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APPUNTI DI LEZIONE E APPROFONDIMENTO SUPER COMPLETO SULLE VARIE DECISIONI DELLA CORTE, Dispense di Giustizia Costituzionale

Appunti di lezione e approfondimento super completo sulle varie tipologie di decisione della corte costituzionale

Tipologia: Dispense

2022/2023

In vendita dal 23/05/2023

Lluana
Lluana 🇮🇹

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Scarica APPUNTI DI LEZIONE E APPROFONDIMENTO SUPER COMPLETO SULLE VARIE DECISIONI DELLA CORTE e più Dispense in PDF di Giustizia Costituzionale solo su Docsity! GIUSTIZIA COSTITUZIONALE GIUSTIZIA COSTITUZIONALE Per giustizia costituzionale si intende un sistema di controllo giurisdizionale del rispetto della Costituzione, è la principale garanzia della rigidità costituzionale: consente di reagire a determinate infrazioni della Costituzione rivolgendosi in determinati modi ad un determinato giudice. Quando si parla di giustizia costituzionale si fa riferimento in primo luogo al sindacato di legittimità costituzionale delle leggi. I modelli di controllo giurisdizionale delle leggi si dividono in grandi famiglie: La prima distinzione è tra: 1. sindacato preventivo 2. sindacato successivo rispetto all’entrata in vigore della legge. In Francia ad esempio (almeno fino al 2008) è stato istituito un organo, il Conseil Constitutionnel, che assume la funzione particolare ed indispensabile di una sorta di arbitro, il cui intervento è preventivo, costituendo una fase del procedimento legislativo: una disposizione dichiarata incostituzionale non potrà entrare in vigore. Nell’ambito dei sistemi a sindacato successivo, una distinzione fondamentale separa i sistemi a 1. sindacato diffuso: il controllo di costituzionalità è diffuso nel senso che ogni giudice può esaminare la compatibilità della legge con la Costituzione 2. sindacato accentrato: il sindacato è accentrato nel senso che vi è un unico organo, la Corte costituzionale, che può compiere quel giudizio e dichiarare l’illegittimità delle leggi. Nel sindacato diffuso la decisione del giudice ha effetti inter partes, ossia è limitata al caso singolo viene disapplicata la legge in quell’ambito e il giudice decide senza applicare la legge considerata incostituzionale. Questo sistema funziona dove è dominante la regola dello stare decisis, ovvero del precedente giudiziario, tipica dei sistemi di common law ogni giudice è vincolato dalle decisioni prese in precedenza, specie se da un giudice di grado superiore. Negli Stati Uniti la Corte Suprema, essendo il giudice in assoluto più alto in grado, può emanare sentenze dichiarative dell’illegittimità di una legge con effetti erga omnes. Gli altri giudici a questo punto possono cercare di contestare il principio applicato dalla Corte Suprema, o potranno cercare di non applicarlo sostenendo che si tratta di una fattispecie diversa (distinguishing). Nei sistemi di civil law la regola del precedente non è applicata con la stessa forza ed è elevato il rischio che un sindacato diffuso distrugga la certezza del diritto perciò si è concentrato il giudizio di legittimità nelle mani di una Corte costituzionale alla quale i giudici eventualmente si rivolgono. Nell’ambito dei sistemi a sindacato accentrato, si distinguono due ulteriori modelli di giudizio, a seconda della via di accesso ad esso: 1. il giudizio in via diretta 2. il giudizio in via indiretta I due modelli possono coesistere. Il giudizio in via diretta nasce da un ricorso che il cittadino o determinati organi possono presentare direttamente alla Corte costituzionale. Di solito è ammesso solo quando non siano applicabili altre strade giurisdizionali di difesa del diritto leso (esempi sono la Verfassungsbeschwerde tedesca e il recurso de amparo constitucional spagnolo). In Italia il giudizio in via diretta è previsto ma soltanto come strumento riservato allo Stato quando impugna la legge regionale, e alla Regione quando impugna la legge dello Stato o di un’altra Regione. Il giudizio in via indiretta si presenta per lo più come un incidente nel corso di un normale giudizio: il giudice, sospettando che la legge che sta per applicare sia illegittima, non potendo disapplicare la legge né violare la Costituzione, sospende il giudizio e presenta la questione alla Corte costituzionale. La presenza della giustizia costituzionale e quindi di un meccanismo che ha a che fare con il sindacato di emanazione delle leggi, coincide con la rigidità della costituzione (può formare parametro del giudizio di qualcuno per vedere se la legge è o no conforme). Ovunque un organo di giustizia costituzionale ha il compito di sindacare la legittimità delle leggi. Art 134:  La corte giudica in base alle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge (stato e regione);  Giudica sui conflitti di attribuzione sul potere dello stato e su quello tra stato e regione;  Giudica sulle accuse promosse contro il PdR a norma della costituzione.  Giudica riguardo al referendum abrogativo. Serie di possibili varianti per sindacare sulle leggi: variazioni anche piccole potrebbero modificare molto il risultato. - Sistemi a controllo accentrato: accentra nelle mani di un giudice specializzato compiti di conoscere del sistema di legittimità delle leggi. - Sistemi a controllo diffuso : da facoltà ad ogni giudice Meccanismi di controllo della legislazione - Controllo di natura preventiva: in alcuni ordinamenti è previsto che la conformità a costituzione di certe leggi sia verificata dal giudice accertato prima della sua entrata in vigore - Controllo di natura successiva: dall’altra parte, quello successivo, il controllo avviene dopo che la legge sia entrata in vigore. - Sistema di sindacato accentrato ad accesso diretto o incidentale:  Diretto consentono a chiunque di attivare la corte costituzionale, anche il singolo cittadino.  Incidentale: problema di costituzionalità deve capitare rispetto a un concreto problema di applicazione di una legge, deve quindi passare per forza un giudice. L’Italia ha un controllo di costituzionalità accentrata - c’è un giudice che ha il compito di valutare la costituzionalità delle leggi. Composizione della corte costituzionale: La corte deve essere staccata dai circuiti di indirizzo politico, questo determina i meccanismi di formazione e individuazione dei giudici della corte. È composta di 15 giudici costituzionali che devono avere determinati requisiti:  5 sono di nomina del PdR UNITI DICHIARÒ PER LA PRIMA VOLTA INCOSTITUZIONALE UNA LEGGE DEL CONGRESSO. È stato un caso storico della Corte suprema degli Stati Uniti d'America che ha stabilito il principio del controllo di legittimità costituzionale (o "revisione giudiziaria"; judicial review) negli Stati Uniti, il che significa che i tribunali americani hanno il potere di annullare leggi e statuti che ritengono violare la Costituzione degli Stati Uniti d’America. Questa è considerata la singola decisione più importante nel diritto costituzionale americano. Si pensa che la Corte suprema abbia introdotto un sindacato di costituzionalità attribuendo un potere alla Corte Suprema. Non è vero. Merbury era un funzionario nominato giudice di pace. Merbury il nuovo funzionario di stato chiedeva che il segretario di stato Madison di consegnare l’atto di nomina (cosa formale). Merbury l’aspirante giudice fece ricorso al giudice. Perché va dalla Corte? Nel Judiciary Act c’è scritto che la competenza fosse della Corte Suprema. La Corte Suprema prende in mano la questione e in questo esame il giudice Marshall (nominato dalla Corte suprema) dice che deve giudicare la fondatezza della richiesta del rito sulla base di un attribuzione che la corte ha in base alla legge (Judiciary Act). PERO’ afferma la Costituzione affida delle competenze in primo grado alla corte suprema che sono tassativamente indicate  in pratica la Corte come giudice di primo grado è competente nei casi A,B,C. POI la Corte può essere giudice di appello nei casi stabiliti dalla legge. Qui abbiamo un caso che la corte deve decidere in 1° grado con una competenze attribuita dalla legge MA oltre i casi che la Costituzione prevede. IN SINTESI: Marshall il giudice ha concordato con Marbury e ha interpretato la sezione 13 del Judiciary Act così da autorizzare la Corte a esercitare giurisdizione originale su casi riguardanti controversie sulle ordinanze. Ma come ha sottolineato Marshall, ciò significava che il Judiciary Act, una legge ordinaria, contraddiceva l'Articolo III della Costituzione degli Stati Uniti, una legge costituzionale, che istituisce il potere giudiziario degli Stati Uniti, causando quindi un conflitto nella gerarchia delle fonti. L'Articolo III afferma, infatti, che la Corte suprema ha giurisdizione DI PRIMO E UNICO GRADO solo sui casi in cui uno Stato federato degli Stati Uniti è parte in una causa o in tutti i casi che riguardano ambasciatori, altri ministri e consoli pubblici. In tutti gli altri casi avrà giurisdizione d’appello. Nessuna di queste categorie riguardava il caso di Marbury, che era una controversia su un'ordinanza per ottenere l'autorizzazione a posizione di giudice di pace. Quindi, secondo la Costituzione, la Corte non aveva giurisdizione di primo grado su un caso come quello di Marbury. RIFLESSIONI SUL CASO Innanzitutto si ritorna al problema di interpretazione costituzionale. È un principio interessante che se trapiantato nella nostra giurisprudenza avrebbe portato ad esiti molti diversi. Se la Costituzione dice che la competenza della corte in 1° grado è ABC, DEF sono possibili da attribuire con la legge? (oppure sono contrari alla Costituzione?) No, non è possibili attribuirli con legge. Se ammetto la legge ad aggiungere, a quel punto do un interpretazione della Costituzione svilendone il testo perché dico: non ha avuto un senso dire ABC tramite la Costituzione se tu consenti che la legge ammetta anche DEF. Marshall non vuole vanificare il testo della costituzione vale ABC, quindi la legge che attribuisce D non ha valore perché non è conforme a Costituzione. È un discorso da giudice perché il giudice giudica (case and controversy). O applico la legge e la competenza è mia (la legge dice: decide la Corte) OPPURE applico la Costituzione e la Costituzione dice la competenza non è tua. Qui si forma una intersezione. Se si fosse inteso lasciare alla discrezione del potere legislativo, di ripartire il potere giudiziario tra la Corte Suprema e le corti di grado inferiore, secondo la volontà di quell’organo la ripartizione di giurisdizione, prevista dalla Costituzione, non sarebbe altro che forma senza sostanza. I poteri del ramo legislativo sono definiti e limitati, e la Costituzione è stata scritta affinché quei limiti non possano essere confusi o dimenticati. A quale scopo limitare i poteri e formalizzare questi limiti per iscritto, se poi questi limiti possono essere superati in qualsiasi momento proprio da coloro che dovevano essere limitati? Dopo che il giudice Marshall ha interpretato la Costituzione ne viene che il caso lì è governato dalle due norme: le aree si sovrappongono e la fattispecie è governata da due norme. Il giudice Marshall dice: o applico la legge e mi trattengo la competenza (si intende competenza ad applicare la legge) MA DISAPPLICO la Costituzione perché la Costituzione ha detto ABC; oppure applico la Costituzione e dismetto la competenza e io non sono competenza  è una decisione di competenza non di merito. Applico la Costituzione e devo mettere la legge da parte se è contraria alla Costituzione; devo applicare la Costituzione al caso e disapplico la legge. Quindi con l’applicazione della Costituzione la Corte suprema ha detto: IO POTERE GIUDIZIARIO, non io corte suprema. Questo è importante da capire e non si trova spesso nei manuali. Quindi nel sistema americano è il potere giudiziario che si ritiene per Costituzione (è il sistema costituzionale che cospira ad attribuirlo) titolare di questo compito: questo compito spetta all’organo/potere che applica il diritto e questo potere è il potere giudiziario (compito di dirimere CASES AND CONTROVERSY  quando applica il diritto deve applicare la legge superiore). I MODELLI DI GIUSTIZIA COSTITUZIONALE A CONFRONTO SINDACATO DIFFUSO SINDACATO ACCENTRATO L’INFLUENZA DI KELSEN NEI MODELLI EUROPEI KELSEN dice nel 1928 che il modo che garantisce al meglio la SUPERIORTA’ DELLA COSTITUZIONE e la rigidità di essa è L’ACCESSO DIRETTO: perché chiunque può “attaccare” la legge direttamente impugnandola. Questo sistema esiste in Germania e Spagna ed è stato adottato per la prima volta in Messico. Lo stesso Kelsen parla del ricorso incidentale: giudice che solleva la questione. Però riflette sugli effetti che avrebbero natura EX NUNC e non retroattivi. Se è il giudice a sollevare la questione la decisione della Corte di costituzionalità se dichiara la norma incostituzionale dovrebbe avere effetti ex nunc o ex tunc? Quando la corte giudice è evidente che la decisione deve applicarsi AL MIO CASO perché nella logica del sistema incidentale quando la corte giudica la decisione deve applicarmi al mio caso. Sistema americano= sistema diffuso In sostanza tradizionalmente si diceva che c’era il modello americano (tutti i giudici possono accertare l’illegittimità e alla Corte si arriva attraverso un CASO  strutturalmente è un controllo diffuso e l’accesso alla corte è incidentale: ci deve essere un caso). È questa la differenza: nell’accesso diretto si prescinde da ogni tipo di applicazione, si impugna la legge direttamente (costituzione austriaca del 20, nostro rapporti stato regioni). Nell’incidentale abbiamo i CASI: una sanzione, un reato, un’espropriazione etc. quindi la questione di legittimità costituzionale rispetto al CASO è una questione tecnicamente incidentale. Nel sistema americano quindi la questione incidentale di illegittimità compete al giudice, come gli compete la decisione anche in via principale. In America il giudice NON HA IL POTERE ma è UN GIUDICE CHE applica la costituzione e disapplica le legge oppure applica legge MA lo fa attraverso una pronuncia DICHIARATIVA perché accerta qualcosa che c’è già. Infatti da nessuna parte nella costituzione americana gli viene intestata questa competenza, è sua di natura. Lo spazio in cui si muove è quello dell’interpretazione del diritto, e interpretando il diritto applica le legge superiore e disapplica l’altra ma con appunto effetti dichiarativi. È un sistema accentrato: un giudice che si occupa della costituzione delle leggi; Sistema europeo/kelseniano= sistema accentrato Nel sistema kelseniano cosa avviene invece? Si tratta di un sistema accentrato: un giudice che si occupa della costituzionalità delle leggi. L’accesso avviene in via principale: ci sono degli organi (così come avveniva in Francia nella costituzione del 58) abilitati a impugnare davanti alla Corte leggi che ritengono illegittime non c’è una questione incidentale, non c’è un caso non c’è un processo. Dunque censuro la legge NON per gli effetti che produce nella fase applicativa MA PER GLI EFFETTI CHE IN ASTRATTO è destinata a produrre (per questo il giudizio principale si chiama anche giudizio in astratto). Nel sistema kelseniano l’organo costituito ad hoc è intestatario di quel potere, se non si pronuncia su quell’atto quell’atto è valido. Se si pronuncia su quell’atto quella pronuncia è di tipo COSTITUTIVO. (I trattati internazionali diventano parametro di tutte le leggi dal 2007  Kelsen nel suo saggio fa già delle riflessioni in merito). Abbiamo riconosciuto che anche se vi è una costituzione rigida non sempre vi è un organo deputato al controllo di costituzionalità. IL MODELLO AMERICANO Il modello americano è fondato su una costituzione che separa rigidamente i poteri: la costituzione è divisa in 3 parti: 1) il potere esecutivo 2) giudiziario 3) legislativo. Il sindacato di costituzionalità: alla Corte suprema spetta il sindacato di costituzionalità non come Corte Suprema ma come potere giudiziario. La competenza del potere giudiziario è scalfita in Costituzione. Strutturalmente il SISTEMA È DIFFUSO: al centro non c’è la Corte Suprema, ma tutti i giudici. Ovviamente non tutte le decisioni dei giudici hanno effetto allo stesso modo perché vige il PRINCIPIO DEL PRECEDENTE: la decisione della Corte Suprema federale irradierà i suoi effetti ovunque. C’è consapevolezza che la Costituzione è lex superior, vige sopra tutto. Il SISTEMA È INCIDENTALE: ogni giudice che decide ‘case and controversy’ (non fanno altre cose)  ci deve essere un caso o una controversia per chiamare il giudice a decidere. Se c’è un caso di antinomia: una situazione governata da due fonti. Si risolve applicando il principio gerarchico delle fonti (la costituzione prevale sulla norma di legge ordinaria  essendo la pronuncia per avventura dalla corte suprema nessun giudice la ha più applicata). Il SISTEMA È DICHIARATIVO: ne abbiamo parlato in riferimento ai negozi giuridici  se l’atto non ha prodotto effetto il giudice, se viene investito della questione, può dichiararlo  la sentenza è dichiarativa e l’azione è di accertamento. Costitutiva significa: “quell’effetto non si produce senza la sentenza” per mettere nel nulla il contrasto ho bisogno di una sentenza del giudice (per il principio di conservazione degli atti giuridici). Diverso è il MODELLO KELSENIANO  Costituzione austriaca IL SISTEMA È ACCENTRATO: c’è una corte costituzionale L’accesso non è incidentale ma IL SISTEMA E’ PRINCIPALE: è previsto che solo alcuni organi siano abilitati ad investire la Corte. IL SISTEMA HA EFFETTO COSTITUTIVO: quella legge in difetto di pronuncia dell’organo di giustizia costituzionale sarebbe valida in difetto della pronuncia del SOLO organo abilitato a pronunciare l’illegittimità costituzionale solo quell’organo è dotato di quel potere di annullare la legge  per questo si tratta di sentenza costitutiva. Quali sarebbero i benefici nel caso di un accesso diretto? Che problema tipico della giustizia costituzionale eviterebbe? Il problema che ci sono leggi che difficilmente sono oggetto di una pronuncia della Corte (leggi che non si prestano ad essere oggetto di una pronuncia  c.d. zone d’ombra/franche della Costituzione. Sicuramente la legge di bilancio, le leggi di organizzazione della PA, leggi elettorali (collegato al principio che riguarda l’autonomia delle Camere ex art. 67). Il ricorso in via diretta sarebbe un efficace antidoto a questi problemi. Nonostante questi problemi la scelta è andata verso il ricorso incidentale. La legge del ’48 ci dice solo che la questione è rilevata d’ufficio, sollevata da una delle due parti nel corso del giudizio e ritenuta dal giudice non manifestamente infondata, è rimessa alla corte cost. per la decisione. Quando il giudice valuta che la questione è manifestamente infondata quella decisione chiude le porte alla Corte  è una decisione in cui il giudice decide sulla questione di costituzionalità. Dopo la sentenza del ‘48 ci fu un periodo di stasi e si arrivò al ’53: contestualmente il Parlamento approvò una legge costituzionale e una legge ordinaria. - L. cost: la Corte cost introduce un elemento di novità  la corte cost. esercita le sue funzioni, nelle forme, nei limiti, condizioni di cui alla carta cost., alla legge 1 del ’48 e alla legge emanata per la prima attuazione delle suddette norme cost.: la legge 1 del ‘53 quindi è la legge che disciplina l’attività della Corte. - La legge di attuazione ’87 del 53 prevede che vi siano ulteriori fonti: c’è una norma di chiusura di questa legge (art.22)  “norme integrative possono essere stabilite dalla Corte con suo regolamento”  SI FONDA IL POTERE REGOLAMENTARE IN CAPO ALLA CORTE (norma significativa). Questo regolamento fu adottato dalla Corte quando questa entrò in funzione nel ’56. Questa legge è legittima o illegittima? La legge 87 sarebbe fonte atipica sotto due profili: 1. Perché fa più di quello che potrebbe fare 2. Ha forza passiva  forza potenziata  non può essere modificata se non con lo stesso maccanismo procedimentale Se una legge sottraesse alla Corte il potere regolamentare della Corte violerebbe qualche principio? Sì, il principio di autonomia (potere di dotarsi di un proprio regolamento intestato dalla legge ’87 ma con forza costituzionale) e indipendenza della Corte (diversa è l’autodichia  potere di giudicare i dipendenti interni all’organo). LA PROPOSIZIONE DELLA QUESTIONE Come tutti i giudizi ci sono delle condizioni di PROPONIBILITA’: requisiti da rispettare per l’ammissibilità. La giurisprudenza del processo costituzionale trova dei problemi di interpretazione proprio riguardo alle questioni di ammissibilità. Alcuni sono ovvi: 1. l’oggetto deve essere un atto avente forza di legge: i regolamenti sono esclusi dal sindacato di legittimità, e anche i regolamenti di delegificazione. Quando un regolamento introduce norme che di interpretazione delle legge è possibile che la Corte le coinvolga nel corso del giudizio. 