc. 4: Sìcelidès Musaè, paulò maiòra canàmus! Nòn omnìs arbùsta iuvànt humilèsque myrìcae; sì canimùs silvàs, silvaè sint cònsule dìgnae. Ùltima Cùmaeì venìt iam càrminis aètas; màgnus ab ìntegrò saeclòrum nàscitur òrdo. Iàm redit èt Virgò, redeùnt Satùrnia règna, iàm nova prògeniès caelò demìttitur àlto. Tù modo nàscentì puerò, quo fèrrea prìmum dèsinet àc totò surgèt gens àurea mùndo, càsta favè Lucìna: tuùs iam règnat Apòllo. Tèque adeò decus hòc aevì, te cònsule, inìbit, Pòllio, et ìncipiènt magnì procèdere mènses; tè duce, sì qua manènt scelerìs vestìgia nòstri, ìnrita pèrpetuà solvènt formìdine tèrras. Ìlle deùm vitam àccipièt divìsque vidèbit pèrmixtòs heròas et ìpse vidèbitur ìllis, pàcatùmque regèt patriìs virtùtibus òrbem. Àt tibi prìma, puèr, nullò munùscula cùltu èrrantìs hederàs passìm cum bàccare tèllus mìxtaque rìdentì colocàsia fùndet acàntho. Ìpsae làcte domùm referènt distènta capèllae ùbera, nèc magnòs metuènt armènta leònes; ìpsa tibì blandòs fundènt cunàbula flòres. Òccidet èt serpèns, et fàllax hèrba venèni òccidet; Àssyriùm volgò nascètur amòmum. Àt simul hèroùm laudès et fàcta parèntis iàm legere èt quae sìt poterìs cognòscere vìrtus, mòlli pàulatìm flavèscet càmpus arìsta èt duraè quercùs sudàbunt ròscida mèlla. Pàuca tamèn suberùnt priscaè vestìgia fràudis, quaè temptàre Thetìm ratibùs, quae cìngere mùris òppida, quaè iubeànt tellùri infìndere sùlcos. Àlter erìt tum Tìphys et àltera quaè vehat Àrgo dèlectòs heròas; erùnt etiam àltera bèlla àtque iterum àd Troiàm magnùs mittètur Achìlles. Hìnc, ubi iàm firmàta virùm te fècerit aètas, cèdet et ìpse marì vectòr, nec nàutica pìnus mùtabìt mercès; omnìs feret òmnia tèllus. Nòn rastròs patiètur humùs, non vìnea falcem; ròbustùs quoque iàm taurìs iuga sòlvet aràtor. Nèc variòs discèt mentìri làna colòres, ìpse sed ìn pratìs ariès iam suàve rubènti mùrice, iàm croceò mutàbit vèllera lùto; spònte suà sandýx pascèntis vèstiet àgnos.82 Non è una bucolica di argomento veramente pastorale. È stata scritta per celebrare il ritorno sulla terra della giustizia (vergine astrea) in occasione della nascita di un bambino. Le Bucoliche si collocano intorno al 40 a.C. Si ha una conclusione della prima fase di lotte tra Antonio e Ottaviano, 81 Dapprincipio la mia Musa si degnò di scherzare Col verso teocriteo né arrossì di abitare le selve. Volendo cantare i re e le battaglie, Apollo (mi) tirò Un orecchio e (mi) ammonì: "O Titiro, bisogna che il pastore 82 O Muse Siciliane, cantiamo cose un po’ più alte! Non a tutti piacciono gli arbusti e le basse tamerici; se cantiamo le selve, siano selve degne di un console. Ormai è venuta l’ultima età della profezia cumana; nasce dall’inizio una grande serie di generazioni. Ormai ritorna anche la Vergine, ritornano i regni di Saturno, ormai una nuova generazione viene giù dall’alto del cielo. O casta Lucina, sii ora favorevole al bambino che nasce, con il quale innanzitutto cesserà la stirpe di ferro e sorgerà in tutto il mondo la stirpe aurea: ormai regna il tuo Apollo. Mentre te sei console appunto inizierà con te questa età gloriosa, o Pollione, e inizieranno i grandi mesi sotto la tua guida, tracce del nostro delitto se ne rimangono alcune, rese vane libereranno la terra dalla continua paura. Egli riceverò la vita degli dei e vedrà gli eroi mescolati agli dei e lui stesso sarà visto con quelli e governerà il mondo pacificato con le virtù patrie. E per te, come primi doni, o bambino, senza coltivazione la terra produrrà edere erranti qua e là col baccare e [produrrà] la colocasia mista all’acanto ridente. Le carpette da sé riporteranno a casa le mammelle gonfie di latte, e gli armenti non avranno paura dei grandi leoni; la culla stessa produrrà per te dolci fiori. E il serpente morirà, e morirà l’erba ingannatrice del veleno; dappertutto nascerà l’amomo Assiro. Ma non appena sarai capace di leggere le lodi degli eroi e le imprese del padre e di sapere quale sia il valore, a poco a poco la pianura biondeggerà per le molli spighe e dai rovi incolti penderà la rosseggiante uva e le dure querce trasuderanno miele rudagioso. Rimarranno tuttavia poche tracce dell’antica colpa tali da imporre di sfidare il mare con le navi, da cingere di mura le città, da tracciare solchi nella terra. Ci sarà allora un altro Tifi e un’altra Argo per portare eroi scelti; ci saranno anche altre guerre e di nuovo il grande Achille sarà mandato a Troia. Quindi, quando l’età ormai matura ti avrà reso uomo, si ritirerà anche il navigante stesso né il pino nautico scambierà le merci, tutta la terra produrrà ogni cosa . Il suolo non patirà i rastrelli, la vigna non (patirà) la falce, anche il robusto aratore toglierà ormai il giogo ai tori. E la lana non imparerà a fingere i vari colori, ma da solo sui prati l’ariete cambierà il (colore del) vello ora in un rosso che rosseggia soave, ora in un giallo zafferano; spontaneamente il cinabro rivestirà gli agnelli che pascolano. La seconda opera importante di Virgilio sono le Georgiche, che hanno ancora un titolo greco, che si riferisce ai canti dei campi. Rispetto alle bucoliche, si ha un poema epico di natura didascalica che fin dall'inizio propone i suoi temi. Le Georgiche sono 4 libri in esametri. Georg . 1, 1-5: Quid faciat laetas segetes, quo sidere terram vertere, Maecenas, ulmisque adiungere vitis conveniat, quae cura boum, qui cultus habendo sit pecori, apibus quanta experientia parcis, hinc canere incipiam.84 Il proemio va fino al verso 42 ed il primo libro si occupa dei campi. Si parla dei lavori nei campi, dei tempi adatti a svolgerli e dei pronostici, delle previsioni del tempo. Questo consente a Virgilio di inserire una serie di sezioni extra-tematiche che riguardano in particolare il concetto di teodicea del lavoro (la dura legge di Giove) e i prodigi dopo l'uccisione di Cesare. Il tema del calendario non è solo un tema erudito; il tentativo di Augusto è quello di una rifondazione profonda di Roma, dandole anche dei motivi per cui il tempo è strutturato in una determinata maniera. Il calendario è il mezzo di collegare l'agricoltura ed i suoi tempi con quelli dei riti. L'ultima opera significativa di Ovidio, che viene poco dopo Virgilio, si intitola Fasti ed è legata al calendario. Riorganizzare il tempo prevede fissare e strutturare la vita, soprattutto per la società contadina. I prodigi sono centrali per i romani superstiziosi e che mirano ad avere una definizione precisa dei rituali da compiere, che devono essere costruiti in maniera da soddisfare le esigenze degli dei, che potrebbero poi ricompensarli. Il secondo libro è un sottoinsieme del primo. Si concentra sugli alberi da frutta e su quelli di grande produzione, ovvero vite e olivo. Sono famose qui le Lodi dell'Italia, che sono importanti in quanto ci sono gli elogi delle qualità produttive dell'Italia. Nel 1930 si celebrò il bimillenario della nascita di Virgilio e molte rivisitazioni lo vedono come poeta duplice (poeta agreste e poeta propagandistico). Il terzo libro si concentra sull'allevamento. Due sezioni sono molto interessanti, ovvero quella sull'amore (Virgilio riflette sullo stimolo amoroso degli animali, a cui dà una valutazione negativa, siccome diventano nervosi, sofferenti e pronti ad ostacolarsi. Quindi è uno stimolo che allontana dalla pace e dalla serenità. La sua concezione amorosa è assolutamente lontana da quella di Catullo, ma non così tanto da quella di Lucrezio) e quella dell'epidemia del bestiame nel Norico (l'epidemia viene descritta con toni e accenti simili a quelli lucreziani, che viene utilizzata accanto ai modelli di Lucrezio e di Tucidide). Nel quarto libro si focalizza sulle api, che tra tutti spiccano per l'essere produttrici di miele. Si crede che le api si riproducano per nascita, generazione spontanea, da carcasse di animali. La parte più interessante è la riflessione finale sul mito di Orfeo ed Euridice. Aristeo ha perso le api perché ha commesso una colpa e gli viene rivelato di aver provocato la morte di Euridice, siccome l'ha inseguita e questa è stata morsa da un serpente. Il cantore Orfeo canta con tale struggimento da convincere tutto l'Ade a restituirgli la sposa. Non avrebbe dovuto guardarla fino ad averla salvata, ma non ci riesce e la perde per sempre. Aristeo alla fine giunge alla conclusione che Orfeo ha avuto un grande dono dagli dei, ma ha trasgredito i loro mandati. Lui ha commesso una colpa, gli viene fatto il dono di poter riavere le api, purché osservi gli ordini degli dei. Lui impara la lezione e ne segue i comandi. Il senso di questo epilio è quello di mantenere ed invitare i lettori la fede in ciò che gli dei chiedono e vogliono. Da un punto di vista ideologico queste poesie non sono un manuale, ma sono un invito ai romani a ritrasformarsi in contadini e pastori, ritrovando i valori centrali di quella società. Virgilio si lascia scappare un'espressione nel III libro haud mollia iussa85, ricondotta a Mecenate, che avrebbe il compito di gestire e organizza una politica culturale, cosa che lui fa spingendo gli scrittori a collaborare, attraverso delle pressioni. La dura legge di Giove o teodicea del lavoro è la spiegazione del perché sia giusto lavorare. Se l'uomo non avesse lavorato si sarebbe posto in una posizione che l'avrebbe 84 Che cosa fecondi le messi, sotto quale stella convenga lavorare la terra, o Mecenate, legare gli olmi alle viti, quale cura dei buoi, come si curi l'allevamento delle pecore, quanta esperienza si debba dedicare alle api frugali, di qui inizierò a cantare. 85 Le cose comandate non dolcemente portato alla disattenzione verso tutto ciò che lo circondava. Geor. Teodicea , 121-124, 145-146: pater ipse colendi haud facilem esse uiam uoluit, primusque per artem mouit agros, curis acuens mortalia corda nec torpere graui passus sua regna ueterno. … labor omnia uicit improbus et duris urgens in rebus egestas.86 La legge di Giove non è altro che l'occasione di trovare e scoprire un nuovo senso tragico dell'esistenza. L'uomo deve essere attivo e non può intorpidirsi, pena cadere nell'aeternus (accidia), che viene ripreso da Orazio. È probabile che Orazio rispondesse a Virgilio, ma non è da escludere che i due avessero anche discusso su questo tema, appartenendo entrambi al circolo di Mecenate. Il lavoro è un'attività che deve eliminare la tendenza all'inattività totale, che può essere distruttiva per l'uomo. Bisogna agire per sopravvivere. L'opera magna di Virgilio è ovviamente l'Eneide. L'Eneide è un poema epico di natura storica, che racconta le vicende che vedono la fuga di alcuni troiani da Troia in fiamme e l'arrivo in Italia per insediarsi e dedurre la discendenza dalla quale nascerà Roma. La struttura dell'Eneide è una struttura che appartiene a uno dei pochi nostoi, o ad uno dei viaggi ad essi analoghi. Conta 12 libri, in quanto conta la metà di Iliade od Odissea. Vuole essere un'opera epica più compatta, ristretta e densa, rispetto alle due precedenti. L'opera viene divisa in due sezioni: una detta odissiaca ed una detta iliadica. La prima comprende i primi sei libri e riguarda essenzialmente dei viaggi. Si inizia con il naufragio a Cartagine e con i superstiti che raggiungono la reggia della regina Didone. Enea è separato dai suoi compagni. Didone gli chiede di cantare le vicende di Troia. Questo canto delle vicende di Troia canta i libri II e III. Si