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Appunti di endocrinologia, Appunti di Endocrinologia

Appunti/sbobine presi personalmente a lezione e corretti con le registrazioni delle lezioni stesse. Integrati con immagini e schemi, completi di indice degli argomenti trattati.

Tipologia: Appunti

2017/2018

In vendita dal 29/06/2018

francesco.sa
francesco.sa 🇮🇹

4.6

(8)

9 documenti

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Scarica Appunti di endocrinologia e più Appunti in PDF di Endocrinologia solo su Docsity! MALATTIE ENDOCRINO -METABOLICHE E DELL’APPARATO GAST ROENTERICO MALATTIE METABOLICHE ANNO ACCADEMICO 2016/2017 PROGRAMMA ➢ Le alterazioni del metabolismo glucidico: classificazione e criteri diagnostici. ▪ Ridotta tolleranza al glucosio, alterata glicemia a digiuno, precedente e potenziale ridotta tolleranza al glucosio: significato clinico. ▪ Il diabete: o Epidemiologia, patogenesi e cenni di terapia del diabete di tipo 1 (compresa la forma LADA); del diabete di tipo 2, del diabete monogenico, del diabete secondario ad altra patologia; del diabete gestazionale. o Complicanze a lungo termine del diabete: microangiopatiche (retinopatia e nefropatia); macroangiopatiche; neuropatiche; il “piede diabetico”: epidemiologia, patogenesi, mezzi diagnostici, cenni di terapia. o Modalità di conduzione ed obiettivi terapeutici del follow-up del paziente diabetico ▪ L’ipoglicemia: o Aspetti fisiopatologici. o Classificazione. o Aspetti clinici e terapeutici. ▪ I comi con alterati valori glicemici: chetoacidosico, iperosmolare, ipoglicemico. o Aspetti fisiopatologici. o Aspetti clinici e terapeutici. ➢ Le alterazioni del metabolismo lipidico. o Biochimica delle lipoproteine. o Dislipidemie primitive e secondarie: classificazione, patogenesi, epidemiologia, significato clinico, cenni di terapia. ➢ L’obesità: patogenesi, epidemiologia, significato clinico, cenni di terapia. ➢ La sindrome metabolica: classificazione, epidemiologia, significato clinico, cenni di terapia. ➢ Ruolo dei fattori metabolici nella aterogenesi e nella patogenesi degli eventi cardiovascolari su base aterosclerotica: aspetti biologici, epidemiologici e clinici. ➢ Il rischio cardiovascolare globale: modalità di determinazione, significato clinico e terapeutico. ➢ Le alterazioni del metabolismo purinico. o Aspetti biochimici. o La gotta: patogenesi, classificazione, aspetti clinici, cenni di terapia. INDICE  Alterazioni del metabolismo glicidico • Il diabete - Introduzione - Epidemiologia - Fisiologia dell’insulina - Omeostasi del glucosio - Diagnosi dei diabete - Spettro dell’omeostasi del glucosio e del diabete mellito ▪ Diabete di tipo 1 - Sviluppo - Il processo e i markers immunologici - LADA (Latent Autoimmune Diabetes in the Adults) ▪ Diabete di tipo 2 - Profilo genetico - Fisiopatologia - Sensibilità e resistenza all’insulina - Alterata secrezione insulinica - Prevenzione ▪ Altre forme di diabete - Glucocorticoidi e diabete ▪ Casi clinici • Complicanze acute del diabete mellito ▪ Chetoacidosi diabetica (DKA) - Fisiopatologia - Clinica - Terapia - Possibili complicanze ▪ Coma iperosmolare - Fisiopatologia - Clinica - Terapia ▪ Casi clinici Pag. 1 Pag. 1 Pag. 1 Pag. 2 Pag. 3 Pag. 4 Pag. 6 Pag. 7 Pag. 8 Pag. 8 Pag. 9 Pag. 10 Pag. 11 Pag. 11 Pag. 12 Pag. 12 Pag. 14 Pag. 14 Pag. 15 Pag. 15 Pag. 17 Pag. 19 Pag. 19 Pag. 20 Pag. 22 Pag. 22 Pag. 23 Pag. 24 Pag. 25 Pag. 25 Pag. 25 Pag. 27 • I microinfusori • L’ipoglicemia ▪ Introduzione – omeostasi del glucosio ▪ Manifestazioni cliniche dell’ipoglicemia ▪ Cause di ipoglicemia - A digiuno - Ipoglicemia reattiva (postprandiale) ▪ Approccio al paziente con ipoglicemia ▪ Caso clinico - Insulinoma  Alterazioni del metabolismo lipidico • Introduzione ▪ Trasporto e metabolismo dei lipidi - Trasporto lipidico: le apolipoproteine - Assorbimento lipidico - Metabolismo lipidico • Sindrome metabolica e diabete di tipo 2 • Le dislipidemie - Introduzione ▪ Iperlipidemie - Iperlipidemie primarie - Iperlipidemie secondarie - Esempi di iperlipidemie • Ipercolesterolemia familiare • Iperlipidemia familiare combinata • Iperlipoproteinemia di tipo III (disbetalipoproteinemia) - Ipertrigliceridemie • Sindrome iperchilomicronemica • Ipertrigliceridemia familiare - Screening ▪ Iter diagnostico delle dislipidemie ▪ Terapia delle dislipidemie - Terapia farmacologica • Acido nicotinico Pag. 85 Pag. 87 Pag. 87 Pag. 88 Pag. 88 Pag. 88 Pag. 90 Pag. 90 Pag. 91 Pag. 94 Pag. 95 Pag. 95 Pag. 95 Pag. 96 Pag. 98 Pag. 99 Pag. 102 Pag. 103 Pag. 103 Pag. 104 Pag. 104 Pag. 105 Pag. 105 Pag. 105 Pag. 107 Pag. 108 Pag. 108 Pag. 108 Pag. 108 Pag. 09 Pag. 110 Pag. 111 Pag. 111 Pag. 111 • Fibrati • Statine • Resine a scambio ionico • Acidi grassi polinsaturi (Omega 3) • Ezetimibe • Nuovi farmaci - Indicazioni dietetiche ▪ Sindrome metabolica - Approccio al paziente - Terapia  Alterazioni del metabolismo purinico • La gotta e l’iperuricemia - Introduzione - Epidemiologia - Metabolismo dell’acido urico ▪ Fisiopatologia della gotta e cause di iperuricemia ▪ Trattamento Pag. 111 Pag. 112 Pag. 113 Pag. 114 Pag. 114 Pag. 114 Pag. 115 Pag. 117 Pag. 120 Pag. 120 Pag. 122 Pag. 122 Pag. 122 Pag. 123 Pag. 123 Pag. 124 Pag. 125 3 Malattie metaboliche FISIOLOGIA DELL’INSULINA L’insulina è un ormone ipoglicemizzante che viene sintetizzato sotto forma di pro-ormone (preproinsulina), composto da una catena β, una catena α, un peptide C e da un peptide segnale all’estremità N-terminale che viene rimosso per formare la proinsulina; questa molecola viene ulteriormente elaborata, con l’eliminazione del peptide C, per la liberazione di insulina attiva, formata da una catena α e una catena β unite tra loro per mezzo di ponti disolfuro. Il peptide C è caratteristico di tutte le forme endogene di insulina e risulta quindi scarsamente prodotto in caso di ridotta formazione endogena di insulina ( questo è importante ad esempio dal punto di vista medico-legale: in caso di avvelenamento da insulina si ritroveranno alti livelli di insulina ma bassi livelli di peptide C nel sangue). È inoltre una proteina con un’importante funzione a livello endoteliale, in quanto capace di indurre la liberazione di NO a livello endoteliale, esercitando un ruolo di protezione endoteliale e vascolare (che però non ha risvolti pratici in clinica). Le cellule β pancreatiche che producono insulina producono anche un polipeptide detto amilina, che viene secreto insieme all’insulina e che ha delle funzioni di supporto all’attività insulinica: rallenta infatti l’assorbimento di glucosio ed ha un effetto anoressizzante, riducendo il senso dell’appetito. Questo polipeptide tende ad accumularsi sotto forma di sostanza amiloide all’interno delle cellule β nel diabete di tipo II, a mano a mano che si ha una riduzione funzionale di queste cellule; non si sa tuttavia se questo accumulo sia effettivamente la causa del danno e della perdita cellulare o se ne sia piuttosto una sua conseguenza (o semplicemente un fenomeno secondario alla perdita di cellule β pancreatiche). L’insulina viene liberata dalle cellule del pancreas in base allo stimolo glicidico: un valore di glicemia oltre 70 mg/dl rappresenta lo stimolo principale per la secrezione di questo ormone; allo stesso modo, quando la glicemia si abbassa al di sotto di questo valore la secrezione di insulina viene inibita. La stimolazione avviene a partire dal legame del glucosio ad un recettore presente sulle cellule β detto GLUT-2. Grazie a questo recettore con funzione di canale il glucosio entra nelle cellule e viene fosforilato dall’enzima glucochinasi; col metabolismo del glucosio inizia così la produzione di ATP. L’aumento della produzione di ATP all’interno delle cellule β viene avvertito da un recettore formato da due parti: una è quella che controlla il traffico di K+ attraverso la cellula e la mantiene polarizzata; l’altra è quella che funziona da recettore per le sulfoniluree e i meglitinidi, due farmaci segretagoghi con funzione ipoglicemizzante che sono in grado di indurre la liberazione di insulina dalle cellule β. Essi, così come un aumento di ATP intracellulare, funzionano determinando un’inibizione del canale di membrana del K+, una depolarizzazione e l’ingresso di calcio nella cellula; quest’ultimo determina la liberazione di insulina dai granuli nei quali è contenuta. Questo meccanismo determina sia una secrezione basale e continua di insulina, sia una secrezione pulsatile di ormone con un tempo ritmico di circa 10 minuti. 4 Malattie endocrino-metaboliche e dell’apparato gastroenterico Sulle cellule β si trovano inoltre i recettori per le incretine, polipeptidi prodotti dalle cellule L dell’intestino – che fanno parte del sistema endocrino enterocromaffine dell’intestino stesso – che hanno una funzione importante nella regolazione della glicemia: esse infatti sopprimono la formazione di glucagone e svolgono altre funzioni simili a quelli dell’amilina (anoressizzanti e di rallentamento dell’assorbimento del glucosio). La principale incretina prodotta dall’intestino è la GLP-1; analoghi delle incretine sono i farmaci (exenatide, liraglutide, ecc.) utilizzati nei pazienti diabetici per stimolare la secrezione endogena di insulina. Una volta secreta, l’insulina viene inattivata per il 50% nel passaggio attraverso il fegato; metà dell’insulina totale viene infatti degradata in quest’organo. Quella rimasta si lega ai propri recettori (soprattutto sulle cellule del tessuto adiposo e muscolare) e li attiva, determinando una serie di reazioni a cascata di trasduzione del segnale che sono responsabili dell’effetto finale promosso dall’insulina stessa. L’insulina stimola l’attività tirosin-chinasica del proprio recettore, che si auto-fosforila e attiva (fosforilandoli) i propri substrati, denominati IRS (Insulin Receptor Substrates). IRS e altre proteine adattatrici danno il via ad una complessa cascata di reazioni di fosforilazione e defosforilazione responsabili degli effetti dell’insulina. Contemporaneamente, grazie all’attività della PI3K, si ha la stimolazione al trasporto sulla parte esterna della cellula di un recettore con funzione di canale di trasporto per il glucosio, che nel caso della cellula muscolare è indicato come GLUT-4. L’attivazione dei recettori per l’insulina determina inoltre l’attivazione di vie metaboliche diverse, che portano alla sintesi di glicogeno, alla sintesi proteica e alla lipogenesi. OMEOSTASI DEL GLUCOSIO CONDIZIONE DI DIGIUNO  i livelli di glucosio sono bassi e i livelli di insulina sono bassi. Una situazione simile determina l’avvio di quei meccanismi che sono inibiti dall’insulina ma che sono ora attivati dagli ormoni controregolatori. Tra questi si hanno: - aumento della gluconeogenesi epatica a partire da acidi grassi e aminoacidi; - stimolazione della glicogenolisi e liberazione di glucosio; - riduzione dell’utilizzazione periferica di glucosio (con meno attivazione del GLUT-4 muscolare); - proteolisi e lipolisi  utile per l’utilizzazione, al posto del glucosio, dei precursori di proteine e lipidi e per la gluconeogenesi epatica. Questi meccanismi sono avviati da ormoni con funzione opposta rispetto all’insulina, quali il glucagone, la cui secrezione aumenta quando i livelli ematici di glucosio sono bassi. Il glucagone ha due funzioni principali: 1. aumentare la sintesi di glicogeno da precursori non glucidici; 2. favorire la glicogenolisi. 5 Malattie metaboliche CONDIZIONE POST-PRANDIALE  i livelli di glucosio sono alti e i livelli di insulina sono alti. L’insulina: 1. inibisce la gluconeogenesi epatica; 2. inibisce la glicogenolisi; 3. aumenta l’uptake di glucosio a livello di cellule muscolari e del tessuto adiposo, abbassando la glicemia; 4. stimola la lipogenesi e la sintesi proteica; 5. inibisce la lipolisi e la proteolisi; 6. inibisce la secrezione di glucagone. Questo meccanismo di omeostasi del glucosio dipendente dall’insulina (e dal glucagone) è attivo solo per i tessuti periferici come quello muscolare e adiposo, ma non è utilizzato dal sistema nervoso centrale. In condizione di ipoglicemia, innanzitutto diminuisce la secrezione di insulina, come primo meccanismo utile per impedire un ulteriore abbassamento della glicemia stessa dovuto all’ulteriore captazione di glucosio periferico; successivamente aumenta la secrezione di glucagone. Quest’ultimo agisce a livello del fegato (e in misura minore del rene) esercitando gli effetti sopra descritti. Entrano poi in gioco altri ormoni controregolatori, come quelli prodotti in tempi brevi dalla midollare della surrene (epinefrina) e dai neuroni postgangliari del simpatico (norepinefrina e acetilcolina), e in tempi più lunghi dalla corticale della surrene sotto lo stimolo ipofisario mediato dall’ACTH (cortisolo). Tutti questi ormoni hanno l’effetto di aumentare la resistenza periferica all’insulina e quindi un effetto iperglicemizzante. Sintomi clinici tipici dell’ipoglicemia sono legati proprio alla liberazione in circolo di questi ormoni. Il paziente ipoglicemico sarà infatti affamato, tachicardico e suderà molto. Questi sintomi possono però non comparire nel paziente diabetico con una neuropatia (conseguente al diabete stesso) che si trova in condizione di ipoglicemia, che si manifesta solo quando questo arriva alla perdita di coscienza o al coma. 8 Malattie endocrino-metaboliche e dell’apparato gastroenterico DIABETE DI TIPO 1 Il diabete di tipo 1 si sviluppa in seguito alla distruzione delle cellule β del pancreas, che porta ad una totale deficienza insulinica. L’eziopatogenesi può essere: • immunomediata nella maggior parte dei casi; • idiopatica (in alcuni casi inoltre non c’è un’evidenza immunologica chiara della distruzione delle cellule β). Il diabete di tipo 1 è il risultato dell’interazione di fattori genetici, ambientali e immunologici, che portano alla distruzione delle cellule β del pancreas e alla deficienza insulinica. Le cellule β dei pazienti affetti da questa patologia erano perfettamente normali prima che andassero distrutte, e non mutate. La distruzione cellulare è autoimmune e la maggior parte (ma non tutti) dei soggetti affetti da questa patologia dimostra un’autoimmunità diretta esclusivamente su queste cellule. Alcuni pazienti invece presentano i sintomi clinici del diabete di tipo 1 ma non presentano nel sangue i markers immunologici indicativi di un processo autoimmune a carico delle cellule β né i markers genetici del diabete di tipo 1; questi individui sviluppano una deficienza insulinica per motivi sconosciuti, non mediati da meccanismi immunologici e sono predisposti alla chetosi (si tratta per lo più di afroamericani e alcuni asiatici). L’incidenza del diabete di tipo 1 varia a seconda delle popolazioni studiate, ma rappresenta comunque il 2-3% di tutti i casi di diabete noto. La sua incidenza inoltre è: - molto bassa in Giappone; - molto elevata in Scandinavia; - alta in Sardegna  nel nostro Stato l’incidenza della patologia è di 10-11 per 100.000 persone per anno, con tassi 3-4 volte superiori in Sardegna. SVILUPPO Nello sviluppo del diabete di tipo 1 gioca senz’altro un ruolo fondamentale la predisposizione genetica, data da un particolare assetto dei geni del complesso maggiore di istocompatibilità di classe II. Nel corso dell’infanzia e della crescita si registra poi un evento (o un insieme di eventi, che possono essere indicati come “fattori ambientali”) che determinano l’innesco immunologico del processo autoimmune di distruzione delle cellule β del pancreas; questo può essere rappresentato da un danno pancreatico dovuto a causa diverse (ad esempio un’infezione da virus con un trofismo pancreatico o comunque enterico, come Coxsackie, Rubella, enterovirus e altri; in alcuni casi anche virus stagionali possono mediare un danno simile e rappresentare l’innesco del processo autoimmune). Il processo autoimmunitario comprende sia la produzione di anticorpi solubili diretti contro le cellule β (marcatori della reazione immunologica), sia l’attivazione di un sistema di linfotossicità mediata da linfociti T. Gli anticorpi che vengono prodotti non sono infatti i diretti mediatori della distruzione cellulare: se si trasferiscono questi anticorpi da un soggetto con il diabete di tipo 1 ad un soggetto sano, quest’ultimo non svilupperà la stessa patologia. Una volta che il processo è innescato porta alla distruzione delle cellule β: quando l’80% di queste sono state distrutte, compare il diabete di tipo 1. L’arco temporale durante il quale questo processo si completa può variare da pochi mesi a qualche anno, ma è generalmente piuttosto breve. In alcuni casi, infatti, si ha a che fare con pazienti (giovani) che manifestano i sintomi tipici del diabete, una glicemia 9 Malattie metaboliche molto alta e anche qualche sua complicanza piuttosto grave (come la chetoacidosi diabetica), ma che hanno un valore di HbA1C normale (o comunque non alto): questo sta ad indicare che la distruzione delle cellule β si è realizzata in un periodo di tempo inferiore, pari o leggermente superiore a quello della vita del globulo rosso (3 mesi). Dopo la manifestazione della patologia può seguire una fase di “luna di miele”, durante la quale la situazione migliora inaspettatamente, con una ripresa della produzione di insulina e in cui il diabete è compensato; a questa però segue poi un declino della situazione, associato all’inarrestabile processo di distruzione delle cellule β pancreatiche, che continua fino a quando tutte queste non vengono eliminate e non viene più prodotta insulina. Da un punto di vista genetico, la concordanza del diabete di tipo 1 tra gemelli monozigoti è piuttosto bassa, vicina al 50%, soprattutto se confrontata con quella del diabete di tipo 2 (70-90%); nonostante questo, la componente