2. la questione provenga da un giudice nel corso del giudizio 3. valutazioni di rilevanza e valutazioni di non manifesta infondatezza (il giudice qui sfiora il merito della questione). Il primo requisito che ci interessa: la RILEVANZA, quindi i problemi che riguardano l’applicabilità di quella norma al caso  questo è il baricentro del sistema incidentale. Più problematico è il problema della presenza di un giudice in giudizio: la Corte nel 66 disse in quella occasione che bastano dei requisiti soggettivi (magistrato appartenente all’ordine giudiziario) e che vi siano requisiti oggettivi (che via sia un PROCESSO). Ci può essere un giudizio oggettivo anche in assenza di giudice soggettivamente tale: esempio l’arbitrato  è un processo ma l’arbitro non è un giudice ). Vi sono procedimenti che si svolgono dinanzi ad organi della magistratura ma su cui dubbi si addensano in relazione all’attività che vengono svolte dinanzi ai medesimi. Ad esempio il ruolo della corte d appello durante i procedimenti elettorali  abbiamo un organo composto da magistrati ma il ragionamento della corte è quello di chiedersi se l’attività svolta era un’attività giurisdizionale. La risposta è negativa. Non è semplice capirlo e la Corte ha adottato degli indicatori in merito. A volte l’ordinamento assegna a organi giurisdizionali compiti che non sono propriamente giurisdizionali. L’ultima volta abbiamo affrontato il tema delle condizioni di proponibilità ed è importante perché ci da dei dati di sistema. Tutta la giurisprudenza che riguarda le condizioni di proponibilità accomuna l’attività della Corte all’attività giurisdizionale. La Corte, come ogni giudice all’inizio della sentenza, abbiamo una descrizione sommaria condensata del fatto. Prima di tutto la Corte si occupa del giudizio di ammissibilità della questione: come fanno i giudici comuni. L’iniziativa ufficiosa nel giudizio davanti alla Corte è inevitabile perché la Corte esercita un interesse costituzionalmente necessario. Da una parte la Corte risponde alle istanze delle parti (che si sono costituite  non necessaria nel giudizio incidentale); e risponde alle eccezioni dell’avvocatura dello Stato. NB: la Corte, d’ufficio, verifica se ci sono i presupposti processuali (quelli di ammissibilità): questo lo suggerisce, oltre che la legge, anche la logica del giudizio incidentale (ci deve essere consequenzialità). LIBRO DI LUCIANI intitolato ‘logica del giudizio incidentale’: tutte le cause di inammissibilità sono tutte espressione della logica del giudizio incidentale. Il giudizio di costituzionalità riguarda la costituzionalità della norma che è oggetto del processo a quo. Ricordiamo tra l’altro il ragionamento di Esposito: aveva già intuito che inevitabilmente il processo davanti alla corte doveva riguardare una norma che doveva essere applicata in quel processo. Come Crisafulli diceva l’attività della Corte è legata dal filo ombelicale con il processo a quo (la decisione ritorna al giudizio a quo e diventa parte della giurisprudenza)  e non solo… l’attività della Corte è legata all’attività giurisdizionale nel suo complesso. Un’ultima cosa da dire sul giudice: ci sono due casi che si intersecano. Partendo dalle due categorie: giudice soggettivo e oggettivo. Nel 1966 la corte ha dato l’idea che potessero interpretarsi come due requisiti alternativi (o uno o l’altro). Poi in realtà si è piegata verso la concezione oggettiva: e infatti abbiamo casi in cui non ci sono giudici in senso soggettivo che svolgono attività giurisdizionale. Dunque anche un arbitro può sollevare le questioni. Quindi abbiamo un soggetto che non è giudice ma in quella veste può sollevare una questione. Poi abbiamo il caso simmetrico in cui ci sono organi giurisdizionali a cui vengono assegnati dall’ordinamento compiti che non sono propriamente giurisdizionali. Ci sono stati dei casi in cui la Corte stessa occupandosi della questione ha sollevato una questione di legittimità costituzionale davanti a sé (è dimostrato che la Corte Cost. si ritiene un giudice). Ci sono ragioni logiche: se la Corte deve decidere una questione ma si trova impugnata (dal giudice) una parte di una normativa e l’altra parte no cosa succede? In qualche modo sarebbe costretta ad applicare quel segmento normativo che il giudice non ha applicato e che per avventura potrebbe essere incostituzionale. MA è impensabile che la Corte applichi una norma incostituzionale. L’unica soluzione è quindi che la Corte deroghi in qualche modo il principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato. La Corte dunque può essere il giudice a quo (succede raramente ma succede). Questo è stato un enorme passo avanti. Poi la Corte aveva anche riconosciuto alla Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura la possibilità di sollevare questioni di legittimità costituzionale: questa sezione serve giudicare la responsabilità dei giudici a livello disciplinare (es. il giudice deposita reiteratamente le sentenze). Le decisioni, ovvero i provvedimenti disciplinari, in cui sfocia in procedimento disciplinare può essere impugnata davanti alla Corte di Cassazione (NON AL TAR). Vediamo che comunque si riconosce che si tratta di un procedimento PARAGIURISDIZIONALE. Il giudizio disciplinare sembra un procedimento amministrativo MA CHE si nutre di garanzie. La sezione esercita funzioni giurisdizionali in senso lato, non è un propriamente un giudice  somiglia più ad un procedimento amministrativo MA CON delle garanzie: ad esempio un provvedimento disciplinare può portare alla destituzione dell’impiego. La Corte ha ritenuto che per delicatezza di questo procedimento che riguarda la responsabilità disciplinare di chi esercita funzioni costituzionalmente garantite (funzioni giurisdizionali) sia opportuno che il CSM venga considerato giudice ai fini della proposizione della questione di costituzionalità. Ecco un allargamento della platea. Una sentenza degli anni ’70 ha riconosciuto alla Corte dei Conti la possibilità di sollevare questioni di legittimità cost. soprattutto in rispetto all’art. 81 (giudizio di parificazione)  l’ha ammessa quindi come giudice. La Corte ha ritenuto opportuno farlo per un ragionamento di fondo: sarebbe stato difficile per la Corte Cost. intervenire su quelle materie senza avere un interlocutore  avviene nel giudizio di parificazione. C’è una sede di giudizio in cui più si è parlato dell’ art. 81 . Dove avviene? Nel Giudizio in via principale: ogni finanziaria approvata a fine anno viene SEMPRE impugnata dalla regioni . Perché le regioni la impugnano? Per questioni che riguardano le coperture, i finanziamenti, la disciplina dei flussi finanziari Stato-Regioni. In tutte queste dinamiche l’art. 81 diventa facilmente un parametro costituzionale delle leggi. Però tolto questo, nel giudizio incidentale non emerge. Quindi la Corte ha detto: visto che si rischia di trovare zone d’ombra (o addirittura zone franche) sottratte al giudizio di cost. o zone in cui è più difficile  la corte tende a ridurle perché il suo compito principale istituzionale è quello di realizzare il principio di legittimità costituzionale delle leggi  il principio vuole che tutti i parametri siano utilizzati per verificare la legittimità costituzionale delle leggi. E il fatto che l’art. 81 non siano utilizzabile per ragioni legate al processo cost come parametro non va bene QUINDI ecco che la Corte dei Conti è stata abilitata sollevare questioni. Anche se il giudizio di parificazione a rigore NON è un vero e proprio giudizio e questo ci testimonia che individuare attività giurisdizionale non è sempre coì semplice. Per completare il discorso, è successo in passato che la Corte si è trovata di fronte a Organi che esercitano una funzione oggettivamente giurisdizionale ma senza essere soggettivamente giudici: questi organi irrogavano sanzioni, applicavano in maniera oggettiva la legge, adottavano provvedimenti che incidevano sui diritti (attività obiettivamente giurisdizionali)…un esempio classico  consigli comunali/prov. in sede di verifica delle elezioni. Le controversie elettorali erano decise dal Consiglio provinciale/ comunale  organo che in quel contesto esercita una funzione obiettivamente giurisdizionale  decisione su chi deve avere accesso all’organo rappresentativo. In questi casi è successo che la Corte abbia ammesso che l’attività era obiettivamente giurisdizionale ma poi si è chiesta se le norme che attivano questo potere fossero legittime. Perché si rimetteva la decisione sul diritto di essere eletto in un organo rappresentativo ma in caso di contestazione la decisione era rimessa al consiglio. La corte stessa ha proceduto sollevando a se stessa la questione di legittimità di queste norme. Potrebbe violare qualche principio costituzionale? Viene meno la TERZIETA’  la decisione che viene rimessa ad un organo politico che si trova con una maggioranza all’opposizione.. far decidere una controversia elettorale all’organo che comunque in genere è governato secondo regole politiche è problematico. La corte l’ha rilevato: terzietà, indipendenza e imparzialità non erano propriamente rispettate. La questione è legittimamente rimessa da questo organo perché oggettivamente svolge una funzione giurisdizionale MA quella funzione è illegittimamente affidata all’organo  la questione deve essere decisa dal giudice amministrativo e NON dal consiglio comunale. Altre condizioni di ammissibilità della questione: - Individuazione del giudice e del giudizio: appartiene ad una certa tipologia nella categoria delle pronunce di inammissibilità. NB: l’unica pronuncia processuale che ad oggi la Corte fa è la pronuncia di inammissibilità: pronuncia che raccoglie tutte le tipologie di pronunce SALVO un caso isolato in cui rubrica diversamente l’improponibilità della questione e si pronuncia per la RESTITUZIONE DEGLI ATTI DEL GIUDICE A QUO (utilizzata solo dalla Corte Cost.)  lo fa solo nel caso in cui la questione è sollevata su una sola disposizione quella disposizione viene fatta oggetto di ABROGAZIONE o MODIFICA allora la Corte CHIEDE AL GIUDICE UNA RIVALUTAZIONE che riguarda: si richiede di rivalutare l’applicazione della legge quindi LA RILEVANZA. Se la norma è cambiata, abrogata modificata chiedo al giudice: sei sicuro che sia la norma applicabile quella che mia hai sollevato? Sei sicuro che la norma oggetto del giudizio sia rilevante?  MA SE LA NORMA FOSSE ABROGATA NON SAREBBE GIA’ RISOLTO IL PROBLEMA DELLA COSTITUZIONALITA’? Se vediamo che una questione è inammissibile bisogna dunque approfondire: non so come giudice se posso riproporlo o no. Bisogna leggere cosa dice la Corte: molte volte nelle sentenze si trovano delle indicazioni riguardo alle pronunce. La corte non risponde a quesiti interpretative MA per spiegare al giudice cosa intende con la sua pronuncia (“è inammissibile per questo motivo x) dà indicazioni interpretative  valore aggiunto di queste pronunce. Questa idea di limitare al difetto di motivazione non ha retto e la Corte ha appurato che in certi casi dagli atti emergeva che la norma non era applicabile e che la questione diventava IRRILEVANTE. Non già motivazione sulla rilevanza MA irrilevanza tout court. Questa è la differenza. La corte diceva che dagli atti emerge che la norma non va applicata  allora questa è decisoria perché se la corte dice ce la norma NON è applicabile al giudizio allora il giudice NON può riproporre la questione. È un terreno delicato perché l’applicazione della norma al caso è il proprium dell’attività giurisdizionale  la Corte replica all’ordinanza di rimessione dicendo che la norma, interpretando diversamente, in quel caso non è applicabile. Il giudice ha sollevato la questione sulla norma X  ma dalla descrizione dei fatti quel fatto oggetto di giudizio non dà luogo alla fattispecie X ma alla fattispecie Y (es. appropriazione indebita invece che furto) non è un difetto di motivazione è proprio che NON si applica la disposizione  ecco che è IRRILEVANZA e non DIFETTO DI MOTIVAZIONE e la pronuncia avrà effetti DECISORI e non semplicemente interlocutori. Crisafulli rimarcava come l’applicazione e l’interpretazione sono concetti che si congiungono e confondo. In sostanza se tu interpreti diversamente e dalla disposizione il giudice non trae la norma A e trae la norma B, la norma A non si applica alla fattispecie  la corte sulla base degli atti dice che la norma X si applica ma dalla norma x (interpretazione) si desume la NORMA B che trova applicazione al caso. Anche se certe volte l’interpretazione del giudice non è plausibile  addirittura può essere una norma impossibile  interpretazione che esiste solo nella mente del giudice che la fa. Il problema è che se da quella disposizione (praticamente tutte) noi vediamo che la norma che il giudice ha tratto DI FATTO NON E’ quella che si applica in quel caso ALLORA LA CORTE rileva che A non si applica e quindi è IRRILEVANTE  PERCHE’ si può dare un’altra interpretazione. La Corte indica così al giudice qual è la norma da seguire  pronuncia decisoria. Se il giudice a quo non condivide?  seguito delle pronunce di irrilevanza: statisticamente il giudice segue le pronunce della Corte. Ma è tenuto a farlo? Dolso sostiene che sia così, il giudice DEVE seguire quello che la Corte dice  un po’ per il meccanismo di incidentalità e un po’ perché non può esserci un’impugnazione di una pronuncia della Corte Cost.  violerebbe l’art.136 della Costituzione. La Corte cerca sempre di assicurare il fatto che il suo giudizio sia ancorato al caso e certe volte spiega al giudice che non può praticare il giudizio perché la norma non va applicata al caso  è questione pregiudiziale. La pronuncia della Corte diventa un precedente che va a comporre la giurisprudenza (circuito di interpretazione delle leggi) e va semmai a formare quello che è il vero oggetto del giudizio di costituzionalità: diritto vivente. Casi a-problematici: Classico caso di irrilevanza legato a profili cronologici (e non di interpretazione): quando il giudice solleva una questione in una fase precedente a quando dovrebbe essere applicata o quando la solleva tardivamente.  Caso nel processo: giudice nel processo preliminare solleva la questione su una norma che si applicherà nella fase di dibattimento  può essere anche incostituzionale ma la corte dice che la questione è prematura.  Vale anche per il caso simmetrico: solleva la questione su una norma che è stata applicata nel caso preliminare  la corte dice che la norma è stata già applicata da parte del giudice della fase preliminare quindi non è più rilevante perché è tardiva.  Il caso più delicato è quello del giudizio cautelare: nel procedimento cautelare sorge un problema. Se il giudice sospende l’atto amministrativo e rinvii al merito per la decisione questo può sollevare questioni di legittimità? Cosa succede? Si decide sul cautelare, si propone la questione, si subordina l’applicazione della norma gravata da dubbi di costituzionalità alla decisione della Corte, dopo la decisione si procede alla decisione di merito. L’irrilevanza si ha in maniera plateale nelle questioni proposte in maniera prematura o tardiva: quando la norma non è stata ancora applicata perché rinviata a fase successiva o quando è stata giù applicata. - Sentenza 67 del 2022: in cui la Corte dice che la questione è irrilevante perché non si applica. - Ultima causa di inammissibilità: riguarda i rapporti con il legislatore. Le due classiche relazioni che la Corte intrattiene sono: con il giudice a quo, con gli altri giudici e con le interpretazioni giudiziarie + con il legislatore. La corte arriva a volte a ricordare al giudice quella che è la giurisprudenza di legittimità per permettere al giudice di risolvere la questione. A volte le decisione della corte rischiano di intaccare la discrezionalità del legislatore  si tratta delle PRONUNCE ADDITTIVE. La Corte non toglie qualcosa MA aggiunge colmando un vuoto. In certi casi i giudici arrivano a chiedere alla Corte DI COLMARE DEI VUOTI che sono troppo cospicui. Qual è la regola che segue nelle sentenze additive per essere tollerata a livello di sistema ed equilibrio di poteri? Le rime obbligate: quando la Corte è chiamata a colmare una lacuna dovrebbe guardare alla Costituzione e verificare qual e la soluzione imposta dalla Costituzione. Laddove dalla Costituzione non si possa trarre univocamente una soluzione costituzionalmente obbligata (ha rime obbligate) la Corte può adottare una PRONUNCIA DI INAMMISSIBILITA’. La Corte ritiene di non poter scegliere tra più opzioni possibili tutte idonee a risolvere il problema di costituzionalità. L’addizione, strumentale a risolvere una criticità sotto il profilo della legittimità costituzionale, deve spettare al Parlamento. Ma queste pronunce sono decisorie o non decisorie? Il giudice può riproporre subito la questione? Si può immaginare che entro un lasso di tempo il legislatore faccia qualcosa: se il legislatore non fa nulla la situazione di costituzionalità rimane lì. Allora ecco che entro un lasso di tempo entro il quale la corte ha fatto un passo indietro, non ha voluto interferire con la discrezionalità del legislatore, a questo punto si potrebbero porre le condizioni per la riproposizione. È una delle pronunce più problematiche perché: l’incostituzionalità è accertata MA non dichiarata. Leggendo una Sentenza: Le parti ‘possono’ costituirsi, non sono obbligate a farlo. Ci può essere un’udienza pubblica o Camera di Consiglio. All’inizio della sentenza si leggono queste informazioni: informazioni sulle parti  ‘possono’ costituirsi, non sono obbligate a farlo. Ci può essere un’udienza pubblica o Camera di Consiglio. Ricorda: SE C’E’ L’INFONDATEZZA (nella sentenza/ordinanza) la decisione è ANCHE NEL MERITO. Leggi sentenza 67/11 marzo 2022  assegno nucleo famigliare + commento Ruggeri La giurisprudenza ha distillato un’altra condizione di ammissibilità della questione: il giudice deve aver compiuto un TENTATIVO DI INTERPRETAZIONE CONFORME A COSTITUZIONE  questo diventa una condizione di proponibilità/ammissibilità della questione. Il tema è antico perché l’interpretazione conforme a cost. la Corte ragiona già dalle prime sentenze interpretative di rigetto (sentenza 8 del 56). La Corte ha sempre indicato ai giudici la strada, la strada che è quella di interpretare. Dalla sentenza del ’56 in poi la Corte dice che tra più interpretazioni possibili VA SEGUITA l’interpretazione conforme a Costituzione. Il quid pluris è che da un certo punto in poi la Corte ha ritenuto (inizio anni ’90 circa) che questo tentativo fosse un tentativo che andasse esperito a pena di inammissibilità della questione  se il giudice non fa questo tentativo io Corte nemmeno entro nel merito della questione perché ritengo che la questione non soddisfi tutti i requisiti di ammissibilità. Se la Corte richiede che non sia possibile come condizione dare un interpretazione conforme tu giudice devi fare tutti i tentativi possibili per approdare ad un interpretazione conforme  io Corte, se non li hai fatti, NON posso giungere ad una decisione di merito, PRIMA devi fare questo tentativo.  