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Meccanismi di impugnazione giudiziaria: appello, ricorso per cassazione e revocazione, Appunti di Diritto Processuale Civile

Una dettagliata analisi dei mezzi impugnatori a critica libera e a critica vincolata, ossia l'appello e l'opposizione di terzo, e dei mezzi impugnatori aventi carattere devolutivo e sostitutivo, come l'appello e il ricorso per cassazione e revocazione. Vengono spiegate le differenze tra questi mezzi, i loro effetti e le loro modalità di utilizzo. Inoltre, vengono illustrate le procedure per la presentazione di un appello immediato e le conseguenze che derivano dall'accoglimento o dal rigetto dell'impugnazione.

Tipologia: Appunti

2020/2021

Caricato il 19/02/2024

francesco-franzo
francesco-franzo 🇮🇹

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Scarica Meccanismi di impugnazione giudiziaria: appello, ricorso per cassazione e revocazione e più Appunti in PDF di Diritto Processuale Civile solo su Docsity! APPUNTI DI DIRITTO PROCESSUALE CIVILE CORSO 50017 – MODULO II – CLASSE 20 ANNO ACCADEMICO 2021-2022 PARTE PRIMA SOMMARIO: 1. La sentenza che definisce il processo ordinario di cognizione in primo grado. Il dovere decisorio del giudice: il principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato. La differenza tra sen- tenza e ordinanza: il principio della prevalenza della sostanza sulla forma – 2. Il diritto di impugnare la sentenza e il giudicato. Le principali distinzioni tra i mezzi di impugnazione. I principi generali dell’im- pugnazione: la legittimazione e l’interesse ad impugnare – 3. I principi generali dell’impugnazione: la proposizione della domanda di impugnazione. L’impugnazione in via principale e in via incidentale. La riserva di appello e l’impugnazione immediata. L’acquiescenza e l’effetto espansivo della sentenza che si pronuncia sulla domanda di impugnazione – 4. L’impugnazione nel processo con pluralità di parti: cause inscindibili e dipendenti e cause scindibili – 5. Inammissibilità e improcedibilità della do- manda di impugnazione. Estinzione del processo impugnatorio. 1. La sentenza che definisce il processo ordinario di cognizione in primo grado. Il dovere decisorio del giudice: il principio della corrispondenza tra chiesto e pronun- ciato. La differenza tra sentenza e ordinanza: il principio della prevalenza della so- stanza sulla forma. 1.1. La sentenza è il provvedimento con cui il giudice definisce la controversia pronunciandosi sulle istanze di tutela giurisdizionale proposte dalle parti. Esistono due modi di concepire la sentenza. Anzitutto, ci si può riferire alla sen- tenza nella sua dimensione formale, determinata cioè dall’insieme dei requisiti che ne determinano il contenuto sul piano formale in base alle previsioni della legge proces- suale (sentenza in senso formale). Ma ci si può riferire alla sentenza anche per indicare il provvedimento giurisdizionale nella sua dimensione sostanziale, concernente cioè il contenuto decisorio o, per meglio dire, la sua incidenza sulla vicenda sostanziale dedotta in giudizio (sentenza in senso sostanziale). Secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione, gli elementi che caratteriz- zano il concetto di sentenza in senso sostanziale sono due: la decisorietà e la definiti- vità. La decisorietà della sentenza allude al fatto che il suo contenuto dev’essere ido- neo ad influire sulle situazioni giuridiche soggettive: la sentenza è dunque quel prov- vedimento del giudice che è idoneo ad accertare (tutela di mero accertamento e con- dannatoria) o a determinare (tutela costitutiva) l’esistenza e il modo d’essere di un di- ritto soggettivo. La definitività della sentenza riguarda invece la propensione dell’ac- certamento giurisdizionale contenuto nella sentenza a conseguire quel grado di cer- tezza che prende il nome di giudicato. Il contenuto formale della sentenza è regolato all’art. 132 c.p.c. Questa disposi- zione prevede che la sentenza deve contenere, a pena di nullità, le seguenti 2 indicazioni. La sentenza deve recare, anzitutto, l’intestazione “in nome del popolo italiano”: l’indicazione rappresenta l’applicazione del precetto costituzionale dell’art. 101, comma 1, Cost., secondo cui “la giustizia è amministrata in nome del popolo”, al tipo di provvedimento giurisdizionale più rappresentativo della funzione giurisdizionale. La sentenza deve recare poi l’indicazione del giudice, delle parti e dei loro difen- sori. Ed è altresì necessaria l’indicazione delle conclusioni formulate dalle parti e, ove presente nel processo, dal p.m. L’indicazione assolutamente più importante è, però, quella relativa alla motiva- zione, che viene descritta come la “concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione”: l’indicazione delle ragioni della decisione è resa necessaria addirit- tura dalla previsione dell’art. 111, comma 6, Cost., secondo cui “tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati”. La motivazione costituisce, infatti, la rappre- sentazione del percorso logico-giuridico seguito dal giudice per giungere alla deci- sione delle singole istanze di tutela giurisdizionale proposte dalle parti. Il percorso logico-giuridico della motivazione è composto, in particolare, da due momenti: la ri- costruzione del fatto mediante la valutazione delle prove fornite dalle parti (art. 115 c.p.c.) e l’interpretazione della legge operata liberamente dal giudice (art. 113 c.p.c.). La motivazione assolve, dunque, ad una duplice finalità: con riferimento alle parti del processo, la conoscenza della motivazione consente di individuare gli eventuali errori di fatto e/o di diritto in cui sia incorso il giudice ed esercitare il potere di impugnare la sentenza; con riferimento invece alla collettività, la motivazione rappresenta una ga- ranzia di legalità della sentenza in quanto consente a tutti di verificare che l’esercizio del potere giurisdizionale non è avvenuto arbitrariamente o in violazione della legge. A proposito della motivazione, va anche rilevato che, per espressa previsione dell’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c., l’esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione dev’essere “concisa”. La precisazione, che è stata aggiunta con la l. n. 69/2009 al fine di assicurare la ragionevole durata del processo civile, va letta insieme all’art. 118, comma 1, disp. att., c.p.c. che, nella versione introdotta dalla stessa l. n. 69/2009, consente al giudice di formulare la motivazione con una “succinta esposi- zione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione, anche con riferimento a precedenti conformi”. Il richiamo ai precedenti conformi allude alla pos- sibilità per il giudice di motivare la sentenza per relationem, rinviando cioè a quegli argomenti di diritto che siano stati elaborati in una precedente decisione della giuri- sprudenza – soprattutto della Corte di cassazione – pronunciata su un caso analogo. Da ultimo, la sentenza deve recare, oltre alla data e alla sottoscrizione del giudice, anche il dispositivo che costituisce l’insieme delle deliberazioni del giudice – in ter- mini di ammissibilità e fondatezza – su ciascuna delle istanze di tutela giurisdizionale avanzate dalle parti. La pronuncia della sentenza si perfeziona, ai sensi dell’art. 133 c.p.c., con il suo deposito nella cancelleria del giudice che comporta anche la pubblicazione della sen- tenza e, quindi, la sua conoscibilità ad opera delle parti. È infatti da questo momento 5 secondo la giurisprudenza, sia nei casi in cui la legge processuale impone espressa- mente la forma dell’ordinanza ad un certo tipo di provvedimento decisorio (come, ad esempio, nel caso dell’art. 702-ter c.p.c.), sia soprattutto nei casi in cui il giudice com- metta un errore nell’adozione del provvedimento decisorio. In applicazione del prin- cipio della prevalenza della sostanza sulla forma, il provvedimento, sebbene abbia erroneamente la forma di un’ordinanza, dev’essere considerato come una vera e pro- pria sentenza ai fini della sua impugnazione. Le conseguenze di questo principio sono molto importanti in quanto il regime di contestazione dell’ordinanza avente un contenuto puramente processuale prevede che la stessa possa essere (non impugnata ad un giudice superiore come la sentenza, ma) soltanto rimessa allo stesso giudice che l’ha adottata al fine di essere modificata o revocata (artt. 177-178 c.p.c.). 2. Il diritto di impugnare la sentenza e il giudicato. Le principali distinzioni tra i mezzi di impugnazione. I principi generali dell’impugnazione: la legittimazione e l’interesse ad impugnare. 2.1. Il diritto di impugnare la sentenza rappresenta una delle facoltà in cui si mani- festa il diritto processuale di azione e si esercita proponendo uno degli strumenti (de- finiti, appunto, mezzi di impugnazione) che sono previsti a tal fine dalla legge proces- suale. Con l’impugnazione della sentenza, infatti, il processo si riattiva dopo essere caduto in uno stato di acquiescenza determinato dalla pubblicazione della sentenza di primo grado e dal successivo decorso del termine perentorio per la proposizione dell’impugnazione. Il diritto di impugnare la sentenza consente, dunque, alla parte legittimata di far progredire il processo nel successivo grado di giudizio per il tramite della denuncia ad altro giudice di uno o più errori della sentenza che ha definito il precedente grado di giudizio. Tali errori, in particolare, possono riguardare: - la violazione delle norme processuali applicate per regolare il compimento de- gli atti del processo di primo grado (errori in procedendo) e/o - l’erronea ricostruzione del fatto oggetto del processo e/o la violazione o falsa applicazione delle norme di diritto sostanziale applicate come regola di giudi- zio per la decisione della controversia (errori in iudicando). Il diritto di impugnare la sentenza è un concetto strettamente correlato con il prin- cipio del giudicato. Il giudicato è un istituto molto complesso, ma anche estremamente importante nella disciplina del processo civile. Esso è definibile come l’efficacia che acquista la sentenza a seguito del mancato esercizio del potere di impugnazione o del fatto che il processo di impugnazione si sia concluso con una sentenza che, rigettando l’impugnazione, conferma la decisione impugnata. In particolare, l’efficacia di giudi- cato preclude alle parti del processo qualsiasi possibilità di rimettere in discussione in futuri processi la decisione contenuta nella sentenza pronunciata nei loro confronti. In particolare, si parla di giudicato in senso formale per indicare la condizione pro- cessuale in cui si trova la sentenza quando non sono più esperibili nei suoi confronti i 6 mezzi di impugnazione che la legge qualifica come ordinari1. La legge processuale individua, infatti, il catalogo dei mezzi di impugnazione nell’art. 323 c.p.c. Essi sono: l’appello, il ricorso per cassazione, la revocazione, l’opposizione di terzo e il regola- mento di competenza. L’art. 324 c.p.c. aggiunge, poi, che la sentenza si considera passata in giudicato quando contro di essa non sono più esperibili i mezzi di impu- gnazione (i) dell’appello, (ii) del ricorso per cassazione e (iii) della revocazione nei casi di cui all’art. 395, comma 1, nn. 4 e 5, c.p.c. (c.d. revocazione ordinaria). Tali mezzi di impugnazione sono definiti, appunto, mezzi ordinari di impugnazione in quanto, per legge, possono essere esperiti soltanto nei confronti di sentenze che non siano ancora passate in giudicato. All’efficacia di giudicato che consegue alla preclu- sione dei mezzi ordinari di impugnazione si attribuisce il nome di giudicato in senso formale poiché esso si forma sul piano meramente processuale. La formazione del giudicato formale e la conseguente preclusione all’esercizio dei mezzi ordinari di im- pugnazione dipende, in particolare, dal decorso del termine previsto dalla legge, a pena di decadenza, per la proposizione di tali mezzi impugnatori. I termini per proporre l’impugnazione sono regolati in generale negli artt. 325-326- 327 c.p.c. Con riferimento ai mezzi di impugnazione ordinari si possono distinguere due termini per impugnare: (i) il termine breve che è di 30 giorni (ma che diventa di 60 giorni nel caso del ricorso per cassazione) decorrenti dalla notificazione della sen- tenza alla parte soccombente e (ii) il termine lungo che è invece di 6 mesi decorrenti dalla pubblicazione della sentenza ai sensi dell’art. 133 c.p.c. Il decorso di uno tali termini senza che sia stato proposto il mezzo di impugnazione ordinario esperibile in base al tipo di sentenza impugnabile (ad es., con riferimento alla sentenza di primo grado, il mezzo di impugnazione ordinario esperibile è, di regola, l’appello) comporta il passaggio in giudicato formale della sentenza. Il significato di questa regola è chiaramente il bilanciamento di due contrapposti interessi: da un lato, l’interesse a conseguire una decisione giusta attraverso la possi- bilità di (i) denunciare gli errori della sentenza precedente e (ii) ottenere la sua corre- zione da parte di un altro giudice (in genere, gerarchicamente superiore) e, dall’altro lato, l’interesse a conseguire la certezza dei rapporti giuridici che si ottiene invece con la preclusione (o la limitazione) della possibilità di revisionare la sentenza. L’ordina- mento processuale