genetica, come detto in precedenza, gioca un ruolo importante nello sviluppo della patologia. Tale predisposizione genetica è associata a geni che codificano per proteine del complesso maggiore di istocompatibilità di classe II, e in particolare ad alcuni aplotipi di HLA DR3 e/o HLA DR4. Nello specifico, il genotipo dei loci di HLA più spesso coinvolti nella patologia è DQA1*0301, DQB1*0302 e DQB1*0201 (questo assetto genetico è presente nel 40% dei bambini con diabete di tipo 1, ma anche nel 2-3% della popolazione normale). Il particolare assetto aminoacidico di queste proteine dell’MHC di classe II, sintetizzate da questi geni, fa sì che un danno a livello pancreatico (provocato ad esempio da un virus) possa portare alla liberazione di antigeni del pancreas che possono essere presentati da queste stesse proteine dell’MHC di classe II, proprio in virtù della loro conformazione; queste ultime possono quindi attivare una risposta immunitaria diretta contro gli antigeni self pancreatici. Un assetto diverso di queste stesse proteine MHC non ne permette l’ottimale interazione con gli antigeni pancreatici self e non innesca la reazione autoimmune. La componente genetica è quindi necessaria ma non sufficiente allo sviluppo del diabete di tipo 1: è necessario infatti anche un danno pancreatico affinché gli antigeni self (risultanti dal danno stesso) vengano presentati da queste specifiche molecole HLA, attivando la reazione immunitaria. Oltre ai geni MHC di classe II, sono stati identificati almeno altri 20 differenti loci che contribuiscono alla suscettibilità nello sviluppo della malattia (geni per molecole costimolatorie, CTLA-4, IL-2 e altri). Dall’altro lato, esistono aplotipi dei geni HLA che conferiscono una protezione contro lo sviluppo del diabete di tipo 1 (come DQA1*0102, DQB1*0602; questo aplotipo è raro, presente nell’1% della popolazione). IL PROCESSO E I MARKERS IMMUNOLOGICI Il paziente con diabete di tipo 1 manifesta un’infiltrazione linfocitaria delle cellule β, con lo sviluppo di un’infiammazione che prende il nome di insulite. Dopo che tutte le cellule sono state distrutte, il processo infiammatorio si arresta, le isole pancreatiche diventano atrofiche e la maggior parte dei marker immunologici scompare. Da un punto di vista istologico, nel tessuto pancreatico e nel sangue si rileva la presenza di anticorpi (autoanticorpi) diretti contro le cellule β o loro componenti (e contro l’insulina); nelle isole di Langherans e nei linfonodi si ritrovano invece linfociti attivati che esprimono molecole di superficie (come CD-25, CD-26, CD-28) che legano molecole dell’infiammazione e costimolatorie, che evidenziano un’attività linfocitaria in corso. I linfociti del paziente diabetico, posti in contatto (in vitro) con gli antigeni delle cellule β, proliferano, ad indicare la presenza di una memoria immunitaria piuttosto importante; inoltre, essi liberano interferone γ e IL-1, ad indicare che c’è una risposta immunitaria anche al di fuori dell’organismo. L’azione immunitaria tossica nei confronti delle cellule β non è soltanto mediata da cellule e anticorpi ma anche da alcune citochine (TNF-α soprattutto); inoltre è possibile trasferire il diabete di tipo 1 da un animale all’altro trasferendo i linfociti attivati del soggetto malato, ma non è possibile fare altrettanto trasferendo gli anticorpi diretti contro le cellule pancreatiche. 10 Malattie endocrino-metaboliche e dell’apparato gastroenterico Gli anticorpi che si ritrovano nel paziente diabetico (di tipo 1) sono diretti contro l’insulina, oltre che contro varie componenti delle cellule pancreatiche; il più importante da un punto di vista clinico (utilizzato come marker del processo autoimmune) è l’anticorpo diretto contro il GAD (decarbossilasi dell’acido glutammico), un enzima non specifico delle cellule β (si tratta quindi di un anticorpo tutto sommato non così tossico), ma si ritrovano anche anticorpi contro omologhi delle tirosina-fosfatasi (ICA-512/IA-2) e contro trasportatori di zinco. Si tratta quindi di proteine che, nel corso del processo di distruzione cellulare a carico del pancreas, sono stati liberati e hanno determinato la produzione di questi anticorpi solubili. Questi anticorpi sono quindi molto utili per fare diagnosi di diabete di tipo 1, ma non si ritrovano solo in questa patologia; infatti, ogni volta che si ha una distruzione di un tessuto causata da un processo immunologico, si possono ritrovare questi anticorpi nel sangue del paziente. Gli anticorpi anti-GAD si ritrovano ad esempio anche nel 5-10% dei casi di diabete di tipo 2 e nel diabete gestazionale, ad indicare che un danno pancreatico – presente anche in queste patologie – può aver determinato una reazione immunologica simile a quella del diabete di tipo 1, senza che questa sia la causa di questi altri tipo di diabete. Per fare uno screening del diabete nei soggetti sani è necessario ma non sufficiente fare un dosaggio di anticorpi anti-GAD (o anti-insulina o anti-cellule β); oltre a questo, occorre eseguire anche un test da carico di glucosio. Se nel paziente si rileva una quantità più alta della norma degli anticorpi sopra descritti, insieme ad un valore superiore al normale di glicemia nel test da carico di glucosio (>140 mg/ml) il paziente ha un rischio molto elevato di sviluppare il diabete di tipo 1 negli anni successivi. Per evitare una progressione della patologia e preservare una quota delle cellule che gli anticorpi non hanno ancora danneggiato non è possibile fare molto; a rigor di logica, per bloccare il processo immunitario sarebbe utile somministrare immunosoppressori (come i corticosteroidi o altri farmaci più specifici). Gli studi e i tentativi fatti fino ad ora in questo senso sono stati piuttosto deludenti: con la somministrazione di questi farmaci l’evoluzione della patologia verso il diabete conclamato può essere rallentata, ma non arrestata (questo rallentamento può essere monitorato osservando una produzione sempre più scarsa di insulina endogena, dosando il peptide C nel paziente). È stato fatto inoltre uno studio nel quale si somministrava insulina al paziente prima che questo sviluppasse il diabete in modo conclamato, ipotizzando che una parte delle cellule β venissero risparmiate se sottoposte ad uno stress minore dovendo produrre meno insulina endogena; anche questo studio ha dato scarsi o nulli risultati, non utili sul piano clinico. LADA (LATENT AUTOIMMUNE DIABETES IN THE ADULTS) Vengono frequentemente diagnosticati in modo erroneo come diabetici di tipo 2 pazienti affetti da LADA (Latent Autoimmune Diabetes in the Adults), una forma di diabete di tipo 1 caratterizzata da insorgenza in età più tardiva rispetto al diabete di tipo 1 classico (generalmente dopo i 40 anni) in soggetti frequentemente normopeso, ad evoluzione più lenta verso l’insulinopenia assoluta, con una importante componente autoimmune (positività di auto-anticorpi ed in particolare di anticori anti- GAD). 13 Malattie metaboliche polimorfismo genetico alterato che determina la produzione di proteine mitocondriali non funzionanti. In più, queste proteine che determinano l’ossidazione lipidica, funzionano meno anche con l’invecchiamento. Tutti questi elementi insieme fanno sì che il diabete di tipo 2 compaia più facilmente negli obesi e negli anziani. ▪ Nel muscolo, l’ingresso di una quantità di acidi grassi superiore al normale fa sì che da una parte ci sia una normale ossidazione di questi nel mitocondrio e che si formi il triacilglicerolo, mentre dall’altra si ha la produzione continua di diacilglicerolo (DAG) in eccesso, che determina l’attivazione dell’isoforma ϑ della proteina chinasi C (PKCϑ). Quest’ultima determina una fosforilazione su residui di serina del substrato 1 del recettore insulinico (IRS-1) in siti critici per il funzionamento del recettore stesso, bloccando la fosforilazione su residui di tirosina che normalmente media l’IRS-1 quando lega l’insulina (attivando la trasduzione del segnale insulinico stesso). Questo porta ad una diminuita attività di trasporto di glucosio insulino-stimolato, risultando in una riduzione della sintesi di glicogeno e dell’ossidazione di glucosio insulino- stimolate. ▪ Nel fegato, un transitorio aumento di DAG, dovuto ad uno sbilanciamento nei flussi epatocellulari di lipidi, risulta nell’attivazione dell’isoforma ε della proteina chinasi C (PKCε); questa proteina lega ed inibisce i residui tirosina-chinasici del recettore per l’insulina, portando ad una diminuzione della sintesi di glicogeno insulino-stimolata nel fegato attraverso la fosforilazione della glicogeno sintasi chinasi 3 (GSK3). Questo determina una inibizione dell’attività della glicogeno sintasi, con una conseguente diminuzione della sintesi di glicogeno. Contemporaneamente, non funzionando la segnalazione insulinica, non viene inibita la gluconeogenesi, a causa di una mancata inibizione di un fattore trascrizionale detto FOXO, che trasloca nel nucleo e promuove la trascrizione di geni che sintetizzano proteine coinvolte nella gluconeogenesi (come la fosfoenolpiruvato carbossichinasi e il G6P). La gluconeogenesi epatica avviene a partire da precursori non glucidici (aminoacidi e acidi grassi) e fa aumentare la glicemia. 14 Malattie endocrino-metaboliche e dell’apparato gastroenterico ALTERATA SECREZIONE INSULINICA Oltre al problema della resistenza periferica all’insulina, va aggiunto – nel quadro dello sviluppo del diabete di tipo 2 – quello della deficiente produzione di insulina stessa. Le cause che portano all’alterata produzione di questo ormone non sono del tutto chiare e ben definite. È molto probabile che alla base di questo difetto siano da ricercare cause genetiche e la presenza di un particolare assetto di geni che, unita a quella che determina un malfunzionamento del processo di captazione del glucosio per l’insulino-resistenza, determini un deficit di produzione insulinica e la comparsa del diabete di tipo 2. Oltre a questo, nel paziente con diabete di tipo 2 si registra un danneggiamento delle cellule β pancreatiche, che vanno incontro ad una forma di esaurimento: nella forma avanzata della patologia si osserva infatti una riduzione pari a circa il 50% della massa di cellule β nel pancreas. Le cellule β che vengono distrutte si caricano di sostanza amiloide, o amilina, che viene co-secreta dalle cellule β stesse; non si sa se la deposizione di questa sostanza sia una causa o un effetto della distruzione cellulare. L’iperglicemia del diabete rappresenta un fattore di tossicità cellulare, che aumenta lo stress ossidativo dei tessuti e contribuisce alla distruzione delle cellule β; in alcuni casi, lo stesso discorso può essere fatto per i lipidi e l’iperlipidemia nel paziente diabetico rappresenta un altro fattore di tossicità che contribuisce ad un danneggiamento della funzione delle isole pancreatiche. PREVENZIONE La prevenzione del diabete di tipo 2 si basa senz’altro su una dieta povera di lipidi e sulla conduzione di una vita non sedentaria. Alcuni studi hanno cercato di dimostrare l’efficacia di una prevenzione farmacologica (associata ad una dieta equilibrata e all’attività fisica) su pazienti prediabetici, attraverso la somministrazione di metformina (un farmaco che blocca la gluconeogenesi epatica), che è riuscita a prevenire o ritardare lo sviluppo del diabete del 31% rispetto al gruppo trattato con placebo. Lo screening del diabete rappresenta un fattore estremamente importante per la prevenzione del diabete di tipo 2, dal momento che la malattia conclamata può comparire dopo diversi anni dallo sviluppo di un’iperglicemia (e lo stesso vale per le complicanze della patologia). È importante incoraggiare fortemente soprattutto gli individui con una familiarità per il diabete o prediabetici a ridurre il BMI e a fare regolare attività fisica. 15 Malattie metaboliche ALTRE FORME DI DIABETE Si tratta di forme di diabete che insorgono nell’età giovanile/adulta e che rappresentano solo l’% circa di tutti i casi di diabete. Le cause di queste patologie possono essere legate ad elementi diversi. • Difetti autosomici a carattere dominante a carico di un solo gene, che, essendo mutato, determina la sintesi di una proteina mal funzionate, responsabile di quella forma di diabete. Si tratta di mutazioni che possono essere a carico di geni che codificano per proteine che svolgono funzioni all’interno delle cellule β pancreatiche, come: o Hepatocyte nuclear transcription factor (HNF) 4α (MODY 1)  alterata funzione delle isole di Langherans; o HNF-1α (MODY 3)  fattore di trascrizione essenziale per la sintesi di insulina stimolata dal glucosio; o Insulin promoter factor-1 (IPF-1) (MODY 4); o HNF-1β (MODY 5)  se mutato determina l’insorgenza di un diabete neonatale con reni policistici e distrofici; o NeuroD1 (MODY 6)  se mutato determina l’insorgenza di ipoplasia cerebellare diabetica neonatale, distrofia retinica e altre patologie; o Subunits of ATP-sensitive potassium channel  se mutato porta ad un’alterata secrezione di insulina; o Proinsulina o insulina; o Glucokinase (MODY 2); o Glucose transporter 2 (GLUT2). • Difetti genetici nel funzionamento del recettore dell’insulina: o Resistenza di tipo A all’insulina. o Lepricaunismo. o Sindrome di Rabson-Mendenhall. o Sindromi di lipidodistrofia. • Patologie del pancreas esocrino: o Pancreatiti, pancreatectomie, neoplasie del pancreas, fibrosi cistica, emocromatosi, pancreopatia fibrocalcolosa, ecc. o Mutazioni della lipasi degli esteri carbossilici. • Endocrinopatie (acromegalia, sindrome di Cushing, glucagonoma, feocromocitoma, ipertiroidismo, aldosteronoma, ecc.). • Forme indotte da farmaci (glucocorticoidi e tiazidici soprattutto). • Infezioni. • Forme non comuni di diabete immuno-mediato. • Altre sindromi genetiche talvolta associate a diabete. GLUCOCORTICOIDI E DIABETE Nel muscolo scheletrico e nel fegato i glucocorticoidi causano una resistenza all’insulina ➢ diminuendo la trascrizione di IRS-1; ➢ aumentando la trascrizione di due proteine che neutralizzano l’azione dell’insulina: la tirosina fosfatasi di tipo 1B (PTP1B) e p38MAPK: ➢ promuovendo la lipolisi, la proteolisi, la produzione di acidi grassi liberi e l’accumulo di grasso nel fegato; ➢ promuovendo la gluconeogenesi epatica; ➢ sopprimendo l’osteocalcina secreta dagli osteoclasti, che normalmente promuove un maggior rilascio di insulina da parte delle cellule β pancreatiche e induce il tessuto adiposo a rilasciare adiponectina, un ormone che aumenta la sensibilità all’insulina. 18 Malattie endocrino-metaboliche e dell’apparato gastroenterico Si tratta di una patologia caratterizzata da un’infiltrazione di tipo infiammatorio, con aspetto nodulare e simil-linfomatoso e simil-neoplastico di cellule IgG4, che producono questo tipo di immunoglobuline e che sono elevate anche a livello sierico, dando un processo distruttivo di tipo infiammatorio (con fibrosi) in diversi organi e tessuti: il pancreas è stato il primo organo in cui è stata riscontrata questa patologia, ma questa può interessare anche linfonodi e ghiandole salivari. Il paziente fa quindi una terapia dietetica e, con questo quadro, una terapia steroidea immunosoppressiva (con dosaggi non eccessivamente elevati), che ha determinato una progressiva riduzione della colestasi. Insieme a questo, si associa una terapia con farmaci sostitutivi degli enzimi pancreatici (data l’insufficienza del pancreas esocrino). Inoltre, la glicemia da un livello di prediabete è passata a quello del diabete conclamato, a causa della terapia steroidea somministrata al soggetto. In questo, ha però influito anche la distruzione del pancreas endocrino (insieme a quella del pancreas esocrino) legata alla patologia autoimmune. 19 Malattie metaboliche COMPLICANZE ACUTE DEL DIABETE MELLITO Le complicanze acute più frequenti nel diabete mellito sono la chetoacidosi diabetica (DKA) e il coma iperosmolare (HHS). - Nella chetoacidosi diabetica (che si riscontra nel paziente giovane, con diabete di tipo 1) c’è un’insufficienza insulinica totale; c’è quindi un grosso scompenso con la produzione di glucagone, che è di molto aumentata. Questa determina un importante effetto lipolitico e un intasamento del sistema mitocondriale epatico, con la liberazione di grandi quantità di corpi chetonici (rilevabili nel siero e nelle urine) e l’induzione di una chetoacidosi. - Nel coma iperosmolare (che si riscontra nel paziente anziano, con diabete di tipo 2) si ha un deficit insulinico e una resistenza all’insulina. Il deficit però non è totale e una quota di insulina blocca in parte la produzione in eccesso di acidi grassi e di corpi chetonici. A causa dell’insulino-resistenza, è aumentata notevolmente la gluconeogenesi epatica, che porta ad uno spiccato innalzamento della glicemia, con conseguente scompenso (iper)osmolare, disidratazione e danni renali importanti. CHETOACIDOSI DIABETICA (DKA) La chetoacidosi diabetica è una complicanza frequente del diabete di tipo 1, ma che può essere riscontrata anche in paziente con diabete di tipo 2, soprattutto nelle fasi finali della patologia, quando la produzione di insulina è ridotta praticamente a zero. Caratteristiche costanti di questa complicanza sono quindi: - iperglicemia, - chetoacidosi, - chetonuria. Dal punto di vista epidemiologico, il 50% dei ricoveri ospedalieri di pazienti giovani con diabete di tipo 1 è dovuto alla chetoacidosi. Questo dato è legato al fatto che nell’età giovanile (adolescenziale soprattutto) c’è spesso un controllo molto meno rigoroso della glicemia rispetto al paziente in età pediatrica o adulta. Il 3% dei pazienti con diabete di tipo 1 inoltre si presenta alla diagnosi con una chetoacidosi diabetica. La chetoacidosi è molto più frequente nei pazienti di sesso femminile rispetto a quelli di sesso maschile. La causa più frequente dello sviluppo di questa condizione patologica è rappresentata dalla mancata somministrazione di insulina nel paziente diabetico (soprattutto nell’adolescenza, ma non solo). 