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Appunti di Medicina Interna 1, Appunti di Medicina Interna

Appunti del corso di Medicina Interna 1

Tipologia: Appunti

2020/2021

In vendita dal 15/03/2023

gennaro-t
gennaro-t 🇮🇹

5

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Scarica Appunti di Medicina Interna 1 e più Appunti in PDF di Medicina Interna solo su Docsity! Diabete DIABETE Il pancreas endocrino è costituito da circa 1 milione di cellule organizzate in isole distribuite in tutto il pancreas ma più abbondanti in corpo e coda. Non hanno capillari linfatici ma hanno una ricca vascolarizzazione e innervazione. Nell’isola di Langherhans distinguiamo:  Cellule : alla periferia dell’isola, producono glucagone (iperglicemizzante);  Cellule : sono le più numerose (80%), sono poste centralmente e producono insulina (ipoglicemizzante);  Cellule : sono rare (5-8%) distribuite in modo uniforme e secernono somatostatina (inibiscono insulina e glucagone);  Cellule : sono raggruppate alla periferia e producono il polipeptide pancreatico;  Cellule : sono rarissime e secernono grelina (stimola la secrezione del GH). L’insulina è sintetizzata da un gene localizzato sul Cr. 11 come pre-proinsulina: questa va incontro a una scissione del peptide ammino-terminale per generare proinsulina (catena  carbossi-terminale, catena  e un peptide C di connessione). Il peptide C si lega alle catene  e , consentendo un particolare ripiegamento della molecola e la formazione di legami disolfurici. La proinsulina subisce un ulteriore processo maturativo, con il distacco del peptide C: le catene  e  rimangono collegate tramite i ponti disolfuro e costituiscono l’insulina matura immagazzinata nei granuli e secreta in base alle richieste dell’organismo (aumento della glicemia). Secrezione insulina:  Basale: è costante nel corso della giornata;  Stimolata: quando consumiamo un pasto. Le due secrezioni hanno una funzione fisiologica ben chiara perché il nostro corpo continua a produrre glucosio tramite la gluconeogenesi epatica mentre l’altro meccanismo è legato all’aumento dell’insulina legata al periodo post-prandiale (l’insulina prodotta non basterebbe, per cui viene rilasciata l’insulina accumulata). L’insulina si lega al proprio recettore, attivando una serie di effetti:  Stimolazione dell’uptake del glucosio: tramite il trasportatore GLUT4 delle cellule muscolari e degli adipociti;  Stimolazione della produzione di trigliceridi;  Riduzione della lipolisi;  Favorisce la sintesi di glicogeno;  Riduzione della gluconeogenesi e glicogenolisi;  Riduzione della proteolisi;  Favorisce l’uptake degli aminoacidi all’interno delle cellule;  Riduzione della chetogenesi: l’organismo produce corpi chetonici a digiuno per alimentare le richieste di energia. DIABETE MELLITO È un quadro clinico caratterizzato da iperglicemia, causata da:  Ridotta secrezione di insulina e/o insulino-resistenza;  Ridotto utilizzo di glucosio;  Amento della produzione di glucosio. Viene, inoltre, classificato anche in base al meccanismo patogenetico che determina l’iperglicemia. Classificazione:  Diabete Mellito di tipo 1;  Diabete Mellito di tipo 2;  Altri specifici tipi di diabete:  Difetti genetici della funzione delle cellule  (Mody 1-6);  Difetti genetici dell’azione dell’insulina (insulino resistenza di tipo A);  Patologie del pancreas esocrino: es. rimozione del pancreas;  Endocrinopatie: es. Cushing; Diabete  Indotto da farmaci o sostanze chimiche;  Infezioni;  Forme non comuni di diabete immunomediato;  Altre sindromi genetiche, talvolta associate a diabete.  Diabete Mellito gestazionale. Diagnosi  Glicemia a digiuno: >= 126 mg/dL in almeno 2 test ripetuti (un solo test non è diagnostico di diabete). Interpretazione:  Glicemia <100mg/dL: normale;  Glicemia 110-125mg/dL: alterata glicemia a digiuno;  Glicemia >= 126mg/dL: diagnosi provvisoria di diabete.  Glicemia >= 200mg/dL durante una curva da carico di glucosio (OGTT). Il pz. deve stare a digiuno da almeno 8 ore e si somministra un bolo di glucosio per os di 75mg di glucosio, con prelievi a 0’, 60’ e 120’. Interpretazione:  Glicemia <140mg/dL: normale;  Glicemia 140-199: alterata tolleranza glucidica (IGT);  Glicemia >= 200mg/dL: diagnosi provvisoria di diabete.  Emoglobina glicata (HbA1c) >= 6.5%. Le proteine (principalmente l’emoglobina di tipo a) in presenza di elevati livelli di glucosio, tendono a legarsi in maniera stabile a una molecola di zucchero (per tutta l’emivita del globulo rosso, ovvero 120mg). Ovvero maggiore sarà la quantità di glucosio, maggiore sarà la percentuale di emoglobina che si legherà al glucosio in maniera stabile. Interpretazione:  HbA1c <5.7%: normale;  HbA1c 5.7-6.4%: ridotta tolleranza ai carboidrati;  HbA1c >= 6.5%: diagnosi di diabete. Come tutte le metodiche, la diagnosi dell’ HbA1c ha pro e contro:  Pro: il digiuno non è necessario, vi è una stabilità pre-analitica (se ci dimentichiamo il campione in laboratorio, il suo valore è attendibile anche il giorno dopo), le variazioni nei periodi di stress/malattia non minime e rappresenta lo specchio dei valori glicemici dei 3-4 mesi precedenti;  Contro: l’interpretazione è problematica in caso di anemia e/o alterato turnover dei globuli rossi (es. gravidanza, trasfusioni, dialisi).  Glicemia random >= 200mg/dL in un pz. con segni di iperglicemia o crisi iperglicemica. Screening È molto dibattuto quando screenare i pz. con diabete ed essenzialmente lo screening è indicato in:  Soggetti in sovrappeso/obesi: BMI >= 25kg/m2;  Soggetti di età >= 45 anni. L’alterata glicemia a digiuno e la ridotta tolleranza ai carboidrati sono entrambi fattori di rischio per insorgenza di diabete e vasculopatia e sono ambedue associati all’insulino-resistenza. DIABETE MELLITO DI TIPO 1 È una forma di diabete multifattoriale, immunomediata, dovuta all’interazione di fattori genetici e ambientali. Ha un’incidenza variabile nei 5 continenti: la più alta incidenza è in Finlandia e in Sardegna mentre la più bassa è in Cile e Venezuela. In Europa e in Cina il rischio aumenta proporzionalmente alla latitudine ma il dato interessante è che le persone che si muovono da una regione a bassa frequenza verso una ad alta frequenza vedono il proprio rischio di sviluppare la malattia aumentato. L’età clinica di presentazione ha una tipica distribuzione bimodale, con un primo picco a 4-6 anni e un secondo picco a 10-14 anni, un rapporto M>F (quindi a prevalenza maschile almeno in Europa mentre negli altri continenti il rapporto M:F-1:1). Negli ultimi anni sembra ci sia stato un aumento del 2-5% negli ultimi 20 anni in tutto il mondo. Diabete  Alterata secrezione insulinica: la produzione di insulina nei soggetti normali deriva dalla pre-proinsulina, proinsulina e insulina. Solo una parte dell’insulina precursore sfugge ma nel DM2 le cellule del pancreas sono continuamente in secrezione, per cui si ha un maggior numero in circolo di precursori. Una volta instaurata l’insulino-resistenza, si ha un’aumentata richiesta di insulina: il punto è che l’aumentata produzione di insulina provoca uno stress a livello delle cellule  (l’insulina si lega al recettore e attiva la cellula ma in DM2 l’insulina non riesce ad attivare il recettore e si ha necessità sempre crescente di insulina). L’insulino resistenza, pertanto può essere definita come ridotta risposta biologica all’insulina e come difetto primario nella maggioranza dei pz. con DM2: quando si sviluppa insulino-resistenza, le cellule  reagiscono con un incremento compensatorio della secrezione insulinica ma, a lungo andare, le  cellule non sono più in grado di produrre insulina tale da compensare l’insulino-resistenza e ciò provoca un incremento di glucosio e quindi lo sviluppo di DM2. L’insulino-resistenza può essere quantizzata mediante HOMA index, ovvero una formula matematica che prende in considerazione la glicemia e l’insulina (moltiplicate tra loro), divise per un 22.5. Dal valore ottenuto, possiamo identificare il soggetto come:  Soggetto sano: HOMA < 2.5;  Soggetto con insulino-resistenza: HOMA >= 2.5. Maggiore è l’HOMA, maggiore sarà il grado di insulino-resistenza. Altro difetto chiave del DM2 è l’alterata secrezione insulinica, ovvero una ridotta capacità delle cellule  di produrre insulina in risposta all’iperglicemia e i fattori coinvolti nella riduzione della secrezione insulinica sono:  Fattori genetici;  Ridotta massa delle cellule: dati ricavati dalle autopsie (sembrerebbe essere dovuta direttamente dall’insulino-resistenza e non dall’alimentazione);  Ipersecrezione (relativa) di insulina per compensare l’insulino-resistenza: compensa l’insulino-resistenza e può contribuire alla disfunzione  cellulare. In alcuni soggetti è prevalente l’insulino-resistenza mentre in altri è prevalente la ridotta secrezione insulinica e non tutti gli obesi sono diabetici: in entrambi i casi si ha ridotta tolleranza glucidica e quindi lo sviluppo di diabete di tipo 2. Per capire il concetto di insulino-resistenza, analizziamo il normale rilascio di insulina: l’insulina è allo stato basale all’inizio della giornata (nel DM2 il livello basale è maggiore) e quando mangiamo si hanno 2 picchi, uno ri rilascio immediato vescicolare e l’altro di insulina di neo-sintesi (nel DM2 si ha un unico picco tardivo). Il DM2 è subdolo e spesso viene spesso diagnosticato occasionalmente per screening del medico di famiglia: la diagnosi è spesso tardiva, a volte perché si cerca la causa di complicanze croniche, a volte per via dell’età avanzata (all’inizio l’insulina c’è e l’ipersecrezione compensa l’insulino- resistenza). Sintomi Sono diversi da quello del DM1, in quanto il DM2 si manifesta in forma subdola o con sintomatologia assente. Possono essere presenti poliuria, polidipsia, astenia muscolare, ridotta attività sessuale, disturbi visivi, possibili sintomi ipoglicemici ma sempre in entità ridotta rispetto al DM1. Obiettivamente sono riscontrabili segni di obesità (per lo più addominale), epatomegalia, compromissione del sensorio (iperosmolarità), ipertensione arteriosa, segni di vasculopatia e ipertrofia parotidea. Diabete DIABETE MELLITO GESTAZIONALE Viene definito come un’intolleranza ai carboidrati, che determina un’iperglicemia di intensità variabile, con un inizio (o comunque un primo riscontro) durante la gravidanza. Compare la prima volta durante la gravidanza: la donna che ha un peggioramento della sua condizione diabetica durante la gravidanza non ha un diabete mellito gestazionale. Epidemiologia L’incidenza è in aumento a causa dell’obesità e dell’età di concepimento della gravidanza, l’andamento epidemiologico è simile a quello del DM2 e la prevalenza mondiale è aumentata negli ultimi anni. Il rischio di sviluppo di DM risulta aumentato anche dopo la gravidanza (o la donna rimane diabetica dopo la gravidanza o attraversa uno stadio euglicemico e poi manifesta il diabete). Altri rischi sono rivolti ai figli: anche questi hanno un elevato rischio di sviluppare obesità, ridotta tolleranza glucidica, ipertensione e sindrome metabolica. Eziopatogenesi La gravidanza è uno stato fisiologico di insulino-resistenza che può portare a iper-insulinemia. Avete un diabete mellito gestazionale presenta una serie di outcome negativi, se non controllato:  Outcome negativi per la gestante:  Pre-eclampsia, ipertensione gravidica;  Espletamento non naturale del parto: le diabetiche hanno una maggior tendenza a ricorrere al parto cesareo o a strumenti che agevolino il parto.  Outcome negativi per il feto:  Polidramnios: eccesso di liquido amniotico;  Macrosomia fetale: il feto si presenta con un peso maggiore a 4-4.5kg (superiore al 90° centile rispetto all’età gestazionale);  Outcome negativi per il neonato:  Cardiomiopatia ipertrofica fetale/neonatale: ad oggi non si vedono più grazie alla terapia precoce;  Problematiche respiratorie e metaboliche del neonato: ci si riferisce a un rischio aumentato di avere problematiche respiratorie alla nascita oppure ipoglicemia neonatale, iperbilirubinemia o ipocalcemia. Screening È importante fare una diagnosi precoce per evitare le complicanze e le linee guida identificano 3 livelli di rischio:  Basso rischio: età <25 anni, assenza di familiarità per diabete, anamnesi ostetrica priva di esiti sfavorevoli (nessuno screening);  Rischio intermedio: glicemia alterata, obesità o glicosuria, policistosi ovarica o precedente diabete gestazionale (screening);  Alto rischio: familiarità per diabete, pregresso riscontro di glicemie alterate, obesità, glicosuria nella gravidanza in corso, sindrome dell’ovaio policistico (screening). Per screening si intende la curva da carico del glucosio (OGTT), quindi prevede:  Fase pre-analitica:  Digiuno per almeno 8 ore;  Somministrazione di 75g di glucosio per os;  Prelievi al tempo 0’, 60’, 120’.  