Casi clamorosi che hanno dato origine a disfunzioni: una questione su cui si discusse molto era la modalità di computo dei termini di custodia cautelare. La corte interpretazione il sistema podicistico alla luce all’art. 13 (favor libertà personale); in una sentenza di rigetto la corte aveva detto ‘tra più opzioni possibili il giudice deve seguire quella più aderente alla cost). ma dopo è successo che questa interpretazione è stata ritenuta dai giudici che non era conforme al sistema codicistico che governa le misure cautelari e non è compatibile con la lettera delle disposizioni. A fronte di questo la corte cost ha cominciato ad anellare una serie di pronunce di inammissibilità (la corte di cassazione è tornata a battere la porta). Il punto è che la corte di cassazione riproponeva la questione ritenendo che quell’interpretazione andasse oltre la lettera della norma. Quando è certo quell’interpretazione evade il perimetro della lettera della legge quella interpretazione non è praticabile da parte di un giudice, è praticabile dalla corte cost e per questo esiste. Per regole di sistema il giudice non può farlo. Ma la corte rispondeva: giudice tu stesso non fai l’interpretazione adeguatrice quindi la questione è inammissibile. La corte cost. dopo 7 anni di tira e molla cosa ha fatto? La corte ha deciso di dichiararla incostituzionale  ha eliminato QUELLA norma; il reticolo normativo è lì è quello non è cambiato di una virgola semplicemente viene colpita 1 tra le interpretazioni possibili che era quella che la corte di cassazione diceva essere compatibile con il testo. Questa vicenda è un esempio tra i tanti delle DISFUNZIONI a cui questa giurisprudenza poteva dare adito.  Un altro esempio: questione che riguardava la valutazione degli esami di abilitazione alla prof di avv. C’era una questione che aleggiava tra i giudici amministrativi. In particolare dal TAR Lombardia. Il problema era la MOTIVAZIONE, compendiata attraverso un’espressione numerica (trentesimi). Il problema era che certi TAR dicevano che questo era contrario all’obbligo di motivazione (art. 3 legge 41 del ’90  tutti gli atti amministrativi devono essere motivati). La corte anche lì per qualche anno diceva che il giudice non ha tentato l’interpretazione adeguatrice. Come si recepisce questa indicazione? Il TAR continuava a sollevare la questione, la corte l’ha ritenuta ammissibile e la dichiarata seccamente infondata. È un po’ stucchevole e ha mosso un ingranaggio giudiziario che costa, produce incertezze, allunga aspettative. Se non fosse stata così rigida e avesse detto: non è una questione di interpretazione adeguatrice, è infondata, sarebbe stato meglio. Il problema di un massiccio ricorso di un’interpretazione adeguatrice o massiccia dismissione di questioni della Corte sulla base di questa motivazione? Quale disfunzioni ci possono essere a livello di sistema? L’incertezza del diritto sì, ma a livello di sistema cosa si produce? Una sorta di perdita della centralità della Corte Costituzionale  si crea un inaridimento dell’accesso alla Corte, sarebbe un danno a livello di ordinamento che è concepito per far confluire le questioni alla Corte. A fronte di questa situazione la Corte Costituzionale in una pronuncia (83 del 2017) ritocca un po’ il tiro: in qualche modo la Corte ha fatto il punto sull’interpretazione adeguatrice a livello di collocazione di questo strumento. È un elemento di diffusione. Nel passato la Corte liquidava come ‘inammissibile’ perché diceva: tu giudice non hai fatto bene il tentativo di interpretazione e devi rifarlo. Ora basta che il giudice TENTI e anche se sbaglia la Corte chiude la questione. La Corte precisa il punto: l’interpretazione conforme a costituzione non è utilizzabile se contraria alla lettera o se è ECCENTRICA rispetto al complesso normativo. L’interpretazione secondo cost. è doverosa e ha un’indubbia priorità su ogni altra tecnica interpretativa. Però appartiene alla famiglia delle tecniche esegetiche quindi a disposizione del giudice nell’esercizio della funzione giurisdizionale. Quindi laddove la lettera della legge si opponga all’interpretazione il giudice legittimamente va dalla Corte Costituzionale. In una sentenza la Corte afferma che questa tecnica si rivela la migliore per l’interpretazione  la Corte dice che la lettera NON è un ostacolo e questa interpretazione non è difficile, è l’unica che soddisfa la costituzione ed è coerente sotto il profilo logico- sistematico. Nessun giudice potrebbe più interpretare l’art. 35- ter inteso come una norma che esclude gli internati dal risarcimento  diamo un’occhiata a questa sentenza. Innesta il tentativo di interpretazione adeguatrice tra le altre tecniche di interpretazione. Leggere : 49 del 2015 (ruolo dei giudici e giurisprudenza corte di strasburgo) e sentenze gemelle Quando la Corte FA LEVA sull’interpretazione (nelle prime questioni) che il giudice a quo che dava a questa norma e la corte diceva che quella non era l’interpretazione conforme a cost ma ce n’era un’altra, prendeva - Vicenda Taricco: la norma censurata da cui si riteneva derivasse una violazione era un articolo del trattato così come interpretato (anche in maniera un po’ imprevedibile) dalla corte di giustizia problema era quell’interpretazione della norma del trattato. - Sentenza 269 del 2017 (problematica della Carta europea dei diritti fondamentali) Abbiamo fatto una serie di riflessione il merito all’oggetto del giudizio di costituzionalità ma ciò che dobbiamo assolutamente ricordare è il ruolo del diritto vivente. Il ruolo che la dottrina del diritto vivente ha avuto nella giurisprudenza cost è lo specchio che la funzione del diritto vivente ha nel nostro ordinamento. Ciò ci fa capire che qualche distinzione troppo schematica va rimeditata. Il ruolo che ha il diritto vivente porta a smentire qualsiasi fenomeno di sottovalutazione di quello che è il ruolo di precedente nel nostro ordinamento. Ma la riflessione della Corte cost è importante perché ci spiega che il punto di partenza di ogni operatore giuridico dovrebbe essere il diritto vivente. Il punto di partenza per gli operatori giuridici, la pubblica amministrazione e per il giudice è il diritto vivente. Non è accettabile che il giudice si metta deliberatamente di traverso al diritto vivente se non ci sono motivazioni serie. “Il giudice è soggetto solo a legge” significa che il giudice interpreta secondo le regole del nostro ordinamento, e tra queste ci sta anche l’attenzione per il diritto vivente. Questo è un punto di partenza soprattutto per la Corte Costituzionale. Davanti al giudice comune c’è il fatto e la valutazione giuridica del fatto, davanti alla Corte la ricostruzione del fatto è la ricostruzione oggettiva (storiografica) del diritto vivente. Anche il diritto vivente sconta dei margini di discrezionalità  e da molte sentenze della Corte traspare la difficoltà di come la Corte a fronte di una proposizione della questione scandaglia la giurisprudenza ed emerge che la ricostruzione dei giudici non è completa, non è aggiornata e non è corretta tutti segnali di disfunzioni del mondo giudiziario. Se il giudice manda la questione alla Corte e non è in grado di ricostruire il diritto vivente c’è qualcosa che non va: quindi è necessaria la ricostruzione del diritto vivente e non è una ricostruzione facile  si tratta di un’operazione giuridicamente complessa che necessita una serie di operazioni. Giurisprudenza sì, ma quale? La più recente, la meno recente? La Cassazione? Le Sezioni Unite? Però è fondamentale perché una volta fatta questa operazione bene, nel nostro ambito di interesse che è il giudizio di costituzionalità quella sarà la questione su cui la Corte si soffermerà, dal punto di vista dell’operatore giuridico questo sarà sicuro che quella sarà la norma che verrà applicata perché espressione di un diritto vivente che ha ricostruito. Detto questo, siamo passati ai parametri. Questo ambito si è parecchio complicato dopo che l’art.117 della Costituzione ha inserito un parametro interposto (tra legge e cost.). Abbiamo dei regimi diversi: la nostra Carta Costituzionale registra una straordinaria apertura verso il diritto internazionale che si declina in altre norme: 117, 10 e 11. Passaggio storico importante sull’art.10: dopo la Sentenza 238 la consuetudine, a certe condizioni, non viene riconosciuta. Una Corte Cost ha rilevato che in certi casi, dove ci siano violazioni di diritti, la consuetudine internazionale non trova ingresso nel nostro ordinamento. Per quanto riguarda l’art. 11: ogni singolo giudice compie una valutazione di conformità della normativa interna rispetto alla normativa dell’UE direttamente applicabile. Però vi è il sindacato dei contro limiti  controllo che spetta SOLO ALLA CORTE (questa va a sindacare con uno strumento formale costituito dall’impugnazione dell’atto interno che recepisce i trattati perché sono questi ad assegnare alla norme comunitarie un posto fondamentale nel nostro ordinamento). Emblematica di questa situazione è la sentenza Taricco: la norma censurata da cui si riteneva derivasse una violazione era un articolo del trattato così come interpretato (anche in maniera un po’ imprevedibile) dalla Corte di giustizia problema era quell’interpretazione della norma del trattato. La Corte ha rinviato alla Corte di giustizia la quale ha temperato l’interpretazione ottemperando alle richieste senza arrivare a scontarsi con i contro-limiti. Quindi vediamo 3 norme di apertura al diritto sovranazionale, 3 regimi che potrebbero essere ricondotti nell’ambito delle norme interposte ma che in realtà sono 3 regimi differenti. SENTENZE GEMELLE (348 e 349 del 2007) La Corte in queste occasioni ha affermato che in merito ai trattati come norme interposte NON si può fare. Quando c’è un contrasto tra una norma e un trattato internazionale il giudice NON può disapplicare il trattato  il trattato comunitario CREANO UN ORDINAMENTO GIURIDICO che è conformato da trattati internazionali sottoscritti dall’Italia e che la Corte Cost ha ricondotto a quelle limitazioni di sovranità di cui all’art.11. Il regime della CEDU e altri trattati è un diritto diverso: trattati internazionali multilaterali che NON creano sistemi giuridici separati. Riconducibilità all’art.11 del sistema CEDU: la caratteristica del sistema CEDU rispetto ad altri trattati è particolare perché 1)contempla un catalogo dei diritti 2) è un sistema che all’interno di questa convenzione attribuisce un ruolo fondamentale ad una Corte. E lo stesso articolo 35 della CEDU afferma che le norme vanno interpretate secondo quello che dice la Corte di Strasburgo. Quindi soprattutto dopo che è stato approvato un protocollo importante di qualche anno fa che permette ricorsi individuali contro gli Stati (previo esaurimento ricorsi interni) e non più ricorsi solo da parte dello Stato. Il fenomeno dei ricorsi affluiti davanti alla Corte è ovviamente triplicato. A questo punto si può dire che c’è una limitazione di sovranità. Alla fine siamo soggetti all’interpretazione che la Corte dà della Carta delle Convenzione europea che ha contenuto costituzionale. Se infatti paragoniamo la prima parte di vita della comunità europea (dove le materie erano più limitate e principalmente legate al mondo economico) con adesso, notiamo che il compito della Corte e CEDU è occuparsi di diritti umani. Quindi da parte della CEDU c’è limitazione di sovranità  quindi l’art. 11 centra come possibile matrice di copertura della CEDU. In altri ordinamenti tipo in Francia la disapplicazione si fa, quindi è concepibili ma è un scelta di politica giudiziaria della Corte Costituzionale. La Corte esclude anche un altro paradigma: non si applica nemmeno l’art.10. è più semplice da capire perché si tratta di fonti diverse. Il trattato internazionale pattizio (art.117) e consuetudine internazionale (art.10). lo schema che si applica ai trattati internazionali quindi no rientra né nell’art.10 né nell’art.11  bisogna guardare all’117 e incasellare i trattati tra le norme interposte. QUINDI: Ruolo imminente della Corte di Strasburgo che dà un’interpretazione autentica delle norme della CEDU e competenza ad annullare le norme interne che siano in contrasto alle norme della CEDU così come interpretate dalla Corte. La Convenzione sta SOTTO la Costituzione  se una norma CEDU viola la Costituzione questa norma non va applicata OPPURE si andrà a sindacare la legge di esecuzione al trattato della Convenzione europea  impugno la legge nella parte in cui ha consentito di immettere nel nostro ordinamento quella norma contraria alle norme costituzionali. La Corte poi nel 2009, 2011 e da ultimo nel 2015 ha richiamato i giudici sul RAPPORTO che ci deve essere CON LA GIURISPRUDENZA DI STRASBURGO. La Corte rimarca la superiorità assiologica della Costituzione: se la norma o la giurisprudenza contrasta con la Costituzione bisogna rivolgersi alla Corte impugnando la legge di attuazione/adattamento nella parte in cui ha consentito di immettere nel nostro ordinamento quella norma contraria alle norme costituzionali. La giurisprudenza della Corte di Strasburgo è CASISTICA: riguarda il caso specifico sagomato e descritto  per questo secondo Zagrebesky non si può parlare di giurisprudenza consolidata (allora il giudice espande tutti i suoi poteri interpretativi). Comunque la Corte Costituzionale dà anche delle indicazioni sugli indici: 1. La creatività del principio: quanto è conforme o no alla tradizione della giurisprudenza europea 2. Quanto pone dei distinguo o delle continuità rispetto alla giurisprudenza precedente 3. Che abbia o no opinioni dissenzienti 4. Che sia la pronuncia di una sezione semplice o no SENTENZA 49 del 2015: la Corte mette a fuoco quelle che sono le regole (mettendo qualche paletto) che il giudice deve seguire quando maneggia la giurisprudenza di Strasburgo  il giudice deve guardare allo sviluppo dell’intero filone giurisprudenziale e non soffermarsi ad un singolo precedente (il flusso), alla sostanza, deve parametrare la decisione sulla fattispecie (sempre fatto). Ricorre molto la parole ‘errore’ e ‘erronea’, in quanto i giudici avevano avuto un approccio sbagliato nel metodo, soprattutto in quanto giudici: 1) avevano interpretato male la sentenza della Corte di Strasburgo; 2) non avevano inteso che la giurisprudenza non va presa di peso e trapiantata nel nostro ordinamento, deve guardare tutto il flusso della giurisprudenza  il giudice interprete NON è passivo recettore perché il soggetto è soggetto solo alla legge. Ci sono casi in cui il giudice è vincolato:  Nei casi di SENTENZE PILOTA (il primo caso di questo tipo riguardò il sovraffollamento delle carceri): traslazione del giudizio al caso alla norma che lo governa; quando la Corte ha mille ricorsi che riguardano una tematica (es. stato detenzione) è il sistema legislativo incompatibile con gli standard europei (viene introdotto il risarcimento in caso di detenzione ingiusta).  Quando la sentenza è espressione di un PRINCIPIO CONSOLIDATO  Quando a fare ricorso è il privato cittadino (può ricorrervi dopo il Protocollo 9): la Corte se riconosce una violazione la sentenza, per il giudice, è obbligatoria. Dunque l’eccezione è che il giudice sia vincolato a seguire la giurisprudenza di Strasburgo, la REGOLA è che il giudice sia libero di interpretare e che NON sia passivo recettore. RAPPORTO TRA CORTE COSTITUZIONALE E DIRITTO DELL’UE Abbiamo osservato questo itinerario particolare della Corte Cost. L’itinerario: si parte da una situazione in cui c’era il problema se la corte avesse sposato o no la tesi della norma interposta  avevamo l’art.11 della Costituzione che come sappiamo dava copertura ai trattati dell’UE e quindi avevamo la solita norma X  lo schema più lineare: la norma X viola il trattato ma visto che questo trova radici nell’art.11 violando il trattato UE viola indirettamente l’art.11 (articolo visto come la copertura costituzionale dei trattati perché riconosce le limitazioni di sovranità). Quindi la Corte avrebbe dovuto garantire la copertura costituzionale. A fronte di questo c’è la cesura della 170 dell’84 che inserisce il giudizio diffuso. - Giudizio diffuso di costituzionalità: si è sostituito allo schema del giudizio interposto QUINDI le norme UE non sono più un parametro interposto per la Corte Cost. MA DIVENTANO norme che il giudice applica direttamente IN ALTERNATIVA allo schema interposto. Lo schema interposto portava a ragionare in termini di norme interposte (la norma x NON si applicava quando in contrasto con la legge comunitaria e quindi l’art.11)  ora questo meccanismo è nella mani dei giudici comuni e non più della Corte Costituzionale  elemento di diffusione del giudizio. La corte diventa marginale perché a lei rimane radicato il giudizio di costituzionalità riguardo alle norme non direttamente applicabili; un’altra competenza che la Corte si è trattenuta è quella dei contro-limiti  la corte ha però praticato con timidezza il sindacato di costituzionalità sulla base di norme non direttamente applicabili. La Corte però avrebbe potuto attingere a molti principi delle direttive e principi del trattato che non sono norme self-executing. Ma la giurisprudenza era scarsa  qualche volta le regioni avevamo sollevato questioni sulle direttive… dei contro-limiti invece NULLA. La Corte ha recuperato un po’ di terreno con l’ordinanza 24 del 2017 perché ha dimostrato che i contro- limiti ci sono; però quello che è interessante e che porta un segnale di DISCONTINUITA’ è che la Corte ha cominciato, assecondando le tendenze dottrinali più accreditate, anche nei giudizi in via incidentale, a non rimettere la palla al giudice (no rinvio pregiudiziale). Ma poi l’ultima puntata riguarda la Carta Europea dei diritti fondamentali: la Corte non torna protagonista come quando si era immaginato lo schema della norma interposta come governo del rapporto tra fonti interne e fonti comunitarie MA non è stata nemmeno immaginata come quando la teoria della disapplicazione ha preso piede e i giudici l’hanno fatta da padrona nei rapporti tra diritti UE e diritto interno. Qui la Corte guadagna terreno andando a condividerlo con qualche piccola criticità con i giudici ordinari sempre nel rispetto dei principi che la Corte di giustizia ha affermato in materia di fonti del diritto dell’UE. Questo terzo movimento quindi è improntato alla collaborazione  Paolo Barile lo chiama il ‘cammino comunitario della Corte’, che è sempre in movimento ed evoluzione. Carta Europei dei diritti e la posizione della Corte Costituzionale: sentenza 269 del 2017 La questione è risolta sulla base di una disapplicazione: la Corte, sul discorso di come gestire la Carta Europea, afferma che i problemi si risolvono nella maniera tradizionale  disapplicazione. La domanda che si fa la Corte è: COSA SUCCEDE SE VI E’ UN CONTRASTO tra il diritto interno e la Carta? la genesi dell’interpretativa di rigetto: la questione diventa infondata nella parte in cui dalla disposizione non si trae la norma a che è illegittima, ma la norma b che è conforme a Cost. Questa è una tipologia di pronuncia che si discosta sotto il profilo procedurale da una sentenza di rigetto secca, perché nel dispositivo della sentenza (per questi motivi..) si trova che la Corte dichiara l’infondatezza della questione nei sensi di cui alla motivazione = la motivazione in questi casi , e forse sempre, fa corpo →c’è un principio di unitarietà con cui vanno lette le sentenze. La motivazione è la sentenza (art. 111 della Cost.). Anche nel dispositivo c’è traccia e quindi ha un peso specifico. Tendenzialmente c’è una ricaduta formale: la questione è infondata nei sensi di cui alla motivazione→ la Corte rimarca che è infondata solo e soltanto nella misura in cui la disposizione viene interpretata in quel modo. Interpretata nel primo modo, sarebbe incostituzionale. ➔Il problema dei vincoli Questa pronuncia è di rigetto? Ha un peso specifico maggiore? Tendenzialmente si è distinto tra effetti nei confronti del giudice rimettente e degli altri giudici. Nei confronti del giudice rispetto al quale è stata pronunciata la sentenza, si deve riconoscere che è ritenuto a seguire le indicazioni della Corte, anche in positivo = non può interpretare nel senso disatteso dalla Corte→altrimenti si potrebbe dare luogo a un procedimento disciplinare perché violerebbe qualsiasi principio del procedimento incidentale. Se il giudice nel 1956 avesse ritenuto comunque di applicare la disposizione come se consentisse poteri in deroga alla Costituzione (norma a), poteva rimettere alla Corte una seconda volta? Riproporre la questione somiglierebbe a una impugnazione→le sentenze della Corte non possono essere impugnate (art. 137 della Cost.). Ci potrebbero essere degli interstizi per una interpretazione che non sia a né b, ma c, sempre che questa fosse conforme a costituzione. È comunque una ipotesi remota. Per gli altri giudici