20 Malattie endocrino-metaboliche e dell’apparato gastroenterico La mortalità associata alla chetoacidosi diabetica è piuttosto alta: per ogni episodio di chetoacidosi questa è infatti vicina al 2%; la mortalità nei pazienti di tipo 1 è data nel 16% dei casi da questa complicanza. Una chetoacidosi nella madre in gravidanza, inoltre, è associata ad un’altissima mortalità del feto (vicina al 30%, ma che può salire fino al 60% se la madre va in coma). Tutto questo esalta la necessità di ricovero del paziente con questa complicanza del diabete; la gestione del problema a livello domestico è infatti praticamente impossibile e spesso il paziente deve essere ricoverato in terapia intensiva (o semi-intensiva). L’alta mortalità della chetoacidosi diabetica è legata a danni tissutali importanti, responsabili, tra le altre cose, di edema cerebrale, spesso collegato all’acidosi o al rapido shift dell’osmolarità circolante in rapporto a quella neuronale. In alcuni casi ci può essere un danno da aritmie cardiache per l’ipokaliemia, una delle conseguenze principali della chetoacidosi diabetica e che, se non corretta, può scatenare diversi tipi di aritmie cardiache. Inoltre, questa complicanza del diabete spesso si associa ad infarto del miocardio e può essere spesso scatenata da patologie infettive (polmoniti o infezioni delle vie urinarie). FISIOPATOLOGIA La chetoacidosi diabetica ha alla propria base un deficit assoluto di insulina, associato ad un aumento degli ormoni controregolatori (glucagone ed adrenalina). C’è quindi un grosso sbilanciamento tra glucagone (elevato) e insulina (carente). L’insulina avrebbe inoltre la funzione di sopprimere la liberazione di glucagone da parte delle altre cellule pancreatiche: in questa condizione quindi questo meccanismo viene meno, a discapito di una ancora maggiore immissione in circolo di glucagone. Tutto questo determina un’aumentata lipolisi e una liberazione di acidi grassi dal tessuto adiposo, che arrivano in grande quantità a livello epatico e qui determinano la formazione di corpi chetonici, con un intasamento del ciclo di Krebs per cui gli acidi grassi non vengono convertiti ad acqua e anidride carbonica ma vengono anche deviati verso la linea che porta alla produzione di chetoni, che vengono poi immessi in circolo. In più, la carenza di insulina e la conseguente iperglicemia determinano una diuresi osmotica importante e una deplezione di volume notevole ( il paziente diabetico è infatti molto spesso ipoteso e ha alterazioni elettrolitiche notevoli, soprattutto legate alla kaliemia, dal momento che l’insulina fa entrare il potassio nelle cellule, con una funzione ipokaliemizzante). CLINICA I corpi chetonici, liberati nel sangue del paziente diabetico a partire da un eccesso di acidi grassi che raggiungono il fegato, possono essere di due tipi: β-idrossi-butiarrato o acetoacetato. Quest’ultimo in particolare viene poi convertito in acetone, responsabile dell’odore particolare dell’alito del paziente con chetoacidosi diabetica. Oltre ad essere convertiti in chetoni, parte di questi acidi grassi vengono convertiti in trigliceridi, che vengono poi messi in circolo sotto forma di VLDL, i cui livelli aumenteranno quindi notevolmente nel 23 Malattie metaboliche nelle seguenti 24 ore. In forme di chetoacidosi diabetica più leggera, si può anche utilizzare l’insulina sottocutanea, anche se il limite di questa somministrazione è legata al tempo (lungo) nel quale questa può essere assorbita e agisce. La somministrazione di insulina in ogni caso deve continuare fino a quando il pH non è tornato normale e non si rileva più una chetonuria. A questo punto si può riprendere la terapia insulinica con le iniezioni sottocutanee (associandole alle somministrazioni endovenose per alcune ore, dal momento che la sottocutanea agisce più lentamente). - Somministrazione degli elettroliti mancanti  si distinguono due situazioni: ▪ ipopotassiemia (<3,3 mmol/L): prima di somministrare insulina si deve correggere la potassiemia; ▪ iperpotessiemia (>5,2 mmol/L): non si fa supplementazione di potassio fino a quando il livello non torna normale. Generalmente, si somministra potassio se questo ha un valore <5,0 - 5,2 mmol/L, l’ECG è normale e la creatininemia è nella norma: in questa situazione si somministrano 10 mEq di potassio per ora. Si somministrano 40-80 mEq per ora se il potassio sierico è <3,5 o se si somministra bicarbonato. In caso di acidosi non grave (pH >7,0) non è necessario somministrare bicarbonato; mentre in caso di acidosi grave (pH <6,9), si somministra bicarbonato di sodio (50 mmol/L in 200 ml di acqua sterile con 10 mEq/L di KCl per ora per 2 ore fino a quando il pH non è >7,0). Se il fosfato sierico è <0,32 mmol/L si consiglia un supplemento di fosfato e il monitoraggio del calcio sierico. Inoltre, un’ipomagnesiemia può svilupparsi durante la terapia della DKA, e può quindi essere necessario un ulteriore supplemento di magnesio. In aggiunta alla terapia specifica per la chetoacidosi diabetica, è necessario tenere sotto controllo le condizioni generali del paziente, oltre che porre particolari attenzioni a quelli che possono essere stati gli elementi che hanno portato alla comparsa di questa complicanza del diabete e scongiurare ogni eventuale (purtroppo possibile) complicazione della chetoacidosi diabetica stessa. POSSIBILI COMPLICANZE Possibili complicanze della chetoacidosi diabetica sono: ▪ ipofosfatemia  la grossa deplezione urinaria di fosfato va sempre monitorata e la fosfatemia dovrebbe sempre essere mantenuta nel range della normalità; se questa è sbilanciata, occorre somministrare il fosforo e mantenerne un valore >1 mg/dl. Conseguenze dell’ipofosfatemia sono danni neuromuscolari importanti (rabdomiolisi), e disturbi neurologici gravi, oltre che crisi epilettiche che portano a coma e morte; ▪ trombosi ▪ aritmie cardiache ▪ edema polmonare ▪ insufficienza renale ▪ pancreatite ▪ infezioni ▪ edema cerebrale, che rappresenta la complicanza più grave della DKA, associata alla mortalità più alta (nelle DKA pediatriche compare nell’1% dei casi, con tassi di mortalità vicini al 20%; è responsabile del 50-60% delle morti per diabete nei bambini e del 25% dei casi di disabilità neonatale neurologica permanente). Compare nelle prime 24 ore della chetoacidosi. Segni e sintomi sono: • mal di testa, • confusione, • bradicardia, • ipertensione. La patogenesi non è del tutto chiara, ma alla base del processo c’è un’alterazione rapida dell’osmolarità a livello cerebrale e neuronale nelle prime fasi della chetoacidosi diabetica e della terapia per la DKA; proprio questa terapia, infatti, può rappresentare un fattore di rischio per lo sviluppo di edema cerebrale, soprattutto se gestita con un uso improprio dei 24 Malattie endocrino-metaboliche e dell’apparato gastroenterico carbonati (soprattutto se questi vengono somministrati in dosi eccessive). Il bicarbonato infatti si dissocia in H+ e CO2, ma la CO2 diffonde più velocemente del bicarbonato, il quale passa più lentamente attraverso la barriera ematoencefalica: esso è quindi meno rapido nel correggere l’acidosi a livello cerebrale, mentre la CO2, che diffonde più rapidamente, contribuisce a peggiorare la situazione di acidosi, aumentando le possibilità di ischemia ed edema a livello cerebrale. Fattori di rischio per l’edema cerebrale sono: età infantile/giovane, lunga durata dei sintomi, bassa PCO2, diabete di nuova insorgenza, DKA trattata tardivamente, uso improprio dei bicarbonati nella terapia della DKA, eccessivi quantità di volumi somministrati al paziente (anche con deficit di sodio che ne può conseguire). L’edema cerebrale viene trattato con lo scopo di ridurre l’edema stesso: per questo si impiega il mannitolo, un agente osmoticamente attivo che rimane nel sangue e raccoglie liquidi dall’interstizio. In alternativa, allo stesso scopo, si può impiegare una soluzione salina al 3%. Insieme alla terapia, si eseguono TC e/o RM per escludere l’eventuale presenza di altre patologie (l’ipertensione e la tachicardia possono essere legati ad un altro processo espansivo intracranico, che può essere ad esempio legato ad un evento trombotico). L’iperventilazione e interventi chirurgici di tipo decompressivo hanno meno successo nel limitare mobilità e mortalità dell’edema cerebrale. Misure preventive che possono essere prese per ridurre le possibilità di insorgenza della chetoacidosi diabetica si basano innanzitutto sull’educazione del paziente diabetico, allo scopo di istruirlo sulla regolarità delle somministrazioni di insulina, dei controlli della glicemia, della chetonemia e dei fattori di rischio che possono precipitare la situazione patologica verso la DKA. COMA IPEROSMOLARE Il coma iperosmolare è una complicanza del diabete (soprattutto di tipo 2) diagnosticata meno frequentemente (e anche meno facilmente) rispetto alla chetoacidosi diabetica. Caratteristicamente interessa: - pazienti anziani, spesso con un diabete di tipo 2 o che talvolta viene diagnosticato proprio quando il paziente giunge in pronto soccorso a causa di questa complicanza; - pazienti con pregresse condizioni debilitanti (ictus, demenza senile, ecc.), che compromettono uno dei fattori che può prevenire l’insorgenza della condizione di iperosmolarità, ovvero una corretta e regolare idratazione giornaliera; - con una storia grave e continua di poliuria, perdita di peso, stato di confusione mentale, letargia o coma. Anche con un trattamento adeguato, il coma iperosmolare ha una mortalità decisamente più alta rispetto alla chetoacidosi diabetica (fino al 15%), associata soprattutto alla comorbilità con cui questo si presenta. I sintomi tipici sono: • tachicardia, • disidratazione/ipotensione, • letargia, ottundimento, possibile coma, mentre sono assenti sintomi quali nausea, vomito, dolore addominale e respiro di Kussmaul, caratteristici solo della chetoacidosi diabetica. Eventi precipitanti per il coma iperosmolare sono: • infezioni (polmonite, infezioni del tratto urinario, gastroenteriti, sepsi); • infarto (cerebrale, coronarico, mesenterico, ecc.). 25 Malattie metaboliche FISIOPATOLOGIA Il coma iperosmolare è una complicanza del diabete che può comparire in un quadro di disidratazione e di un deficit insulinico non assoluto. È comunque presente uno squilibrio tra la produzione di insulina e di glucagone, con quest’ultimo ormone prodotto in quantità eccessive rispetto al normale: ne conseguono un’abbondante gluconeogenesi epatica, l’immissione in circolo di grandi quantità di glucosio, una glicemia molto alta. In questo caso non si rileva una chetosi, caratteristica invece della DKA: questo può essere ricondotto al fatto che, essendo presente ancora una certa (minima) quantità di insulina, questa può bloccare in una certa misura la lipolisi, che non è invece inibita in nessun modo nel paziente con diabete di tipo 1, data la totale insufficienza insulinica che lo caratterizza. Oltre a questo, nell’anziano il sistema metabolico è verosimilmente ridotto in una condizione di minore funzionalità, per cui la via chetogenica può funzionare meno bene rispetto al soggetto giovane. CLINICA Il paziente con iperosmolarità diabetica si presenta con una glicemia molto elevata (con valori che spesso possono superare i 1000 mg/dl), iperosmolalità (>350 mOsm/L) e un’azotemia prerenale. Nonostante la glicemia sia così elevata, anche il sodio sierico può essere elevato; una normale funzionalità degli osmorecettori dovrebbe garantire un compenso all’elevata osmolarità determinata dall’iperglicemia, abbassando la sodiemia. Questo non avviene perché nel paziente anziano (che presenta spesso pregressi episodi di danno cerebro- vascolare, con ritardo cognitivo e altri problemi legati all’età avanzata) il sistema degli osmorecettori non funziona del tutto, non permettendo la regolazione della sodiemia per compensare l’iperosmolarità da glucosio. I criteri diagnostici sono quindi: • glicemia molto elevata, • pH arterioso >7,3, • bicarbonati >15 mEq/L, • bassa o assente chetonuria o chetonemia, • osmolalità sierica >320 mOsm/Kg di acqua. TERAPIA Come per la chetoacidosi diabetica, la terapia del coma iperosmolare si basa soprattutto sulla necessità di reidratare il paziente e di stabilizzarlo dal punto di vista emodinamico e degli elettroliti. Dal momento che il deficit di fluidi nel paziente con HHS si è sviluppato in un periodo di tempo piuttosto lungo, occorre prestare particolare attenzione alla rapidità con cui si tenta di ristabilire una normale osmolarità; questo non deve essere fatto troppo rapidamente, per evitare i possibili danni neurologici che potrebbero conseguirne. Se il sodio sierico è >150 mmol/L, deve essere usata una soluzione salina allo 0,45% e non quella allo 0,9%. Una volta raggiunta la stabilità emodinamica, si continuano a somministrare liquidi usando 28 Malattie endocrino-metaboliche e dell’apparato gastroenterico COMPLICANZE CRONICHE DEL DIABETE MELLITO Il diabete mellito è la causa principale di: • malattia renale terminale (ESRD, End-Stage Renal Disease), una delle cause principale di dialisi nel mondo; • cecità dell’adulto; • amputazione non traumatica (delle estremità distali) degli arti inferiori; • predisposizione aumentata da 2 a 5 volte allo sviluppo di complicanze cardiovascolari. Queste complicanze sono molto più frequenti e di comune riscontro nella pratica clinica rispetto a quelle che si realizzano in acuto. Le complicanze croniche del diabete mellito interessano diversi organi e sistemi e sono responsabili della maggiore morbilità e mortalità associate alla malattia. Queste complicanze possono essere suddivise in: ▪ VASCOLARI, che a loro volta possono essere: o microvascolari  che causano retinopatia, neuropatia e nefropatia; o macrovascolari  che causano malattia coronarica (CHD, Coronary Heart Disease), malattia arteriosa periferica (PAD, Peripheral Arterial Disease), malattia cerebrovascolare. Inoltre, in presenza di un danno microvascolare se ne realizza anche (quasi sempre) uno macrovascolare. ▪ NON VASCOLARI, come  gastroparesi, infezioni, modificazioni della pelle, cataratta, glaucoma, malattia periodontale, perdita dell’udito, perdita delle funzioni cognitive nell’anziano; (non sono complicanze vascolari ma hanno comunque alla loro base anche un danno vascolare pregresso che può essere micro o macrovascolare). Il paziente diabetico è caratterizzato da un eccesso di mortalità per tutte queste conseguenze sopra citate, rispetto ad un paziente non diabetico della stessa età e con le stesse caratteristiche. Questa mortalità, nel diabete di tipo 2, è tanto più alta: - quanto più scarso è il controllo glicemico del paziente; - quanto più è sviluppata (e grave) l’insufficienza renale (come dimostrato da uno studio svedese che ha messo a confronto tutta la popolazione diabetica della Svezia con la popolazione sana, evidenziando, tra le altre cose, che il paziente diabetico di 75 anni che è compensato e non ha danni renali ha una mortalità inferiore a quella del paziente sano della stessa età); - quanto più è bassa l’età del paziente (come dimostrato da uno studio canadese che ha preso in esame, tra il 1996 e il 2009, milioni di persone, mettendo a confronto la mortalità del paziente diabetico e del paziente non diabetico della stessa età e delle stesse condizioni, evidenziando: un eccesso di mortalità di 1,67 punti per la fascia d’età 65-74 anni e di 1,1 punti al di sopra dei 74 anni; un eccesso di mortalità di 2,45 punti per la fascia d’età 45-64 anni e di 4,89 punti per la fascia d’età 20-44 anni). COMPLICANZE MICROVASCOLARI DEL DIABETE FISIOPATOLOGIA L’iperglicemia provoca una serie di danni a livello del microcircolo, ovvero dei capillari e delle arteriole dei vari organi e tessuti; in particolare questi danno segno di sé a livello oculare (dove inducono una retinopatia), dei vasa nervorum (con conseguente neuropatia diffusa) e del glomerulo renale (con conseguente nefropatia). Oltre a queste, si realizzano anche alterazioni del macrocircolo e complicanze diffuse ad altri organi e tessuti. La microangiopatia diabetica determina delle modificazioni patologiche osservabili, che sono: • Ispessimento della membrana basale. • Alterazione delle cellule endoteliali, che vanno incontro a regressioni. • Danno dei periciti, cioè delle cellule che si trovano intorno ai capillari con funzioni trofiche e di sostegno per le cellule endoteliali stesse; inoltre controllano le giunzioni intercellulari (sono 29 Malattie metaboliche quindi in grado di regolare la permeabilità endoteliale), fanno fagocitosi, producono elementi della matrice extracellulare e collaborano alla cinesi (costrizione o rilasciamento) del vaso. Queste modificazioni sono comuni a tutti i danni microvascolari che insorgono come complicanza del diabete mellito. La progressione di questi cambiamenti patologici correla direttamente con la severità della complicanza stessa. In particolare, tanto più si ispessisce la membrana basale del vaso, tanto più sarà grave il danno (soprattutto a livello del rene e del nervo). Nel paziente diabetico, così come nel paziente iperteso, il rapporto tra lo spessore della parete del vaso e il diametro del suo lume tende ad aumentare, portando alla formazione di vasi con pareti sempre meno elastiche. Come conseguenza, si sviluppano problemi di tipo ischemico, oltre che una riduzione della risposta miogenica: il paziente con microangiopatia diabetica non è in grado di far fronte ad un aumento improvviso della pressione arteriosa sistemica, dal momento che i suoi vasi non possono dilatarsi velocemente sotto la spinta esercitata dal sangue a maggiore pressione sulle pareti, con importanti conseguenze a valle, soprattutto in termini di edema interstiziale e danneggiamento tessutale. Il danno cellulare a livello del microcircolo è direttamente collegato alla glicemia; tanto più questa è alta e tanto più a lungo si mantiene tale, quanto più è grave il danno. Oltre a questo, è importante sottolineare che esistono però alcuni pazienti più suscettibili (su base genetica) di altri a sviluppare la microangiopatia diabetica. I MECCANISMI BIOCHIMICI DEL DANNO I meccanismi biochimici che portano allo sviluppo del danno microvascolare sono spiegati da almeno 4 teorie diverse, che possono essere riassunte in un unico modello con 4 meccanismi diversi (dal momento che non sono tra loro mutualmente esclusive). 