ha quindi un'analessi. Enea lavora come aedo o rapsodo, cantore poetico delle vicende epiche. C'è una distinzione tra gli aedi delle imprese eroiche altrui e di chi canta le proprie. Il punto di vista cambia profondamente. Con l'epica soggettiva c'è un'assunzione di responsabilità. È l'Eneide che racconta la vicenda del cavallo e di Laocoonte. Finito il III libro, Didone si innamora di Enea. Ella è vedova, giunta dalla Fenicia e insediatasi con uno stratagemma in un pezzo di terra del re Iarba. Didone, sempre devota all'ombra del marito Sicheo ucciso da Pigmalione, si nega al re Iarba, ma non si rifiuta ad Enea. C'è un equivoco di fondo; Didone è profondamente innamorata e considera quello con Enea un patto matrimoniale, ma 86 Lo stesso Padre Volle che fosse difficile la via della coltivazione e per primo Fece smuovere i campi con metodo aguzzando con le preoccupazioni gli intelletti umani E non permise che il suo regno si intorpidisse in una dannosa inerzia...Il duro lavoro e il bisogno che Preme nelle necessità, vincono ogni difficoltà. Enea non la pensa alla stessa maniera. Enea si trova di fronte ad una serie di esitazioni. Lui è stanco per il viaggio e la fuga. Da Troia sono arrivati in Tracia (Polidoro), poi a Creta (morte di Anchise), poi a Corfù e in Africa, con il naufragio causato da Giunone. Gli dei richiamano Enea all'ordine appena pensa di fermarsi. Enea, in un batti e ribatti drammatico con Didone, si giustifica e parte, causando il suicidio della donna, facendole giurare odio eterno con i discendenti di Enea, portando al motivo eziologico dell'odio tra Roma e Cartagine, anche se è storicamente incorretto87. L'Eneide è un poema intensamente intessuto di discorsi di diversi tipi. Ben più di un terzo del poema è costituito da discorsi; il dialogo, il confronto ed il dibattito sono centrali e primari. Questo fatto dà un maggiore spazio ai caratteri dei personaggi virgiliani, che sono psicologicamente ricchi rispetto a quelli omerici, soprattutto per quanto riguarda Enea, definito pius. La pietas era una relazione positiva verso la divinità e verso la famiglia. Enea è quindi una figura emblematica, pur non essendo un personaggio rigido, siccome è combattuto, commette colpe, è clemente e capace di odiare, si pone domande e obbedisce anche contro voglia. En . IV, 296-392: At regina dolos (quis fallere possit amantem?) praesensit motusque excepit prima futuros, omnia tuta timens. Eadem impia Fama furenti detulit armari classem cursumque parari. Saevit inops animi totamque incensa per urbem bacchatur, qualis commotis excita sacris Thyias, ubi audito stimulant trieterica Baccho orgia nocturnusque vocat clamore Cithaeron. Tandem his Aenean compellat vocibus ultro: «Dissimulare etiam sperasti, perfide, tantum posse nefas tacitusque mea decedere terra? Nec te noster amor nec te data dextera quondam nec moritura tenet crudeli funere Dido? Quin etiam hiberno moliris sidere classem et mediis properas aquilonibus ire per altum, crudelis? Quid? Si non arva aliena domosque ignotas peteres, et Troia antiqua maneret, Troia per undosum peteretur classibus aequor? Mene fugis? Per ego has lacrimas dextramque tuam te (quando aliud mihi iam miserae nihil ipsa reliqui), per conubia nostra, per inceptos hymenaeos, si bene quid de te merui, fuit aut tibi quicquam dulce meum, miserere domus labentis et istam, oro, si quis adhuc precibus locus, exue mentem. Te propter Libycae gentes Nomadumque tyranni odēre, infensi Tyrii; te propter eundem exstinctus pudor et, qua sola sidera adibam, fama prior. Cui me moribundam deseris, hospes (hoc solum nomen quoniam de coniuge restat)? Quid moror? An mea Pygmalion dum moenia frater destruat aut captam ducat Gaetulus Iarbas? Saltem si qua mihi de te suscepta fuisset ante fugam suboles, si quis mihi parvulus aula luderet Aeneas, qui te tamen ore referret, non equidem omnino capta ac deserta viderer»88 Didone viene definita una Thyias, ovvero un personaggio che mostra la sua tragica, disumana ira, dopo essere stata tradita dall'amante (v.305-306). Ci sono tre termini interessanti. Dissimulare implica il nascondere ed il rappresentare un'immagine di sé diversa dalla realtà. Enea secondo Didone è un ingannatore e mentitore, che ha mostrato un'immagine positiva di sé. Il vocativo perfide, da perfidus, mostra un'inversione di ruoli di quello che è l'immaginario romano. Nefas indica ciò che è illecito secondo la legge di natura. È una tragedia, ma non è un abominio. 87 Cfr. Garbarino, III.2, L'amante abbandonata e l'eroe epico 88 Ma la regina presentì – chi ingannerebbe un’amante? – e colse per prima le trame e le mosse future, già temendo quand’era sicura. La stessa empia Fama riporta alla furente che armavano la flotta, pronti a partire. Infuria smarrita nell’animo e ardente delira per tutta la città, come una Tìade eccitata al destarsi dei riti, quando udito Bacco la stimolano le orge triennali e la richiama con grida il notturno Citerone. Infine si rivolge per prima ad Enea con queste parole: «Speravi, o perfido, di poter dissimulare una tale infamia, e di allontanarti senza parole dalla mia terra? Non ti trattiene il nostro amore e la mano che un giorno mi desti, e Didone destinata a morire amaramente? Sotto le stelle invernali prepari la flotta, e ti appresti a prendere il largo in mezzo agli aquiloni, o spietato? Se tu non cercassi terre straniere e ignote dimore, e sopravvivesse l’antica Troia, andresti a Troia con le navi sul mare tempestoso? Fuggi me? Ti prego per queste lagrime, per la tua destra – poiché null’altro ho lasciato a me sventurata –, per il nostro connubio, per l’iniziato imeneo, se bene di te meritai, o qualcosa di me ti fu dolce, abbi pietà della casa che crolla, e abbandona, se ancora valgono le preghiere, questo pensiero. Per te le libiche genti e i prìncipi dei numidi mi odiano, sono ostili i tirii; si estinse, sempre per te, il pudore, e, sola per cui andavo alle stelle, la fama di prima. A chi mi lasci morente, ospite? (Questo è l’unico nome che mi resta dello sposo). Che cosa aspetto? Forse che il fratello Pigmalione distrugga le mie mura, o mi tragga prigioniera il getulo Iarba? Almeno se stringessi fra le braccia un figlio avuto da te prima della fuga, se giocasse per me nella corte un piccolo Enea che almeno richiamasse te nel volto, 330 certo non mi sentirei sorpresa e abbandonata del tutto». neve quis invitam cogeret esse suam: donec diversas praecurrens luna fenestras, luna moraturis sedula luminibus, compositos levibus radiis patefecit ocellos. sic ait in molli fixa toro cubitum: 'Tandem te nostro referens iniuria lecto alterius clausis expulit e foribus? Namque ubi longa meae consumpsti tempora noctislanguidus exactis, ei mihi, sideribus? O utinam talis perducas, improbe, noctes, me miseram qualis semper habere iubes! Nam modo purpureo fallebam stamine somnum, rursus et Orpheae carmine, fessa, lyrae; interdum leviter mecum deserta querebar externo longas saepe in amore moras: dum me iucundis lapsam sopor impulit alis. Illa fuit lacrimis ultima cura meis.'89 Properzio nell'elegia 1,3 dedica ampio spazio all'età dell'oro, un mondo di desideri e di aspirazione ideale. Il III libro del Corpus è un libro composito. Ci sono venti elegie, che a volte vengono divise. Due elegie sono forse tibulliane, poi ce ne sono sei di Ligamo per Neera, ma lo stile è molto diverso, tanto da essere attribuite ad Ovidio. C'è anche una sezione in esametri, un panegirico di Messalla, un testo caotico. Segue il ciclo di Sulpicia a Cerinto, ovvero 11 elegie compresi alcuni bigliettini, in cui una donna scrive ad un uomo. Questo terzo libro è quasi sicuramente un'antologia. Properzio è un assisiate, che scrive seguendo una struttura simile a quella delle Odi di Ovidio (3 libri, seguiti dopo anni un 4 libro). Properzio aveva concepito il primo come libro unico, che ha come punto centrale la figura femminile di Cinzia, il cui nome ha una natura apollinea. Prop. 1,1,1-4: Cynthia prima suis miserum me cepit ocellis, contactumnullis ante cupidinibus. tum mihi constantis deiecitlumina fastus et caput impositis pressit Amor pedibus90 Da questo tipo di exordium si ha una visione molto chiara. Cinzia determina in Properzio un amore dominante, che controlla tutto. Cinzia è anche la prima ed il suo dominio si estende senza data di conclusione. Questo è un amore carico di sofferenza e un amore che nasce attraverso il medium degli occhi, precedendo la linea cavalcantiana. Questo tipo di amore fa sì che Cinzia sia capace di gelosia, di arrabbiarsi in maniera feroce per i tradimenti e si ponga come una figura di matrona infedele, ma di donna di facili costumi, che è identificata come una donna di livello medio, non interessata al matrimonio. L'amore richiede un servizio totale, che l'uomo non è deciso a dare. L'aspetto sessuale è esplicito e chiarissimo, tanto da diventare quasi elemento centrale. Il fatto che l'amore sia totalizzante fa si che altri aspetti della realtà siano dimenticati. La guerra è ostile perché non lascia tempo per amare. L'esperienza dell'amore properziana e tibulliana è filtrata dal mito, che è usato come elemento di 89 Come la donna di Cnosso (e Teseo fuggiva sul mare) languida si giacque sul solitario lido; come la figlia di Cefeo il primo suo sonno dormì Andromeda, ormai sciolta dai duri scogli; e come la Baccante, che a lungo ha menato la danza, stanca si abbatte giù, sopra l'erboso Apidano: tale mi apparve Cinzia immersa in molle riposo, lieve spirante, il capo sulle malferme mani, allore che a tarda notte, i servi agitando le fiaccole, ebbro pe'l troppo vino trascinavo i miei passi. Non ero fuori di me del tutto, e provai a corcarmi piano piano nel letto, accanto alla giacente; e ben che doppia fiamma a me infondessero i Numi, Amore e Bacco insieme, divinità possenti, pur non osai passarle di sotto il mio braccio leggero e coprirla di baci, con l'arma pronta in mano; no, non osai turbare la dolce signora nel sonno, per timore dello scoppio dei ben noti furori: ma fermo la fissavo, con occhi immobili ed intenti, com'Argo un dì le corna misteriose d'Io. Ed or dalla mia fronte staccavo odorose corolle, ad inghirlandar le tempie, o bella Cinzia, tue; or godevo aggiustando i tuoi scomposti capelli, coi bei pomi di furto nel cavo della mano: tutte carezze che invano elargivo al tuo sonno profondo, carezze che dal seno si perdevano giù. E come da un fiato leggero saliva un sospiro, stupivo, immaginando qualche vano presagio: che un sogno ti turbasse con inconsuete paure, come se uno volesse farti per forza sua; fin che la luna salendo, la luna, nel tardo suo giro, s'affacciò col suo mite lume dalle finestre, e col suo raggio leggero t'aperse gli occhioni tuoi belli. Sul molle letto poggiando il gomito mi disse: "Ah finalmente ritorni a questo mio letto, poiché un'altra ti scacciò fuor dalle chiuse porte? Dove la lunga notte sciupasti, che m'era dovuta, già stanco tornando, ahi, al cader delle stelle? Perfido, che tu possa sì lunghe a amare le notti passare, come sempre, misera, tu fai a me! Un poco, ad ingannare il sonno, tessevo la porpora, e poi, stanca, toccavo la gran cetra d'Orfeo; e talvolta, ahimè sola, piangevo sommessa fra me, perché un altro amore sì spesso ti ritarda! Finché mi abbandonai all'ali gioconde del sonno; solo così cessò finalmente il mio pianto" 90 Cinzia per