italiano – come gli ordinamenti di molti altri paesi – opera il bilan- ciamento di questi interessi prevedendo la possibilità di contestare la sentenza entro un termine perentorio, cosicché il decorso di tale termine comporta automaticamente quella incontrovertibilità della sentenza – quella impossibilità, cioè, di ulteriormente contestare la decisione – a cui si attribuisce il nome di giudicato formale. Ai mezzi di impugnazione ordinari si contrappongono, poi, i mezzi di impugna- zione straordinari, corrispondenti a quei mezzi impugnatori che sono esperibili anche 1 Si ricorda che il giudicato in senso sostanziale indica, invece, le implicazioni del giudicato formale sul rapporto sostanziale dedotto giudizio. Il giudicato sostanziale è definito, in particolare, dalla dispo- sizione dell’art. 2909 c.c., secondo cui l’accertamento giudiziale contenuto nella sentenza passata for- malmente in giudicato «fa stato ad ogni effetto tra le parti, i loro eredi ed aventi causa». Fare stato significa che l’accertamento giurisdizionale del diritto soggettivo controverso contenuto nella sentenza diviene la regola che governa stabilmente la vicenda intercorsa tra le parti e da queste dedotta in giudi- zio. 7 nei confronti di sentenze già passate in giudicato. Essi sono: (i) la revocazione nei casi di cui all’art. 395, comma 1, nn. 1, 2, 3 e 6, c.p.c. e (ii) l’opposizione di terzo (ordinaria e revocatoria) ai sensi dell’art. 404, commi 1 e 2, c.p.c. La contrapposizione tra mezzi ordinari e straordinari non può, però, essere descritta soltanto con riferimento al giu- dicato. Tale descrizione è, infatti, sostanzialmente tautologica poiché si risolve in una petizione di principio. Il fondamento della distinzione tra mezzi ordinari e straordinari risiede, infatti, nel tipo di vizio censurabile con questi mezzi impugnatori. Pertanto, si può dire che i mezzi impugnatori ordinari sono esperibili soltanto nei confronti di sen- tenze che non siano ancora passate giudicato in quanto tali mezzi consentono di cen- surare soltanto vizi palesi della sentenza: vizi, cioè, che possono essere rilevati dalla parte mediante la lettura e l’analisi della sentenza stessa, senza necessità di conoscere elementi fattuali esterni alla decisione o al processo. Al contrario, i mezzi di impugna- zione straordinari sono considerati proponibili anche quando la sentenza è già passata in giudicato perché essi consentono di censurare vizi occulti della pronuncia: vizi, cioè, che possono essere rilevati soltanto se e quando si ha conoscenza di circostanze rilevanti esterne al processo o alla decisione, come ad es. un accordo collusivo tra una parte e l’avvocato della controparte che, pur non risultando ovviamente dagli atti del processo o dalla sentenza, può aver condizionato la pronuncia della decisione o il suo contenuto. 2.2. Oltre alla contrapposizione tra mezzi ordinari e straordinari di impugnazione, si è soliti introdurre due altre distinzioni tra i mezzi impugnatori: - la prima distinzione è quella tra mezzi impugnatori a critica libera e mezzi im- pugnatori a critica vincolata: mentre i primi, che corrispondono sostanzial- mente all’appello e all’opposizione di terzo, sono mezzi impugnatori che con- sentono di denunciare qualunque tipo di vizio della sentenza impugnata, i se- condi, che corrispondo al ricorso per cassazione e alla revocazione (ordinaria e straordinaria), sono mezzi impugnatori esperibili soltanto per i motivi espres- samente previsti dal catalogo legislativo; - la seconda distinzione contrappone, invece, i mezzi impugnatori aventi carat- tere devolutivo e sostitutivo ai mezzi impugnatori aventi carattere rescindente: l’unico mezzo impugnatorio effettivamente devolutivo conosciuto dal nostro ordinamento è l’appello con cui è possibile impugnare la sentenza di primo grado chiedendo al giudice superiore che, previo accertamento dei vizi censu- rati, riesamini e ridecida correttamente le istanze di tutela giurisdizionale riget- tate dal giudice di primo grado e devolute in appello dalla parte impugnante (il corollario del carattere devolutivo dell’appello è costituito dalla natura sostitu- tiva della sentenza di appello: quest’ultima, sia quando accoglie l’appello e ri- forma la sentenza di primo grado sia quando rigetta l’appello e conferma la sentenza di primo grado, si sostituisce alla sentenza impugnata e costituisce la fonte esclusiva degli effetti – ad esempio, quello esecutivo – del provvedi- mento); i mezzi impugnatori a carattere rescindente sono invece il ricorso per cassazione e la revocazione (ordinaria e straordinaria) in quanto essi consen- tono al giudice superiore soltanto di accertare i vizi censurati e, conseguente- mente, di annullare la sentenza impugnata, lasciando ad altro giudice la fase rescissoria del procedimento impugnatorio, in cui deve essere ridecisa la vi- cenda sostanziale che in precedenza era regolata dalla sentenza annullata (se 10 soccombente sostanziale) in quanto la pronuncia definitiva le ha concesso una tutela giurisdizionale di merito che è certamente più favorevole di quella negata dalla sen- tenza non definitiva (e cioè: l’affermazione di un presupposto processuale o di un fatto e.m.i. del diritto dell’attore). 3. I principi generali dell’impugnazione: la proposizione della domanda di impugna- zione. L’impugnazione in via principale e in via incidentale. La riserva di appello e l’impugnazione immediata. L’acquiescenza e l’effetto espansivo della sentenza che si pronuncia sulla domanda di impugnazione. 3.1. I modi con cui si può esercitare il potere impugnatorio sono l’impugnazione in via principale e l’impugnazione in via incidentale. Mentre l’impugnazione in via principale è quella proposta dalla parte che intende promuovere il processo di impu- gnazione per far valere una soccombenza totale e unilaterale o parziale e reciproca, l’impugnazione in via incidentale è quella che propone la parte nei cui confronti è stata proposta l’impugnazione principale e serve per far valere una soccombenza par- ziale e reciproca sulla stessa sentenza impugnata ex adverso o una soccombenza vir- tuale sulla sentenza non definitiva per effetto dell’impugnazione della sentenza defi- nitiva ad opera della controparte. Gli artt. 333 e 334 c.p.c. individuano nell’impugna- zione incidentale lo strumento preferenziale con cui far valere questi tipi di soccom- benza in quanto l’impugnazione incidentale consente di garantire, oltre che una ra- gionevole durata del processo, la coerenza tra le decisioni: se, infatti, le due o più impugnazioni di una stessa sentenza (o di due sentenze legate tra loro da un nesso di dipendenza come la sentenza non definitiva e la sentenza definitiva) sono decise da uno stesso giudice, l’esito complessivo del giudizio impugnatorio non può condurre ad alcuna contraddizione logica o giuridica, che invece si potrebbe avere se le due o più impugnazioni fossero proposte autonomamente e decise da giudici diversi2. La domanda di impugnazione principale si propone con la stessa forma processuale che è stata applicata nel processo di primo grado: se, ad es., la domanda giudiziale è stata proposta notificando un atto di citazione al convenuto, anche la domanda di impugnazione si propone con notificazione di un atto di citazione alla parte impu- gnata. La domanda di impugnazione incidentale, invece, si propone con lo stesso atto con cui la parte nei cui confronti è stata proposta l’impugnazione principale si costi- tuisce in giudizio per prendere posizione sulla domanda avversaria. L’impugnazione in via incidentale può essere, però, tempestiva o tardiva a seconda che sia proposta precedentemente o successivamente rispetto alla scadenza del termine per proporre l’impugnazione ai sensi degli artt. 325-326-327 c.p.c. In particolare, l’impugnazione incidentale è tempestiva quando viene proposta prima che sia decorso il termine per impugnare, mentre si qualifica come tardiva quando viene proposta successivamente alla scadenza di tale termine. L’art. 334 c.p.c. condiziona, però, l’ammissibilità 2 Per questa ragione, l’art. 335 c.p.c. impone che le impugnazioni proposte separatamente contro la stessa sentenza debbano essere obbligatoriamente riunite, anche d’ufficio, in un solo processo: pertanto, quando la parte impugnata abbia omesso di proporre impugnazione in via incidentale contro la sen- tenza già impugnata dalla controparte, il giudizio impugnatorio autonomamente proposto è destinato ad essere riunito a quello già pendente. 11 dell’impugnazione incidentale tardiva al fatto che il giudice abbia previamente rite- nuto ammissibile l’impugnazione principale: a differenza dell’impugnazione inciden- tale tempestiva, la cui ammissibilità dipende soltanto dal rispetto del termine per la costituzione in giudizio della parte proponente, l’impugnazione incidentale tardiva esige altresì che sia giudicata ammissibile – con riguardo, anzitutto, al rispetto del ter- mine per impugnare ex artt. 325-326-327 c.p.c. – l’impugnazione principale. La di- pendenza dell’impugnazione incidentale tardiva dall’ammissibilità dell’impugnazione principale si giustifica, dunque, con il fatto che l’impugnazione incidentale è tardiva perché è proposta quando il termine per impugnare è ormai decorso; ciononostante, essa è considerata ammissibile dalla legge processuale in quanto permette di censurare la stessa sentenza impugnata in via principale dalla controparte (o una sentenza non definitiva) nell’unico processo pendente. È quindi evidente che se l’impugnazione principale risulta, per qualsiasi ragione, inammissibile, viene meno ciò che giustificava eccezionalmente l’ammissibilità di un’impugnazione tardiva, con la conseguenza che in questo caso anche l’impugnazione incidentale va considerata inammissibile. 3.2. In caso di soccombenza virtuale su una sentenza non definitiva di primo grado, la legge processuale offre alla parte soccombente uno strumento alternativo a quello dell’impugnazione immediata della decisione. Si tratta della riserva di appello ai sensi dell’art. 340 c.p.c., che può essere formulata sia nei confronti delle sentenze non de- finitive che nei confronti delle sentenze di condanna generica (art. 278 c.p.c.), a cui si attribuisce tradizionalmente la natura di pronunce non definitive. La riserva di appello consiste in una dichiarazione con cui la parte soccombente manifesta l’intenzione di riservare l’esercizio del potere di appellare la sentenza non definitiva nel momento in cui sarà impugnata una successiva sentenza del processo di primo grado. La dichiarazione deve essere formulata, a pena di decadenza, entro il termine per proporre l’appello (30 giorni dalla notificazione della sentenza o 6 mesi dalla pubblicazione della sentenza) e, comunque, non oltre la prima udienza del pro- cesso di primo grado successiva alla comunicazione della sentenza su cui viene for- mulata la riserva. L’evento che, dunque, è idoneo a sciogliere la riserva di appello onerando la parte alla proposizione dell’impugnazione è rappresentato dall’impugna- zione di una sentenza successiva che può essere un’altra sentenza non definitiva o, più probabilmente, la sentenza definitiva. Ne consegue che la modalità di sciogli- mento della riserva dipende dall’esito della sentenza successiva: - se questa è risultata sfavorevole alla stessa parte soccombente sulla sentenza oggetto della riserva di appello, sarà allora la stessa parte che ha formulato la riserva ha determinarne lo scioglimento mediante la proposizione di una do- manda di appello in cui è cumulata l’impugnazione della sentenza non defini- tiva e l’impugnazione della sentenza successiva, - se invece la sentenza successiva è risultata favorevole alla parte che ha formu- lato la riserva di appello, lo scioglimento della riserva si rende possibile solo se la controparte, soccombente sulla sentenza successiva, sceglie di proporre im- pugnazione avverso quest’ultima decisione, così che la parte che formulato la riserva può scioglierla mediante l’impugnazione in via incidentale della sen- tenza non definitiva. 