1. Formazione degli AGEs (Advanced Glycosylation End products), ovvero i prodotti terminali della glicosilazione  dal momento che i livelli di glicemia sono alti, alcune proteine vengono glicosilate (così come accade normalmente per l’emoglobina, con la formazione di emoglobina glicata); i prodotti della glicosilazione sono proteine che assumono una struttura e una funzione diverse da quelle originali. Si tratta di proteine coinvolte nella fagocitosi, nei processi di apoptosi, di trasduzione del segnale e nell’ubiquitinazione; più in generale, di proteine (comprese quelle della matrice extracellulare e del connettivo che circonda i vasi) che subiscono modificazioni tali da innescare meccanismi di attivazione cellulare e di eventi pro-infiammatori e pro-ossidanti. Gli AGEs determinano a loro volta la modificazione di molecole lipidiche (LDL soprattutto), che possono essere facilmente ossidate e si depositano nella parete del vaso, causando la formazione della placca ateromasica. Tutto questo contribuisce a rendere la parete del vaso stesso meno elastica e più rigida. 30 Malattie endocrino-metaboliche e dell’apparato gastroenterico Gli AGEs inoltre inducono una disfunzione glomerulare, per la deposizione nel mesangio glomerulare di proteine glicate e modificate che sono responsabili del danno glomerulare. Infine, queste proteine determinano una riduzione della sintesi dell’ossido nitrico, inducendo una disfunzione endoteliale, aumentando il rischio trombotico e riducendo la possibilità di mediare una vasodilatazione. Gli AGEs vengono prodotti attraverso una serie di tappe intermedie, che implicano la produzione di basi di Schiff e dei “prodotti di Amadori”, che, attraverso la formazione di prodotti reattivi intermedi, portano alla formazione degli AGEs definitivi. Questi, una volta in circolo, sono anche in grado di fungere da molecole segnale e di attivare vie di trasduzione del segnale che sono responsabili dell’attivazione del fattore di trascrizione NF-κB; quest’ultimo media la trascrizione di citochine (IL-1, IL-6 e TNF-α) e di molecole di superficie (ICAM-1, VCAM-1, ecc) responsabili dell’innesco di una risposta infiammatoria e di uno stress ossidativo che sono alla base del danno microvascolare. 2. Aumentata sintesi dei polioli  l’iperglicemia è responsabile di un aumentato metabolismo del glucosio attraverso la via del sorbitolo. Il glucosio intracellulare è metabolizzato principalmente attraverso la sua fosforilazione e la glicolisi, ma quando i suoi livelli aumentano, una parte del glucosio è convertito in sorbitolo dall’enzima aldosio reduttasi. L’aumentata concentrazione di sorbitolo: - altera i potenziali redox, - aumenta l’osmolarità cellulare; - genera specie reattive dell’ossigeno (ROS). Nonostante questo, sono stati testati dei farmaci in grado di inibire la aldosio reduttasi per cercare di ridurre il danno cellulare mediato dai meccanismi sopra descritti; i risultati non hanno dimostrato nessun beneficio in termini di miglioramento clinico di retinopatia, neuropatia e nefropatia diabetiche. 3. Attivazione della proteina chinasi C (PKC)  l’iperglicemia aumenta la produzione di diacilglicerolo, portando alla maggiore attivazione di PKC, la quale altera la trascrizione di: - geni per la fibronectina; - collagene di tipo IV; - proteine contrattili; - proteine della matrice extracellulare nelle cellule endoteliali e neuronali. Per questo motivo, inibitori della PKC sono stati studiati in diversi trials clinici. 33 Malattie metaboliche FISIOPATOLOGIA In condizioni normali, le cellule endoteliali e i periciti dei vasi sanguigni della retina, gli astrociti, le cellule di Muller e i neuroni sono intimamente connessi per formare una barriera sangue/retina al fine di controllare il flusso nutritizio verso la retina neurale per un corretto bilancio energetico, di mantenere un ambiente ionico adatto alla segnalazione neuronale, di regolare la trasmissione sinaptica e di fornire risposte adattative all’ambiente per permettere la visione. L’evento scatenate il processo patologico è un danno endoteliale e dei periciti dei vasi retinici, che porta all’instaurazione di una flogosi, che è responsabile dell’edema maculare nella fase non proliferativa, seguita da un’angiogenesi nella fase proliferativa. L’edema maculare (presente nel 25% dei diabetici) è la caratteristica clinica più strettamente associata alla perdita della visione. Il VEGF gioca un ruolo centrale nella patogenesi dell’edema maculare e della neoangiogenesi; questo fattore di crescita viene rilasciato dalle cellule di Muller e della glia e induce una permeabilità vascolare attraverso la β-attivazione della PKC. Quest’attivazione induce l’ubiquitinazione delle tight junctions formate dall’occludina, determinando la distruzione di questa proteina e aumentando la permeabilità vascolare. (Studi su animali hanno dimostrato un’efficacia nell’impiego di inibitori della PKC come ruboxistaurina per ridurre l’edema maculare diabetico). Altri mediatori del pathway attivato dal VEGF, come la Src e le callicreine, contribuiscono ulteriormente al quadro di infiammazione e di edema locale, con perdita dei periciti e quindi della stabilità del capillare retinico a quel livello. Contemporaneamente, si realizzano anche una serie di eventi che possono essere definiti pro- trombotici: uno di questi è la leucostasi, che è legata alla tendenza degli endoteli, in corso di infiammazione, ad esprimere molecole di adesione che legano i leucociti e li “bloccano” nel lume del vaso, determinando ischemia a valle e un danno parietale sempre più accentuato. Si distinguono due tipi di alterazioni che si possono notare sul fondo dell’occhio: • alterazioni della parete dei vasi, tra cui: ▪ microaneurismi, ▪ ispessimento della membrana basale, ▪ venule tortuose e dilatate; • alterazioni della permeabilità vasale e infiammazione: ▪ formazione di essudato lipidico, ▪ microemorragie, ▪ spot associati ad un danneggiamento nervoso ed ischemico. 34 Malattie endocrino-metaboliche e dell’apparato gastroenterico Le caratteristiche di queste lesioni sono facilmente evidenziabili attraverso un’immagine oftalmoscopica, che permette di osservare nella fase non proliferativa: - strozzature arteriolari (AN, Arteriolar Narrowing); - emorragie (NFH, Nerve-Fiber Hemorrhage); - essudati solidi (HE, Hard Exudates); - spots (CWS, Cotton-Wool Spots); - emorragie preretiniche (PRH, PreRetinal Hemorrhage). Nella fase proliferativa si assiste invece alla proliferazione di nuovi vasi dal disco ottico, che richiedono una fotocoagulazione con laser panretinica. SCREENING La retinopatia diabetica è nei paesi occidentali la prima causa di cecità legale in età lavorativa: deve dunque essere adeguatamente prevenuta e trattata. L’acuità visiva è persa tardivamente, quando le lesioni sono già avanzate. È dunque indispensabile sottoporre i pazienti a screening con intervalli periodici, iniziando nel diabete di tipo 1 dopo 3 anni dalla diagnosi, nel diabete di tipo 2 - in cui la diagnosi può essere tardiva rispetto all’inizio della malattia - dal momento della diagnosi. Se non esistono alterazioni, il follow-up viene ripetuto ogni due anni, altrimenti ad intervalli più ravvicinati. Lo screening della retinopatia diabetica può essere eseguito mediante una delle seguenti metodiche: ▪ oftalmoscopia ▪ retinografia (fotografie a colori del fondo oculare) ▪ fluorangiografia  esame volto a valutare in maniera dettagliata i vasi della retina; prima dell’esecuzione delle fotografie si inietta in vena la fluorecsina sodica. La fluorangiografia permette di creare una mappa vascolare della retina, molto utile in previsione di una terapia laser, mostrando le aree ischemiche e i neovasi, quindi i bersagli da trattare. 35 Malattie metaboliche ▪ Tomografia a coerenza ottica (OCT)  utilizza una tecnica di misurazione ottica chiamata interferometria a bassa coerenza; il principio di funzionamento dell’interferometria è simile a quello dell’ecografia, differenziandosene per il fatto di sfruttare la riflessione di onde luminose da parte delle diverse strutture oculari piuttosto che la riflessione delle onde acustiche. Le immagini tomografiche ottenute con l’OCT permettono uno studio sia di tipo qualitativo che quantitativo del tessuto retinico. Soggetto sano Paziente diabetico con RD TERAPIA Nel corso della terapia per la retinopatia diabetica vanno costantemente controllate attentamente la glicemia e la pressione sanguigna. Vengono infatti impiegati farmaci (i sartani) che riducono la pressione bloccando il recettore AT1 dell’angiotensina II, bloccando di fatto il sistema renina- angiotensina-adosterone alla fine della catena. Questi sono i farmaci anti-ipertensivi più usati (anche in altre patologie) e sono particolarmente indicati nel paziente diabetico perché non solo abbassano la pressione, ma sono anche in grado di bloccare altri processi innescati dalla segnalazione a valle dell’angiotensina II che sono alla base della fisiopatologia della retinopatia diabetica. Inoltre, nella terapia della RD vengono impiegati anticorpi monoclonali (somministrati sotto forma di iniezioni intravitreali) che hanno come bersaglio il VEGF (Ranibizumab, venduto col nome commerciale di Lucentis). 38 Malattie endocrino-metaboliche e dell’apparato gastroenterico ANATOMO-PATOLOGIA Le lesioni anatomo-patologiche vengono classificate in base alla loro gravità e all’estensione, rilevabili solo mediante biopsia renale, che viene eseguita solo in alcuni casi. CLINICA Un dato clinico di frequente riscontro in corso di nefropatia diabetica è la proteinuria; si distinguono: Se la proteinuria è >3 g di albumina al giorno si parla di sindrome nefrosica. Le caratteristiche cliniche della nefropatia sono diverse nel diabete di tipo 1 e in quello di tipo 2. ▪ Nel diabete di tipo 1  l’iperperfusione glomerulare e l’ipertrofia renale si sviluppano nel primo anno dopo l’insorgenza della patologia e sono associati all’aumento della GFR. Durante i primi 5 anni si realizzano un ispessimento della membrana basale, l’ipertrofia glomerulare e un’espansione del volume mesangiale, mentre il GFR ritorna alla normalità. Dopo un periodo che va da 5 a 10 anni dalla comparsa del diabete di tipo 1, il 40% degli individui comincia a perdere piccole quantità di albumina nelle urine (microalbuminuria) e questa perdita progredisce verso la macroalbuminuria nei 10 anni successivi nel 50% dei pazienti. Una volta che si manifesta la macroalbuminuria si instaura un costante declino della GFR e il 50% dei pazienti sviluppa una ESRD in 7-10 anni; contemporaneamente, l’aumento della pressione sanguigno associato determina una serie di danni per lo più irreversibili. ▪ Nel diabete di tipo 2  la microalbuminuria o la macroalbuminuria possono presentarsi quando la patologia viene diagnosticata, evidenziando la durata del periodo asintomatico in questo tipo di diabete. Nella maggior parte dei casi di diabete di tipo 2 l’ipertensione accompagna la perdita di albumina nelle urine. La microalbuminuria, in particolare, risulta meno predittiva di nefropatia diabetica in questo tipo di diabete. Infine, non va dimenticato che in questi casi l’albuminuria è secondaria a fattori non legati direttamente alla nefropatia diabetica, come l’ipertensione, lo scompenso cardiaco, la prostatite o infezioni. 39 Malattie metaboliche Non tutti i danni renali che si riscontrano nel paziente diabetico sono legati alla nefropatia; alterazioni suggestive per causa non diabetica della patologia renale in un paziente diabetico sono: • assenza di retinopatia e neuropatia; • persistente ematuria micro o macroscopica; • sintomi o segni di patologia sistemica differente dal diabete; • rapido incremento della creatinina; • elevati livelli di creatinina in assenza di rilevante proteinuria; • storia famigliare di rene policistico o Sindrome di Alport (mutazione collagene tipo IV); • breve durata della malattia diabetica. Il paziente diabetico con macroalbuminuria è ad alto rischio di complicanze cardiovascolari (la morte per queste cause è fino a dieci volte più frequente in questo tipo di paziente) e ha frequentemente (ma non sempre) una concomitante retinopatia e/o nefropatia diabetica. Una volta che la macroalbuminuria è presente ha inizio una fase di declino della GFR e il 50% dei pazienti raggiunge l’ESRD in 7-10 anni; la sopravvivenza con ESRD, inoltre, è molto più breve nei pazienti diabetici rispetto a pazienti non diabetici con la stessa ESRD. Una volta che compare la macroalbuminuria, infine, la pressione sanguigna generalmente cresce e le alterazioni anatomo- patologiche sono praticamente irreversibili. SCREENING Lo screening della nefropatia diabetica inizia quando si fa diagnosi di diabete, con controlli annuali dell’albuminuria: se il test è positivo si procede facendo la raccolta delle urine nelle 24 ore. Se si possono escludere condizioni che portano ad un transitorio aumento dell’escrezione proteica renale si ripetono test dell’albuminuria ogni 3-6 mesi; se 2 test su 3 sono negativi si ritorna a fare test annuali “semplici”, se positivi si inizia la terapia. 40 Malattie endocrino-metaboliche e dell’apparato gastroenterico TRATTAMENTO Il trattamento della nefropatia diabetica avviene attraverso 3 step: • normalizzazione della glicemia  questo può portare ad una riduzione del 39% della microalbuminuria e del 54% della nefropatia diabetica (in termini clinici); • stretto controllo della pressione sanguigna  che dovrebbe essere mantenuta entro i valori di 130/80 mmHg nel paziente diabetico; questo può portare ad una riduzione compresa tra il 32 e il 56% delle complicanze micro- e macro-vascolari; • somministrazione di ACE-inibitori o ARBs (sartani)  che conferiscono benefici in corso di nefropatia diabetica (ma non solo) indipendentemente dal controllo della pressione sanguigna (inibendo, nel caso della nefropatia, l’apoptosi dei podociti attivata dalla via AT1R- dipendente). o Gli ACE-inibitori vengono somministrati con dosaggi diversi a seconda del farmaco selezionato: - Captopril (Capoten) cpr 25-50 mg, 50-150 mg/die in 3 somministrazioni. - Enalapril (Enapren) cpr 5-20mg, 5-40/mg/die in 1-2 somministrazioni. - Fosinopril (Fosipres) cpr 10-20 mg, 10-80 mg/die in 1-2 somministrazioni. - Ramipril (Unipril) cpr 2,5-5-10mg, 1,25-20mg/die in 1-2 somministrazioni. (In trials clinici controllati gli ACE-inibitori hanno ridotto la mortalità da cause cardiovascolari sia in pazienti con disfunzione ventricolare sinistra che in pazienti non cardiopatici in confronto ai diuretici tiazidici. Rallentano la progressione del danno renale nei pazienti diabetici o affetti da nefropatie non diabetiche). o I farmaci bloccanti il recettore AT1 per l’angiotensina (sartani) sono particolarmente indicati in quei pazienti che sviluppano tosse indotta da ACE-inibitori e possono essere somministrati (ad un dosaggio più basso) anche nel paziente diabetico con pressione normale; sono: - Losartaan (Lortaan) cpr 12,5-50 mg, 25-100 mg/die in 1-2 somministrazioni. - Irbesartan (Aprovel) cpr 75-150-300mg, 150-300/mg/die in monosommistrazione. - Valsartan (Tareg) cpr 80-160mg, 80-320mg/die in monosommistrazione. (In trials clinici controllati Irbesartan e Losartan hanno rallentato la progressione del danno renale nei pazienti diabetici.“Non inferiorità” nella protezione cardiaca in confronto agli ACE-inibitori). 43 Malattie metaboliche CASI CLINICI 1. Paziente maschio di anni 51 anni che si reca dal medico curante per comparsa di edema ed eritema al piede destro e nella parte distale dell’arto in assenza di traumatismi. Nel sospetto di tromboflebite e di infezione delle parti molli viene iniziata dal curante terapia anticoagulante con enoxeparina e terapia antibiotica con Ceftriaxone intra-muscolo. Vengono prescritti esami ematochimici che rivelano: leucocitosi neutrofila (WBC 16700 (N 88, L12), PCR 32 e glicemia 391 mg/dl (non nota in precedenza). Paziente senza dati anamnestici significativi. Famigliarità per obesità e DM di tipo 2. Il paziente è marcatamente obeso (BMI 41), non fumatore, normoteso e svolge attività lavorativa in proprio come piccolo imprenditore. Quattro giorni dopo il paziente viene inviato in PS in seguito a comparsa di ipertermia e viene valutato presso l'Ambulatorio del piede diabetico nella Divisione di Medicina Interna 3 dove si riscontra lesione ulcerosa con gangrena dell'alluce, del I metatarso e cellulite dell'avampiede; si dispone il ricovero immediato in Medicina d'Urgenza. Qui viene iniziata terapia antibiotica con piperacillina tazobactam e terapia insulinica dapprima endovena poi con schema basal-bolus. HbA1c 12,4%. Diabete di tipo 2. Vengono eseguite emocolture risultate poi negative. Vengono effettuati tamponi su un’ampia lesione ulcerosa in sede plantare con fistolizzazione interdigitale di I e II metatarso: crescita di Stafilococco aureo ed Enterococco fecale sensibili ad amoxicillina. EO piedi: polsi periferici presenti pulsatili al Doppler: perdita della sensibilità tattile, termica e dolorifica agli arti inferiori.  