prima mi prese, perdutamente innamorato, coi suoi occhi, mai toccato prima dalla passione. Allora Amore abbassò gli occhi di ferma superbia e piegò il capo sotto il dominio dei suoi passi confronto dell'esperienza, usando le figure mitiche come paragone e serbatrici di similitudini. Il mito, però, non ha la sua autonomia. Prop. 1,7: Dum tibi Cadmeae dicuntur, Pontice, Thebae armaque fraternae tristia militiae, atque, ita sim felix, primo contendis Homero (sint modo fata tuis mollia carminibus), nos, ut consuemus, nostros agitamus amores, atque aliquid duram quaerimus in dominam;91 Properzio si rivolge a Pontico, poeta minore e suo amico. Cinzia è una donna bionda, di carnagione pallida, colta, intenditrice di musica, capace di schiacciare l'innamorato. Può essere sia dolce che crudele. L'innamorato è però dissimulatore e traditore. Il problema properziano è legato al fatto che la costruzione dei libri è legata ad un continuo richiamo interno. Il II libro mette in luce la volubilità di Cinzia ed il III il distacco. Properzio opera una recusatio, ovvero un rifiuto a comporre poemi più elevati in onore di Augusto. Morto Virgilio e aumentato il potere di Augusto, si arriva alla produzione del IV libro. Questo ultimo libro contiene 11 elegie in cui l'autore si vuole rappresentare come il Callimaco romano, ovvero viene preso il modello nascosto di tutta questa poesia latina. Doveva essere un poeta dotto, un poeta filologo e che parla di miti raffinati, ovvero sceglie la via eziologica, che sceglie la via delle origini di culti, mitologie e riti. Non sparisce Cinzia, anche se in una elegia si presenta come morta, venendo declassata da personaggio principale. Properzio è il poeta dell'integrazione difficile; era contrario a molte linee dell'ideologia augustea, anche se poi vi cede malamente, mostrando insoddisfazione. Publio Ovidio Nasone (43 a.C – 17 d.C) nasce a Sulmona e dalla provincia si reca a Roma, dove studia nelle scuole di declamazione. Ovidio pensa di dedicarsi all'avvocatura, ma poi si rivolge alla poesia. Riesce a entrare nei gruppi di Mecenate e Messalla, fino ad entrare in contatto con Augusto. Si sa che commette un errore. Il componimento poetico causa prima è l'Ars amatoria, che determina l'ira di Ottaviano Augusto. L'errore potrebbe essere aver nascosto una congiura oppure comportamenti poco riguardosi verso la figlia di Augusto, Giulia, oppure affiliazioni filo- repubblicane. Augusto lo esilia con la relegatio; con questo provvedimento non perde i diritti civili e politici e non perde le proprietà, quindi la moglie può restare a Roma e sopravvivere. Lui viene mandato a Tomi, sulla costa del mar Nero della Romania, al di fuori dell'impero romano, dove non si parla latino, ma getico e un poco di greco. Per Ovidio questa è una condanna terrificante e non riuscirà mai a tornare. Scrive una serie di opere dall'esilio, tra cui i Tristia e le Epistulae ex Ponto, in cui cerca di convincere amici, nemici e simpatizzanti di intercedere presso Augusto e Tiberio per farlo tornare a Roma. In esilio scrive anche l'Ibis in esametri contro un suo avversario ignoto. Si genera una letteratura sull'esilio ovidiano molto ampia. La prima fase ovidiana di composizione risale circa al 23 a.C, che vede la chiusura dell'ultimo libro di Properzio e dei primi tre libri di Orazio, e termina intorno al 2 d.C. In questa fase compone tutti testi di natura elegiaca. Gli Amores sono delle elegie amorose, una delle poche opere di cui si sa che ne fece due edizioni. Sembra un libro sulla falsariga di quelli tibulliani e properziani, il cui personaggio principale è Corinna. Prop, 2.1.1-4: Quaeritis, unde mihi totiens scribantur amores, unde meus veniat mollis in ore liber. non haec Calliope, non haec mihi cantat Apollo. ingenium nobis ipsa puella facit.92 C'è un alto grado di intertestualità. C'è un'elegia dedicata al pappagallo di Corinna, in cui si fa riferimento a due componimenti catulliani dedicati al passero di Lesbia. L'atteggiamento di Ovidio 91 Mentre tu narri, Pontico, della Tebe di Cadmo e delle tristi guerre tra i fratelli nemici, e ad Omero il primato, sia io felice come dico il vero, contendi (purché i fati secondino i tuoi versi) io come sempre inseguo il mio amore e ricerco qualcosa per la donna che dura mi soggioga, 92 Mi domandate da quale fonte io attinga tante volte per scrivere elegie amorose, da dove venga il dolce libro sulle labbra. Tali versi non me li canta Calliope e nemmeno Apollo. Una fanciulla ci stimola l'ispirazione è rimarcato dall'espressione tenerorum lusor amorum, ovvero un poeta che si diverte con i teneri amori. Il gioco viene rappresentato come un esempio di divertimento legato alle vicende amorose; l'amore non è serio, ma uno scambio di schermaglie. L'Ars amatoria è costituita da tre libri di esametri e nei primi due si consiglia come conquistare una donna e conservarne l'amore, mentre il terzo è per le donne. Il fatto che ci sia una così esplicita affermazione fa pensare che il carme sia stato interpretato negativamente. La struttura è sempre quella dell'attenzione al mondo del mito. È evidente una visione didattica, giocosa e parodica dell'amore propria delle scuole di proclamazione. I Remedia amoris e i Medicamina sono dei trattati di completamento all'Ars Amatoria. Quando si ama troppo è pericoloso. Il secondo serve alle donne per imparare come rendersi belle per gli uomini. 04.05.18 patruo alit illum. abdicatur.97 Si enuncia una legge in stampatello e poi un tema. Seneca cita poi una serie di retori che si sono occupati di quel tema. Le citazioni da lui usate sono di persone a lui contemporanee. Sembra rifarsi molto all'aspetto teatrale delle proclamazioni, quasi sostituendo il teatro che in età imperiale manca. I declamatori non sono soltanto quelli di Seneca retore, ce ne sono di minori e di uno pseudo Quintiliano. Il mondo declamatorio è un mondo a sé, in quanto è quello di chi si occupa di questioni processuali ed astratte, che non si curano minimamente della realtà stessa. Ci sono molti autori, come Seneca, Petronio e Quintiliano, che criticano queste scuole, siccome allontanano dalla pratica vera. Suas. 1: Deliberat Alexander, an Oceanum naviget. Foeda beluarum magnitudo et immobile profundum. testatum est, Alexander, nihil ultra esse, quod vincas; revertere98 Viene ripresa l'idea di terra piatta e di una massima che rimane invariata fino al Medioevo. L'idea che non esista nulla al di là dei limiti imposti dalla natura emerge nella letteratura con intenti geografici. Lucio Anneo Seneca è un filosofo nato intorno al 4 a.C e morto suicida nel 65 d.C. Seneca è una delle figure più note della letteratura latina. La sua esistenza comincia con una serie di studi, soprattutto a Roma. La sua famiglia è di origine italica, ma stabilitisi in Spagna, a Cordova. Uno dei fenomeni letterari di quest'epoca è il continuo reperimento di personaggi letterari provinciali. Seneca studia con personaggi di vario genere, come Attalo o Suzione e i due Sesti. I Sesti predicavano una vita ritirata, lontano dalle preoccupazioni politiche, una lontananza dalle passioni ed erano vegetariani. Seneca li segue, ma essendo un po' debole fisicamente, viene spedito dal padre in Egitto, dove si irrobustisce e rimane per ben undici anni da una zia ad Alessandria. Esistono opere frammentarie di Seneca sull'Egitto e sul Nilo. Quando ha già una certa età diventa questore sotto Caligola. Viene innalzato al senato nel 39. Seneca non si sa bene se avesse contatti con una donna della famiglia imperiale o tace rispetto a qualche congiura o tradimento. Caligola vorrebbe farlo assassinare, ma muore prima. Claudio lo fa esiliare in Corsica, che all'epoca aveva una città romana, ma all'interno una popolazione selvaggia, nemica dei romani e opposti a qualsiasi civilizzazione. Cerca di tornare in tutti i modi e resta in Corsica fino al 49. Cambia la moglie di Claudio, da Messalina si ha Agrippina, madre di Nerone. Agrippina vuole Seneca come precettore di Nerone e pretore. Nel 54 Claudio muore e il trono passa a Nerone, dopo l'assassinio di Britannico. Seneca si trova nella condizione ideale, siccome Nerone è un ragazzino ed il governo è esercitato da Seneca, Agrippina e dal prefetto pretorio Burro. Nei cinque anni seguenti si ha un periodo ideale. Sembra la situazione auspicata da Platone. Nerone, dopo la morte di Burro, comincia a ribellarsi, fino a far uccidere Agrippina. Seneca si ritira a vita privata. Tre anni prima di morire scopre la congiura dei Pisoni, di cui faceva parte anche suo nipote Lucano. Seneca riceve l'ordine da Nerone di suicidarsi. Si fa tagliare le vene a cicli, mentre parla di filosofia con chi lo circonda. Le sue opere vanno dal dialogo filosofico, all'epistola filosofia, all'opera naturalistica fino a quella teatrale. 11.05.2018 97 I figli sostentino i genitori o vengano incarcerati. Due fratelli erano in disaccordo fra loro; uno di essi aveva un figlio. Lo zio paterno cadde in povertà; contro la volontà del padre il giovane lo sostentò; diseredato per questo, tacque. Fu adottato dallo zio. Lo zio divenne ricco per aver ricevuto un'eredità. Il padre cominciò ad essere bisognoso: contro la volontà dello zio lo sostentò. Viene diseredato. 98 Alessandro riflette se navigare l’Oceano. I Dialoghi sono delle opere filosofiche che assumono una forma particolare; non sono veri dialoghi come quelli platonici o ciceroniani, ma piuttosto sono dei dialoghi dove l'interlocutore principale parla con un interlocutore fittizio con una fisionomia non definita e che gli pone delle obiezioni. Sono dialoghi di natura non drammatica, ma filosofica e sono quasi trattati, in cui si genera la conoscenza da una serie di affermazioni, esempi e discussioni. C'è una tradizione di questo genere che si chiama diatriba con dei collegamenti con i cinici greci. La diatriba è una disputa su luoghi filosofici, ma anche questioni molto reali, come sul modus vivendi, che hanno una matrice sia stoica sia cinica. Il cinismo viene dalla parola greca kuron da Diogene il Cane, chiamato così perché viveva sulla strada, privandosi di qualsiasi agio. Il cinismo è una corrente filosofica che punta all'essenzialità totale dei comportamenti, alla privazione di qualsiasi cosa non sia necessaria e contiene una carica estremistica ed eversiva della realtà. Il filosofo cinico non vuole rimanere nei sistemi di vita consueti della società greco-romana e che punta alla rivelazione senza alcuna moderazione. I cinici diventano delle macchiette che vengono prese in giro perché sono considerati filosofi sporchi e mal parlanti, diventando il simbolo del filosofo perditempo che non fa nulla di utile per la società. Tuttavia è una corrente che porta delle domande sulla realtà prive nelle altre correnti, assieme ad una libertà di parola straordinaria. I Dialoghi di Seneca sono in 12 libri giunti quasi integralmente. I Dialoghi sono divisi in: Tre consolationes; quando Cicerone perde la propria figlia Tullia rivolge una consolatio a se stesso per convincersi a sopportare il dolore. Il genere consolatorio è di origine greca e presenta una serie di topoi, come la morte che non è la fine di tutto, il dolore che è un evento accidentale e che si può trasformare in qualcosa di non tragico, la consapevolezza che le anime vivono anche nella morte, ecc. Seneca applica questa topica