12 La funzione della riserva di appello è, dunque, quella di salvaguardare il diritto della parte che sia risultata soccombente sulla sentenza non definitiva ad impugnare tale provvedimento anche oltre la scadenza del termine legale per appellare. In parti- colare, la riserva di appello serva a consentire l’appello della sentenza non definitiva fino al momento in cui sia iniziato il giudizio impugnatorio su una successiva sentenza del medesimo processo. Infatti, la possibilità di appellare la sentenza oggetto della riserva oltre la scadenza del termine legale per appellare permette, anzitutto, di assi- curare che gli appelli avverso due sentenze dello stesso processo si svolgano in un unico procedimento e siano, dunque, risolti coerentemente da un unico giudice. Tale possibilità, però, permette anche di assicurare che il potere di appellare la sentenza non definitiva oggetto della riserva di appello rimanga esercitabile fino al momento in cui la parte soccombente possa comprendere se la sua soccombenza è puramente virtuale o è invece una soccombenza effettiva. Quest’ultima eventualità si verifica, in particolare, nei casi più frequenti in cui la sentenza successiva alla formulazione della riserva è la sentenza definitiva, poiché in questi casi l’esito della pronuncia definitiva permette, appunto, alla parte che ha formulato la riserva di comprendere se la sua soccombenza sulla sentenza non definitiva si è veramente tradotta oppure no nel fatto che il giudice le ha concesso una tutela giurisdizionale inferiore a quella richiesta. L’art. 129 disp. att. c.p.c. si preoccupa, inoltre, di regolare la situazione in cui, a seguito della formulazione della riserva di appello, il processo di primo grado si con- cluda con un provvedimento che dichiara l’estinzione del processo. In questo caso, l’assenza di una sentenza successiva impugnabile precluderebbe lo scioglimento della riserva e, dunque, importerebbe sostanzialmente il passaggio in giudicato della sen- tenza non definitiva. Per evitare questa conseguenza, che pregiudicherebbe chiara- mente la parte soccombente sulla sentenza non definitiva, l’art. 129, commi 3 e 4, disp. att. c.p.c. prevede che la sentenza non definitiva di merito su cui sia stata formu- lata la riserva di appello acquisti automaticamente l’“efficacia di sentenza definitiva” e possa essere, pertanto, impugnata dal giorno in cui diventa irrevocabile o inimpu- gnabile il provvedimento che ha dichiarato l’estinzione del processo. Va sottolineato che correttamente la disposizione si riferisce soltanto al caso della sentenza non defi- nitiva di merito (riguardante, cioè, una questione preliminare di merito) e non anche a quello della sentenza non definitiva di rito (riguardante, invece, una questione pregiu- diziale di rito): soltanto le prime, infatti, sono idonee ad acquisire l’efficacia del giudi- cato sostanziale e, dunque, a produrre un effetto preclusivo anche al di fuori del pro- cesso in cui sono state pronunciate, mentre le seconde acquistano l’efficacia del giu- dicato interno valevole soltanto ai fini del processo pendente che, tuttavia, nel caso preso in considerazione dall’art. 129 disp. att. c.p.c., si è ormai definitivamente estinto. Se non si avvale dell’opportunità offerta dalla riserva di appello, la parte soccom- bente sulla sentenza non definitiva ha l’onere di proporre l’appello immediatamente (cioè: entro il termine breve o lungo previsto dalla legge) anche se, in assenza della sentenza definitiva, non può ancora sapere se la sua soccombenza sia virtuale o so- stanziale. La proposizione dell’appello immediato determina, però, la contestuale pen- denza di due procedimenti: da un lato, il processo di primo grado che prosegue per la trattazione e la decisione della causa con la pronuncia della sentenza definitiva e, dall’altro lato, il processo di appello sulla sentenza non definitiva. La contemporanea pendenza di questi due procedimenti è chiaramente considerata con sfavore 15 ammettersi l’acquiescenza presunta o legale sul capo dipendente non impugnato senza rischiare che il contenuto del capo dipendente passato in giudicato contraddica l’esito dell’impugnazione sul capo pregiudiziale. Se, ad esempio, una sentenza di con- danna è formata da due capi – quello pregiudiziale di condanna all’adempimento del contratto dedotto in giudizio e quello dipendente di condanna al risarcimento del danno da ritardo – l’impugnazione del capo pregiudiziale non può importare acquie- scenza al capo dipendente non impugnato poiché l’eventualità che la decisione con- tenuta nel capo pregiudiziale sia riformata o annullata dal giudice dell’impugnazione impedisce che possa restare applicabile il capo dipendente: se il giudice dell’impu- gnazione riformasse o annullasse la condanna all’adempimento del contratto negando l’esistenza dell’inadempimento, tale decisione sarebbe infatti incompatibile con la de- cisione di condanna al risarcimento del danno da inadempimento contenuta nel capo dipendente non impugnato. A questa evenienza pone rimedio, come accennato, l’effetto espansivo interno dell’art. 336, comma 1, c.p.c. prevedendo che la riforma o l’annullamento del capo pregiudiziale impugnato importa automaticamente la riforma o l’annullamento del capo dipendente non impugnato. La giurisprudenza è solita descrivere la condizione del capo dipendente non impugnato come giudicato apparente o virtuale in quanto esso è destinato a divenire un vero e proprio giudicato soltanto se l’impugnazione del capo pregiudiziale è rigettata; se l’impugnazione del capo pregiudiziale è, invece, ac- colta, il giudicato apparente viene meno e la riforma o l’annullamento del capo pre- giudiziale travolge, come detto, anche il capo dipendente. Acconto all’effetto espansivo interno, l’art. 336 c.p.c. prevede, al comma 2, l’effetto espansivo esterno: la regola del comma 1, che stabilisce l’espansione degli effetti della sentenza di accoglimento dell’impugnazione avverso il capo pregiudiziale della sen- tenza impugnata, vale anche nel caso in cui sia impugnata una sentenza non definitiva con cui sia stata rigettata una eccezione pregiudiziale di rito o una eccezione prelimi- nare di merito. Più precisamente, il comma 2 dell’art. 336 c.p.c. prevede che la riforma o l’annullamento di una sentenza non definitiva estende i suoi effetti ai provvedimenti e agli atti dipendenti dello stesso processo. In particolare, i provvedimenti dipendenti dalla sentenza non definitiva si possono identificare, oltre che in un’altra sentenza non definitiva, soprattutto nella sentenza che definisce il giudizio: infatti, poiché la sen- tenza non definitiva dichiara infondata una questione pregiudiziale di rito o prelimi- nare di merito, è evidente che l’esito della sua impugnazione ha una rilevanza logica- mente pregiudiziale rispetto alla decisione contenuta nella sentenza definitiva, che si occupa del merito della controversia. Gli atti dipendenti dalla sentenza non definitiva sono, invece, soprattutto gli atti istruttori, sul cui contenuto viene a formarsi la deci- sione di merito contenuta nella sentenza definitiva. Vanno però esclusi dall’ambito degli atti dipendenti ex art. 336, comma 2, c.p.c. gli atti esecutivi, in quanto essi hanno il loro presupposto logico (non nella sentenza non definitiva, ma) nella sentenza defi- nitiva (avente natura condannatoria): atteso, infatti, che l’appello ha una natura devo- lutiva, la sentenza del giudice d’appello si sostituisce sempre alla sentenza impugnata (sia in caso di accoglimento sia in caso di rigetto dell’impugnazione) e costituisce il titolo per agire esecutivamente nei confronti del debitore che non adempia spontanea- mente all’obbligo condannatorio. 16 3.4. Un’ultima questione importante è quella di stabilire che cosa succede quando in un processo sia invocata l’autorità di una sentenza avente ad oggetto una questione di fatto che ha rilevanza pregiudiziale (in senso tecnico o in senso logico) rispetto a quella che è oggetto dell’altro processo. Sebbene si discuta sul significato da attribuire al concetto di autorità della sentenza, l’interpretazione giurisprudenziale prevalente è nel senso di ritenere che, quando la sentenza invocata nel processo sulla questione dipendente sia stata impugnata, l’art. 337, comma 2, c.p.c. consente che il processo avente ad oggetto la questione dipendente possa essere sospeso fino al passaggio in giudicato della sentenza che decide l’impugnazione avverso la sentenza sulla que- stione pregiudiziale. Secondo la giurisprudenza, però, tale sospensione può essere de- cisa dal giudice del processo avente ad oggetto la questione dipendente solo quando egli non intenda spontaneamente adeguarsi a quanto stabilito nella sentenza impu- gnata. 4. L’impugnazione nel processo con pluralità di parti: cause inscindibili e dipendenti e cause scindibili. 4.1. Se il processo di primo grado si è svolto tra una pluralità di parti, anche il processo di impugnazione è generalmente destinato a coinvolgere più parti. Non in tutti i casi, però, la pluralità di parti del processo di primo grado viene replicata negli stessi termini anche nel processo impugnatorio, potendo accadere che invece solo al- cune delle parti del precedente grado di giudizio siano chiamate a costituirsi anche nel grado impugnatorio del processo. In tema di impugnazioni, però, la legge processuale civile non segue la classica distinzione tra litisconsorzio necessario e litisconsorzio facoltativo che caratterizza in- vece la disciplina del processo con pluralità di parti in primo grado. Gli artt. 331 e 332 c.p.c., al contrario, contrappongono, da un lato, le cause inscindibili e dipendenti e, dall’altro lato, le cause scindibili. Le cause inscindibili e le cause dipendenti sono con- siderate unitariamente dall’art. 331 c.p.c. Entrambi questi due tipi di cause pongono, infatti, una comune esigenza in caso di impugnazione della sentenza che ha definito la causa scindibile o le due (o più) cause dipendenti: quella di assicurare l’unitarietà della decisione, e cioè il fatto che la causa inscindibile o le cause dipendenti siano decise in un’unica pronuncia da uno stesso giudice. Una causa si considera inscindi- bile quando verte su una domanda relativa ad una vicenda sostanziale facente capo ad una pluralità di soggetti: se la sentenza di primo grado è impugnata, la vicenda sostanziale dev’essere decisa unitariamente anche nel giudizio impugnatorio. Ma an- che quando la sentenza di primo grado decide due (o più) domande distinte ma tra loro dipendenti, le due (o più) vicende sostanziali dedotte devono essere decise unita- riamente anche nel giudizio impugnatorio, al fine di salvaguardare la coerenza delle decisioni delle due (o più) cause. La sentenza che decide la causa inscindibile o le due (o più) cause dipendenti dev’essere, dunque, necessariamente impugnata nei confronti di tutte le parti del precedente grado di giudizio. La categoria delle cause scindibili non pone, invece, l’esigenza che le due (o più) domande cumulate nel processo di primo grado siano decise unitariamente anche dopo l’impugnazione della sentenza, essendo sufficiente che sia assicurata l’unitarietà 17 del procedimento impugnatorio. La sentenza che decide due (o più) cause scindibili cumulate nello stesso processo può essere, dunque, impugnata nei confronti soltanto di alcune delle parti del precedente grado di giudizio poiché l’autonomia delle vicende sostanziali dedotte ammette la possibilità che le due (o più) cause siano decise, in parte, dalla sentenza sull’impugnazione e, in parte, della sentenza di primo grado. La legge processuale si preoccupa solo di assicurare che l’impugnazione che sia even- tualmente proposta da una delle parti nei cui confronti la prima impugnazione non è stata (legittimamente) proposta sia presentata nello stesso procedimento già pendente, in ossequio al principio – emergente dalla regola generale dell’art. 335 c.p.c. – se- condo cui le impugnazioni avverso una stessa sentenza devono essere sempre decise congiuntamente, così da assicurare la coerenza delle decisioni3. 4.2. L’art. 331 c.p.c. non contiene una definizione delle cause inscindibili e delle cause dipendenti. Tuttavia, se è pacifico ricondurre alla categoria delle cause inscin- dibili i casi del processo litisconsortile necessario e del processo litisconsortile unitario, la giurisprudenza di legittimità vi annovera anche il caso del processo in cui un terzo sia intervenuto in via adesiva ai sensi dell’art. 105, comma 2, c.p.c. e il caso in cui, a seguito dell’intervento (volontario o coatto) del successore nel diritto controverso ai sensi dell’art. 111 c.p.c., non sia possibile ottenere l’estromissione del dante causa. In particolare, in questi due ultimi casi, l’impugnazione della sentenza dev’essere propo- sta anche nei confronti (i) dell’interventore, atteso il carattere meramente adesivo del suo intervento, e (ii) del dante causa, essendo stato eletto sostituto processuale dalla legge in caso di successione nel diritto controverso, nonché dell’avente causa, in quanto titolare del diritto soggettivo fatto valere in giudizio. Appartengono, invece, alla categoria delle cause dipendenti tutte quelle situazioni in cui la decisione di una causa non può prescindere da come è decisa l’altra causa per il carattere di pregiudizialità o di alternatività che le questioni oggetto dell’una hanno rispetto alle questioni che sono trattate nell’altra. Se rientrano indubbiamente in questa categoria i casi di pregiudizialità in senso tecnico e in senso logico, va ricor- dato che la giurisprudenza di legittimità vi annovera anche il caso dell’interventore principale ai sensi dell’art. 105, comma 1, c.p.c. e il caso della contestazione della legittimazione passiva da parte del convenuto con chiamata in causa del presunto vero obbligato. Nel caso dell’interventore principale, che fa valere una pretesa sostanziale incompatibile con quella di entrambe le parti, l’impugnazione della sentenza dev’es- sere necessariamente proposta nei confronti sia della controparte che dell’interventore (o di entrambe le parti originarie se l’impugnante è l’interventore) in quanto sussiste una relazione di alternatività tra il diritto dell’attore nei confronti del convenuto e il diritto dell’interventore nei confronti di entrambe le parti. Analogamente, nel caso in cui il convenuto si difenda dalla domanda dell’attore eccependo il difetto della legit- timazione ad agire nei suoi confronti e l’attore, a sua volta, chiami in causa ex art. 106 c.p.c. colui che, secondo il convenuto, sarebbe il vero titolare della situazione giuri- dica soggettiva passiva (corrispondente al diritto soggettivo fatto valere dall’attore), la sentenza va necessariamente impugnata nei confronti di tutte le parti del giudizio, es- sendovi anche in questo caso una relazione di alternatività tra la causa promossa dall’attore contro il convenuto e la causa che l’attore ha instaurato con la chiamata in 3 V. supra la nota 2. 