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Caratteristiche del latino arcaico e volgare: evoluzione fonetica e morfologica - Prof. Pr, Appunti di Lingua Italiana

Le caratteristiche del latino arcaico e volgare, evidenziandone l'evoluzione fonetica e morfologica. Vengono illustrate le tendenze fondamentali del latino volgare, come la normalizzazione delle forme irregolari e l'espressione di significati attraverso costrutti morfologizzati. Vengono inoltre approfondite le modifiche subite dalle vocali e consonanti nel passaggio dal latino classico alle varietà meridionali e fiorentine.

Tipologia: Appunti

2022/2023

Caricato il 31/01/2024

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Scarica Caratteristiche del latino arcaico e volgare: evoluzione fonetica e morfologica - Prof. Pr e più Appunti in PDF di Lingua Italiana solo su Docsity! Prof. Massimo Prada 12 CFU L-FIL-LET/12 1 LINGUISTICA ITALIANA PARTE A: Fonetica Lezione 1A – La fonetica: premesse 18/09/2023 fonologia: modo in cui in italiano si usano i suoni linguistici (aspetto più astratto) fonetica (articolatoria): modo in cui generiamo i suoni linguistici attraverso l’apparato fonatorio ≠ da fonetica acustica che studia come si percepiscano i suoni La fonetica è interamente articolatoria, poiché l’IPA descrive i suoni di tutte le lingue a partire dal modo in cui si pronunciano e rende possibile la corrispondenza biunivoca (1:1) tra suono e grafema almeno tra tutti i fonemi delle lingue del mondo. Nelle lingue del mondo esistono altri suoni che non generano coppie minime ma l’IPA non promette di descriverle con un solo grafema (es. in questi casi si usano i segni diacritici) Suono/fono e fonema/suono linguistico sono due cose diverse: ogni lingua decide quali suoni usare e quanti usarne. L’insieme dei suoni linguistici di una determinata lingua si chiama inventario fonologico. L’italiano si caratterizza per la relativa semplicità dei suoni vocalici, tant’è che sono solo 7. A questi aggiunge 23 suoni consonanti formando quindi un inventario fonologico di 30 elementi. I fonemi sono sfruttati dalle lingue per far funzionare il sistema linguistico. fonema: realtà più astratta perché legata al funzionamento del codice, perché rende possibile generare coppie minime. Se c’è una coppia minima, abbiamo un fonema coppia minima: è un insieme di due parole che si oppongono solo per la differenza di un suono (es. panda-banda). Essa permette di distinguere due morfemi tra loro. I fonemi si identificano generando una serie di coppie minime. Non tutte le coppie hanno la stessa capacità di creare coppie minime (es. alcune coppie fonologiche creano un numero piccolo di coppie minime come due o tre), es. nel caso dell’italiano abbiamo ereditato l’alfabeto latino che però funzionava ovviamente molto bene in latino e per adattarlo al volgare e poi all’italiano sono stati inventati dei trucchi (es. il fonema ch per rendere il suono duro). Ci sono poi delle coppie semiminime: ci sono due foni che si oppongono di cui uno è un vocoide aperto/chiuso morfema: unità minima dotata di significato; le parole sono un insieme di morfemi (es. gatt-o) 2 Lezione 2A – La fonetica: allofoni e varianti libere 19/09/2023 Quando si parla di fonema si fa riferimento ad una realtà più astratta poiché rende possibile il funzionamento del codice, mentre il fono è una realtà più concreta poiché si fa riferimento ad un suono articolatorio. [n] [ɱ] [n̪] [nj] [ŋ] ⟹ /n/ I diversi tipi di /n/ sono foni articolatamente diversi tra loro, ma che in italiano sono resi tutti con il medesimo grafema e sono riconducibili al medesimo fonema, ma non posso creare coppie minime tra loro perché sono diverse tra loro→ sono manifestazioni di un unico fonema, cioè allofoni. allofoni: foni diversi tra loro riconducibili ad uno stesso fonema. Sono manifestazioni contestualmente determinate di uno stesso fonema. Es. kin e king Queste due parole si oppongono perché la prima n è un contoide (consonante) alveolare (come quello di naso), mentre la seconda non è alveolare + velare ma è il suono che noi abbiamo in pongo [‘poŋgo] Kin sarebbe [kin] e king sarebbe [kiŋ] economia articolatoria: se noi parliamo velocemente a volte succede che il cervello, sapendo già che dopo un suono ne segue un altro, anticipa la posizione articolatoria (assimilazione regressiva); in questo caso (pongo) una nasale precede una velare, il cervello quindi colloca la lingua già nella posizione che gli è comoda per articolare una velare, producendo una nasale velare [ŋ]. Assimilazione: fenomeno che si verifica quando un segmento fonologico modifica il segmento precedente (assimilazione regressiva/anticipatoria) o il segmento successivo (assimilazione progressiva/perseverativa) - regressiva: angusto [ŋ] - progressiva: chiesa [c]/[kˈ] Vediamo quindi come [n], [ŋ], [ɱ] sono allofoni dello stesso fonema /n/. Al contrario [ʁ] (fricativa uvulare sonora) e [ɹ] sono varianti libere, ovvero particolari allofoni che non dipendono dal contesto in cui sono, ma da un fattore sociolinguistico, un’abitudine (r moscia). Chi ha la r moscia pronuncia la polivibrante r in modo diverso→ ci troviamo di fronte a qualcosa di simile ad un allofono. La differenza è che la r moscia non dipende dal contesto, ma da un’abitudine fonatoria o una difficoltà nell’articolare la polivibrante. Ma cosa fa emergere una varietà rispetto ad un’altra? Le ragioni sono svariate (es. socioculturali), ma non contestuali. 5 Un altro concetto importante è l’arcifonema. arcifonema: fusione di due fonemi che in astratto sarebbero due fonemi diversi, ma non lo sono nella realtà→ gli elementi di una coppia minima che ora non c’è più si fondono. es. [ɔ] ∼ [o] ⟹ in certi contesti questa opposizione è contrastiva (es. [bɔtte] vs. [botte]), ma questa opposizione viene neutralizzata in sillabe atone, es. [cɔro] diventa [o] nelle parole derivate corale e corista (la <o> è in sillaba atona) NB. vocale e consonante sono usati per indicare la natura di un suono in relazione alla sua posizione all’interno della sillaba, riguardano dunque la distribuzione dei suoni all’interno della sillaba (aspetto fonologico); vocoide e contoide dipendono dal modo in cui sono articolati i suoni. Non sempre concidono: es. ingl. mut.ton [mʌtən], dove [n] è un contoide vocalico che funge da nucleo sillabico mau.ro, [u] è un vocoide consonantico (quindi non funge da nucleo sillabico) vocale = nucleo della sillaba (spesso sono vocoidi, altrimenti sono contoidi sonori), ovvero la parte della sillaba attorno a cui si aggregano altri suoni consonante = ciò che non è nel nucleo sillabico, quindi ciò che si trova nella periferia della sillaba vocoide = è un suono articolato senza restrizione, senza restringere il canale fonatorio (di solito sono vocali) contoide = è un suono articolato con costrizione (la massima costrizione l’abbiamo in [k], la minima negli approssimanti [j] e [w]). Come nell’esempio di mutton vediamo che esistono contoidi che hanno un grado di sonorità intrinseco più alto di altri (in alcune lingue i contoidi hanno un funzionamento vocalico) → contoidi a comportamento vocalico (nel nucleo della sillaba), contoidi a comportamento consonantico. Altri esempi di parole con vocoidi consonantici sono: a.iuo.la; cor.ri.do.io; a.e.reo; ma.ia.le; cau.to, gron.da.ia; eu.ge.ne.ti.ca; bai.ta; fau.na, ecc. NB. si dice uno zio, uno pneumatico, uno xilofono e tutte queste parole iniziano per contoide. Tuttavia si dice anche uno iato, perciò il suono [j] rappresentato da <i> è un contoide 6 Lezione 4A – La fonetica: fonazione e articolazione 22/09/2023 fonazione: come generiamo il flusso d’aria (mantice pneumatico) grazie al quale produciamo i suoni: - i polmoni generano il mantice pneumatico (il diaframma si contrae e la cavità toracica si espande; quando i polmoni sono pieni il diaframma si rilassa e pian piano i polmoni si svuotano) - l’aria passa attraverso la trachea, alla fine della quale vi sono le pliche vocaliche. Quando respiriamo sono più chiuse di quando parliamo, poiché in quel momento le sezioni cartilaginee della laringe si modificano per produrre la voce - quando l’aria giunge alla cavità orale entra in gioco l’articolazione La maggior parte dei suoni linguistici sono foni pneumatici egressivi; i contoidi in italiano sono tutti egressivi e pneumatici. articolazione: modo in cui modifichiamo il flusso d’aria → avviene attraverso l’ostacolo degli articolatori fissi e degli articolatori mobili, di cui il più importante è la lingua (muscolarizzata e controllabile dal cervello). Il velo palatino quando si alza verso la faringe, non permette all’aria di passare per il naso, producendo suoni orali; se invece si abbassa avremo dei suoni nasali L’apparato fonatorio incide sulle caratteristiche dei suoni emessi per la frequenza media e per i fenomeni di risonanza. Il suono è determinato dal modo in cui gli organi mobili si spostano verso gli organi fissi. Si distinguono in due: - sezione laringea (glottica) → determina la fonazione (e il timbro dell’idioletto) - sezione sovralaringea (tratto vocale) → determina l’articolazione Fra gli organi articolatori è importante l’epiglottide, ovvero una plica cartilaginea situata nella laringe sopra le pliche vocaliche (epi+glottide = sopra la glottide). La sonorità dipende dalla glottide. Nella maggior parte dei suoni esistono sia le versioni sorde che quelle sonore. Abbiamo tre tipi di meccanismo fonatorio: 1. polmonare 2. laringale 3. non pneumatico ➢ descrizione fonatoria dei foni 1. meccanismo pneumatico - polmonare - glottale - avulsivo - egressivo - ingressivo 2. punto di egresso - orale - nasale 7 3. modo di articolazione - occlusivo - polivibrante - tap/flap - fricativo/costrittivo - approssimante - laterale - nasale 4. luogo di articolazione parte della lingua parte della cavità orale toccata - labiale - apicale - laminale - predorsale - mediodorsale - postdorsale - radicale - bilabiale - labiodentale - dentale - alveolare - prepalatale - velare - uvulare - faringale - glottale 5. voce - sordo - sonoro - cricchiato - mormorato - bisbigliato 10 Le nasali In italiano i fonemi nasali sono tre: - bilabiale [m] - alveolare [n] - palatale [ɲ] Sono foni interlinguisticamente molto comuni, forse tra i più comuni. In inglese abbiamo anche la nasale velare [ŋ], quella di king. In italiano visto che c’è una forte tendenza all’assimilazione regressiva abbiamo anche: - nasale labiodentale [ɱ] quando è seguita da una fricativa labiodentale, es. anfora - nasale velare [ŋ] quando seguita da una velare Quando una nasale è dentale, quindi seguita da un’occlusiva dentale, possiamo avere l’aggiunta del diacritico [ ̪] → [n̪] Quando si aggiunge quest’ultimo diacritico, spesso lo si pone anche sulla dentale seguente: [n̪t]̪. Nell’italiano standard spesso la /e/ se davanti a nasale è pronunciata aperta se tonica, quindi non [pattsjente] ma [pattsjεnte]. Gli approssimanti Foni asillabici, ma non costrittivi. In italiano abbiamo [j] palatale e [w] labiovelare. In italiano sono considerati dittonghi solo quelli discendenti, mai quelli ascendenti formati da approssimante + vocale. Gli approssimanti laterali Negli approssimanti laterali manca una completa occlusione laterale sulla corona dentale. Sonorante e a volte nucleo sillabico. In italiano abbiamo: - dentale [l] - palatale [ʎ] Le vibranti In italiano abbiamo la vibrante alveolare [r], anche se possiamo avere delle varianti libere, es. [R] (vibrante uvulare), [ʁ] (fricativa uvulare) o [ɹ] (approssimante alveolare). 11 Lezione 7A – I vocoidi e i dittonghi 27/09/2023 L’articolazione dei vocoidi si basa su alcuni punti: 1. grado di avanzamento La lingua può muoversi verticalmente e orizzontalmente. Anche la mascella coopera all’articolazione dei vocoidi perché crea una cavità interna più o meno ampia, cosa molto importante per i suoni vocalici, che sono suoni armonici, possono essere ripetuti regolarmente. Il tipo di suono prodotto è legato alla forma che assume la cavità orale perché essa funziona da risuonatore, da cassa armonica. Il grado di avanzamento nell’IPA è indicato orizzonatalmente: posteriore, centrale e frontale. 2. altezza Indica il punto più alto che assume la lingua nella cavità orale. La vocale potrà essere: - alta / chiusa - medio-alto/ medio-chiuso - medio-basso/ medio-aperto - bassa / aperta 3. località di egresso Bisogna indicare quindi se il vocoide è orale o nasale. Le vocali nasali in italiano non sono presenti, a differenza per esempio del francese. 4. posizione delle labbra Le vocali possono essere prodotte o senza protrusione delle labbra (non labializzati), che si trovano a sinistra, o con protrusione delle labbra (labializzati), che si trovano a destra. Dove non c’è il secondo elemento non abbiamo l’elemento labializzato L’italiano ha solo sette vocoidi: - [i], vocoide anteriore alto non labializzato - [e], vocoide anteriore medio-alto non labializzato - [ε], vocoide anteriore medio-basso non labializzato - [a], vocoide anteriore basso non labializzato - [u], vocoide posteriore alto labializzato - [o], vocoide posteriore medio-alto labializzato - [ɔ], vocoide posteriore medio-basso labializzato In italiano vediamo che tutti i vocoidi anteriori non sono labializzati e tutti i vocoidi posteriori sono labializzati. Alcune varietà dell’italiano presente il vocoide medio-centrale non labializzato, lo schwa [ə], che si trova sotto la linea Roma-Ancona. Questi sono vocoidi astratti, cioè non necessariamente corrispondono ai vocoidi che noi effettivamente pronunciamo, che sono leggermente più interni. Ma questo per noi non è importante. Inoltre, dobbiamo pensare che l’opposizione tra [e]/[ε] e [o]/[ɔ] sia presente solo in sede tonica, mai in sede atona, dove abbiamo sempre la versione più chiusa dei vocoidi. La /a/ italiana è un po’ più arretrata rispetto alla posizione dell’IPA, infatti alcuni rappresentano il sistema vocalico italiano con un triangolo. 12 Il primo che si preoccupò di produrre un alfabetico fonetico con corrispondenza biunivoca per l’inglese (Joms) ha definito un certo numero di vocali astratte, ovvero le vocali cardinali. Le vocali cardinali sono vocali periferiche che servono nella descrizione di tipo fonologico per definire le vocali e creare il sistema oppositivo. Lo spazio articolatorio anteriore è uguale a quello posteriore e il conteggio va da quelle anteriori che si trovano all’esterno del trapezio (alto ⟹ basso) per poi passare a quelle posteriori esterne al trapezio (basso ⟹ alto); poi si passa a quelle anteriori interne (alto ⟹ basso) e poi a quelle interne posteriori (basso ⟹ alto). I dittonghi sono opposti allo iato, che consiste nell’accostamento di due vocali che però formano due sillabe diverse. Il dittongo si produce ogni volta che due vocali vicine vengono fatte rientrare in un’unica sillaba. In questo caso avremo un vocoide con funzione non nucleare; questo vale per i dittonghi propri, ovvero i dittonghi discendenti (es. ai, ei, oi). Noi possiamo considerare i dittonghi ascendenti (es. ia, ie) se consideriamo [j] una variante di [i]; tuttavia, l’IPA non ha permesso di fare ciò. Si chiamano articolazioni dinamiche o glide perché di fatto quando si articola un dittongo nel medesimo atto respiratorio si articola il primo vocoide e nel medesimo atto respiratorio viene generato anche l’altro vocoide, che però viene articolato in modo più veloce e meno ben articolato rispetto a quando viene articolato singolarmente per poterlo fare rientrare nello stesso tempo. In italiano tendiamo a tenere il tempo delle sillabe più o meno il medesimo, mentre in inglese si tende a tenere uguale il piede (gruppo di sillabe), non la sillaba. Questo perché nel piede si cerca di schiacciare più suoni possibili. 