Neuropatia diabetica. Screening delle complicanze micro- e macrovascolari del diabete: o Creatinina: 1,6 con microalbuminuria: 280 mg/24/h.  Nefropatia diabetica. o All’ecocardiogramma: ventricolo sinistro con moderata ipocinesia più marcata a livello del setto inferiore e parete inferiore; funzione sistolica globalmente lievemente compromessa, FE 45%. Posta indicazione ad esame coronarografico (per sospetto di aterosclerosi). o All’esame retinico: retinopatia non proliferante. 2. Paziente di 58 anni con diabete di tipo 2 diagnosticato 2 anni prima durante un controllo, dal quale emerge un quadro di epatite cronica per infezione da HCV. In terapia con metformina (per il diabete) ed interferone (per l’epatite); quest’ultimo farmaco oggi è sostituito da farmaci specifici e più efficaci per il trattamento dell’epatite C, e dà effetti collaterali frequenti simili a quelli di un quadro influenzale, con dolore, astenia, mialgie, ecc. Due anni prima la funzionalità renale era nella norma e non erano presenti segni di retinopatia all’esame oculistico. Viene inviato in pronto soccorso dal medico curante perché ha notato la comparsa di petecchie rilevate sulla superficie degli arti inferiori (porpora palpabile4), associate edema a livello delle caviglie e ad artralgie a livello di ginocchio e caviglie, comparse alcuni giorni della settimana precedente all’arrivo in pronto soccorso. Inoltre, negli ultimi giorni il paziente riferiva l’emissione di urine rossastre, senza avere disturbi della minzione. (Il fenomeno emorragico che è alla base della petecchia palpabile, in questo paziente, ha alla base una vasculite, cioè un’infiammazione dei vasi e del sottocutaneo, responsabile anche della comparsa dell’edema). 4 Porpora palpabile  reperto di lesioni purpuree che non scompaiono alla palpazione e che sono il segno di un evento emorragico e infiammatorio nel sottocutaneo, stabile nel tempo (non è associato ad una vasodilatazione transitoria). Si tratta di lesioni confluenti, con la tendenza a formare aree più grandi e rilevate sulla superficie del derma. Ben diverse sono le petecchie da piastrinopenia, che sono formazioni puntiformi rossastre segno di piccole emorragie, non rilevate sulla superficie del derma e non sono quindi palpabili. 44 Malattie endocrino-metaboliche e dell’apparato gastroenterico Gli ematochimici evidenziano: WBC 4000, Hb 11,9 g/dl, piastrine 104 x10000/uL (basse, ma non tanto da giustificare un fenomeno emorragico, che si ha solo se le piastrine scendono sotto le 10-15 mila unità), sodio e potassio nella norma, glicemia alta (paziente diabetico noto), creatinina 1,6 mg/dl (aumentata rispetto agli ultimi controlli), AST e ALT leggermente alte e gammaglutamil-transpeptidasi alta (paziente con epatite cronica nota), PCR elevata (quadro flogistico sottostante, che si accorda con l’aspetto clinico del paziente), coagulazione nella norma, D-dimero più alto (prodotto di dimerizzazione del fibrinogeno, i cui livelli salgono quando c’è un processo trombotico o anche solo infiammatorio a livello vascolare in atto). L’ECG e l’RX torace non sono significativi. L’esame delle urine rivela un’Hb alta, proteine alte e un tappeto di globuli rossi nel sedimento, con alcuni cilindri ematici, che sono formazioni proteiche che inglobano globuli rossi nel decorso dell’uretere. Sulla base di queste caratteristiche è evidente la presenza di un danno renale, che NON è compatibile con quello di una nefropatia diabetica, per la presenza di ematuria e per il buono stato della retina, dal momento che il paziente (come 2 anni prima) non presenta retinopatia. Questo quadro inoltre non è compatibile con quello di un’infezione delle vie urinarie (non ci sono segni di infezioni quali febbre, disuria, pollachiuria o dolore alla minzione). La diagnosi sarà quindi quella di una patologia renale non collegata con il diabete. Procedendo con esami più specifici, si richiede un esame delle urine nelle 24 ore, che rileva una microalbuminuria (che coesiste con valori normali o alti di creatinina; quando il filtrato glomerulare diminuisce e si sviluppa macroalbuminuria la creatininemia si abbassa). Un quadro proteico (che si fa in quadri di processi immunologici o autoimmuni) rileva una frazione di γ-globuline del 24%, superiore alla norma, in un quadro di iper-γglobulinemia policlonale, che è di frequente riscontro in caso di epatopatie croniche o di cirrosi. Successivamente viene richiesto un reuma-TEST, che è positivo e denuncia la presenza di un immunocomplesso circolante formato da immunoglobuline che reagiscono tra di loro; in particolare, questo paziente era positivo alle crioglobuline, immunoglobuline che precipitano “a freddo”. In più, si è visto che queste crioglobuiline erano delle IgM monoclonali anti-IgG  tutto questo quadro coincide perfettamente con quello dell’infezione cronica da HCV, che determina l’innesco di un processo di attivazione immunologica che a sua volta porta alla produzione di globuline che precipitano nei tessuti a livello basale nelle articolazioni, nel tessuto cutaneo e nel glomerulo renale, provocando una vasculite in diversi distretti, che determina il quadro descritto in questo paziente. 45 Malattie metaboliche IL PIEDE DIABETICO Il piede diabetico è una delle principali complicanze del diabete, che affligge il 3-10% dei soggetti diabetici: nella popolazione europea generale l'incidenza dell'amputazione chirurgica degli arti va da 200 a 280 casi per milione di abitanti per anno, mentre nei diabetici aumenta fino a 3.000-3.900 per milione per anno. I costi correlati sono sia legati al ricovero che alla gestione dell’invalidità del paziente: ovviamente si cerca di limitare il più possibile l’amputazione, soprattutto nei soggetti giovani, utilizzando anche protesi. La patologia del piede, soprattutto se di origine vascolare, è segno di compromissione generale dell’individuo, e la mortalità dei soggetti sottoposti ad amputazione è alta (circa del 50% in 5 anni di follow-up) ed è legata a patologie ischemiche (cardiache o vasculopatie cerebrali), a insufficienza renale e a neoplasie, oppure a infezioni susseguenti al piede diabetico. La lesione più caratteristica del piede diabetico è l’ulcera, cioè una lesione che interessa la cute a tutto spessore, fino ai piani profondi (quelli muscolari e muscolo-tendinei). I processi patogenetici principali che fanno sì che al diabete si associ questo tipo di lesione sono quelli legati alla neuropatia e alla angiopatia. La neuropatia è presente nel 60-80% dei soggetti diabetici, con una certa variabilità a seconda del compenso, della durata di malattia (è considerabile come un processo tempo-dipendente) e della severità della malattia nel tempo. La neuropatia ha differenti componenti: • Componente sensitiva  la prevalente, che porta a riduzione della sensibilità propriocettiva e dolorifica, quindi dei riflessi osteo-tendinei, ma anche della percezione del caldo e del freddo, della sensibilità vibratoria e protettiva (il paziente, ad esempio, non avverte un danno quando questo avviene). La perdita della sensibilità dolorifica, tuttavia, è la prima che si realizza, in quanto le fibre che veicolano la sensazione nocicettiva sono mieliniche piccole o amieliniche, le più suscettibili al danno legato all’iperglicemia. • Componente motoria  che porta a ridotta motilità soprattutto a carico dei piccoli muscoli del piede, risultando nella perdita dei movimenti fini e in una complessiva rigidità articolare (legata ai processi di glicosilazione tipici del diabete). • Componente vegetativa  che porta ad alterata sudorazione e vasoregolazione, per cui la perfusione tissutale non è ottimale. L’insieme di queste componenti comporta la comparsa di deformità, di alterazione dei piani di appoggio, di suscettibilità allo stress tangenziale e maggiore suscettibilità ai traumi, condizioni che a loro volta favoriscono la comparsa di callosità e ulcerazioni nelle aree più a contatto con la calzatura. La callosità infatti è un fattore favorente per l’ulcera, in quanto al si sotto di essa possono verificarsi fenomeni di emorragie, microemorragie, formazione di vescicole e infezioni: il paziente diabetico, poi, è più prono alle infezioni, specialmente se scompensato, perché ha una ridotta funzionalità leucocitaria (ad esempio perché i polimorfonucleati presentano una minore capacità di produrre radicali liberi), un’alterazione del microcircolo e una complessiva rigidità tissutale e connettivale. Gioca anche un ruolo la mancanza di attenzione al problema, che spesso si associa a un basso livello di scolarità, non completa adesione alla terapia e scarsa igiene.  La neuropatia sensitivo-motoria e vegetativa sono i fattori che predispongono all’ulcera, mentre la componente vascolare è un fattore prevalentemente prognostico. 48 Malattie endocrino-metaboliche e dell’apparato gastroenterico “segno della vetrina”, chiamato così perché il paziente si ferma a guardare una vetrina per riposare e far riprendere il flusso. L’intervallo va da pochi a centinaia di metri; • piedi freddi: si valuta la temperatura tra un arto e l’altro; • dolore notturno, segno di maggiore severità dell’arteriopatia, generalmente migliora posizionandosi con gli altri pendenti, in modo da favorire il circolo; • dolore a riposo; • dolore a riposo e notturno; • polsi arteriosi assenti: se si percepiscono i polsi, invece, è difficile che il paziente abbia un’arteriopatia; • pallore all’elevazione; • ritardato riempimento venoso dopo elevazione; • rossore con arti pendenti; • atrofia del grasso sottocutaneo; • pelle lucida e nerastra; • perdita dei peli su piedi e dita; • unghie ispessite, spesso con infezione micotica; • gangrena; • miscellanea: sindrome del dito blu, segno di cianosi, occlusione vascolare acuta. Nell’arteriopatia del diabetico spesso i valori pressori sono elevati perché i vasi sono calcifici e quindi meno comprimibili; per misurarli si utilizza una sonda doppler e uno sfigmomanometro: si gonfia il manicotto a livello della caviglia e si valuta la comparsa del flusso. Se un’ulcera non guarisce anche dopo il trattamento è necessaria un’indagine vascolare più approfondita dell’ecodoppler, cioè l’angiografia, che dà informazioni più dettagliate sullo stato del circolo e, nel caso sia necessaria l’amputazione, definisce il livello al quale questa deve essere praticata. La classificazione di Leriche-Fontaine divide la severità dell’arteriopatia periferica in 4 stadi: - I stadio  il paziente è asintomatico; - II stadio  comparsa della claudicatio, che può essere: o lieve se compare dopo i 200 m di intervallo di marcia, o severa se compare al disotto dei 200 m; - III stadio  dolore a riposo; - IV stadio  comparsa di ulcera o gangrena. Spesso i pazienti si presentano già all’ultimo stadio o perché sono mancati o non sono stati riconosciuti gli stadi precedenti. ISCHEMIA CRITICA CRONICA L’ischemia critica cronica (ICC) è definita come dolore a riposo, ulcera o gangrena, attribuibili a provata patologia occlusiva arteriosa, da differenziare con l’ischemia critica acuta, che richiede un intervento medico in emergenza. I parametri strumentali per diagnosticare l’ICC, al di là dei sintomi e segni, sono: - pressione alla caviglia <50-70 mmHg; - pressione all’alluce <30-50 mmHg; - TcPO2 (tensione transcutanea di O2) <30 mmHg. Il gold standard per la diagnosi è la TcPO2, perché la pressione alla caviglia e all’alluce è poco attendibile per il fatto che i vasi possono essere calcifici e falsare il dato misurato all’ecodoppler. I parametri per la diagnosi differenziale con l’ischemia critica acuta sono svariati: - neuropatia diabetica sensitiva, - compressione di una radice nervosa, - neuropatia sensitiva periferica (deficit di B12, lebbra, etilismo, tossine), - crampi notturni, che non sono segno di ischemia, - patologia varia (gotta, artrite reumatoide, compressione al tunnel tarsale, fascite plantare), 49 Malattie metaboliche - ulcere venose, molto frequenti (insorgono in seguito a insufficienza e conseguente ipertensione venosa e comunemente compaiono sulla superficie mediale e laterale delle gambe), - ulcere da neuropatia diabetica, - vasculiti e malattie del collagene, che causano ulcere a livello della gamba più che del piede, - ulcere nelle malattie ematologiche (anemia falciforme), - varie, come ulcere delle IBD, ulcere maligne, necrobiosi lipoidica (patologia degenerativa a comportamento benigno ed evoluzione lentamente progressiva coinvolgente il tessuto connettivo: si presenta con delle piccole papule di colore bruno-rossastro che tendono a fondersi tra loro formando delle placche di dimensioni variabili e forma ovalare o irregolare), - morbo di Buerger: caratteristico dei fumatori, interessa vene (può dare tromboflebite migrante) e arterie distali (raramente le prossimali). Si sviluppa in assenza di altri fattori tipici dell’aterosclerosi, come l’iperlipidemia, ed è associato al fenomeno di Raynaud. ITER DIAGNOSTICO DELL’ARTERIOPATIA PERIFERICA 1. Esame obiettivo che si focalizza su: • ispezione, per osservare il colorito della cute, la differenza tra un arto e l’altro; • palpazione, per apprezzare i polsi e la temperatura cutanea; • auscultazione a livello dei polsi carotidei, dell’aorta addominale e di vasi iliaci-femorali per ricercare eventuali soffi arteriosi, segno appunto di arteriopatie. Per quanto riguarda i polsi, essi vanno valutati a livello della tibiale anteriore o pedidia, tibiale posteriore e interossea (che passa nella loggia tibiale, più difficile da apprezzare). 2. Doppler, che dà informazioni sulla presenza ed efficienza del vaso e sul flusso, quindi se, ad esempio, è diretto e se presenta le fasi sistolica e diastolica. 3. Ecodoppler arterioso, che fornisce informazioni morfologiche sul vaso, come la presenza di stenosi o ostruzioni, localizzandone l’estensione: è attendibile soprattutto a livello dei grandi vasi di coscia e gambe, al di sotto del ginocchio l’osservazione diventa più critica per la dimensione dei vasi stessi, ulteriormente compromessa, appunto, da eventuali calcificazioni o restringimenti. Altre due limitazioni di questa tecnica sono il fatto di essere operatore-dipendente e di visualizzare male l’arcata plantare. 4. Ossimetria transcutanea, che è il gold standard per valutare la perfusione dell’area studiata: se c’è una buona TcPO2 il tessuto è sufficientemente perfuso; permette inoltre di valutare la sede e l’estensione delle lesioni arteriose. Se vi è compresenza di edema e/o flogosi locale, tuttavia, il valore può risultare falsamente basso. La procedura prevede l’applicazione sulla cute di un anello porta-elettrodo su cui vengono inserite delle gocce di liquido di contatto, dopodiché si inserisce un particolare elettrodo che, riscaldando la cute sottostante alla temperatura impostata dal medico, consente di misurare la TcPO2. Il riscaldamento cutaneo provoca un’iperemia locale che migliora la perfusione di ossigeno cutanea. Parte dell’ossigeno disponibile viene utilizzato per il metabolismo cellulare; quello che resta inutilizzato è quello che si diffonde nella cute e che viene misurato dall’elettrodo. Il parametro viene misurato con un piccolo strumento chiamato ossimetro transcutaneo, in genere a livello del dorso del piede o in altre sedi a livello dell’arto inferiore. L’esame dura circa 20-30 minuti. In generale, le indicazione dell’ossimetria sono: - determinare la severità dell’ischemia; - valutare il livello ottimale dell’amputazione; - verificare che una procedura di rivascolarizzazione sia stata efficace; - discriminare i candidati all’ossigenoterapia iperbarica; - valutare la perfusione intorno all’ulcera come predittore di guarigione (più raramente). Dal grafico si nota che soggetti con arteriopatia avevano una riduzione della TcPO2 molto più marcata nell’arto affetto rispetto all’arto controlaterale e che i pazienti con compromissione vascolare al di sotto del ginocchio hanno 50 Malattie endocrino-metaboliche e dell’apparato gastroenterico una minore TcPO2 rispetto a chi presenta arteriopatia localizzata prevalentemente al di sopra del ginocchio. 