20 342, comma 1, nn. 1, 2 e 3, c.p.c. I casi di inammissibilità della domanda di impu- gnazione previsti espressamente dalla legge processuale non vanno interpretati tassa- tivamente: i requisiti essenziali della domanda di impugnazione sono certamente molti di più di quelli espressamente previsti dalla legge processuale. La sanzione dell’inam- missibilità, ad esempio, vale certamente anche per i casi di acquiescenza espressa o di precedente giudicato sebbene non siano espressamente previsti dalla legge come ipotesi di inammissibilità. La domanda di impugnazione è giudicata invece improcedibile quando l’inerzia della parte impugnante impedisce la prosecuzione del processo impugnatorio. L’omis- sione degli atti processuali è, però, spesso all’origine anche della sanzione dell’estin- zione del processo impugnatorio. Ad esempio, se l’appellante, dopo essersi costituito in giudizio (depositando in cancelleria l’atto di appello notificato nel termine perento- rio di 10 giorni dalla notificazione), omette di comparire alla prima udienza, l’atto di appello è considerato improcedibile. Al contrario, se le parti omettono di comparire a due udienze successive per un intercorso accordo transattivo, il giudice dichiara l’estinzione del processo. Poiché dipendono da cause dello stesso tipo, i casi di improcedibilità della do- manda di impugnazione e quelli di estinzione del processo impugnatorio vanno inter- pretati tassativamente, senza possibilità di estensione analogica. La dichiarazione giudiziale di inammissibilità o di improcedibilità della domanda di impugnazione comporta la medesima conseguenza della preclusione del potere di riproporre la medesima domanda impugnatoria, sebbene il termine legale per la sua proposizione sia eventualmente ancora pendente (artt. 358 e 387 c.p.c.). L’estinzione del processo impugnatorio instaurato con un mezzo ordinario di impugnazione com- porta, invece, il passaggio in giudicato della sentenza impugnata (art. 338 c.p.c.), a meno che ne siano stati modificati gli effetti con una sentenza non definitiva pronun- ciata prima della dichiarazione di estinzione del processo. APPUNTI DI DIRITTO PROCESSUALE CIVILE CORSO 50017 – MODULO II – CLASSE 20 ANNO ACCADEMICO 2021-2022 PARTE SECONDA SOMMARIO: 1. Le caratteristiche generali dell’appello: mezzo ordinario di impugnazione, a critica libera e avente natura devolutiva e sostitutiva. Le sentenze appellabili – 2. L’oggetto del processo di appello e l’ambito della cognizione del giudice di appello. La riproposizione delle domande ed eccezioni assor- bite. Il divieto di nuove domande, eccezioni ed istanze istruttorie in appello – 3. Lo svolgimento del processo di appello: il c.d. «filtro» in appello e l’udienza di trattazione della causa in appello. L’istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva o dell’esecuzione della sentenza appellata. La decisione della domanda di appello e la rimessione della causa al primo giudice. 1. Le caratteristiche generali dell’appello: mezzo ordinario di impugnazione, a critica libera e avente natura devolutiva e sostitutiva. L’ambito di applicazione dell’appello: le sentenze appellabili. 1.1. L’appello può essere definito, in generale, come un mezzo impugnatorio ordi- nario e a critica libera, contraddistinto da una natura devolutiva e sostitutiva. Come detto, il carattere ordinario dell’appello lo rende esperibile nei confronti di sentenze che non siano ancora passate in giudicato al fine di denunciarne i vizi palesi, mentre la possibilità di criticare liberamente la sentenza impugnata consente all’appellante di censurarne qualunque tipo di errore – in procedendo e/o in iudicando – senza i vincoli imposti da un catalogo legale dei vizi denunciabili. Il tratto caratteristico dell’appello resta, tuttavia, la sua natura devolutiva che rende il relativo procedimento un vero e proprio secondo grado di giudizio: l’appellante, infatti, non si limita a chiedere l’accertamento dei vizi della sentenza impugnata, ma è legittimato anche (e soprattutto) a chiedere la riforma della sentenza appellata. La riforma della sentenza è la conseguenza dell’accoglimento dell’impugnazione e com- porta una nuova decisione delle istanze di tutela giurisdizionale che siano state devo- lute dall’appellante al giudice dell’appello in quanto erroneamente rigettate dal giu- dice di primo grado. L’oggetto del processo d’appello è costituito, dunque, dalle istanze di tutela giurisdizionale (domande ed eccezioni) decise in primo grado che siano state espressamente devolute dall’appellante al giudice dell’impugnazione, af- finché siano nuovamente esaminate e decise alla luce dei motivi di appello su cui si fonda la domanda di impugnazione. Corollario della natura devolutiva dell’appello è, infine, il carattere sostitutivo della relativa sentenza: sia quando accoglie l’appello (con riforma della sentenza impugnata) sia quando rigetta l’appello (con conferma della sentenza di primo grado), la sentenza di appello è destinata a sostituire – in tutto o in parte – la precedente decisione. Essendo essa il risultato di una nuova decisione della controversia (o, per lo meno, di quelle istanze di tutela giurisdizionale che sono state devolute dall’appellante), la sentenza di appello costituisce la nuova ed unica regola 2 sostanziale della controversia. Malgrado l’importanza dell’appello, che costituisce l’unico mezzo ordinario di im- pugnazione delle sentenze di primo grado, il dettato costituzionale non contiene al- cuna salvaguardia dell’appello e, in generale, dei mezzi impugnatori diversi dal ricorso per cassazione nei casi di violazione della legge. Quest’ultimo rappresenta, dunque, l’unico strumento impugnatorio tutelato dal legislatore costituzionale all’art. 111, comma 7, Cost. L’assenza di una previsione costituzionale dell’appello non impedisce, tuttavia, di riconoscere un ruolo sostanzialmente ineliminabile dell’appello nel quadro normativo dei mezzi impugnatori: l’aspirazione dell’ordinamento al conseguimento di una decisione corretta e giusta, ricavabile soprattutto dalla garanzia costituzionale della motivazione della sentenza, giustifica l’esistenza di un mezzo impugnatorio che, come l’appello, assicuri la possibilità di una nuova decisione della controversia alla luce degli errori commessi dal giudice di primo grado e denunciati dall’appellante. Il fatto che l’appello sia regolato soltanto dalla legge ordinaria consente, però, che l’ac- cesso a tale mezzo impugnatorio possa essere limitato o condizionato, pur senza pro- vare la parte soccombente ad un giudizio di secondo grado sulle istanze di tutela giu- risdizionale devolute dall’appellante. E questo è ciò che è accaduto, ad esempio, con l’introduzione del giudizio preli- minare di inammissibilità dell’appello sulla scorta della ragionevole probabilità che l’impugnazione non sia accolta (c.d. filtro in appello) ad opera del d.l. n. 83 del 2012, che a tal fine ha aggiunto gli artt. 342-bis e 342-ter c.p.c. Tale giudizio di inammissi- bilità non preclude certamente l’esercizio del potere di appellare la sentenza, ma an- tepone all’esame e alla decisione della domanda di appello un controllo preliminare sulla fondatezza dell’impugnazione. Come detto, l’appello è un mezzo impugnatorio di secondo grado in quanto con- sente al giudice d’appello di riesaminare e ridecidere le domande (e le eccezioni) ri- gettate dal giudice primo grado e devolute al giudice superiore dall’appellante. In quanto mezzo impugnatorio di secondo grado, dunque, l’appello esige che il giudice dell’impugnazione sia sempre chiamato a pronunciarsi sul merito della controversia, quantunque nei limiti delle sole istanze di tutela espressamente devolute dalla parte impugnante. Ciò significa che è precluso all’appellante contestare soltanto errori in procedendo della sentenza di primo grado poiché, in una tale evenienza, l’appello sarebbe limitato all’accertamento di una questione pregiudiziale di rito rigettata in primo grado e il giudizio di secondo grado non potrebbe risolversi in una pronuncia (anche) sul merito della controversia. Ne consegue che con l’appello possono censu- rarsi violazioni della legge processuale solo se tali censure si accompagnano alla con- testuale denuncia di errori in iudicando della sentenza: in altri termini, solo se tali censure di rito non impediscono il riesame nel merito della controversia mediante la decisione delle domande (ed eccezioni) devolute dall’appellante. 2.2. L’ambito di applicazione dell’appello è costituito dai provvedimenti giurisdi- zionali che possono essere impugnati con tale strumento. Ai sensi dell’art. 339 c.p.c., sono appellabili le sentenze pronunciate in primo grado dal giudice di pace o dal tribunale che non siano state dichiarate inappellabili dalla volontà delle parti o dalla legge. 5 avviene mediante il deposito nella cancelleria del giudice d’appello della comparsa di costituzione e risposta almeno 20 giorni prima dell’udienza di trattazione dell’appello: nella propria comparsa, dunque, la parte appellata, oltre a prendere posizione sulla domanda impugnatoria avversaria, è legittimata a proporre appello incidentale alla stessa sentenza appellata ex adverso o alla sentenza non definitiva su cui abbia fatto riserva di appello ai sensi dell’art. 340 c.p.c. 2. L’oggetto del processo di appello e l’ambito della cognizione del giudice di appello. La riproposizione delle domande ed eccezioni assorbite. Il divieto di nuove domande, eccezioni ed istanze istruttorie in appello. 2.1. Ciò su cui è chiamato a pronunciarsi il giudice dell’appello è determinato dal carattere devolutivo di questo mezzo impugnatorio. Sebbene il principio devolutivo non sia espressamente definito dalla legge processuale, se ne può trarre una prima formulazione dall’art. 346 c.p.c. secondo cui le domande e le eccezioni non accolte dal giudice di primo grado che non siano espressamente riproposte dall’appellante si intendono da questi rinunciate. Se ne trae, pertanto, la regola, che è alla base del prin- cipio devolutivo e, dunque, del giudizio di appello, secondo cui l’oggetto del processo d’appello è determinato dalle istanze di tutela giurisdizionale (domande ed eccezioni) che sono state rigettate dalla sentenza appellata e che la parte appellante sceglie di devolvere – cioè: di sottopone nuovamente – all’esame e alla decisione del giudice di appello alla luce delle censure in procedendo o in iudicando esposte dall’appellante nell’atto di impugnazione. Questa regola rende il giudizio di appello non un mero novum iudicium ma una vera e propria revisio prioris instantiae. L’oggetto del processo d’appello va tenuto distinto dall’ambito della cognizione del giudice d’appello. Esso è costituito dalle questioni che devono essere necessariamente esaminate dal giudice per decidere le istanze di tutela giurisdizionale devolute dall’ap- pellante e che quest’ultimo intende parimenti devolvere al giudice dell’appello affin- ché siano da questi correttamente risolte e poste a fondamento della nuova decisione delle istanze devolute. In particolare, le questioni individuano le situazioni di fatto e di diritto che compongono la fattispecie costitutiva del diritto soggettivo dedotto in giudizio con la domanda introduttiva del processo di primo grado. Nel risolvere tali questioni il giudice di primo grado può incorrere in un errore in iudicando, così come nel risolvere le questioni attinenti al processo il giudice di primo grado può incorrere in un errore in procedendo. Gli errori commessi dal giudice di primo grado nel risol- vere tali questioni sono, dunque, le ragioni per cui il giudice ha deciso erroneamente la relativa istanza di tutela giurisdizionale, così che la loro individuazione nell’atto di impugnazione consente l’enucleazione dei motivi di appello. 2.2. L’oggetto dell’appello può essere ulteriormente ampliato con riferimento alle domande ed eccezioni assorbite dal giudice di primo grado che, ai sensi dell’art. 346 c.p.c., ciascuna delle parti del giudizio di appello può riproporre al giudice dell’impu- gnazione: la portata normativa dell’art. 346 c.p.c. non è dunque limitata alla defini- zione del principio devolutivo, ma prevede anche il potere di riproposizione delle istanze non accolte in primo grado in quanto legittimamente assorbite. 