1 2 3 4 15 Lezione 9A – La trascrizione IPA 02/10/2023 Nella trascrizione dobbiamo tenere conto che c’è una differenza tra come noi pronunciamo le parole e come sarebbero da pronunciare nell’italiano standard, che non è parlato da nessuno → è una lingua virtuale creata negli anni ’30 convogliando le caratteristiche del fiorentino e del romano. Questa lingua è parlata solo da alcuni professionisti come attori teatrali, telegiornali (più una volta che oggi), studiosi di dizione ecc. Ormai tutti i parlanti hanno creato un diasistema (sistema di compenso) che permette di capirsi anche con alcuni piccoli cambiamenti di pronuncia. Bisogna però notare che alcune varietà regionali vengono considerate errate a dispetto di altre di altre regioni. Quando si trascrive un testo lungo non bisogna mettere la parentesi quadra per tutte le parole, ma sono all’inizio e alla fine del brano. Bisogna trascrivere indicando le parole fonetiche, quindi gli elementi clitici (non hanno accento e si appoggiano alla parola che precede o segue): - quelli enclitici di solito sono già legati - quelli proclitici di solito no, per esempio alcuni pronomi, articoli e preposizioni Bisogna poi tenere conto che apostrofi e maiuscole non si indicano e che l’accento è sempre indicato a differenza della versione grafica. I confini sillabici sono da segnare e bisogna indicare anche le durate vocaliche. Se viene richiesta una trascrizione fonologica non bisogna segnare gli allofoni della pronuncia, ma solo il simbolo legato al segno utilizzato in italiano. Spesso nelle trascrizioni fonetiche alcuni fatti sono indicati all’inizio e poi non vengono più ripetuti: es. si scrive t ̪oppure si specifica già all’inizio senza dover mettere sempre il diacritico. si bisticciavano un giorno il vento di tramontana e il sole, l’uno pretendendo d’esser più forte dell’altro, quando videro un viaggiatore, che veniva innanzi, avvolto nel mantello. 1912: si bistittʃaːvano un dʒorno il vεnto di tramontana e il soːle l uːno pretendendo d εsser pju ffɔrte dell altro kwando viːdero um viaddʒatoːre ke vveniːva innantsi avvɔlto nel mantεllo oggi: [ˌsi.͜bis.tit.ˈtʃaˑ.va.no unj.͜ˈdʒor.no il.͜ˈvεn̪.to ˌdi.͜tra.mon̪.ˈtaː.na e͜il̯.͜ˈsoː.le | ˈl͜u.no ˌpre.ten̪.ˈdεn̪.do ˈdε͜s.ser pju͜f.ˈfɔr.te del͜.lal.tro | ˈkwan̪.do ˈviˑ.de.ro ˌuɱ͜.viad.dʒia.ˈtoː.re | ̩ kev.͜ve.ˈniː.va in.ˈnan̪.tsi av.ˈvɔl.to ̩ nel.͜man̪.tεl.lo||] 16 - più = è un monosillabo accentato che causa l’allungamento fonosintattico perché un tempo c’erano due consonanti, ovvero plus fortis. Lo stesso discorso si fa per parole italiane come ovvero, ossia, ecc. Perde l’accento e non viene segnato un accento secondario. - eilsole = si può sillabare eil.so.le oppure e.il.sole. Nel primo caso diventa dittongo discendente, quindi il secondo vocoide andrebbe indicato con il diacritico apposito [ ̯]. - virgola dopo il sole = abbiamo un’incidentale che abbassa l’intonazione (abbassamento della curva intonativa), che può essere rappresentato nella trascrizione fonetica come fatto prosodico [|] - pretendendo = la semilunga della semitonica (pre) volendo si può anche non segnare - virgola prima dopo viaggiatore = di solito per la relativa non si segna nulla, se vogliamo possiamo inserire [|] - avvolto = volendo possiamo segnare l’anticipazione dentale anche per [l], ma non è obbligatorio I due litiganti ⟹ 1. [i.͜ˈdu.e ˌli.ti.ˈgan̪.ti] 2. [i.͜ˌdue̯.͜li.ti.ˈgan̪.ti] Nel primo caso l’elemento vocalico di due è diviso, mentre nel secondo rimane insieme, perciò è un dittongo proprio discendente quando viene pronunciato non in modo iperarticolato. Il procedimento dev’essere: - trascrizione dei suoni - unione di parole se due parole diverse - accento primario - accento secondario - allofoni (es. le nasali, ecc.) - lunghezza delle vocali 17 Lezione 10A – Le varietà fonetiche regionali 03/10/2023 Lo standard è una variante artificiale, a cui alcuni parlanti si avvicinano più di altri, ma nessuno in Italia parla questa variante. La regionalità delle varietà si è ridotta progressivamente nel tempo, anche se alcuni tratti permangono ancora oggi. Nel film Il soldato di ventura vediamo i personaggi nel ‘400 vicino a Barletta a parlare e qui vediamo ben marcate le varianti piemontesi, lodigiane, venete, emiliane, romane e campane. L’unico che parla italiano standard è uno straniero, uno spagnolo, mentre i francesi parlano un italiano francesizzato. In Una giornata particolare (arrivo di Hitler a Roma nel ‘38) vediamo tratti di romanesco. Questa varietà è comunque poco marcata, anche se prima del Cinquecento il romanesco era più vicino ai dialetti del sud, ma poi i papi medicei portarono le varianti fiorentine a Roma rendendolo meno marcato rispetto allo standard poi stabilizzatosi nel ‘900. Nel film Benvenuti al sud vediamo bene tratti tipi delle varianti settentrionali (es. geminate scempiate) e meridionali (il vocoide finale è neutralizzato usando lo schwa). L’inventario fonologico italiano ha 30 fonemi (23 consonantici e 7 vocalici). varianti per i vocoidi (1) I vocoidi medio alto e basso anteriore e medio alto e basso posteriore hanno un rendimento basso di opposizione. L’opposizione fonologica tra o aperta e o chiusa è neutralizzata nei dialetti settentrionali, dove abbiamo sette foni, ma solo cinque fonemi, dal momento che si neutralizza l’opposizione. La tendenza a ridurre le opposizioni fonologiche in queste coppie minime l’abbiamo anche nel Friuli e nel Meridione estremo (Calabria, Salento, Sicilia): in questi casi abbiamo cinque foni e cinque fonemi → realizzati sempre aperti. Questa coppia minima, quindi, ha un rendimento basso nell’italiano standard e viene neutralizzata in alcune varianti dell’italiano. A parte questa neutralizzazione, dobbiamo indentificare altri fatti: 2. Lombardia e Veneto: il vocoide tonico finale è realizzato aperto o molto aperto, es. [perɒ] 3. nell’Emilia e in tutto l’Adriatico: si rende la a tonica con [æ], es. [sæle] 4. in alcune varietà le vocali precedute da vocale sono nasalizzate [ã] 5. in Toscana, in parte del Lazio e in alcune varietà meridionali: la o chiusa diventa aperta 6. nelle varietà settentrionali e meridionali si pronuncia il dittongo ie chiuso [vjeni] 7. nelle varietà meridionali si tende a chiudere anche uo [womo] 8. nelle varietà campane si ha la tendenza alla difonizzazione di uo [bu.o.nə] 9. nelle varianti orientali del nord la e finale viene pronunciata sempre aperte (da Brescia in poi), es. [minimε] → dall’Adda in poi il tratto è più forte, anche se presente a volte anche a Brescia e a Bergamo come lascito dell’antica dominazione veneziana 10. neutralizzazione del vocoide finale nelle varianti meridionali [forkεttə] 11. nell’Abruzzo si tende a rendere le i con schwa [rətʃevərə] 20 In alcuni casi ci sono dei cambiamenti interni alla lingua, come per esempio l’uso sempre meno frequente del futuro per parlare del futuro (es. domani vado a lezione). Il futuro non è uscito dall’uso, ma viene sempre più spesso utilizzato per i suoi valori aspettuali-modali, ovvero per fatti non certi (es. chi lo sa, sarà ammalato). Stesso discorso per l’imperfetto, che indica un’azione passata ripetuta nel tempo e poi terminata. Però sempre più spesso è utilizzato per esprimere aspetti modali, spesso per un’azione non ancora avvenuta (es. volevo un etto di prosciutto), spesso nelle richieste per essere più cortesi → viene usato al posto della condizione. Infatti, il condizionale è sempre meno utilizzato, spesso sostituito dall’imperfetto anche nel periodo ipotetico dell’irrealtà (es. se lo sapevo, te lo dicevo), ammesso solo nel parlato, non nello scritto. Vediamo quindi che l’imperfetto esprime un desiderio potenziale. Questi cambiamenti hanno portato l’italiano standard ad essere connotato verso la lingua alta. La storia dell’italiano Il fatto che si crede che una letteratura non nasce se prima non nasce una lingua è un’idea che si ha a causa dell’impostazione tradizionale della scuola, in cui prima si studia la lingua, il cui studio però non è fine a stesso, ma ha il fine di avvicinare lo studente alla letteratura. Il primo testo in lingua italiana è considerato l’indovinello veronese (IX secolo): se pareba boves, alba pratalia araba, albo versorio teneba et negro semen seminaba. Importante anche il placito di Capua (960), in cui abbiamo un contadino che si rivolge al giudice per una disputa sui terreni che coinvolge l’abbazia di Montecassino: sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti. Il placito (un atto notarile) è considerato l’atto di nascita del volgare italiano perché in questo contesto è chiara la differenza tra due lingue che appartengono a due registri diversi: - latino medievale - volgare italiano Il salto tra le due lingue è evidente e il notaio che ha trascritto il documento ha deciso di mantenere le forme in volgare perché il placito doveva documentare che alcuni terreni appartenevano a Montecassino almeno da trent’anni → rimane in volgare cosicché anche coloro che non sanno il latino possano capire la parte più importante, ovvero che i terreni sono di Montecassino. Ci sono anche testi più antichi (es. indovinello veronese) che presentano una lingua che non è né latino né volgare e non sappiamo se nello scrivente ci fosse la coscienza di due lingue distinte, diversamente dal placito. Le forme che hanno portato alla nascita dell’italiano (e delle lingue romanze) sono le forme che si sono protratte dagli errori che facevano i parlanti latino, es. speclum non speculum secondo il latino classico. È come se ci fosse un latino parallelo a quello delle classi colte usato per lo scritto, il cosiddetto latino volgare. La trasformazione del latino al volgare ha avuto momenti di crisi molto marcata che ad un certo punto hanno portato alla netta separazione tra le due lingue. Il latino si può dire che sia nato nell’VIII secolo a.C. in Lazio, dove una piccola comunità parla questa variante indoeuropea. Questa lingua poi si diffonderà in tutta Italia e in gran parte dell’Europa fino 21 all’Africa e all’Europa orientale (es. Romania). In alcune zone la latinizzazione è molto più forte (conquista più antica) rispetto ad altre. Il latino arcaico ha alcune caratteristiche che vengono presto perse dal latino classico, es. alcuni dittonghi che cadono, alcuni casi che confluiscono nell’ablativo. Alcuni fatti evolutivi sono piuttosto precoci: molto presto la m delle parole finali cade, non viene più pronunciata (consonante > nasalizzazione vocalica > caduta), anche se venne ripristinata dai grammatici. Però questo cambiamento rimane nella lingua popolare come possiamo vedere delle testimonianze epigrafiche. Il latino si diffonde in momenti diversi su territori che hanno lingue diverse: si diffonde su lingue indoeuropee (greco, celtico, germanico, ecc.) e lingue non indoeuropee (etrusco). Il latino non era imposto alle persone, ma se ci si voleva integrare bisognava impararlo. Il latino entra in crisi nel III-IV secolo d.C. durante momenti di crisi per l’Impero Romano, che cade definitivamente nel 476 a causa delle invasioni barbariche, che causano: - caduta cultura latina - interruzione comunicazione rallentando la circolazione dei fatti linguistici - introduzione delle lingue barbare Le novità un tempo irradiate da Roma su tutto il territorio latinizzato, non arrivano più dappertutto → nascono dei dialetti del latino, detti volgari, sempre più distinti l’uno dall’altro. In Italia la frammentazione è tanto elevata che si creano volgari regionali. Il latino sopravvive ai piani alti della cultura e la forbice che divideva lingua parlata dal popolo dalla lingua usata per la comunicazione dotta diventa talmente ampia che la diglossia (uso di due varietà del medesimo codice che hanno diverso statuto) diventa bilinguismo → la data convenzionale fissata per questo fenomeno è il 960, data del placito di Capua (documento amministrativo, non letterario). Dal momento in cui si prende coscienza che ormai volgare e latino sono due lingue distinte, la lingua volgare ha un’evoluzione propria completamente slegata dal latino. I primi testi non sono solo letterari, ma anche “pratici”. L’italiano che parliamo oggi è l’evoluzione del volgare fiorentino scritto (parlato era un po’ diverso), che non era l’unico volgare presente in Italia → gli altri volgari si sono evoluti diventando i dialetti regionali. Una caratteristica del volgare fiorentino sono i dittonghi uo e ie (es. uomo, piede), che erano presenti a Firenze e in Toscana, non nel resto dell’Italia (es. omo, pede). Uno dei passi importanti lo abbiamo nel Medioevo tra il XII-XIII, periodo in cui Firenze diventa un importante centro bancario e mercantile. Questo ha creato una classe di persone non necessariamente colte molto dinamica che deve saper leggere e scrivere, ma non sa il latino. Nascono quindi ordini di scuola in cui si insegna in volgare, non più in latino come nelle scuole della nobiltà. Vediamo quindi la maturazione della consapevolezza di saper leggere e scrivere in una lingua che non sia il latino → lo fanno nella loro lingua latina. Il volgare fiorentino, quindi, assume sempre più dignità letteraria e questo porterà le Tre Corone della letteratura italiana a plasmare l’italiano che noi ancora oggi parliamo, grazie anche ad una “Quarta Corona”, ovvero Pietro Bembo (Venezia), che si impegnò nell’istituzionalizzazione della lingua volgare → la Divina Commedia entra nelle scuole e nelle università, viene studiata e messa sullo stesso piano di importanti opere latine. 22 Di questo è testimonianza il fatto che non abbiamo più codici originari del ‘300 di Dante, dal momento che i vari codici furono tanto usati da venir usurati nel tempo. Nel ‘200 vengono scritti anche testi di basso livello in volgare, che vengono diffusi anche al di fuori dei confini di Firenze. Questi autori ci permettono di avere una fotografia dell’italiano a questa altezza cronologica → mentre il latino era ormai fermo, il volgare continua ad evolversi. Vediamo poi che il volgare diventa il rimedio contro l’ignoranza della maggior parte delle persone che non sanno il latino, es. Convivio. Inoltre, Dante ci fornisce nel De vulgari eloquentia una fotografia dei dialetti del tempo, tra cui ne riconosce quattordici. Importanti anche le predicazioni di Domenicani e Francescani che predicavano e spiegavano la Bibbia in volgare, non più in latino → Cantico di Frate Sole di San Francesco. Nel tempo vedremo che le varie koinai (lingue di contesto) che si svilupperanno per la comunicazione in Italia avranno importanti apporti dal fiorentino. 05/10/2023 La storia della lingua si può vedere anche nella storia dei testi. Dopo il placito di Capua (960), abbiamo i testi della scuola siciliana (metà del XIII secolo), che nella maggior parte dei casi oggi leggiamo nella loro veste toscanizzata. Questi autori avevano attinto a modelli provenzali (specie a livello tematico), che avevano adattato alla loro lingua, al loro volgare. Vediamo un’esperienza linguistica importante che divenne tanto famosa da essere ripresa dai poeti toscani e da influenzare tutta la lirica posteriore. Il travaso dell’esperienza siciliana nella prima lirica toscana, che poi si svilupperà a Firenze attraverso il filtro di Dante e Petrarca, è stato possibile dal fatto che alcuni copisti toscani si recarono in Sicilia e trascrissero i testi che trovarono. Essi però adattarono i testi al loro volgare attuando quindi la cosiddetta “toscanizzazione” dei testi siciliani → non abbiamo quasi più testi in siciliano + alcune tipologie di rima (es. rima siciliana) vengono inserite nella lirica toscana a causa dell’adattamento parziale che era stato fatto dai copisti. Queste differenze erano dettate dal fatto anche che il sistema vocalico siciliano era diverso da quello fiorentino, generando così degli artefatti particolari che furono inseriti nella tradizione poetica toscana. Il filologo Giovanni Maria Barbieri nel Cinquecento si impegnò a ridare la veste siciliana ai testi toscanizzati. In siciliano vediamo che tutte le e atone diventano i, mentre in toscano queste i furono trasformate in e, es. pinsaminti vs. pensamenti, sunu vs. sono, ecc. L’ingrediente siciliano progressivamente filtrato soprattutto da Dante (che definiva la poesia precedente un po’ rozza), anche se alcuni artefatti poetici sono rimasti, es. condizionale in ia, che si trovava in siciliano e nel resto d’Italia, ma non in toscano. Altro esempio è la la monottongazione di alcune forme, come core, anche se in toscano sarebbe cuore. Il primo testo in volgare fiorentino è un testo pratico del 1211, un testo scritto dai banchieri di Firenze. Qui vediamo l’esito del latino -tio in -gio, es. rationem > ragione. Il volgare fiorentino entra però ben presto nella cultura letteraria, come vediamo con Dante, che però sente il bisogno di giustificare la sua scelta di scrivere in volgare e non in latino come vediamo nel Convivio (I, 13) (1304-1307), in cui spiega di aver scelto il volgare perché sta spiegando il contenuto di canzoni in volgare e poi perché si sente in debito della lingua materna (fiorentino), visto che l’ha spinto ad imparare il latino e farsi quindi una cultura. Un’altra ragione è che il volgare 25 Nel ‘500 si creano diverse posizioni su come creare una lingua: - Bembo, imitare i migliori scrittori in volgare (autores optimi), ovvero Petrarca (poesia) e Boccaccio (prosa), anche se il Boccaccio mimetico delle novelle non va imitato, solo il Boccaccio della cornice → III libro delle Prose della volgar lingua (terza grammatica del volgare, stampata nel 1525 a Venezia). Il modello è quello dei grammatici latini nel III libro, ma agli altri due libri tenta di dare una veste letteraria costruendo l’opera come un dialogo in cui i personaggi parlano nella lingua della scrittura letteraria → Bembo non vuole parlare della lingua parlata tutti i giorni, ma solo della lingua letteraria. Bembo spiega le varie parti dell’italiano senza usare la nomenclatura del latino (come aveva fatto invece Alberti), ma usa perifrasi per identificare la varie parte del discorso. Bembo è il rappresentante del modello classicistico, che poi nel ‘500 si imporrà su altri modelli. Per moltissimi secoli la sintassi italiana sarà impostata su quella del Boccaccio, che si era basato sulla sintassi degli scrittori latini → sintassi innaturale - Castiglione nel suo Cortegiano (1528) propone un modello diverso, basato sulla lingua parlata nelle corti umanistiche, in cui convergevano persona da tutta Italia e quindi la lingua parlata era una lingua comune che riuniva un po’ tutte le varianti linguistiche. Questa lingua che viene proposta è indicata sia come lingua letteraria sia come lingua parlata, in cui si armonizzano i vari elementi dei volgari parlati nella corte di Urbino, in cui quindi si formerebbe una varietà comprensibile a tutti. Il modello cortigiano viene attaccato da Bembo, che lo considera un modello irreale visto che non ha una sua letteratura e non ha una serie di scrittori su cui esemplare la grammatica, è troppo mutevole → es. nella corte romana le influenze aumentavano in base alla provenienza del papa. Castiglione adotta questo modello perché crede sia importante usare una lingua d’uso e non basarsi su una lingua non più usata + nel toscano ci sono forme non toscane prese dal altre lingue o volgari, già anche in Boccaccio - Trissino (Vicenza) è l’autore di un’interpretazione particolare della teoria cortigiana. Secondo lui la lingua che si deve usare nelle scritture è la lingua che usano tutti gli intellettuali e tutti i letterati d’Italia, risultato di tutto ciò che fanno gli intellettuali, che hanno già una lingua comune, che non si sa sia il risultato di una mescolanza o di una ripresa di vari elementi. Dante e Boccaccio hanno scritto le loro opere in italiano, solo nella loro varietà → modello dell’italianismo - Machiavelli nel Principe sbugiarda gli interpreti del De vulgari eloquentia che vogliono vedere nell’opera di Dante una dichiarazione del fatto che esiste un italiano comune a tutti, che è solo parlato nelle diverse varietà. Secondo Machiavelli Dante, Petrarca e Boccaccio hanno utilizzato il fiorentino (diverso dagli altri volgari) e questo è il volgare da prendere a modello, solo non nella varietà che hanno usato loro come vorrebbe Bembo, ma nella varietà moderna del ‘400 (fiorentino argenteo, es. el, faccino, contennendo è un latinismo) → modello fiorentinista 26 09/10/2023 Nel 1612 viene stampato a Venezia il primo vocabolario della lingua italiana dall’Accademia della Crusca (fondata nel 1583) seguendo un classicismo molto simile a quello del Bembo, anche se con un’apertura leggermente maggiore al fiorentino moderno. Viene fatta anche la prima grammatica ufficiale della lingua fiorentino, iniziativa che fino a questo punto non era stata toscana (es. Bembo era veneto). A questo punto quindi sembra importante recuperare la primazia a Firenze. Il progetto della grammatica però non va subito in porto, visto che la prima grammatica influente del fiorentino uscì dopo. Il vocabolario è realizzato basandosi sui grandi autori della tradizione letteraria (Dante, Petrarca, Boccaccia) e anche sugli autori minori del ‘300 (≠ dal classicismo bembiano). Inoltre, si accolgono anche le scritture moderne (400-500), a patto che si attenessero al modello trecentesco (es. Tasso è escluso per la sua lingua ibrida e forse troppo latineggiante). Il vocabolario suscita diverse polemiche, tra cui quelle di coloro che segnalano delle mancanze e quelle di coloro che si lamentano del fatto che sono riportate anche parole che non vengono più usate e queste non vengono distinte dalle altre. Il vocabolario, inoltre, si basava solo su fonti letterarie. Nel 1623 esce una seconda edizione del vocabolario in due volumi, ma non cambia molto l’impostazione. Qualche passo in avanti si fa con la terza edizione (1691), nella quale viene inserito anche Tasso e viene inserita un’etichetta che identifichi le parole non più in uso. Rimaneva però il problema che all’interno del dizionario venissero inseriti una serie di falsi basati su falsi manoscritti che facevano degenerare la solidità dell’impianto del vocabolario (es. alcuni linguisti avevano manoscritti falsi con forme sbagliate oppure si inventavano completamente delle versioni di alcune parole o in alcuni casi si fidavano di altri linguisti famosi senza fare troppe ricerche riguardo la parola in questione). Nelle edizioni più tarde, dalla terza in poi, vediamo l’ingresso anche di alcune forme tecniche (es. Galileo e altri tecnici e scienziati) + conio di nuove forme per esprimere i nuovi concetti scoperti. Galileo è importante in quanto è l’antesignano di un movimento rivoluzionario → permette l’introduzione di nuovi termini tecnici derivanti però dal volgare, non latino o dal greco come il lessico medico. Infatti, prende parole già in uso, le risemantizza e le inserisce nel vocabolario (es. macchia solare invece di elioma, cannocchiale invece di telescopio). Questo Galileo lo fa anche per aprire le ricerche compiute a chi non conosce il latino. Il vocabolario viene poi abbandonato e ripreso solo nel 1863 con un lavoro che continuerà fino al 1923 e che non verrà concluso, visto che la quinta edizione arriva solo alla lettera o. Solo dal Cinquecento si può parlare di lingua italiana e dialetti perché solo dopo Bembo si impone un modello linguistico e quindi solo da questo momento abbiamo una lingua che ha uno status superiore rispetto alle altre varianti. Prima questo non si poteva fare e si mettevano tutte le lingue sulle stesso piano, per questo si parla di volgari. Nel Seicento abbiamo così la nascita di una letteratura dialettale, quindi la scelta consapevole di una “non-lingua”, es. Carlo Maria Maggi a Milano con le sue commedie, tra cui quella in cui mette in scena le lingue (milanese, varietà del milanese e l’humus milanese che mischiava un po’ italiano e milanese). Questo fenomeno del ‘600 viene definito letteratura dialettale riflessa. 27 Nel 1643 esce l’edizione parziale della grammatica di Buonmattei Della lingua toscana, una grammatica che prende a modello i classici del ‘300, ma ammette anche un’apertura moderata verso la lingua d’uso tosco-fiorentina. Nel Settecento vediamo un allargamento del bacino d’uso dell’italiano e dei campi d’utilizzo (non più solo letterario) e una forte influenza del francese. In questo periodo si capisce che il modello della Crusca è troppo stretto e c’è bisogno di aggiornare il modello. Un momento importante è quella della Rinunzia avanti notaio del 1764 fatta su Il Caffè dei fratelli Verri. Nel primo numero di questo giornale i fratelli Verri fanno una rinuncia ufficiale al Vocabolario della Crusca. Dicono infatti che come hanno inventato parole nuove nel ‘300, anche ora, nel ‘700, si dovrebbe avere il diritto di inventare nuove parole. Inoltre, credono che nel vocabolario non possano essere riunite tutte le parole, infatti esistevano diverse parole italianizzate da altre lingue (turco, francese, tedesco, inglese, slavo, greco, arabo) utilissime ad esprimere nuovi concetti altrimenti difficilmente esprimibili. Vediamo infatti che molti francesismi entrano nel lessico politico + gli ambienti colti parlano francese in modo fluente, spesso anche in modo più sicuro dell’italiano → infranciosamento Nell’Ottocento nasce una corrente puristica che si contrappone a questa maggiore influenza straniera (specie francese), di cui facevano parte letterati che erano timorosi della degenerazione dell’italiano e quindi volevano riportare in auge la lingua con una svolta arcaizzante. (1) Il purismo poteva essere di diversi tipi: - rigoroso, quindi la ripresa degli scrittori del ‘300, ma anche testi non letterari, visto che secondo lui si dovevano prendere tutti i testi scritti con la lingua del ‘300 visto che allora tutti parlavano la medesima lingua, era una lingua perfetta, parlata pure dai contadini (oro linguistico) → è una lingua che se ben analizzata permetterebbe di dire tutto senza prestiti - meno rigoroso, che si voleva basare sugli scritti del ‘300, ma credeva che nel ‘500 questa lingua sia stata perfezionata e arricchita grazie agli studi svolti Vediamo poi che alcuni si accorgono del vero problema dell’italiano, ovvero che non è parlato effettivamente da nessuno, se non da pochi. Di questo ne parla Foscolo nei Discorsi sulla lingua italiana (1824-25). Egli aggiunge anche che la lingua italiana è una lingua fossile e letteraria. Cesari (classicista) nella Dissertazione sullo stato corrente della lingua italiana (1810) dice che il toscano è rimasto molto vicino al latino perché è stato isolato dai contatti con popolazione barbare, al contrario invece dei dialetti “bastardi”. Cesari, quindi, presenta lo sviluppo dei dialetti come un degrado progressivo, a differenza del fiorentino, che lui definisce oro linguistico. (2) Leopardi si rifaceva alla tradizione letteraria italiana, però non solo del ‘300 + apertura anche a testi non propriamente letterari. Vediamo che nel Zibaldone parla dei cosiddetti europeisimi, ovvero parole usate dalle classi colte formate da latino e greco in alcuni campi → anche l’italiano deve includere queste parole. Vediamo quindi che è un classicista, ma non un purista rigoroso. (3) Con Manzoni vediamo la corrente toscanista e poi fiorentinista. Finché il manzone scriveva poesia, il problema della lingua non se lo pose. Manzoni, spinto da esperienze maturate altrove, decise ad un certo punto di scrivere un romanzo storico, un genere a metà tra finzione e realtà storica, che quindi avesse bisogno di una lingua che rispecchiasse anche il fatto storico. 30 Lezione 2B – Il latino volgare e la sua variabilità, le fonti e il vocalismo del latino volgare 10/10/2023 Il latino volgare è il latino che veniva parlato e per la sua stessa natura orale era caratterizzato da un’alta variabilità. Questa variabilità è sia sul piano diacronico che quello diastratico (strato sociale), diafasico (situazione) e diatopico → abbiamo delle coloriture locali del latino, che era una lingua diffusa su un ampio territorio in cui c’erano popolazioni che parlavano anche altre lingue (indoeuropee e non). Il latino portato nei vari territori era un latino con caratteristiche diverse da quello classico, visto che era portato in momenti diversi e da persone diverse (es. militari, commercianti, ecc.). Il latino si è evoluto nel tempo e così si è passati dal latino arcaico al latino classico che conosciamo bene grazie alle opere. Nel latino arcaico c’erano dittonghi poi scomparsi, alcuni casi andati persi o confluiti in altri casi (es. locativo nel genitivo o nell’ablativo, lo strumentale nell’ablativo), l’ottativo è andato perso e le sue funzioni sono state assunte dal congiuntivo. Abbiamo anche varie prove delle coloriture regionali del latino, come nell’Historia Augusta nella sezione dedicata a Severo (II-III sec.), dove si dice “sed Afrum quiddam usque ad senectutem sonans” (ma un po’ africano nella pronuncia fino alla vecchiaia). Altro esempio è nell’Institutio oratoria, dove Quintiliano dice “quem ad modum Pollio reprendit in Livio Patavinitatem” → rileva in Livio una certa patavinitas (tratto padovano nel latino). Agostino (IV-V secolo) rileva alcuni tratti del latino africano nel De doctrina christiana, in cui Agostino si preoccupa di dire a chi deve diffondere il Verbo che è più importante far passare i concetti che trasmetterli in bella forma: “Cur pietatis doctorem pigeat, imperitis loquentem ‘ossum’ potius quam ‘os’ dicere, ne ista syllaba non ab eo quod sunt ‘ossa’, sed ab eo quod sunt ‘ora’ intelligatur, ubi Afrae aures de correptione vocalium vel productione non iudicant?” (Perché a un oratore sacro dovrebbe rincrescere di dire, parlando a degli ignoranti, ‘ossum’ piuttosto che ‘os’, per impedire che questa sillaba venga presa come derivante non da quel nominativo il cui plurale è ‘ossa’, ma da quell’altro da cui deriva il plurale ‘ora’, dal momento che l’orecchio degli africani non è capace di distinguere la brevità o la lunghezza delle vocali) → si era persa la capacità di distinguere le vocali lunghe dalle vocali breve, un tratto che verrà perso anche nelle lingue neolatine. Pompeo (V secolo) riporta un barbarismo nella pronuncia che tende a rendere la lunghezza di una vocale con un dittongo. Sempre nel V secolo con Consentio e Papirio viene rilevato che ti atono viene pronunciato <tsi> → vediamo che l’influenza di altre lingue porta nel latino suoni che in latino non esistevano (es. affricata dentale). Velio Longo (II secolo) ci mostra che alcune parole che terminano in m vengono pronunciate senza la m (es. illum > illu) → un fenomeno molto antico. Questo fenomeno lo ritroviamo in molte lingue neolatine, che perdono i contoidi esposti causando quindi il collasso del sistema flessivo del latino. Nel Corpus Inscriptionum Latinarum vediamo un’iscrizione di Pompei (limite ante quem il 79 d.C.) in cui vediamo già alcuni elementi del latino parlato che denotano elementi delle lingue romanze (es. amat > ama, valeat > valia). 31 In altre iscrizioni ci accorgiamo di altri fenomeni interessanti sia dal punto di vista diacronico che diafasico e diastratico (latino non colto): - talia te fallant utinam mendacia, copo > caupo - tu vedes acuam et bibes ipse merum > vendes - admiror pariens te non cecidisse ruinis > paries, mettono la n non sapendo più dove vada - cesces have anima dulcis et suavis > crescens, habe Vediamo quindi che nel tempo il latino è cambiato e cambiava anche tra strati diversi della popolazione. L’inurbamento dei rustici portò alcuni elementi del latino di campagna nel latino delle città influenzandolo. Anche la divisione dell’impero con lo spostamento della capitale a Costantinopoli e le invasioni barbariche. Il riconoscimento di due varietà linguistiche diverse in Italia avviene nel X secolo, mentre in altri luoghi avviene anche prima, a partire già dal VII secolo. L’Appendix Probi (appendice alla grammatica di quello che si credeva Probo risalente al III-IV secolo) presenta le varie forme utilizzate dagli studenti corrette con la forma corretta → testimonianza dell’evoluzione del latino, visto che i bambini scrivevano ancora quello che sentivano (es. speclum vs. speculum; veclus vs. vetulus; virdis vs. viridis; colomna vs. columna; torma vs. turma; solia vs. solea; vinia vs. vinea). Le fonti del latino volgare Il latino volgare è testimoniato dalle iscrizioni murarie, dai glossari in cui spesso si riportava anche la forma del parlato per chiarire la forma latina (es. pulcher glossato con bellus, cano con canto dalla forma intensiva del verbo cano, cecini, cantum; hic con questo, da iste che sosituì hic perché troppo breve) → spesso le forme più particolari e irregolari sono semplificate. Altra fonte sono le lettere e scritture private, che mostrano un latino non letterario → già Cicerone dice di scrivere nelle lettere non in forma particolarmente colta, tant’è che usa grecismi e volgarismi. Abbiamo anche lettere di persone non colte, come per esempio soldati o altre persone che usavano il volgare abitualmente. Importante anche i testi letterari mimetici del parlato, come le commedie antiche o il Satyricon di Petronio. Importante anche la letteratura cristiana, in cui veniva usato un latino pescatorum, quindi il latino semplice dei pescatori. Gli stessi testi sacri (es. Vulgata) documentano un latino lontano dal latino classico: paratassi e lessico connotato con molti grecismi assenti invece nel latino istituzionalizzato. Nella Pregrinatio Egeriae vediamo bene molti tratti del latino volgare parlato nel III-IV secolo. Anche la letteratura tecnica presenta una latino corrente ricchissimo di tecnicismi, ma comunque con una forma non corrispondente a quella classica. Anche le grammatiche sono fonti importnati, visto che spesso riportavano le forme errate corregendole (es. Appendix). Pesto nella sua grammatica presenta la monottongazione parlando dell’orata, il cui nome deriva da aurus, che però è pronunciato oro dai parlanti. 