vi è qualche criticità, soprattutto dopo la pronuncia n. 8→a livello di prassi amministrativa, qualche giudice aveva rilevato che alcuni prefetti avevano comunque continuato a interpretare la disposizione dell’art. 2 del Testo unico nel senso che questa disposizione consentiva o poteva consentire la adozione di ordinanze di necessità in deroga a diritti costituzionali. Qualche giudice ha arginato questa prassi, dichiarando illegittimi questi provvedimenti, perché contrari all’interpretazione conforme a costituzione che la Corte aveva elaborato. Qualche giudice, diverso da quello a quo, aveva riproposto la questione→se il giudice diverso da quello a quo intende interpretare quella disposizione nel senso che la Corte ha dichiarato incostituzionale, quel giudice deve sollevare la questione alla Corte. Questo lo ha detto la Cassazione. Questo perché ne ricorrono i presupposti: la rilevanza e la fondatezza. Come si fa a definire una questione infondata quando la Corte ha detto incidentalmente che è illegittima? Se la Corte ha detto che la norma a è incostituzionale, qualsiasi giudice che intenda applicare la norma dandole il significato ritenuto incostituzionale (questa interpretazione non può essere ritenuta immune da dubbi di incostituzionalità) deve riproporre la questione. Qualche giudice aveva ritenuto che la questione non fosse manifestatamente infondata. La Corte, al tempo, mutò pelle della sentenza, mantenendo lo stesso contenuto. Nella sentenza 26 del 1961 la Corte reinvestita della questione ricordò le tappe fondamentali del Testo unico e invece di adottare ancora una interpretativa di rigetto, fa sempre una pronuncia interpretativa (perché ragioniamo sempre di norme) ma di accoglimento →quella interpretazione (la norma a) sparisce, viene cancellata dall’ordinamento→nessuna PA e nessun giudice (ex art. 134 della Cost.) potrà più applicarla in quel senso. Quella interpretazione scompare e riappare ad es. nel 77, o con la sentenza 115 del 2011 quando c’era stata una raffica di questioni circa il potere di ordinanza dei sindaci e anche nell’ultimo periodo con le ordinanze per far fronte al COVID. È solito che a una interpretativa di rigetto segua poi una di accoglimento. Le pronunce interpretative della Corte, vuoi che siano di inammissibilità o di fondatezza, devono fare i conti con il fenomeno del diritto vivente e dei limiti al potere interpretativo. Quanto al primo, abbiamo visto come l’affermarsi della dottrina del diritto vivente ha limitato i poteri di interpretazione della Corte = la Corte dagli anni 80 è restia a contrappore interpretazioni militanti con quelle che configurano un diritto vivente→la Corte non vuole innestare guerre tra le due corti, ma preferisce ritenere che l’oggetto del giudizio di costituzionalità sia la disposizione così come interpretata dal diritto vivente. Il diritto vivente, quando è affermato, è il significato della disposizione = quella disposizione assume il significato che la giurisprudenza consolidata ha dato a quel disposto normativo. Possiamo rimarcare che le pronunce interpretative di rigetto sono precluse quando vi è un diritto vivente. La Corte si rifiuta di farlo per una questione di equilibrio di poteri, non perché non possa farle. Se c’è diritto vivente, quello è il significato da dare. La Corte parte da quel dato. Se il diritto vivente manifesta dei dubbi di costituzionalità, lo dichiara illegittimo. Non ci sono altri spazi per opzioni interpretative alternative. La Corte ritiene che ogni attività interpretativa abbia dei limiti fisiologici. Anche quella adeguatrice appartiene al genere delle interpretazione e sconta tutti i limiti che l’interpretazione giuridica incontra. Il primo limite è rappresentato dall’interpretazione letterale. La Corte può sia annullare che dare un significato a cui il giudice non avrebbe potuto arrivare. Questo è lo scarto tra interpretazione del giudice e della Corte. Come la Corte può dichiarare illegittima la norma, può anche farle assumere un significato conforme a Cost. che però è un significato non del tutto collimante con il tenore letterale. Ci sono tante interpretazioni giurisprudenziali che poco o nulla hanno a che fare con il testo della disposizione. Il giudice comune (di merito e di legittimità) deve rispettare il limite del tenore letterale, pena l’incertezza dell’interpretazione, che genera danni enormi al sistema. Almeno qualche punto fermo è consigliabile. Accanto all’interpretazione conforme, teniamo conto che nella giurisprudenza costituzionale e di legittimità si è affermata anche l’interpretazione conforme al diritto UE e quella convenzionalmente orientata (conforme alla CEDU e alla giurisprudenza della Corte EDU). Questo è un epilogo inevitabile e anche raccomandabile. Certo è che a livello di considerazioni di sistema non si può negare che tutto ciò porti ad elementi ancora di incertezza del sistema. La Corte cost. qualche volta lo fa. ➔il valore della certezza nei sistemi giuridici, nella prevedibilità dell’applicazione delle norme. Più si incrinano questi principi, più il sistema tende a non funzionare. CONFERENZA – l’accesso alla Corte (guarda file su Teams) Eleonora Pappalettere = magistrato da 26 anni. A Torino svolgeva le funzioni di GIP e GUP. Si è occupata di reati finanziari, criminalità organizzata, reati comuni, ecc. nel 2015 il Ministero della giustizia l’ha distaccata alla Corte di giustizia a Lussemburgo e dallo scorso settembre ha fatto una selezione per fare il magistrato alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo a Strasburgo. È passata dall’UE al Consiglio d’Europa: la Corte EDU è istituita presso il Consiglio d’Europa. ➔Il filtro delle cause alla Corte EDU Filtra quelli ricevibili e irricevibili. Rispetto quelle ricevibili dispone delle note utili al collegio giudicante per il proseguo della causa, fino alla sentenza. Il suo lavoro a Strasburgo prevede lo svolgimento di attività delicate e complesse. Deve comprendere bene la vicenda fattuale rilevante→capire di cosa i ricorrenti si lamentano. Deve illustrare il pertinente quadro normativo e giurisprudenziale a livello nazionale. In relazione ad ogni doglianza deve verificare quali sono le norme della CEDU applicabili. Deve fare una disamina della giurisprudenza rilevante della Corte EDU: non necessariamente riguarda di casi contro l’Italia. Deve predisporre dei provvedimenti motivati (in inglese o francese) in modo tale da rendere comprensibili i vari capitoli dell’elaborato, ma soprattutto rendere comprensibili le osservazioni sul diritto e la pratica interni, in Italia. I documenti che redige sono destinati anche a giuristi non italiani, che non conoscono il nostro ordinamento interno. Il filtro ha un bivio: da un lato la nota di single judge, che è canalizzata alla pronuncia di irricevibilità→la procedura non passa il filtro. L’altra alternativa è la nota di referral = la presentazione della causa a un collegio giudicante. Quando la causa pasa positivamente il filtro, va verso l’apertura del contradditorio con lo stato convenuto e quindi la sentenza. Quali sono gli ostacoli che un ricorso a Strasburgo deve superare per sopravvivere al filtro. Il filtro ha due livelli: - Consiste nella valutazione del ricorso da un punto di vista formale e amministrativo: art. 47 del Regolamento della Corte. Se il ricorso non è conforme, la cancelleria comunica al ricorrente il perché il suo ricorso non sarà nemmeno esaminato dai giudici della Corte. - Il ricorso è formalmente completo e corretto si passa al secondo step del filtro, che consiste in una valutazione giuridica fatta ai sensi della CEDU (artt. 34 e 35) = si tratta della valutazione sulla ricevibilità, sinonimo di ammissibilità. Se il ricorso formalmente completo è giuridicamente irricevibile e non passa il secondo filtro, il lawyer prepara una nota per la corte in composizione monocratica (single judge) che emette una decisione di irricevibilità enunciando le ragioni con formule standard. Se non è d’accordo può confrontarsi con i giuristi della giuria o rimettere la causa a un collegio giudicante e preparare un referral. Saper redigere un ricorso che superi questi due step, non è facile. Su 1759 ricorsi contro l’Italia pervenuti nel 2021, ben 1076 non hanno superato il filtro. 290 ricorsi sono deceduti ex art. 47 e altri hanno perso la vita davanti al single judge. Questo fa riflettere: anche tra i pratici del diritto è lacunoso il sistema della CEDU. Ci sono regole procedurali che impediscono nel dettaglio a capire come il single judge addivenga a una decisione di irricevibilità. Per quanto riguarda il secondo step, non analizzeremo ciascuna delle cause, perché ognuna richiede una trattazione molto ampia. Tre premesse: - Il Consiglio d’Europa e il Consiglio dell’UE: il primo è un’organizzazione internazionale che promuove i diritti umani, la democrazia e i principi dello Stato di diritto. Conta 46 Stati dopo l’uscita della Federazione Russa nel marzo 2022. La Corte EDU ha stabilito la propria competenza fino a metà settembre: tutte le violazioni commesse dalla Russia fino a settembre possono essere quindi accertate dalla Corte. A differenza dell’Ue, il Consiglio d’Europa non può emanare norme vincolanti: gli stati parti non hanno fatto alcuna cessione di sovranità→ha il solo potere di far rispettare alcuni accordi internazionali sottoscritti dagli stati, come la CEDU. Questa ha istituito la Corte EDU, a propria salvaguardia. Ciascuno dei 27 stati membri dell’UE fa anche parte del Consiglio d’Europa. Il Consiglio europeo e il Consiglio dell’UE non sono organizzazioni, ma istituzioni dell’Ue. Il Consiglio europeo è l’organo di orientamento politico generale dell’UE: composto da un presidente, dal presidente della Commissione europea e da tutti i capi di stato degli stati membri. Il Consiglio dell’UE è una istituzione dell’UE a composizione variabile: ne fanno parte i ministri competenti per la materia che viene in discussione all’ordine del giorno. Questo organo elabora la PESC e conclude accordi internazionali, fornendo alla Commissione il mandato per negoziare a nome dell’UE degli accordi tra l’UE e paesi terzi o tra l’UE e altre organizzazioni internazionali. Con il Trattato di Lisbona l’UE ha acquisito personalità giuridica→l’UE aderisce alla CEDU. quindi si sono avviate le trattative tra UE, su mandato del consiglio, e il Consiglio d’Europa, per arrivare a un accordo di adesione dell’UE in quanto tale alla CEDU. le conseguenze di questa adesione è che la CEDU viene considerata tra le fonti dell’UE. Il percorso per l’adesione è complesso. Nel 2013 i negoziati si erano concretizzati in una bozza. La Corte di giustizia doveva rilasciare un parere circa la compatibilità della bozza con il diritto dell’UE→la Corte ha però stoppato questa procedura perché ha emesso parere negativo. - La CEDU ha vari protocolli (testo che aggiunge uno o più diritti alla convenzione o ne modifica alcune disposizioni). I protocolli che ampliano i diritti diventano vincolanti solo per gli stati che li firmano e li ratificano. Ad es. l’Italia non ha ratificato il protocollo 12 che prevede un divieto generale di discriminazione. L’art. 14 della CEDU prevede un divieto di discriminazione, ma solo nel godimento dei diritti previsti dalla CEDU. - L’apparato giudicante della Corte in senso lato. La Corte è un organo giurisdizionale sovranazionale permanete composto da giudici a tempo pieno: uno per stato. Il protocollo 11, entrato in vigore nel 98, ha creato la Corte EDU come la conosciamo oggi. Ha competenza estesa ai ricorsi individuali. I giudici della Corte sono assistiti nel loro lavoro dai giuristi della Cancelleria, suddivisa in 5 sezioni all’interno delle quali sono distribuiti le 47 unità nazionali. L’unità italiana appartiene alla sezione I e della stessa sezione fanno parte altre nazionalità. La prima sezione ha 9 unità nazionali quindi. Oltre alle 5 sezioni, vi è il dipartimento di filtraggio e metodi di lavoro, riservato a 4 stati, quelli con il maggior contenzioso (Russia, Ucraina, Romania e Turchia). L’Italia non ha una sua filter unit separata, ma dopo questi 4 stati vi è proprio l‘Italia per numero di cause pendenti. Quei 4 stati hanno anche le loro unità nelle sezioni ordinarie, ma la sezione filtro è stato separato. Quando parliamo di filtro, c’è filtro come struttura che riguarda questi 4 stati, ma oggi parliamo di filtro come funzione. In ogni unità di cancelleria ci sono giuristi a (a rotazione possono svolgere la funzione di relatore non giudiziario = esercita le sue funzioni sotto l’autorità del presidente della Corte; hanno un ruolo previsto dall’art. 24 della CEDU e 18 del Regolamento. Non necessariamente sono altre eccezioni che consentono al ricorso di passare indenne il filtro dell’art. 47. Le eccezioni richiedono una valutazione giuridica e non amministrativa.  Spiegazione soddisfacente: il ricorrente deve dimostrare di essere stato diligente. Se non può ottenere un documento deve fornire una spiegazione adeguata. È adeguata se fornisce una motivazione convincente e plausibile del motivo per cui non ha potuto ottenere il documento. I ricorsi dei minorenni o delle persone disabili sono oggetto di una particolare attenzione: si adottano parametri più elastici. Sebbene si accettino vari difetti di un modulo presentato da un soggetto con problemi mentali, il modulo deve comunque presentare gli elementi fondamentali.  La Corte decide diversamente: casi di elevato profilo e risonanza mediatica. Una certa flessibilità è ammessa in casi che al di là del loro profilo mediatico hanno un impatto sull’opinione pubblica (ad es. causa contro la Turchia del 2016: un giudice della Corte costituzionale viene arrestato all’indomani del golpe fallito contro Erdogan).  Ci sono gravi ragioni umanitarie: la prima eccezione è stata concessa dal presidente nel 2015 = il ricorrente Lamb, paralizzato e in drammatiche condizioni di salute non aveva completato il modulo. Il caso riguardava un caso di suicidio assistito. Il suo ricorso poteva essere riunito a un analogo ricorso già pendente. Può essere concessa una eccezione del presidente se insorge una questione riguardante il sistema complessivo della CEDU = ad es. in una causa britannica che riguardava una questione di una certa importanza relativa al diritto di accesso alle informazioni, il presidente ha concessione una eccezione perché nel procedimento interno la Corte suprema britannica aveva condotto una analisi della giurisprudenza della Corte EDU rilevando contraddizioni e individuando efficacemente un’area della giurisprudenza EDU che richiedeva chiarimenti. Nel 2021 quasi 11 mila ricorsi sono stati chiusi con l’art. 47. I ricorsi che superano il primo filtro passano al secondo = artt. 35 e 35 della CEDU. IL SECONDO FILTRO L’irricevibilità è il filtro del single judge. La Bibbia per studiare la materia è sempre la guida pratica alle questioni di ricevibilità. Se uno stato non ha ratificato un protocollo non gli si può contestare la violazione del protocollo = incompatibilità ratione persone. Gli stati firmatari della CEDU devono salvaguardare i diritti umani. La tutela della Corte è concepita come sussidiaria, eventuale→i ricorrenti devono aver usato tutte le vie legali disponibili e dato modo alle autorità nazionali di evitare la violazione o ripararla. Vi è la regola dei 4 mesi = ha lo scopo di salvaguardia della certezza del diritto. Si evita che delle doglianze possano essere sollevate a tempo indeterminato. ➔La non manifesta infondatezza È una caratteristica che sfiora il merito = il criterio di manifesta infondatezza è suddiviso in quattro categorie: - Quarta istanza = ricorsi che riguardano la valutazione dei fatti e delle prove come effettuata dai giudici nazionali. A meno che le decisioni interne siano arbitrarie, la Corte non può sindacare questo aspetto. L’art. 6 prevede un’equità processuale, non sostanziale; - Sono manifestamente infondati i ricorsi in cui non c’è violazione; - Quelli confusi e privi di base probatoria. - I ricorsi inverosimili, contraria al buon senso. Dal punto di vista operativo il drafting lawyer dopo aver sintetizzato i fatti ricerca la giurisprudenza della Corte e parte dalla guida sulla ricevibilità ma anche dalle guide tematiche e per articolo. Le guide tematiche sono il punto di partenza dello studio del fascicolo. C’è la giurisprudenza aggiornata. Una volta che il drafting lawyer si annota tutte le sentenze delle guide, allarga la ricerca su Udoc (database pubblico). Ipotizziamo il caso di un ricorrente condannato penalmente con rito abbreviato. Lamenta il ribaltamento della sentenza di assoluzione del GUP. Dice che la Core di appello non ha proceduto all’escussione di un certo testimone, le cui dichiarazioni erano state conosciute dal GUP grazie al fascicolo. Il teste era stato menzionato anche nella sentenza di assoluzione del GUP. Per la nostra ricerca vogliamo vedere se ci sono delle decisioni in cui un leading case è stato citato. Si va su UDOC e si cerca le sentenze in cui è stata citata Dan Moldavia (leading case). Trovo delle cause italiane. Poi si leggono le sentenze, perché si trovano ulteriori riferimenti. Riguardano comunque tutte l’overturning della sentenza del GUP. Il materiale si deve leggere e schematizzare. Le decisione del single judge che giunge al ricorrente è in inglese o francese. Inoltre, anche ammettendo che il ricorrente capisca la lunga, questa decisione ha un tenore letterale e quindi si capisce poco. Questa motivazione è chiaramente tautologica: il ricorso è manifestamente infondato perché ha le caratteristiche della manifesta infondatezza. Questo non consente all’utente di capire il ragionamento che sta alla base del single judge. Questo sistema è comunque un enorme passo avanti rispetto al 2017, quando il ricorrente riceveva una lettera della cancelleria con cui si diceva che il ricorso era stato rigettato, senza motivazione. Dopo la conferenza del 2015 si è ritenuto opportuno aumentare il livello di trasparenza→sono state elaborate delle liste che consentono di mettere in moto un meccanismo di decisione automatica della decisione del single judge (listes des textes standards pour les motifs d’irrecevabilité» – «list of standard texts for grounds of inadmissibility). Già nella fase del filtro occorre lavorare tenendo conto che la CEDU è uno strumento vivente = i giuristi del filtro devono coltivare con lo studio, la pratica, una sensibilità che consente di riconoscere tra le righe del ricorso le doglianze serie che riguardano ambiti in cui la giurisprudenza della <corte è incerta p ha bisogno di ulteriore sviluppo. Questo affinché la Corte EDU possa continuare ad essere un faro di civiltà. Se c’è manifesta infondatezza, la Corte si riunisce in Camera di Consiglio. La Corte ha assunto altre pronunce (restituzione degli atti a giudice a quo) e le pronunce di inammissibilità. La Corte ha individuato immediatamente la sentenza interpretativa di rigetto. C’è difficoltà di individuare i presupposti a ricorrere dei quali c’è una sentenza interpretativa di rigetto in senso stretto o con contenuto interpretativo. O fa una sentenza di inammissibilità, che indica una via interpretativa rispetto a quella del giudice a quo. Sono strumenti che la Corte non usa in maniera rigorosa: ha un margine di discrezionalità. La giurisprudenza della Corte si costruisce per precedenti. Alla fine, la Corte, senza espressamente dirlo, ha fatto intendere che l’oggetto della pronuncia è sempre la norma. La disposizione può essere o non essere toccata dalla pronuncia. Quelle interpretative, di rigetto o di accoglimento, sono l’emblema di ciò. Queste interessano il significato delle norme senza toccare il testo. La prassi amministrativa non segue sempre l’indicazione della Corte costituzionale. La questione investiva ancora i giudici. Alcuni accolsero l’interpretazione della Corte, altri no. La questione viene sollevata nuovamente alla Corte, rimarcando l’assenza di adeguamento dei giudici e della prassi amministrativa rispetto all’interpretazione conforme. La Corte arriva a dire che tiene in piedi la disposizione, ma annulla una delle interpretazioni possibili. Questo è l’esempio di quello che saranno le sentenze manipolative = sono sentenze che lasciando inalterato il testo, ma ne alterano il significato = viene manipolato il significato del testo. La sentenza di accoglimento manipola il significato del testo, ma lascia invariato il testo. Ci sono sentenza parziali = raramente viene tolto di mezzo l’intero articolo. Le pronunce parziali sono di norma parziali rispetto alle norme: manipola, aggiunge, cambia. Alle volte è una manipolazione rispetto al testo: tocca frammenti del testo. La dottrina e la Corte dice che se la pronuncia riguarda un frammento del testo, viene alterato il significato. Anche le sentenze parziali rispetto al testo sono sentenze parziali rispetto al significato. Con le sentenze interpretative di accoglimento la Corte prende questa strada delle sentenze manipolative. Negli anni 60 comincia a adottare le pronunce additive = la Corte aggiunge qualcosa. Queste sentenze avranno un epilogo: la Corte inventa le direttive di principio = costituiscono uno strumento per riuscire a intervenire dove con le sentenze additive tradizionali non saprebbe intervenire. Sono tutte sentenze di accoglimento.