dell'argomento a tre figure che vengono da lui consolate. Marcia, Ellia e Polibio, un liberto di Claudio. La consolatio ad Ellia è per sua madre per la sua mancanza durante la relegazione in Corsica. Sviluppa, attraverso un invito alla madre al non lamentarsi, un discorso sul cosmopolitismo. La casa del sapiente è il mondo. La consolatio a Marcia sviluppa il problema della perdita dovuta agli eccessi. La consolatio a Polibio pare più sgradevole, perché è un tentativo per accattivarsi il liberto di Claudio, che si serviva di questi liberti come ministri, per poter ritornare a Roma e per avere il condono dell'esilio. Dei providentia: il pensiero stoico è un pensiero filosofico che considera centrale un logos immanente nella realtà. Tutto quello che appartiene alla realtà ha dei semi del logos. Questo comporta il fatto che tutti gli enti, anche gli uomini, sono dotati di questi semi di razionalità. Seneca poi li spiega nell'epistola 47 a Lucilio. Se esiste un logos immanente alla realtà, tutta questa si sviluppa esattamente come deve. Le cose vanno come devono andare e questo implica una posizione di natura deterministica. Ma questa posizione è la cifra dell'esistente si ha come conseguenza l'esistenza di una provvidenza, ovvero un elemento di fato che fa si che le cose vadano come devono andare. Questo dialogo nasce sulla necessità di rispondere ad una domanda, ovvero perché i buoni soffrono? Perché i malvagi sono felici? La risposta senecana è bivalente e si compendia nell'espressione marcet sine adversario virtus.99 La sofferenza dei buoni si esplica nella prova del logos nei confronti dei buoni in quanto devono sviluppare dalla prova la possibilità di essere ancora più virtuosi. È una posizione che molti interpreti moderni non trovano soddisfacente. In Seneca si ha un'ambivalenza tra il problema del fato ed il suo agire nella realtà e la presenza della fortuna, che ha una frequenza altissima nel pensiero senecano. Dal punto di vista stoico nulla avviene per caso. Quando Seneca parla di fortuna identifica un elemento identico al fato e che allo stesso tempo schiaccia l'esistenza dell'uomo. Soggettivamente l'uomo le si ribella. Molte volte l'uomo crede che sia fortuna quello che oggettivamente è fato. Si ha il ritorno quindi del ritorno di uno dei problemi capitali della filosofia, ovvero il conflitto tra oggettivo e soggettivo. De tranquillitate animi: La felicità consiste nella conquista della virtù tramite la sapienza, 99 La virtù senza qualcuno che le si opponga marcisce, perde qualità. che Seneca descrive come un obiettivo. Seneca dice di essere un proficiens, ovvero una persona che ha fatto dei progressi sulla via della sapienza, ma non è un sapiente perfetto. Questo sarà lo spirito delle lettere a Lucilio. Le virtù sono un fatto interiore, ma essendo tali esse fanno sì che il sapiente stoico perfetto sia tutto rivolto a se stesso. Ma se tutto è rivolto a se stesso, le relazioni con il mondo che sono innegabili non sono primarie, poiché sono perturbanti della via verso la sapienza. Disturbano le passioni, i grandi sentimenti, che non si possono negare e sono tipiche degli uomini, ma non sono primarie e non devono ostacolare. L'immagine del sapiente perfetto è terrorizzante, siccome è quell'uomo che cammina imperturbabile in una città in fiamme. Per questo lo stoico non è compassionevole. Lo stoicismo non è ostile all'attività pubblica, ma è ostile al farsi dominare da essa. De Otio: l'otium è un elemento fondamentale. È il momento in cui ci si allontana dall'attività del guadagno per la sopravvivenza e ci si dedica a se stessi. L'otium deve essere garantito sia dall'economia sia dalla securitas. De brevitate vitae e Sapiens: il principio del dialogo è quello per cui molti si lamentano della brevità della vita, non accorgendosi che essa non lo è se la si sa sfruttare. Emerge il problema del tempo e Seneca lo sviluppa, ponendo il problema della qualità del tempo. Il tempo è un'entità che si deve utilizzare bene perché scivola tra le dita, perché fugge, ma allo stesso tempo va utilizzato tenendo conto degli errori che si commettono. Bisogna mettere in chiaro quello che si fa e rendersi conto che si spreca il tempo. Seneca introduce una dicotomia molto interessante e giusta, ovvero la distinzione tra oziosi ed occupati, nel senso latino dei termini. Gli oziosi sono quelli che si impegnano verso se stessi, mentre gli occupati sono coloro che si fanno prendere dagli impegni esterni e che vivono solo perché qualcuno li ritiene importanti e li sfrutta in un contesto più di utilità pubblica, ma che gli impedisce di essere al servizio verso se stessi. De Ira: è un trattato sulla passione più terribile che può provare l'uomo. L'ira è una pazzia di breve durata ed è la cifra della sua connotazione molto radicale. Se l'ira è pazzia ha una struttura irrazionale e per questo va combattuta. Questa irrazionalità ha una serie di conseguenze funeste dal punto di vista delle relazioni pubbliche. L'ira va studiata, combattuta e controllata come tutte le passioni. È quella che spaventa di più perché può generare percezioni di odio, che è durevole, a differenza dell'amore. Seneca sottolinea l'aspetto della necessità di un esame di coscienza e lo fa seguendo l'esempio di Sestio. L'esame di coscienza è una sorta di dialogo con se stesso. C'è l'idea allegorica della luce, che continua nella sua coscienza. La confessione arriva per forma scritta, ma prima serve la conquista di interiorità. De clementia, De beneficiis, De naturalis quaestiones: Sono tre trattati non legati ad un metodo dialogico ed aprono una prospettiva più ampia di conseguenze. Il primo è un libro mutilo, ma non si sa se lo sia per una perdita o per un'arresa di Seneca nella composizione. È stato scritto per Nerone ed è uno speculum principis; è un trattato di natura politica che dovrebbe fungere da modello di comportamento per l'imperatore. Esistono dei trattati ellenistici sull'essere re. Seneca vuole ragionare su quali siano le virtù del buon governante e che Nerone le assimili. Secondo Seneca non è la giustizia ad essere la fonte prima delle virtù. Seneca partendo dal punto di vista ellenistico, sostiene che la virtù centrale sia la clemenza, l'atto con cui il re si dimostra condiscendente nei confronti dei sudditi, rompendo il principio di eguaglianza collegato alla giustizia. I romani, però, non possono sopportare questa rottura. Seneca cerca di far discendere dalla clemenza tutta una serie di conseguenze. L'imperatore deve assicurare al suddito la securitas, la tranquillità, così che possa prosperare ed avere un otium sereno, ma questo porta alla repressione di chi minaccia la securitas. Seneca usa un paragone straordinario nella sua tragicità; il sovrano è come un medico per lo stato. Quando qualcuno si oppone all'imperatore è legittimo eliminarlo, ma così si elimina qualsiasi senso alle istituzioni repubblicane. Così facendo, però, si va verso l'autocrazia. I romani non accettano il Nerone dominus. Questa è una visione molto platonica della realtà politica, perché Seneca vuole essere il filosofo che trasforma il re in un re filosofo. Lo Seneca è un filosofo, che ama trovare gli elementi di verità anche dove non ci sono e non si preoccupa dei confini di scuola e non crede che sia una questione di appartenenza. L'ultimo gruppo di opere di Seneca sono le tragedie; si ritrova il teatro, che di fatto dopo Plauto e Terenzio il teatro comico conosceva solo delle forme misere e quello tragico era solo frammentario. Nei manoscritti di Seneca si trova una serie di tragedie, dieci, che appartengono a due gruppi: le cothurnatae e la praetexta, l'Octavia, che racconta la vicenda di questo personaggio destinato ad una triste ed amara sorte di persecuzione e morte. Le altre sono cothurnatae di argomenti mitologici, che includono i miti più famosi come quelli di Ercole, Troia e Tebe, fino ai miti di Atreo. Sono miti piuttosto truci e caratterizzati da una certa oscurità e ricerca espressionistica di espressioni truculente. Il primo problema è dato dalla loro autenticità, in quanto quasi sicuramente l'Octavia non è di Seneca, per diversi motivi: Tra i personaggi compare l'autore e per i principi senecani non è accettabile Si nomina la morte di Nerone, avvenuta tre anni dopo quella di Seneca Nerone è rappresentato come un tiranno sanguinario, ma Seneca non lo raffigura mai in maniera così esplicita Il lessico è influenzato dalle scuole di proclamazione Anche la tragedia di Ercole morente per il sangue dell'Idra di Lerna è interessante, in quanto alcuni particolari stilistici e la lunghezza fanno mettere in dubbio la sua senecanità. Anche la Phoenissae ha dei problemi similari. Le tragedie più famose di Seneca sono la Medea e la Fedra. Il teatro di Seneca propende più per la lettura che non per la rappresentazione. L'opera di Seneca mette quasi sempre in scena delle figure che hanno connotati tirannici. Nella Medea questi ultimi sono tenuti da Creonte. Il tiranno è una figura che viene esecrata nella filosofia stoica. Lo stoicismo ammette pur nella sua base monarchica il tirannicidio. Se il monarca diventa tiranno ed ostile alla securitas si può uccidere senza commettere illeciti. Ci sono alcuni elementi sia per la rappresentazione sia per la lettura; per la lettura c'è la violazione di alcune regole grammatiche (scene tragicamente truci che andrebbero solo riferite; es. uccisione dei figli nella Medea), la violazione di alcune regole politiche (la rappresentazione dei tiranni), le tirate declamatorie (lunghi discorsi pronunciati dai personaggi, che sviluppano temi diversi che sono poco distanti dalle declamazioni). Per la rappresentazione ci sono le epistole che le testimoniano e tre di esse in particolare dimostrano che sono rappresentabili. Zwierlein ritiene che fossero delle opere recitabili, non in teatro, ma in un ambiente più piccolo, con un pubblico selezionato, in un contesto scenico assente e un'attenzione incentrata sul racconto. Questo aspetto è stato fortemente discusso, tanto che l'ultimo interprete di Seneca, Thomas Kohn, ha affermato che non si può pensare alla tragedia di Seneca senza pensarla drammatugicalmente. Per interpretarla come testo di didattica dell'anti-tirannia bisogna pensare che Seneca le abbia composte negli anni in cui era precettore di Nerone, dal 54 in avanti. Quindi i tiranni non sarebbero Nerone, ma altre figure esemplari. Se fossero state composte dopo l'allontanamento da Nerone, i tiranni nasconderebbero Nerone e sarebbero un'azione di opposizione. Il verso dal punto di vista dello stoico non è tanto distante dall'idea di Lucrezio. La poesia crea emozioni, che distraggono, la quale porta all'allontanamento dalla sapienza. Sembrerebbe più probabile una prospettiva didattica ed una retrodatazione delle tragedie. C'è da dire che si è tentato di datare le tragedie sulla base di altri elementi, che funzionano per altri scrittori come Euripide, ma che non funziona per Seneca. Si è tentato di identificare una serie di allusioni storiche o citazioni storiche, ma tutto ciò che si trova in Seneca è generico. La datazione è, quindi, del tutto ipotetica. Sen. Med . vv.167-176: Medea ha ricevuto la notizia che verrà abbandonata da Giasone, il quale sposerà la figlia di Creonte, nonostante abbia avuto da lei due figli. Il numero delle righe non corrisponde