32 Unendo le fonti vediamo alcuni tratti costanti, alcuni anche molto antichi: - perdita delle opposizioni quantitative ⟹ diventa progressivamente più difficile distinguere la lunghezza delle vocali lunghe da quella delle vocali brevi. Visto che questo era un tratto fonologico in latino (distingueva le parole, es. os in Agostino), i parlanti recuperano la distinzione con una distinzione timbrica. Infatti, i vocoidi brevi erano aperti mentre i lunghi erano chiusi → questo tratto viene mantenuto, solo che l’opposizione allofonica del timbro diventa fonologica. La perdita della lunghezza ebbe riscontri anche nella morfologia, visto che spesso distingueva presente e perfetto (es. vĕnit vs. vēnit). Spesso la lunghezza della vocale veniva recuperato con l’allungamento consonantico (es. vēnit > venne) - mutamento della natura dell’accento ⟹ l’accento latino era un accento melodico (la sillaba tonica si distingueva per essere pronunciata con un timbro superiore), mentre nel tempo divenne un accento intensivo (pronunciata con maggiore energia). Questo mutamento ha avuto un importante esito giustificando l’intensificazione dei contoidi che seguivano la tonica (es. di vēnit). L’accento latino non poteva cadere sull’ultima sillaba e non poteva risalire oltre la terzultima sillaba e questo dipendeva dalla lunghezza della penultima (eccezione per ossitonia secondaria). La legge della baritonesi e del trisillabismo non valgono più nel latino volgare e l’accento diventa quindi mobile, potendo risalire oltre alla terzultima e avanzare sull’ultima. I casi principali di mutamento sono per esempio: - contìnĕo (apofonia latina da tĕnĕo) nella 2PS è còntĭnĕs, quindi l’accento è variabile. In volgare l’accento tende a fissarsi su una sillaba per rendere il paradigma coerente - nessi muta+liquida (muta non è sorda, ma si intende un’occlusiva in generale o fricativa labiodentale) non rendevano una sillaba lunga. I volgari tendono a rendere lunga la sillaba preceduta da muta+liquida: ténebras > spagn. tiniéblas - i e e davanti ad altra vocale erano in iato, es. a.rì.e.tem. La i in iato nel tempo divenne un’approssimante venendo letta velocemente diventando arjète. Altro esempio filìolum diventato figljòlo - perfetto 3PP ritrae l’accento, quindi da fecèrunt diventa fècero - perdita dei dittonghi ⟹ i dittonghi più comuni in latino ae, oe, au si monottongano, mentre i più rari (spesso in stranierismi) eu, oi, ui sono spesso scomparsi (ecc. Europa). Il destino dei dittonghi è quindi o monottongarsi o scomparire. La monottongazione di ae è presente già in epoca tardo-repubblicana, infatti diventano ē di timbro aperto [ε:], quindi confondendosi nel tempo con la ĕ, che essendo breve veniva pronunciata aperta [ε]. La monottongazione di oe è presente già in epoca tardo-repubblicana e diventa ē chiusa. La monottongazione di au dà vita a o aperta (VIII secolo), ma già prima i rustici avevano monottongato au in o chiusa (es. cauda > coda con o chiusa). Vediamo quindi due tipologie di monottongazione, una precoce e una più tarda. Questo spiega perché abbiamo oro (o aperta) e non *uoro, che sarebbe il risultato della chiusura precoce di auro e poi del dittongamento di o aperta in uo (vd. lez. 4B). 35 Lezione 4B – Il consonantismo delle latino volgare 11/10/2023 In generale le consonanti all’interno delle parole latine si sono mantenute nella lingue romanze. I fenomeni principali del consonantismo sono: - caduta dei contoidi esposti (m,t,s), anche abbastanza presto - perdita dell’aspirazione - intacco palatale delle velari (g, k > dʒ e tʃ, es. lucem > luce) - evoluzione delle labiovelari (le parole con le labiovelari erano principalmente straniere, es. werra > guerra) - spirantizzazione dell’occlusiva bilabiale sonora - spirantizzazione dell’approssimante labiovelare sonora - sonorizzazione dei contoidi sordi in posizione intervocalica La caduta dei contoidi esposti è un fenomeno molto precoce (III sec. a.C.) già presente presso gli strati popolari della popolazione soprattutto per la m. Essa viene conservata solo in alcuni monosillabi che senza la nasale avrebbero avuto un corpo fonico troppo ridotto. La caduta della s ha lasciato alcuni esiti. Nei nominativi singolari cadeva già abbastanza precocemente, poi con il tempo cadde anche negli altri casi. Si conserva maggiormente nella Romania occidentale, quindi Francia e Spagna. In Italia è scomparsa lasciando alcune tracce. Nei monosillabi si è trasformata in i (nos > noi) o ha generale l’allungamento fonosintattico. (tres capres > tre ccapre). Le parole dell’italiano arrivando dall’accusativo e per il singolare è facilmente dimostrabile (es. orator, oratorem > oratore), mentre per il plurale è più complicato, visto che è più giustificabile se derivasse dal nominativo plurale. Capiamo che il plurale dei nomi femminili in -a deriva dall’accusativo perché la caduta della s ha causato la chiusura della vocale precedente (palatalizzazione), es. capras > capre (a>e). Prove della caduta di t sono già presenti al I secolo a.C. Anche la caduta della t a volte ha creato l’allungamento fonosintattico. 13/10/2023 La perdita dell’aspirazione indicata da h era un suono aspirato (fricativa velare) presente nel latino arcaico, ma poi destinata a scomparire abbastanza presto, come ci dimostrano le parole con la h che possono essere scritte anche senza h (nihil > nīl). La palatalizzazione ha visto le occlusive velari latine diventare in gran parte dell’Italia (ma anche al di fuori) dei suoni più avanzati, quindi palatali (o dentali in altre varietà), es. gelum [g] vs. gelo [dʒ]. In alcuni casi abbiamo il raddoppiamento, nei casi in cui erano seguite da i si dileguano (es. sagittam > sagitta > saitta > saetta; magistrum > magisto > maistro > maestro). 36 In latino il nesso labiovelare poteva essere un nesso primario se presente in latino o un nesso secondario se presente in latino volgare, in un secondo momento. Il nesso gu non era presente ad inizio di parola, quando è presente è perché trascrive parole di origine germanica. Il nesso qu + a si conserva in posizione iniziale e si gemina in posizione interna (es. quattuor > quattro; aquam > acqua). Il nesso qu + vocale diversa da a perde di solito la u (es. quid > qid > qi > che). Il qu secondario (non originale del latino) conserva il nesso labiovelare (es. eccum istum > cuisto > questo ⟹ ecce è la forma del latino classico). Se troviamo esiti diversi dai precedenti, siamo davanti ad un’evoluzione culta. Il passaggio dell’occlusiva bilabiale sonora b occlusiva ad una bilabiale fricativa [β]. L’approssimante labiovelare v [w], tende a diventare una bilabiale fricativa sonora [β]. Questi due fenomeni creano confusione tra b e v creando il cosiddetto fenomeno del betacismo, che ci è documentato dal fatto che nel latino popolare cantavit e cantabit erano scambiati. Come vediamo in un’iscrizione (VI-VII fino a IX sec.) non dicere ille secrita a bboce (non dire le cose segrete ad alta voce). Qui vediamo la forma non+infinito poi delle lingue romanze, ille che fa già da articolo (le) e poi il betacismo della parola vocem, di cui viene anche segnalato l’allungamento fonosintattico causato dalla caduta della d di ad. Le consonanti occlusive in posizione intervocalica hanno di norma un indebolimento articolatorio, anche se bisogna distinguere tra Romania orientale e occidentale. Nella Romania orientale e sotto la linea La Spezia-Rimini tendono a rimanere sorde, mentre nella Romania occidentale e sopra la linea abbiamo la sonorizzazione e/o la spirantizzazione (diventa sonora e poi fricativa). L’italiano ha esiti duplici, quindi in alcuni casi abbiamo sonorizzazione come nell’Italia settentrionale, negli altri la consonante sorda come nell’Italia meridionale. Questo esito duplice fu causato dai molti mercanti che si recavano in toscana portando la sonorizzazione delle consonanti, che originariamente si pensa fossero tutte sorde. Es. ripam > riba > riβa > riva lacum > lagu > lago stratam > strada matrem > madre I nomi dei luoghi di solito sono conservativi e i nomi dei luoghi toscani non mostrano in genere sonorizzazione, per questo si crede che originariamente fossero tutte sorde (es. Paderno al nord, Paterno in Toscana). Lo jod e i nessi con jod presentano alcune caratteristiche specifiche. L’approssimante palatale [j] viene pronunciata sempre con un’intensità maggiore fino a dare diversi esiti. In posizione iniziale o interna intervocalica abbiamo un’affricata palatale. Quando lo jod è legato ad una consonante, essa può avere esiti diversi: - sapiat > sapjat > sappia - habeat > habia > abjat > abbia Vediamo che il nesso con jod quindi può causare l’allungamento della consonante in sede intervocalica. In alcuni casi abbiamo anche l’intacco palatale, es. facio [fakio] > facjo > faccio [fattʃo]. 37 L’esempio di calceam > calza è interessante perché vediamo che non è possibile solo l’esito palatale (più frequente), ma anche l’esito di un’affricata dentale, probabilmente di provenienza settentrionale: calceam > calcia > calcja > calza [kaltsa]. Nel latino medievale spesso si scambiavano ci con ti [tsi]. Vediamo un esito con nasale palatale come tinea > tinja > tigna. Quando abbiamo il nesso laterale + jod, dà come esito una laterale palatale [ʎ]. Il nesso vibrante + jod in toscano dà solo jod facendo cadere la vibrante, es. notarium > notaio. Altro esito in Italia è solo la r. 16/10/2023 Di norma i nessi con laterale si trasformano in jod e l’evoluzione continua come quella di jod, infatti in posizione interna intervocalica si ha l’allungamento, es: - planum > pjanu > piano - capulum > caplum > capjum > cappio→ caduta di u postonica - blasium> bjasium > biagio - fibulam > fibla > fibjam > fibbia - clavem> cjave [kjave] > chiave, dove la h indica il valore palatale della c - speculum> speclo > specjo > specchio - glaream > gjaria > ghiara > ghiaia - ungulam > ungla > ungja > unghia - flammam > fjamma > fiamma - tegulam > tegla > tegja > teglia → ‘teglia’ è un esito anormale, l’esito normale di tegulam sarebbe *tegghia. Abbiamo teglia per motivi sociolinguistici: tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento a Firenze dopo la peste c’era stato un forte inurbamento di rustici (portatori di una varietà stilistica diversa), che presentavano la variante -ghi (esito del nesso -gj-), quindi dicevano parole come ‘figghio’ per ‘figlio’. Dal momento che questa pronuncia non piaceva si decise di correggere le parole che avevano assunto quella forma, il problema però fu che anche i -ghi che non dovevano essere corretti vengono corretti dando esito a parole come teglia → esito di ipercorrettismo. 40 I tratti non tosco-fiorentini dell’italiano 1) metafonesi La metafonesi è un fenomeno diffuso in tutta Italia (tranne Firenze) per cui una o oppure una i in sede finale incide sulla vocale tonica. Questo è un fenomeno di armonia vocalica a distanza. es. longum > luongo (anafonesi) > lungo (nell’Italia meridionale si può avere luonguo perché in latino era presente la u) cappellum > cappiello (no dittongazione a Firenze perché sillaba chiusa) > cappello rossum> russo rossi > russi Vediamo quindi come la dittongazione c’è in tutta Italia, ma a Firenze essa è spontanea, mentre nel resto di Italia è metafonetica 2) fenomeni generali (vocalismo e consonatismo) - aferesi → es. luscinolum > usignolo (discrezione dell’articolo) - epentesi → es. Iohannes > Giovanni vidua > vedova Paolo > Pagolo - prostesi → es. scriptum > iscritto - epitesi → es. d eufonica in fonosintassi, es. ed Elena 41 Lezione 6B – La morfologia del nome 17/10/2023 Nel latino volgare troviamo due tendenze fondamentali: 1) le cose irregolari vengono messe a norma 2) ciò che veniva espresso attraverso la morfologia viene espresso attraverso costrutti che poi si morfologizzano Queste due tendenze interagiscono fino a fondare una morfologia molto diversa, cioè quella del latino volgare. Cambiamenti principali dal latino classico al latino volgare: - perdita del neutro Il latino aveva tre generi: maschile, femminile, neutro. Il genere neutro poi cade completamente, infatti in italiano non esiste. La maggior parte dei nomi neutri latini passa nel latino volgare a maschile. Tuttavia, vi è un certo numero di neutri plurali terminanti in -a (es. folia, pecora, mirabiliaecc.), che in origine erano neutri plurali, diventano femminili singolari (foglia, pecora, meraviglia), ma che hanno funzione di nomi collettivi. Relitti in italiano di questo fenomeno sono alcuni nomi che hanno duplice terminazione, es. braccia e bracci, fondamenta e fondamenti, ecc. Nell’italiano antico abbiamo anche i plurali in -ora (es. tempora) che però oggi si sono estinti e sopravvivono solo in alcuni dialetti - scomparsa della flessione causale In latino vi erano sei casi che indicavano funzioni semantiche diverse, ma con il latino volgare i casi scompaiono e solo in alcune aree rimane una flessione casuale di nominativo e accusativo. Nei nomi imparisillabi della III classe sono i nomi all’accusativo/ablativo ad andare avanti, fino a giungerci solo quelli all’accusativo da cui derivano le parole dell’italiano. Per recuperare la funzionalità che avevano i casi si utilizzano questi espedienti: o l’oggetto diretto si trova tendenzialmente a destra del verbo o vi è un meccanismo secondo cui i casi sono distinguibili da gruppi di preposizioni + nome (es. genitivo: preposizione di + nome). Le proposizioni vengono dunque conservate e assumono delle trasformazioni, mentre altre si formano ex novo (es. da si forma da de+ab), altre preposizioni cadono (es. ob) Anche se scompaiono i casi e l’unico a proseguire è l’accusativo, rimangono alcuni relitti derivanti da altri casi, es. dal genitivo illorum > loro, candelarum > candelora dal nominativo draco > drago, rex > re, homo > uomo, mulieber > moglie, sartor > sarto, latro > ladro Per il plurale c’è più difficoltà: 1) possibilità che continui il nominativo al plurale e non l’accusativo es. rosae (I delcinazione) > rose 2) possibilità che continui l’accusativo plurale sigmatico es. rosas > rose → caduta della s e chiusura della a in e 42 - riduzione del numero delle classi flessive In latino classico i nomi erano divisi in cinque classi flessive, come nell’italiano i nomi vengono inseriti in classi sintattiche. Le classi più forti erano la I, la II e la III: erano quelle con più nomi e meglio organizzate; poiché la IV e la V classe del latino erano anomale e cedono i propri nomi alle altre classi: o i nomi della I classe, della IV classe e la V classe passano alla I classe volgare (es. sostantivo V declinazione rabies > rabbia). o la II classe volgare includeva i nomi maschili, neutri e femminili (quelli che indicavano le piante, es. fagus > faggio) della II classe e i nomi della IV classe (es. fructus con plurale fructi) o nella III classe volgare finiscono i nomi della III declinazione - formazione dell’articolo Vi sono poi in volgare novità che in latino non esistevano, es. l’articolo. Infatti, anche unus era inteso non come articolo ma come numerale. Gli articoli si formano per indebolimento semantico del numerale e dei dimostrativi a seconda delle lingue romanze. Già Cicerone utilizzava nelle epistole unus come articolo (unus pater: un padre), ma poi si diffonde negli autori cristiani fino a diventare una consuetudine. Vi erano poi gli articoloidi documentati dal latino tardo, es. nella Bibbia compare illis come prossimo al nostro ai→ illis non è più un dimostrativo. Inoltre, illum/a si può trovare in tutte le posizioni e forma lo e la. Successivamente lo seguiva una parola che iniziava per consonante si forma la forma il. Dopo consonante lo va bene, ma dopo vocale lo tendeva a ridursi a l a cui poi viene aggiunta la vocale i davanti, quindi lo > l > il (es. mirare lo sole > mirare l sole > mirare il sole). La distribuzione delle due tipologie di articolo è stata riconosciuta dal filologo tedesco Gröber, quindi per questo è chiamata legge di Gröber. Le cose poi cambiano perché la differenza dell’articolo cambierà in base al suono che segue. Guardando i singoli casi: o il maschile ‘lo’ deriva da illum con aferesi della prima parte o il femminile ‘la’ deriva da illam con aferesi della prima parte o il femminile plurale ‘le’ deriva da illae oppure illas con aferesi o il maschile plurale ‘gli’ deriva da illi con aferesi con intacco palatale, sviluppo dalla forma antica li