Interpretazione:  Tempo 0’: >= 92mg/dL  patologico;  Tempo 60’ >= 180mg/dL  patologico;  Tempo >= 153 mg/dL  patologico. I parametri di interpretazione sono più stringenti rispetto a quelli della normale curva da carico di glucosio. Diabete TERAPIA L’obiettivo è la riduzione dei livelli glicemici tramite antidiabetici orali o insulina, con il rispetto di una dieta ipoglicemica. Antidiabetici orali Sono diversi, in quanto le aziende farmaceutiche hanno studiato farmaci in base al sintomo che l’iperglicemia comporta sui diversi organi e vengono usati solo per la cura del DM2 (sono in corso studi per valutare il loro utilizzo anche in pz. con DM1). Si dividono in farmaci:  Che agiscono a livello intestinale:  Inibitori dell’-glucosidasi (enzima che converte i carboidrati polisaccaridi in monosaccaridi, per essere assorbiti e che si localizza nelle cellule dell’orletto a spazzola duodenali):  Assunzione orale;  Riduzione della glicemia post-prandiale di circa il 30-50%;  Riduzione dell’HbA1c di 0.4-0.9%;  Mal tollerato per effetti gastrointestinali: flatulenza e dolore addominale (fino al 75% dei casi), diarrea (circa il 33% dei casi).  Agonisti GLP-1 (ormone intestinale che inibisce la secrezione di glucagone pancreatico e stimola la secrezione di insulina). Sembrerebbe anche avere un effetto rallentante lo svuotamento gastrico (viene anche usato come presidio per il calo ponderale, in pz. non diabetici):  Aumenta l’emivita del GLP-1 legandosi ai recettori del peptide del glucagone simile: il GLP-1 ha un’emivita di 2 minuti e viene inattivato da DPP-4 (dipeptil-peptidasi 4, enzima ubiquitario), per cui l’utilizzo di agonisti ne aumenta la permanenza. Può essere assunto anche in monoterapia ma può presentare un importante effetto ipoglicemico collaterale;  Assunzione sottocutanea;  Riduzione dell’HbA1c di 0.5-1.2%;  Sono forme iniettive, per cui non sempre tollerate.  Inibitori DPP-4:  Inibiscono la DPP-4 allungando l’emivita del GLP-1: l’effetto è purtroppo modesto, per cui non vendono dati mai come terapia iniziale ma come terapia aggiuntiva, in caso di scarso controllo glicemico con altri farmaci;  Assunzione orale;  Riduzione dell’HbA1c di 0.5-0.6%.  Che agiscono a livello pancreatico:  Sulfaniluree: sono farmaci che agiscono su un recettore (chiamato recettore delle sulfaniluree) localizzato nelle -cellule pancreatiche. Questo recettore, una volta attivato, regola il rilascio dell’insulina dalle -cellule: in particolare, quando stimolati, sono in grado di stimolare la -cellula a produrre insulina. Quando somministriamo questi farmaci, otteniamo quindi una stimolazione di questo recettore ma sembra, tuttavia, che abbiano degli effetti extrapancreatici, andando a rendere più responsivi i tessuti periferici all’azione dell’insulina (sono quindi degli insulino-sensibilizzanti): da un punto di vista clinico, però, questa attività è minima (riducono l’HbA1c anche dell’1.5%) ma mostrano un importante effetto collaterale costituito dall’induzione dell’ipoglicemia (soprattutto in persone con ridotta compliance renale e, in generale, nei pz. anziani), oltre a un aumento variabile del peso (non in maniera costante in tutti i pz.). Ne esistono diverse tipologie, che differiscono in base alla posologia: alcuni possono essere dati una sola volta al giorno mentre altri devono essere somministrati 2-3 volte al giorno. Le controindicazioni sono:  DM1: più che una controindicazione, la loro somministrazione in un pz. con DM1 è un concetto sbagliato, agendo questi farmaci sui recettori delle sulfaniluree (le -cellule sono distrutte);  Insufficienza epatica e renale: possono dare un accumulo di farmaco, comportando un’efficacia oltremodo lunga, col rischio di ipoglicemia (complessa da curare, poiché può essere anche protratta);  Pz. molto anziani: un po’ perché il pz. anziano può avere un’insufficienza renale, un po’ perché spesso i sintomi di ipoglicemia sono molto più sfumati (e magari il pz. si accorge di avere un’ipoglicemia quando i valori glicemici sono molto bassi). Diabete Gestione dei pz. con diabete L’insulina va sempre data a un pz. con diabete mellito di tipo 1. Per quanto riguarda il diabete mellito gestazionale, l’insulina va somministrata in caso di mancato controllo della glicemia con la sola dieta: bisogna cercare di capire se è necessario intraprendere una terapia. Non si possono somministrare antidiabetici orali perché non se ne conoscono bene i possibili effetti collaterali. Per quanto riguarda il diabete mellito di tipo 2, a volte si riesce a controllare con la sola dieta, a volte con dieta e antidiabetici orali e a volte con insulina: l’insulina la diamo all’esordio, in pz. con elevati valori glicemici e chetosi (per ridurre la glucotossicità), in caso di grave insufficienza epatica/renale/cardiaca che impediscano l’utilizzo di ipoglicemizzanti orali o anche in grave scompenso metabolico (infezioni, trattamento con glucocorticoidi). Anche durante e dopo un intervento chirurgico o se il pz. è in terapia intensiva e in urgenze cardiovascolari. Monitoraggio della terapia  Come: attraverso glucometri, che permettono la rilevazione (anche a domicilio) della glicemia, mediante puntura del dito e l’utilizzo di striscette. Esistono anche i cosiddetti “sensori glicemici” che ci permettono un monitoraggio del glucosio interstiziale (liquido interstiziale del sottocute) in maniera continua. La concentrazione interstiziale è diversa da quella plasmatica, per cui il pz. deve “insegnare” allo strumento che quel determinato valore interstiziale corrisponde a un dato valore plasmatico: il dispositivo rimane fisso ma ha una durata limitata (massimo 2 settimane), ha costi elevati e spesso richiede settaggi giornalieri. Possiamo anche monitorare i livello di HbA1c:  Pro: digiuno non necessario, stabilità pre-analitica, variazioni giornaliere minime nei periodi di stress- malattia e specchio di valori di 2-3 mesi (vita media dei globuli rossi);  Contro: interpretazione problematica in caso di anemia e/o alterato turnover dei globuli rossi (es. gravidanza, trasfusioni, dialisi). Ad ogni aumento dell’1% di HbA1c corrisponde un incremento di circa 35mg/dL (2mmol/L) di glucosio: le glicemie dei profili pomeridiani e serali (dopo pranzo, prima di cena, dopo cena e bedtime) correlano maggiormente con l’HbA1c rispetto alle glicemie della mattinata. Bisogna insegnare al pz. come gestirli e di non abusarne (sono presidi molto costosi).  Quando: dev’essere fatta prima dei pasti e, a giorni alterni, anche un paio di ore dopo i pasti. Se il pz. è in terapia insulinica da tempo e i valori glucidici sono stabili, può anche effettuare controlli periodici non costanti. Se il pz. è ricoverato in condizioni severe, lo stick glicemico si fa tutti i giorni, prima e dopo i pasti. Anche l’AbA1c è inutile farla tutti i giorni ma almeno 2 volte l’anno per tutti i pz. (se un pz. è in compenso precario si fa 4 volte l’anno o ogni 3 mesi se non è stato raggiunto il target terapeutico).  Perché: lo scopo è, ovviamente, la riduzione delle glicemie pre-prandiali, post-prandiali e dell’HbA1c. Sembrerebbe logica l’idea di “riempire” il pz. di insulina per ridurne la glicemia ma dobbiamo ricordare che dare troppa insulina a un pz. lo espone a un rischio ipoglicemico. Dobbiamo, pertanto, porci degli obiettivi:  HbA1c:  <6.5% in soggetti senza complicanze;  <7% in pz. con complicanze;  <8% in pz. anziani ad alto rischio di ipoglicemia.  Glicemia pre-prandiale: 80-130mg/dL;  Glicemia post-prandiale: <160mg/dL. Diabete COMPLICANZE DEL DIABETE MELLITO COMPLICANZE ACUTE DEL DIABETE MELLITO Si tratta essenzialmente di:  Ipoglicemia: normalmente la glicemia è >=70mg/dL e diviene importante quando è =< 54mg/dL. Si divide in:  Ipoglicemia severa: richiede assistenza da parte di un altro soggetto per la somministrazione di zuccheri;  Ipoglicemia sintomatica documentata: i segni tipici dell’ipoglicemia sono accompagnati da livelli di glicemia <70mg/dL;  Ipoglicemia asintomatica: quando la glicemia è ridotta ma si è in assenza di sintomi;  Ipoglicemia sintomatica probabile: quando il pz. ha i tipici sintomi dell’ipoglicemia ma non c’è il rilevo biochimico (ad es. il pz. si è dimenticato il glucometro);  Pseudo-ipoglicemia: si hanno i sintomi tipici dell’ipoglicemia ma questa è >70mg/dL, ovvero la clinica non è accompagnata da esami di laboratorio. In DM1 si hanno circa 3 episodi/anno mentre in DM2 la casistica varia in base alla terapia assunta: aumenta il rischio se il pz. assume insulina e solfaniluree mentre non aumenta il rischio se il pz. assume biguanidi, glitazonici, analoghi GLP-1, inibitori della DPP-4, inibitori dell’-glucosidasi, inibitori del co- trasportatore sodio-glucosio. Le manifestazioni cliniche si dividono in:  Sintomi adrenergici: tremore, palpitazioni, ansietà, sudorazione, fame e parestesie;  Sintomi neuroglicopenici: vertigini, debolezza, confusione e sonnolenza, crisi epilettica e coma (solo per glicemie molto basse); Nel pz. anziano, spesso sono assenti nelle fasi iniziali. Fattori di rischio: eccessivo dosaggio di farmaci anti-diabetici, durata del diabete, età avanzata, timing del pasto, attività fisica (i pz. dovrebbero programmare l’attività fisica, aumentando i carboidrati), ingestione di alcol (l’alcol stimola la secrezione insulinica), insufficienza renale cronica, malnutrizione. Sintomi:  Ipoglicemia lieve: sudorazione, tremore, palpitazione, nervosismo, fame;  Ipoglicemia moderata: cefalea, incapacità alla concentrazione, confusione, amnesie, parestesie, parlata incomprensibile, incoordinazione, comportamento aggressivo-irrazionale, diplopia, sonnolenza;  Ipoglicemia severa: disorientamento, contrazioni tonico-cloniche, perdita di coscienza. L’obiettivo è aumentare la glicemia, in:  Paziente asintomatico: ripetere la glicemia e, se persiste, valutare il trattamento;  Paziente sintomatico: 15-20g di carboidrati (1 cucchiaio di zucchero) e re-test dopo 15 minuti. Eventualmente si ripete la somministrazione di carboidrati;  Paziente severo: in presenza di accesso endovenoso, somministriamo glucosio EV al 33% mentre in assenza di un accesso venoso, somministriamo glucagone (sottocute o intramuscolo).  Chetoacidosi diabetica: è una complicanza più tipica del DM1 che del DM2 (con prevalente deficit insulinico, piuttosto che in insulino-resistenza). Si caratterizza per:  iperglicemia: >250mg/dL. Con l’avvento degli inibitori di cotrasporto-sodio glucosio, sono state viste delle forme euglicemiche, con glicemia <250mg/dL;  iperchetonemia: >5mmol/L;  chetonuria: presenza di corpi chetonici nelle urine;  acidosi metabolica con gap anionico aumentato;  disidratazione. Sono elementi tendenzialmente sempre presenti in chetoacidosi che, fisiopatologicamente riconosce:  deficit di insulina: assoluto o relativo;  eccesso di glucagone: è paradossale ma è presente a causa dell’effetto inibente dell’insulina sulle cellule  (ulteriore conferma che l’insulina manca o è insufficiente);  fattori intercorrenti: processi infettivi, patologie cardiovascolari, endocrinopatie (ipertiroidismo classico), terapia corticosteroidea (si ha aumento dell’insulino-resistenza e della glicemia). Diabete I quadri principali sono:  diabetico noto: una delle cause che può scatenare chetoacidosi diabetica è la riduzione/sospensione della dose insulinica praticata abitualmente. L’errore può essere fatto anche dallo stesso pz. o perché fanno meno insulina o perché introducono alimenti diversi;  diabetico non noto: esordio di un diabete non ancora diagnosticato, ovvero un pz. con DM1 ha, come motivo di accesso diagnostico la chetoacidosi stessa. L’iperglicemia è un elemento chiave nella genesi della chetoacidosi diabetica: in condizioni fisiologiche, interviene l’insulina che favorisce l’ingresso di glucosio nelle cellule muscolari, adipociti e fegato (dove viene trasformato il glicogeno), per aumentata captazione cellulare. Contestualmente, l’insulina impedisce al fegato di introdurre in circolo altro glucosio (inibisce la gluconeogenesi epatica). In soggetto malato, le cellule muscolari, adipociti ed epatociti non riescono a internalizzare l’insulina (ridotta captazione), contestualmente, operò, il fegato riesce a mettere nuovo