➔Gli effetti delle pronunce di accoglimento Quando la Corte dichiara l’illegittimità di una norma (art. 136) la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione. Questo contenuto è stato riprodotto nell’art. 30 della legge 87 = la norma non viene più applicata. Degli effetti si occupano i giudici: la Corte adotta la pronuncia, ma gli effetti della stessa nell’ordinamento è una questione dei giudici. Dal testo dell’art., la norma cessa di avere efficacia = il fenomeno è diverso dall’abrogazione. Kelsen notava che il giudizio incidentale investe la Corte e che la pronuncia della Corte non può non avere effetti sul giudizio a quo. Qua c’è lo stacco con il giudizio in via principale, dove il giudizio è astratto: l’organo dello stato sottopone alla Corte la questione e in certi casi (Francia) questo avviene ancora prima che la legge sia entrata in vigore. In questo caso si può parlare di abrogazione. Ma se la questione muove da un caso concreto è difficile immaginare che la pronuncia della Corte non dispieghi i suoi effetti sul giudizio (in Italia). Quando si dice che la norma non ha efficacia, si intende dire che nessun giudice può più applicarla = sono gli effetti ERGA OMNES della sentenza. C’è una sorta di contaminazione, perché gli effetti erga omnes sono tipici del sistema Kelsen (in via principale). Gli effetti sono retroattivi: la regola è che quella legge non va più applicata. Poi il problema è dei giudizi→ci sono certi casi in cui il giudice di fatto non può più pronunciarsi sulla situazione: non ogni situazione della vita è suscettibile di essere portata davanti al giudice: il tempo influisce sulle situazioni giuridiche. Il problema è che la dichiarazione di illegittimità significa che nessun giudice può più applicare quella norma. ma se in relazione al caso, la norma non può più essere applicata, è chiaro che in relazione a quei casi non avrà effetti. Es. Se il diritto si prescrive: danno extra contrattuale prescritto. Poi cambia la disciplina del 2043 c.c. e stando alla sua nuova versione, avresti diritto al risarcimento del danno, perché quella fattispecie prima non era compresa e ora lo è. Qualsiasi giudice che deve applicare la norma la applica nella versione che è stata fatta propria dalla sentenza della Corte. il danno però risale a 10 anni prima. La prescrizione è di 5 anni. La ricorrente non troverà un giudice che possa decidere. Questo non è un limite agli effetti retroattivi, ma solo l’incidenza nel tempo nelle situazioni giuridiche. Questo porta a dire che il suo diritto si è prescritto e quindi non si può applicare la sentenza della Corte. Altri casi che rendono improduttiva di effetti la sentenza della Corte: è intervenuto il giudicato. C’è già stata una sentenza passata in giudicato. La Corte dichiara illegittima la norma. il ricorrente ha avuto torto ma è intervenuto il giudicato. Non è una questione di limiti alla retroattività, ma di nuovo la mancanza di un giudice che applichi la norma, perché c’è già stato il giudicato. O pensiamo a un provvedimento amministrativo. x subisce una espropriazione che si basa su una legge regionale. Impugno il provvedimento, la sentenza passa in giudicato. Poi interviene la sentenza della Corte. non posso fare nulla. O se succede che x ha avuto espropriazione sulla base di una legge regionale. Non faccio nulla e l’espropriazione viene compiuta. Dopo 3 anni, la Corte cost. dichiara illegittima quella legge regionale. Ma il termine è decaduto = si ha avuto una decadenza. Cosa può chiedere x? Posso chiedere alla PA che agisce in autotutela = chiedo un provvedimento di secondo grado. La PA potrebbe dichiarare il provvedimento illegittimo. La PA dovrebbe prendere atto dell’intervento della Corte costituzionale. Tutti questi fenomeni non riguardano il diritto costituzionale, ma gli effetti del tempo sulle situazioni giuridiche→la palla passa ai giudici comuni. Sono i giudici che alla fine devono verificare se quel caso è sottoponibile a giudizio e se la risposta è affermativa, la sentenza ha effetti. Se non c’è un giudice che può conoscere della situazione, non ci possono essere effetti. L’eccezione: la pronuncia di accoglimento fa sì che la norma non sia applicabile dal giorno successivo alla pubblicazione. La Corte si prende carico degli effetti delle proprie pronunce→afferma che non è compito della Corte di occuparsi delle conseguenze delle sue pronunce, però è anche vero che la Corte spesso si è occupata degli effetti delle proprie pronunce. In certi casi gli effetti delle pronunce potevano causare effetti disfunzionali rispetto al sistema: perché potevano travolgere una serie di attività già poste in essere o perché potevano determinare delle problematiche di carattere finanziario. La Corte può dire che la prescrizione contenuta nella sentenza si applica solo pro futuro = si deroga all’art. 136 Cost.→la pronuncia ha effetti ex nunc. Altri effetti disfunzionali sarebbero derivati da una questione che riguardava l’autogoverno dei tribunali militari. Diceva che la norma si applicava pro futuro; diversamente tutti i provvedimenti del tribunale sarebbero caduti, con effetti disfunzionali. Nella sent. 10 del 2015 la Corte riflette su ragioni di ordine finanziario: la Corte aveva dichiarato illegittima una imposta, che riguardava gli extra profitti. Questa tassa, congeniata male, è stata riconosciuta incostituzionale. Riconoscere l’incostituzionalità della norma che riconosce questa imposta, che effetti determina? Effetti restitutori delle imposte nei casi ancora aperti: se non avevi pagato e ti si chiedeva il pagamento, o avevi contestato l’imposta perché dicevi che non avevi extra profitti, si sarebbe imposta la - di accompagnamento del deposito della sentenza: sintesi giornalistica della decisione: finisce con un rimando alla sentenza che verrà pubblicata successivamente. I comunicati sono rivolti alla stampa: il testo è deliberato dal Collegio, ma interviene anche l’Ufficio stampa, che negli ultimi anni ha assunto un peso significativo. Il comunicato viene disposto per quelle questioni che presenta profili di rilievo per la collettività. Il comunicato stampa non produce alcun effetto. Il comunicato viene tradotto anche in inglese alle volte; la sentenza può essere redatta anche in inglese: viene deciso dalla Corte in sede di decisione, ad es. per motivi di studio o perché riguardano diritti degli stranieri. L’esigenza di comunicazione è avvertita non solo dalla nostra Corte italiana. Discrepanza di contenuto tra il comunicato e la decisione del provvedimento: questo accade perché il comunicato è breve e ha un linguaggio divulgativo. Spesso e volentieri le prime notizie di stampa sono il copia-incolla del comunicato. Nel caso della proposizione di questioni in via principale è difficile individuare i termini della questione, ad es. l’individuazione delle norme interposte. C’è una tendenza accomodante negli ultimi anni: si tende a considerare le cause ammissibili e entrare nel merito. Nel 2020 la politica delle norme integrative (norme di autoregolamentazione interna degli spazi lasciati liberi dalla fonti superiori) ha previsto la possibilità di contribuire alla decisione attraverso il deposito di opinioni amicus curiae = sono delle brevi conclusioni giuridiche che possono essere elaborate da enti che non hanno scopo di lucro e non hanno un interesse specifico che permetterebbe il loro intervento; queste opinioni vengono vagliate nella loro ammissibilità dal giudice relatore sulla base degli elementi formali e sulla base del fatto che i soggetti possono fornire elementi utili ma che non hanno interesse nella causa. È un ruolo che viene ricoperto da università e associazioni vicino al mondo universitario. CONFERENZA – NUOVE TECNICHE DI DECISIONE DELLA CORTE COSTITUZIONALE Si sono affermate in via di prassi giurisprudenziale e rappresentano una novità della giustizia costituzionale. ➔Il nostro modello di giustizia costituzionale Le nuove prassi decisorie si inseriscono nel processo di trasformazione del giudizio costituzionale, del ruolo della Corte e del suo posizionamento nel nostro sistema ordinamentale. I costituenti scelsero nella costituzione un modello accentrato, perché:  Volevano creare un giudice speciale incaricato a sindacare la legittimità delle leggi e proprio perché la sua composizione e per il suo ruolo di organo giurisdizionale competente a giudicare la legge avesse una sensibilità politica→si voleva evitare che ciascun giudice, come nei sistemi diffusi, potesse disapplicare la legge ritenuta incostituzionale. Il modello accentrato è quindi una garanzia del processo di decisione politico - parlamentare. Si voleva evitare di lasciare la legge nelle mani di ciascun giudice dell’ordinamento, capace di disapplicarla nei singoli processi.  Sfiducia nei confronti dei giudici comuni che si erano formati durante il regime fascista, diffidenti rispetto al nuovo ordine costituzionale stabilito dalla nuova carta costituzionale. Questo modello accentrato era coerente con la logica kelseniana del legislatore negativo→il giudice doveva e poteva agire con un atto contrario rispetto alla decisione legislativa, accogliendo la questione con gli effetti di una ghigliottina. Si vuole privare l’efficacia della legge con effetti pro futuro (ex art. 136 della Cost.)→è una sorta di abrogazione (frutto dell’utilizzo del criterio cronologico). Questo per quanto riguarda l’efficacia nel tempo della decisione. Per quanto riguarda gli effetti nello spazio, il modello è quello di una semplice caducazione della disposizione di legge impugnata. Non c’è la possibilità di manipolare il testo della Costituzione. Questa idea univa grande parte dei costituenti ma subisce una evoluzione subito dopo l’approvazione della Costituzione, perché questa istituisce la Corte costituzionale ma non dice nulla, salvo qualcosa sul giudizio in via principale (art. 127 della Cost.), sul giudizio costituzionale, rimandando invece alla legge costituzionale per le modalità concrete di attivazione del giudizio di costituzionalità. Il rinvio è fatto perché non c’era un accordo sul funzionamento della Corte. nel gennaio del 1948 viene allora approvata la legge costituzionale 1/1948, che dà una prima attuazione alla Cost. e inserisce il giudizio in via incidentale→questo declina in maniera diversa dal modello pensato il giudizio di costituzionalità. È evidente che se si inserisce la possibilità di sollevare una questione di legittimità costituzionale si ammette che l’eventuale dichiarazione di illegittimità può avere un effetto retroattivo sul giudizio principale da cui è sorta la questione. L’idea della mera abrogazione pro futuro va incontro a una parziale mutazione, definita in maniera puntuale dalla legge 57/1953, che disciplina le modalità di funzionamento della Corte e dice qualcosa in più rispetto alla efficacia della legge dichiarata illegittima, dicendo che la norma cessa di avere applicazione nell’ordinamento→l’effetto retroattivo non è più limitato al processo a quo ma viene generalizzato, salvo il limite dei rapporti esauriti. Questo limite subisce una eccezione (art. 30 della l. 75/1953): quando viene dichiarata illegittima la legge penale sfavorevole sulla quale è stata adottata una sentenza di condanna cessa qualsiasi effetto dovuto alla legge dichiarata illegittima (la condanna viene meno). Quindi in questi casi ha effetti retroattivi che travolgono anche il giudicato penale. Rispetto alla mera abrogazione stabilita ex art. 136, l’innesto del giudizio in via incidentale porta a un cambiamento: non è più abrogazione, ma annullamento della legge, perché appunto la gerarchia e la posizione sovraordinata della Cost. porta la legge contraria ad essere qualificata illegittima, e quindi annullata con effetti retroattivi. Questo quadro va incontro a una evoluzione grazie alla giurisprudenza costituzionale successiva. Il progressivo innesto nel giudizio di legittimità di argomenti valutativi da parte della Corte, dovuta al fatto che la nostra Cost., al contrario di quello che credeva Kelsen, è lunga, programmatica, pluralista, che contiene valori e non solo norme organizzative, porta la Corte a dover fare continui bilanciamenti tra i valori e esprimere giudizi di ragionevolezza: prima nelle forme dell’obbligo della legge di trattare ugualmente situazioni analoghe e trattare diversamente situazioni diverse, poi nei giudizi di proporzionalità / ragionevolezza = vedere se all’interno della disciplina legislativa l’eventuale composizione del conflitto tra interessi costituzionali compiuto dal legislatore è una composizione ragionevole e dunque proporzionata (sceglie la via meno afflittiva, rispetto al tipo di valori coinvolti). La Corte valuta le modalità con cui la composizione è stata compiuta = argomenti valutativi. La Corte verifica che la composizione tra gli interessi che caratterizzano la cost. pluralista è stata fatta secondo proporzione ragionevole. Questo innesto della Cost. pluralista e l’immersione della Corte nei valori repubblicani per come declinati dal legilstaore, porta la Corte ad arricchire i propri argomenti e modificare le sue modalità di valutazione: non si tratta più di ghigliottinare la legge illegittima sulla base di un sillogismo perfetto che trova la norma costituzionale nella premessa maggiore, la norma oggetto nella premessa minore e la decisione della Corte come conclusione di questo sillogismo, ma appunto si tratta di una argomentazione compiuta per valori, principi, bilanciamenti→questo bilanciamento richiede di adeguare la tecnica decisoria alle circostanze del caso. L’accoglimento secco o la retroattività diventano esse stesse oggetto di bilanciamento, alla luce del caso concreto. Tutto ciò è frutto di una lunga evoluzione, per step progressivi. ➔Le sentenze manipolative NELLO SPAZIOQueste aggiungono o sostituiscono elementi della disposizione proponendo una diversa e nuova regolazione rispetto a quella prevista dal legislatore. La Cortea, attraverso l’art. 3 (giudizio di eguaglianza e di ragionevolezza), si rende conto che non è sufficiente applicare il primo comma dell’art. 3 e quindi dichiarare illegittime leggi discriminatorie in ragione di una delle ragioni descritte dallo stesso art. 3 comma I (sesso, religione, lingua, condizioni politiche e sociali, opinioni politiche, razza, ecc.), ma si rende conto che il combinato disposto del I comma che sancisce l’eguaglianza formale e il secondo comma II che costituisce l’eguaglianza sostanziale, portano alla nascita di un giudizio diverso→giudizio di eguaglianza e ragionevolezza = verificare se il legislatore ha disciplinato situazioni eguali in maniera uguale o se ha diversificato situazioni diverse. Questo giudizio avviene attraverso una comparazione tra situazioni diverse che emergono attraverso le fattispecie normative→si mettono a confronto i trattamenti previsti dal legislatore e i diversi trattamenti o l’eguale trattamento e si verifica se il legislatore ha incluso in quella disciplina situazioni che andavano disciplinate diversamente o all’opposto ha diversificato situazioni con trattamenti normativi indistinti che andavano invece assimilati. Questo comporta un giudizio sulle proprietà rilevanti del caso = vedere se le caratteristiche che vengono astratte dal caso sono caratteristiche che meritavano un trattamento analogo o un trattamento diverso. Quindi, sulla base di questo, la Corte costituzionale arriva ad adottare sentenze additive o sostitutive→es.: c’è una sentenza di fine anni 80 sul trattamento di fine rapporto degli insegnanti precari della scuola, che riconosce come questo era diverso rispetto al trattamento di fine rapporto degli impiegati nella PA a tempo determinato. La Corte dice che si è difronte a situazioni di precarietà e quindi non si capisce perché gli insegnanti debbano avere un trattamento diversificato; va omologato. La legge è incostituzionale nella parte in cui non prevede che il trattamento per gli insegnanti precari sia eguale al trattamento di fine rapporto per gli impiegati della PA a tempo determinato. Per giustificare questa creatività decisoria della Corte costituzionale si parla delle RIME OBBLIGATE = già il termine rime obbligate ci fa capire che la Corte non poteva fare altrimenti→è la creazione, dizione eccezionale ed è dovuta al fatto che una proprietà della situazione era già in qualche modo immanente nel sistema ma non era stata esplicitata dal legilstaore e allora la Corte cost. corregge, aggiungendo qualcosa che è già presente nell’ordinamento ma che è stato dimenticato dalla legge. Si tratta quindi di una addizione imposta dallo stesso ordinamento; la Corte cost. si limita a prendere atto di qualcosa che non c’è ma che è implicito e lo rende esplicito, aggiungendo qualcosa che imposto dall’art. 3 sta già dentro l’ordinamento (in questo caso un trattamento di fine rapporto particolarmente elevato in ragione della situazione di precarietà) e lo estende a situazioni analoghe rispetto a quelle che entrano in gioco e sottoposte all’analisi della Corte. Al di fuori di questo, c’è la discrezionalità del legislatore = quando non c’è la rima obbligata, quando non c’è una proprietà normativa implicita nel sistema, ma che il legislatore ha dimenticato, la Corte non può fare aggiunte. Tipologie di sentenza:  additiva = la disposizione viene dichiarata illegittima nella parte in cui non prevede x;  sostitutiva = la disposizione viene dichiarata illegittima nella parte in cui prevede x, anziché y. La formula è diversa ma in tutti questi casi c’è comunque una sostituzione/addizione imposta dall’art. 3 immanente nell’ordinamento, che il legislatore ha irragionevolmente trascurato e che la Corte cost. si premura di far emergere. È una sorta di maieutica costituzionale, in cui la Corte aiuta a perfezionare la trama dell’ordinamento. Al di fuori di questo, quando non c’è questa rima obbligata, quando non c’è questo intervento eccezionale che la Corte fa per adeguare la legge al contesto, c’è discrezionalità legislativa. Teniamo presente che la legge 87 del 1953 pone una norma in cui dice che in ogni caso la Corte non potrà mai invadere la discrezionalità politica del legislatore (previsto da una legge ordinaria ma ha comunque rappresentato un ostacolo alla creatività giurisprudenziale). Quando c’è la discrezionalità politica, la questione diventa inammissibile = sono le sentenze di INAMMISSIBILITÀ SOSTANZIALE = l’inammissibilità viene pronunciata non perché manca un requisito procedurale nell’accesso, ma l’inammissibilità riflette il principio della separazione dei poteri e quindi la Corte non deve invadere l’ambito legislativo riservato agli organi legittimati democraticamente. Questa teoria delle rime obbligate ha retto per anni, fino a che la Corte ha deciso di cambiare verso→ha deciso di cambiare verso con un trittico di decisione: - sentenza 236 del 2016; - sentenza 222 del 2018; - sentenza 40 del 2019. La Corte cambia verso: dice che per dare una soluzione, non deve più guardare a qualcosa che è implicito nell’ordinamento e che viene disciplinato positivamente e che mi limito a rilevare aggiungendolo nella disposizione oggetto di giudizio, ma vado a cercare tra le diverse grandezze dell’ordinamento qual è la soluzione più adeguata al caso. Anche nell’ambito di discipline, norme diverse. La rima non è più obbligata, ma ADEGUATA = ciò che rileva è che la soluzione che ho individuato risponde al bisogno di giustizia costituzionale che emerge dal caso concreto. Non è più comparazione, eguaglianza/ragionevolezza, ma proporzionalità = devo cercare la soluzione proporzionata e setaccio le norme dell’ordinamento per trovare una grandezza che possa portarmi a modificare la legge oggetto di giudizio. Sent. 222/2018: nasce da un giudizio penale nell’ambito del crac Parmalat = i reati sono imputati per bancarotta fraudolenta e il giudice a quo rileva che nella legge fallimentare come pena accessoria al trattamento detentivo è prevista l’interdizione dalla attività di impesa o da incarichi direttivi all’impresa 1. problema generale delle regole sul processo costituzionale: gli studiosi di giustizia costituzionale, che la considerano come una funzione giurisdizionale di livello diverso rispetto alla funzione ordinaria, ma non diverso nelle forme, rilevano che in questo modo le regole processuali non funzionano più: la Corte in virtù del caso concreto disapplica, travolge le regole processuali in virtù del fine. Se il fine prevale sul processo siamo allora davanti alla giustizia del cadi = a seconda di ciò che piace al giudice costituzionale sulla base del caso concreto, delle ideologie del collegio, le regole processuali vengono postergate in virtù delfine. 