davanti a una vocale: li + vocale > gli, che poi sarà semplificato anche in i in alcuni casi - comparativo analitico In latino il comparativo era flessivo, ma queste forme avevano una debolezza intrinseca: erano corte e potevano essere confuse con altre togliendo la parte finale → si formano delle varianti analitiche: magis altus (prima forma che si afferma) e poi plus altus (forma più tarda che si afferma) → si passa da un comparativo sintetico ad un comparativo analitico. Sopravvivono poche forme della forma latina, es. maiorem > maggiore, peiorem > peggiore 45 I tempi dell’indicativo presente I CONIUGAZIONE (cantare, forma intensiva di cano) canto > canto cantas > canti sarebbe cante, documentato nell’italiano antico cantat > canta cantamus > cantiamo anche se sarebbe cantamo (documentato), tuttavia a Firenze si impose nel ‘200 una forma analogica esemplata sul congiuntivo presente di II e IV classe cantatis > cantate cantant > cantano in italiano c’è cantano con l’epitesi della o desinenziale. L’esito normale sarebbe la caduta della nasale e che darebbe canta (III e VI sarebbero uguali, cosa che accade in alcuni dialetti settentrionali). L’inserimento di o è stato facilitato da una complessa serie di analogie, come sono da sum, ma così la 1PS e la 3PS/3PP avrebbero la stessa terminazione. Più tardi si afferma a Firenze (400- 500) la forma analogica assimilata cantono (forma soprattutto senese) II CONIUGAZIONE (muovere, da moveo) moveo > muovo moves > muovi regolare, la perdita della s causa la chiusura di e > i movet > muove movemus > muoviamo vd. sopra movetis > muovete movent > muovono vd. sopra IICONIUGAZIONE (scrivere, da scribo) scribo > scrivo scribis > scrivi regolare, la perdita della s non ha effetto scribit > scrive i > e dopo la caduta della t (forse anche per analogia) scribimus > scriviamo vd. sopra scribitis > scrivete scribunt > scrivono vd. sopra 46 IIICONIUGAZIONE (sentire, da sentio) sentio > sento si parte da forme volgari senza più jod sentis > senti regolare, la perdita della s non ha effetto sentit > sente i > e dopo la caduta della t, anche per analogia della II sentimus > sentiamo vd. sopra sentitis > sentite sentiunt > sentono vd. sopra Dai verbi monosillabici (es. sto e do) si formano per analogia le forme di alcuni verbi plurisillabici sto sto do do stas stai das dai stat sta dat dà stamus stiamo damus diamo statis state datis date stant stanno dant danno vado vo (vado) facio fo (faccio) sapio so vadis vai facis fai sapis sai vadit va facit fa sapit sa vadimus (andiamo) facimus facciamo sapimus sappiamo vaditis (andate) facitis fate sapitis sapete vadunt vanno faciunt fanno sapiunt sanno In questi esempi vediamo che il verbo vadere in italiano ha un paradigma irregolare a causa del supplettivismo che caratterizza questo verbo → abbiamo forme derivanti tanto dal verbo vadere quanto da un verbo derivante forse da ad+natare. Vediamo poi che nella 1PS spesso nell’italiano abbiamo le forme più vicine al latino, anche se sono attestate le altre (vo, fo). Questo modello è seguito anche dal verbo avere, che deriva dal verbo habeo latino. habeo ho habes hai habet ha habemus abbiamo habetis avete habent hanno 47 I tempi dell’indicativo imperfetto Nell’imperfetto le regole delle desinenze in italiano sono le medesime del presente (-vo, -vi, -va, -viamo, -vate, -vano). Importante notare che fino all’Ottocento la 1PS dell’imperfetto terminava in -va, anche se poi con Manzoni questa forma viene sostituita dalla forma del fiorentino argenteo -vo anche per evitare fraintendimenti tra 1PS e 3PS. cantabam > cantavo movebam > muovevo cantabas > cantavi movebas > muovevi cantabat > cantava movebat > muoveva cantabamus > cantavamo movebamus > muovevamo cantabatis > cantavate movebatis > muovevate cantabant > cantavano movebant > muovevano scribebam > scrivevo sentiebam > sentivo scribebas > scrivevi sentiebas > sentivi scribebat > scriveva sentiebat > sentiva scribebamus > scrivevamo sentiebamus > sentivamo scribebatis > scrivevate sentiebatis > sentivate scribebant > scrivevano sentiebant > sentivano 50 Tant’è amara che poco è più morte; ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai, dirò de l’altre cose ch’i’ v’ ho scorte. - tant’: da tantum - amara: da amara - poco: da paucum, con chiusura del dittongo - più: da plus, con nesso con laterale che diventa jod, la s finale cade dando origine all'allungamento - morte: da mors, mortis, che non dittonga perché è in sillaba chiusa - ma: da magis, ma è un monosillabo forte che provoca allungamento - trattar: da tractare, intensivo di traho, con troncamento - ben: bene troncato - i': riduzione in protonia di io, da ego > eo > io - vi: da ibi con spirantizzazione e poi aferesi - dirò: dicere habeo, futuro perifrastico, anche se ci aspetteremmo *dicerao - de l': poi diventato dello, da de+illum, qui è scritto con una grafia che non rispetta la fonetica, è una forma conservativa dal punto di vista grafico - altre: da alteras - ho: da habeo con sincope, ci aspetteremmo abbio, un hapax dantesco è abbo, ma è una forma durissima per cui il Bembo se la prende. ‘ho’ deriva dall'analogia per le forme come ‘sto’, ‘do’ - scorte: da *excorrigere > *excorgere > scorgere, da excorrectas > scorte 51 Lezione di Alessandro Canazza: Il Viaggio per l’Italia di Giannettino di Collodi. Un itinerario di ricerca 07/11/2023 Carlo Lorenzini, in arte Collodi, nasce a Firenze nel 1826. Visse a Collodi per diversi anni insieme ai nonni, poi va a Firenze per studiare grazie all’appoggio della famiglia a cui attendeva il nonno. Collodi era un liberale-democratico, partecipa alle due guerre d’indipendenza, addirittura falsificando la propria data di nascita per potervi partecipare. Negli anni ’50 inizia la sua attività di giornalista con il giornale «Il Lampione», nato durante il biennio democratico a Firenze. Partecipò anche all’attività del «Fanfulla». Oltre a giornalista, fu anche scrittore, drammaturgo e critico teatrale. Ricoprì alcune cariche nell’amministrazione provinciale fiorentina tra gli anni anni ’60 e ’80. Muore nel 1890 a Firenze per infarto davanti alla porta di casa. La sua carriera di scrittore inizia negli anni ’70 grazie alla collaborazione con la casa editrice Paggi, che cederà la propria attività alla famiglia Bemporad. Da questa casa editrice nascerà Giunti. L’attività di scrittore per l’infanzia inizia con la richiesta di Paggi di pubblicare la traduzione di alcune favole francesi → I racconti delle fate (1876). Nel 1877 pubblica il Giannettino, con protagonista uno studente svogliato, modello del futuro Pinocchio. Quest’opera serviva a spingere i piccoli lettori a conoscere diverse discipline, a ciascuna delle quali è dedicata un’opera → i Giannettini, che iniziarono ad essere pensati come libri scolastici a partire dal 1883. Nel 1868 Collodi viene nominato membro straordinario della Giunta per la compilazione del vocabolario dell’uso fiorentino, un progetto iniziato da Manzoni, che voleva basarsi sul fiorentino dell’uso vivo. Il mezzo di diffusione che era stato pensato era la pubblicazione di un vocabolario. Il viaggio di Giannettino era formato da tre volumi (Italia superiore, Italia centrale, Italia meridionale) e serviva a insegnare agli studenti le caratteristiche del neo-paese unificato. In questo percorso vediamo che è lo studente ad essere al centro dell’insegnamento (impostazione puerocentrica). Il volume unico venne stampato da Bemporad nel 1902. Collodi copia in parte le informazioni delle Guide Baedeker, anche se spesso inserisce informazioni provenienti dalle persone del posto, che davano consigli e protestavano su alcuni errori (es. questione dei fossati di Udine). Un importante correttore degli scritti di Collodi è Carrara, che fa anche correzioni molto minute, tenute conto per la seconda edizione. Nella lettera a Ferdinando Martini (direttore del «Fanfulla») dice di scrivere alla buona come parla (usa scrivo anziché scrive forse per sottolineare quel che sta dicendo). Poi afferma di usare il fiorentino non per qualche assunto ideologico, ma perché è toscano. Non si può dire quindi se Collodi fosse manzoniano, anche se sicuramente rappresentava un livello di fiorentizzazione molto alto e questo era dedicato alla letteratura per l’infanzia per educare e abituare i piccoli. Vediamo in Collodi l’uso dei pronomi obliqui di terza persona singolare con funzione di soggetto, una forma presente anche nella Quarantana di Manzoni. Poi abbiamo anche l’imperfetto indicativo in -o, non più in -a. Questo però non viene visto nella Grammatica, dove invece abbiamo entrambe le forme con quella in -a che viene prima. Abbiamo poi anche toscanismi e locuzioni tipiche. 52 Le avventure di Pinocchio erano state pubblicate in puntate dal luglio all’ottobre del 1881 su un giornale per bambini. Il capitolo XV doveva essere l’ultimo, ma per motivi economici Collodi riprende la storia terminandola con il capitolo XXXVI nel gennaio del 1883. Nel giro di un mese tutta la storia venne raggruppata in un unico volume con anche delle illustrazioni. Nell’assemblare l’edizione critica nel 1983 da parte di Ornella Castellani Polidori ci si chiese se si dovesse tener conto dell’ultima edizione del 1890 oppure la prima del 1883 (E1). Infatti, secondo gli studiosi solo la prima edizione fu curata da Collodi stesso, mentre le altre no, dal momento che si era disinteressato alle nuove edizioni fino alla quinta del 1890. Alcuni esempi sono: 1. cap. VI “nottataccia d’inferno” o “nottataccia d’inverno” presente in E1 e solo qui → sicuramente si preferisce la lectio difficilior ‘inferno’ presente nelle altre edizioni. 2. cap. XXXVI “aiutatevi”, che però nella V edizione sarebbe “aiutatemi”. In questo caso prende in considerazione anche l’autografo in cui c’è “aiutatevi”. In questo caso preferisce la forma delle altre edizioni e non della prima grazie all’autografo → mette al centro il padre, non più se stesso. La Castellani Polidori in un articolo del 2006 afferma che secondo lei Collodi sarebbe intervenuto anche sulle altre edizioni (oltre agli esempi precedenti). Se si tengono in conto le correzioni apportate nelle varie edizioni del Giannettino si vede bene la corrispondenza della ratio utilizzata per le correzioni in Pinocchio. Un caso di correzione è quello di togliere quelle forme più colloquiali (es. messa su > istigò, la piazza la ribatezzarono > la piazza fu ribatezzata,). Un altro è quello di spiegare alcune parole o comunque di semplificare alcune forme visto che era un testo per bambini e bisognava in qualche modo diminuire la letterarietà del testo (es. equestre, ossia a cavallo; a motivo che > perché). In alcuni passi vediamo che viene aggiunto il fatto che l’informazione è di seconda mano, quindi il protagonista lo ha sentito da un altro. 55 Nell’ipotesi chomskyana il sistema computazionale-linguistico porta alla formazione di frasi che possono essere modificate per spostamento di costituenti e possono essere riportate ad una struttura fissa → struttura profonda e struttura superficiale. Il meccanismo delle strutture profonde e delle strutture superficiali rende conto anche delle ambiguità che si presentano in una lingua. es. una vecchia porta la sbarra L’idea della struttura profonda serve quindi a evidenziare l’ambiguità che si presenta nella struttura superficiale. Quindi la struttura profonda si basa su come riscrivo la frase usando i sintagmi, ovvero un insieme di parole che hanno un significato specifico → se cambio la disposizione cambio il significato. Il motore linguistico computazionale si suddivide in componenti vari e il principale è il componente sintattico, che si compone di: - sottocomponente di base (non genera frasi, ma solo strutture di frase) - struttura profonda → componente semantica - sottocomponente trasformazionale - struttura superficiale → componente fonologica Possiamo quindi immaginare il motore linguistico computazionale in questo modo: significati > morfologia inerente > sintassi > morfologia strutturale > fonetica > suoni Vediamo quindi che nel linguaggio ci sono alcuni elementi morfologici (tempo, modo, numero, ecc.) che sono indipendenti dalla sintassi, altri che invece entrano in gioco solo in seguito alla sintassi della frase. es. due gatti bevono il latte - due gatti = sono io che voglio dire che sono due, è stabilito a priori - bevono = assume la 3PP perché dipende dalla sintassi, in quanto il soggetto è plurale - il latte = in una lingua come il latino avrebbe l’accusativo, tratto che assumere solo in seguito alla sintassi La struttura della frase SVO però è dipendente dalla lingua, quindi è una struttura profonda. 56 La teoria di Chomsky è quindi: - generativa: perché la teoria di una lingua secondo Chomsky spiega come si formino frasi sempre nuove partendo da alcune strutture - trasformazionale: perché una frase può essere trasformata spostando gli elementi o cancellandoli - sintattocentrica: è la sintassi a determinare la struttura della frase - innatista: il funzionamento del motore linguistico è depositato nella mente-cervello - della competenza: vuole spiegare la nostra competenza linguistica - internalista: non si cura degli elementi sociali che influenzano la lingua, si occupa solo della grammaticità dei costrutti - della grammaticalità: una teoria che spieghi la grammatica della lingua Vediamo poi che alla base della teoria di Chomsky abbiamo: - universalità del linguaggio - universalità e uniformità del sistema computazionale del linguaggio - le regole dipendono dalla struttura (SN, SV) e dalla categoria (nome, aggettivo, verbo, ecc) - le regole hanno funzionamento sintagmatico (una struttura può allargarsi all’infinito) - le regole hanno strutture gerarchiche - le regole possono essere ricorsive, ovvero sono potenzialmente ripetibili Le regole dipendono dalla struttura e dalla categoria perché quando poniamo una regola grammaticale non ci si può esimere dal coinvolgere una categoria grammaticale e non si deve ragionare sulla singola parola, ma sull’intero sintagma La ricorsività delle regole è dimostrabile dalla regola merge o regola di riscrittura, ovvero una regola della UG per cui un sintagma di ordine superiore è formato da sintagmi di ordine inferiore. SN + SPred > F Dert + N > SN (il ragazzo) Prep + SN > SPrep (del ragazzo) SN + SPrep > SN (il ragazzo della cugina) Vediamo quindi come le regole possono essere ripetute all’infinito (ricorsività) 57 Lezione 2C – Il modello lessicalista; frase, sintagma e parole; la valenza; accordo e reggenza 23/10/2023 Un altro modello per l’analisi del linguaggio è il modello lessicalista, sviluppatosi negli anni ’80. Questo è un modello speculare a quello di Chomsky, parte dallo sviluppo della linguistica dei corpora, ovvero una raccolta di database che forniscono lessico e regole grammaticale: in base a quali parole occorrono e come occorrono si crea la grammatica → ci si focalizza sul lessico e sulla sua distribuzione. Quella che viene a crearsi è una grammatica concettuale, quindi prima si danno le definizioni dei concetti, poi si passa alle strutture vere e proprie. Anche la lingua è vista come un’acquisizione di strutture lessicali preconfigurate che vengono poi riassortite nelle enunciazioni. Un enunciato è una frase che fa riferimento ad un contesto ben preciso → un enunciato può anche essere una frase, ma non necessariamente, è un’unità della conversazione pratica. La grammatica secondo i lessicalisti viene dopo la pratica, dopo gli enunciati e si crea più spesso nelle lingue scritte. Nel modello lessicalista abbiamo quindi un lessico grammaticalizzato, non una grammatica lessicalizzata (Lewis, 1993). Questo è totalmente opposto a quanto pensava Chomsky, che invece presupponeva all’esecuzione l’esistenza di una grammatica nella nostra mente, da cui poi si estraeva il lessico. La linguistica dei corpora ha fatto notare fatti che prima sfuggivano all’attenzione degli studiosi, ovvero che le parole tendono a disporsi nella frase in un certo ordine, ma tendono anche a creare rapporti di co-occorrenza con altre parole in alcuni casi: due o più parole tendono a co-occorrere più frequentemente della media → in questo caso abbiamo una collocazione, in cui si distingue una base e un collocato (che cambia). Alcuni casi di collocazione sono per es. fare la doccia, perdere tempo, prendere tempo, prendere una decisione, dare inizio, ecc. Le collocazioni si specializzano spesso nell’espressione di un concetto che possono diventare anche rigide passando alla categoria delle parole