glucosio in circolo (ridotta inibizione della gluconeogenesi epatica). Appare chiaro che l’iperglicemia è legata a un difetto di captazione cellulare di glucosio e aumento della produzione epatica di glucosio ma può avvenire anche glicosuria (con successivo richiamo renale di liquidi e quini poliuria, con successiva disidratazione). La polidipsia è quindi una conseguenza della poliuria e si accompagna a polifagia (secondaria a lipolisi e aumento del catabolismo proteico). Si ha inoltre aumento dei corpi chetonici: in presenza di insulina viene bloccata la lipolisi ma in carenza di insulina, avviene la lipolisi (trasformazione di trigliceridi in 1 glicerolo e 3 acidi grassi, che arrivano al fegato e, venendo trasformati in corpi chetonici li rimette in circolo). I corpi chetonici sono acetone, acetoacetato e -idrossibutirrato (acidi deboli) che possono essere utilizzati come substrato glucidico. Possiamo misurare solo il -idrossibutirrato con gli stick (è la parte maggiore) e normalmente lo stimiamo in aumento se i valori sono >3mmol/L e >6mmol/L nelle forme severe. Le manifestazioni cliniche sono varie:  anoressia, nausea, vomito;  dolori addominali;  alito acetonemico;  iperventilazione: meccanismo di compenso per abbassare la CO2;  stato di coscienza: vigile, letargico o comatoso;  grave disidratazione: secondario a poliuria e anoressia;  insufficienza renale acuta: in genere secondaria alla grave disidratazione. Gli esami di laboratorio saranno:  glicemia: 300-600mg/dL;  iperchetonemia;  chetonuria;  acidosi metabolica con gap anionico aumentato: pH<7.35 ma dobbiamo porre attenzione al compenso polmonare (il quadro può essere falsatamente normale);  osmolarità plasmatica aumentata: calcolata in automatico dall’emogas;  disionie: per perdita di potassio. I livelli però possono essere anche normali o aumentati. L’iperosmolarità, l’acidosi e l’assenza di insulina favoriscono la fuoriuscita di potassio dalle cellule e quindi un incremento paradosso della kaliemia. Quando normalizziamo l’iperosmolarità, l’acidosi e pratichiamo insulina, il potassio può rientrare all’interno delle cellule e quindi viene fuori il reale valore del potassio (che può quindi essere basso o, in alcuni casi, anche normale). Questo ci serve per la cura e la gestione del pz.;  leucocitosi neutrofila: non necessariamente dovuta a un processo effettivo ma può essere secondaria a disidratazione o a vomito. Non esiste un cut-off standard ma quando abbiamo una leucocitosi >25000, abbiamo un forte sospetto di infezione sovrapposta;  iperlipemia: causata dall’aumentata lipolisi. Non tutte le chetoacidosi sono uguali:  Chetoacidosi lieve: pH 7.25-7.3, chetonemia >3mmol/L, potassiemia >5.5mEq/L, gap anionico >10 e sensorio vigile;  Chetoacidosi moderata: pH 7-7.4, chetonemia 3-6mmol/L, potassiemia 3.5-5.5mEq/L, gap anionico >12 e sensorio vigile/sonnolento;  Chetoacidosi severa: pH<7, chetonemia alta (>6mmol/L), potassio molto basso (<3.5mEq/L), gap anionico >12 e presenza di stupore/coma; Diabete  Proliferante: presenza di neovascolarizzazione. Prevale la neovascolarizzazione, con emorragie pre- retiniche e fibrosi e trazione della macula. In passato si diagnosticava esclusivamente con l’esame del fundus ma ad oggi si usa principalmente il retinografo (si scatta una foto della retina che ci permette di vedere bene la retina). Si osservano microaneurismi, essudati cotonosi ed essudati duri. È possibile osservare anche ischemia della retina. La diagnosi precoce è assolutamente importante, sia che si tratti di DM1 che DM2:  DM1: lo screening va fatto entro 5 anni dalla diagnosi, con controllo annuale se la retinopatia è presente o un controllo ogni 2 anni se non è presente retinopatia;  DM2: lo screening va fatto al momento della diagnosi, con controllo annuale (se la retinopatia è già presente) o controllo ogni 2 anni (se la retinopatia non è presente).  Nefropatia diabetica: rappresenta la causa principale di insufficienza renale cronica (a qualunque stadio) e, se in linea teorica potrebbe essere più facilmente pensabile un riscontro in DM2 (hanno anni e anni di iperglicemia misconosciuta), in realtà la frequenza è simile e, a seconda delle casistiche, si hanno dati discordanti. Fattori di rischio:  Età: maggiore è l’età, maggiore è la frequenza della nefropatia diabetica (es. frequenza del 8% in 50enni a 35% in ultrasettantenni). Non è dovuta solo al diabete ma anche al fisiologico invecchiamento del rene (l’insufficienza renale compare anche in soggetti non diabetici, anche se il diabete accelera il processo);  Etnia: afroamericani e indiami d’America;  Sesso: sembrerebbe essere più appannaggio delle donne;  Obesità: è un fattore di accelerazione;  Fumo;  Ipertensione arteriosa: chi è iperteso ha un rischio di nefropatia per cui, se si inserisce il DM, il processo si accelera;  Controllo glicemico: è il fattore principale per i pz. con diabete. Manifestazioni cliniche:  Albuminuria: viene quantificata mediante il dosaggio delle 24 ore (dobbiamo chiedere al pz. di raccogliere le urine e l’albumina viene moltiplicata per il valore del volume delle 24 ore) e il rapporto albumina creatinina su campione spot di urine (da un indice simile a quello del dosaggio delle 24 ore.  Normale: <30mg/24ore;  Microalbuminuria: 30-299mg/24ore;  Macroalbuminuria: >=300mg/24ore.  Rapporto albumina/creatinina patologico se: >= 30mg/g. La comparsa di microalbuminuria, in passato, rappresentava un punto di non ritorno: attualmente si sa che si può tornare ad un quadro di quasi normalità, con una marcata riduzione dell’albuminuria.  Riduzione del GFR: si quantifica con eGFR-EPI ed eGFR Cockroft-Gault, i cui valori si ritengono patologici quando il GFR risulta <60mL/min.  Neuropatia diabetica: è un’alterazione del SNC sia della componente somatica che autonomica, insorta e causata dal diabete (si richiede quindi esclusione di tutte le altre cause). Ha una prevalenza che va dal 10-100% di diabete (quasi tutti i pz. con diabete hanno forme subcliniche di neuropatia), l’incidenza è proporzionale alla durata del diabete ed è causa di importanti morbidità. Si classifica in:  Polineuropatia distale simmetrica: forma più comune, caratterizzata da progressiva perdita delle sensazioni distali a causa della perdita degli assoni sensitivi (cui può seguire perdita degli assoni motori, con deficit di forza). Interessa le parti distali bilateralmente e i pz. avvertono una sensazione di ovattamento, come se si avessero dei guanti o delle calze (che arrivano fino al ginocchio);  Neuropatia autonomica: può portare a tachicardia sinusoidale (che, con l’andare del tempo porta all’effetto opposto, ovvero bradicardia) e intolleranza all’esercizio, eventi cardiovascolari e ischemia silente (es. un infarto del miocardio silente, quindi con sintomi particolarmente più attenuati), ipotensione ortostatica (caduta della pressione arteriosa sistolica nel passaggio clino- ortostatismo), tachicardia posturale (conseguenza dell’ipotensione ortostatica) ed eventi cerebro- vascolari e renali (associati allo sviluppo di ictus). Sempre nell’ambito della neuropatia autonomica Diabete riconosciamo anche una neuropatia vasomotoria e sudomotoria periferica (si ha una sudorazione prevalentemente a calza o a guanto), neuropatia autonomica gastrointestinale (es. reflusso gastroesofageo per riduzione del LS e rallentato svuotamento gastrico, con pirosi) e neuropatia autonomica genito-urinaria (vescica neurogena, disfunzione erettile ed eiaculazione retrograda);  Poli-radiculopatie: si verifica soprattutto in soggetti >50 anni e con DM1. Si manifesta come un bruciore o un senso di costrizione (come una compressione da cintura) a livello toraco addominale e soprattutto di notte;  Mononeuropatie: la forma più comune è quella craniale (con il coinvolgimento dei nervi oculomotori) ma ne esiste anche una periferica (es. nervo mediano del polso, in circa il 25% dei pz.);  Mononeuropatie multiple: sono combinazioni di 2 o più mononeuropatie.  Macrovascolari:  Ictus: da trombosi cerebrale o cardioembolico;  Malattia coronarica: infarto del miocardio;  Arteriopatia periferica: le placche aterosclerotiche causano ostruzione dell’arteria con conseguente ipoafflusso ematico. Colpisce quasi esclusivamente gli arti inferiori e si può presentare con dolore a riposo, claudicatio o può essere asintomatica.  Piede diabetico: è un mix di complicanze micro- e macrovascolari. È una condizione di infezione, ulcerazione e distruzione del piede, associata alla neuropatia e alla vasculopatia degli arti inferiori. La prevalenza varia con la durata del diabete.  Fattori di rischio:  Neuropatia: la disfunzione tattile, porta il pz. a poggiare male il piede. La presenza di traumatismi e corpi estranei porta alla formazione di ulcere e infezioni.  Precedenti ulcere o amputazioni;  Deformità del piede;  Traumatismi esterni;  Infezioni;  Classificazione:  Grado:  0: pre- o post-ulcerazione (ulcera superficiale);  1: ulcera a tutto spessore che non coinvolge tendini, capsula od osso;  2: interessamento dei tendini o della capsula;  3: interessamento dell’osso.  Stadio:  A: non infetto;  B: infetto;  C: ischemico;  D: infetto e ischemico. Malattie Infiammatorie Croniche Intestinali IBD Rappresentano un problema a prevalente interesse gastroenterologico ma è divenuto un problema anche nei reparti di medicina interna. Molto spesso sono malattie ad andamento cronico, con tendenza alla riacutizzazione e la loro gestione è una attività ambulatoriale mentre la gestione delle riacutizzazioni può essere ambulatoriale, anche se spesso è necessario il ricovero in reparto (medicina e gastroenterologia). Sono essenzialmente: • Rettocolite Ulcerosa: è una malattia cronica caratterizzata da fasi alterne di riacutizzazione e di remissione, limitate alla mucosa del colon (possono interessare anche tutto il colon, nella cosiddetta “pancolite”). Interessa la sola mucosa intestinale (non scende alla sottomucosa), spesso interessa il retto e ha una localizzazione continua e può essere sottoclassificata in: • Proctite ulcerativa: è la lesione limitata al retto (entro 18cm dal margine anale); • Procto-sigmoidite: si riferisce alle lesioni limitate al retto e al sigma (e che non interessano il colon discendente); • Colite sinistra: dal sigma alla flessura colica sx; • Pancolite: presenza dell’estensione oltre la flessura colica di sx. Possiamo distinguere una: • Forma lieve; • Forma moderata; • Forma severa. • Morbo di Crohn: malattia infiammatoria cronica caratterizzata dalla presenza di infiammazione transmurale e segmentario. È, come la rettocolite ulcerosa, una malattia idiopatica ma differisce dalla stessa poiché ha un interessamento transmurale e segmentario (a “salto”, con aree di intestino normale che si alternano ad aree interessate). L’infiammazione transmurale (a tutto spessore) può portare a fibrosi, stenosi, ostruzioni e microperforazioni che possono portare alla formazione di fistole. Può interessare un po’ tutto il tratto gastrointestinale (dall’esofago all’ano) ma si localizza più frequentemente a livello dell’ileo terminale e il colon prossimale. Ha un aspetto molto eterogeneo rispetto alla rettocolite ulcerosa, per cui viene classificata in fenotipi: • Malattia penetrante (13%): si caratterizza per la presenza di fistole, infiammazione e ascessi; • Malattia stenosante (17%): si caratterizza per la presenza di infiammazione e stenosi; • Malattia luminale (70%): si caratterizza per infiammazione senza fistole o ascessi. Quando parliamo di fenotipi cronici, ci riferiamo quindi alla presenza di queste complicanze e se la sede della lesione rimane stabile, il fenotipo può cambiare: in 1/3 dei pz. possiamo avere un’evoluzione della forma luminale verso la penetrante o verso la stenosante. È una malattia soggetta a variazioni che possono essere lievi (sola infiammazione) ma che può mutare nel tempo e portare a fistole e ascessi oppure a fibrosi intestinale (stenosi). Il minimo comune denominatore è l’infiammazione che è presente, per definizione. Fattori genetici • Suscettibilità genetica: • Concordanza con gemelli omozigoti: Crohn > RCU; • Parenti di primo grado: rischio aumentato di 3-20 volte; • Figli: 33% entro 28 anni; • Concordanza di localizzazione e fenotipo; • Anticipazione genetica: si riferisce allo sviluppo della malattia più precocemente e con forme più severe in figli con genitori affetti da IBD. Questo può essere però determinato anche da un bias, inquanto se un genitore è affetto da