al numero dei versi. Il verso non corrisponde agli scambi di battuta. Non c'è una battuta che equivalga ad un verso. Un verso spezzettato, sticomitia, determina un effetto di concitazione, si viene interrotti continuamente. I primi due versi comportano una costruzione contigua di parola contro parola e verbo contro verbo. Medea sostiene di assumere il ruolo letterario, non quello di personaggio, quindi quello di infanticida. È una presa di coscienza tragica all'ennesima potenza. I versi 175-176 sono due sententiae adattate al verso con valore proverbiale. La prima sostiene che bisogna adattarsi al contesto in cui si agisce, mentre la seconda sostiene come la fortuna possa togliere qualcosa alla persona, ma non quello che gli è proprio, in questo caso il coraggio. Medea viene condannata ad agire come infanticida. Lo stile insiste molto sui pronomi, sulle allocuzioni, sul rivolgersi a se stessi. Si rivolge sia allo stile dell'interiorità sia a quello della declamazione. La fortuna di Seneca della cultura europea è abbastanza vasta. Ci si ispira a lui sia nei drammi di Shakespeare sia nella Medea di Corneille. Anche Alfieri lo riprende nella sua Ottavia del 1783. Anche dal punto di vista filosofico, Seneca è l'emblema del collegamento tra filosofia e potere e Diderot lo ritiene centrale. Nel Novecento Seneca viene letto secondo tre coordinate principali: Esempio di razionalista, che si pone una serie di domande sul senso dell'esistenza, sul rapporto della persona e della realtà, che gli permettono di dialogare con il pensiero cristiano e la filosofia esistenzialista. L'uso di frasi brevi e di facile memorizzazione Diventa anche l'occasione di avere dei modelli di raffigurazione teatrale violenta, dura e cupa. La poesia di età imperiale è molto ricca e variegata. Fedro è un autore schiavo, come Plauto e Terenzio. Vive in età augustea. La sua opera è pubblicata dopo il 31 e durante il regno di Tiberio. È quasi un contemporaneo di Seneca. Sono arrivati cinque libri di favole (circa 100) più l'Appendix Perottina, che è una sezione di favole di trentadue componimenti non presenti negli altri libri di favole, unite ad altre favole di Niccolò Perotti scritte nel 1470 per il nipote e ad alcune traduzioni di favole greche. La favola di solito mette in scena degli animali antropomorfizzati e può presentare una o due parti moralistiche (promythion od epimythion, in base se sono prima o dopo). Sono in senari giambici. La favola non è che un testo analogo alla rappresentazione teatrale che era consacrata ad una tradizione più ampia e non ad un intento didascalico. Le favole nei libri hanno dei prologhi teorici. Per Fedro sono stati gli schiavi ad inventare la favola, diventando la voce di chi non ha voce. Si discutono concetti di natura anche filosofica in maniera molto semplice ed immediata, rappresentando la voce estremamente pessimistica degli emarginata. Chi governa sono i più forti, è estremamente difficile cambiare la realtà e spesso i cambiamenti sono in negativo. Tramite gli esempi si può imparare a guardarsi le spalle, ad avere la meglio sugli altri, a superare le difficoltà. Prologo: Aesopus auctor quam materiam repperit, hanc ego polivi versibus senariis. Duplex libelli dos est: quod risum movet et quod prudenti vitam consilio monet. Calumniari si quis autem voluerit, quod arbores loquantur, non tantum ferae, fictis iocari nos meminerit fabulis102 Si definisce l'origine dell'argomento. Nel secondo verso c'è un verbo particolare (polivi – expolire); Fedro è uno scrittore raffinato che scrive usando un verso complesso da commedia. Libellus è un probabile riferimento catulliano. Gli elementi di autodifesa non sono tanto l'uso di modelli precedenti quanto più lo statuto stesso di favola. Si mette in campo la questione della rappresentazione fittizia di quanto viene descritto. La finzione agisce su un piano che mette lettore e scrittore dalla stessa parte, ma agisce su un piano diverso quando il lettore accetta che quanto viene letto sia realtà. Nelle favole parlano piante ed animali, quindi si hanno una fantasia ed una finzione assolute. Favola lupo e agnello: Ad rivum eundem lupus et agnus venerant, siti compulsi. Superior stabat lupus, longeque inferior agnus. Tunc fauce improba latro incitatus iurgii causam intulit; 'Cur' inquit 'turbulentam fecisti mihi aquam bibenti?' Laniger contra timens 'Qui possum, quaeso, facere quod quereris, lupe? A te decurrit ad meos haustus liquor'. Repulsus ille veritatis viribus 'Ante hos sex menses male' ait 'dixisti mihi'. Respondit agnus 'Equidem natus non eram'. 'Pater hercle tuus' ille inquit 'male dixit mihi'; atque ita correptum lacerat iniusta nece. Haec propter illos scripta est homines fabula qui fictis causis innocentes opprimunt.103 La verità viene spezzata, frantumata dalla forza; l'evidenza non ha peso di fronte alla violenza. Il concetto di giustizia, di mancanza di falsità e di bisogno che prevarica su giustizia e libertà sono centrali. Questa favola viene recuperata dalla riproposizione delle favole di Fedro di La Fontaine, che utilizza la favola come mezzo di satira, e di Trilussa, fino a Gadda. La Fontaine traspone l'epimythion a promythion. Si hanno molti elementi aggiuntivi rispetto all'originale di Fedro. Il mutamento più importante ed interessante è l'epiteto di Vostra maestà. L'inferiore non è tale solo perché è tale rispetto al ruscello, ma anche a livello sociale, in quanto più debole e puro rispetto al lupo, il re, malvagio e violento. L'agnello nella trasposizione di Trilussa è più intelligente del lupo, che non riesce a convincere delle sue tesi l'agnello. Trilussa fa riferimento sia a Fedro sia a La Fontaine in modo esplicito. Gadda introduce 102 Esopo è l’autore che inventò l’argomento Io l’ho espresso in versi senari. Il libretto ha due doti: fa ridere e insegna con saggezza a vivere. Se poi qualcuno vorrà rimproverarmi perché anche gli alberi parlano e non solo gli animali Si ricordi che noi stiamo giocando con racconti fittizi 103 Un lupo e un agnello, spinti dalla sete, vanno allo stesso ruscello. Il lupo sta più in alto e, un po' più lontano, in basso, l'agnello. Allora il malvagio, incitato dalla gola insaziabile, cerca una causa di litigio. "Perché - dice - mi hai fatto diventare torbida l'acqua che sto bevendo?" E l'agnello, tremando: "Come posso - dice - fare quello che lamenti, lupo? L'acqua scorre da te alle mie sorsate!" Quello, respinto dalla forza della verità: "Sei mesi fa - aggiunge - hai parlato male di me!" Risponde l'agnello: "Ma veramente... non ero ancora nato!" "Per Ercole! Tuo padre - dice - ha parlato male di me!" E così, lo afferra e lo uccide dandogli una morte ingiusta. Questa favola è scritta per quegli uomini che opprimono gli innocenti con falsi pretesti. Mar. Ep . I,4,8: Lasciva est nobis pagina, vita proba110 Si pone un problema importante, ovvero la relazione tra arte e vita. L'opera d'arte può essere dissociata dall'etica. Ci si può comportare in maniera lontana da ogni rimprovero. Mar. Ep . 2,20: Carmina Paulus emit, recitat sua carmina Paulus. Nam quod emas, possis iure vocare tuum.111 C'è l'attacco contro i poeti di scarso valore. Paolo è un poeta che non sa scrivere e compra ciò che non sa fare e lo chiama suo. Dal punto di vista tematico ci sono tantissimi elementi: dai ritratti e i vizi alla vita grama del cliente. C'è anche un forte plurilinguismo con il greco. Questa capacità ha un carattere anche sperimentale. Riesce a trovare una serie di accenti molto delicati. Ci sono degli epigrammi di funerari particolari (5.34 e 5.37). Montale nei Satura del 1970 intitola due sezioni come Xenia I e Xenia II. Mar. Ep . 13, 3, 5-6: Haec licet hospitibus pro munere disticha mittas / si tibi tam rarus quam mihi nummus erit.112 La battuta è diretta a se stesso. Se un poeta scrive manda le poesie come doni al posto dei regali materiali. Anche in Catullo torna questo tema nell'invito a cena di Fabullo. Il tema centrale è la mancanza di denaro del poeta. Quintiliano vive tra il 35 ed il 96 ed ha origini simili a quelle di Marziale. È un insegnante di scuola e vive sotto Galba, imperatore proveniente dal Portogallo (Lusitania). Continua il suo lavoro anche con i Flavi. È il primo professore assunto dallo stato. Ha anche il compito di istruire i figli dell'imperatore. Con lui nasce la prima scuola di stato. Scrive due opere, di cui una è andata persa, ovvero il De causis corruptae eloquentiae, e uno che c'è ancora, ovvero l'Istitutio oratoria. Gli sono attribuite anche due raccolte di orazioni complete. Le prime sono di autori diversi, mentre le seconde possono essere quintilianee, ma sono per lo più degli appunti di scuola, delle orazioni che dovevano essere discusse dagli studenti a scuola. L'Istitutio oratoria è dedicata ad un funzionario ed è introdotta da una promessa all'editore, Trifone. Si ha un'attenzione al mercato editoriale, che era presente già in Cicerone ed Attico, ma non in maniera così esplicita. Sono XII libri, un manuale di ampio respiro. Questo è un manuale di formazione ed è una risposta anche formativa alla crisi dell'eloquenza. Nell'opera perduta tratta un tema che si sviluppa molto nella sua epoca, in quanto esiste la convinzione che molte fonti concordano, sulla crisi dell'eloquenza, che però viene ascritta a motivazioni diverse. Per Quintiliano la causa è nell'organizzazione delle scuole. Quintiliano comincia nei primi due libri con un vero e proprio trattato pedagogico, in cui tratta la formazione dell'infante e del fanciullo. Per Quintiliano è meglio un tipo di scuola in cui il fanciullo incontra anche altre persone con cui possa interagire, rispetto alla scuola domestica. Il maestro deve essere scelto con accuratezza, stessa cosa deve avvenire con le letture. Nei libri successivi si ha più il senso dell'ars dal III al VII in cui si tratta l'inventio e la dispositio. Nei libri dall'VIII al X si tratta l'elocutio. Nel X elenca gli autori che l'oratore deve conoscere e leggere. Quintiliano viaggia su una linea ciceroniana della cultura. Questi autori scelti da Quintiliano sono disposti in una comparazione tra greci e romani, creando una sorta di storia della letteratura ante litteram, quasi un sillabus universitario. Nell'XI libro tratta la memoria e l'actio. Si concentra sulla gestualità e sulla voce, citando molte fonti di teatro. Il XII libro tira un po' le somme ed esplica il ruolo dell'oratore, che Quintiliano modella secondo una formula già presente in precedenza. 