polilessicali o polirematiche, ovvero parole formate da più lessemi di cui non ci si concentra più tanto sui significati delle singole parole o del perché queste parole sono messe insieme, ma solo sul significato del loro insieme, es. topo di biblioteca (nome), essere al verde (agg), anima gemella (nome), acqua e sapone (agg), a fior di pelle (avv) ecc. Vediamo che le parole polirematiche possono assumere anche diverse funzioni grammaticali. La frase, il sintagma e la parola La grammatica a cui siamo abituati è una grammatica frasale, quindi una grammatica che pone i suoi confini nella frase. Questo è un modello di grammatica che si usa fin dall’antichità, già Aristotele. Però non è l’unico modello, visto che possiamo avere una grammatica basata sugli enunciati (come nel modello lessicalista) o grammatiche basate sui testi, visto che la grammatica dei testi è diversa da quella frasale. Infatti, non si prende il significato di un testo dalla semplice analisi delle frasi, ma grazie ad un criterio superfrasale → le regole che vengono applicate a volte non stanno solo all’interno della singola proposizione. La frase diventa quell’insieme di oggetti, tra cui persistono dei rapporti dettati dalla grammatica. L’enunciato è un’unità dell’interazione comunicativa, attiene alla grammatica, es. buongiorno!. La proposizione ha a che fare con la struttura logica delle frase, quindi diventano importanti la predicazione del verbo e gli oggetti che il verbo lega, es. il cane morde il gatto, vediamo un verbo 60 Vediamo quindi che un testa verbale richiede un certo numero di argomenti, determina il ruolo tematico di questi argomenti e richiede che essi appartengano ad una classe lessicale precisa. Le teste predicative possono anche non essere dei verbi, es. Lucia saluta il papa può diventare il saluto di Lucia al papa. Accordo e reggenza L’accordo è la marcatura coerente di due elementi linguistici all’interno della frase. Ciò vuol dire che i due elementi linguistici hanno i medesimi tratti lessicali. Il soggetto di una frase concorda sempre con il verbo. La reggenza è il fenomeno per cui un costituente presenta un tratto grammaticale perché si trova in una posizione in cui lo deve presentare, es. I love him accusativo ≠ da he nominativo 61 Lezione 3C – La teoria x-barra 24/10/2023 Le strutture sintattiche sono un’organizzazione di elementi etichettati dal punto di vista categoriale, che si uniscono in gruppi che possono contenere altri costituenti. Le strutture possono essere rappresentate dagli indicatori sintagmatici o dalla parentesizzazione etichettata. Negli indicatori sintagmatici vediamo dei nodi da cui partono alcuni rami. Ciascun nodo è una struttura di contenimento, quindi il numero di rami da un nodo è ipoteticamente infinito. In basso abbiamo solo i singoli elementi. Quando si identifica la funzione della testa di un sintagma (di un nodo), capiamo anche la natura del sintagma stesso, es. [gli spaghetti] può essere sostituito da un nome, quindi sarà un SN [in salotto] può essere sostituito da lì per esempio, quindi sarà un SPrep, non è il nome l’importante, ma la preposizione Ci sono alcune ristrizione della teoria x-barra: - da un nodo escono solo due rami, detta restrizione binaria (Chomsky) - un ramo non ne incrocia mai un altro La restrizione binaria venne introdotta da Chomsky anche per spiegare meglio la teoria innatista, poiché sennò sarebbe troppo complicato per un bambino imparare delle strutture troppo complicate. La teoria x-barra ha alcuni principi cardine: - principio di uniformità delle categorie Tutte le categorie proiettano strutture uniformi (tutti i sintagmi hanno la medesima struttura) → qualsiasi sintagma (indipendentemente dalla categoria a cui appartiene) avrà la medesima struttura schematica. Vediamo sempre una testa del sintagma e una serie di modificatori, che si dispongono a sinistra con lo specificatore (quello che modifica tutto il resto) e a destra (quello più legato al tema), ovvero il complemento, quello più legato al tema. Esso viene rappresentato da un nodo X’ (x barra). Se abbiamo bisogno di un ulteriore modificatore avremo un aggiunto, che consiste in un raddoppiamento del modello x-barra del complemento. Ovviamente non è detto che tutti gli slot debbano essere riempiti. es. mangia (x) → la pasta (x’, complemento), con la forchetta (x’, aggiunto), ecc. La ramificazione con soggetto a sinistra e oggetto a destra è tipica dell’italiano e di altre lingue, ma non sempre abbiamo questa tipologia di ramificazione. Notare poi che una frase normale non avrebbe questa disposizione, la rappresenteremmo come un composto di SN e SV. Qui sembra che noi stiamo analizzando lo schema come se avessimo un VP con verbo all’infinito, non una IP (Inflection Phrase) in cui vedremmo modo, tempo e persona del verbo. 62 - vincolo sulla costituzione categoriale del sintagma Un sintagma è una proiezione massimale di una certa categoria, che è rappresentata dalla testa. Se io scelgo una testa di categoria N, la proiezione massimale dev’essere un sintagma NP, se scelgo una testa V, la proiezione massimale sarà un VP (come detto prima). Una proiezione massimale è dunque il nodo più alto (X’’) proiettato da una testa X. 25/10/2023 Quando noi dobbiamo raffigurare con un indicatore sintagmatico un sintagma dobbiamo procedere in un determinato modo. Se prendiamo il SV (VP) “tutti leggono i libri”, noi dobbiamo rappresentarlo come se fosse “tutti leggere i libri”, quindi non dobbiamo rappresentare la frase con le reggenze → abbiamo bisogno solo della struttura argomentale. leggere > V bivalente: 1) tutti (costituente) → Q (quantificatore come anche alcuni, tre, cinque, ecc.) 2) il libro (costituente) → Det + N Q V Det N TUTTI LEGGERE IL LIBRO Vediamo Q’ che un tempo era indicato Q̄, quindi nodo di primo livello, poi avremmo avuto Q̄̄ per il secondo livello (il nodo QP) → capiamo perché si chiama teoria x-barra. Oggi usiamo quindi Q’ e Q’’. QP è la proiezione massimale del sintagma (sempre far partire dal nodo più alto, quindi direttamente da VP), quindi abbiamo Q, Q’ (che rimarrà vuoto) e la ramificazione dello specificatore da Q’’ (che rimarrà vuota). Da notare che X’ e X’’ non sono la denominazione del ramo dello specificatore o del complemento, le lettere indicano solo i nodi → dire X’’ sarà uguale a dire XP. Sappiamo infatti che non è dimostrato linguisticamente che ogni testa abbia uno specificatore/modificatore e un complemento. Per esempio, a sinistra (specificatore) potremmo avere ‘quasi’, quindi un avverbio che diventerebbe AP (Adverb Phrase). Per il momento diciamo che ‘il libro’ è un SN (NP) che fungerà da V’ (quindi complemento di V). Di N avremo la proiezione massimale, quindi NP, avremo quindi N (libro), che funge da testa, poi ‘il’ che è il Det, che creerà DP (Determiner Phrase). In questo caso non avendo modificatore e complemento possiamo fare un triangolo per indicare la mancanza di altri elementi nel sintagma. NP costituisce il complemento di VP, che è a sua volta un modificatore, perché esso ha un legame con N, infatti “il libro” linguisticamente assume il caso accusativo (che in italiano però non è indicato) dal verbo. VP V QP Q Q’ Q’’ NP N DP N’ V’ 65 Perdutamente innamorato di te da un anno perdutamente innamorato di te da un anno Qui vediamo ‘innamorato’, un aggettivo che deriva dal verbo amare, che è bivalente. Quindi anche l’aggettivo sarà bivalente, per questo abbiamo ‘di te’, che assumerà il caso accusativo. Nel caso dei nomi e aggettivi il caso viene dato attraverso la preposizione ‘di’ → teoricamente ‘innamorato’ dà il caso accusativo a ‘te’, ma questa funzione passa attraverso il ‘di’. Inoltre, capiamo che ‘te’ è complemento dell’AP perché se fosse verbo sarebbe il complemento. Luca mangia la mela La frase presenta il verbo flesso mangi-a, non abbiamo l’infinito → la flessione è una cosa e il verbo è un altra. Stesso ragionamento se avessimo la frase John stopped smoking dove -ed sarebbe il tratto morfologico della flessione del verbo. Questa però potrebbe essere anche John did stop smoking, quindi avremmo ‘did’ che fungerebbe da vettore delle informazioni morfologiche. Quindi dobbiamo trovare un elemento che spieghi la flessione del verbo e il caso nominale del soggetto (Luca). Vediamo quindi la classe lessicale I (inflection), che comprende [+N +P], ovvero numero e persona. Avremo quindi una frase IP (Inflection Phrase), ovvero una frase flessionale. NP AdvP Adv’ PP NP N’ A’ P’ PP NP QP Q’ N’ N N Adv P P Q N P’ 66 Lezione 4C – La teoria x-barra. La rappresentazione di una frase 27/10/2023 Quando rappresentiamo un sintagma verbale lo rappresentiamo come se avesse solo i tratti morfologici inerenti, ovvero i tratti morfologici scelti dalla lingua (fase presintattica). Se un verbo ha bisogno di due argomenti è stabilito a livello presintattico, così anche il tempo e il modo del verbo. L’accordo del verbo invece con il soggetto compare solo in un secondo momento → il soggetto è tale solo se presenta tratti di concordanza comuni al verbo quando è già inserito nella frase. es. Luca mangia la mela / Luca ha mangiato la mela Nei tempi semplici i tratti morfologici vengono legati al verbo, mentre nei tempi composti il tratto morfologico dell’accordo con il soggetto è inserito nel verbo ausiliare (essere o avere). Gli elementi flessivi non inerenti sono i tratti caratteristici della frase perché costituiscono un rapporto tra soggetto e predicato → essi possono essere anche non esplicitati. In mangi-a vediamo che i tratti di 3PS sono dati da -a, mentre in h-a mangiato questo i tratti sono dati dalla -a del verbo avere. Nella frase “voglio che Luca mangi la mela” vediamo che la frase è formata da due frasi. Se noi poniamo la frase senza il completatore che avremo quindi una frase *voglio lui mangiare la mela. In italiano una frase del genere sarebbe sbagliata, abbiamo bisogno che la frase assuma dei tratti morfologici → in questo caso il soggetto della subordinata assumerà il caso nominativo. In altre lingue il verbo della subordinata non fa assumere tratti precisi al soggetto, che rimane in accusativo come se fosse il complemento oggetto del verbo volere. Se in una frase non abbiamo un tempo temporalizzato quindi non abbiamo il soggetto o se lo abbiamo lo abbiamo in una forma diversa dal nominativo, es. accusativo → ingl. I want him to eat the apple. Il soggetto, quindi, è tale se nella frase ci sono dei tratti di accordo e si lega ad essi assumendo il caso nominativo. La rappresentazione della frase Luca mangia la mela vediamo che la testa della frase diventa IP (Inflection Phrase) Luca -a mangi- la mela IP I NP VP V V’ I’ NP N 67 Il verbo ‘mangiare’ è bivalente, quindi nella rappresentazione dovremmo avere Luca a sinistra e poi la mela a destra. Qui però vediamo che Luca non è legato direttamente al VP. Questo succede perché Luca da semplice agente del verbo diventa anche soggetto della frase. Vediamo quindi che il soggetto della frase può essere l’agente del verbo, ma non per forza questo accade sempre. Il concetto di soggetto, quindi, è un concetto eminentemente sintattico → il soggetto è solo ciò che concorda con il verbo, non colui che compie effettivamente l’azione. Quando abbiamo il sintagma verbale quindi il soggetto-agente si trova nello specificatore del VP, mentre quando diventa soggetto diventa specificatore dell’IP → se i tratti concordano con I lo specificatore verrà licenziato come soggetto, mentre se ciò non accade vuol dire che la frase non è grammaticalmente corretta. Perciò, il soggetto è in molti casi agente, ma se vogliamo definirlo sintatticamente bisogna dire che il soggetto è quell’elemento che sta nello specificatore di IP. Vediamo quindi che definiamo il soggetto in termini distributivi, quindi in base a dove si posiziona nell’indicatore sintagmatico. L’IP avrà quindi come specificatore il soggetto e come complemento il VP che apporta nella frase i tratti inerenti (argomenti, modo, tempo). I ragazzi hanno dormito in casa I ragazzi hanno dormito in casa ‘dormire’ è un verbo monovalente, quindi ha solo lo specificatore. Per far capire che ‘a casa’ è un aggiunto dobbiamo identificare il nodo del complemento V’ lasciandolo vuoto e poi metteremo V’ per l’aggiunto, a cui si legherà la proiezione massimale PP. Scriveremo nello specificatore di VP ‘i ragazzi’, anche se poi effettivamente questo costituente si sposta nello specificatore di IP → è necessario sia posto lì per verificare l’accordo con il verbo e quindi assumere il caso nominativo, anche se comunque il ruolo tematico (θ) di quel costituente dato dal VP non cambia, manterrà sempre il suo ruolo theta. Ovviamente il costituente non è presente in entrambe le posizioni, ma d’altra parte lo specificatore del VP non è libero, anche se non è occupato da nulla → traccia della posizione del movimento indicato come tNP (traccia del sintagma nominale), che quindi indica lo spostamento da ruolo di agente di VP a quello di caso nominativo di IP. IP NP I’ VP V’ PP tNP I V P N Det N i ragazzi 70 Lezione 5C – Il soggetto nullo e i complementatori 30/10/2023 Il soggetto nullo Alcune lingue (es. spagnolo e italiano) possono nascondere il soggetto pronominale → lingue a caduta di soggetto pronominale, in inglese lingue pro-drop (pronoun drop). Altre lingue però non hanno questo comportamento (inglese, francese, tedesco). Vediamo quindi che possiamo parlare di un parametro parametrico, ovvero il parametro pro-drop. L’etichetta pro (baby pro ≠ da big pro, PRO) viene usata quindi per le lingue pro-drop per identificare le teste nulle, ovvero le teste che non si vedono a livello superficiale della frase. Questa testa non è nulla in senso assoluto, perché potrebbe essere riempita, solo che non è necessario. Una frase come dice che Lucia mangia in salotto presenta il soggetto sottointeso, quindi è presente a livello profondo. Però la frase oggi ha piuvuto non ha un soggetto sottointeso come nel caso precedente, dato che ‘piovere’ è un verbo zerovalente, quindi privo di argomenti. In italiano abbiamo una situazione in cui il soggetto è nullo ed è anche non argomentale, diversamente dal verbo ‘dire’ che è bivalente, quindi con due argomenti. La stessa situazione si presenta anche in inglese, dove it rains presenta il soggetto a livello superficiale, ma esso non ha una funzione argomentale → soggetto espletivo, quindi un soggetto che serve solo a completare il nodo dello specificatore, che va sempre riempito in struttura profonda (stessa cosa per il pro che inseriamo nello schema dell’italiano se non ha funzione argomentale). Quindi i soggetti in italiano possono essere: - nulli e argomentali (situazione frequente) - espliciti e argomentali - nulli ed espletivi - espliciti ed espletivi (inglese, it rains) Se compariamo questi due indicatori sintagmatici: -a fum- la pipa [+agr] fumare IP c c pro I’ VP tpro V’ NP DP N V I [+agr] IP pro I’ VP V I -e piov- 71 Nel secondo schema vediamo che la posizione del soggetto dev’essere riempita anche se abbiamo un soggetto nullo ed esplitivo. Inoltre, vediamo che il pro non si è spostato dalla posizione SPEC VP a quella SPEC IP perché non avendo un ruolo (non fa da agente), non viene segnato vicino a VP → verbo zerovalente. Vediamo quindi con questo caso la regola d’inserzione dell’espletivo, ovvero che bisogna inserire sempre un soggetto nella posizione di SPEC IP anche quando esso sia espletivo. I complementatori Una proiezione massimale può presentare un argomento (sia specificatore che complemento) come una frase (IP) con l’infinito. Nelle frasi con un’oggettiva con di/che o con un’interrogativa con se (es. Lucia dice che Mario, Lucia dice di, Lucia chiede se) vediamo che ci sono degli elementi immutabili che legano due frasi, una reggente e una subordinata. Dal momento che questi oggetti legano una frase completiva ad una reggente, essi vengono chiamati complementatori. Sono poi stati chiamati complementatori anche altri elementi subordinativi anche se non collegavano frasi completive, ma frasi avverbiali (es. quando, poiché, ecc.). Vediamo nella rappresentazione che CP ha come complemento IP. 72 Nella frase Lucia crede che Mario torni a mangiare vediamo bene che IP è la principale, mentre la completiva è CP. Tuttavia, anche una frase reggente IP è complemento di un CP, che avrà però una testa nulla. Se nella lingua si usano delle particelle per identificare determinate tipologie di frasi, es. latino con num e nonne, che hanno la funzione di identificare la frase che segue come una domanda. In