6 Una domanda o una eccezione può dirsi assorbita quando la sua decisione espressa è resa superflua dall’accoglimento di una domanda o di una eccezione logicamente pregiudiziale che già attribuisce alla parte tutta la tutela giurisdizionale richiesta. In relazione a due (o più) domande proposte cumulativamente nello stesso pro- cesso, si ha assorbimento quando sussiste un rapporto di dipendenza tra le domande, che può essere un rapporto di dipendenza da accoglimento o un rapporto di dipen- denza da rigetto: - nel primo caso, la domanda subordinata è proposta in via dipendente dall’ac- coglimento della domanda pregiudiziale (o principale) come, ad esempio, nel caso della domanda di condanna al pagamento degli interessi che dipende dall’accoglimento della domanda di condanna al pagamento del capitale: se la domanda pregiudiziale (o principale) è rigettata, non è necessario decidere la domanda subordinata, che viene quindi assorbita; - nel secondo caso, la domanda subordinata è proposta in via dipendente dal rigetto della domanda alternativa (o incompatibile) come, ad esempio, nel caso della domanda di condanna del conduttore al rilascio dell’immobile alla sca- denza del contratto che dipende dal rigetto della domanda di rivendica dello stesso bene immobile: se la domanda alternativa (o incompatibile) è accolta, non è necessario decidere la domanda subordinata, che viene quindi assorbita. In relazione a più eccezioni proposte cumulativamente nello stesso processo, si ha assorbimento quando, trattandosi di più eccezioni dello stesso tipo (ad esempio: più eccezioni di merito), l’accoglimento di quella di più pronta soluzione sul piano istrut- torio assicura alla parte la tutela giurisdizionale richiesta (ed esempio: il rigetto per infondatezza nel merito dell’istanza avversaria). Il potere di riproporre le domande ed eccezioni assorbite tutela, anzitutto, il diritto della parte ad ottenere una decisione espressa sull’istanza di tutela giurisdizionale pro- posta. Ma tale potere assicura soprattutto la certezza e la giustizia dei rapporti giuridici dedotti in giudizio poiché, in caso di riproposizione, l’esito del giudizio di appello non è condizionato soltanto dalla decisione delle domande ed eccezioni (rigettate in primo grado e) devolute dall’appellante con la domanda di impugnazione, ma anche dalla decisione delle domande ed eccezioni (assorbite e) riproposte dall’appellante o dall’appellato nel giudizio impugnatorio. 2.3. L’oggetto del processo d’appello può essere ampliato mediante la proposizione di nuove domande, eccezioni ed istanze istruttorie. Tale prerogativa è però assoluta- mente eccezionale in quanto vige un generale divieto di nova in appello ai sensi dell’art. 345 c.p.c. Il comma 1 dell’art. 345 c.p.c. stabilisce che sono inammissibili, anche a seguito di un rilievo d’ufficio del giudice, le domande nuove proposte per la prima volta in appello: sono domande nuove quelle con cui è fatto valere un diritto soggettivo diverso da quello dedotto con la domanda giudiziale nel processo di primo grado, e cioè tutte le domande aventi ad oggetto un diritto eterodeterminato che sia contraddistinto da una fattispecie costitutiva diversa da quella dedotta dalla parte nella domanda 7 giudiziale. Sono invece eccezionalmente ammesse per la prima volta in appello anche se oggettivamente nuove: - le domande di condanna al versamento di accessori, frutti e interessi maturati dopo la sentenza di primo grado e la domande di condanna al risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza di primo grado (art. 345, comma 1, c.p.c.): se- condo la giurisprudenza di legittimità, però, tali domande nuove sono ammis- sibili in appello solo se rappresentano lo sviluppo logico e cronologico di ana- loghe domande proposte in primo grado per chiedere la condanna al versa- mento di accessori, frutti e interessi maturati fino alla sentenza di primo grado e il risarcimento dei danni sofferti fino alla sentenza di primo grado; - tutte le altre domande che, pur avendo anch’esse ad oggetto diritti eterodeter- minati come quelle descritte al punto precedente, possono essere comunque proposte con una fattispecie costitutiva diversa da quella dedotta a fondamento del processo di primo grado nei casi in cui la legge ammette espressamente la mutatio libelli, e cioè il potere della parte di modificare la domanda ai sensi dell’art. 183, comma 5, ultima parte e comma 6, n. 1, c.p.c. (si pensi, ad esem- pio, alla fattispecie dell’art. 1453, comma 2, c.c.). Sono invece sempre ammesse per la prima volta in appello le domande aventi ad og- getto diritti autodeterminati, in quanto esse non comportano alcune effettiva eccezione al divieto di nuove domande in appello. Anche quando, infatti, l’appellante pone a fondamento della domanda riguardante un diritto autodeterminato una fattispecie co- stitutiva diversa da quella dedotta nel processo di primo grado, non si determina alcun mutamento della domanda originaria in quanto il diritto fatto valere resta sempre il medesimo. La natura autodeterminata del diritto comporta, infatti, che la fattispecie costitutiva è irrilevante per la sua identificazione, che viene invece a dipendere dalla mera relazione intercorrente tra il titolare del diritto e il bene su cui tale diritto insiste. Il comma 2 dell’art. 345 c.p.c. stabilisce che sono inammissibili le eccezioni nuove che non sono rilevabili anche d’ufficio: sono, quindi, ammesse per la prima volta in appello le sole eccezioni rilevabili anche d’ufficio (i) in ogni stato e grado del processo e che (ii) non siano state già rilevate nel corso del processo di primo grado. Va ricordato che, ai fini della proposizione dell’eccezione in appello, nei casi ec- cezionali in cui essa è consentita, la prevalente giurisprudenza ritiene indispensabile che l’eccezione faccia riferimento ad un fatto e.m.i. che sia stato già allegato dalla parte nel precedente grado di giudizio, ancorché tale fatto non sia poi stato impiegato per sollevare la relativa eccezione. Infine, il comma 3 dell’art. 345 c.p.c. dichiara inammissibili le nuove istanze istrut- torie in appello sia quando riguardano prove costituende sia quando riguardano prove documentali. Sono tuttavia ammesse eccezionalmente (i) la richiesta di ammissione delle prove costituende o documentali che la parte dimostri di non aver potuto richie- dere o produrre nel precedente grado di giudizio per causa ad essa non imputabile e (ii) la richiesta di deferire alla controparte il giuramento decisorio. Si devono ritenere ammissibili anche le istanze istruttorie che servono a dimostrare la fondatezza delle domande e delle eccezioni nuove ammissibili ai sensi dei commi 1 e 2 dell’art. 345 10 Malgrado il silenzio dell’art. 348-ter c.p.c., la giurisprudenza di legittimità ritiene ricorribile per cassazione ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost. anche l’ordinanza di inammissibilità pronunciata dal giudice d’appello ai sensi dell’art. 348-bis c.p.c. in quanto provvedimento decisorio incidente su diritti soggettivi ed idoneo quindi a pas- sare in giudicato. La proposizione di un ricorso per cassazione cumulativo che abbia ad oggetto sia l’ordinanza di inammissibilità sia la sentenza di primo grado impone alla Corte di cassazione di ritenere assorbita la domanda impugnatoria avverso la sen- tenza di primo grado in caso di accoglimento dell’impugnazione (logicamente pregiu- diziale) avverso l’ordinanza di inammissibilità, poiché il suo annullamento consente al ricorrente di recuperare lo svolgimento del giudizio di appello (e, quindi, un giudizio sul merito della causa) avverso la sentenza di primo grado. Le altre attività di trattazione della causa possono essere così sintetizzate: - l’approfondimento del thema decidendum si svolge in udienza ed è limitato all’eccezionale introduzione di nova in appello ai sensi dell’art. 345 c.p.c. e alla riproposizione delle istanze assorbite dal giudice di primo grado ex art. 346 c.p.c.; - l’istruzione probatoria è ammessa in appello nei limiti dell’art. 345, comma 3, c.p.c. e dell’art. 346 c.p.c., e nelle ipotesi in cui il giudice d’appello è chiamato ad assumere per la prima volta un mezzo di prova di cui il giudice di primo grado ha rifiutato illegittimamente l’acquisizione o ad assumere nuovamente un mezzo di prova che era già stato acquisito in modo illegittimo (cioè con violazione delle norme processuali) dal giudice di primo grado. 3.3. All’udienza di trattazione dell’art. 350 c.p.c. il giudice dell’appello può anche essere chiamato a pronunciarsi sull’istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva o dell’esecuzione della sentenza condannatoria impugnata, che sia stata presentata, contestualmente all’atto di appello, dalla parte impugnante. Ai sensi dell’art. 282 c.p.c., infatti, la sentenza di primo grado avente un contenuto condannatorio è imme- diatamente e provvisoriamente esecutiva ex lege senza necessità di attendere il suo passaggio in giudicato. L’art. 283 c.p.c. consente, tuttavia, alla parte appellante di chiedere al giudice dell’appello di sospendere temporaneamente l’efficacia esecutiva della sentenza appellata (o la sua esecuzione se la parte vittoriosa in primo grado abbia nel frattempo avviato la procedura esecutiva nei confronti del debitore condannato) quando sussistono gravi e fondati motivi per ritenere che il tempo necessario per otte- nere la sentenza del giudice d’appello – che, secondo l’appellante, dovrebbe riformare la pronuncia esecutiva di primo grado liberandolo dall’obbligo condannatorio – l’effi- cacia immediatamente esecutiva della sentenza impugnata arrechi un pregiudizio grave al suo patrimonio. L’art. 351 c.p.c. prevede che l’istanza di inibitoria – come si è soliti qualificare la richiesta di sospensione dell’art. 283 c.p.c. – possa essere decisa dal giudice d’appello, su istanza della parte appellante, anche ante causam, e cioè prima dell’udienza di trattazione dell’appello, quando sussistono ragioni di urgenza che non consentono di attendere lo svolgimento dell’udienza dell’art. 350 c.p.c. A tal fine, il giudice d’appello che accolga la richiesta di decisione ante causam è tenuto a fissare un’apposita udienza in camera di consiglio in cui discutere esclusivamente l’istanza di sospensiva. 11 Se le ragioni di urgenza sono particolarmente gravi, l’appellante può chiedere che l’istanza sospensiva sia decisa (non solo ante causam, ma) addirittura inaudita altera parte: in assenza cioè del contraddittorio con la parte appellata. In questa eventualità, il giudice d’appello è però tenuto ad assicurare all’appellato, seppure ex post, la ga- ranzia del contraddittorio fissando in ogni caso l’udienza in camera di consiglio in cui confermare, modificare o revocare la decisione assunta inaudita altera parte. 3.4. Conclusa la trattazione della causa, si apre la fase decisoria. Il passaggio dalla trattazione alla decisione della causa può realizzarsi secondo una modalità ordinaria o secondo alcune modalità alternative che variano invece a seconda che giudice com- petente sia la corte di appello o il tribunale: - la modalità ordinaria di discussione della causa è comune ai procedimenti di- nanzi alla corte d’appello e al tribunale: udienza di p.c. ex art. 189 c.p.c. + deposito degli scritti conclusionali ex art. 190 c.p.c. (arg. ex combinato disposto degli artt. 359 e 275, comma 1, c.p.c. quando è competente la corte di appello ed ex artt. 359 e 281-quinquies, comma 1, c.p.c. quando è competente il tribu- nale); - con la discussione orale della causa dinanzi alla corte di appello: udienza di p.c. ex art. 189 c.p.c. (in cui ciascuna delle parti può formulare la richiesta di discussione orale della causa) + deposito degli scritti conclusionali ex art. 190 c.p.c. (con rinnovo della richiesta di discussione orale nella memoria di replica) + discussione orale nell’udienza fissata dal presidente della corte di appello (arg. ex artt. 359 e 275, commi 2-4, c.p.c.); - con la discussione mista della causa dinanzi al tribunale: udienza di p.c. ex art. 189 c.p.c. + deposito della sola comparsa conclusionale ex art. 190 c.p.c. + discussione orale della causa in udienza in luogo del deposito delle memorie di replica (arg. ex artt. 359 e art. 281-quinquies, comma 2, c.p.c.); - con la discussione orale ed immediata della causa dinanzi al tribunale: solo udienza di p.c. ex art. 189 c.p.c., in cui non solo le parti, dopo la precisazione delle conclusioni, sono chiamate a discutere la causa, ma in cui il giudice pro- nuncia il dispositivo della sentenza al termine dell’udienza (arg. ex artt. 359 e 281-sexies c.p.c.); Al deposito della memoria di memoria di replica o allo svolgimento dell’udienza di discussione segue il termine per il deposito e la pubblicazione della sentenza di appello. Il giudizio di appello può essere definito da: - sentenza che dichiara l’inammissibilità o l’improcedibilità della domanda di appello per carenza dei presupposti processuali; - ordinanza che dichiara l’inammissibilità della domanda di appello ai sensi dell’art. 348-bis c.p.c.; - sentenza che riforma in tutto o in parte la sentenza appellata (accoglimento totale o parziale della domanda di appello per fondatezza nel merito) o sen- tenza che conferma la sentenza appellata (rigetto della domanda di appello per infondatezza nel merito); - sentenza che, nei casi di cui agli artt. 353-354 c.p.c., annulla la sentenza ap- pellata in caso di accoglimento della domanda impugnatoria e rimette le parti 12 dinanzi al giudice di primo grado per la decisione della causa. I casi di cui agli artt. 353 e 354 c.p.c. corrispondono a tipologie di vizi processuali da interpretare tassativamente rispetto ai quali l’applicazione del principio devolutivo finirebbe per negare all’appellante il doppio grado di giurisdizione sul merito o, per lo meno, lo svolgimento di un doppio grado di giurisdizione sul merito che non sia infi- ciato da vizi del rapporto processuale: - l’art. 353 c.p.c. stabilisce che la sentenza di appello annulla la sentenza con cui il giudice di primo grado ha erroneamente affermato il difetto di giurisdi- zione: il giudice di appello deve rimettere le parti al giudice di primo grado affinché riassumano la causa entro tre mesi dalla comunicazione della sentenza e ottengano la (prima) decisione sul merito; - l’art. 354, comma 2, c.p.c. prevede, invece, che la sentenza di appello annulla la sentenza con cui il giudice di primo grado ha erroneamente dichiarato l’estin- zione del processo: anche in questo caso il giudice di appello deve rimettere le parti al giudice di primo grado affinché riassumano la causa entro tre mesi dalla comunicazione della sentenza e ottengano la (prima) decisione sul merito; - l’art. 354, comma 1, c.p.c. sancisce che la sentenza di appello annulla la sen- tenza con cui il giudice di primo grado si è pronunciato sul merito ma in pre- senza di (i) un vizio (non sanato) di nullità della sentenza per (i-a) nullità della notificazione della citazione, (i-b) omessa integrazione del contradditorio ex art. 102 c.p.c., (i-c) illegittima estromissione di una parte dal processo, o (ii) un vizio di inesistenza della sentenza ex art. 161, comma 2, c.p.c.: in questi casi il giudice di appello deve rimettere le parti al giudice di primo grado affinché riassumano la causa entro tre mesi dalla comunicazione della sentenza e otten- gano la (prima) decisione sul merito processualmente corretta e conservino gli effetti sostanziali e processuali prodotti dalla prima domanda. 