110 Lasciva è la mia pagina, ma onesta la vita 111 Paolo compra i suoi carmi, Paolo declama i suoi carmi. Infatti quello che compri puoi a buon diritto chiamarlo tuo 112 Puoi mandare agli ospiti questi miei distici in luogo dei doni, / se sarai, come me, a corto di denaro. Quint. Inst. 12, 1, 1: Sit ergo nobis orator quem constituimus is qui a M. Catone finitur vir bonus dicendi peritus, verum, id quod et ille posuit prius et ipsa natura potius ac maius est, utique vir bonus.113 Si rifà ad un modello catoniano con influenze ciceroniane. C'è nell'oratore sia l'elemento etico del vir bonus sia l'elemento tecnico. Sembra quasi contraddirsi. L'essere vir bonus ha delle caratteristiche diverse. Per Cicerone voleva dire essere un uomo onesto rispetto alla repubblica, mentre per Quintiliano è chi collabora con l'imperatore. L'elemento fondamentale è dato da una collaborazione con il potere. Al tempo di Cicerone l'oratore era parte del potere (poteva essere eletto console), mentre ora ne è solo espressione. Si ha un passaggio dall'orator politicus all'imperator politicus. Essere come Cicerone dal punto di vista qualitativo andava bene, ma bisognava agire in modo diverso dal punto di vista delle relazioni sociali. Quintiliano dà giudizi su Seneca circa 25 anni dopo la morte di Seneca. Quintiliano lo rispetta, ma non lo tratta benissimo. A Quintiliano non va giù che piaccia tanto ai giovani, mentre Cicerone no. Viene apprezzato perché pur essendo uno scrittore di valore, era apprezzato per i difetti, ovvero lo scandagliare l'animo in maniera innovativa. Il canone qui viene creato anche con un anti-canone a distanza di pochissimo tempo. Galand-Hallyn descrive Quintiliano come un modello per i pedagoghi, i grammatici, gli oratori e i poeti. Tra gli autori del I secolo ci sono Plinio il Vecchio (23-79) e Plinio il Giovane. Plinio il vecchio fu il massimo naturalista di Roma con la sua Naturalis Historia in 36 libri, che nel Medioevo fu una delle massime fonti della scienza antica. È un testo che ha alcune caratteristiche interessanti dal punto di vista bibliografico. È un'enciclopedia che ha come fine fare un catalogo di tutte le cose del mondo. L'oggetto della sua opera viene esplicitato nella praefatio. Parla di botanica, di zoologia, di mineralogia, di metallurgia e di storia dell'arte. Si occupa anche di geografia, soprattutto di quella dell'impero, di fisica e di astronomia, fino ai mirabilia. I mirabilia mundi sono tutti quei fatti, oggetti, popoli e figure degni di ammirazione e che costituiscono curiosità, tanto da incoraggiare l'approfondimento, lo studio ed il viaggio. La cosa importante è che è il primo libro con un indice analitico. Nat. His. 1.1: An finitus sit mundus et an unus de forma eius de motu eius. cur mundus dicatur de elementis de deo.114 Un elemento curioso è che all'indice analitico seguano le fonti. Si ritiene che in alcuni casi le fonti siano inventate. Plinio è noto anche perché era l'ammiraglio della flotta imperiale di stanza vicino al Vesuvio. Mette in mare le sue navi sia per prestare aiuto sia per studiare il vulcano, che sarà la causa della sua morte. Della sua sorte restano due lettere del nipote dirette allo storico Tacito, in cui racconta la morte dello zio ed il tentativo di salvataggio. Plinio il giovane (61-113) è un aristocratico. È un letterato e si trova a svolgere una carriera oratoria e collabora con il potere. Diventa console nel 100 e nel 111 diventa governatore della Bitinia. Lascia un epistolario molto ricco, modellato su quello ciceroniano. Ha una fitta corrispondenza con l'imperatore Traiano, in cui si trattano diversi temi. Si hanno anche le risposte dell'imperatore. In una lettera chiede all'imperatore come comportarsi riguardo le delazioni nei confronti dei Cristiani. Plinio sa che la questione dei cristiani è delicata soprattutto per la questione dei delatori, che denunciavano più o meno finte congiure agli imperatori perché venivano ricompensati con una 113 L’oratore che mi sono riproposto di formare con i miei insegnamenti deve essere quindi un uomo perbene esperto nell’arte del parlare, secondo la definizione di Marco Porcio Catone. 114 [I quesiti del libro sono] se il mondo sia finito e se sia uno, la sua forma, il suo moto; perché è detto “mondo”, gli elementi e gli dei. parte dei beni requisiti ai cristiani. L'uso dei delatori era diventato eccessivo sotto Domiziano. Gli imperatori successivi non vorranno nemmeno parlare di delatori. L'imperatore risponde a Plinio di non tenere conto delle denunce anonime e di interrogare gli accusati. Plinio lascia due opere: Un'orazione epidittica nota anche come Panegirico a Traiano, un testo che elogia l'imperatore e che gli particolarmente lustro. Da questo trasuda la consapevolezza dell'ineluttabilità del potere imperiale. Le tesi che emergono sono chiaramente riferite al principio già espresso da Seneca, per cui la virtù politica per eccellenza è la moderatio. Il principe è superiore agli altri, ma questa superiorità fa si che non sia strutturalmente un richiamo alla diversità. Il principe è sempre un uomo e non una divinità o un padrone. L'opera è molto simile al De Clementia per l'aspetto dello speculum pricipis. La cosa interessante è che Plinio cerca di salvaguardare il senato della Roma antica. Picone osserva di un accordo anomalo, per cui l'imperatore dispone di armi e leggi, mentre il senato solo del proprio glorioso passato. L'epistolario. Sono X libri, nove di lettere inviate a ben 105 destinatari e composte tra il 97 ed il 100. Lui stesso le pubblica e le seleziona, creando un corpus di lettere pensato per la pubblicazione, a differenza di Cicerone e Seneca. La controprova viene dalla Prima lettera del Libro I. Lo stile epigrammatico è frequente. Ci sono sia lettere brevi sia molto lunghe. Ep. I,1: Frequenter horatus est, ut epistulas, si quas paulo curatius scripsissem, colligerem publiquaremque. Collegi non servato temporis ordine – nequim enim historiam componebam – sed ut quaeque in manus venerat.115 Il primo paragrafo implica che chi costruisce la raccolta è lo stesso autore. Tutto ciò che è scisso in Cicerone è unito in Plinio. Le lettere sono raccolte in ordine non cronologico, ma secondo un criterio che raggruppa per ordine tematico o destinatario. Modello: 'Est enim' inquam 'mihi cum Cicerone aemulatio, nec sum contentus eloquentia saeculi nostri; nam stultissimum credo ad imitandum non optima quaeque proponere.116 C'è la simulazione di un dialogo, con un dativo di possesso. Plinio ripropone i temi della aemulatio e della imitatio. Cicerone è il modello fondamentale, perché è optimus. Imitare l'eccellente significa canonizzarlo e creare un indice di valore. Cicerone viene canonizzato come autore di riferimento. L'Epistolario è un modello per Sant'Agostino e Petrarca. Svetonio Tranquillo è un personaggio apparentemente appartato. Vive tra il 70 ed il 140. Fu un funzionario imperiale, che vantava di grande rispetto da parte di Plinio. Fu responsabile della corrispondenza dell'imperatore. Prendeva parte ai circoli più ristretti delle amicizie dell'imperatore e aveva accesso ai documenti più privati degli archivi imperiali. Viene cacciato dalla corte nel 122, forse per una troppa vicinanza alla moglie di Adriano. Lascia due opere: De viris illustribus, cinque libri su poeti, oratori, storici, filosofi, grammatici e retori. Rimangono solo alcune parti dell'opera dei grammatici e retori, più alcune schede di Plinio, Orazio e Virgilio. Queste vite avevano delle biografie sintetiche. Si cerca di avere dei punti di riferimento sotto il profilo letterario, identificando le figure più importanti della loro epoca. De vita Caesarum, le biografie dei primi dodici imperatori: Cesare, Augusto, Tiberio Caligola, Claudio, Nerone, Galba, Otone,Vitellio, Vespasiano, Tito, Domiziano. Si vede l'unione della famiglia Giulio Claudia. Si sottolinea il peso della figura di Augusto. Le 115 Mi hai incoraggiato spesso a raccogliere e pubblicare le mie lettere, quelle che potevo aver scritto con un po' più di stile. Le ho raccolte non mantenendo l'ordine cronologico – infatti, non scrivevo una cronaca – ma come mi venivano tra le mani. 116 Infatti è vero, io soggiunsi, che presi ad emulare Cicerone, né sono contento della eloquenza del mio secolo; poichè io penso che sia solenne pazzia il non prendere ad esempio i migliori. rischio. Potrebbe essere un obiettivo per l'arrivo dalla securitas, ma un rischio nella rinuncia totale ai benefici di una civiltà organizzata. La Germania fu uno dei testi più letti. Le teorie pangermaniste e le teorie hitleriane fanno sì che la Germania di Tacito ne diventasse un testo fondante. Quando ne viene scoperto un manoscritto il nuovo governo Nazista agisce per l'acquisto dal Regno d'Italia. Dopo l'8 settembre del 1943 Hitler manda le SS a fare incetta di tutto quello che può avere a che fare con questo manoscritto, che non viene trovato, in quanto accuratamente nascosto. L'Agricola; è un'opera complessa, una sorta di biografia che contiene anche molti altri elementi di generi letterari diversi. È la biografia del suocero di Tacito, che fu uno dei più capaci generali dell'età dei Flavi e fu colui che represse le sollevazioni in Bretagna, cancellando i tentativi di ribellione dei Caledoni. Nell'Agricola ci sono quindi elementi di storia, etnografia e di elogio funebre. Quando Agricola rientra a Roma viene fatto oggetto della gelosia di Domiziano. Tacito sembra dare adito alla voce che Domiziano lo abbia fatto avvelenare. C'è un ritratto estremamente bello ed elogiativo ad Agricola. L'obiettivo è quello di giustificare la propria azione e la propria carriera. Agr. II, 3 – III,1: Dedimus profecto grande patientiae documentum; et sicut vetus aetas vidit quid ultimum in libertate esset, ita nos quid in servitute, adempto per inquisitiones etiam loquendi audiendique commercio. memoriam quoque ipsam cum voce perdidissemus, si tam in nostra potestate esset oblivisci quam tacere. 3.1 Nunc demum redit animus; et quamquam primo statim beatissimi saeculi ortu Nerva Caesar res olim dissociabilis miscuerit, principatum ac libertatem, augeatque cotidie felicitatem temporum Nerva Traianus, nec spem modo ac votum securitas publica, sed ipsius voti fiduciam ac robur adsumpserit, natura tamen infirmitatis humanae tardiora sunt remedia quam mala; et ut corpora nostra lente augescunt, cito extinguuntur, sic ingenia studiaque oppresseris facilius quam revocaveris: subit quippe etiam ipsius inertiae dulcedo, et invisa primo desidia postremo amatur. quid, si per quindecim annos, grande mortalis aevi spatium, multi fortuitis casibus, promptissimus quisque saevitia principis interciderunt, pauci et, ut ita dixerim, non modo aliorum sed etiam nostri superstites sumus, exemptis e media vita tot annis, quibus iuvenes ad senectutem, senes prope ad ipsos exactae aetatis terminos per silentium venimus? non tamen pigebit vel incondita ac rudi voce memoriam prioris servitutis ac testimonium praesentium bonorum composuisse.118 Tacito si riferisce al periodo di Domiziano. Si ha la prova di una sopportazione di un'epoca 118 Abbiamo letto che Aruleno Rustico e Erennio Senecione, per aver lodato l'uno Trasea Peto e l'altro Elvidio Prisco, hanno subito la condanna alla pena capitale. Né si infierì solo sugli autori, ma perfino contro i loro libri: i triumviri ebbero infatti l'ordine di bruciare nel comizio e nel foro gli scritti esemplari di quei chiarissimi ingegni. Evidentemente con quel fuoco si pensava di cancellare la voce del popolo romano, la libertà del senato, la coscienza del genere umano, dopo aver cacciato in esilio i maestri di sapienza e bandito ogni forma onorevole di cultura, perché in nessun luogo si presentasse più davanti agli occhi qualche traccia di dignità morale. Abbiamo dato davvero grande prova di tolleranza e, come tempi ormai passati hanno espresso nelle forme più piene cos'è la libertà, così noi cos'è la servitù, dato che per mezzo dei delatori ci è stata tolta la possibilità di parlare e di ascoltare. La memoria stessa avremmo perso con la voce, se fosse in nostro potere dimenticare come tacere. Ora finalmente ritorna il respiro; e benché subito dal primo