questo caso possiamo legare il num nel CP che regge l’IP della reggente. Questo potrebbe essere anche fatto con il ‘ma’ ad inizio di frase interrogativa in italiano (ma sai se domani si va?). Alcune lingue hanno degli introduttori di interrogativa che non hanno nessuna funzione se non indicare la frase come domanda. Altre lingue come l’inglese modificano la posizione dell’ausiliare, che andrà a sinistra di SPEC IP, quindi in CP, dal momento che indicherà che quella frase è una domanda tanto quanto accadeva con num in latino o gli introduttori di interrogativa di altre lingue. Il modello con CP all’inizio di tutto lo schema quindi serve a rappresentare meglio alcune lingue che hanno un funzionamento diverso da quello dell’italiano, dove in CP possiamo presentare l’interrogativa o l’affermativa come un [±Q], con + se domanda, con - se non lo è. Nelle frasi subordinate in inglese vediamo che nelle interrogative indirette (quindi una subordinata) non abbiamo l’inversione dell’ausiliare come nelle interrogative dirette: I wonder whether Mary would go home late. Non abbiamo inversione perché ‘whether’ si trova già nella posizione in cui si troverebbe ‘would’ se non ci fosse ‘whether’ ad identificare la domanda → il CP è già riempito. Vediamo quindi che fa comodo avere una CP sempre libero per la rappresentazione generale di tutte le lingue → la testa è nulla, ma non vuota. In inglese nel caso di will esso lascia la traccia twill sotto IP e il ‘will’ si sposta sotto CP, es. Will John give the book to Anne? will John twill give the book to Anne CP cc IP NP VP NP PP V I N C tNP (tJohn) C’ I’ V’ V’ 75 Le frasi ridotte Non solo i verbi sono elementi predicativi argomentali, es. saluto (nome) e salutare. Nelle frasi ridotte abbiamo proprio il caso in cui a predicare non è un verbo, bensì un altro elemento. Es. Mario è desideroso di partire → ‘è’ è il veicolo di tratti semantici, mentre ‘desideroso’ mantiene la sua bivalenza derivando dal verbo ‘desiderare’. Vediamo infatti che ‘desideroso’ regge un NP e un CP. Esiste quindi una struttura argomentale, anche se nome e aggettivo hanno bisogno di un mediatore, spesso una preposizione, che può essere un CP (di partire) o un PP (di te). Il caso di ‘è’ solo come veicolo di tratti semantici è legato solo ad alcuni casi, perché nel caso di Mario è a Milano il verbo essere assume anche il ruolo di VP. 03/10/2023 Per il caso di PP possiamo prendere la frase ritengo Dario infatuato di Marcella: [+agr] ritenere Dario infatuato di Marcella CP cc [-Q] I IP cc pro VP tpro AP NP PP NP N P A N V I I’ V’ A’ P’ C’ 76 Struttura e rapporti dei rami Per descrivere la struttura della proiezione massimale si possono usare diversi modelli: - modello proiezione - modello ad albero - modella generazionale - modello del dominio - modello della precedenza - modello del C-comando (1) Se si usa il modello proiezione, si parte dal basso e si va verso l’alto: quindi V è la proiezione zero, V’ è la proiezione uno e VP è la proiezione due. (2) Se si usa il modello ad albero, abbiamo VP come la radice, i nodi intermedi e infine il nodo terminale con V. (3) Se si usa il modello generazionale, abbiamo un nodo padre (V’) e nodi fratelli (V e NP del complemento). (4) Se si usa il modello del dominio, il nodo padre “domina” i nodi figli e domina indirettamente i nodi figli dei suoi nodi figli. Perciò V’ domina V e NP, ma allo stesso tempo anche VP domina V’ e PP, ma anche NP attraverso V’. Quando un nodo è collegato ad un altro solo da rami discendenti è dominato e può esserci un dominio diretto o un dominio indiretto (più rami). (5) Se si usa il modello della precedenza, si ha la precedenza di un nodo che sta a sinistra di un altro senza però dominarlo, es. V precede NP. (6) L’ultima definizione è quella data con il modello del C-comando, ovvero la definizione delle relazioni in base al caso che un elemento assume in virtù della sua posizione e della sua relazione con gli altri elementi. Due costituenti sono legati da relazione C-comando quando: - il primo (A) non domina il secondo - il secondo (B) non domina il primo - il primo nodo ramificante domina il primo (A) ed anche il secondo (B) Per esempio, in V e NP (compl. oggetto) vediamo che le condizioni vengono rispettati e infatti NP assume il caso accusativo perché “comandato” da V. Allo stesso modo si può dire che anche NP comanda V → spesso è reciproco. 03/11/2023 Il C-comando viene dato da un costituente che non ne domina un’altra, es. un V C-comanda un NP (complemento) che assumerà il caso accusativo; contemporaneamente NP C-comanda V. 77 Lezione 7C – Il rapporto tra nome, determinatore e quantificatore; vari tipi di frasi 03/11/2023 Il rapporto tra nomi, determinatori e quantificatori In alcuni casi un NP può avere un determinatore (aggettivo determinativo o un articolo) e in alcuni casi questi determinatori possono fungere anche da pronome. Il DP è una testa particolare visto che non ha dei modificatori e allo stesso tempo riflette alcuni tratti che sono già presenti sul nome. Potremmo allora dire che l’articolo ha un rapporto con il nome simile a quello che IP ha con VP → funge da vettore per il nome visto che veicola alcuni tratti grammaticali di accordo [+agr]. Possiamo quindi considerare DP la proiezione massimale di NP, ma allo stesso tempo possiamo considerare tutto DP con NP che fa da complemento → in questo caso DP diventerebbe una classe funzionale. Un modello del genere ci è utile anche per rappresentare un nome nudo, es. Luca, nel cui DP abbiamo solo i tratti di accordo [+agr] → classe nulla, ma non vuota. Abbiamo poi la possibilità di rappresentare ‘lui stesso’. Anche QP vanno rappresentati come delle teste, quindi con NP come complemento. Se noi prendiamo la frase rappresentata a pag. 73 ritengo Dario infatuato di Marcella e la rappresentiamo nel modo corretto, vediamo che ‘Dario’ non è più un NP, ma un DP con il ramo D che porta con sé solo i tratti di accordo: [+agr] ritenere Dario infatuato di Marcella CP cc [-Q] I IP cc pro VP tpro AP DP NP PP NP N P A N [+agr] V I I’ V’ A’ D’ P’ C’ 80 Lezione 8C – La regola move 03/11/2023 La regola move La regola move (movimento) riguarda lo spostamento dei costituenti, che però non deve violare delle regole già valide. Questo significa che ogni momento dev’essere tracciabile → si deve poter tornare indietro. Noi distinguiamo tra movimenti di sintagmi e movimenti di teste. Un movimento di sintagma lo vediamo con il soggetto posto a sinistra di IP, ma con traccia a sinistra di VP. Altre volte abbiamo lo spostamento solo di una testa, es. will nelle domande. Il movimento delle teste quindi spostano solo le teste. Alcuni movimenti sono indotti dalla ricerca di caso e dalla necessità di verificare la compatibilità di tratti morfologici (es. spec VP a spec IP) → questo è un movimento A. Quando abbiamo un movimento che non va in cerca di caso abbiamo un movimento A’ (non-A). Questa tipologia di movimenti riguardano per esempio il movimento dell’ausiliare in inglese nelle domande oppure il movimento dei costituenti nelle domande non polari, es. quando torni?. Le domande non polari, quindi le domande WH, dette in italiano domande K (suono dei pronomi e degli avverbi interrogativi). es. domani torna Lucia → domani chi torna? → chi torna domani? Nelle domande WH abbiamo lo spostamento verso lo specificatore del CP dell’elemento wh. Questo spostamento però non serve per assumere un caso. es. I will meet him → WH sostituisce I ⟹ who will meet him? WH sostituisce him ⟹ whom will you mett? > vediamo che tiene l’accusativo, quindi non è in cerca di caso 06/11/2023 Movimento Spec VP > Spec IP Se un elemento non può assumere un caso non può essere visibile nella struttura superficiale (es. PRO). Quando non può assumere il caso nominativo, possiamo avere anche l’assegnazione speciale del caso accusativo, ovvero quando un elemento assume il caso accusativo dal verbo, es. I want him to eat the apple ⟹ è come se him fosse l’oggetto del verbo della reggente. Vediamo quindi che un elemento per assumere il caso nominativo dev’essere in una posizione vicina al verbo e non ostacolata. Un altro indizio è dato dalle costruzione con stranding o spiaggiamento, ovvero quelle strutture in cui il soggetto si è spostato, ma ha lasciato un pezzo di sé nella posizione originaria, es. the children have all left o i ragazzi sono tutti andati. Vediamo che ‘all’ e ‘tutti’ (Quantificatore) sono rimasti nella posizione Spec VP, mentre ‘ragazzi’ si è spostato nella posizione di ruolo. È come se l’elemento spostato, anche se non rimane traccia (es. Lucia mangia gli spaghetti) occupa sia la posizione di ruolo che la posizione di caso. Questo è un caso di movimento di costituente e di movimento A. 81 Le tracce e la prova della loro esistenza Vediamo in generale che nella regola move un elemento che si è spostato lascia sempre una traccia di sé (t…). Le tracce sono quindi artifici modellistici molto comodi e possiamo avere prove linguistiche che esse esistano poiché in alcuni casi non permettono alcuni fenomeni linguistici. Es. I want to go home > I wanna go home, ma non potremo trovare I want to him go home > *I wanna him go home. Inoltre, non dobbiamo pensare che basti solo il contatto tra ‘want’ e ‘to’, es. Who do you want to go home non diventa Who do you wanna go home. Vediamo quindi che c’è qualcosa che non rende possibile la fusione dei due elementi. Movimento dell’ausiliare L’ausiliare nelle domande come in inglese può spostarsi da IP a CP, ma quando abbiamo una subordinata interrogativa questo spostamento non è possibile perché CP è già occupato dalla particella interrogativa, es. ‘if’. Un esempio in italiano è: immagino sia lui rimasto ad aspettarci > immagino che lui sia rimasto ad aspettarci, ma mai immagino che sia lui rimasto ad aspettarci. Movimento di WH Noi generiamo una frase rispondendo alle domande di una testa predicale, quindi con un verbo. La grammatica generativo-trasformazionale dà ragione di alcuni fatti con la trasformazione secondo la regola del move. Una frase come Mario beve la coca-cola può diventare una domanda WH → gli elementi WH possono chiedere qualsiasi cosa sulla frase: es. sull’agente (Chi beve la coca-cola?), sul paziente (Mario beve che cosa? > Che cosa beve Mario?). Questi interrogativi stanno esattamente per ‘Mario’ e per ‘coca-cola’. Vediamo nel caso in cui ‘che cosa’ sostituisce ‘coca-cola’ che anche se il costituente viene spostato, non cambia il suo ruolo (rimane paziente) e il suo caso (mantiene l’accusativo). Quindi il costituente si è solo trasformato dal punto di vista formale. Nelle lingue con interrogative non marcate come in italiano il costituente che produce la domande solitamente viene posto nello specificatore di CP così da identificare la frase come domanda. Questo accade anche nelle lingue con interrogative marcate come in inglese, dove abbiamo lo spostamente dell’ausiliare in CP, ma il pronome interrogativo andrà posto in Spec CP. Abbiamo dei movimenti locali, ovvero movimenti in cui un costituente si sposta di poco (es. Spec VP > Spec IP), rimane all’interno della stessa proiezione massimale che lo contiene (IP, VP, ecc). Il movimento di WH è un caso di movimento a lungo raggio, quindi il movimento non all’interno della stessa proiezione massimale. Il WH si sposta sempre dalla sua posizione allo Spec CP precedente fino ad arrivare all’inizio della frase. 82 Luigi regala una mela a Mario 1) WH interroga sul soggetto-agente chi [+arg] regalare una mela a Mario 2) WH interroga sull’oggetto-paziente che cosa Luigi [+arg] regalare a Mario CP WH IP C’ tWH VP tWH’ DP PP I V CP WH IP C’ DP VP tDP PP N I V [+Q] [+Q] I’ V’ V’ V’ V’ I’ tWH 85 Come possiamo bene vedere: - caso n. 1 = il ‘chi’ si riferisce al soggetto di ‘pensare’, quindi abbiamo un movimento a lungo raggio del soggetto in WH - caso n. 2 = il ‘chi’ si riferisce al soggetto di ‘dire’, quindi abbiamo un movimento a lungo raggio con due salti verso WH - caso n. 3 = il ‘chi’ si riferisce al soggetto di ‘tornare’, quindi abbiamo un movimento a lungo raggio con tre salti verso WH In base al caso che prendiamo, gli altri Spec IP e Spec VP presenterebbero pro e tpro e gli Spec CP sarebbero vuoti. Bisogna notare il fatto che il verbo ‘tornare’ è un verbo inaccusativo, quindi ha solo il paziente e non presenta mai l’agente, per questo il tpro o il tchi se ci troviamo nel caso n. 3 passa dalla posizione di paziente di VP a quella di Spec IP. 10/11/2023 La passivazione La passivazione avviene quando un verbo passa dalla diatesi attiva a quella passiva. Es. io insulto Giovanni diventa Giovanni è insultato da me. Vediamo da subito che il costituente della frase attiva che fungeva da oggetto diventa soggetto nella frase passiva e il soggetto della frase attiva diventa il complemento d’agente nella frase passiva. Solo i verbi transitivi possono essere passivizzati e poi il complemento d’agente può anche essere ommesso (il soggetto nella frase attiva scompare al passivo). La frase passiva può essere considerata una regola move visto che c’è un collegamento tra le due strutture → Giovanni resta paziente in entrambi i casi anche se la frase cambia. Questo ricorda molto il passaggio del soggetto da Spec VP a Spec IP. Vediamo quindi che il movimento che avviene causa l’assunzione del caso da parte del costituente spostato (Giovanni), che da accusativo diventa nominativo. I verbi intransitivi non possono essere passivizzati perché non hanno come argomento un oggetto che possa essere spostato per assumere il caso nominativo e il ruolo di soggetto, es. ho danzato non diventa *sono stato danzato. Il cambio di caso (accusativo > nominativo) è necessario, però non si limita solo a cambiare la posizione dei costituenti. Infatti, l’oggetto diventa soggetto, ma il soggetto della frase attiva non diventa l’oggetto. Sembrerebbe quindi che il verbo passivo sia incapace di dare il caso accusativo al soggetto della frase attiva e che il soggetto della frase passiva mantenga il ruolo di paziente come lo aveva quando si trovava con il caso accusativo nella frase attiva → è un verbo inaccusativo. Il costituente (ex soggetto) per essere visibile nella struttura superficiale deve assumere un caso, che è la marca morfologica che consente ai costituenti di essere visibili. Tuttavia, non può assumere il caso accusativo. La posizione di Spec IP nella frase attiva non è vuota, però il soggetto nella frase passiva subisce una demozione, ovvero perde di importanza visto che non è più il tema della frase, che si sposta invece sul paziente nella frase passiva, e potrebbe essere sottointeso nella frase passiva diventando un 86 aggiunto di VP. In questo modo capiamo che quando un verbo muta diatesi assorbe nella morfologia l’agente (l’argomento esterno, Spec VP) → un verbo in forma passiva cambia la sua valenza, quindi da bivalente diventa monovalente. In questo modo la posizione occupata dal soggetto (Spec IP) si libera e così l’oggetto si sposta da complemento di VP a Spec IP, mentre l’agente avendo perso la sua posizione e non esistendo più tale posizione diventa aggiunto di VP → non diventa oggetto perché lì c’è la traccia del soggetto che si è spostato da questa posizione (posizione di ruolo) a Spec IP (posizione di caso) assumendo il nominativo benché rimanendo il paziente della frase. es. io saluto te NOM V ACC tu sei salutato da me NOM V (PREP + CASO IND.) In sintesi la passivazione si svolge in questo modo: l’agente è assorbito dalla morfologia (Spec VP), l’oggetto assume il caso nominativo (Spec IP) e l’agente diventa aggiunto di VP. 87 Verbi a struttura inaccusativa I verbi intransitivi (monovalenti) in italiano mostrano un comportamento superficiale particolare, visto che alcuni hanno l’ausiliare essere altri l’ausiliare avere (es. Mario è arrivato, Mario ha dormito). L’ausiliare essere è lo stesso che viene usato nei verbi in diatesi passiva: possiamo immaginare che esista una relazione tra i verbi in diatesi passiva e gli intransitivi che adoperano il verbo essere. Se in una frase passiva abbiamo il complemento di VP che diventa soggetto, possiamo supporre che il movimento che avviene per i verbi con ausiliare essere sia il medesimo, quindi si sposta un oggetto, non l’argomento esterno (Spec VP). Un verbo con ausiliare essere quindi presenta lo spostamento del soggetto da complemento di VP a Spec IP (complemento VP > Spec IP). Questa ipotesi basata sull’analogia dei due ausiliari (essere per i passivi, essere per gli intransitivi) può essere confermata dalla cliticizzazione del ne. es. ho preso tre libri ⟹ ne ho presi tre. Il ne sostituisce l’oggetto diretto e può cliticizzare solo l’oggetto diretto, mai il soggetto. Lo stesso accadrebbe anche nelle frasi con verbo intransitivo con ausiliare essere, es. sono arrivati tre ragazzi ⟹ ne sono arrivati tre. Ciò però non può essere fatto per i verbi con ausiliare avere come non può accadere per i verbi attivi nel caso precedente. Vediamo dunque che i verbi passivi e i verbi intransitivi con ausiliare essere si comportano allo stesso modo: trattano il loro soggetto come i verbi attivi transitivi trattano il loro oggetto. In questo modo si dimostra che i verbi intransitivi con ausiliare essere sono uguali ai passivi e quindi vengono detti anch’essi verbi inaccusativi: perché non sono in grado di assegnare il caso accusativo ad un oggetto e lo danno invece al soggetto della frase, che è stato spostato dalla posizione di complemento di VP a quella di Spec IP → il soggetto era un oggetto (posizione di accusativo) che si è spostato per assumere il caso nominativo. In questo modo (come nei verbi passivi) il paziente diventa anche tema della frase come avviene nelle frasi passive: ci si concentra più sul paziente, che sull’agente. Il principio di ordine tematico si basa sul fatto che i verbi inaccusativi assegnano al costituente non il ruolo di agente, ma il ruolo di tema-paziente. È come se il soggetto della frase non compiesse l’azione, ma fosse agito da altro (es. i tre ragazzi non sono loro a compiere l’azione, ma sono agiti, per questo assumono il ruolo di paziente, ma essendo l’azione concentrata su di loro sono anche il tema della frase); tuttavia, rimane il tema della frase. 