2. rischio della frammentazione casistica: sentenza 249 del 2021: oggetto del giudizio è la legge sui meccanismi elettivi delle città metropolitane = viene sindacato l’automatismo con cui i sindaci dei comuni dei capoluoghi maggiori sono presidenti della città metropolitana, senza che i comuni della città metropolitana possano contribuire all’elezione. La Corte dice che c’è la discrezionalità legislativa e quindi ci deve pensare lui. Qual è il discrimine tra l’utilizzo di una tecnica processuale o l’altra? Qual ìè il principio di dritto costituzionale che guida la decisione? L’impressione è che vi sia uno schiacciamento della Corte sul caso→se diventa una sorta di Corte dei diritti dell’uomo, perde la sua capacità di guida del legislatore, di sviluppare in maniera ordinata l’ordinamento stesso e pone anche problemi di giustizia come uguaglianza, perché situazioni simili vengono trattate in maniera diversa proprio a causa dell’intervento della Corte. Quindi quello che la Corte rimproverava al legislatore, viene ora rimproverato alla Corte stessa. 3. Non vi è dubbio che il rinnovato attivismo della Corte sia una attivismo dovuto alle sollecitazioni del pluralismo sociale = rivendicazioni che non sono riconosciute dalla legge→la Corte risponde a un bisogno di riconoscimento individuale. Tutte le situazioni sono accumunate dal riconoscimento di pretese individuali che spingono sulla Corte. questo porta a un cambiamento: il giudice delle leggi diventa giudice dei diritti→non si limita alla valutazione e di una manifesta incostituzionalità della legge, ma diventa un trasformatore di energia sociale, in pretese giuridicamente assistite. Questo è un cambio: secondo la Cost. la Corte è giudice delle leggi; le limitazioni devono essere solo poste dalla legge. Qui non è più così, perché il bilanciamento viene tradotto dalla Corte costituzionale. Qual è la legittimazione della Corte a questo punto? C’è il rischio che si legittimi non sulla base delle norme costituzionali che la disciplinano, ma sui risultati = per la sua capacità di rispondere alle diverse sollecitazioni che provengono dalla società pluralista: la Corte si legittima per quello che fa, per le risposte che dà alla società civile, con il rischio di creare delle pretese insaziabili. APPROFONDIMENTO SU DECISIONI DELLA CORTE Dal punto di vista formale, le decisioni della Corte costituzionale possono assumere la veste della: - sentenza e dell’ - ordinanza. Secondo l’art. 18 della legge n. 87 del 1953, infatti, la Corte «giudica in via definitiva con sentenza», mentre «tutti gli altri provvedimenti di sua competenza sono adottati con ordinanza», la quale deve essere – secondo il comma 4 dell’art. 18 – «succintamente motivata». I provvedimenti del Presidente sono invece adottati con decreto. La distinzione tra sentenza e ordinanza è fondata sul carattere definitivo o meno che la decisione assume, peraltro, valore solo tendenziale: tale regola risulta, infatti, espressamente derogata dall’art. 29 della stessa legge n. 87 del 1953, che fa riferimento all’«ordinanza con la quale è dichiarata la manifesta infondatezza dell’eccezione di incostituzionalità», pur essendo questa una decisione ovviamente definitiva. Le decisioni adottate dalla Corte costituzionale nell’ambito del giudizio sulle leggi (e sugli Statuti regionali ex art. 123 Cost.), in ragione della tendenziale corrispondenza tra quelle rese nell’ambito dei giudizi in via incidentale e quelle rese nel quadro dei giudizi in via principale (e del controllo sugli Statuti regionali), sono presentate in maniera unitaria, salvo indicare nel corso dell’esposizione i casi in cui le peculiarità dei due giudizi abbiano conseguenze degne di nota sul piano della tipologia delle decisioni adottabili e/o sul valore che esse assumono in ragione del contesto in cui nascono e in cui vanno ad incidere. Una trattazione unitaria (e assai più sintetica) sarà riservata anche alle decisioni sui conflitti di attribuzione tra Stato e Regioni (c.d. conflitti intersoggettivi), da una lato, e tra poteri dello Stato (c.d. conflitti interorganici), d’altro lato, fatta salva, anche in questo caso, la segnalazione – ove opportuno e/o necessario – di aspetti peculiari delle decisioni rese nei due diversi giudizi in ragione delle caratteristiche degli stessi. IL GIUDIZIO SULLE LEGGI Nell’ambito delle decisioni che definiscono il giudizio, si usa tradizionalmente distinguere tra - pronunce processuali: la Corte si limita a rilevare come motivi di ordine procedurale le impediscano di verificare il merito dell’eccezione di costituzionalità, cosicché la questione relativa alla fondatezza o infondatezza della questione sollevata dal giudice a quo rimane impregiudicata. - pronunce di merito: la Corte giunge ad esaminare nel merito la questione di costituzionalità, che potrà essere dichiarata fondata, con decisione di accoglimento o di incostituzionalità, o infondata, con decisione di rigetto (ma, come si dirà subito infra, la tipologia delle decisioni di merito va ben oltre l’alternativa secca tra accoglimento o rigetto). LE DECISIONI PROCESSUALI Nella categoria delle pronunce processuali rientrano le decisioni di restituzione degli atti al giudice a quo e le decisioni di inammissibilità semplice o manifesta. Mentre le prime possono essere adottate dalla Corte esclusivamente nell’ambito del giudizio in via incidentale, non esistendo nel giudizio in via principale un giudice rimettente cui rinviare gli atti del processo, le seconde possono chiudere tanto il giudizio in via incidentale quanto il giudizio in via principale. Quest’ultimo, a sua volta, conosce, in ragione della sua peculiare struttura, anche altre tipologie di decisioni processuali (decisioni di estinzione, di cessata materia del contendere e di improcedibilità) che non possono viceversa essere rese nell’ambito dell’esame di una questione di legittimità costituzionale sollevata da un giudice. LE DECISIONI DI RESTITUZIONE DEGLI ATTI AL GIUDICE A QUO La restituzione degli atti al giudice a quo è un provvedimento di origine essenzialmente giurisprudenziale con cui la Corte chiede all’autorità giudiziaria di effettuare operazioni da questi omesse oppure di tenere conto di elementi sopraggiunti successivamente all’emanazione dell’ordinanza di rimessione. Tra le decisioni di restituzione degli atti è, in effetti, possibile distinguere quelle che fanno riferimento a fattori anteriori o, invece, sopravvenuti rispetto al momento in cui la questione di legittimità costituzionale è stata sollevata. Alla prima sottocategoria sono riconducibili i casi in cui la Corte invita il giudice a quo prendere in considerazione elementi che, in quanto già esistenti, avrebbe potuto o dovuto esaminare allorché ha emanato l’ordinanza di rinvio, mentre nella seconda sottocategoria rientrano i casi in cui la Corte sollecita il giudice a valutare elementi sopravvenuti. L’ipotesi più frequente di ricorso a questo tipo di decisione è quella di restituzione degli atti per jus superveniens, vale a dire per l’intervento di una modifica normativa – riguardante specificamente la disposizione impugnata o più genericamente il quadro normativo in cui essa si inseriva – idonea ad incidere sulla questione prospettata dal giudice a quo. Costituisce jus superveniens non solo quello derivante da interventi del legislatore, ma anche quello eventualmente determinato dal sopraggiungere di pronunce di accoglimento della stessa Corte costituzionale o da pronunce interpretative della Corte di giustizia dell’Unione Europea (vedi, ex plurimis, ordinanza n. 252 del 2006). Per quanto riguarda lo jus superveniens derivante da un intervento del legislatore si può ricordare, a titolo meramente esemplificativo, l’ordinanza n. 43 del 2009, in cui la Corte, chiamata ad affrontare una questione di costituzionalità promossa dal TAR Lombardia ed avente ad oggetto una disposizione della legge n. 30 del 2006 di quella Regione che disponeva che gli enti pubblici indicati dalla Giunta regionale si avvalessero, di norma, del patrocinio dell’Avvocatura regionale per la difesa di atti o attività connessi ad atti di indirizzo e di programmazione regionale, ha rilevato come successivamente alla proposizione della questione, fosse entrata in vigore una nuova legge (legge Regione Lombardia 23 dicembre 2008, n. 33) contenente, tra l’altro, una disposizione che, sostituendo quella censurata, esplicitamente abroga l’obbligo, per gli enti pubblici operanti nell’ambito della Regione Lombardia, di far ricorso agli avvocati della Regione, stabilendo, a loro carico, un mero onere di comunicazione dell’esistenza della vertenza alla Giunta della Regione. La Corte ha ordinato la restituzione degli atti al giudice rimettente, «spettando a quest’ultimo il compito di effettuare una nuova valutazione della rilevanza e della non manifesta infondatezza». Per quanto riguarda lo jus superveniens derivante da sentenza della Corte costituzionale si ricorda qui l’ordinanza n. 26 del 2009, con cui i giudici a quibus sottoponevano alla Consulta un dubbio di costituzionalità vertente sulla preclusione dell’appello contro le sentenze di proscioglimento emesse all’esito del dibattimento in conseguenza alla modifica dell’art. 593 del codice di procedura penale ad opera dell’art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46, nonché sull’immediata applicabilità di tale regime, in forza dell’art. 10 della medesima legge, ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore di quest’ultima. La Corte ha rilevato come, successivamente alle ordinanze di rimessione, fosse intervenuta la sentenza n. 85 del 2008, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale sia dell’art. 1 della legge n. 46 del 2006, «nella parte in cui, sostituendo l’art. 593 del codice di procedura penale, esclude che l’imputato possa appellare contro le sentenze di proscioglimento relative a reati diversi dalle contravvenzioni punite con la sola ammenda o con pena alternativa, fatta eccezione per le ipotesi previste dall’art. 603, comma 2, del medesimo codice, se la nuova prova è decisiva», sia dell’art. 10, comma 2, della medesima legge, «nella parte in cui prevede che l’appello proposto prima dell’entrata in vigore della medesima legge dall’imputato, a norma dell’art. 593 del codice di procedura penale, contro una sentenza di proscioglimento, relativa a reato diverso dalle contravvenzioni punite con la sola ammenda o con pena alternativa, sia dichiarato inammissibile». Di qui, appunto, la necessità di restituire gli atti ai giudici a quibus per un nuovo esame della rilevanza delle questioni. Se è vero che lo jus superveniens riguarda, nella maggior parte dei casi, l’oggetto della questione di costituzionalità, è vero anche che non mancano le ipotesi di jus superveniens incidente sul parametro costituzionale. A questo proposito si ricorda come la riforma del Titolo V della parte seconda della Costituzione, operata con la legge costituzionale n. 3 del 2001, abbia indotto la Corte ad effettuare una generalizzata restituzione degli atti ai giudici a quibus affinché questi riesaminassero le questioni sollevate alla luce del nuovo assetto costituzionale derivante dalla riforma in parola (vedi, ex plurimis, ordinanza n. 386 del 2002). LE DECISIONI DI INAMMISSIBILITÀ (SEMPLICE O MANIFESTA) La decisione di inammissibilità è utilizzata dalla Corte quando, per una variegata serie di motivi, ad essa è precluso l’esame del merito della questione. Per quanto riguarda il giudizio in via incidentale, in un primo momento, tali motivi consistevano essenzialmente nell’accertamento dell’assenza delle condizioni previste dalla legge per la legittima instaurazione del giudizio, vale a dire, ad esempio, in caso di sollevamento della questione da parte di un soggetto non riconducibile nella nozione di “giudice” o nel sollevamento di una questione avente ad oggetto un atto privo di forza di legge. A determinare l’inammissibilità della questione possono, però, essere anche altri motivi, quali il difetto di rilevanza di essa nel giudizio a quo (vedi, ex plurimis, ordinanza n. 462 del 2006); l’esistenza di una precedente decisione di inammissibilità sulla stessa questione (vedi, ex plurimis, ordinanza n. 63 del 2009); il fatto che la questione sia stata sollevata dal giudice in maniera generica, ipotetica o contraddittoria o in forma alternativa (vedi, ex plurimis, ordinanza n. 351 del 2007); la mancata legittimazione del giudice a quo o la sua manifesta incompetenza (vedi, ex plurimis, ordinanza n. 388 del 2006); l’utilizzo improprio da parte del giudice dello strumento dell’incidente di costituzionalità (vedi, ex plurimis, ordinanza n. 246 del 2005); il difetto di un’adeguata motivazione in ordine alla rilevanza e/o non manifesta infondatezza della questione (vedi, ex plurimis, ordinanza n. 363 del 2007); il fatto che tale motivazione sia stata fatta per relationem ad altro provvedimento della stessa o di altra autorità giudiziaria (vedi, ex plurimis, ordinanza n. 8 del 2005); la circostanza che la questione si fondi su un erroneo presupposto interpretativo (vedi, ex plurimis, ordinanza n. 198 del 2007); la mancata esatta individuazione della disposizione di legge o del parametro costituzionale (vedi, ex plurimis, ordinanza n. 210 del 2006); il mancato esperimento da parte del giudice a quo del tentativo di interpretazione conforme a Costituzione (vedi, ex plurimis, ordinanza n. 178 del 2009); il fatto che il giudice abbia già sollevato la stessa questione nell’ambito dello stesso procedimento (con la precisazione che “l’effetto preclusivo alla riproposizione di questioni nel corso dello stesso giudizio deve ritenersi operante soltanto allorché risultino identici tutti e tre gli elementi che compongono la questione”, ovvero sia le “norme impugnate, [i] profili d’incostituzionalità dedotti, [le] argomentazioni svolte a sostegno della ritenuta incostituzionalità”: sentenza n. 225 del 1994); il fatto che la questione si risolva in una richiesta di avallo della Corte dell’opzione interpretativa del giudice rimettente (vedi, ex plurimis, ordinanza partes. Di conseguenza, non si può escludere che una questione già ritenuta infondata possa, magari a distanza di anni ed a seguito di mutamenti del quadro normativo o della coscienza sociale, essere accolta dalla Corte: ciò che è avvenuto, ad esempio, nel caso della questione relativa alla disposizione del codice penale che prevedeva come reato soltanto l’adulterio della moglie e non anche quello del coniuge (art. 559 cod. pen.), questione dapprima dichiarata infondata (sentenza n. 64 del 1961) e successivamente accolta (sentenza n. 126 del 1968). Al pari di quanto si è visto accadere con riferimento alle pronunce processuali di inammissibilità, anche per quanto riguarda le decisioni di rigetto la Corte può giungere ad una dichiarazione di manifesta infondatezza della questione. Tale pronuncia è espressamente prevista dall’art. 29 della legge n. 87 del 1953, la quale fa riferimento all’ordinanza “con la quale è dichiarata la manifesta infondatezza dell’eccezione di incostituzionalità”. Anche in questo caso non è agevole individuare con esattezza i presupposti che giustificano l’adozione di una decisione di infondatezza “manifesta”, anziché “semplice”: storicamente, è dato constatare come nei primi trent’anni di attività la Corte è giunta a dichiarare la manifesta infondatezza di eccezioni di costituzionalità da essa esaminate per la prima volta soltanto in una cinquantina di casi, mentre negli anni successivi il ricorso a questo tipo di pronuncia in tali ipotesi è decisamente aumentato, registrandosi oltre mille casi. Ciò significa che il concetto di manifesta infondatezza ha subito, nella giurisprudenza della Corte, un ampliamento tale da far considerare ictu oculi manifestamente infondate questioni che precedentemente sarebbero state giudicate soltanto infondate. Alla dichiarazione di manifesta infondatezza la Corte fa, ad esempio, ricorso nel caso di questione identica ad altra questione già decisa per l’infondatezza promossa da altro giudice (mentre se l’identica questione già decisa era stata promossa dallo stesso giudice nell’ambito dello stesso procedimento scatterebbe la preclusione citata supra, con conseguente adozione di una decisione di inammissibilità). LE DECISIONI INTERPRETATIVE DI RIGETTO Nel novero delle decisioni di rigetto sono riconducibili le decisioni interpretative di rigetto, che rappresentano la prima tipologia di decisioni creata dalla Corte per sottrarsi all’alternativa secca tra fondatezza e infondatezza. Con queste decisioni, infatti, la Corte giunge sì ad una dichiarazione di infondatezza, ma fornisce allo stesso tempo una interpretazione della disposizione impugnata idonea a salvarla dall’incostituzionalità. In altre parole, la questione può essere ritenuta infondata a condizione che della disposizione oggetto del dubbio di costituzionalità sia data l’interpretazione individuata dalla Corte nella sua decisione. Tali pronunce, che si fondano sul presupposto logico del riconoscimento alla Corte costituzionale non solo del potere di interpretare la Costituzione (della cui interpretazione “vera” essa ha il monopolio), ma anche di quello di interpretare autonomamente le disposizioni legislative sottoposte al suo sindacato senza essere vincolata alla lettura proposta dall’autorità giudiziaria rimettente, sono formalmente riconoscibili per la formula che recano nel dispositivo, in cui si legge che la questione di costituzionalità è infondata «nei sensi di cui in motivazione». Ciò testimonia come il vero oggetto del giudizio di legittimità costituzionale non sia la disposizione (cioè il significante), bensì la norma, cioè il significato desumile dal testo normativo attraverso l’attività interpretativa: come affermato dalla stessa Corte nella sentenza n. 84 del 1996, infatti, essa “giudica su norme, ma pronuncia su disposizioni”. La finalità delle interpretative di rigetto è quella di evitare di dichiarare l’incostituzionalità quando la reductio ad legitimitatem possa essere realizzata in via interpretativa dagli stessi giudici comuni, i quali sono sollecitati ad abbandonare le interpretazioni costituzionalmente incompatibili per privilegiare quelle conformi ai valori costituzionali. Per questo le decisioni interpretative di rigetto nascono con l’inizio stesso dell’attività della Corte (la prima pronuncia del genere è la sentenza n. 8 del 1956), la quale, nella situazione storica in cui si trova ad operare e preoccupata degli eventuali vuoti normativi che avrebbero potuto crearsi a seguito di un uso radicale delle decisioni di accoglimento e della possibile inerzia del legislatore ordinario, chiede ai giudici di collaborare nell’opera di adeguamento dell’ordinamento ai nuovi principi costituzionali. Quanto all’efficacia di tali decisioni, esse non hanno effetti erga omnes, essendo dotate