3 l’attribuzione del ruolo di giudice di mera legittimità: i concetti di “esatta osservanza” e “uniforme interpretazione” indicano che l’opera giurisdizionale della Corte deve as- sicurare, mediante una interpretazione della legge chiara e risolutrice dei conflitti in- terpretativi esistenti, che la legge sia applicata in modo coerente da tutti i giudici na- zionali, così da garantire l’unità del diritto oggettivo nello Stato. L’assegnazione della ulteriore funzione di tutela dei limiti legali della giurisdizione riflette invece la posizione di vertice della Corte all’interno del sistema burocratico e piramidale dell’amministrazione della giustizia, ma contribuisce anch’essa a garantire indirettamente la nomofilachia attraverso l’uniforme interpretazione dei criteri di ri- parto delle giurisdizioni (ordinaria e speciali). 2. I motivi di ricorso per cassazione. 2.1. I motivi di ricorso per cassazione individuano una serie di vizi di mera legitti- mità della sentenza impugnata consistenti in ipotesi di violazione della legge proces- suale o sostanziale. I motivi di ricorso per cassazione sono elencati tassativamente all’art. 360, comma 1, c.p.c. 1) Motivi attinenti alla giurisdizione: con questo motivo è possibile censurare un errore in procedendo per violazione delle norme processuali relative alla giurisdi- zione. Con riferimento, in particolare, al difetto relativo di giurisdizione ex art. 37 c.p.c., la giurisprudenza della Corte ha elaborato il principio del c.d. giudicato impli- cito sulla giurisdizione in forza del quale: - la sentenza pronunciata in grado di appello (o in unico grado) non è ricorribile per cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione e - la questione di giurisdizione (che, in base all’art. 37 c.p.c. è rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo) non è sollevabile, nemmeno d’uffi- cio, nel giudizio di cassazione quando la sentenza che ha definito nel merito il giudizio di primo grado è stata appel- lata con riferimento soltanto al capo esplicito sul merito e non anche con riferimento al capo implicito sulla giurisdizione. Secondo la giurisprudenza della Corte, infatti, ogni pronuncia sul merito presuppone sempre l’implicita affermazione della giurisdi- zione da parte del giudice, così che un’impugnazione relativa soltanto al merito equi- vale ad un’impugnazione parziale della sentenza che determina il passaggio in giudi- cato del capo pregiudiziale implicito sulla giurisdizione non impugnato (art. 329, comma 2, c.p.c.) e preclude sia la ricorribilità per cassazione avverso la sentenza di appello (o di unico grado) per motivi di giurisdizione sia la rilevabilità, anche d’ufficio, della questione di giurisdizione. La Corte di cassazione può essere investita della questione di giurisdizione anche al di fuori della logica dell’impugnazione della sentenza: mediante il regolamento pre- ventivo di giurisdizione ex art. 41 c.p.c. In questo caso, la questione di giurisdizione è devoluta alla Corte di cassazione (a sezioni unite) mediante un’istanza proposta da una delle parti di un processo pendente in primo grado prima che la causa sia decisa 4 nel merito (o, comunque, prima che sia pronunciato un qualsiasi provvedimento – anche in rito – che implichi l’esercizio del potere giurisdizionale). La proposizione del regolamento comporta la sospensione obbligatoria del processo di primo grado ex art. 367 c.p.c. tranne nei casi in cui l’istanza è manifestamente inammissibile o manifesta- mente infondata. Giova ricordare, da ultimo, che la Corte può essere investita del motivo inerente alla giurisdizione anche rispetto alle pronunce degli organi di ultima istanza delle giu- risdizioni speciali, come il Consiglio di Stato e la Corte dei conti, sia quando deve risolvere i conflitti di giurisdizione tra il giudice ordinario e un giudice speciale sia quando deve risolvere i conflitti tra due giurisdizioni speciali, ai sensi dell’art. 362 c.p.c. che attua la previsione dell’art. 111, comma 8, Cost. La sentenza della Corte sulla giurisdizione produce sempre i suoi effetti sul processo pendente: c.d. giudicato processuale (quindi: meramente formale) ad efficacia esterna. 2) Violazione delle norme sulla competenza salvo il caso in cui è prescritto il rego- lamento di competenza: con questo motivo è possibile censurare un errore in proce- dendo per violazione delle norme processuali relative alla competenza. L’art. 360, comma 1, n. 2, c.p.c. esclude la ricorribilità per cassazione per viola- zione delle norme sulla competenza nei casi in cui il provvedimento pronunciato in grado di appello o in unico grado abbia ad oggetto soltanto la questione di incompe- tenza: in questi casi è, infatti, consentita soltanto la proposizione – dinanzi alla stessa Corte di cassazione – di un altro mezzo impugnatorio ordinario che è il regolamento necessario di competenza ex art. 42 c.p.c. Il ricorso per cassazione ex art. 360, comma 1, n. 2, c.p.c. concorre invece con il mezzo impugnatorio ordinario del regolamento facoltativo di competenza ex art. 43 c.p.c. – proponibile anch’esso alla Corte di cas- sazione – con cui è possibile impugnare il capo relativo alla competenza di una sen- tenza che si pronuncia, oltre che sulla competenza, anche sul merito. Se è proposto prima il regolamento di competenza, il termine per la proposizione dell’impugnazione ordinaria (che, in questo caso, è il ricorso per cassazione) contro il capo della sentenza relativo al merito resta sospeso in attesa della decisione sul regolamento. Se invece è proposta prima l’impugnazione ordinaria, la successiva proposizione del regolamento facoltativo determina la sospensione del processo impugnatorio sul merito in attesa della pronuncia sul regolamento. In entrambi i tipi di regolamento la sentenza della Corte produce i suoi effetti sul processo pendente (c.d. giudicato processuale mera- mente formale ad efficacia esterna). 3) Violazione o falsa applicazione di norme di diritto e di accordi o contratti col- lettivi nazionali di lavoro: con questo motivo è possibile censurare un errore in iudi- cando per violazione di norme di diritto o di accordi o contratti collettivi nazionali di lavoro. Le norme di diritto vanno identificate nelle norme di diritto sostanziale (ma talvolta anche di diritto processuale: come nel caso dei giudizi di opposizione all’esecuzione e di opposizione agli atti esecutivi) che sono state impiegate dal giudice della sentenza impugnata come metro di giudizio e, quindi, come regola o parametro per la decisione 5 del caso concreto. Nel concetto di norme di diritto rientrano le norme del diritto ita- liano ed europeo, ma non quelle del diritto straniero. L’equiparazione degli accordi o contratti collettivi nazionali di lavoro alle norme di diritto è stata effettuata dal legisla- tore nel 2006 (d.lgs. n. 40/2006) e vale solo ai fini della esperibilità del motivo di ricorso per cassazione dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. Ai fini dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. per violazione si intende l’errore di indi- viduazione della norma (o del suo significato) applicabile al caso concreto, mentre per falsa applicazione si intende l’erronea individuazione della portata precettiva della norma e, quindi, l’errore di sussunzione del fatto concreto nella fattispecie astratta di una norma. 4) Nullità della sentenza o del procedimento: con questo motivo è possibile cen- surare un errore in procedendo per violazione delle norme processuali diverse da quelle relative alla giurisdizione e alla competenza (i motivi di cui ai nn. 1 e 2 dell’art. 360, comma 1, c.p.c. sono dunque ipotesi speciali del motivo di cui al n. 4). Quando è chiamata ad esaminare questo motivo di ricorso (e quelli analoghi dei nn. 1 e 2), la Corte di cassazione può avvalersi di un potere di cognizione più ampio rispetto a quello di cui può avvalersi in occasione dell’esame dei motivi di ricorso dei nn. 3 e 5, con cui può essere censurata la violazione della legge sostanziale. Quando la violazione della legge processuale rende nullo un atto del procedimento o la sen- tenza, l’accertamento della nullità richiede che il giudice conosca lo svolgimento del processo allo stesso modo di come si conosce un fatto: la Corte, così come il giudice di merito, può conoscere lo svolgimento del fatto-processo in modo diretto ed auto- nomo, cioè mediante l’accesso ai fascicoli processuali delle parti e al fascicolo d’uffi- cio. Lo stesso non accade, invece, per la conoscenza della vicenda sostanziale dedotta in giudizio dalle parti ai fini del sindacato sui motivi ex nn. 3 e 5, che la Corte, in quanto giudice di mera legittimità, non può indagare autonomamente, ma conoscere soltanto entro i limiti in cui essa è stata ricostruita nella sentenza impugnata. 5) Omesso esame circa un fatto che sia decisivo per il giudizio e che sia stato og- getto di discussione tra le parti: con questo motivo è possibile censurare un errore in iudicando per omesso esame di un fatto decisivo e controverso. La giurisprudenza di legittimità, a seguito della riduzione dell’ambito di applica- zione di questo motivo di ricorso per cassazione ad opera del d.l. n. 134/2012, tende ad ammettere la ricorribilità per cassazione per vizio di motivazione solo nelle ipotesi di carenza della motivazione per omesso esame di un fatto decisivo e controverso, e non più anche in quelle – formalmente abrogate dal legislatore del 2012 – che sono relative ad una motivazione materialmente assente o insufficiente o logicamente con- traddittoria, in quanto esse vengono ora a configurare delle ipotesi di omissione della motivazione censurabili come nullità della sentenza ex art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c. (per violazione dell’art. 132, comma 1, n. 4, c.p.c. relativamente alla motivazione della decisione come parte essenziale del contenuto formale della sentenza). Un fatto può definirsi decisivo quando è determinante per la soluzione della con- troversia anche se non si tratta di un fatto costitutivo oppure estintivo, modificativo o 8 a) indicazione delle parti; b) indicazione della sentenza o decisione impugnata; c) esposizione sommaria dei fatti di causa (vicenda processuale e vicenda sostanziale); d) i motivi per i quali si chiede la cassazione della sentenza e le norme di diritto su cui tali motivi si fondano; e) indicazione specifica degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali si fonda il ricorso; f) indicazione della procura speciale (rilasciata, a pena di inammissibilità del ricorso, ad un avvocato abilitato a patrocinare dinanzi alle magistra- ture superiori ed iscritto all’apposito albo ex art. 365 c.p.c.) e dell’even- tuale decreto di ammissione al gratuito patrocinio. Gli ultimi 4 elementi (lettere c-f) garantiscono l’autonomia del ricorso per cas- sazione: la domanda di impugnazione deve essere completamente autonoma nel senso che deve consentire alla Corte di cassazione la possibilità di compren- dere le ragioni dell’impugnazione e gli argomenti posti a suo fondamento me- diante l’esame del testo del ricorso e la consultazione degli atti e dei documenti dei precedenti gradi di giudizio ivi richiamati. La giurisprudenza di legittimità ha però irrigidito questa regola elaborando il c.d. principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, secondo cui, a pena di inammissibilità, il ricorso non deve solo indicare la fase processuale in cui sono stati posti in essere (e la se- zione del fascicolo processuale di parte in cui si trovano) gli atti e i documenti su cui il ricorso si fonda, ma deve anche contenere la trascrizione o il riassunto del contenuto di tali atti e documenti. Pur essendo stata a lungo sostenuta dalla giurisprudenza della Corte, in tempi più recenti questa lettura rigorosa dell’au- tosufficienza del ricorso è stata attenuata nel senso di richiedere al ricorrente, a pena di inammissibilità del ricorso, la sola indicazione specifica della fase pro- cessuale