5. Arteriografia, esame gold standard per vedere in modo accurato le stenosi e le lesioni anche a livello dell’arcata plantare e permette di effettuare allo stesso tempo, se necessario, un’angioplastica. Un criterio ausiliario nell’iter diagnostico è l’ABI, cioè l’indice caviglia/braccio e viene calcolato facendo il rapporto tra la pressione sistolica a livello della caviglia e quella a livello del braccio: • se > 0,9 non c’è arteriopatia; • se è < 0.9 > 0.5 l’arteriopatia è molto probabile; • se è ≤ 0.5 l’arteriopatia è certa e grave. La limitazione dell’ABI, tuttavia, è che nel diabetico la calcificazione e conseguente rigidità dei vasi fanno sì che la pressione alla caviglia risulti elevata e che quindi l’indice si alzi fino a valori di 1-1,5. Su un certo numero di soggetti, infatti, l’ABI, la claudicatio e l’assenza di uno o più polsi non sempre coincidono, proprio a causa di una serie di limitazioni come quelle sopra citate relativamente all’ABI e ai singoli esami. TRATTAMENTO DELLA VASCULOPATIA PERIFERICA Esistono due tipi di approccio: • conservativo, quindi: attività fisica (fondamentale per mantenere un certo grado di perfusione), utilizzo di calzature adeguate, sospensione del fumo, trattamento aggressivo dei maggiori fattori di rischio, cioè ipertensione e dislipidemia, terapia antiaggregante (indispensabile); • chirurgico, qualora quello conservativo (che deve comunque sempre essere attuato) non sia sufficiente, e prevede: o Angioplastica, che è il trattamento di prima scelta perché si può fare contemporaneamente all’arteriografia, non necessita di anestesia generale, permette la guarigione di lesioni non altrimenti trattabili con trattamento chirurgico, è ripetibile in caso di ri-stenosi. Il miglioramento delle tecniche e l’utilizzo di stents la rende più efficace: bisogna puntualizzare, però, che gli stents non vengono utilizzati molto perché il flusso degli arti inferiori ha caratteristiche un po’ diverse rispetto a quello coronarico; possono essere tuttavia utilizzati in caso di rottura di un vaso. Inoltre non permangono lesioni cutanee e il ricovero è breve, di pochi giorni o in day hospital. In generale, nelle procedure di angioplastica, è importante cercare di fare in modo che almeno uno dei rami dalla poplitea (tibiale anteriore, posteriore e interossea) arrivi al piede e di preservare l’arcata plantare. Nella figura si nota, in alto, un’ostruzione multisegmentaria del vaso (la radiografia è stata fatta a livello del malleolo mediale) con vari circoli collaterali: a seguito della procedura di rivascolarizzazione, in basso, si vede un solo vaso, ma continuo fino al piede. I circoli collaterali si sono chiusi appunto perché è stato ristabilito il circolo principale e l’arco plantare è stato mantenuto. Complicanze legate a questo tipo di intervento possono essere ematomi, embolia distale (complicanza temibile soprattutto in seguito a rottura del vaso: per evitarlo vengono utilizzati cestelli per raccogliere eventuale materiale che si stacchi dalla parete dell’arteria e terapia fibrinolitica regionale), rottura di parete (non così rara perché i vasi trattati sono di solito rigidi e calcifici), complicanze sistemiche come l’insufficienza renale acuta da mezzo di contrasto e l’embolia colesterinica (distacco dalla parete del vaso di un pezzo di placca aterosclerotica che forma così un embolo), che nell’angioplastica degli arti inferiori è più rara, mentre si verifica più sovente a livello delle coronarie (perché con un accesso femorale 53 Malattie metaboliche QUADRI CLINICI ACUTI DEL PIEDE DIABETICO I quadri clinici acuti del piede diabetico sono sostanzialmente quattro: • cellulite, cioè interessamento infettivo-infiammatorio dell’avampiede, di dorso e pianta del piede o, nei casi più gravi, di tutto il piede e della gamba; • ascesso; • fascite, cioè interessamento necrotico dei tessuti profondi; • gangrena, quando il processo infettivo diventa destruente. Questo paziente presenta cellulite con gangrena umida al secondo e quarto dito: il tessuto infatti è gonfio, arrossato ed edematoso; un’ulteriore complicanza, in casi come questo, è la partenza di emboli settici dal piede. È associato inoltre un interessamento osteo-mielitico dei metatarsi. CLASSIFICAZIONI DELLE LESIONI DEL PIEDE DIABETICO La classificazione di Wagner si basa sull’estensione in senso quantitativo e in profondità delle lesioni. La classificazione di Texas invece è divisa in stadi (I-II-III) a loro volta suddivisi in gradi (A-B-C-D). Da questa classificazione si deduce che si può avere un’ischemica anche in assenza di un’ulcera vera e propria. In base a quest’ultima classificazione si definisce la prognosi della lesione, cioè se mette a rischio di amputazione o meno. In particolare si distinguono: ➢ Non limb-threatening (Gradi IA-IB) in presenza di: o lesioni superficiali (assenza di coinvolgimento di osso o articolazione); o assenza di cellulite; o assenza di ischemia. 54 Malattie endocrino-metaboliche e dell’apparato gastroenterico ➢ Limb-threatening (Gradi IC-ID, IIB-IIC-IID, IIIB-IIIC-IIID) in presenza di: o ulcere profonde (con osteomielite); o ulcere superficiali in presenza di ischemia; o cellulite perilesionale >2 cm; o linfangite, che si manifesta con arrossamento ed edema di tutto il piede e della gamba. ➢ Life-threatening. INFEZIONE DEL PIEDE DIABETICO Le infezioni costituiscono una seria minaccia per l’arto e devono essere trattate in modo aggressivo: le infezioni superficiali sono solitamente causate da Gram+, quelle profonde sono invece polimicrobiche, con Gram- e anaerobi (più difficili da trovare perché muoiono durante l’esame culturale). I segni e sintomi, tuttavia, possono essere assenti nei pazienti diabetici o loro stessi possono non accorgersene. Per trattare l’infezione profonda è essenziale lo “sbrigliamento” del tessuto, cioè rimuovere quello necrotico e ripulire quello intorno con abbondanza di acqua ossigenata e Betadine. L’osteomielite è una frequente complicanza, poiché la distanza tra la cute e l’osso nei piedi è poca, quindi è facile che un processo infettivo si espanda. Sono segni di osteomielite: o esposizione dell’osso: tutto ciò che è a contatto con l’esterno per definizione è infetto; o segni radiologici: l’esame di riferimento è la risonanza ma anche la radiologia tradizionale è molto usata; o cultura batteriologica dei tessuti profondi positiva; o diagnosi istologica. In caso di osteomielite è necessario: - trattamento in regime di ricovero, - esame colturale ed antibiotici per via EV, - trattamento protratto per settimane/mesi, a meno che non si proceda a un’amputazione “minore”, come quella di un dito, - spesso amputazione localizzata. TRATTAMENTO DELLE ULCERE Il trattamento delle ulcere deve essere sia locale che sistemico. Il trattamento locale comprende: o il trattamento topico, quindi debridement (lo sbrigliamento del tessuto necrotico), medicazione, detersione, uso di agenti topici, ecc.; o il trattamento dell’infezione, quindi l’uso di antibiotici orali o EV; o il controllo del dolore con analgesici; o il trattamento dell’edema poiché è un fattore favorente per la diffusione dell’infezione e riduce la diffusione di O2. Durante il trattamento è fondamentale: - monitorare le condizioni generali del paziente e quindi lo stato di nutrizione, il compenso metabolico, la cessazione del fumo, ecc.; - operare una corretta chirurgia del piede, quindi incidere tutte le formazioni e drenarle, eventualmente procedere all’amputazione, ecc.; - migliorare il circolo, quindi se necessario operare una rivascolarizzazione. Per le ulcere neuropatiche è importante utilizzare delle calzature curative per operare uno scarico delle lesione, oppure immobilizzare del tutto il piede con un gesso, o utilizzare stampelle o sedie a rotelle. Spesso per riuscire a estirpare l’infezione è necessaria un’amputazione minore; le indicazioni per questo tipo di intervento sono: - rimozione di tessuto necrotico, - rimozione di tessuto infetto, - rimozione di osso osteitico, 55 Malattie metaboliche - correzione di deformità del piede. In seguito all’intervento l’ulcera rimane aperta ma con trattamento medico successivo va incontro a guarigione per seconda intenzione, quindi nell’arco di settimane o mesi. È necessario, infine, l’ausilio di opportuni presidi ortopedici che permette di correggere le deformità causate dalle amputazioni minori e di prevenire la recidiva di ulcere. 58 Malattie endocrino-metaboliche e dell’apparato gastroenterico La prognosi è buona se l’infezione è localizzata esclusivamente a livello dei seni paranasali, mentre non lo è, con mortalità molto elevata, quando coinvolge il SNC. • Infezioni enfisematose6 della colecisti7  possono portare a colecistite acuta (causa dell’1% dei casi) con febbre elevata, dolori locali (possibile peritonismo). Può rappresentare un’emergenza chirurgica, da trattare rapidamente. La lesione è ben visibile in una radiografia addominale, dove è possibile osservare la colecisti con presenza di aria ad indicare lo sviluppo di gas associato alla colecistite. Con la TC questa situazione è ancora più evidente (immagine in basso) ed è possibile osservare una colecisti molto distesa con un livello fluido-aria all’interno, ad indicare la produzione locale di gas. Oltre alla terapia antibiotica, importante è, come detto, l’intervento chirurgico, il quale è in grado di risolvere la situazione. Complicanze di rilievo possono essere gangrena e perforazione della colecisti, entrambe favorite da questo tipo di lesione, con una mortalità che, di conseguenza, aumenta notevolmente fino al 15-20% (normalmente la mortalità per colecistite acuta è estremamente bassa). A dare l’infezione sono dei germi classificabili in due categorie: o Gram-, tra i quali E. coli è uno dei principali; o Clostridium, batteri anaerobi. Il trattamento è essenzialmente chirurgico, mentre la terapia antibiotica è indicata nei casi più lievi ed in previsione dell’intervento chirurgico. I farmaci utilizzati sono antibiotici ad ampio spettro che agiscono sia sui Gram– che sugli anaerobi, tra questi l’ampicillina (Sulbactam) o la piperacillina (Tazobactam, specifico per i Gram–) associata o meno al metronidazolo, farmaco tipicamente utilizzato per combattere infezioni da anaerobi. • Infezione enfisematosa del tratto urinario  è una forma che può presentarsi anche in maniera non acuta (come nel caso della colecisti), ma può essere una manifestazione non particolarmente evidente dal punto di vista clinico: eseguendo una radiografia si evidenzia però un aspetto vescicale ricco di gas a livello delle pareti della vescia (immagine). Questa situazione può non essere associata ad una sintomatologia importante. Quando si presenta questo quadro, spesso, è presente il diabete scompensato con una glicosuria 6 Infezioni con produzione di gas mediata da batteri Gram– o da batteri anaerobi, osservabile facilmente con RX. L’infezione profonda da parte di batteri anaerobi è molto grave e tipica del paziente diabetico. 7 Circa la metà dei soggetti che presentano questo tipo di infezione sono pazienti diabetici. 59 Malattie metaboliche importante, sfruttata da batteri generalmente Gram-, tra i quali, anche in questo caso, E. coli è uno dei principali rappresentanti, oltre alla Klebsiella pneumoniae. La diagnosi si esegue con una radiografia ed il trattamento è essenzialmente antibiotico, utilizzando due farmaci contro i due batteri citati precedentemente (gli stessi citati per l’infezione della colecisti possono andare molto bene), in grado spesso di risolvere il quadro. In alcuni casi, come in presenza di un ascesso, si può effettuare un drenaggio della lesione e viene fatto, in parte, anche un trattamento chirurgico. • Otiti esterne  particolarmente invasive, causate da germi cutanei quale lo Staphylococcus aureus, che può avere un andamento molto aggressivo nel paziente diabetico. 60 Malattie endocrino-metaboliche e dell’apparato gastroenterico MANIFESTAZIONI DERMATOLOGICHE NEL PAZIENTE DIABETICO Le manifestazioni dermatologiche nel paziente diabetico non sono molto frequenti e non hanno base infettiva, ma sono collegate ai processi di microangiopatia che possono svilupparsi a livello cutaneo. Le manifestazioni cutanee più frequenti (in relazione al diabete) sono le ulcerazioni cutanee da ischemia (conseguenza del danno da micro e macroangiopatia), ma sono presenti alcuni quadri decisamente più rari e particolari. DERMOPATIA DIABETICA Tipica di pazienti anziani, la dermopatia diabetica è caratterizzata dalla presenza di lesioni del sottocutaneo dovute ad ispessimento dei vasi, problemi di extravasazione, quindi fenomeni emorragici associati ad una flogosi locale: tutto questo dà origine ad una pigmentazione caratteristica che permane a tempo indefinito. Le lesioni sono solitamente bilaterali con distribuzione asimmetrica e in seguito a guarigione spontanea, portano ad alla formazione di cicatrici. Si tratta di una situazione le cui cause sono difficili di identificare, ad eccezione del paziente diabetico, nel quale si manifestano più frequentemente. BULLOSIS DIABETICORUM Condizione caratterizzata da lesioni che si manifestano con eruzione di bolle ricche di eosinofili (non è un’allergia), legate alla microangiopatia, che favorisce lo sviluppo di edema a livello del derma con formazione di bolle piuttosto estese. È una forma rara (0,5% dei diabetici) non su base infettiva. NECROBIOSIS LIPOIDICA DIABETICORUM È una lesione su base vasculitica, sempre legata alla microangiopatia, in cui si osservano lesioni infiammatorie con necrosi a livello centrale, con estensione periferica ispessita. Può lasciare, in seguito a guarigione, una grossa pigmentazione cutanea. Non è una patologia grave ma molto fastidiosa, soprattutto dal punto di vista estetico. Interessa soprattutto giovani donne con 1DM con neuropatia e retinopatia. Si fa diagnosi attraverso biopsia cutanea. La presenza e la progressione di queste lesioni non correlano con il controllo della glicemia. 63 Malattie metaboliche FATTORI DI RISCHIO Ruolo centrale nello sviluppo di questo tipo di complicanze è svolto dall’iperglicemia e ancor di più dalla microangiopatia9, che, affiancati ad una serie di fattori di rischio, aumentano la probabilità del verificarsi del danno cardiovascolare. Concorrono soprattutto: - dislipidemia; - ipertensione; - obesità; - fumo; - ridotta attività fisica. Si tratta quindi di fattori di rischio cardiovascolari “convenzionali” che, nel paziente diabetico, vengono ulteriormente “potenziati” dall’iperglicemia. Il rischio cardiovascolare nel soggetto femminile diabetico diventa identico a quello dell’uomo non diabetico, annullando il rischio di genere. ATEROSCLEROSI Lo sviluppo dell’aterosclerosi è accelerato nel paziente diabetico per un processo che ha alla propria base l’iperglicemia con associata iperlipemia, tipica del diabete scompensato (con un aumentato numero di acidi grassi liberi e un’aumenta sintesi di trigliceridi a livello del fegato); questo determina un aumento dello stress ossidativo che agisce principalmente a livello delle lipoproteine: esse, in stato ossidato, hanno una capacità aterogenica di gran lunga maggiore rispetto a quelle non ossidate. PATOGENESI L’aterosclerosi è un fenomeno patologico che si basa sull’accumulo di lipidi a livello dell’intima vasale, dove si forma la stria lipidica, che rappresenta il primo step del processo aterosclerotico, dovuto ad un aumento di permeabilità dell’endotelio e ad una maggiore associazione tra lipidi e glicosaminoglicani10 della matrice extracellulare. Il danno endoteliale legato allo stress ossidativo, oltre a coinvolgere la matrice extracellulare, facilita il passaggio di lipoproteine attraverso la parete dei vasi, formando facilmente le cosiddette strie lipidiche. È importante sottolineare che le lipoproteine vanno incontro ad un danno ossidativo che normalmente non si verifica nel paziente non diabetico, e che fa sì che le lipoproteine ossidate siano più “indigeste” a livello della parete stessa: rappresentano un fattore di accumulo locale decisamente maggiore. Nel corso del processo patogenetico si assiste alla migrazione di monociti, che raggiungono la lesione e aderiscono all’endotelio, passando attraverso quest’ultimo fino a raggiungere la tonaca intima del vaso, dove queste cellule sono chemoattratte, poiché sull’endotelio, in seguito allo stress ossidativo, risulta aumentata l’espressione delle integrine, che legano i monociti e facilitano il passaggio degli stessi al di sotto della parete endoteliale. Queste cellule arrivano così a contatto con le lipoproteine ossidate (a livello dell’intima): si verifica quindi un accumulo progressivo di cellule macrofagiche che si caricano di lipidi (hanno la funzione di “spazzini”) cercando di eliminarli. Questa funzione riesce ad essere svolta fino ad un certo punto, cioè finché la quantità di lipidi non è eccessiva. Queste cellule 9 Quando manifesta (es. microalbuminuria aumenta) notevolmente il rischio di danno cardiovascolare. 10 Vengono prodotti in eccesso nel pathway delle esosamine, stimolato dall’iperglicemia. 