di un’efficacia meramente persuasiva, fondata essenzialmente sulle argomentazioni svolte dalla Corte a sostegno dell’interpretazione adeguatrice da essa suggerita. La necessità di bilanciare la libertà di interpretazione della legge di cui godono i giudici con l’efficacia delle pronunce interpretative di rigetto acquisisce connotati particolari con riferimento al giudice a quo, sottoposto – secondo alcuni – ad un vincolo meramente negativo, consistente nell’obbligo di escludere l’interpretazione respinta dalla Corte, ma soggetto – secondo altri – ad un vincolo positivo, cioè all’obbligo di seguire l’interpretazione indicata dal Giudice delle leggi. Comunemente si ritiene che qualora i giudici intendano dare alla disposizione oggetto del dubbio di costituzionalità l’interpretazione già respinta dalla Corte, essi devono sollevare nuovamente la relativa questione di costituzionalità, dando così alla Corte stessa la possibilità di «doppiare» la prima sentenza interpretativa di rigetto con una sentenza di accoglimento (secondo il meccanismo, appunto, della «doppia pronuncia», su cui vedi anche infra, par. 2.3., quando si dirà delle decisioni cosiddette «interpretative di accoglimento»). Giova, peraltro, ricordare che l’affermazione da parte della Corte costituzionale della propria competenza ad interpretare la legge alla luce della Costituzione non ha, in passato, mancato di suscitare reazioni in una parte della magistratura, ed in particolare nella Corte di cassazione, la quale si è talvolta rifiutata di seguire la lettura della legge indicata dalla Consulta, dando così luogo a quella che è stata definita come la “guerra tra le due Corti”. Questa situazione conflittuale è stata superata attraverso il riferimento e la valorizzazione del cosiddetto «diritto vivente»: la Corte costituzionale, cioè, di fronte ad interpretazioni giurisprudenziali consolidate, accetta di giudicare la disposizione impugnata nel significato normativo ad essa attribuito dalla giurisprudenza della Cassazione e del Consiglio di Stato, ovvero sia nel significato in cui essa “vive” nell’ordinamento, rinunciando a proporre una propria interpretazione costituzionalmente orientata. In presenza di un diritto vivente, quindi, il giudice comune potrà scegliere tra il seguire una propria interpretazione conforme a Costituzione e diversa dal diritto vivente da questi ritenuto incostituzionale e il sollevare una questione di costituzionalità avente ad oggetto quest’ultimo, chiamando la Corte a decidere su di esso seguendo lo schema accoglimento/rigetto. Lo spazio di operatività delle sentenze interpretative di rigetto risulta di conseguenza ridotto, potendo essere utilizzate non per (tentare di) modificare l’interpretazione giurisprudenziale generalmente condivisa, ma per conformare gli indirizzi giurisprudenziali non ancora consolidati, contribuendo così la Corte a formare, con le proprie interpretazioni, un diritto vivente costituzionalmente compatibile. A titolo meramente esemplificativo, si ricorda come uno dei casi più recenti di ricorso a pronunce interpretative di rigetto sia rappresentato dalla sentenza n. 46 del 2010, in cui la Corte dichiara infondata, nei termini specificati, la questione relativa agli artt. 80 e 131 del d.P.R. n. 1124 del 1965 sollevata, in riferimento agli artt. 3, 32 e 38 della Costituzione, dal Tribunale di Brescia. Ad avviso della Consulta, infatti, le due norme, «riferendosi all’ipotesi di “nuova” malattia professionale, devono essere interpretate nel senso che esse riguardano anche il caso in cui, dopo la costituzione di una rendita per una determinata malattia professionale (“vecchia”, quindi, in contrapposizione alla “nuova”), il protrarsi dell’esposizione al medesimo rischio patogeno determini una “nuova” inabilità che risulti superiore a quella già riconosciuta”. Tale interpretazione – prosegue la Corte – «non fa ricadere l’ipotesi così delineata nell’ambito di applicabilità dell’art. 137 del d.P.R. n. 1124 del 1965, il quale si riferisce esclusivamente all’aggravamento eventuale e conseguenziale dell’inabilità derivante dalla naturale evoluzione della originaria malattia. Quando, invece, il maggior grado di inabilità dipende dalla protrazione dell’esposizione a rischio patogeno, e si è quindi in presenza di una «nuova» malattia, seppure della stessa natura della prima, la disciplina applicabile è quella dettata dall’art. 80, estesa alle malattie professionali dall’art. 131. Giacché tali norme, «così interpretate, assicurano idonea tutela alla fattispecie descritta dal rimettente», non è ravvisabile la asserita violazione dei principi dettati dagli artt. 3, 32 e 38 della Costituzione. Una notazione a parte merita l’uso delle sentenze interpretative di rigetto nell’ambito dei giudizi in via principale. Trattandosi, infatti, di impugnazione diretta di leggi appena approvate, nonché di un controllo di costituzionalità operato in assenza di un giudizio concreto nel cui ambito la disposizione impugnata debba essere applicata, l’attività interpretativa della Corte si svolge in un contesto giuridico in cui non ha ancora avuto modo di svilupparsi (e tantomeno consolidarsi) una interpretazione giurisprudenziale della medesima disposizione, cosicché l’interpretazione elaborata e proposta dal Giudice delle leggi finirà essa stessa per contribuire alla determinazione del «diritto vivente» (si vedano, da ultimo, le sentenze n. 314 del 2009 e n. 100 del 2010). Giova, infine, segnalare che, in alcuni casi, la sentenza interpretativa di rigetto resa nell’ambito del giudizio in via principale può fungere da riferimento per la decisione di un successivo conflitto di attribuzione tra Stato e Regione avente ad oggetto l’atto regolamentare o amministrativo esecutivo della legge impugnata, conflitto che la Corte risolve sulla base dell’interpretazione fornita nel precedente giudizio di costituzionalità, secondo il meccanismo c.d. della «doppia pronuncia» (si veda, ad esempio, la sentenza n. 303 del 2003, resa nell’ambito di un giudizio in via principale, e la successiva sentenza n. 233 del 2004, resa nell’ambito di un conflitto di attribuzione e fondata sull’interpretazione elaborata appunto nella sentenza n. 303 del 2003). LE DECISIONI DI ACCOGLIMENTO (TOTALE O PARZIALE) Con le decisioni di accoglimento, che sono adottate sempre con sentenza, la Corte dichiara che una o più disposizioni o norme oggetto della questione di costituzionalità sono in contrasto con la Costituzione. Ai sensi dell’art. 136 Cost., la norma dichiarata incostituzionale «cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione», mentre l’art. 30, terzo comma, della legge n. 87 del 1953 prevede che detta norma dal medesimo giorno «non poss[a] avere applicazione»: di qui l’efficacia erga omnes della dichiarazione di incostituzionalità e l’obbligo gravante su tutti i giudici (compreso, ovviamente, il giudice a quo) di disapplicare la norma dichiarata incostituzionale. L’efficacia retroattiva delle sentenze di accoglimento trova un limite nei cosiddetti «rapporti esauriti», vale a dire in quei rapporti che sono stati definitivamente risolti a livello giudiziario o che non sono comunque più azionabili. Tale principio è stato più volte enunciato dalla stessa Corte, che ha affermato essere «nella logica del giudizio costituzionale incidentale che – ferma restando la perdita di efficacia della norma dichiarata incostituzionale dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione, e la sua inapplicabilità nel giudizio a quo e in tutti quelli ancora pendenti, anche in relazione a situazioni determinatesi antecedentemente – la retroattività delle pronunce d’incostituzionalità trovi un limite nei rapporti ormai esauriti, la cui definizione – nel rispetto del principio di uguaglianza e di ragionevolezza – spetta solo al legislatore di determinare» (sentenza n. 3 del 1996). Giova altresì ricordare che il limite dei rapporti esauriti non vale, però, in relazione alle sentenze penali di condanna: l’articolo 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953, stabilisce, infatti, che «[q]uando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali». All’interno della macrocategoria delle sentenze di accoglimento è possibile individuare una serie di sottotipi. La dichiarazione di incostituzionalità può, infatti, innanzitutto riguardare la disposizione impugnata in tutti i possibili significati da essa ricavabili, potendosi in questo caso parlare di una sentenza di accoglimento totale. Si ha, invece, accoglimento parziale quando la dichiarazione di illegittimità costituzionale colpisce soltanto una tra le possibili norme desumibili dalla disposizione, lasciando in vigore tutte le altre. All’interno delle decisioni di accoglimento parziale è possibile distinguere ulteriormente tra quelle che dichiarano l’incostituzionalità di singoli segmenti della disposizione (brani, locuzioni o parole) e quelle che, prescindendo da qualsiasi riferimento al testo, dichiarano l’incostituzionalità di una delle norme da quest’ultimo desumibili. Le prime, definibili come sentenze di illegittimità parziale testuale, conducono all’eliminazione della norma non conforme a Costituzione attraverso la riduzione del testo della disposizione, che la Corte dichiara costituzionalmente illegittima “limitatamente alle parole” riportate nel testo del dispositivo. Tra i numerosi esempi che si potrebbero citare, si ricorda qui la sentenza n. 71 del 2008, il cui dispositivo «dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 (Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell’articolo 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366), limitatamente alle parole: “incluse quelle connesse a norma degli articoli 31, 32, 33, 34, 35 e 36 del codice di procedura civile”». Le seconde, definibili come sentenze di illegittimità parziale interpretativa, sono caratterizzate da formule dichiarative dell’incostituzionalità della disposizione «nella parte in cui prevede» o «stabilisce» o «detta» un certo contenuto normativo o «nella parte in cui si riferisce» a certe fattispecie. La disposizione resta, dunque, formalmente inalterata, con mera riduzione dei suoi contenuti normativi o del suo ambito di applicazione. A titolo meramente esemplificativo, si ricorda la sentenza n. 123 del 2009, con cui la Corte «dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 245, comma 3, del decreto legislativo 10 febbraio 2005, n. 30 (Codice della proprietà industriale, a norma dell’articolo 15 della legge 12 dicembre 2002, n. 273), nella parte in cui stabilisce che sono devolute alla cognizione delle sezioni specializzate le procedure di reclamo iniziate dopo l’entrata in vigore del codice, anche se riguardano misure cautelari concesse secondo le norme precedentemente in vigore». Questo bilanciamento ha avuto effetti rilevanti, ad esempio, allorché la disposizione oggetto del controllo di costituzionalità risultava viziata per violazione del principio di eguaglianza: la mancata considerazione per la situazione delle finanze pubbliche avrebbe condotto ad una equiparazione «verso l’alto», nel senso di estendere il novero dei destinatari, inserendovi coloro che, incostituzionalmente, non erano stati contemplati; l’avvenuto bilanciamento tra contrapposte esigenze ha invece condotto la Corte anche ad equiparazioni «verso il basso», alla luce delle quali il rispetto del principio di eguaglianza è stato ripristinato limitando il novero dei destinatari di una determinata prestazione, escludendo così quei soggetti che si trovavano in una condizione assimilabile a quella di altri non presi in considerazione nel dettato legislativo. Questa tecnica decisoria trova la propria matrice nella impossibilità di non tener conto «che esiste il limite delle risorse disponibili e che in sede di manovra finanziaria spetta al Governo e al Parlamento introdurre modifiche alla legislazione di spesa, ove ciò sia necessario a salvaguardare l’equilibrio del bilancio dello Stato ed a perseguire gli obiettivi della programmazione finanziaria»; del resto, è incontestabile che «spett[i] al legislatore, nell’equilibrato esercizio della sua discrezionalità e tenendo conto anche delle esigenze fondamentali di politica economica, bilanciare tutti i fattori giuridicamente rilevanti» (sentenza n. 99 del 1995). D’altronde, «l’operatività del principio di eguaglianza non è unidirezionalmente e ne- cessariamente diretta ad estendere la portata di una disciplina più favorevole evocata come tertium comparationis, ma può dispiegarsi anche nel senso di rimuovere l’ingiustificato privilegio di una disciplina più favorevole rispetto a quella indicata a comparazione» (così, sentenza n. 421 del 1995). Il «possibile livellamento al “basso” delle categorie messe a confronto» è stato imposto, ad esempio nella sentenza n. 421 del 1995, dalla «evoluzione della coscienza sociale» oltreché dalla «grave crisi della finanza pubblica», e – pur operando retroattivamente – non ha inciso negativamente sul principio dell’affidamento del cittadino. In ogni caso, «la caducazione della norma di favore non interferisce nella discrezionalità del legislatore, il quale rimane libero di intervenire come meglio crede per riordinare la materia riconducendone la disciplina a razionalità». Ovviamente, queste considerazioni non possono impedire alla Corte, allorché ravvisi un vizio di costituzionalità, di intervenire in maniera conseguente. Ora, nell’ambito delle sentenze «che costano», una peculiare rilevanza assumono le sentenze costituzionali attinenti principalmente a materie come l’impiego pubblico, la previdenza sociale, l’assistenza pubblica (ad es. su minimi retributivi, assistenza sociale e sanitaria, capacità contributiva, integrazione al minimo dei trattamenti previdenziali); decisioni comportanti aggravi finanziari non solo per lo Stato, ma anche a carico degli enti rientranti nella cosiddetta «finanza pubblica allargata». Tali pronunce costituiscono la risposta della Corte costituzionale ai comportamenti omissivi del legislatore, una risposta in positivo, cioè, rispetto a ciò che il legislatore ha omesso di dettare, allo scopo di rimediare alla violazione della Costituzione; da ciò scaturiscono, appunto, implicazioni molto rilevanti circa il rapporto tra il giudizio di costituzionalità delle leggi e la sfera di azione del Parlamento. In questo senso, particolare rilevanza assume la sentenza n. 455 del 1990, in cui la Corte ha evidenziato che gli stessi diritti fondamentali, allorché richiedano prestazioni positive a carico di strutture pubbliche, sono soggetti a condizioni ben precise, specie sul versante della spesa occorrente. Si è stabilito in proposito che, sotto il profilo del diritto a trattamenti sanitari, il diritto alla salute è soggetto alla «determinazione degli strumenti, dei tempi e dei modi di attuazione» della relativa tutela da parte del legislatore ordinario. Quest’ultima dimensione del diritto alla salute comporta che, al pari di ogni diritto a prestazioni positive, il diritto ad ottenere trattamenti sanitari, essendo basato su norme costituzionali impositive di un determinato fine da raggiungere, è garantito ad ogni persona come un diritto costituzionale condizionato dall’attuazione che il legislatore ordinario ne dà attraverso il bilanciamento dell’interesse tutelato da quel diritto con gli altri interessi costituzionalmente protetti, tenuto conto dei limiti oggettivi che lo stesso legislatore incontra nella sua opera di attuazione in relazione alle risorse organizzative e finanziarie di cui dispone al momento. Questo principio, che è comune ad ogni altro diritto costituzionale a prestazioni positive, non implica certo una degradazione della tutela primaria assicurata dalla Costituzione ad una puramente legislativa, ma comporta che l’attuazione della tutela, costituzionalmente obbligatoria, di un determinato bene (la salute) avvenga gradualmente a seguito di un ragionevole bilanciamento con altri interessi o beni che godono di pari tutela costituzionale e con la possibilità reale ed obiettiva di disporre delle risorse necessarie per la medesima attuazione. Tra le più recenti decisioni additive di prestazione, si può ricordare la sentenza n. 28 del 2009, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 3, della legge 25 febbraio 1992, n. 210 (Indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazioni) nella parte in cui non prevede che i benefici riconosciuti dalla legge citata spettino anche ai soggetti che presentino danni irreversibili derivanti da epatite contratta a seguito di somministrazione di derivati dal sangue, o ancora, la sentenza n. 19 del 2009, in cui la Corte ha dichiarato «l’illegittimità costituzionale dell’art. 42, comma 5, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità, a norma dell’art. 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), nella parte in cui non include nel novero dei soggetti legittimati a fruire del congedo ivi previsto il figlio convivente, in assenza di altri soggetti idonei a prendersi cura della persona in situazione di disabilità grave». LE SENTENZE ADDITIVE DI PROCEDURA Tra le decisioni additive, una tipologia di recente elaborata dalla giurisprudenza co- stituzionale può essere indicata come quella delle «additive di procedura». Sono, queste, sentenze additive in tutto assimilabili, sul piano strutturale, alle additive classiche o, talvolta, alle additive di principio (su cui vedi infra, par. 2.5.). A mutare è il contenuto dell’addizione, che ha precipuamente ad oggetto il procedimento di formazione della legge oggetto del giudizio o – più frequentemente – di altri atti disciplinati dalla legge medesima. La Corte, in altri termini, aggiunge contenuti normativi a disposizioni di tipo procedimentale, al fine di inserire momenti o fasi all’interno dell’iter approvativo. Questa tipologia decisoria, astrattamente valida per qualunque procedimento, acquista una particolare importanza nei rapporti tra lo Stato e le Regioni, giacché gli interventi posti in essere dalla Corte nel recente passato hanno veicolato una pervasiva applicazione del principio di leale cooperazione tra gli enti territoriali, suggerendo un allontanamento dal regionalismo «duale» (originariamente proprio dell’esperienza italiana) in favore di una maggiore compenetrazione delle competenze e degli interventi tra gli attori istituzionali dei diversi livelli di governo. In quest’ottica, è da constatare che le sentenze additive di procedura hanno assunto una particolare rilevanza negli ultimi anni a seguito della nuova ripartizione di competenze legislative ed amministrative tra Stato ed autonomie territoriali (legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3). Materie e competenze che si intersecano, spesso in assenza di un criterio certo ed univoco per ascrivere la disciplina impugnata a parametri costituzionali ben individuabili, e che rendono quindi indispensabile il ricorso a moduli cooperativi proprio per ovviare ad una lacuna normativa, là dove il legislatore non ha considerato che la previsione dell’intervento di un organismo misto, deputato istituzionalmente alla composizione di interessi contrapposti tra lo Stato e le autonomie territoriali, avrebbe evitato l’intervento additivo della Corte. Significativa, in tal senso, è – tra le molte che potrebbero essere menzionate – la sentenza n. 219 del 2005, che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 3, 76° e 82° comma, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, nella parte in cui, nell’autorizzare il Ministro del lavoro a prorogare per il 2004 le convenzioni con i comuni per lo svolgimenti di lavori socialmente utili e nell’autorizzare il Ministro a stipulare nel 2004 nuove convenzioni direttamente con i comuni, non prevedeva alcuno strumento idoneo a garantire una leale collaborazione tra Stato e Regioni. LE SENTENZE SOSTITUTIVE Con le decisioni sostitutive la Corte dichiara, invece, l’illegittimità costituzionale della disposizione «nella parte in cui prevede» una certa cosa «anziché» un’altra, cosicché la sentenza ha l’effetto di sostituire un frammento di norma con un altro. L’esempio classico è quello della sentenza n. 15 del 1969, con la quale la Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittima la disposizione del codice