in cui l’atto è stato posto in essere o il documento è stato prodotto e della sezione del fascicolo processuale in cui l’atto o il documento sono conte- nuti. - Deposito del ricorso notificato presso la cancelleria della Corte di cassazione, a pena di improcedibilità della domanda di impugnazione, nel termine peren- torio di 20 gg. dalla notifica (o dall’ultima notifica) del ricorso. A pena di improcedibilità della domanda di impugnazione, l’art. 369, commi 2 e 3, c.p.c. richiede inoltre al ricorrente di depositare, contestualmente al ricorso notificato, (i) l’eventuale decreto di ammissione al gratuito patrocinio, (ii) la co- pia autentica della sentenza o decisione impugnata, (iii) la procura speciale se conferita con atto separato (dal ricorso), (iv) gli atti processuali, i documenti e gli accordi o contratti collettivi su cui il ricorso si fonda e (v) l’istanza di trasmis- sione del fascicolo d’ufficio alla cancelleria della Corte di cassazione. - Notifica del controricorso al ricorrente nel termine perentorio di 20 gg. dalla scadenza del termine per il deposito del ricorso. Ai sensi dell’art. 370, comma 1, c.p.c., l’omessa o tardiva notifica del controricorso comporta che al contro- ricorrente è soltanto preclusa la possibilità di depositare le memorie di tratta- zione ex art. 378 c.p.c. (mentre rimane ferma la possibilità di partecipare 9 all’udienza di discussione). Il contenuto formale del controricorso è quello richiesto a pena di inammissibi- lità dagli artt. 365 e 366 c.p.c. per il ricorso, ai sensi del rinvio contenuto nell’art. 370, comma 2, c.p.c. - Deposito del controricorso notificato presso la cancelleria della Corte di cas- sazione entro il termine perentorio di 20 gg. dalla notificazione del controri- corso. Ai sensi dell’art. 370, comma 3, c.p.c., il controricorrente ha l’onere di deposi- tare, unitamente al controricorso notificato, anche “gli atti e i documenti” e la “procura speciale” se conferita con atto separato (dal ricorso): questa parte della disposizione è interpretata come un richiamo all’art. 369, comma 2, c.p.c. con la conseguenza che si richiede al controricorrente di depositare anche l’even- tuale decreto di ammissione al gratuito patrocinio e la copia autentica della sentenza o decisione impugnata (nei casi in cui il controricorso contenga un’im- pugnazione in via incidentale della sentenza non definitiva o della stessa sen- tenza definitiva impugnata ex adverso). Il potere di impugnare in via incidentale una sentenza ricorribile per cassazione si esercita con il ricorso incidentale da proporsi, a pena di improcedibilità, nel controri- corso tempestivamente depositato. Al pari di ogni altra impugnazione in via inciden- tale, il ricorso incidentale, che può essere tempestivo o tardivo, consente al controri- corrente di impugnare non solo la stessa sentenza impugnata dal ricorrente principale in caso di soccombenza parziale e reciproca (o in caso di giudizio con pluralità di parti ex artt. 331 e 332 c.p.c.), ma anche la sentenza non definitiva pronunciata nel corso del precedente grado di giudizio in caso di soccombenza virtuale. A quest’ultimo proposito, va ricordato che l’art. 360, comma 3, c.p.c. consente alla parte soccombente di impugnare la sentenza non definitiva senza necessità di formu- lare una riserva di impugnazione, ma automaticamente a seguito della impugnazione della sentenza definitiva. Ciò può realizzarsi: - sia mediante un unico ricorso per cassazione in via principale: quando la parte che è risultata soccombente sulla sentenza non definitiva sia soccombente an- che su quella definitiva, - sia mediante un ricorso per cassazione in via incidentale: quando la parte che è risultata soccombente sulla sentenza non definitiva sia vittoriosa sulla sen- tenza definitiva. Al contrario, ai sensi dell’art. 361 c.p.c., per impugnare le sentenza di condanna generica (art. 278 c.p.c.) o la sentenza parzialmente definitiva pronunciata in grado di appello (o in unico grado) è richiesta la formulazione di una riserva di ricorso per cassazione nel termine (breve o lungo) per proporre l’impugnazione. La riserva si scio- glie a seguito della impugnazione della sentenza sul quantum o, comunque, della sen- tenza che definisce la parte della controversia non ancora definita: in particolare, la pronuncia su cui è stata formulata la riserva può essere ricorsa per cassazione o (i) in via principale insieme alla sentenza successiva o (ii) in via incidentale a seguito della impugnazione della sentenza successiva ad opera della controparte. 10 La giurisprudenza di legittimità ha elaborato inoltre il principio del ricorso inciden- tale condizionato con riferimento al caso in cui sia stata ricorsa in via incidentale una sentenza non definitiva pronunciata in grado di appello (o in unico grado) quando il ricorso principale è stato proposto dalla controparte soccombente sulla sentenza defi- nitiva sul merito. In questo caso, la giurisprudenza della Corte sostiene che il ricorso incidentale dev’essere sempre considerato implicitamente condizionato all’esame e all’accoglimento del ricorso principale in forza del principio costituzionale della ra- gionevole durata del processo (art. 111, comma 2, Cost.) in quanto – secondo la Corte – il “fine primario” del processo è la decisione sul merito della controversia, che è oggetto del ricorso principale e non invece del ricorso incidentale, che, riguardando una sentenza non definitiva, ha ad oggetto soltanto una questione pregiudiziale di rito o preliminare di merito. 4.2. Ai sensi dell’art. 373, comma 1, c.p.c., la proposizione del ricorso per cassa- zione non sospende l’esecuzione (e, dunque, nemmeno l’efficacia esecutiva) della sentenza di condanna pronunciata in grado di appello o in unico grado. Tuttavia, la disposizione dell’art. 373 consente al ricorrente di proporre, contestual- mente o successivamente alla proposizione del ricorso, un’istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva o dell’esecuzione della sentenza impugnata: l’istanza va pre- sentata con atto separato rispetto alla domanda di impugnazione in quanto il giudice competente a giudicare l’istanza non è la Corte di cassazione, ma lo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata seppure in diversa composizione. La ragione di questa scelta legislativa risiede nel fatto che la cognizione dell’istanza sospensiva ri- chiede un esame del merito della controversia che è precluso al giudice di mera legit- timità. Il presupposto oggettivo per la concessione della sospensione è rappresentato infatti dal rischio di un pregiudizio “grave ed irreparabile” a danno della parte ricorrente che sia stata condannata in appello (o in unico grado). La gravità del pregiudizio consiste nel fatto che la permanenza dell’efficacia esecutiva (o la pendenza dell’esecuzione) della sentenza rischia di provocare una sproporzione eccezionale tra il vantaggio che il creditore può ricavare dall’esecuzione della sentenza e il pregiudizio che invece può patire il debitore. L’irreparabilità del pregiudizio consiste invece nel fatto che il danno non è reintegrabile per equivalente e, quindi, non è altrimenti evitabile che con la sospensione dell’efficacia esecutiva o dell’esecuzione pendente. 4.3. Lo spazio per l’approfondimento del thema decidendum (oggetto del processo) e del thema probandum (attività istruttoria) è estremamente limitato nella fase rescin- dente del giudizio di cassazione. Le uniche questioni nuove sollevabili nella fase re- scindente sono quelle rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado del processo (e mai rile- vate prima), mentre l’attività istruttoria esperibile nella fase rescindente è limitata dall’art. 372 c.p.c. alla sola produzione dei documenti relativi alla nullità della sen- tenza e alla inammissibilità o improcedibilità del ricorso. Quest’ultima disposizione non pone però vere e proprie eccezioni al divieto di nuove prove nella fase rescindente perché sia la nullità della sentenza sia l’inammissibilità o l’improcedibilità del ricorso sono fatti sopravvenuti rispetto alla preclusione istruttoria nel precedente grado di 13 comporta l’estinzione dell’intero processo. Nel corso del giudizio di rinvio le parti possono solo riproporre le medesime istanze di tutela giurisdizionale che avevano pro- posto nel precedente grado di giudizio senza possibilità di modifica delle loro conclu- sioni3, mentre il giudice del rinvio non può decidere liberamente le istanze di tutela giurisdizionale riassunte dalle parti dovendo, invece, necessariamente deciderle nel rispetto della sentenza della cassazione e, in particolare, del principio di diritto (che è una regola, formulata in termini generali e astratti, in cui la Corte sintetizza il punto fondamentale della ratio decidendi, cioè il passaggio fondamentale della motivazione della decisione in punto di diritto. Il mancato rispetto del principio di diritto è un mo- tivo di ricorso per cassazione avverso la sentenza del giudice del rinvio. Esistono, poi, altri possibili esiti della fase rescindente del giudizio di cassazione alternativi alla cassazione con rinvio. La prima alternativa alla cassazione con rinvio è quella della cassazione senza rin- vio. Questa eventualità si verifica, ai sensi dell’art. 382, comma 3, c.p.c., quando la corte annulla la sentenza impugnata per difetto assoluto o relativo di giurisdizione. In questo caso, l’assenza di un giudice ordinario legittimato a decidere la controversia rende impraticabile il rinvio della causa ad un altro giudice per la decisione nel merito. Si ha cassazione senza rinvio anche nei casi in cui la Corte annulla la sentenza impu- gnata per accertamento di una causa di improponibilità della domanda giudiziale (ad esempio: per l’esistenza di una clausola compromissoria) o di una causa di improse- guibilità del processo (ad esempio: per tardiva proposizione dell’appello). La seconda alternativa alla cassazione con rinvio è quella della cassazione con decisione nel merito (o cassazione sostitutiva). Questo caso, che è previsto dall’art. 384, comma 2, c.p.c., si verifica quando la cassazione, dopo aver annullato la sen- tenza impugnata, si rende conto che, per la decisione della causa nel merito, non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto. In questo caso, il rispetto del principio costi- tuzionale della ragionevole durata del processo ha indotto il legislatore a ritenere che la Corte di cassazione, contestualmente all’annullamento della sentenza impugnata, possa anche decidere il merito della controversia. Anche in questo caso però la Corte resta sostanzialmente un giudice di mera legittimità poiché si limita ad applicare le risultanze istruttorie che sono già state acquisite nel corso dei precedenti gradi di giu- dizio senza svolgere alcuna nuova attività istruttoria, che invece è ciò che contraddi- stingue l’attività del giudice di merito. Un’ultima alternativa alla cassazione con rinvio è quella di cui all’ultimo comma dell’art. 384 c.p.c. In questo caso, accade che, nonostante l’accoglimento del ricorso, la Corte non dispone l’annullamento della sentenza impugnata ma ne corregge 3 Vi sono alcune ipotesi in cui, seppur eccezionalmente, è consentito alle parti del giudizio di rinvio di modificare le proprie originarie conclusioni, proponendo istanze di tutela giurisdizionale ulteriori e di- verse da quelle precedenti: un caso emblematico è quello in cui la sentenza che è stata annullata (par- zialmente) al termine della fase rescindente aveva assorbito alcune domande o eccezioni, che pertanto possono essere riproposte dalla parte interessata nella fase rescissoria del giudizio di cassazione (nella fase rescindente, infatti, la riproposizione delle questioni assorbite nel precedente grado di giudizio è preclusa dalla natura di mera legittimità del processo di cassazione). La riproposizione delle questioni assorbite rende legittima una modifica delle conclusioni originarie. 14 soltanto l’erronea motivazione perché la sentenza impugnata, pur essendo effettiva- mente caratterizzata da una motivazione sbagliata, accidentalmente ha un dispositivo corretto. Questo possibile, per quanto infrequente, esito della fase rescindente del giu- dizio di cassazione rappresenta un evidente strumento di nomofilachia assegnato alla Corte di cassazione. 5. La revocazione ordinaria e straordinaria. 