IBD ha una maggiore attenzione ai sintomi che può riferire, per cui le diagnosi ai figli saranno più precoci; • Associazione con HLA: le variazioni genetiche sembrano influenzare la localizzazione della malattia e la sua prognosi. Certi alleli HLA sono associati a una malattia più estesa e a manifestazioni extraintestinali. Malattie Infiammatorie Croniche Intestinali Evoluzione clinica • Riacutizzazioni alternate a fasi di quiescenza. I pz. in cui la RCU esordisce come una proctite (interessamento della parte terminale) hanno un decorso più benigno, rispetto a quelli che hanno un interessamento più esteso del colon; • Fattori che influenzano il decorso: non sono tutti noti. Quelli più studiati sono: • Età alla diagnosi: circa il 70% dei pz. ha il rischio di avere una riacutizzazione entro 10 anni dalla diagnosi. Tanto più la riacutizzazione avviene in maniera precoce, tanto maggiore è il rischio che la prossima riacutizzazione sia precoce; • Guarigione della mucosa: se un pz. risponde bene alla terapia, è probabile che non sviluppi infiammazione a lungo termine; • Grado di estensione della colite: la riacutizzazione dipende dal grado di estensione della colite e non è detto che si ripresenti nella stessa sede; • Tabagismo: influenza il decorso della RCU. Complicanze acute • Emorragia severa: fino al 10% del pz. ma è raro che l’emorragia sia così grave da mettere a rischio la vita del pz.; • Colite fulminante e megacolon tossico: si hanno >10scariche di diarrea sanguinolenta al giorno, con segni di tossicità sistemica (febbre e anoressia). I pz. con colite fulminante sono a rischio di sviluppo di megacolon tossico, ovvero un processo infiammatorio che si estende oltre la mucosa e arriva fino al muscolo del colon: si caratterizza per una dilatazione >= 6 cm del colon oppure >=9cm del cieco, entrambe con segni di tossicità sistemica. È una condizione (radiologica) temibile, in quanto gravata da un’alta mortalità; • Perforazione: avviene più di frequente come complicanza del megacolon tossico (complicanza della complicanza) ma può avvenire anche in assenza di questo, in pz. con un primo episodio di RCU guarito in seconda intenzione (cicatrice), cui segue un secondo attacco, vedono il viscere non distendersi bene e lacerarsi: quando compare la perforazione, il pz. ha il 50% di probabilità di morire. Complicanze croniche • Stenosi: le stenosi benigne (più frequenti in Crohn) si verificano in seguito a frequenti infiammazioni. Si ritrovano soprattutto nella parte terminale giunzione retto-sigmoidea) e possono essere responsabili di numerosi sintomi, oltre a mascherare un possibile tumore; • Tumore del colon: il rischio è proporzionale all’estensione e dalla durata della malattia, per cui i soggetti sono soggetti a screening periodici; • Mortalità: pz. con RCU hanno un rischio aumentato di mortalità rispetto alla popolazione generale. Il rischio sembra aumentato nei primi 4 anni e poi si riduce successivamente. Terapia • Obiettivi: • Guarigione clinica: intendiamo la remissione dei sintomi (risoluzione di diarrea, sanguinamento, dolori addominali, ecc.); • Guarigione endoscopica: intendiamo il raggiungimento della guarigione della mucosa colica. • Fase acuta delle forme lievi/moderate: • Proctite e proctosigmoidite: • Mesalazina: è un antinfiammatorio topico che ha un’azione selettiva nei confronti della mucosa intestinale (con supposte o con clisteri, se la sede è più distale); • Cortisonici topici: in pz. con allergia alla mesalazina (sempre con supposte o clisteri). L’uso prolungato è però sconsigliato e la terapia impiega circa 4 settimane; • Mesalazina orale: in pz. che rifiutano supposte o clisteri. La guarigione sarà più lenta (8 settimane); • Colite sinistra o pancolite: • Mesalazina topica e orale: in combinazione. Si ha un miglioramento dei sintomi in 2-4 settimane • Budesonide: è un corticosteroide; • Prednisone. Malattie Infiammatorie Croniche Intestinali • Mantenimento in forme lievi/moderate: • Proctite e proctosigmoidite: è simile alla terapia della fase acuta (ma senza cortisonici). Si usano: • Mesalazina topica; • Mesalazina orale. • Colite sinistra o pancolite: • Mesalazina topica e orale; • Budesonide: si usano comunque i cortisonici, anche se dobbiamo limitarne la durata. • Prednisone. • Fase acuta di forme severe: • Terapia idro-elettrolitica: spesso il pz. è ricoverato e il pz. è spesso disidratato e con squilibro idro- elettrolitici; • Profilassi TVP: i pz. possono essere allettati e quindi processo infiammatorio + allettamento sono un fattore di rischio per la TVP • Nutrizione parenterale: i pz. con RCU possono continuare ad alimentarsi per via enterale (il digiuno riduce il volume delle feci ma non riduce la gravità della malattia). Se il pz. ha dolore/vomito è indicata la nutrizione parenterale mediante preparati farmaceutici che vengono infusi al pz. • Emotrasfusioni: i pz. subiscono delle emorragie importanti, per cui si rendono necessarie delle trasfusioni. Non c’è in cut-off per le emotrasfusioni ma ci si basa sul valore dell’emoglobina e in quanto tempo si è modificato il valore dell’emoglobina (quando l’emoglobina <8mg/dL solitamente si fa trasfusione); • Terapia antibiotica: va somministrata in caso di sospetta/accertata infezione; • Cortisonici EV e topici: la terapia EV è quella di scelta, con miglioramenti in tempi rapidi (<7 giorni) e in aggiunta si può prescrivere anche un cortisonico topico (creme, schiume, ecc.); • Mantenimento delle forme severe: • Infliximab: è l’inibitore del TNF-, che viene somministrato ciclicamente; • Azatioprina: è un immunosoppressore. Malattie Infiammatorie Croniche Intestinali MORBO DI CROHN Manifestazioni cliniche • Asintomatici: spesso i sintomi sono sottovalutati; • Dolore addominale: è un dolore di tipo crampiforme ed è la manifestazione clinica più comune; • Diarrea: è una manifestazione comune ma i sintomi sono spesso fluttuanti (le feci contengono sanguinamenti microscopici o massivi, se vi è un interessamento del colon); • Astenia: è un sintomo molto frequente ma ha genesi multifattoriale (dovuta alle condizioni cliniche generali, all’anemia o alle disionie); • Perdita di peso: è abbastanza frequente ed è dovuto alla riduzione dell’introito alimentare, dovuto al dolore che il pz. lamenta quando si alimenta (se un pz. ha una stenosi, il passaggio delle feci causa dolore); • Fistole: sono una complicanza legata all’infiammazione transmurale e rappresentano comunicazioni che connettono l’epitelio di 2 organi adiacenti. Si possono osservare fino al 10% dei pz. e le varietà sono tante, ovvero: • Entero-enteriche: si hanno quando si sviluppa una fistola tra le pareti di 2 anse intestinali adiacenti. Sono in genere asintomatiche o si possono anche apprezzare clinicamente come una massa; • Entero-vescicali: mettono in comunicazione un’ansa intestinale con la vescica. Questo predispone a infezioni ricorrenti delle vie urinarie; • Retroperitoneali: possono mettere in comunicazione l’intestino con il retroperitoneo, causando un ascesso del muscolo psoas o un’ostruzione dell’uretere con idronefrosi (l’uretere viene compresso e l’urina si accumula a monte, causando un ingrandimento del rene); • Entero-vaginali: possono mettere in comunicazione l’intestino con la vagina, causando il passaggio di materiale fecale dalla vagina, aumentando il rischio di infezioni; • Entero-cutanee: comunicazione tra intestino e cute che può comportare la fuoriuscita di materiale fecale dalla superficie della cute. È un evento molto raro ma può causare problemi nella vita quotidiana del pz. • Ascesso: è una complicanza dell’ascesso che non ha comunicazione completa; • Malattia perianale: i segni e i sintomi si hanno fino al 40% con fistole/ascessi perianali prima locali ma che possono trasformarsi in un problema sistemico. Dalla fistola fuoriesce materiale fecale, con dolore; • Aftosi orali ed esofagee: sono infrequenti ma molto dolorose (soprattutto le esofagee) e possono causare odinofagie e disfagie; • Interessamento gastrico: si verifica nel 10-15% dei pz. e si verifica con nausea e dolore post-prandiale. Le sedi più frequenti sono l’antro distale e il duodeno; • Malassorbimento: può essere dei sali biliari (con diarrea acquosa e steatorrea), deficit di vitamine (es. D), anemia, ecc. (per alterazione del circolo entero-epatico dovuto all’interessamento del tratto terminale dell’ileo). Il grado di malassorbimento dipende dall’entità e dalla lunghezza del tratto interessato. Indice di Attività di malattia È uno score che prende in considerazione una serie di parametri (peso, altezza, ematocrito, dolore addominale, ecc.) e sulla base del punteggio, possiamo classificare i pz. in 4 gruppi: • Remissione clinica: sono pz. asintomatici, senza sequele. Questo status può essere raggiunto spontaneamente o dopo terapia (medica o chirurgica); • Morbo di Crohn lieve: sono pz. che hanno una gestione ambulatoriale, con un calo ponderale moderato (5-10%) ma nessun segno si coinvolgimento sistemico; • Morbo di Crohn moderato-severo: sono pz. che non rispondono bene alla terapia medica o hanno sintomi sistemici; • Morbo di Crohn severo-fulminante: sono le forme più gravi e i pz. hanno sintomi persistenti nonostante terapia con steroidi/agenti biologici e che hanno sintomi sistemici gravi (vomito persistente, segni di irritazione peritoneale o di occlusione intestinale). Malattie Infiammatorie Croniche Intestinali MANIFESTAZIONI EXTRA-INTESTINALI (RCU E CROHN) Possono colpire virtualmente ogni apparato e si possono riscontrare dal 25-40% (1/4 dei pz. ha più di una manifestazione) • Artrite: si manifesta con un dolore articolare, tumefazione limitazione funzionale. Può comparire anche a 10 anni dalla diagnosi e colpisce indipendentemente dal sesso e, in genere, è più frequente in pz. che hanno RCU, rispetto ai pz. con Crohn a interessamento ileale. Le trattiamo con farmaci anti-COX e FANS e le distinguiamo in: • Artriti periferiche (5-20%): non sono deformanti e sono FR-. Si dividono in • Tipo1: pauci-articolare (<5 articolazioni, la più frequente delle quali è il ginocchio), associata al grado di attività dell’IBD (segue le riacutizzazioni); • Tipo2: poli-articolare (la maggior parte delle quali sono metacarpo-falangee), indipendente dal grado di attività dell’IBD (es. artrite grave con IBD in remissione). Possono apparire anche a distanza di mesi/anni dalla comparsa di IBD. • Spondiloartriti (1-25%): sono indipendenti dal grado di attività dell’IBD. In linea generale, gli uomini sono più colpiti delle donne e i pz. lamentano un dolore in regione glutea che compare a riposo e scompare col movimento. La terapia è simile a quella dell’artrite periferica (anti COX e FANS). • Osteopenia/osteoporosi: ridotta massa ossea a eziopatogenesi multifattoriale: • Fattori di rischio: età, sesso (femminile) e alterato metabolismo del calcio, con fattori di rischio intrinseci di IBD (es. ipovitaminosi D); • Rischio di fratture: 40% rispetto alla popolazione generale. I maschi hanno lo stesso rischio delle femmine, a prescindere dal tipo di IBD; • Dermatologiche (2-30%): • Eritema nodoso: è la più frequente e appare come una serie di noduli profondi e morbidi, a prevalenza preferenziale al di sopra degli stinchi. I noduli sono palpabili e possono infiammarsi per dare origine a una panniculite: sono grandi (anche 5cm) ma non sono tipici di IBD, in quanto presenti anche in sarcoidosi e tubercolosi. La presenza è sincrona con il grado di infiammazione intestinale e solitamente si risolvono con la remissione dell’IBD; • Pioderma gangrenoso (fino al 10% dei pz.): inizia come una pustola o una papula eritematosa che tende a evolvere erompendo la superficie (forma un ulcera limitata da un bordo violaceo ricoperto da pus). Le ulcere possono essere monolaterali/bilaterali, uniche/multiple e si ritrovano soprattutto sulla cute degli arti inferiori (anche se nessuna parte del corpo è risparmiata). Può svilupparsi anche in seguito a un trauma (o intervento chirurgico) e non si sa se sia correlato alla presenza attiva di malattia; • Psoriasi: non è frequente e sono stati segnalati anche casi di psoriasi insorti 16 anni dopo l’insorgenza di IBD; • Stomatite aftosa: si manifesta come ulcere a livello orale. • Manifestazioni epato-bilio-pancreatiche: • Colangite sclerosante primitiva: è una manifestazione più temibile dell’IBD stessa e si manifesta con infiammazione, stenosi e fibrosi dei dotto epatici. Si associa soprattutto a RCU ma si può riscontrare anche in Crohn: è poco frequente e insorge tipicamente in pz. di 30-50 anni con interessamento importante a livello colico (es. pancolite). Il decorso non ha relazione con quello intestinale; • Colelitiasi: è particolarmente frequente in Crohn, per interruzione della circolazione entero-epatica (secondaria alla malattia ileale) e alterato assorbimento dei sali biliari; • Trombosi della vena porta: è un’evenienza rara, secondaria alla coagulopatia dei pz. con IBD. • Manifestazioni oculari: sono rare e si manifestano soprattutto in associazione all’artrite periferica. • Episclerite; • Sclerite; • Uveite. Complicanze della terapia steroidea COMPLICANZE DELLA TERAPIA STEROIDEA Gli steroidi sono utilizzati per la cura di malattie infiammatorie autoimmunitarie, allergiche, tumori (es, linfomi) e per le loro complicanze. In acuto gli steroidi tolgono la maggior parte dei problemi ma in cronico possono dare effetti avversi. Possono essere diversi, ad es.: • Betametasone; • Budesonide; • Cortisone; • Desametasone; • Idrocortisone: è l’equivalente del cortisolo; • Metilprednisone; • Prednisolone; • Prednisone; • Triamcinolone. I dosaggi si differenziano in base all’emivita, alla relativa potenzia antinfiammatoria e mineralcorticoide, alla modalità di somministrazione (vari effetti collaterali variano in base alla modalità di somministrazione, come ad esempio l’alto rischio in somministrazione orale). Altri fattori possono essere: • Dosaggio del farmaco: in linea generale, più cortisonico somministriamo, maggiori sono le probabilità di avere complicanze (soprattutto severe). Secondo alcuni, la somministrazione migliore è 5mg/die: è una sorta di bilancia tra la buona efficacia terapeutica e la scarsa incidenza di effetti avversi; • Durata della terapia: maggiore è la durata della terapia, maggiore sarà la probabilità di avere effetti collaterali. Secondo alcuni studi, anche l’uso non particolarmente prolungato (<1 mese) può associarsi a effetti avversi (es. rischio fratture). In linea generale non esiste un cut-off chiaro, per cui vige la regola del “less is more” (si consigliano bassi dosaggi). Effetti avversi L’uso dei glucocorticoidi è associato a: • Ipertensione arteriosa: si ritrova nel 20% di pz. trattati con alte dosi (sia come incidenza “de novo” che come peggioramento di una preesistente ipertensione). Si pensa che questo sia dovuto a un eccesso di ritensione idrica; • Aterosclerosi: colpisce anche chi non fa cortisonici in cronico ma chi li usa sembra avere una progressione accelerata; • Effetti gastrointestinali: sono farmaci lesivi della mucosa, per cui si possono avere • Gastriti; • Ulcera gastrica; • Emorragie gastrointestinali. L’effetto aumenta in associazione con FANS con un’importante problema: entrambi hanno effetto analgesico, per cui si può avere un effetto “asintomatico” con notevole ritardo diagnostico; • Effetti muscolo-scheletrici: • Osteoporosi: è un effetto visibile soprattutto dopo i primi mesi di utilizzo del farmaco e sembra che gli effetti avversi siano essere secondari all’azione inibitoria negli osteoblasti e stimolatoria sugli osteoclasti (fanno proprio l’opposto della normale fisiologia dell’osso, che dovrebbe apporre con gli osteoblasti e erodere con gli osteoclasti); • Osteonecrosi: nota anche come “necrosi asettica” è stata associata all’uso di steroidi, soprattutto se ad alto dosaggio. L’esatta eziopatogenesi non è nota mi si pensa a una possibile embolizzazione dell’arteria dell’osso; • Miopatia: debolezza prossimale non associata a dolore (che può evolvere anche in atrofia muscolare); • Effetti oftalmologici: • Cataratta: è solitamente bilaterale e a lenta progressione; • Glaucoma: per aumento della pressione intraoculare, soprattutto per chi usa gocce steroidee; • Corioretinite centrale: è rara e si può verificare a prescindere dalla via di somministrazione. Quando compare si può avere distacco della retina dalla coroide. Complicanze della terapia steroidea • Effetti neuropsichiatrici: • Disturbi dell’umore; sono in genere quadri labili e passeggeri. Possono comparire a qualsiasi età ma spesso si associano a un’età anziana; • Psicosi: tende a manifestarsi a dosaggi elevati e rappresenta un motivo di riduzione della dose • Deficit mnesici: sono frequenti e legati a dosi moderate-alte. Possono insorgere de novo oppure peggiorare un quadro clinico già noto. • Effetti sul sistema immunitario: • Vantaggi: rappresentano la cura di malattie autoimmuni; • Svantaggi: possono favorire infezioni opportunistiche, soprattutto in cronico e quando il pz. è ospedalizzato. • Effetti ematologici: neutrofilia. I neutrofili circolanti nel sangue, circolano in 2 correnti (assiale e marginale, in rapporto 3:4): quando li dosiamo nel sangue, andiamo a contare la corrente assiale ma non marginale ma quando somministriamo i corticosteroidi, per via della demarginalizzazione (passaggio dei neutrofili dalla corrente marginale a quella assiale) li andiamo a sovradosare. È un effetto e non sintomo di infezione. • Effetti endocrinologici: • Iperglicemia: sono causa secondaria di DM, con effetto dose-dipendente che influisce soprattutto sulle glicemie post-prandiali, poiché spesso somministrato di mattina (con effetto verso ora di pranzo). È in grado di favorire l’insorgenza di un diabete ex novo (diabete mellito steroido-dipendente) o favorire un peggioramento del quadro glicemico in un pz. già diabetico. Il meccanismo sottostante l’aumento della glicemia è dovuto a un’aumentata gluconeogenesi epatica, all’inibizione dell’uptake del glucosio nel tessuto adiposo e alle alterazioni a livello recettoriale e post-recettoriale; • Cushing: se un pz. fa una terapia ad alto dosaggio e per lungo tempo, ha un fenotipo cushinoide (lo ricorda e in effetti la causa è la stessa). Nella Sindrome di Cushing il problema è endogeno (tumore secernente ACTH o direttamente un ipercortisolismo primitivo) mentre in questo caso il cortisone è esogeno, sebbene l’effetto sia lo stesso; • Soppressione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene: quando si da cortisone, si deve scalare, perché il sistema ipofisi-surrene si “assopisce” e una volta che sospendiamo il cortisone, c’è rischio che il pz. vada incontro a una crisi surrenalica, perché non ce la fa a rispondere a uno stimolo esterno. Lo scalamento è volto alla ripresa della normale attività ipotalamo-ipofisi-surrenalica. Per pochi giorni di terapia (es. 5) non c’è il rischio di insufficienza corticosurrenalica acuta da sospensione, però se un pz. assume cortisone da tanto tempo è opportuno fare un progressivo tappering del cortisone. Cirrosi Epatica vascolare della polpa rossa, causata dall’ipertensione portale). Le dimensioni della milza non correlano con il grado di ipertensione portale; • Reperti genito-urinari: • Uomini: atrofia testicolare, impotenza e calo della libido (queste ultime due legate all’ipogonadismo); • Donne: anovulazione cronica, oligo-amenorrea; • Reperti delle estremità: sono abbastanza tipici e sono rappresentati dall’eritema palmare (si tratta di una esagerata colorazione della mano localizzata principalmente a livello dell’eminenza tenar e ipotenar con risparmio la porzione centrale della mano ed è dovuta ad alterazione degli ormoni sessuali, come gli spider naevi. Non è patognomonica e si può riscontrare anche in gravidanza), ippocratismo digitale (è un reperto tipico ma non esclusivo della cirrosi, caratterizzato da un’alterazione geometrica dell’unghia, in cui l’angolo tra l’unghia e la sua inserzione è maggiore di 180°), osteopatia ipertrofica (è una malattia cronica del periostio delle ossa lunghe, fonte di notevole dolore, anche questa non patognomonica di cirrosi e riscontrabile anche in pz. con tumore polmonare), malattia di Dupuytren (inspessimento e accorciamento della fascia palmare, causa di flessione delle dita, anche questa non esclusiva della cirrosi ma presente anche in lavoratori esposti a ripetute vibrazioni) e alterazioni ungueali (è un reperto che si è perso, con l’evoluzione delle cure e delle tecnologie); • Reperti neurologici: un reperto abbastanza tipico è il flapping (detto anche asterissi), ovvero un tremore delle dita bilaterale (a battito di farfalla). Il flapping si mette in evidenza all’estensione del braccio del pz. e con i polsi in dorsiflessione: a questo punto spingiamo le dita del pz. verso l’indietro e le lasciamo. Quando lasciamo le dita del pz., il pz. le muove come se fosse un battito di ali di farfalla, a causa della perdita intermittente del tono muscolare. ESAMI DI LABORATORIO Se i reperti della cirrosi sono abbastanza tipici nelle fasi avanzate della malattia, i reperti di laboratorio ci possono essere utili nella fase precoci, sebbene non siano sempre così dirimenti. Ciò che possiamo valutare sono: • Transaminasi: possono essere normali o aumentate, in rapporto al livello di cirrosi. Se sono aumentate, in genere sono più aumentate le ASL che le ALT; • GGT: elevata; • Fosfatasi alcalina: aumentata, in genere meno del doppio della norma (quando è più alta, dobbiamo sospettare una malattia colestatica primitiva); • Bilirubina: può essere normale o aumentata; • Albumina: ridotta (ovviamente maggiore è il grado di compromissione epatica, minore sarà la sintesi proteica); • Tempo di protrombina: aumentato nelle fasi avanzate della malattia, secondario alla riduzione della sintesi epatica. • Altri esami ematochimici: • Sodio: normale o ridotto (dovuta all’incapacità di eliminare acqua); • Piastrine: normali o ridotte (per l’ipersplenismo, quindi un sequestro da parte della milza che può trattenere fino al 90% delle piastrine circolanti). Frequentemente le piastrine sono al di sotto delle 150'000 unità ma raramente al di sotto delle 50'000; • Emoglobina: ridotta; • Leucociti: normali o ridotti; • Globuline: aumentate (per l’attivazione del sistema reticolo-endoteliale); • Glicemia: normale o aumentata (o anche ridotta, a seconda della fase della malattia). È noto che 1 pz. cirrotico su 3 ha il diabete mellito, la cui insorgenza è dovuta all’insulino-resistenza e a un’inadeguata secrezione da parte delle -cellule pancreatiche: nelle fasi avanzate, invece, possiamo avere il problema opposto. DIAGNOSI • Obiettività clinica; • Esami di laboratorio; • Biopsia epatica: in passato era considerata il gold standard; • Ecografia: ha soppiantato la biopsia, perché ormai l’ecografia, in mani esperte, permette di essere diagnostica delle forme di cirrosi, per delle alterazioni tipiche del fegato stesso. Cirrosi Epatica CAUSE DI CIRROSI 1. DISTURBO DA ABUSO DI ALCOL Circa il 4% di tutte le cause di morte sono dovute all’alcol, che è anche la maggiore causa di malattia cronica nei paesi occidentali, se pensiamo che circa il 50% delle morti per cirrosi è causato dall’alcol. Sono stati usati diversi termini per descrivere l’etilismo e i problemi ad esso correlato (la terminologia, peraltro è in continua evoluzione): • Binge drinker: è il soggetto che beve molto alcol in poco tempo (entro 2 ore). Essere un binge drinker aumenta il rischio di intossicazioni acute, oltre che di malattie cardiovascolari; • Disturbo da abuso di alcol: è una vera e propria malattia (definita come tale dal DSM-5) che identifica 3 profili (bevitore a rischio, bevitore eccessivo e dipendente dall’alcol), la cui definizione si basa su uno score ottenuto dalla somministrazione di 11 domande. Le forme lievi prevedono un punteggio compreso tra 2-3, le forme moderate prevedono un punteggio compreso tra 4-5 mentre le forme gravi comprendono un punteggio superiore a 6. Quando si parla di etilismo è importante definire l’unità di misura (unità alcolica standard), per quantificare in maniera omogenea la quantità di alcol: in Italia, tale quantità fa riferimento a 12g di alcol (contenuti in 330mL di birra con 5°, 125mL di vino con 12°, 80mL di aperitivo con 18° e 40mL di superalcolico con 36°). Sulla base dell’unità alcolica standard, siamo in grado di identificare 3 classi di bevitori: • Bevitori moderati: hanno un basso rischio per problemi di alcol. • Donne: =<3 drink/die o =<7 drink/settimana; • Uomini =<4 drink/die o =<14 drink/settimana; • Anziani (over 65): =<2 drink/die o =<7 drink/settimana; • Forti bevitori: hanno un alto rischio per problemi di alcol. • Donne: >3 drink/die o >7 drink/settimana; • Uomini: >4 drink/die o >14 drink/settimana; • Binge Drinker: • Donne: >4 drink in una singola occasione; • Uomini: >5 drink in una singola occasione. Epidemiologia Secondo una ricerca americana, riferita a una