penale che prevedeva il potere del ministro della giustizia di concedere l’autorizzazione a procedere per i casi di vilipendio della Corte costituzionale. Una siffatta previsione, lesiva della posizione istituzionale della Corte, è stata dichiarata incostituzionale, non già nel suo complesso, bensì «nei limiti in cui attribui[va] il potere di dare l’autorizzazione a procedere per il delitto di vilipendio della Corte costituzionale al Ministro [...] anziché alla Corte stessa» Tra i casi più recenti di ricorso a decisioni sostitutive si ricordano, ad esempio, la sentenza n. 168 del 2005, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 403, primo e secondo comma, del codice penale, «nella parte in cui prevede, per le offese alla religione cattolica mediante vilipendio di chi la professa o di un ministro del culto, la pena della reclusione rispettivamente fino a due anni e da uno a tre anni, anziché la pena diminuita stabilita dall’art. 406 dello stesso codice», nonché la sentenza n. 76 del 2009, resa nell’ambito di un giudizio in via principale, in cui la Corte ha dichiarato «l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 194, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2008), nella parte in cui stabilisce che i regolamenti da esso previsti siano adottati “sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano”, invece che “d’intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano”». Ad ogni modo – si ripete – tutte le sentenze manipolative soggiacciono alla medesima logica delle altre decisioni di illegittimità costituzionale, nella misura in cui tanto le une quanto le altre sono mosse unicamente dal raffronto tra la disposizione di legge e la Costituzione. Ne discende che, anche quando la Corte procede alla manipolazione di una disposizione, lo fa esclusivamente perché a ciò costretta al fine di rendere la disposizione conforme alla Costituzione. A guidare la Corte sull’an della manipolazione e sul quid che dalla manipolazione risulta è direttamente la Costituzione, nel senso che non si ha creazione «libera» di nuovo diritto, ma deduzione di contenuti normativi da principi presenti nell’ordinamento giuridico, e segnatamente dalla sua norma fondamentale: la manipolazione, in altri termini, avviene (e può avvenire solo se) a «rime obbligate». LE SENTENZE ADDITIVE DI PRINCIPIO Come precedentemente ricordato, le sentenze additive (al pari di quelle sostitutive) presuppongo l’esistenza di un’unica soluzione idonea a rendere la norma incostituzionale compatibile con la Carta fondamentale. Si danno, tuttavia, ipotesi in cui l’accertamento dell’incostituzionalità si scontra con la necessità di rispettare la discrezionalità del legislatore ordinario nell’individuazione di una tra le possibili soluzioni idonee a rendere la norma compatibile con la Costituzione. In tali ipotesi la Corte, a partire dalla seconda metà degli anni ottanta, fa talvolta ricorso, anziché ad un semplice monito (su cui vedi infra, par. 3.), alle cosiddette sentenze additive di principio, attraverso le quali la Consulta, dichiarata l’illegittimità costituzionale della disposizione oggetto del giudizio «nella parte in cui non» (come nelle additive «classiche»), non procede ad individuare il frammento normativo mancante, ma indica il principio generale cui rifarsi nel riempire di contenuti la lacuna riscontrata. Con la sentenza additiva di principio, la Corte instaura, dunque, un dialogo, non solo con il legislatore, chiamato a colmare il difetto di normazione, ma anche con i giudici, sui quali ricade, nelle more dell’intervento legislativo, il compito di dar seguito, nella concretezza dei rapporti giuridici, al principio enunciato nella decisione di illegittimità costituzionale. Tra i casi più ercenti di pronunce additive di principio si ricordano qui le sentenze nn. 385 del 2005 e 77 del 2007. Nella prima la Corte ha dichiarato l’incostituzionalità delle disposizioni che non prevedevano il principio che al padre spettasse di percepire, in alternativa alla madre, l’indennità di maternità, attribuita solo a quest’ultima, osservando che «nel rispetto dei principi sanciti da questa Corte, rimane comunque riservato al legislatore il compito di approntare un meccanismo attuativo che consenta anche al lavoratore padre un’adeguata tutela». Nella seconda sentenza citata la Corte ha, invece, dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 30 della legge n. 1034 del 1971, nella parte in cui non prevedeva che gli effetti, sostanziali e processuali, prodotti dalla domanda proposta dal giudice privo di giurisdizione si conservassero, a seguito di declinatoria di giurisdizione, nel processo proseguito davanti al giudice munito di giurisdizione. La Consulta ha, in questo caso, rilevato come «[n]el rispetto di tali limiti costituzionali, il legislatore ordinario – ferma l’esigenza di disporre che ogni giudice, nel declinare la propria giurisdizione, deve indicare quello che, a suo avviso, ne è munito – è libero di disciplinare nel modo ritenuto più opportuno il meccanismo della riassunzione (forma dell’atto, termine di decadenza, modalità di notifica e/o di deposito, eventuale integrazione del contributo unificato, ecc.) sulla base di una scelta di fondo a lui soltanto demandata: stabilire, cioè, se mantenere in vita il principio per cui ogni giudice è giudice della propria giurisdizione ovvero adottare l’opposto principio seguito dal codice di procedura civile (art. 44) per la competenza». confronti della donna, adottata a New York il 18 dicembre 1979, resa esecutiva in Italia con legge 14 marzo 1985, n. 132, nonché dalle raccomandazioni del Consiglio d’Europa n. 1271 del 1995 e n. 1362 del 1998 e dalla risoluzione n. 37 del 1978. Nonostante ciò, la sentenza è pervenuta ad una declaratoria di inammissibilità, in quanto l’intervento richiesto dal rimettente avrebbe comportato un’operazione manipolativa esorbitante dai poteri spettanti ai giudici del Palazzo della Consulta. Tenuto conto, infine, del vuoto di regole che la caducazione della disciplina avrebbe determinato, secondo la Corte non era ipotizzabile neppure una decisione che, accogliendo la questione, demandasse ad un futuro intervento del legislatore la regolamentazione della materia. A modulare gli effetti delle decisioni di accoglimento per il passato sono, invece, le cosiddette decisioni di incostituzionalità sopravvenuta, con cui la Corte limita gli effetti retroattivi della dichiarazione di incostituzionalità. Nell’ambito di esse si usa tradizionalmente distinguere due tipi di incostituzionalità sopravvenuta. Un primo tipo – da alcuni definita incostituzionalità sopravvenuta in senso stretto – è dato dalle pronunce in cui la Corte accerta che la disciplina oggetto del suo sindacato, pur non presentando vizi di costituzionalità nel momento in cui è entrata in vigore, è successivamente divenuta incostituzionale a seguito di eventi – normativi e non – la cui verificazione determina l’incostituzionalità. La deroga alla regola generale della retroattività delle pronunce di accoglimento (su cui vedi supra, par. 2.2.) consiste, quindi, nel fatto che la legge impugnata perde efficacia non dal giorno della sua entrata in vigore ma dal momento (successivo) in cui è diventata incostituzionale. Il secondo tipo di incostituzionalità sopravvenuta – talvolta definita incostituzionalità differita, o per bilanciamento di valori – si ha nel caso in cui la Corte, ritenendo che la dichiarazione di illegittimità costituzionale, pur garantendo alcuni valori, produrrebbe effetti negativi rispetto ad altri ugualmente meritevoli di tutela a livello costituzionale, differisce l’efficacia della decisione al fine di ridurre o eliminare tali effetti, indicando il termine a partire dal quale la norma deve ritenersi incostituzionale. La deroga alla regola generale sull’efficacia delle sentenze di accoglimento è in questo caso indubbiamente maggiore, non solo perché alla Corte residua un margine di discrezionalità potenzialmente più ampio nell’individuazione del momento a partire dal quale l’incostituzionalità si produce, ma anche e soprattutto perché tali pronunce possono condurre a dover considerare la norma dichiarata incostituzionale ancora applicabile nel giudizio a quo o nei giudizi pendenti. LE DECISIONI DI ILLEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE CONSEQUENZIALE Secondo l’art. 27, legge n. 87 del 1953, la Corte costituzionale, «quando accoglie una istanza o un ricorso relativo a questione di legittimità costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge, dichiara, nei limiti dell’impugnazione, quali sono le disposizioni legislative illegittime». Il principio del chiesto e pronunciato, stabilito da questa disposizione e valido tanto con riferimento ai giudizi in via incidentale quanto in relazione ai giudizi in via principale, trova esplicita deroga nello stesso art. 27, nella cui seconda parte si legge che la Corte «dichiara, altresì, quali sono le altre disposizioni legislative, la cui illegittimità deriva come conseguenza dalla decisione adottata». Inserita allo scopo di evitare che una legge resti in vigore «quando un’altra, che ne costituisce il necessario presupposto e fondamento, sia dichiarata illegittima» (come si legge nella relazione illustrativa della legge n. 87 del 1953), tale disposizione è stata in seguito interpretata estensivamente dalla Corte, che utilizza di fatto la dichiarazione di illegittimità costituzionale consequenziale in una ampia serie di ipotesi: a titolo esemplificativo, si può ricordare il caso in cui una disposizione non impugnata concorra, unitamente a quella impugnata, a produrre l’effetto incostituzionale, oppure l’ipotesi in cui una disposizione contenga la stessa espressione ritenuta incostituzionale o faccia espresso riferimento alla disposizione impugnata, o ancora il caso in cui la disposizione si presenti come strumentale o comunque strettamente connessa alla regola sostanziale dichiarata illegittima, oppure quando applicando la ratio decidendi della decisione di incostituzionalità, si giunge all’accertamento dell’illegittimità costituzionale di una disposizione diversa da quella impugnata dal giudice ma ritenuta dalla Corte analoga o simile e dunque affetta dallo stesso vizio di costituzionalità. Tra i casi più recenti di utilizzo della dichiarazione di illegittimità costituzionale consequenziale si ricorda la già citata sentenza n. 333 del 2009 (vedi supra, par. 2.4.1.), in cui la Corte, oltre a dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 517 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al reato concorrente contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento di esercizio dell’azione penale, ha dichiarato, «in applicazione dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l’illegittimità costituzionale dell’art. 516 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al fatto diverso contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento di esercizio dell’azione penale». Alla dichiarazione di illegittimità costituzionale consequenziale la Corte ricorre anche nel quadro del giudizio in via principale (per quanto solo allo scopo di dichiarare l’incostituzionalità di altra legge della stessa Regione e non di leggi, di analogo o identico contenuto, di altre Regioni), nonché nell’ambito del controllo sugli Statuti regionali (si veda, ad esempio, la sentenza n. 12 del 2006). Tra i casi più recenti di ricorso a tale tipo di decisione nei giudizi in via diretta si ricordano la sentenza n. 74 del 2009, in cui la Corte, dopo aver dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 5, primo periodo, della legge finanziaria per l’anno 2008, ha rilevato che la pronuncia di illegittimità deve estendersi, in via consequenziale anche ad altre disposizioni, costituenti jus superveniens, che hanno introdotto una disciplina analoga a quella censurata; la sentenza n. 138 del 2009, in cui la Consulta, dopo aver dichiarato la illegittimità costituzionale di taluni commi dell’art. 2 della legge della Regione Emilia-Romagna n. 2 del 2008, ha affermato che la pronunzia va estesa, in via consequenziale, anche ad altre disposizioni legislative contenute nella medesima legge, stante l’inscindibile legame funzionale sussistente fra le disposizioni impugnate e le altre specificatamente indicate; ancora, la sentenza n. 250 del 2009, in cui, benché l’impugnativa fosse ammissibile con riguardo al solo comma 1 dell’art. 287 del d.lgs. n. 152 del 2006, è stata dichiarata l’illegittimità consequenziale anche dei successivi commi 4, 5 e 6 «trattandosi di disposizioni intrinsecamente collegate a quella di cui al comma 1, per la parte in cui esso è stato dichiarato incostituzionale». II. Il giudizio sui conflitti di attribuzione Analogamente a quanto fatto con riferimento ai giudizi sulle leggi, le decisioni rese dalla Corte nei conflitti di attribuzione tra enti o tra poteri possono essere innanzi tutto suddivise tra pronunce processuali e pronunce di merito. LE DECISIONI PROCESSUALI Alla categoria delle pronunce processuali sono riconducibili le decisioni di estinzione del giudizio, di cessazione della materia del contendere, di improcedibilità e di inammissibilità. Alla stregua di quanto avviene nell’ambito del giudizio in via principale, anche nel giudizio per conflitto di attribuzione tra enti l’estinzione può essere dichiarata in caso di rinuncia della parte ricorrente accettata dalla resistente (si vedano, ex plurimis, le ordinanze nn. 4 del 2005 e 332 del 2007) o, qualora quest’ultima non si sia costituita, a seguito della mera rinuncia della ricorrente (si vedano, ex plurimis, le ordinanze nn. 167 del 2006 e 230 del 2007). Quanto al conflitto interorganico, l’estinzione del giudizio è stata pronunciata con l’ordinanza n. 383 del 1995. La cessazione della materia del contendere può essere, invece, dichiarata per il sopraggiungere di mutamenti del quadro normativo di riferimento, oppure a seguito dell’annullamento con effetti retroattivi o della revoca dell’atto impugnato. Per quanto riguarda i conflitti intersoggettivi, si veda, ad esempio, la sentenza n. 252 del 2007, che ha dichiarato la cessazione della materia del contendere a seguito dell’annullamento degli atti impugnati da parte del giudice amministrativo con sentenza passata in giudicato, oppure la sentenza n. 41 dello stesso anno, in cui la cessazione è derivata dalla revoca, intervenuta successivamente alla instaurazione del giudizio, dell’atto in relazione al quale la Regione aveva promosso il conflitto di attribuzione e che non risultava aver prodotto medio tempore alcun effetto. Quanto al conflitto interorganico, la cessazione della materia del contendere è stata utilizzata meno frequentemente, come ad esempio nelle sentenze nn. 221 e 449 del 2002. La formula dell’improcedibilità è stata talvolta utilizzata dalla Corte, in luogo della dichiarazione di cessazione della materia del contendere o della semplice inammissibilità, per segnalare la sopravvenuta carenza di interesse al ricorso: ciò è avvenuto, per quanto riguarda i conflitti interorganici, ad esempio, con le sentenze nn. 464 del 1993 e 204 del 2005, e per quanto concerne in conflitti intersoggettivi, ad esempio, con le decisioni nn. 13 del 1998 e 174 del 2007. Ad ogni modo, con specifico riferimento ai conflitti tra poteri dello Stato, giova ricordare che alla dichiarazione di improcedibilità la Corte ricorre nel caso di tardività della notifica o del deposito degli atti (si vedano, ex plurimis e da ultimo, le ordinanze nn. 163 e 188 del 2009, in cui la Corte ha accertato l’inosservanza, da parte del giudice ricorrente, del termine perentorio di venti giorni dall’ultima notificazione, fissato nell’ordinanza di ammissibilità del conflitto, per il deposito presso la cancelleria della Corte costituzionale del ricorso e dell’ordinanza, con la prova della loro notificazione). L’inammissibilità del ricorso per conflitto di attribuzioni tra enti può essere dichiarata in una serie di ipotesi diverse, quali, ad esempio, l’inidoneità dell’atto impugnato a ledere le attribuzioni costituzionalmente garantite della parte ricorrente (si veda, ex plurimis, la sentenza n. 235 del 2007); l’esistenza di un contrasto meramente interpretativo sulla disciplina della materia (si veda, ex plurimis, la sentenza n. 121 del 2005); la carenza del tono costituzionale del conflitto (si veda, ex plurimis, la sentenza n. 380 del 2007); il difetto di interesse (si veda, ex plurimis, la sentenza n. 333 del 2006); il fatto che ad essere rivendicata dalla ricorrente sia la mera titolarità di beni (si veda, ex plurimis, la sentenza n. 302 del 2005). In altri casi l’inammissibilità è determinata da vizi attinenti alla formulazione del ricorso, come la generica o erronea indicazione del parametro (si veda, ex plurimis, la sentenza n. 312 del 2006), la formulazione incerta o contraddittoria del petitum (si veda, ex plurimis, la sentenza n. 382 del 2006), la mancata corrispondenza tra il contenuto della delibera della Giunta regionale che dispone il ricorso e l’oggetto dello stesso (ordinanza n. 196 del 2006). Anche con riferimento ai conflitti interorganici il ricorso può essere dichiarato inammissibile per vizi concernenti il suo contenuto, come, ad esempio, la non autosufficienza dell’atto introduttivo del giudizio (si vedano, da ultimo, le sentenze nn. 31 e 223 del 2009) o l’erronea individuazione dell’oggetto del conflitto (si veda, ad esempio, la sentenza n. 355 del 2008, in cui la Corte ha rilevato la mancanza della prova della riferibilità della delibera parlamentare di insindacabilità allo specifico procedimento in corso dinanzi al Giudice confliggente, e l’impossibilità di dedurre aliunde detta riferibilità). In alcuni casi l’inammissibilità del conflitto interorganico può essere determinata dall’accertamento della carenza dei presupposti oggettivi o soggettivi del conflitto: per quanto, infatti, la valutazione in ordine alla loro sussistenza appartenga normalmente alla fase preliminare di verifica dell’ammissibilità del conflitto (su cui vedi subito infra, par. 1.1), non si può escludere che la Corte, nell’esaminare il merito, rilevi un difetto sotto il profilo oggettivo o soggettivo tale da giustificare una pronuncia di inammissibilità. È quanto avvenuto, ad esempio, nella sentenza 139 del 2007, con cui la Corte, dopo aver dichiarato il conflitto ammissibile con precedente ordinanza n. 209 del 2003, ha nella fase di merito accertato la carenza del presupposto oggettivo dovuta al fatto che l’autorità giudiziaria ricorrente aveva sollecitato, attraverso il conflitto medesimo, una verifica circa la correttezza dell’agere del Comitato parlamentare per i servizi di informazione e sicurezza e per il segreto di Stato, devolvendo così alla Corte “non già un sindacato circa la esistenza di un indebito esercizio delle attribuzioni spettanti all’organismo parlamentare, secondo le prerogative ad esso riconosciute in forza dei principi costituzionali; bensì un controllo, in concreto, sulla legittimità del rifiuto alla esibizione». LA DELIBAZIONE DI AMMISSIBILITÀ DEL CONFLITTO TRA POTERI DELLO STATO Il giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato è caratterizzato da un’articolazione in due fasi autonome, per quanto funzionalmente collegate tra loro. Se, come appena visto, a pronunce di inammissibilità la Corte può giungere anche nella c.d. fase del merito (vedi par. precedente), esiste, con riferimento al conflitto interorganico, una prima fase in cui la Corte è chiamata ad una liminare delibazione in ordine all’ammissibilità o meno del conflitto medesimo. Tale fase, che si svolge in camera di consiglio e senza contraddittorio, a seguito del semplice deposito del ricorso, è destinata a chiudersi con un’ordinanza di ammissibilità o inammissibilità, con cui la Corte valuta la sussistenza dei necessari requisiti sostanziali e procedurali del conflitto (e, in caso di ammissibilità, dispone che l’ordinanza stessa sia comunicata alla parte ricorrente dalla Cancelleria della Corte e che il ricorso e la relativa ordinanza di ammissibilità siano, a cura della parte ricorrente, notificati alla parte resistente e successivamente depositati presso la Cancelleria medesima).
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