5.1. La revocazione può essere definita come un mezzo di impugnazione che, al pari del ricorso per cassazione, può essere proposto solo per i motivi tassativamente previsti dalla legge e che si caratterizza per la natura rescindente del relativo giudizio. La revocazione può quindi essere definita come un mezzo di impugnazione a critica vincolata e a carattere rescindente. Però, a differenza del ricorso per cassazione e dell’appello, che sono mezzi di impugnazione ordinari, la revocazione si caratterizza a volte come un mezzo impugnatorio ordinario e altre volte come un mezzo impu- gnatorio straordinario. In particolare, la revocazione ordinaria offre la possibilità di censurare due tipi di vizi palesi della sentenza: quelli che sono previsti dai nn. 4 e 5 dell’art. 395, comma 1, c.p.c. e che consistono rispettivamente nell’errore di fatto e nel contrasto con un precedente giudicato. La revocazione straordinaria offre invece la possibilità di censu- rare quattro tipi di vizi occulti della sentenza che sono previsti dai nn. 1, 2, 3 e 6 del medesimo art. 395, comma 1, c.p.c. Essi consistono rispettivamente nel dolo unilate- rale, nella falsità della prova, nel ritrovamento di documenti decisivi e infine nel dolo del giudice. L’ambito di applicazione della revocazione è composto anzitutto dalle sentenze pronunciate in grado d’appello o in unico grado, come stabilisce lo stesso art. 395, comma 1, c.p.c. Rispetto a queste sentenze, quindi, la revocazione opera come mezzo di impugnazione ordinario se esse non sono ancora passate in giudicato e come mezzo di impugnazione straordinario se esse sono già passate in giudicato. Oltre che contro le sentenze pronunciate in grado di appello o in unico grado, la revocazione può es- sere proposta anche contro le sentenze di primo grado per le quali sia scaduto il ter- mine per proporre l’appello: si tratta delle sentenze di primo grado già passate in giu- dicato. Questo significa che, in questo caso, la revocazione è esperibile esclusiva- mente come mezzo di impugnazione straordinario. In base agli artt. 391-bis e 391-ter cpc, anche taluni provvedimenti della Corte di cassazione sono impugnabili eccezionalmente mediante la revocazione ordinaria e straordinaria. Prima però di esaminare quali provvedimenti della Cassazione sono as- soggettabili a revocazione e per quali motivi, conviene esaminare dettagliatamente i singoli motivi di revocazione in generale, cominciando dai motivi di revocazione or- dinaria di cui ai nn. 4 e 5 dell’art. 395. 5.2. Il primo e più frequente motivo di revocazione ordinaria è quello di cui al n. 4, che ricorre quando la sentenza è affetta da un errore di fatto risultante dagli atti o documenti di causa. In particolare, si ha errore di fatto quando, confrontando la 15 sentenza impugnata e gli altri atti o documenti processuali, emerge un contrasto tra due rappresentazioni dello stesso fatto diverse e antitetiche. L’errore revocatorio deve dunque consistere sempre e solo nell’erronea percezione materiale di un fatto risul- tante dagli atti o dai documenti processuali. Questo porta ad escludere dall’ambito dell’errore revocatorio anzitutto l’erronea valutazione giuridica di un atto (che darebbe luogo ad un errore di diritto e non di fatto). Ma porta ad escludere anche l’inesatto apprezzamento delle risultanze processuali da parte del giudice perché, in questo se- condo caso, non abbiamo un errore di percezione del fatto, ma siamo di fronte ad un errore di giudizio, che sarebbe sindacabile con il diverso rimedio del ricorso per cas- sazione per vizio di motivazione ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. Infine, bisogna ricordare che l’errore revocatorio deve anche essere determinante nell’alterare il con- vincimento del giudice: per essere censurabile l’errore deve essere cioè decisivo, nel senso che senza di esso la decisione del giudice sarebbe stata sicuramente diversa. Il secondo motivo di revocazione ordinaria è disciplinato al n. 5 dell’art. 395 e si riferisce all’esistenza di una situazione di incompatibilità tra la decisione contenuta nella sentenza impugnata e quella contenuta in un’altra sentenza che è già passata in giudicato (cioè che è passata in giudicato prima della pronuncia della sentenza impu- gnata). Secondo l’orientamento giurisprudenziale prevalente, perché possa dirsi che la sentenza impugnata sia contraria a un precedente giudicato è necessario che tra i due giudizi – quello oggetto della sentenza impugnata e quello oggetto della sentenza pas- sata in giudicato – vi sia identità soggettiva e oggettiva, cioè che i due giudizi abbiano le stesse parti, lo stesso petitum e la stessa causa petendi. La disposizione del n. 5 esclude però espressamente la revocabilità della sentenza impugnata quando il giu- dice del secondo giudizio si sia pronunciato sull’eccezione di giudicato. Questo signi- fica che se l’eccezione di giudicato (con cui cioè si oppone alla domanda di contro- parte l’esistenza di un precedente giudicato contrastante) non era stata né proposta né comunque presa in esame dalla sentenza, allora la sentenza è impugnabile con la revocazione. Se invece la sentenza si era pronunciata sull’eccezione di giudicato, sep- pure per disattenderla, o se non si era pronunciata sull’eccezione di giudicato nono- stante che l’eccezione fosse stata proposta, la sentenza non è revocabile ma soltanto ricorribile per cassazione per violazione o falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.: in questo caso infatti non vi sarebbe il requisito, fonda- mentale ai fini della revocabilità della sentenza, della ignoranza del contrasto con un precedente giudicato. L’esame dei motivi di revocazione straordinaria deve cominciare invece dalla pre- visione del n. 1 dell’art. 395 c.p.c., secondo cui la sentenza, anche se è passata in giudicato, è sempre revocabile se costituisce l’effetto di dolo di una delle parti in danno dell’altra. Il problema principale di questa disposizione è quello di capire in quali atti si possa concretizzare il comportamento doloso unilaterale rilevante ai fini della revo- cazione: la giurisprudenza ritiene che, per integrare la fattispecie del n. 1, serve non solo genericamente un accordo collusivo tra una parte e il difensore della controparte, ma serve un accordo collusivo che pregiudichi il diritto di difesa della controparte. Questo significa che l’accordo collusivo deve consistere in veri e propri artifici o raggiri idonei a paralizzare la difesa avversaria e ad impedire al giudice di accertare la verità processuale. Non si deve naturalmente trattare di un’attività necessariamente com- plessa: bastano ad integrare gli estremi del dolo unilaterale anche il semplice silenzio 18 così origine ad un nuovo processo e ad effetti autonomi della domanda giudiziale. Questo è l’opposto di quanto accade in occasione dell’esercizio del potere impugna- torio, in cui, da un lato, l’iniziativa processuale è assunta da colui che è stato parte nel precedente grado di giudizio e non da un soggetto estraneo al rapporto processuale e, dall’altro lato, la proposizione del mezzo impugnatorio comporta la prosecuzione del medesimo processo iniziato con la proposizione della domanda giudiziale. 6.2. Si distinguono due tipi di opposizione di terzo: l’opposizione di terzo ordinaria e l’opposizione di terzo revocatoria. Esse hanno in comune: - la terzietà del soggetto legittimato alla loro proposizione rispetto al rapporto processuale, e - la regola per individuare il giudice competente a decidere l’opposizione: quest’ultima, al pari della revocazione ex art. 395 c.p.c., va sempre proposta dinanzi allo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata, con la conseguenza che il giudizio di opposizione dovrà seguire le forme e rispettare le preclusioni che caratterizzano il processo dinanzi al giudice che ha pronun- ciato la sentenza impugnata. L’opposizione di terzo ordinaria è disciplinata dall’art. 404, comma 1, c.p.c., se- condo cui il terzo può proporre opposizione contro la sentenza passata in giudicato o comunque esecutiva pronunciata tra altre persone quando pregiudica i suoi diritti. L’opposizione ordinaria è, dunque, proponibile da qualsiasi terzo che sia stato pregiu- dicato in un proprio diritto da una sentenza resa tra altri soggetti che erano parti nel precedente processo. Ciò significa che l’opposizione ordinaria può essere proposta da colui che, pur essendo rimasto estraneo al processo conclusosi con le sentenza impu- gnata, può affermarsi (e dimostrare di essere) titolare di un diritto soggettivo autonomo, la cui esistenza sia incompatibile con il rapporto sostanziale accertato dalla sentenza resa tra le parti. Si pensi, ad esempio, a colui che, pur essendo rimasto estraneo al processo, può dirsi titolare di un diritto di proprietà sulla res oggetto della sentenza resa inter alios con cui il giudice ha dichiarato che la res è di proprietà dell’attore e ha condannato il convenuto alla sua restituzione. Il diritto di proprietà del terzo è non solo autonomo, ma anche incompatibile con il diritto di proprietà accertato dalla sen- tenza resa inter alios. La sentenza pregiudica quindi il terzo, in quanto, sebbene non si pronunci sulla esistenza o meno del diritto di proprietà in capo al terzo, di fatto pregiudica tale diritto perché lo fa retrocedere alla realizzazione del diritto altrui. Il convenuto, che non è stato riconosciuto proprietario della res, dovrà restituirla, ma in forza della sentenza, dovrà restituirla all’attore e non al terzo. In questo senso, si può dire che l’opposizione ordinaria rappresenta un rimedio alternativo all’intervento in causa del terzo ex art. 105, comma 1, c.p.c. L’opposizione ordinaria non è soggetta ad alcun termine di decadenza per la rela- tiva proposizione. Si tratta dell’unico mezzo di impugnazione conosciuto dal nostro ordinamento proponibile senza limiti temporali preclusivi. Se ne desume che si tratta di un mezzo di impugnazione straordinario, in quanto può certamente essere proposto anche nei confronti di una sentenza già passata in giudicato. 19 6.3. L’opposizione di terzo revocatoria è disciplinata dall’art. 404, comma 2, c.p.c. e può essere proposta – a differenza dell’opposizione ordinaria – soltanto da quei terzi che sono aventi causa o creditori di una delle parti e soltanto nei confronti di quelle sentenze che sono effetto di dolo o collusione a loro danno. Il danno che possono subire i creditori per effetto della sentenza, legittimandoli così alla proposizione dell’opposizione revocatoria, consiste tipicamente nella perdita della garanzia patrimoniale (art. 2740 c.c.). Ad esempio, si immagini che Tizio, debi- tore di Caio, si accordi con Sempronio per farsi convenire in giudizio da quest’ultimo e ottenere una sentenza che – in ragione anche del comportamento processuale inten- zionalmente omissivo o contumace di Tizio – accerti che la proprietà di una res che fa parte del patrimonio del debitore spetta a Sempronio: se la sentenza, in ragione della collusione tra le parti, accerta che Sempronio è divenuto proprietario della res, si viene a determinare un danno nei confronti di Caio, il quale, essendo creditore di Tizio, subisce la sottrazione fraudolenta di un bene dal patrimonio del suo debitore (patri- monio che, ex art. 2740 c.c., è destinato a soddisfare anche il credito di Caio), con conseguente pregiudizio che giustifica la contestazione della sentenza da parte di Caio (benché sia rimasto estraneo al processo) una volta che abbia scoperto il dolo o la collusione di Tizio e Sempronio. Il danno che può subire l’avente causa consiste, invece, nell’efficacia riflessa della sentenza pronunciata nei confronti del dante causa. Mentre gli effetti diretti della sen- tenza sono quelli che si producono sul rapporto sostanziale dedotto in giudizio dalle parti (e quindi direttamente nei confronti delle parti), gli effetti riflessi della sentenza sono quelli che si producono sui rapporti sostanziali che dipendono da quello dedotto in giudizio e di cui è titolare un terzo. Pertanto, se l’accertamento giurisdizionale del rapporto dedotto in giudizio è stato determinato dal dolo o dalla collusione delle parti, il terzo titolare del rapporto dipendente (l’avente causa) può impugnare la sentenza inter alios con l’opposizione revocatoria. Ad esempio, la sentenza che sia resa al termine del processo tra locatore e condut- tore e che accerti l’inesistenza del rapporto di locazione non produce soltanto effetti diretti, ossia nei confronti delle parti del processo (locatore e conduttore), ma anche effetti riflessi, ossia nei confronti di quei terzi che siano titolari di rapporti dipendenti da quello dedotto in giudizio, come il rapporto di sublocazione tra il conduttore (in veste di sublocatore) e il subconduttore. Le vicende del rapporto di locazione si riflet- tono, dunque, sul rapporto di sublocazione, così che la risoluzione del rapporto di locazione per effetto della sentenza resa tra locatore e conduttore comporta l’automa- tica risoluzione anche del rapporto tra conduttore-sublocatore e subconduttore, seb- bene quest’ultimo sia rimasto estraneo e, dunque, terzo rispetto al processo. Il subcon- duttore è quindi legittimato a proporre opposizione revocatoria nei confronti della sen- tenza tra locatore e conduttore. L’opposizione revocatoria si distingue da quella ordinaria anche perché soggiace ad un termine decadenziale di 30 giorni decorrente dal momento della scoperta del dolo o della collusione. Se ne desume che anche l’opposizione revocatoria è un mezzo di impugnazione straordinario esperibile nei confronti anche di sentenze già passate 20 in giudicato, dal momento che la scoperta del vizio è un accadimento indipendente dal passaggio in giudicato della sentenza (vizio occulto). Infine, va ricordato che la sentenza che decide l’opposizione è impugnabile con gli stessi mezzi con cui era impugnabile la sentenza opposta (ad esempio, se la sen- tenza opposta era di primo grado, il rimedio esperibile contro la sentenza che pronun- cia sull’opposizione è l’appello, anche se la sentenza originaria è nel frattempo passata in giudicato). Ne consegue che, per lo meno in astratto, la sentenza che decide l’op- posizione può essere oggetto di un’altra opposizione ex art. 404 c.p.c. da parte di altri terzi.
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