popolazione di età superiore ai 12 anni in un arco di tempo comprensivo degli ultimi 30 anni ha evidenziato come 1 persona su 2 ha consumato alcol almeno una volta, 1 persona su 4 ha consumato 5 o più drink in un giorno mentre meno del 7% ha consumato 5 o più drink per 5 giorni. I fattori di rischio principali sono l’essere giovani ed essere uomini (gli uomini consumano più alcol rispetto alle donne). Patogenesi L’alcol contiene etanolo, una molecola debolmente carica che si muove facilmente attraverso la membrana cellulare, raggiungendo facilmente l’equilibrio tra i tessuti e il sangue. Il livello di alcolemia è espresso, in genere, in mg (o g) di etanolo per dL , in genere un livello di 0.02-0.03g/dL deriva dall’assunzione di 1-2 drink. L’etanolo possiede un effetto depressivo sul SNC, quindi diminuisce l’attività neuronale, subendo una serie di tappe che ne portano alla metabolizzazione: 1. Ossidazione gastrica: riguarda circa il 20% dell’alcol ingerito. Nello stomaco entra in azione l’alcol deidrogenasi, situata sulla superficie della mucosa di tutto il tratto gastroenterico (anche se ha la massima concentrazione a livello gastrico): l’alcol deidrogenasi ha una funzione di difesa, in quanto riduce la quantità di alcol che penetra nel circolo sistemico. Questo enzima è differente negli uomini e nelle donne, nel senso che è più abbondante negli uomini: per questo motivo la donna non può assumere le stesse quantità dell’uomo ma, generalmente, il 50% (ovviamente in linea generale, in quanto vi sono sempre delle eccezioni). L’alcol deidrogenasi gastrica (così come quella epatica) converte l’etanolo in acetaldeide, consumando una molecola di NAD+ (enzima coinvolto nelle reazioni di ossidazione e riduzione): l’acetaldeide, in realtà, Cirrosi Epatica è più tossica dell’alcol stesso ma è comunque meno tossica dell’aldeide prodotta dal metanolo (formaldeide); 2. Assorbimento intestinale: riguarda il restante 80% dell’alcol ingerito. L’alcol è assorbito, per diffusione, dalla mucosa dell’intestino (ileo prossimale), la cui velocità è dipendente dalla rapidità di svuotamento dello stomaco: in presenza di proteine o grassi, lo svuotamento dello stomaco è ritardato mentre se l’etanolo è diluito (o vi è l’aggiunta di CO2), l’assorbimento è più rapido; 3. Escrezione diretta attraverso polmone e urine: riguarda il 5-10% dell’alcol ingerito. Ovviamente, maggiore è la quantità introdotta di alcol, maggiore è la quota non ossidata ed eliminata direttamente; 4. Ossidazione epatica: riguarda il 90-95% dell’alcol assorbito. A livello epatico, l’alcol subisce l’azione di 3 enzimi diversi: • Alcol deidrogenasi epatica: converte l’etanolo in acetaldeide, consumando NAD+ (al pari di quanto avviene nello stomaco); • Sistema microsomiale di ossidazione dell’etanolo (MEOS): è un enzima presente a livello del reticolo endoplasmatico liscio degli epatociti ed è capace di convertire l’etanolo in acetaldeide, utilizzando il NADPD come donatore di elettroni. Il MEOS è un sistema inducibile, cioè l’etilista cronico ha un’iperespressione del reticolo endoplasmatico liscio, quindi una sovraespressione di questo enzima: questo spiega perché l’etilista riesce a metabolizzare l’alcol a un dosaggio superiore rispetto ai non etilisti. Il MEOS è tuttavia un sistema aspecifico e agisce anche su farmaci e tossine in genere, per questo motivo l’etilista, in alcuni casi, richiede un dosaggio farmacologico superiore rispetto al soggetto normale. • Catalasi e sistemi non enzimatici: la catalasi interviene solo se l’etanolo è presente in dosi elevate. 5. Formazione di acetato da parte dei mitocondri: l’alcol precedentemente è stato trasformato in acetaldeide e questa dev’essere metabolizzata poiché tossica. È proprio a livello mitocondriale che l’acetaldeide viene trasformata in acetato, con liberazione di idrogenioni e nuovo consumo di NAD+: la reazione avviene grazie all’enzima aldeide-deidrogenasi. L’acetato viene rilasciato in circolo, metabolizzato a CO2 nel cuore, nel muscolo scheletrico e nelle cellule cerebrali: l’acetato non è un prodotto inerte perché aumenta il flusso epatico, deprimendo l’attività del SNC. L’acetato viene metabolizzato in acetil-coenzima A (che ha un ruolo nella biosintesi dei lipidi e del colesterolo) nei mitocondri dei tessuti periferici e del tessuto cerebrale: dall’assunzione dell’etanolo e dalla sua conversione in acetato vengono consumate grandi quantità di NAD+ e viene aumentata la produzione di NADH (con conseguente riduzione del rapporto NAD+/NADH), favorendo la reazione che contribuisce alla formazione di trigliceridi (quindi anche la steatosi epatica). La steatosi epatica è in gran parte dovuta alla presenza di acetato, trasformato in acetil-coenzima A ma che non può essere utilizzato nel ciclo di Krebs perché il NADH prodotto lo inibisce. Tutte queste tappe, di fatto, portano all’accumulo di acetaldeide, al consumo di ossigeno, al consumo di radicali liberi, alla riduzione del rapporto NAD+/NADH e all’accumulo di lipidi: l’accumulo di lipidi porta alla steatosi epatica ma gli epatociti centrolobulari (quelli vicino alla vena centrolobulare) si ritrovano in una situazione di ridotta tensione di ossigeno, perché il sangue che arriva loro è quello più venoso. L’epatocita comincerà ad accumulare lipidi (steatosi), con vacuoli sempre più grandi e con progressiva compressione dell’epatocita sugli altri epatociti: questa compressione (che corrisponde a un’ipossia) è aggravata dal fatto che attorno alla vena centrolobulare c’è normalmente più ipossia (per la presenza di sangue venoso) e quindi si viene a creare la cosiddetta necrosi centrolobulare. Un grado limitato di steatosi non è gravemente epatotossico ma il suo progredire è un importante fattore di rischio per la manifestazione di patologie più gravi. 2. EPATITE CRONICA C È un’infezione cronica da virus C, la cui cirrosi conseguente si riscontra nel 5-30% dei casi, in un periodo di tempo compreso tra 20-30 anni. Sono delle forme che, in futuro, dovrebbero ridursi grazie all’eradicazione e la trattiamo principalmente nel contesto delle epatiti. Cirrosi Epatica 4. COLANGITE BILIARE PRIMITIVA La colangite biliare primitiva è una malattia cronica autoimmune del fegato, causata dalla presenza di autoanticorpi e caratterizzata dalla distruzione dei dotti biliari intra-epatici. La trattiamo in maniera più definita quando parliamo di ittero. 5. EPATITE AUTOIMMUNE L’epatite autoimmune è una malattia infiammatoria cronica del fegato, causata dalla presenza di auto- anticorpi diretti contro il parenchima epatico. La trattiamo in maniera più definita quando parliamo di ittero. 6. EMOCROMATOSI EREDITARIA L’emocromatosi ereditaria è una malattia genetica dovuta all’inattivazione di un gene che determina un aumentato assorbimento intestinale di ferro, con un successivo sovraccarico marziale in tutto l’organismo. Per emocromatosi, in generale, si identifica il sovraccarico di ferro: questo può avere varie cause, per cui quando parliamo di emocromatosi ereditaria, ci riferiamo a un disordine genetico (e quindi ereditario). Epidemiologia Si tratta di una malattia autosomica recessiva, sebbene non tutti i pz. hanno una mutazione biallelica (in omozigosi), per cui una mutazione biallelica non è indice di accumulo di ferro ma vi sono altri fattori genetici e ambientali che possono giocare un ruolo nella manifestazione clinica del problema (sembra, inoltre che abbiano un ruolo anche fattori dietetici, perdite ematiche e altre condizioni mediche in generale). Ad ogni modo, le mutazioni più comuni osservate sono la C282Y (in omozigosi, è in assoluto la più frequente) e la H63D. In generale, l’emocromatosi ereditaria è una malattia a bassa penetranza, quindi molti individui con la mutazione per l’emocromatosi ereditaria non hanno un sovraccarico di ferro: fino a qualche decennio fa, l’emocromatosi ereditaria era considerata un disordine raro, perché la diagnosi veniva fatta solo sugli individui che avevano un sovraccarico di ferro (quindi in quelli che effettivamente sviluppavano il problema) ma successivamente si è scoperto che si tratta di un disordine abbastanza frequente (la prevalenza in Europa è del 4-5% della popolazione in generale), con predilezione per il sesso maschile. Per motivi non ancora chiari, la malattia è estremamente rara in Asia. Anatomia patologica Nei pz. affetti, l’emocromatosi ereditaria classica diviene clinicamente manifesta in età adulta, cioè quando si verifica un importante accumulo di ferro nel corpo. Questo eccesso di ferro, che si accumula principalmente nelle cellule parenchimali e poi in quelle reticolo- endoteliali, è un pattern diverso dal sovraccarico di ferro che si ha, ad es., nei pz. con la talassemia (in cui avviene l’opposto, ovvero prima il deposito nelle cellule reticolo-endoteliali e poi in quelle parenchimali). Patogenesi Nel metabolismo del ferro, abbiamo 3 attori: • Enterocita: La mucosa intestinale ha un ruolo di primo grado nell’assorbimento del ferro ma assorbe solo il ferro ferroso (non il ferrico che assumiamo con la dieta, in quanto poco assorbibile): nel duodeno è presente la Citocromo-P-duodenale che converte lo ione ferrico in ione ferroso che viene captato dal lume intestinale, portato all’interno della cellula tramite il recettore DMT-1. Lo ione ferroso viene condotto all’uscita dal versante basolaterale dell’enterocita tramite la ferroportina: entra quindi nella circolazione, si ossida nuovamente a ione ferrico e viene incorporato nella transferrina (proteina di trasporto del ferro nella circolazione sanguigna). • Macrofago della milza: Il macrofago della milza ha il compito di recuperare il ferro contenuto all’interno dell’emoglobina che deriva dal ricambio dei globuli rossi: i globuli rossi hanno una vita media di 120 giorni e, quando senescenti, vengono fagocitati dai macrofagi presenti nella milza, per cui l’emoglobina giunta all’interno del macrofago viene catabolizzata e rilasciata sottoforma di ione ferroso. Per uscire dal macrofago della milza necessita di nuovo della ferroportina (lo stesso trasportatore dell’enterocita) e, una volta in circolo, viene ossidato a ione ferrico e quindi essere incorporato nella transferrina o conservato nella ferritina; Cirrosi Epatica • Epatocita: nel fegato, meccanismo è lo stesso, in quanto l’epatocita conserva il ferro sottoforma di ferro ferroso e lo può immettere in circolo dopo averlo trasportato fuori, mediante la ferroportina. Il trasportatore è uguale nelle 3 cellule ma le capacità dell’epatocita sono molto più complesse, in quanto questo produce epcidina che ha il compito di regolare il rilascio di ferro: è una proteina inducibile prodotta in base alle necessità, che possono essere diametralmente opposte, come una carenza o un eccesso di ferro o, ancora, in presenza di processi infiammatori. Quando c’è un eccesso di ferro, infiammazione o infezione, viene aumentata la produzione di epcidina mentre la sua produzione risulta ridotta nei casi di anemia, carenza di ferro, eritropoiesi inefficace o di ipossia: l’epcidina è quindi direttamente proporzionale ai livelli di ferritina (quando è alta, c’è molto ferro ma quando è bassa vi è poco ferro in circolo). Il compito dell’epcidina è evitare l’accumulo di ferro nel sangue, agendo indirettamente legandosi e inattivando la ferroportina: l’epcidina però è in grado anche di ridurre i livelli del DLT-1 (proteina che favorisce l’entrata del ferro nell’enterocita), quindi da una parte riduce l’entrata di ferro e dall’altra riduce l’uscita (quindi si ha riduzione di ferro in circolo). Difatti, in caso di carenza di ferro non viene prodotta epcidina ma in caso di sovraccarico di ferro viene prodotta, per legarsi alla ferroportina. La ridotta epcidina aumenta l’assorbimento intestinale di ferro (eme e non eme) ma l’eccesso di ferro assorbito non riduce l’assorbimento di ferro non eme: nel soggetto normale, infatti, quando c’è un sovraccarico dei ferro, l’organismo reagisce riducendone l’assorbimento intestinale ma nei pz. con emocromatosi ereditaria questo non avviene e negli anni, l’eccesso di ferro si accumula nel fegato, nel cuore, ipofisi, pancreas e in altri tessuti, causando un danno con un meccanismo non ancora ben chiaro. Sintomi Prima dell’identificazione del gene HFE, i pz. si presentavano con sintomi secondari all’accumulo di ferro nei vari organi. Oggi questi quadri sono meno frequenti ma comunque si hanno sintomi: • Sintomi generali e sistemici: astenia; • Sintomi organo-specifici: il ferro di può accumulare virtualmente in ogni organo ma principalmente in fegato (per cui è inusuale vedere accumulo in altri organi se manca l’accumulo nel fegato). • Fegato: epatomegalia, aumento delle transaminasi, fibrosi epatica (con possibile fibrosi) e carcinoma epatocellulare. Il quadro clinico è compromesso in presenza di comorbidità (es. etilismo o epatite virale); • Cuore: cardiomiopatia dilatativa, disfunzione diastolica, scompenso cardiaco, disturbi della conduzione, aritmie, morte cardiaca. I sintomi sono presenti sempre in presenza di un sovraccarico epatico. • Manifestazioni endocrinologiche: diabete mellito (per distruzione delle  cellule pancreatiche), ipopituitarismo (ipogonadismo, dovuto a danneggiamento delle cellule secernenti gonadotropine, conseguente al deposito di ferro nell’ipofisi); • SNC: deficit cognitivo; • Artropatia: artralgie e artrite (frequente e precoce, in genere interessa le piccole articolazioni ma anche a livello delle grandi articolazioni, soprattutto in fase tardiva); • Cute: iperpigmentazione cutanea (a causa dell’accumulo di ferro e melatonina). Il diabete bronzino compare solo tardivamente, quando il contenuto di ferro supera i 20g (v.n. 3g); • Suscettibilità alle infezioni: il sovraccarico di ferro può aumentare il rischio di infezioni con batteri siderofilici (Yersinia Enterocolitica e Vibrio Vulnificus). Diagnosi Sospettiamo emocromatosi ereditaria • Indici di metabolismo marziale: • Sideremia: quota di ferro circolante; • Ferritina: proteina rappresentativa dei depositi circolanti di ferro. È una proteina della fase acuta, per cui se alta, può essere anche semplice indice di un’infiammazione e non di emocromatosi. • Uomini: >=200ng/mL; • Donne: >= 150ng/mL. • Transferrina: proteina di trasporto nel fegato; Cirrosi Epatica • TIBC: capacità legante il ferro (quantità totale di ferro che può essere legata alle proteine del sangue). Le sue variazioni sono l’opposto di quelle della ferritina: quando è bassa vuol dire che la ferritina è satura (la ferritina ha poca disponibilità ad accettare altro ferro) mentre quando è alta vuol dire che la ferritina ha un’elevata affinità con il ferro (indice di carenza di ferro); • TSAT (sideremia/TIBC x 100): >= 45% (suggestiva di emocromatosi ereditaria) • Indagini genetiche: è opportuno screenare anche i familiari di primo grado; • Indici di funzionalità epatica: in genere sono normali, per cui se alterati sono indicativi di danno epatico (o emocromatosi ereditaria avanzata o altre cause che non hanno niente a che vedere con l’emocromatosi, come l’epatite A dopo ingestione di mitili crudi); • Risonanza magnetica: è un metodo non invasivo per stimare la quantità di ferro epatico (o anche di cuore); • Biopsia epatica: è stata soppiantata dalla risonanza per la determinazione dei livelli di deposito di ferro, anche se fornisce ancora informazioni che la RMN non può dare (es. la presenza di cirrosi, con la quantizzazione dell’entità). Terapia • Obiettivi: • Migliorare la funzione dell’organo danneggiata dall’accumulo di ferro; • Prevenire la disfunzione del ferro. • In pz. omozigote e sovraccarico del ferro: flebotomia o uso di chelanti del ferro; • In pz. omozigote/eterozigote senza sovraccarico di ferro: semplice follow-up; • In pz. omozigote/eterozigote con/senza sovraccarico di ferro: bisogna evitare abitudini di vita scorrette (alcol, eccessi alimentari, ecc.). 7. MALATTIA DI WILSON È una malattia genetica autosomica recessiva che causa un’alterazione del trasporto cellulare del rame, con accumulo in organi. Epidemiologia Ha una prevalenza di 1 caso su 30'000, prevalenza maschile ed è legato alla mutazione del gene ATP7B, che codifica per una proteina di trasporto del rame, principalmente prodotta dal fegato. Patogenesi Ogni giorno introduciamo 1-2mg di rame che viene assorbito dal duodeno, si lega all’albumina e viene captato dai tessuti: il nostro fabbisogno è intorno ai 0.75mg per cui l’eccesso viene espulso attraverso le feci mediante la bile. Il rene contribuisce marginalmente all’eliminazione del rame in eccesso (5-15%) mentre il rame che viene assorbito a livello intestinale, dalla circolazione portale arriva al fegato, dove subisce 2 destini diversi: • Viene reimmesso nella circolazione, per arrivare ai tessuti; • Viene secreto nella bile. Questi due destini sono diversi ma in realtà regolati dalla stessa proteina, l’ATP7B che è localizzata in 2 siti intracellulari, ovvero nel Golgi (favorisce l’incorporazione di 6 atomi di rame nell’apo-ceruloplasmina, nella formazione della ceruloplasmina) e nelle vescicole citoplasmatiche (l’ATP7B sequestra l’eccesso di rame, per secernerlo all’interno della bile). La mutazione ATP7B comporta l’alterazione dell’incorporazione del rame all’interno dell’apo-ceruloplasmina, con alterazione dell’escrezione del rame nella bile (che rappresenta il maggior pathway di eliminazione del rame, causa delle manifestazioni patologiche del Wilson) e formazione di una ceruloplasmina anomala (per mancata incorporazione del rame) con emivita ridotta, cui consegue una riduzione della sua concentrazione. Viene alterato il trasporto del rame che tende ad accumularsi nell’epatocita: non è chiaro il motivo esatto per cui si abbia un danno diretto epatocitario (secondo alcuni aumenterebbe le apoptosi ma di sicuro il problema è legato allo stress ossidativo, dovuto all’elevata produzione di radicali liberi). Quando l’accumulo di rame epatocitario diviene superiore alla capacità delle metallotioneine, compare il danno cellulare, con necrosi cellulare e un aumentato rilascio di rame nella circolazione, dove il rame di lega all’albumina: il risultato netto è che aumenta il rame libero dalle proteine ma il rame totale (quello che vediamo nelle analisi) può essere normale, a causa della riduzione della ceruloplasmina. Cirrosi Epatica • Rapporto AST/ALT >2 (epatite alcolica); • ANI: -58.5 + 0.637 (MCV) + 3.91 (AST/ALT) – 0.406 (BMI) + 6.35 (per gli uomini). Questa formula ci torna utile se i pz. non riferiscono l’elevato consumo alcolico. Per escludere altre cause di steatosi epatica, dobbiamo escludere: epatite alcolica, epatite C, digiuno, nutrizione parenterale totale, farmaci (amiodarone, metotrexato ecc.). Nel management, la prima cosa da fare è l’astensione dall’alcol, perdita di peso (è la principale terapia, in quanto il calo ponderale migliora tutti gli indici di funzionalità epatica) e la modifica di fattori di rischio cardiovascolari (es. ipertensione, dislipidemia e ottimizzazione del controllo glicemico) • NASH: è presente infiammazione e le manifestazioni sono le medesime. 9. CIRROSI CARDIACA È una cirrosi causata da una grave a prolungata da una grave e prolungata insufficienza cardiaca congestizia. È una forma molto meno frequente rispetto al passato, per la maggiore attenzione alle malattie cardiovascolari. Patogenesi Incremento retrogrado dell’elevata pressione venosa, attraverso la vena cava inferiore e le vene sovra- epatiche (che si ingrossano a causa della stasi, con necrosi degli epatociti centrolobulari e deposito di fibrosi, con un andamento stellato). Diagnosi Gli esami di laboratorio possono essere assolutamente normali (se non per un moderato aumento della bilirubina) Si osserva solitamente epatomegalia non dolente (l’aumento del fegato è progressivo) e sono presenti segni e sintomi di insufficienza cardiaca destra (i segni cardiaci predominano su quelli epatici). Cirrosi Epatica COMPLICANZE DELLA CIRROSI La cirrosi causa tutta una serie di complicanze a prescindere dalla causa che l’ha determinata. IPERTENSIONE PORTALE È un aumento della pressione a livello della vena porta e si sviluppa a seguito della costituzione di una resistenza al flusso. Non è patognomonica della cirrosi ma può essere data anche da una occlusione o una Sindrome di Budd-Chiari. Il fegato riceve una doppia irrorazione venosa (sistemica e portale) e scarica il sangue attraverso il sistema delle vene epatiche all’interno della vena cava inferiore. In ipertensione portale aumenta anche la pressione retrograda, quindi aumenta la pressione della vena splenica (con splenomegalia), si avrà congestione delle vene del plesso emorroidario, si crea una congestione gastrica (gastropatia congestizia), varici gastriche (e congestione esofagea). Altre complicanze che possono comparire sono varici esofagee, ascite, peritonite batterica spontanea, sindrome epato-renale, idrotorace. Un fegato cirrotico è malfunzionante, per cui si avranno altre conseguenze: • Ipoglicemia e diabete mellito: a seconda della fase, in quanto in fase avanzata è facile trovare un pz. in ipoglicemia perché manca la gluconeogenesi epatica mentre per il diabete il problema è più complesso e la cui origine si pensa sia legata a insulino-resistenza. In questo caso si instaura una terapia di insulina, perché tutti gli altri farmaci sono insufficienti; • Ipolipidemia: riduzione di trigliceridi e colesterolo; • Deficit della coagulazione: il pz. cirrotico ha una diminuzione della sintesi delle proteine necessarie all’avvio della cascata coagulativa e il pz. presenterà emorragie frequenti e mostrerà un aumento di protrombina; • Accumulo di principi attivi: per riduzione del metabolismo epatico di alcuni farmaci, quali soprattutto il paracetamolo che ha un metabolismo prettamente epatico. Il pz. può comunque assumere paracetamolo ma a un dosaggio più basso; • Conversione dell’ammoniaca in urea: è una concausa dell’encefalopatia epatica, ovvero una complicanza molto comune che, per definizione, è un alterato livello di coscienza dovuto a insufficienza epatica. La sua storia naturale è Inizialmente è asintomatica ma poi fanno seguito delle fasi di scompenso caratterizzate da segni clinici caratteristici. È fondamentale riuscire a identificare i soggetti a rischio di scompenso per stadiare l’entità della cirrosi. A questo proposito è stata creata una classifica (Child-Pugh) che, tramite punteggi, ci permette di stabilire lo stadio della cirrosi e la necessità di un trapianto epatico. I criteri sono: • Bilirubina totale; • Albumina sierica; • Tempo di protrombina; • Ascite: è un parametro non laboratoristico, per cui si basa sulla presenza e sulla sua entità; • Encefalopatia epatica: al pari dell’ascite, è un parametro non laboratoristico, per cui si basa sulla presenza e sulla sua entità. In base al punteggio, si ha la creazione di 3 classi di pz.: • A: punteggio Child-Pugh 5-6; • B: punteggio Child-Pugh 7-9; • C: punteggio Child-Pugh 10-15. Più è alta la classe Child-Pugh, più è alta la mortalità. Il punteggio Child-Pugh è stato sostituito da altri punteggi più precisi, come il MELD (Model for End-stage Liver Disease) che si su di una formula che prende in considerazione i valori di albumina sierica, il tempo di protrombina (INR) e la creatinina sierica. In base a questo punteggio, tutt’oggi utilizzato nella necessità del trapianto epatico, si hanno: • Punteggio >40: mortalità del 71%; • Punteggio 30-39: mortalità del 52%; • Punteggio 20-29: mortalità del 20%; • Punteggio 10-19: mortalità del 6%; • Punteggio <9: mortalità del 2%. Cirrosi Epatica ASCITE Uno dei grossi problemi del pz. con cirrosi è sicuramente l’ascite: la cirrosi è la causa più comune dell’ascite nei paesi occidentali. L’ascite è anche l’effetto più comune di cirrosi scompensata ed è legata a ritensione di sodio, dovuta all’attivazione del sistema RAA e del sistema simpatico: le entrate risultano essere superiori alle uscite, per cui il bilancio idrico positivo (i pz. urinano meno di quanto introducano) comporta un aumento dell’espansione del volume extracellulare, che determina una riduzione della volemia effettiva (secondaria alla vasodilatazione arteriosa splancnica). A questo processo, di per sé abbastanza complesso, si associano anche la disfunzione renale causata dall’infiammazione sistemica e l’ipertensione portale che contribuisce all’espansione del volume extracellulare. L’ascite non è sinonimo di cirrosi (lo è nell’80% dei casi), per cui bisogna trovarne la causa, che può essere generalmente riscontrata in uno dei seguenti 4 gruppi: • Tumori maligni: soprattutto in caso di carcinomatosi peritoneale (impianto di metastasi nel peritoneo); • Malattie pancreatiche: tumori pancreatici metastatici; • Scompenso cardiaco: anche se l’ascite è solitamente di grado lieve; • Tubercolosi. L’ascite può essere classificata come: • Non complicata: non infetta, non refrattaria e non è associata a sindrome epato-renale; • Recidivante: se