90 I testi hanno una tipologia diamesica precisa, ovvero il canale attraverso cui il testo passa. Un testo può infatti essere: un testo parlato o un testo scritto. La forma scritta è considerata una forma ricodificata della forma parlata. Inoltre, un’altra tipologia diamesica è il testo trasmesso, una tipologia di testo nata con la tecnologia. Nencioni distingue vari tipi di testo ai cui estremi abbiamo un testo parlato-parlato e un testo scritto-scritto. • testi orali I testi orali per quanto riguarda la persistenza e la spazialità sono volatili (non possono essere riprodotti nello stesso modo) e lineari. Il testo deve essere prodotto e fruito in un contesto condiviso (massima efficienza ed efficacia). La risoluzione di un testo orale è bassa, visto che si tende a privilegiare l’economicità degli scambi comunicativi riducendo il numero degli elementi informativi. La portata è limitata, visto che il canale uditivo può veicolare segnali solo a breve distanza. Il testo orale ha una ricchezza alta (anche più di un canale comunicativo e codici diversi oltre a quello linguistico). La relazionalità di un testo orale deve tener conto del fatto che spesso emittente e destinatario si conoscono e quindi sono in grado di entrare rapidamente in conoscenza → il testo orale risulterà essere più egocentrico I testi orali sono caratterizzati dalla prosodia (intonazione, durata, ecc.), da un uso non del tutto corretto della morfologia (es. estensione di alcuni modi e tempi verbali) e della sintassi (es. anacoluti), da una semantica e un lessico generici, da elementi deittici e da una tendenza all’implicitezza. • testo scritto Il testo scritto per quanto riguarda la persistenza e la spazialità è persistente e planare (permette di tornare indietro e poi andare avanti). Il testo scritto non è fruito nello stesso momento in cui è prodotto e l’autore deve agire in maniera proiettiva e rendere quindi il più chiaro e unitario il testo, costruendolo anche con subordinate e frasi più articolate che nel parlato → questo lo fa anche perché non può ricevere un feedback dal destinatario. La risoluzione di un testo scritto è alta, visto che l’autore cercherà di produrre un testo chiaro ed unitario per facilitarne la comprensione. La portata è ampia, dal momento che il canale visivo permette la fruizione di messaggi anche a grande distanza spazio-temporale. I testi scritti sono caratterizzati da un uso corretto della morfologia e della sintassi (ipotattica), visto che gli errori in sede scritta sono meno accettati dal destinatario e maggiormente percepibili. Un testo trasmesso parlato può essere la conversazione telefonica, quindi hanno un carattere dialogico, interattivo, ma non supportato da paracodici come quello cinesico e prossemico. Un testo trasmesso scritto può essere un sito web, mail e i messaggi telefonici. In un sito web vediamo che il testo può essere ampliato con link esterni e la cura ortografica non è sempre rispettata. Anche nelle mail e nella messaggistica troviamo una scarsa pianificazione e immediatezza comunicativa (es. abbreviazione) e inoltre si possono presentare errori di digitazione, mimesi del parlato e artifici come gli emoticons. 91 Un ipertesto è una scrittura non sequenziale che permette al lettore di scegliere il proprio percorso di lettura (Nelson). Inoltre, l’ipertesto è caratterizzato dalla connessione e dalla libertà del lettore di muoversi all’interno dei collegamenti (Landow). Un ipertesto non è lineare, ma planare, è interattivo e multimediale e permette di crearsi un percorso personalizzato. Inoltre, un ipertesto può essere modificato in qualsiasi momento e questo causa la perdita delle forme precedenti ≠ dal libro che una volta stampato per essere corretto dev’essere ristampato, anche se la vecchia edizione rimane. Possiamo avere diverse tipologie di link: - link strutturali (link che permettono di muoversi nelle varie parti del sito) - link associativi (rimandano ad un’altra pagina) - liste di rimandi (alla fine per trovare l’argomento che si stava cercando) Diversamente da quanto si pensa le tipologie di testi esistenti sono di più rispetto a quelli che si conoscono canonicamente, visto che dipendono dal punto di vista che si usa per classificare i testi: - punto di vista funzionale (Werlich) - patto comunicativo (Sabatini) - punto di vista didattico (Manzotti) - tipologia diamesica 1) Werlich – punto di vista funzionale Ci si basa sulla funzione che il mittente affida al suo testo e questa è la classificazione più ricorrente: - descrittivo - narrativo - espositivo - argomentativo - prescrittivo Queste tipologie di testo poi coinvolgono diversi generi, orali o letterari. 2) Sabatini – patto comunicativo Ci si basa sul rapporto autore-lettore e abbiamo tre tipi di testo: - discorso vincolante (non c’è margine di interpretazione) - discorso mediamente vincolante (c’è un margine di interpretazione) - discorso poco vincolante (è richiesto uno sforzo attiva da parte del destinatario) 3) Manzotti – punto di vista didattico Ci si basa sui fini didattici di un testo e abbiamo due classificazioni principali: - testi autonomi - testi che elaborano altri testi Gli ultimi sono quelli più preziosi a livello scolastico perché permettono di rielaborare la materia. 92 4) Tipologia diamesica Ci si basa sul mezzo con cui il testo è trasmesso: - orale o scambio bidirezionale, presa di parola libera faccia a faccia o scambio bidirezionale, presa di parola libera non faccia a faccia o scambio bidirezionale, presa di parola non libera faccia a faccia o scambio unidirezionale in presenza del destinatario o scambio unidirezionale a distanza su testo non scritto - scritto Per quanto riguarda la comunicazione negli anni ’60 sono stati avanzati vari modelli interpretativi che spiegassero la dimensione pragmatica della comunicazione, tra cui il modello di Jakobson. In questo modello abbiamo un mittente che trasmette un messaggio seguendo un codice che passerà per un canale. Attraverso il canale il messaggio verrò trasmesso secondo un codice che trasmetterà il messaggio al destinatario. Watzlawick, Beavin, Jackson studiarono la comunicazione e lo studio venne pubblicato in Pragmarica della comunicazione dove troviamo diversi assiomi: - I assioma: è impossibile non comunicare e la comunicazione ha diverse funzioni: emotva (percezione della realtà del mittente), referenziale (strumento che si vuole adottare), conativa (percezione del destinatario, visto come elemento assoggettato all’atto comunicativo del mittente) Umbero Eco vedeva il mittente come colui che produce un senso (messaggio) e il destinatario come colui che attribuisce un senso nuovo al messaggio → nozione fondamentale secondo Eco è che la comunicazione ha carattere processuale e interattivo. La seconda nozione secondo Eco è che la comunicazione ha carattere protettivo e strategico, qundi il mittente genera un messaggio, si prefigura un destinatario e tende a pilotare l’attività del destinatario. Un’innovazione importante portata da Eco è l’idea per cui l’interpretazione non è mai un processo neutro → paradosso dell’osservatore: quando un fenomeno è descritto da un osservatore, la descrizione riguarda qualcosa del passato e si stanno apportando delle modifiche dovendo dare un senso a ciò che si riporta e magari quel senso che viene dato è già diverso dall’originario. Secondo questo modello il testo ha anche un rapporto con il mittente, con il destinatario e con il contesto (intenzionalità, accettabilità e situazionalità). Il destinatario non ha più quindi un ruolo passivo (ricevere il messaggio e interpretarlo), ma anche un comportamento attivo visto che mette in campo le sue conoscenze e ha delle aspettative su come lo scambio comunicativo deve svolgersi. Queste aspettative possono anche essere disattese. 95 Il modello di Halliday Halliday ha ideato un nuovo modello comunicativo basato sulle funzioni comunicative. Il linguaggio e il testo (inteso come forma del linguaggio in azione, usato per comunicare) risponde a tre funzioni: - funzione ideativa (ideazionale) ⟹ ogni volta che si interpreta l’esperienza umana, ciò che ci permette di rappresentare le nostre percezioni e le nostre esperienze, costruire i nostri schemi mentali sulla realtà in cui viviamo, interpretare ciò che ci accade attorno e dentro - funzione interpersonale ⟹ quando si mettono in opera le nostre relazioni personali e sociali con le persone che ci circondano (es. le conversazioni di convenzione). Questa funzione determina anche il modo in cui ci esprimiamo, infatti noi usiamo un linguaggio più o meno formale e più o meno controllato in base a con chi ci troviamo (diafasia). Quando noi parliamo, stiamo facendo anche altro, stiamo agendo sulle altre persone: chiediamo, gesticoliamo, esprimiamo le nostre idee ed esse sono interpretate dal destinatario, ecc - funzione testuale ⟹ quando ci si occupa della forma e della struttura del testo. La nostra capacità di costruire sequenze di discorso determinano le altre due funzioni in base alla coerenza e all’unità che noi riusciamo dare al nostro testo (dev’essere funzionale, comprensibile, coerente, coeso) In un testo multimodale per come è strutturato spinge chi guarda il sito a interagire con esso in un determinato modo, a volte anche veicola la scelta del destinatario, a cui viene suggerito di fare una determinata cosa rispetto ad un’altra. Questo è un elemento interpersonale, visto che il sito cerca di rendere il più chiaro possibile come muoversi all’interno del sito stesso. Capiamo bene quindi che il testo è un oggetto interpretativo, dal momento che: - il testo è configurato per l’interpretazione - il destinatario è instanziato nel testo ⟹ se voglio che il mio testo giunga al destinatario e agisca su di lui (ricevere, interpretare), posso immaginare le caratteristiche del destinatario, le sue conoscenze enciclopediche, i suoi valori morali e i suoi modelli socio-ideologici. Il testo viene costruito dal mittente perché sia adatto al destinatario → destinatario ideale (U. Eco) - l’interpretazione è un atto complesso ⟹ il risultato dell’interpretazione (ciò che ci sarà nel destinatario dopo l’interpretazione del testo) sarà una serie di circostanze e testi che trasmetteranno un messaggio che sarà stato interpretato in base alle risorse culturali e tecniche del destinatario. Allo stesso tempo però anche il mittente ha degli istituti culturali di riferimento che introduce nel testo sperando che vengano interpretati dal destinatario, che deve attualizzare ciò che era trasmesso in astratto dal messaggio - il destinatario è sempre in qualche modo un lettore esperto ⟹ deve riconoscere l’intenzionalità comunicativa del mittente, si muove nella semiosfera (una sfera di segne interpretati sulla base di quello che questi segni mi dicono), attualizza il contenuto astratto del messaggio. L’interpretazione è sempre culturalmente determinata visto che noi siamo abituati a interpretare i testi, non siamo una tabula rasa che riceve passivamente il messaggio inviato 96 L’importanza dell’interpretazione è evidente anche nel quotidiano: i testi sono un diaframma tra noi e la realtà → quello che ci viene detto non possiamo sapere se sia vero o falso, es. fake news. Questo diaframma aumenta sempre più con l’avanzamento dei social media. L’interpretazione quindi è sicuramente positiva, ma non del tutto a nostro favore, visto che può indurci a interpretare X come non X. 97 Lezione 3D – L’interpretazione, il senso, le cornici, i copioni e i legamenti 20/11/2023 Il testo assume un significato in uno scambio comunicativo, viene generato al suo interno. Vediamo quindi il motivo per cui il destinatario è instanziato nel testo → Umbero Eco, secondo cui il testo si dedica ad un destinatario che il mittente si è immaginato e viene preparato con le caratteristiche necessarie per avere l’effetto desiderato sul destinatario. Questo viene anche fatto perché una volta che il mittente abbandona il testo, esso rimane in mano al lettore, che deve avere a sua disposizione tutti gli strumenti necessari perché possa interpretarlo correttamente in modo autonomo. L’interpretazione è un atto complesso → ogni testo è soggetto a interpretazione, è impossibile fare altrimenti. Essa è un atto risultato della convergenza di più fattori: - gli intenti e le scelte dell’autore - le risorse culturali dell’autore (ciò che sa e ciò che persa che il lettore sappia) e le sue tecniche (es. differenza tra scrivere un testo digitale e un testo “classico”) - gli istituti culturali di riferimento → ciascun testo veicola una visione del mondo che l’autore e il suo contesto hanno. Essi risultano dunque importanti nella genesi e nell’interpretazione del testo - elementi sociosemiotici, sia da parte del mittente che del destinatario Le persone sono dei lettori esperti dal momento che non interpretano da zero e interpretano tutto, anche ciò che non è proposto loro per essere interpretato. Abbiamo strumenti fornitici dalla cultura per interpretare un testo e sulla base di essa interpretiamo → partiamo sempre da una serie di assunti, pratiche ed esperienze e abbiamo imparato a valorizzare e riconoscere certi aspetti dei testi. La comunicazione è diversa dall’espressione → siamo macchine interpretanti e interpretiamo anche ciò che non ci è offerto come elemento esplicitamente comunicativo. Anche quando non c’è la volontà da parte del mittente di comunicare (componente essenziale della comunicazione) noi interpretiamo e attribuiamo senso a qualcosa e interpretiamo anche senza volerlo. Secondo Falcinelli un limite della semiotica classica e della scuola strutturalista è che considerano che esista un codice da decifrare, un’immagine che abbia di per sé un significato solo e preciso a cui il destinatario deve giungere. D’altra parte le scuole postmoderne e poststrutturaliste sono arrivate a sostenere che qualsiasi significato è lecito, dalla dissoluzione del testo il destinatario può dedurre qualsiasi messaggio da parte del mittente. Questo è tecnicamente vero e possibile, ma non si tiene conto del principio dell’intento di comunicazione. Di qualsiasi frase, parola e testo si può fare un’interpretazione dizionariale: es. gatto = felino domestico. A parte elementi circostanziali, tutti noi abbiamo in menete una certa cosa quando si parla di gatti, un’immagine mentale che è il grado zero della significazione. Qui basta la mia conoscenza di base della lingua, non intervengono altri fattori culturali. Quando invece vengono introdotti elementi di tipo culturale (quindi informazioni enciclopediche), il discorso si amplia molto e il testo è meno interpretabile in modo oggettivo perché necessita di un’interpretazione enciclopedica; ci sono delle informazioni condivise tra mittente e destinatario, spesso lasciate
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