inizio di questa felicissima età Nerva Cesare abbia fatto coesistere (due) cose un tempo inconciliabili, principato elibertà, e ogni giorno Nerva Traiano accresca la felicità dei tempi, e la sicurezza collettiva abbia conquistato non solo speranza e desiderio, ma fiducia e certezza dello stesso desiderio, tuttavia per la natura della debolezza umana i rimedi sono più lenti dei malanni; e come i nostri corpicrescono lentamente, si estinguono presto, così gli ingegni egli ideali si possono più facilmente soffocare che richiamare in vita: poiché si insinua la dolcezza anche della stessa inerzia e l'inattività, inizialmente sgradita, alla fine è apprezzata. Che se per quindici anni, periodo notevole di un'esistenza mortale, molti sono venuti a mancare per eventi fortuiti, e tutti i più coraggiosi per la crudeltà del principe? Pochi siamo superstiti per così dire non solo degli altri, ma addirittura di noi stessi, essendo stati cancellati dal mezzo della nostra vita tanti anni, durante i quali nel silenzio, se giovani siamo giunti alla vecchiaia, se vecchi quasi agli stessi limiti di un'esistenza trascorsa. Tuttavia non mi dispiacerà aver espresso, se pur con stile poco ricercato e rozzo, il ricordo della precedente schiavitù e la testimonianza dei benipresenti. di schiavitù. C'è una contrapposizione tra l'epoca di Domiziano e quella precedente, in cui la libertà era primaria. L'epoca precedente a cui si riferisce è quella repubblicana e non quella imperiale, siccome è vista come un modello di libera espressione, poiché Tacito è uno storico che scrive difendendo e sottolineando il ruolo senatorio. Le persecuzioni di Domiziano non solo hanno eliminato la libertà di parola, ma anche quella di ascolto. Le repressioni di epoca domizianea sono un tentativo evidente di mettere sotto controllo l'opinione pubblica. La caratteristica di Nerva e Traiano è tenere insieme qualcosa di distinto, ovvero principato e libertà. Si ha un elogio di natura adulatoria. Traiano cerca di mantenere la felicitas temporum, evitando l'oscurità dell'epoca di Domiziano. Inoltre si ha il ritorno della securitas. La concezione dell'uomo non è positiva, siccome è debole e impiega troppo tempo per guarire dalle malattie. La malattia dello stato è la perdita della libertà e la guarigione è consistita nel cambio dei Principi. Non si capisce perché i principi non siano più un male, mentre prima lo erano. L'osservazione di Tacito è profonda, perché è sia di natura medica, ma anche perché diventa una similitudine per esprimere una considerazione politica, per cui è troppo facile distruggere rispetto al ricostruire, soprattutto perché può sopraggiungere la dulcedo inertiae. L'uomo è un relitto di se stesso perché ha taciuto. È l'uomo il vero colpevole della propria perdita di libertà. Non è facile riconoscersi responsabili. Il fatto che usi bona e non falicitas per descrivere le servitutis è importante, siccome dimostra la tragicità di Tacito. Il testo a livello stilistico e teorico è altissimo. Gli Annales e le Historie sono opere storiografiche pure e rimandano alla dimensione annalistica. Le Historie riprendono quelli di Sallustio, mentre gli Annales quelli di Livio. Si ha un'attenzione metodica nel procedere anno per anno, oltre al tempo presente. Sono un'opera unica, che però lo stesso Tacito distingueva. Doveva essere in 30 libri e doveva comprendere tutta la storia dell'impero dalla caduta di Augusto fino alla caduta di Domiziano, poi promette di scrivere un'opera per Nerva e Traiano, che però non è mai arrivata. Gli Annales riguardano gli anni che vanno dal 14 al 68, quindi gli anni dei Giulio- Claudi, mentre le Historie vanno fino al 96 con i Flavi. Probabilmente dovevano essere divisi in 16 libri e 14 l'altro. Si hanno i libri dalla morte di Augusto a Tiberio, poi da Claudio a Nerone. Le Historie invece rimangono solo nei primi cinque libri. L'opera Tacitiana si occupa di un tempo molto prossimo, scrivendo intorno al 104-105. Lo scopo di questi testi è quello di costituire un testimonium bonorium praesentium, orientata al passato e al futuro. Chi possiede il denaro e l'esercito possiede il potere e questo è il segreto degli arcana imperii. Con Traiano Roma raggiunge la massima espansione. Tacito non sopporta la regressione etica e scrive per migliorare l'epoca che sta vivendo. Secondo Michel è uno storico in rivolta. Lo storico deve dire sempre la verità e l'opera storica deve essere narrata in modo gradevole, quindi lo stile deve essere di altissimo livello. Tacito è filosoficamente scettico, ritiene abbastanza difficile conciliare politica e moralità. Tacito è uno storico che usa diverse volte un verbo importante, ovvero introspicere, che significa guardare dentro. L'introspezione però è solitamente legata alla filosofia, alla teologia o alla psicologia, mentre per Tacito è lo studio delle azioni e delle motivazioni che hanno spinto i personaggi a certi comportamenti. Si analizzano i rumores, le forme informali di discorso, il silentium, che rivela molto, e la percezione del peso della simulatio e della dissimulatio. Tacito è un lettore di tragedia greca, riuscendo poi a ricostruire una storiografia tragica ellenistica sul modello alessandrino. La descrizione della morte di Agrippina per mano di Nerone raggiunge il culmine quando Agrippina davanti ai sicari si solleva la veste e si fa colpire nel grembo. Tacito è uno storico annalista, ma utilizza anche il modello sallustiano, dei grandi gruppi o periodi tematici particolarmente significativi. Si parte dai nomi dei consoli eponimi, finendo poi con le morti dei personaggi più eminenti. Tuttavia la continuità non è sempre omogenea. Nelle Historiae I si ha un ottimo esempio di prolessi ed analessi. C'è una grande attenzione alla periferia dell'impero, quindi un grosso spazio viene dedicato a campagne militari periferiche. Per Tacito il principio ispiratore è quello dell'evidenza e della chiarezza. È molto attento alla dispositio e alla elocutio. Historiae I, 1.1: Initium mihi operis Servius Galba iterum Titus Vinius consules erunt. nam post conditam urbem octingentos et viginti prioris aevi annos multi auctores rettulerunt, dum res populi Romani memorabantur pari eloquentia ac libertate.119 La prima parola dell'opera è initium e non è casuale. Dice da dove parte e cosa vuole fare. È un'affermazione puramente metapoetica in funzione del testo. La datazione non è proprio precisa. L'altra cosa interessante è il confronto tra sé e gli altri, che hanno parlato con pari eloquentia ac libertate. Ha ancora in mente Tito Livio ed altri minori. Un altro elemento interessante è osservare i modi con cui racconta. Vengono osservati i comportamenti e vengono descritti i personaggi attraverso ritratti e paradossi. Anche Tacito usa ritrarre i suoi personaggi giustapponendo elementi positivi e negativi. La morte di Galba viene delineata con quadri di punti di vista diversi, componendo un mosaico polifonico molto interessante. Tacito restituisce anche una parte molto ampia e ricca di discorsi, usando dialoghi, lettere e ritratti. Nell'Agricola 30-32 e 33-34 ci sono degli importanti discorsi di Calgaco, capo dei Bretoni, e quello Romano, in cui viene messa in luce la necessità di lottare per combattere l'imperialismo romano. Si chiude con una frase molto bella, dicendo che dove i romani fanno deserto la chiamano pace. Sembra riprendere il confronto usato anche da Sallustio tra due comandanti. Il narratore commenta le vicende con riflessioni metodologiche e storiografiche. Tacito è uno storico che vede l'impero come una sorta di male necessario. Tacito è uno scrittore che è stato letto ed utilizzato molto, soprattutto per un fenomeno di simulazione letterario chiamato tacitismo. Quando Machiavelli pubblica Il Principe le sue posizioni vengono messe all'indice anche se tutti lo leggono. Tacito diventa lo strumento che maschera quello che in realtà è il testo di Machiavelli. Tacito si presta bene ad essere utilizzato per nascondere una lettura e riflessione su Machiavelli. 119 La mia opera avrà inizio dal secondo consolato di Servio Galba, primo di Tito Vinio. I fatti degli ottocentoventi anni precedenti, a partire dalla fondazione di Roma, già molti scrittori li hanno narrati, nel tempo in cui la storia del popolo romano veniva trattata con eloquenza pari alla franchezza. ganeo et profligator, ut plerique sua haurientium, sed erudito luxu. Ac dicta factaque eius quanto solutiora et quandam sui neglegentiam praeferentia, tanto gratius in speciem simplicitatis accipiebantur. Proconsul tamen Bithyniae et mox consul vigentem se ac parem negotiis ostendit. Dein revolutus ad vitia seu vitiorum imitatione inter paucos familiarium Neroni adsumptus est, elegantiae arbiter, dum nihil amoenum et molle adfluentia putat, nisi quod ei Petronius adprobavisset. Unde invidia Tigellini quasi adversus aemulum et scientia voluptatum potiorem. Ergo crudelitatem principis, cui ceterae libidines cedebant, adgreditur, amicitiam Scaevini Petronio obiectans, corrupto ad indicium servo ademptaque defensione et maiore parte familiae in vincla rapta. Forte illis diebus Campaniam petiverat Caesar, et Cumas usque progressus Petronius illic attinebatur; nec tulit ultra timoris aut spei moras. Neque tamen praeceps vitam expulit, sed incisas venas, ut libitum, obligatas aperire rursum et adloqui amicos, non per seria aut quibus gloriam constantiae peteret. Audiebatque referentis nihil de immortalitate animae et sapientium placitis, sed levia carmina et facilis versus. Servorum alios largitione, quosdam verberibus adfecit. Iniit epulas, somno indulsit, ut quamquam coacta mors fortuitae similis esset. Ne codicillis quidem, quod plerique pereuntium, Neronem aut Tigellinum aut quem alium potentium adulatus est, sed flagitia principis sub nominibus exoletorum feminarumque et novitatem cuiusque stupri perscripsit atque obsignata misit Neroni. Fregitque anulum ne mox usui esset ad facienda pericula. 