64 Malattie endocrino-metaboliche e dell’apparato gastroenterico possono poi rientrare in circolo, e i lipidi possono essere in parte trasportati tramite le HDL circolanti (meccanismo di percorso inverso). Quando la quantità di lipidi a livello dell’intima diventa eccessiva, la situazione è compromessa: aumenta il numero di cellule schiumose11, che vanno incontro ad un processo di apoptosi con un quadro flogistico associato che determina la produzione di fattori crescita, fattori che portano alla migrazione delle cellule muscolari lisce dalla parete muscolare all’intima, innescando un fenomeno di fibrogenesi: la flogosi determina proliferazione cellulare locale, produzione di fibre collagene e ispessimento della parete stessa. Quando la parete diventa notevolmente ispessita, possono crearsi delle brecce a livello endoteliale con conseguente attivazione del processo coagulativo, con due possibili conseguenze: 1. formazione di un trombo che occlude completamente il lume, in seguito alla quale si ha ischemia immediata, dando luogo a necrosi nel territorio a valle quando non si è ancora sviluppato un circolo collaterale tale da garantire un recupero del tessuto a valle dell’occlusione; 2. formazione di un trombo in presenza di circoli collaterali già formati: questo può verificarsi in seguito ad una situazione in cui la placca aterosclerotica è cresciuta, non si è formata una breccia nell’immediato a livello dell’endotelio e di conseguenza si è verificato un restringimento del lume con parziale ischemia, in seguito alla quale si sono sviluppati dei circoli collaterali (assenza di occlusione acuta immediata). Di estrema importanza è quindi il fenomeno della coagulazione: in seguito a rottura della parete si ha formazione del trombo piastrinico con la liberazione di collagene e del fattore tissutale. Segue l’adesione delle piastrine grazie al fattore di von Willebrand e del collagene, con innesco del processo di aggregazione piastrinica: il fibrinogeno è la molecola che fa da ponte tra una piastrina e l’altra e determina la formazione del trombo. Oltre alla formazione del trombo piastrinico si ha l’attivazione della cascata coagulativa in cui si ha, in seguito a danno endoteliale, l’esposizione del fattore tissutale, il quale va ad innescare sia la via estrinseca che la via intrinseca della coagulazione: con una serie di attivazioni di proteine a cascata si ha l’attivazione della trombina e infine della fibrina a partire dal fibrinogeno, che permette la formazione del coagulo. Il tutto avviene in contemporanea (sia l’attivazione e l’adesione piastrinica, sia la liberazione del fattore tissutale, con innesco della cascata e formazione del trombo fibrinico). In particolare le piastrine sono in grado di essere attivate direttamente dalla trombina, che è l’ultimo step del meccanismo coagulativo che fa aggregare le piastrine stesse, rappresentando un effetto sinergico tra questi due step differenti: l’esito finale è comunque per entrambi la formazione del trombo. Quest’ultimo sarà controllato da una serie di meccanismi che vanno a demolirlo: conversione del plasminogeno in plasmina, proteina in grado di demolire la fibrina, riducendo le dimensioni del coagulo (N.B. ogni enzima ha il suo contro-enzima che tende a bloccarlo). L’aumento dei prodotti di degradazione del fibrinogeno si osserva tipicamente in caso di aumento di trombosi, rilevabile attraverso la misurazione del D-dimero, cioè un prodotto che si sviluppa tutte le volte che si forma un coagulo, il quale si forma spesso in seguito a processo infiammatorio (le due situazione si presentano spesso insieme, perciò il D-dimero alto si trova anche in caso di flogosi). TERAPIA Nel paziente diabetico si utilizzano dei farmaci (immagine) fondamentali per bloccare le conseguenze del danno micro e macrovascolare. Questi farmaci sono detti anti-aggreganti piastrinici ed agiscono nelle diverse fasi della formazione del trombo piastrinico: • Aspirina  blocca la produzione di trombossano A2, inibendo la COX-1; • Ticlopidine, Clopidogrel  bloccano una via di attivazione piastrinica indotta dall’ADP, agendo a livello del suo recettore specifico. 11 Macrofagi “infarciti” di lipidi. 65 Malattie metaboliche SCREENING È importante, quando si ha a che fare con un paziente diabetico, lo screening delle possibili complicanze, attraverso una valutazione degli organi bersaglio del danno aterosclerotico, con esami diversi, tra cui: • doppler dei vasi sovraortici, per valutare un danno aterosclerotico a livello del SNC; • ecocardiogramma, in grado di valutare un eventuale ipocinesia non ancora nota (in assenza di sintomi). Laddove si riscontri un danno di questo tipo è importante fare una coronarografia con successiva applicazione di stent a livello di stenosi coronarie importanti. È importante ricordare che nel paziente diabetico il dolore coronarico può essere molto attenuato, ridotto, come conseguenza della neuropatia che può interessare il miocardio: in questa condizione un evento ischemico miocardico potrebbe non essere percepito attraverso la tipica sintomatologia dolorosa. PREVENZIONE La prevenzione delle complicanze macrovascolari nel paziente diabetico si basa su elementi diversi. • Controllo della glicemia  Diversi studi (come il DCCT per il diabete di tipo 1 e l’UKPDS per il diabete di tipo 2) dimostrano come un trattamento intensivo volto a controllare la glicemia porti alla riduzione di eventi cardiovascolari, mantenendo questa riduzione tale anche a distanza di molti anni, per un meccanismo noto come memoria metabolica. La glicemia viene controllata molto bene per un tempo molto prolungato con conseguente effetto benefico prolungato nel tempo, anche quando, a distanza di anni, il controllo glicemico non risulta così ottimale come quanto fatto precedentemente. Normalmente, il target che viene posto è il raggiungimento di valori di emoglobina glicata intorno al 7%. Inoltre, in linea di massima, non conviene troppo forzare l’abbassamento della glicemia: valori troppo bassi porteranno a minori danni da iperglicemia e microangiopatia, ma comportano dei rischi, poiché dal punto di vista cardiovascolare la situazione può peggiorare. Il motivo di questo sono le crisi ipoglicemiche che possono presentarsi e portare all’attivazione dei meccanismi controregolatori, tra cui il rilascio di adrenalina, catecolamine, con tutto l’effetto cardiotossico che esse possono avere: l’aumento delle catecolamine ha un effetto aritmogenico sul miocardio favorendo l’ischemia12 . • Correzione della dislipidemia  Nei pazienti diabetici si ha un aumento dei trigliceridi, che devono essere tenuti sotto controllo ed eventualmente ridotti; l’obiettivo principale però è 12 Questo effetto può essere bilanciato attraverso farmaci che proteggono il cuore dalle “tempeste” catecolaminiche, detti -bloccanti. 68 Malattie endocrino-metaboliche e dell’apparato gastroenterico o Un approccio intensivo nel controllo della glicemia non ha ridotto (e non ha peggiorato) il rischio di mortalità per patologia cardiovascolare; una riduzione del rischio del 15% non è stato statisticamente significativo ma determinato probabilmente da un miglioramento delle condizioni che fanno capo al quadro lipoproteico (riduzione dei trigliceridi e aumento delle HDL). CONCLUSIONI Prevenzione delle complicanze microvascolari ottenute con: • intensivo controllo glicemico in tutte le forme di DM; • intenso controllo della pressione arteriosa nel solo DM2. Prevenzione delle complicanze macrovascolari ottenute con: • tempestivo e intensivo controllo della glicemia in ogni DM; • continuo e intenso controllo della pressione sanguigna nel DM2 (non c’è memoria metabolica). EVIDENZE DAI NUOVI TRIALS CLINICI ➢ Glicemic Control and Excess Mortality in Type 1 Diabetes Tabella A Tabella B • I dati della Tabella A mostrano che, tra i pazienti con DM1 che hanno un livello di HbA1C = 6,9% o minore, il rischio di morte per qualsiasi causa e per cause cardiovascolari sono circa il doppio di quelli della popolazione generale, il rischio aumenta se il controllo glicemico di questi diabetici è minimo o la HbA1C è via via maggiore. • Il rischio di mortalità (sia esso per qualsiasi causa o per causa cardiovascolare) raddoppia nel caso di patologia renale (si prenda in esame l’albuminuria). • I dati della Tabella B mostrano invece la mortalità in funzione del sesso con una maggior mortalità femminile se sotto i 65 anni, superata questa soglia d’età il rischio è pressoché lo stesso [mai come ora è fondamentale intervenire tempestivamente]. 69 Malattie metaboliche ➢ Excess Mortality among Persons with Type 2 Diabetes (Trial dalla Svezia) • Dai dati si evince che maggiore è l’età del paziente preso in esame, minore sarà il rischio di morire per cause generiche o per causa cardiovascolare: probabilmente questo deriva dal fatto che i soggetti che sviluppano precocemente DM2 abbiano, rispetto ai più vecchi, una qualche predisposizione genetica che li pone in netto sfavore in termini di aspettativa di vita (vale anche la situazione inversa: coloro che arrivano più con gli anni avranno caratteristiche genetiche che li avvantaggiano in termini di cardioprotezione). • Il dato “mortalità 0,92%” per cause cardiovascolari non deve far pensare che sviluppare DM2 a 75 anni sia protettivo rispetto alla popolazione senza DM2 (il rischio sarà 1%) bensì, essendo stata fatta loro diagnosi, i diabetici saranno sotto maggior controllo medico e tenuti a regimi dietetici e farmacologici cardioprotettivi. APPROCCIO AL PAZIENTE CON DIABETE MELLITO ➢ Clinica: • Anamnesi: fumo, peso, storia di alcolismo, rischi cardiovascolari, lavoro. • Sintomi di iperglicemia: poliuria, polidipsia, perdita di peso, debolezza, visione sfocata, infezioni superficiali come vaginiti da candida, cistite, ulcere. • Criteri per la diagnosi: o DM sintomatologico a 200 mg/dl o Glicemia > 120 mg/dl o HbA1C > 6,5% o OGTT > 200 mg/dl (Test tolleranza al glucosio dopo 2 ore) • Ispezione fisica: circonferenza ombelicale, BMI, esame della retina, pressione in ortostatismo non superiore a 130/80 mmHg (i valori sono adattati al DM), controllo delle estremità, neuropatie periferiche, infezioni fungine, onicomicosi, gengivite e parodontite. ➢ Classificazione del tipo di diabete: • Caratteristiche del soggetto con DM1: o sotto i 30 anni, o magro, 70 Malattie endocrino-metaboliche e dell’apparato gastroenterico o richiede insulina ad inizio terapia, o propensione alla chetoacidosi, o rischio aumentato di sviluppare malattie autoimmuni (tiroidite autoimmune, insufficienza surrenalica, anemia perniciosa, morbo celiaco, vitiligine). • Caratteristiche del soggetto con DM2: o sopra i 30 anni, o sovrappeso o obeso (i pazienti più anziani tuttavia possono essere magri), o può non aver bisogno di insulina, o può essere accompagnata da insulino-resistenza, ipertensione, malattia cardiovascolare, dislipidemia e/o sindrome metabolica. • Considerazione diagnostiche: o sebbene la maggior parte delle persone con diagnosi di DM2 siano anziani, l'età diagnostica sta diminuendo in rapporto ad un marcato aumento dell’incidenza di obesità infantile; o alcuni individui con fenotipo DM2 presentano una DKA (chetoacidosi diabetica tipica del DM1), ma la mancanza di marcatori autoimmuni e possono essere successivamente trattati con l’ausilio di ipoglicemizzanti orali al posto dell'insulina [questo quadro clinico è a volte indicato come “DM2 incline alla chetoacidosi”]; o alcuni individui (5-10%), con caratteristiche fenotipiche di DM2 non hanno carenza di insulina, ma hanno i marcatori autoimmuni (ICA, auto-anticorpi GAD) suggestivi di DM1: questa condizione è detta “Diabete LADA” (diabete autoimmune latente dell'adulto). Tali individui hanno maggiori probabilità di essere < 50 anni di età, hanno un indice di massa corporea normale e hanno una storia personale o familiare di altre malattie autoimmuni. È molto probabile che dovranno iniziare un trattamento con l’insulina entro 5 anni. o I livelli plasmatici di peptide-C sono un buon indicatore della necessità di insulina per il paziente. ➢ Obiettivi comuni al DM1 e al DM2: - eliminare i sintomi di iperglicemia, - ridurre o eliminare i rischi a lungo termine per le complicanze macro e microvascolari, - cercare di garantire una vita normale al paziente, - HbA1C < 7% [se un anziano ha una HbA1C di 7,5% va benissimo], - glicemia pre-prandiale < 70-130 mg/dl, - glicemia post-prandiale < 180 mg/dl, - pressione arteriosa < 130/80 mmHg, - LDL < 100 mg/dl, - HDL > 40 mg/dl nell’uomo, - HDL > 50 mg/dl nella donna, - trigliceridi < 150 mg/dl. ➢ Accorgimenti nel DM2: - agire in primo luogo su dieta, l’esercizio fisico e cura di sé (piede diabetico), poi si pensa alla terapia farmacologica; - trattare le dislipidemie/obesità, ipertensione, coronaropatie; - screening delle complicazioni: retinopatia, malattie cardiovascolari, nefropatia, ecc. ➢ Educazione del diabetico: - auto-monitoraggio della glicemia; - controllo chetoni nelle urine (DM1); - somministrazione insulina; - igiene pelle e unghie per funghi e ulcerazioni (soprattutto ai piedi); - alimentazione; 73 Malattie metaboliche GLINIDI Un nome commerciale molto noto è il Novonorm (il farmaco è la Repaglinide), che attualmente viene molto utilizzato. ▪ Meccanismo d’azione  analogo a quello delle sulfaniluree: incremento della secrezione endogena di insulina attraverso la chiusura dei canali del potassio ATP-dipendenti agendo sui SUR, stessi recettori su cui agiscono le sulfaniluree, pur avendo differente struttura rispetto ad esse. ▪ Durata d’azione  la Repaglinide ha una durata d’azione rapida (2-6 ore) e quindi presenta una maggior maneggevolezza ed un minor rischio ipoglicemico rispetto alle sulfaniluree (picco insulinico 30-60 min dopo ciascuna dose). Dunque si presta meglio per essere somministrato ai pasti (solitamente tre volte al giorno e in associazione con altri antidiabetici orali, come la metformina). ▪ Efficacia ipoglicemizzante  riduzione di HBA1C di circa l’1%. FARMACI INSULINO-SENSIBILIZZANTI METFORMINA Si tratta di un farmaco che viene utilizzato da 20-30 anni, ma nonostante ciò non si conosceva il meccanismo d’azione fino al 2014, anno in cui venne spiegato con una pubblicazione sulla rivista Nature. ▪ Meccanismo d’azione  agisce bloccando la gluconeogenesi epatica, che è un meccanismo tipicamente iperglicemizzante. In particolare viene bloccata la glicerofosfato deidrogenasi, con conseguente aumento dell’acido lattico e riduzione del piruvato, che è uno dei mattoni che servono per fabbricare il glucosio. Come effetto finale si ha una minor produzione di glucosio nel fegato, e come conseguenza di ciò l’insulina funziona di più (pur essendocene di meno). ▪ Efficacia ipoglicemizzante  riduzione dell’emoglobina glicata (di 1.0-2.0%). ▪ Effetti collaterali  gastrointestinali: sapore metallico, anoressia, nausea, vomito, dolori addominali, FARMACO FORMULAZIONE DOSAGGIO INDICAZIONE GRAVIDANZA Repaglinide (Novonorm) cpr 0,5, 1, 2mg 1-4mg PO/t.i.d. C* 74 Malattie endocrino-metaboliche e dell’apparato gastroenterico iperperistalsi, diarrea (generalmente di modesta entità e transitoria), ridotto assorbimento intestinale di vitamina B12; acidosi lattica per impiego non corretto. Questo farmaco non provoca ipoglicemia e dunque le crisi ipoglicemiche, che erano invece un effetto collaterale delle sulfaniluree; non determina inoltre nessun incremento di peso. Anzi è possibile una modesta riduzione di questo (a causa dei suoi effetti collaterali a livello gastrointestinale). ▪ Controindicazioni alla terapia con metformina  varie, tra cui: • insufficienza renale (Creatinina >1,3 mg/dl; CrCl <60ml/min); • insufficienza epatica (in questi due casi infatti la metformina ha una maggiore attività); • insufficienza respiratoria cronica; • scompenso cardiaco (FE<50%, segni clinici o radiologici di insufficienza cardiaca); • cardiopatia ischemica avanzata; • tutte le altre condizioni con ridotta perfusione dei tessuti (sepsi e instabilità emodinamica). Altro dato da tenere a mente è la cautela nell’utilizzo di questo farmaco quando il paziente deve sottoporsi ad esami con mezzo di contrasto iodato, perché possono dare insufficienza renale e ciò può portare, in seguito all’esame eseguito, ad un’acidosi lattica (non si tratta di una controindicazione assoluta, ma relativa, bisogna comunque tenerla in considerazione). ▪ Dosaggio e utilizzo  la metformina viene utilizzata per os in due somministrazioni (solitamente al mattino e alla sera); si inizia con una dose piuttosto bassa come 500 mg al giorno (questo per evitare gli effetti collaterali che ci sarebbero se la somministrazione fosse alta fin da subito), poi si aumenta progressivamente (arrivando fino a 4 compresse al giorno). Viene solitamente usata in associazione con altri ipoglicemizzanti (anche con l’insulina stessa) ed in generale per i pazienti con DM2 è migliore rispetto alle sulfaniluree, soprattutto perché non determina l’aumento di peso (il grasso addominale aumenta ulteriormente la resistenza all’insulina). Un ulteriore elemento positivo di questo farmaco (che è stato notato in diversi trial) è che c’è una maggiore sopravvivenza dei pazienti neoplastici, anche se questo effetto anti-neoplastico non è ancora stato chiarito. GLITAZONI ▪ Meccanismo d’azione  sono farmaci che agiscono a livello nucleare e regolano l’espressione di una serie di geni, soprattutto a livello del tessuto adiposo, in particolare tendono a ridurre il livello di lipidi circolanti e soprattutto inducono la liberazione dell’adiponectina, che ha una funzione importante nell’aumentare la sensibilità all’insulina. ▪ Efficacia ipoglicemizzante  riduzione dell’emoglobina glicata (di circa lo 0.5-1.5%), con effetto massimo dopo 4-6 settimane. Altri effetti metabolici sono rappresentati da un aumento di HDL e da una riduzione dei trigliceridi. ▪ Effetti collaterali  nonostante questi effetti positivi ci sono tutta una serie di effetti collaterali tali per cui se ne è ridotto l’utilizzo negli ultimi tempi, tra cui: incremento ponderale, in parte dovuto a ritenzione idrica, in parte ad espansione del tessuto adiposo sottocutaneo; a livello dei tubuli collettori incrementano il riassorbimento renale di sodio: ne deriva aumento di edemi e scompenso cardiaco in pazienti cardiopatici. Una rivalutazione dello studio clinico RECORD non ha confermato un aumentato rischio di infarto del miocardio ed ictus con Rosiglitazone come era stato precedentemente segnalato. Questi farmaci tuttavia possono determinare: aumento del rischio di fratture per demineralizzazione ossea, soprattutto nelle donne, tossicità epatica, neoplasie vescicali con dosi elevate e trattamenti prolungati. FARMACO FORMULAZIONE DOSAGGIO INDICAZIONE GRAVIDANZA Pioglitazone (Actos) cpr 15, 30mg 15-45mg PO/die C* 75 Malattie metaboliche FARMACI CHE RIDUCONO L’ASSORBIMENTO INTESTINALE DEI CARBOIDRATI COMPLESSI ACARBOSIO Si possono associare alle sulfoniluree e alla metformina. ▪ Meccanismo d’azione  inibisce a livello intestinale l’alfa-glucosidasi, enzima che demolisce i carboidrati complessi in disaccaridi e monosaccaridi: in questo modo riduce l’assorbimento degli zuccheri a livello intestinale, riduce la glicemia e rallenta il picco glicemico. ▪ Efficacia ipoglicemizzante  come effetti positivi si ha la riduzione delle fluttuazioni glicemiche e il miglioramento dell’emoglobina glicata. ▪ Effetti collaterali  questi farmaci possono determinare manifestazioni a livello intestinale, perché se aumenta la quantità di carboidrati che non possono essere riassorbiti, si hanno conseguenze a livello locale, come flatulenza, algie addominali, diarrea, qualche volta incremento anche di AST e ALT (enzimi epatici), anche se l’effetto principale rimane a livello intestinale. FARMACI INIBITORI DEL