122 Petronio non fa testamento; scrive tutte le porcherie combinate dall'imperatore, poi le firma e le sigilla con l'anello di famiglia, che viene poi spezzato, impedendo che qualcuno usi il suo nome per denunciare qualcun altro. La descrizione di Tacito è volutamente antifrastica. I modelli sono la morte di Seneca e di Socrate. Anche il dolore o il senso del suicidio vengono sminuiti. Petronio ricompensa alcuni schiavi, mentre altri li fa frustare, dimostrando ciò che domina il mondo è l'arbitrio della sorte. Si sa che aveva diversi interessi di natura letteraria ed il Satyricon si attaglia bene a questa persona. Petronio lavora in maniera molto raffinata; è un narratore che descrive in modo realistico ciò che rappresenta, anche se con delle particolarità. Quello che Petronio vuol far emergere è il riso che arriva con la descrizione dei fatti della vita grottesca. Il suo è un realismo è solo in partenza, mentre l'arrivo è espressionistico. La realtà viene descritta attraverso gli occhi di Encolpio, che è stato definito come un narratore mitomane, ovvero utilizza il mito come punto di partenza per le sue avventure. Il mondo è un mondo caotico e la città è una tale confusione che Encolpio si trova a dover chiedere dove abiti. Emerge il tema del labirinto. Il labirinto da tema mitologico con Teseo ed il Minotauro diventa un tema di natura letteraria. Il labirinto simula la realtà, come si vede nella casa di Trimalchione dove il cuoco si chiama Dedalo. La difficoltà di inoltrarsi è enorme ed il caos 122 Per Petronio è bene fare un passo indietro. Passava le giornate dormendo, la notte la riservava agli affari e ai piaceri della vita e, se altri erano arrivati alla fama con l'operosità, egli vi era giunto per il suo rallentato distacco. Non passava per un volgare crapulone e uno scialacquatore, bensì per un raffinato uomo di mondo. Le sue parole e i suoi gesti, quanto più liberi e all'insegna di una trascurata noncuranza, tanto più incontravano favore per la loro apparenza di semplicità. Peraltro, come proconsole in Bitinia e più tardi come console, si rivelò energico e all'altezza dei compiti. Tornato poi ai suoi vizi, o meglio alla loro ostentazione, fu ammesso nella ristretta cerchia degli intimi di Nerone, come arbitro di eleganza, al punto che il principe, in quel turbine di piaceri, trovava amabile e raffinato solo ciò che ricevesse approvazione da Petronio. Da qui la gelosia di Tigellino, rivolta, si direbbe, a un rivale che ha più successo nella scienza della voluttà. E Tigellino s'appiglia allora alla crudeltà del principe, più forte, in lui, di ogni altra passione, imputando a Petronio l'amicizia con Scevino. Fu corrotto alla delazione uno schiavo e fu sottratto a Petronio ogni mezzo di difesa, gettando in carcere la maggior parte dei servi. Casualmente, in quei giorni, si era recato Cesare in Campania, e Petronio aveva proseguito fino a Cuma e là si tratteneva. Non volle protrarre oltre l'attesa, nel timore o nella speranza, però non corse a liberarsi della vita: si fece aprire le vene, per poi, a capriccio, chiuderle e poi riaprirle ancora, intrattenendosi con gli amici ma non su temi seri, quelli che gli procurassero gloria di fermezza. Non ascoltava discorsi sull'immortalità dell'anima o massime di filosofi, ma poesie leggere e versi giocosi. Ad alcuni servi distribuì doni, ad altri frustate. Sedette a banchetto, indulse al sonno, perché la sua morte, benché imposta, apparisse accidentale. Neppure nel suo ultimo scritto, cosa che invece facevano i più, avviandosi alla morte, adulò Nerone o Tigellino o qualche altro potente, ma scrisse dettagliatamente le infamie del principe, coi nomi dei suoi amanti e delle sue amanti e con specificata l'eccentrica novità di ogni rapporto sessuale, e mandò il testo, con tanto di sigillo, a Nerone. Poi spezzò l'anello del sigillo, perché non servisse in seguito a danneggiare altre persone. governa. Il mondo è disordinatissimo, creando l'altra faccia di ciò che scrive Lucano. Tra i testi di Petronio sono notevoli i momenti della Cena. Pet. Sat . XXIX: Ceterum ego dum omnia stupeo, paene resupinatus crura mea fregi. Ad sinistram enim intrantibus non longe ab ostiarii cella canis ingens, catena vinctus, in pariete erat pictus superque quadrata littera scriptum “cave canem”. Et collegae quidem mei riserunt. Ego autem collecto spiritu non destiti totum parientem persequi.123 Il gruppo entra in casa di Trimalchione. L'avviso di cautela verso il cane è un elemento di realtà. C'è un'analogia con l'entrata agli Inferi. Nei paragrafi seguenti c'è la descrizione di una serie di piatti, bevande e vini incredibili. Pet . Sat . XXXIV: Statim allatae sunt amphorae uitreae diligenter gypsatae, quarum in ceruicibus pittacia erant affixa cum hoc titulo: "Falernum Opimianum annorum centum". Dum titulos perlegimus, complosit Trimalchio manus et: "Eheu, inquit, ergo diutius uiuit uinum quam homuncio. Quare tangomenas faciamus. Vita uinum est.124 Bere equivale a vivere; emerge un tema di natura simposiale, simile a quello di Orazio. È un tema che implica l'esaltazione del vino come valore simbolico della vita. Pet. Sat . XXXIX: Oportet etiam inter cenandum philologiam nosse125 Il piatto deve essere spiegato ed illustrato. Pet. Sat . XL [Sophos...fuisse]: “Sophos!” universi clamamus, et sublatis manibus ad camaram iuramus Hipparchum Aratumque comparandos illi homines non fuisse126 L'esclamazione è una forma latinizzata del greco. Si ha una serie di elementi che rimanda alla lingua oggettivamente parlata. Si fa riferimento ad autori di testi astronomici. Il Satyricon è stato ampiamente ripreso, soprattutto nella cinematografia, di cui il più celebre è quello di Fellini, che usa come fonti sia l'opera di Petronio sia quella di Carcopino, il quale è un autore tradizionalista, interprete crudelissimo di Cicerone, e l'ultima persona disponibile a fornire materiale per un film del genere. Apuleio vive nel II secolo d.C (125-170), alla fine dell'apogeo dell'impero. È uno dei tanti autori non romano, ma africano, come Terenzio ed Agostino. È un filosofo platonico, ma non della filosofia originale dei Dialoghi o dello scetticismo di Acesilao come Cicerone, ma del medio platonismo, ovvero una filosofia platonica (esistenza delle idee, svalutazione del mondo reale, creazione di un mondo iperuranio in cui le idee vivono come forme pure, esaltazione della vita intellettuale, costruzione di un sistema di virtù) che mette in rilievo un'altra serie di aspetti più spiritualista, in particolare quella del Daimon, ovvero un'entità di cui parla Socrate nei Dialoghi, un ente personale che in latino si chiama Genius, uno spirito che guida, controlla e suggerisce i comportamenti. Nel medio platonismo diventa un'entità spirituale altra e costituisce nella 123 Mentre, a bocca aperta, guardavo tutte queste meraviglie, casco lì lungo rovescio e poco manca che non mi spezzi le gambe, perchè un cane enorme, sulla sinistra di chi entrava, non lungi dallo sgabuzzino del portiere, legato alla catena, era dipinto sulla parete e sopra a lettere cubitali vi era tanto di scritta: “Attenti al cane”. E i miei compagni ebbero sì di che ridere, mentre io, ripreso fiato, non lasciai di trascorrere con lo sguardo tutta la parete. 124 Un secondo dopo ecco arrivare delle anfore di cristallo scrupolosamente sigillate e con alcune etichette attaccate al collo recanti la scritta: «Falerno Opimiano di cento anni». Mentre eravamo presi a leggere, Trimalcione batté le mani urlando: «Ohimè, dunque il vino vive più a lungo di un pover'uomo. Ma allora non indugiamo a scolarcelo! Il vino è vita . 125 È necessario fare filologia anche durante il pranzo 126 «Stupendo» urliamo in coro, e alzate le mani al soffitto giuriamo che Ipparco e Arato, non furono uomini da confrontare a esso speculazione una sorta di intermediario tra l'iperuranio ed il mondo umano. Esso cattura su di sé delle speculazioni sui numeri, si legano i daimonia con gli influssi numerologici. La religione olimpica non è più soddisfacente ed assume un valore politico, per questo viene sostituita da altre religioni che vengono dall'oriente, come il culto di Cibele, Attis, di Mitra, di Iside ed Osiride e Cristiano; queste sono tutte religioni salvifiche che rispondono alle domande dell'uomo. Il medio platonismo è un adeguamento filosofico di queste religioni. Nel IV secolo si ha una fioritura della letteratura pagana insieme a quella cristiana. Anche le filosofie si spiritualizzano e richiedono una maggiore attenzione psicologica e sulle azioni umane. Apuleio vive in maniera abbastanza brillante facendo il conferenziere, ovvero tiene dei discorsi pubblici su temi disparati. È un periodo in cui le recitationes diventano un'occasione teatrale non indifferente. Gli argomenti sono dei generi più disparati. Apuleio guadagna anche la fama di mago, di persona capace di utilizzare le arti della natura e della sapienza secolare per avvalersi della forza delle figure intermedie (daimones). Lui si professa mago capace di compiere azioni di magia bianca. Venne accusato anche di utilizzare un altro tipo di magia, ovvero la magia nera, mirata al male, all'uccisione e al malocchio. La sua attività si svolge in Africa. Apuleio scrive tre libri del De Platone et eius dogmate. Le idee sono gerarchicamente ordinate. All'entità intermedia è dedicato il De deo socratis. Si nota anche un'attenzione sincretica ad un altro aspetto; per Apuleio il cosmos può essere interessante e sulla base di elementi stoici, platonici ed aristotelici costruisce la sua idea del mondo nel De mundo. Dell'Apuleio oratore rimangono una lunga orazione (l'Apologia) e 23 frammenti antologici di alcune declamazioni (Florida). Nel 158-159 in Libia tiene di fronte al procuratore imperiale tiene un'orazione di difesa. L'orazione giunta è troppo lunga e non può essere quella originale. È una sorta di panflait. Lui aveva sposato una vedova, Pudentilla, che aveva un figlio, Ponziano, suo erede. Sposandosi entra nell'asse ereditario. Morendo sia la moglie sia il figliastro, i parenti della donna gli intentano una causa basata su una legge di Silla, ovvero la legge Cornelia sui sicari e sugli avvelenatori. Gli accusatori sono Rufino e Sicinio Emiliano. L'esito è l'assoluzione di Apuleio. Cerca di difendere la magia bianca, che permettere di curare con le erbe, con gli influssi delle stelle, ecc. Quello di cui è accusato è di aver usato dei veleni e delle maledizioni per uccidere Pudentilla e Ponziano. È l'occasione per avere una serie di informazioni curiose. Apuleio, in una delle divagazioni, rivela i nomi delle amate dei poeti. Lui si dilunga su come si fanno i dentifrici. Le Metamorfosi o Asino d'oro è un'opera in 11 libri. Dopo un brevissimo prologo, la storia si ambienta in Tessaglia, terra nota per la magia, poiché ricca di maghi. Lucio, il protagonista, ha un nome che indica la ricerca di illuminazione. Lucio è un giovane che vorrebbe imparare a volare attraverso un filtro magico. La serva della maga non gli da il rimedio giusto e diventa un asino, pur continuando a pensare come un uomo. Dopo la sua trasformazione iniziano una serie di peripezie drammatiche. Mentre è in mano a dei briganti ascolta da una vecchietta la favola di Amore e Psiche, che occupa i libri da metà del IV a metà del VI. Sempre in forma asinina, mentre sta perdendo le speranze, sogna la dea Iside che gli rivela che potrà tornare uomo solo se durante le cerimonie in cui il suo simulacro ad Atene viene portato in processione riesce a mangiare un cespo di rose. Tornato uomo diventa adepto di Iside ed Osiride. Gli undici libri corrispondono agli undici giorni prescritti per il periodo di purificazione dei nuovi adepti del culto di Iside ed Osiride. La parte più celebre è quella di Amore e Psiche, che ha avuto una fortuna letteraria e non straordinaria. Met . Prologo Amore e Psiche : Erant in quadam civitate rex et regina. Hi tres numero filias forma conspicuas habuere, sed maiores quidem natu, quamvis gratissima specie, idonee tamen celebrari posse laudibus humanis credebantur, at vero puellae iunioris tam praecipua tam praeclara pulchritudo nec exprimi ac ne sufficienter quidem laudari sermonis humani penuria poterat127 Psiche è la figlia più giovane delle tre di un re. La natura favolistica è dovuto al modello letterario 127 Un tempo, in una città, vivevano un re e una regina che avevano tre bellissime figlie, le due più grandi, per quanto molto belle, potevano essere degnamente celebrate con lodi umane, ma la bellezza della più giovane era così straordinaria e così incomparabile che qualsiasi parola umana si rivelava insufficiente a descriverla e tanto meno a esaltarla
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