RIASSORBIMENTO TUBULARE DEL GLUCOSIO A LIVELLO RENALE GLIFOZINE I farmaci più noti sono il Canaglifozin, Dapaglifozin, Empaglifozin, si utilizzano in mono- somministrazioni, ed hanno un’attività piuttosto lunga nel tempo. Non vanno però usati quando c’è un’insufficienza renale importante perché in tal caso non vengono filtrati a livello glomerulare e non possono agire a livello tubulare sul riassorbimento del glucosio e del sodio. ▪ Meccanismo d’azione  inibiscono SGLT2, trasportatore del glucosio a livello renale. Determinano quindi un’aumentata perdita di glucosio a livello renale (aumentata glicosuria). Oltre a questo si riduce l’assorbimento del sodio, per cui agiscono come diuretici. ▪ Efficacia ipoglicemizzante  riduzione del’emoglobina glicata (dello 0,5-1%). ▪ Effetti collaterali sfavorevoli  aumento delle infezioni genitali micotiche (a causa della maggior concentrazione di glucosio nelle urine); aumento output urinario e minzione frequente. Per effetto FARMACO FORMULAZIONE DOSAGGIO INDICAZIONE GRAVIDANZA Acarbosio (Glucobay) Cpr 50, 100 mg 50-100mg PO/t.i.d. *B 78 Malattie endocrino-metaboliche e dell’apparato gastroenterico FARMACI INCRETINO-MIMETICI Le incretine sono ormoni intestinali in grado di regolare la secrezione insulinica; uno di questi è il GLP1 (Glucagon-like peptide-1), il quale viene secreto dalle cellule L (localizzate principalmente nell’ileo e nel colon, ma anche nel digiuno prossimale), in seguito all’ingestione di cibo; questo ormone: • stimola la secrezione di insulina glucosio-dipendente (non è un insulino-secretagogo come la sulfonilurea, però potenzia la secrezione insulinica); • inibisce la secrezione di glucagone, sopprimendo in tal modo la produzione epatica di glucosio; • inibisce lo svuotamento gastrico; • a livello del sistema nervoso centrale (SNC) aumenta il senso di sazietà; • stimola la proliferazione delle beta-cellule pancreatiche. La sua secrezione è ridotta in molti pazienti con DMT2; ha inoltre un’emivita plasmatica breve (di circa 1-2 minuti) in quanto viene inattivato dalla dipeptidil peptidasi-4 (DPP-4). • Meccanismo d’azione  da un lato si può agire bloccando l’enzima che inattiva la GLP1, in modo che l’effetto della GLP1 stessa duri più a lungo; dall’altro lato si possono produrre degli analoghi del GLP1, più resistenti alla degradazione. Dunque ci sono due tipi di farmaci incretino-mimetici, tra cui: ➢ Inibitori dell'enzima DPP-4 che taglia il GLP-1; tali inibitori (gliptine) allungano l’emivita in circolo del GLP-1 e sono attivi per via orale (Sitagliptin, Linagliptin, Saxagliptin). ➢ Sostanze simili al GLP-1 (analoghi del GLP-1) che resistono all'azione del DPP-4 e mimano l'azione del GLP-1 (Exenatide, Liraglutide, Dulaglutide). Si somministrano sottocute (due somministrazioni/die per Exenatide e mono somministrazione/die per Liraglutide); l’Exenatide è disponibile anche come formulazione a rilascio prolungato (Bydureon) a somministrazione monosettimanale. La Dulaglutide si somministra settimanalmente. FARMACO FORMULAZIONE DOSAGGIO INDICAZIONE GRAVIDANZA Exenatide (Byetta) 250 mcg/ml siringhe preriempite da 1,2 e 2,4 ml 5 o 10 mcg SC bid C* Exenatide a rilascio prolungato (Bydureon) 2 mg polvere solvente 2mg sc/sett C* Liraglutide (Victoza) 6mg/ml soluz iniettabile in penna preriempita 3 ml 1,2 o 1,8 mg SC/die C* Dulaglutide (Trulicity) 0,75mg/0,5ml o 1,5mg/0,5ml 0,75 o 1,5mg/sett C* FARMACO FORMULAZIONE DOSAGGIO INDICAZIONE GRAVIDANZA Linagliptin (Trajenta) cpr 5 mg 5mg PO/die B* Sitagliptin§ (Januvia) cpr 25,50 e 100 mg 100 PO/die B* Saxagliptin (Onglyza) cpr 2,5 e 5mg 2,5 o 5mg PO/die B* 79 Malattie metaboliche Uno di questi farmaci, la Liraglutide, oltre al trattamento del paziente diabetico è indicata nel trattamento del paziente obeso. • Effetti collaterali  possono indurre nausea e vomito (solo analoghi del GLP-1); aumentano il rischio di pancreatite. Pregresse evidenze avevano suggerito il rischio di lesioni precancerose a livello del pancreas endocrino ed esocrino; tuttavia dati più recenti non hanno messo in evidenza alcun aumento di neoplasie pancreatiche nei pazienti trattati con analoghi del GLP-1. Possibile iperplasia delle cellule C della tiroide; sconsigliati nei pazienti con storia familiare o personale di carcinomi midollari della Tiroide (MEN-2). FARMACI ANALOGHI DELL’AMILINA L’amilina è prodotta dalle β cellule, entra in circolo in seguito al picco glicemico post-prandiale. Questo polipeptide va a costituire la sostanza β amiloide che si accumula nelle β cellule, in seguito ad esaurimento delle cellule β stesse, non si sa bene se è questa sostanza che determina un danno delle β cellule, oppure è un fenomeno conseguente al loro esaurimento, in ogni caso si accumula nelle fasi avanzate del diabete. È stato usato un analogo di questo peptide, la pramlintide (che attualmente non è in commercio in Italia, ma viene usato negli Stati Uniti), impiegato per via sottocutanea prima dei pasti insieme all’insulina prandiale. Ha effetti simili al GLP1, infatti agisce: • rallentando lo svuotamento gastrico; • aumentando il senso di sazietà; • riducendo i livelli di glucagone; • riducendo la produzione epatica di glucosio; • riducendo la HbA1C di 0,5%. SCHEMA TERAPEUTICO RIASSUNTIVO 80 Malattie endocrino-metaboliche e dell’apparato gastroenterico TERAPIA INSULINICA Si usa in caso di: • diabete di tipo 1  terapia indispensabile per la sopravvivenza; • diabete di tipo 2  può essere necessaria in fasi tardive della malattia quando vi è l’esaurimento delle β cellule per ottenere un buon controllo metabolico; è inoltre necessaria in talune condizioni patologiche di particolare gravità e acuzie come: infezioni, infarto miocardico, interventi chirurgici, etc.; • diabete gestazionale e diabete in gravidanza  necessaria per ottimizzare il compenso in una condizione clinica in cui è sconsigliato l’impiego degli ipoglicemizzanti orali; • emergenze iperglicemiche  insulina ad azione rapida per stati iperosmolari e chetoacidosi diabetica. Somministrazione  la più comune via di somministrazione insulinica è la via sottocutanea: la somministrazione può essere effettuata mediante siringhe, penne o microinfusori per somministrazione sottocutanea continua. In talune condizioni cliniche (interventi chirurgici, sepsi, emergenze iperglicemiche, ecc.) l’insulina deve essere somministrata per via endovenosa: in questo caso si usa solo l’insulina umana rapida. TERAPIA INSULINICA SOTTOCUTANEA La terapia insulinica sostitutiva deve mimare il più possibile la normale secrezione insulinica. Fisiologicamente è presente una secrezione insulinica continua, cui si sovrappongono i picchi insulinemici in occasione dei pasti. Per mimare il profilo insulinemico fisiologico in assenza di una fisiologica insulino-secrezione, occorre poter disporre di preparazioni insuliniche a differente durata d’azione: rapida  per mimare i picchi insulinemici prandiali; lenta  per mimare la secrezione insulinica basale. L’insulina rapida ideale deve essere assorbita molto rapidamente e deve scomparire molto rapidamente dal circolo ematico. L’insulina lenta ideale deve avere una durata di 24 ore senza presentare picchi o plateau. 83 Malattie metaboliche Impiego clinico  l’insulina umana rapida, avendo un tempo di latenza maggiore, deve essere somministrata per via sottocutanea 20 minuti prima del pasto. Gli analoghi rapidi dell’insulina, avendo un tempo di latenza molto breve, devono essere somministrati per via sottocutanea immediatamente prima del pasto. La sede ottimale per la somministrazione dell’insulina umana rapida e degli analoghi rapidi dell’insulina è quella sottocutanea addominale. Lo schema classico della terapia insulinica è il cosiddetto ‘basal-bolus’, in cui si somministra una insulina basale, lenta, in genere alla sera (alle h 22-23), e poi si somministrano 3 insuline rapide, ai tre pasti. GLI ANALOGHI LENTI DELL’INSULINA L’insulina umana è stata coniugata alla protamina per avere un’azione più lunga nel tempo: la sua azione iniziava dopo un paio d’ore, aveva un picco nelle 6 ore, e durava fino alle 18-20 ore. Si nota da queste caratteristiche che questa formulazione non andava bene in quanto non copre le 24 ore e dopo 3-6 ore dalla somministrazione, tempo che può non coincidere con il pasto, può esporre ad un rischio ipoglicemico. È stata fatta anche un’insulina con un’azione ultra-lenta, coniugata con zinco e protamina, che ormai non viene più usata. 84 Malattie endocrino-metaboliche e dell’apparato gastroenterico Sono stati prodotti i seguenti analoghi lenti dell’insulina: l’insulina Glargina, l’insulina Detemir, l’insulina Degludec. ➢ L’insulina Glargina ha un cambiamento di struttura: è stato sostituito l’acido aspartico con la glicina e sono state aggiunte due molecole di arginina all’aminoacido in posizione 30. Si tratta di un’insulina (nome commerciale: Lantus) molto stabile in ambiente acido (PH 4), quando questa viene iniettata sottocute, a ph corporeo (7.4) precipita, formando degli aggregati che vengono poi progressivamente liberati. Nell’arco delle 24 h vi è una liberazione progressiva dell’insulina, con un picco estremamente ridotto. ➢ L’insulina Detemir, in cui è stata tolta la treonina terminale nella catena B, ed è stato aggiunto al residuo di lisina un acido grasso: l’acido miristico. Questa molecola somministrata sottocute interagisce con le altre molecole di insulina a formare delle strutture multimeriche, da cui vengono progressivamente liberati dei monomeri che entrano in circolo, questi si legano all’albumina: in questo modo anche l’assorbimento a livello tissutale è ritardato. ➢ Anche nel caso dell’insulina Degludec (Tresiba) è stato aggiunto un acido grasso, l’acido exadecandioico, con gamma-L-glutamyl spacer di aggancio. 85 Malattie metaboliche Anche questa una volta somministrata sottocute forma una specie di multimero, un deposito, con le altre molecole, a formare una struttura a grappolo (visibile nell’immagine a lato) da cui poi si staccano dei dimeri, che poi diventano monomeri, che vengono rilasciati in circolo. Questo è un sistema ulteriormente migliorato rispetto al precedente che consente di avere una curva di rilascio di insulina in circolo ulteriormente più piatta. DOSAGGIO DI INSULINA Solitamente la dose di insulina che si somministra è compresa tra 0,5 e 1 unità (U) pro-chilo come dose totale, di cui circa la metà è data come insulina lenta che va assunta alla sera e il resto è suddiviso nei tre pasti: solitamente se ne dà un po’ meno a colazione e un po’ di più negli altri due pasti, a seconda delle caratteristiche del paziente e del pasto che fa (solitamente 1-1.5 unità (U) per 10 g di carboidrati). Si può poi aumentare la dose in modo tale da non aumentare oltre i 180 di glicemia come picco post- prandiale, nel caso in cui non bastasse l’insulina somministrata, si fa 1 U di insulina in più per ogni 50 mg che fuoriescono da questa categoria. I MICROINFUSORI Si tratta di una pompa che somministra sottocute l’insulina, in modo continuo, e viene programmata in base ai pasti. Questo sistema evita al paziente di dover fare più iniezioni giornaliere: è una situazione che deve però essere molto ben controllata, perché si possono verificare degli inconvenienti. 88 Malattie endocrino-metaboliche e dell’apparato gastroenterico MANIFESTAZIONI CLINICHE DELL’IPOGLICEMIA L’ipoglicemia determina l’insorgenza di: • sintomi a livello del SNC, come: affaticamento, confusione, crisi epilettiche, perdita di coscienza, coma, morte; • sintomi autonomi: o adrenergici → palpitazioni, tremori e ansietà; o colinergici → sudorazione e senso di fame. CAUSE DI IPOGLICEMIA A DIGIUNO Nella gran parte dei casi sono responsabili farmaci: o Insulina, sulfanilurea e glinidi: farmaci assunti normalmente da pazienti diabetici e che in alcuni casi possono essere assunti in dosi eccessive. La sulfanilurea e i glinidi agiscono bloccando una proteina intracellulare delle cellule β pancreatiche, detta SUR, che fa parte del canale del potassio sensibile all’ATP e che, se bloccata, non può indurre la depolarizzazione di membrana necessaria all’apertura dei canali del calcio voltaggio-dipendenti e, in ultima analisi, alla liberazione dell’insulina contenuta nei granuli intracellulari. o Etanolo: l’intossicazione acuta da etanolo determina un blocco della gluconeogenesi a livello epatico e la glicemia a digiuno, che è regolata dalla genesi di glucosio a livello del fegato, scende velocemente; o Chinino, pentamidina, salicilati, sulfamidici  farmaci simili alla sulfanilurea da un punto di vista biochimico; o Antagonisti dei recettori β2. La causa più frequente di ipoglicemia è comunque quella legata all’insulina, per assunzione diretta (eccessiva) di questa o di altri farmaci che inducono la liberazione di insulina. Può capitare che i pazienti diabetici prendano una dose eccessiva di insulina o che la prendano male (mangiando poco, facendo troppa attività fisica, ecc.), determinando l’insorgenza di crisi ipoglicemiche. Nel caso di un paziente diabetico si possono avere diverse problematiche nel trattamento di un’ipoglicemia in quanto: • non si può sopprimere la produzione di insulina, perché il paziente ha assunto la propria dose giornaliera e questa rimane in circolo fino a quando non si esaurisce e non può essere “rimossa”; • non si può aumentare la produzione di glucagone: nel diabete si può avere un progressivo logoramento e una perdita di cellule pancreatiche che secernono glucagone; • la risposta catecolinergica risulta essere meno efficace e per questo sintomi come tremori, aritmie e sudorazione, in caso di neuropatia, possono non essere più evidenti. Per questo motivo il paziente può arrivare al coma senza che ci siano sintomi evidenti di questo tipo. La neuropatia sostanzialmente impedisce che l’organismo venga avvertito di una situazione anomala. 89 Malattie metaboliche Il paziente diabetico spesso va incontro a ripetute crisi ipoglicemiche nel corso della propria vita, determinando nell’organismo l’insorgenza di una risposta neurologica attenuata che, con il passare del tempo, non viene più riconosciuta come situazione di alterazione. Per questo motivo può risultare più complicato per il paziente diabetico accorgesi di una crisi ipoglicemica imminente. Uno studio (DCCT) condotto su pazienti con diabete di tipo 1 rivela che il 60-70% dei pazienti diabetici ha una crisi severa di ipoglicemia all’anno. Una quota di pazienti del 10-15% circa subisce invece due crisi gravi nel corso di un anno. Il tasso di mortalità legato a queste crisi si aggira sul 2-6%15, un valore abbastanza elevato che riflette chiaramente la difficoltà per alcuni pazienti nel riconoscere i sintomi di un’ipoglicemia. Nei pazienti che fanno una terapia unica con sulfanilurea, le crisi ipoglicemiche severe sono associate a un tasso di mortalità che sale fino al 9%. L’ipoglicemia può anche essere indotta da alcol (anche se non è una causa molto frequente), non solo nel paziente diabetico, ma anche in quello che non ha il diabete. Un’intossicazione da etanolo determina un massiccio incremento della concentrazione del NADH nel citosol, che favorisce la riduzione del piruvato a lattato e dell’ossalacetato a malato. Il piruvato e l’ossalacetato rappresentano due intermedi nella sintesi del glucosio nella via della gluconeogenesi epatica. In questo modo, l’aumento della concentrazione di NADH mediato dall’alcol determina il dirottamento di intermedi della gluconeogenesi verso vie metaboliche differenti, risultando in una ridotta produzione di glucosio e abbassando la glicemia a digiuno. Questo effetto è tanto più marcato quanto più malato è il fegato del paziente (che può essere ad esempio cirrotico) e quanto più ridotte sono di conseguenza anche le riserve di glicogeno nel fegato stesso. Altre cause (meno frequenti) di ipoglicemia ricorrenti anche nel paziente non diabetico sono: insufficienza epatica, danno renale, scompenso cardiaco, sepsi, deficit ormonale (di GH o cortisolo), tumori non delle cellule β che producono IGF-II (Insuline Growth Factor II), che media un effetto del tutto simile a quello dell’insulina, iperinsulinismo endogeno (insulinoma), disturbi funzionali delle cellule β, che sono ipertrofiche o iperplastiche e forme autoimmuni che producono anticorpi contro il recettore dell’insulina e mimano l’azione dell’insulina (casi molto rari). 15 Il 2-6% delle morti in pazienti con diabete di tipo 1 è causato da una crisi ipoglicemica. 90 Malattie endocrino-metaboliche e dell’apparato gastroenterico IPOGLICEMIA REATTIVA (POSTPRANDIALE) Le ipoglicemie reattive sono forme di ipoglicemia nelle quali il glucosio, liberato in circolo dopo il pasto, determina un’eccessiva stimolazione della produzione di insulina, causando di conseguenza una riduzione marcata della glicemia. Non è una forma molto frequente di ipoglicemia e si riscontra soprattutto: - nei pazienti che hanno subito una gastrectomia e che talvolta presentano anche un quadro più complesso, con un aumento delle concentrazioni ematiche del GLP-1, un ormone di origine intestinale che da un lato è in grado di stimolare la produzione di insulina e dall’altro di inibire la produzione di glucagone; - in pazienti che hanno subito altri interventi chirurgici (molto più raro), non solo di gastrectomia, e che non hanno un insulinoma, ma che sono caratterizzati da un’alterazione dell’assorbimento a livello intestinale, che comporta un assorbimento molto più rapido del normale del glucosio, che fa salire la glicemia con picchi importanti di iperglicemia, cui corrispondono cascate di liberazione di insulina e picchi “negativi” altrettanto importanti di ipoglicemia. APPROCCIO AL PAZIENTE CON IPOGLICEMIA
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