ricompare in almeno 3 occasioni nonostante terapia medica e restrizione idrica; • Refrattaria: quando il pz. non risponde più alla terapia medica. Viene inoltre suddivisa in 3 gradi (che si basano su criteri soggettivi): • Grado 1: quando osservabile solo all’ecografia; • Grado 2: quando si ha una moderata distensione addominale; • Grado 3: quando vi è una marcata distensione addominale. La cosa importante è sapere cosa fare, per cui: • Grado 1: non è necessaria terapia e si preferisce un approccio watch and wait; • Grado 2: abbiamo 2 scelte terapeutiche • Dieta iposodica: il cui utilizzo, da solo, permette di ottenere una riduzione dell’ascite nel 10% dei casi (soprattutto se è il primo episodio). L’uso profilattico della restrizione idrica, nei pz. cirrotici, che non hanno mai avuto ascite, non è supportato dalle evidenze cliniche e quindi non è raccomandata. Si dà meno sodio al pz. quando ha ascite e non in prevenzione e ciò per contrastare la ritenzione di sale; • Diuretici: si associano sempre alla dieta iposodica, per tendere alla negativizzazione del bilancio idrico. Con i diuretici aiutiamo il pz. a evitare l’ascite senza esagerare nel loro utilizzo ma puntando alla diminuzione del peso corporeo di circa 0.5Kg/die (se il pz. non ha edema periferico) oppure 1Kg/die (in pz. con edema periferico). Si possono usare antialdosteronici (che contrastano la disfunzione dell’attivazione del sistema RAA), come lo spironolattone (che agisce su recettori nucleari, per cui ha bisogno di tempo per entrare in funzione, quindi dobbiamo aspettare del tempo prima di variare il dosaggio). Altri farmaci sono i diuretici dell’ansa, usati per contrastare l’elevato riassorbimento sodico e aumentare la natriuresi (e di conseguenza la diuresi): in particolare si usa furosemide e sempre in associazione con gli anti-aldosteronici, perché la loro funzione è inibita in caso di iperaldosteronismo (la terapia inizia con gli anti-aldosteronici e poi continua con i diuretici dell’ansa); • Grado 3: il trattamento di scelta è la paracentesi evacuativa (in condizioni di sterilità). È una procedura che ha un bassissimo rischio di complicanze, sebbene il pz. cirrotico abbia un edema aumentato, piastrinopenia (per la splenomegalia). La terapia in cronico, però, si basa sempre su dieta iposodica e diuretici, perché una volta eliminata, l’ascite tenderà a riformarsi. La paracentesi non va intesa solo come una rimozione del liquido addominale, perché in un pz. con ascite di nuovo riscontro dobbiamo capirne la causa. Nell’80% è dovuta a cirrosi ma nel restante 20% dei casi il fegato non c’entra nulla: oltre che evacuativa, la paracentesi può quindi essere anche esplorativa, con la modica rimozione di liquido che verrà analizzato in laboratorio. L’atteggiamento nei confronti di un pz. con ascite non deve essere mai aggressivo e volto alla rimozione di tutto il liquido addominale ma dobbiamo cercare sempre di capire il perché della sua formazione. Cirrosi Epatica La prevenzione delle varici prevede l’uso di -bloccanti non selettivi (propanololo) e legatura endoscopica delle varici (la scelta varia in base alle condizioni del pz.) mentre il trattamento (soprattutto in caso di rottura) prevede il supporto volemico (il pz. ha probabilmente perso molto sangue anche prima che si manifesti l’emottisi), la terapia farmacologica e la loro legatura. • Varici gastriche: sono meno frequenti e sono classificate con la classificazione di SARIN che prevede • GOV1: è il più frequente (75%) e prevede la presenza di varici estese sotto il cardias, verso la piccola curvatura. Il loro management è lo stesso delle varici esofagee; • GOV2: racchiude tutte le varici che si estendono al di sotto il cardias e nel fondo. Si associa, in genere, ad aumentato rischio di trombosi splancnica (che dev’essere sempre indagata quando trovata) e ha un rischio di sanguinamento elevato (circa il 55%); • IGV 1: sono isolate nel fondo; • IGV 2: sono isolate con diversa localizzazione nello stomaco. PERITONITE BATTERICA SPONTANEA Per definizione, si intende un’infezione batterica del liquido ascitico, in assenza di causa intra-addominali primitive o di altre infezioni principali. Tutti i pz. con ascite sono potenzialmente a rischio e la sua frequenza raggiunge il 10% dei pz. ricoverati nei reparti ospedalieri. È causata da una traslocazione batterica dei germi intestinali attraverso la mucosa e favorita dall’ipertensione portale (non è secondaria a una patologia infettiva intra- o extra-addominale). I sintomi che ci possono orientare verso una peritonite batterica spontanea sono: • Segni locali addominali o segni di peritonite; • Dolore e/o dolorabilità addominale; • Vomito/diarrea; • Occlusione intestinale; • Segni di infiammazione sistemica: febbre, tachicardia, tachipnea, leucocitosi neutrofila; • Encefalopatia epatica; • IRA. A volte i pz. possono essere assolutamente asintomatici, per cui è necessaria una paracentesi esplorativa, alla base della quale basiamo anche la terapia, che dev’essere iniziata immediatamente può essere: • Empirica (spesso non si riesce a identificare l’agente eziologico): Cefotaxime 4g/die (è una cefalosporina non nefrotossica di nuova generazione), Piperacillina/Tazobactam (se sospetto MDR, ovvero multi-drug resistance nosocomiale), Meropenem +/- Glicopeptide o Daptomicina; • Mirata (su antibiogramma): l’antibiogramma non arriva subito, per cui è importante iniziare con una terapia empirica. SINDROME EPATO-RENALE È una complicanza temibile, definita come insufficienza renale acuta funzionale, causata dalla vasocostrizione renale che si sviluppa nei pz. con cirrosi end-stage e nei pz. con insufficienza epatica acuta o epatite alcolica. La patogenesi include anche delle alterazioni emodinamiche e infiammatorie non racchiuse nella definizione e non sembra esserci un danno a livello renale perché non è presente né ematuria né proteinuria. La sua diagnosi è di esclusione, dopo aver escluso le altre cause di IRA. Storicamente viene suddivisa in: • Tipo 1: associata a insufficienza renale acuta. Si associa a un fattore che fa precipitare la funzionalità epatica; • Tipo 2: associata a insufficienza renale cronica con possibile evoluzione in Tipo1. Per poterla diagnosticare, usiamo degli specifici criteri diagnostici, ovvero: • Cirrosi con ascite; • Creatinina > 1.5mg/dL; • Assenza di shock: perché se un pz. è in shock, sarà ipoteso ed essendo ipoteso i suoi reni non filtreranno adeguatamente (in questo caso non è un problema del fegato ma della pressione); • Assenza di ipovolemia: alla sospensione di diuretici per 48ore (se assunti) e albumina 1g/Kg/die. La diagnosi di ipovolemia è complessa, per cui cominciamo a togliere i diuretici e vediamo se migliora la creatinina (se non migliora ha una sindrome epato-renale) oppure se il pz. non fa uso di diuretici possiamo Cirrosi Epatica somministrare albumina che espande il circolo (se non abbiamo un miglioramento si parla di sindrome epato-renale); • Assenza di farmaci nefrotossici: per esempio se un pz. assumeva un aminoglicoside, è logico che possa essere stato l’antibiotico a danneggiare il rene (quindi non si parla di sindrome epato-renale ma è semplicemente una nefropatia iatrogena); • Assenza di danno parenchimale renale: assenza di proteinuria e assenza di microematuria, con reni normali all’ecografia. La patogenesi è molto complessa e non è del tutto chiara: in passato si pensava fosse riconducibile a una ridotta perfusione renale secondaria a disfunzione circolatoria ma la teoria più accreditata sembrerebbe essere legata al rilascio di citochine pro-infiammatorie precipitato da un’infezione batterica. Una volta diagnosticata, dobbiamo iniziare tempestivamente iniziare una terapia con vasocostrittori + albumina: la terapia va protratta per un massimo di 14 giorni sia in caso di mancata risposta sia in caso di risposta parziale, per evitarne le conseguenze. SINDROME EPATO-POLMONARE È una complicanza che compare in cirrosi molto avanzata e si definisce come un disturbo dell’ossigenazione polmonare, causato dalla vasodilatazione microvascolare intrapolmonare in pz. con ipertensione portale. I pz. hanno tipicamente dispnea e tachipnea che migliora con la condizione distesa. La patogenesi è caratterizzata dalla presenza di una vasodilatazione vascolare all’interno della circolazione arteriosa polmonare: ciò causa un’alterata ossigenazione ematica della circolazione polmonare. Pare avere un ruolo chiave anche l’ossido nitrico che favorisce la vasodilatazione con citochine promosse localmente. Anche in questo caso abbiamo criteri diagnostici, quali: • Ipossia: SpO2 <96% in arteria e PaO2 <80mmHg; • Ecocardiogramma: permette di avere una diagnosi con ragionevole certezza col bubble test. Per l’esecuzione del bubble test, prendiamo una soluzione fisiologica e la agitiamo per determinare la formazione di bolle: in una vena periferica (es. agocannula posizionato nel braccio) iniettiamo questa soluzione che contiene bolle e se in 3-6 battiti cardiaci compaiono delle opacizzazioni all’interno dell’atrio destro, vuol dire che c’è stato il passaggio di micro-bolle attraverso delle strutture vascolari dilatate. Questo perché le microbolle, normalmente, non passano attraverso i capillari e un loro precoce riscontro a livello dell’atrio destro è segno inequivocabile che queste abbiano preso una “scorciatoia” per arrivare nell’atrio destro; • In presenza di ipertensione portale. La terapia è ovviamente la somministrazione di ossigenoterapia a lungo termine ma la risoluzione spontanea è difficile, per cui si arriva al trapianto epatico. ENCEFALOPATIA EPATICA È una sindrome neurologica causata da un’insufficienza epatica e/o shunt posto-sistemico che si manifesta clinicamente con un ampio spettro di manifestazioni neurologiche o psichiatriche di grado variabile, fino al coma. Il suo problema è la quantificazione del problema perché la diagnosi si basa sul riscontro di segni e sintomi che hanno una lieve variabilità soggettiva. La patogenesi di questa complicanza è dovuta a un’alterazione del metabolismo dell’ammonio: il fegato non riesce a metabolizzarlo e questo si accumula nel sangue. I batteri intestinali producono, nell’individuo sano, molti composti azotati che derivano dal metabolismo del cibo che ingeriamo: questi composti azotati vengono trasportati dalla vena porta nel fegato, dove vengono metabolizzati attraverso il ciclo dell’urea, per venire poi immediatamente escreti. Nel pz. cirrotico si ha un’alterazione di questi processi perché a causa dell’insufficienza epatica non si riesce a metabolizzare i composti azotati (in aggiunta, il pz. cirrotico ha numerosi circoli collaterali che bypassano il filtro epatico) e questi si accumulano nella circolazione sistemica. Tra questi composti, uno dei più importanti è l’ammonio che, essendo una molecola piccola, riesce a trapassare la barriera ematoencefalica, viene assorbito e metabolizzato dagli astrociti (che sono circa il 30% delle cellule presenti nella corteccia cerebrale), esercitando un effetto citotossico. Cirrosi Epatica La presentazione clinica è abbastanza eterogenea, in quanto risultano alterati: • Test psicometrici; • Memoria; • Abilità visuo-spaziali; • Velocità psico-motoria. Altre alterazioni sono ipomimia, rigidità muscolare, ipocinesia, eloquio rallentato e flapping (che è presente, soprattutto nelle fasi precoci e precede l’evoluzione verso un quadro severo). Esistono diversi tipi di encefalopatia epatica e diverse classificazioni: • Su base eziologica: • Tipo A: secondaria a insufficienza epatica acuta; • Tipo B: predominanza di shunt posto-sistemico; • Tipo C: secondaria a cirrosi. • In base all’evoluzione: • Episodica; • Ricorrente: ri ripresenta a distanza di 6 mesi o meno; • Persistente: è sempre presente. La diagnosi si basa sulle manifestazioni cliniche e sul giudizio clinico ma dev’essere fatta anche in base all’esclusione di altre cause, che possono dare un quadro simile a quello dell’encefalopatia epatica, come: • Chetoacidosi diabetica e ipoglicemia; • Intossicazione acuta/astinenza da alcol; • Disionie; • Disturbi psichiatrici; • Ictus; • Demenza. Per quanto riguarda il trattamento, è fondamentale distinguere il trattamento della fase acuta e la prevenzione delle recidive: • Trattamento: disaccaridi non assorbibili (lattulosio) e rifaximina. • Prevenzione: controllo dei fattori precipitanti, lattulosio e rifaximina a cicli. L’obiettivo del lattulosio è quello di far evacuare il pz., in modo da ridurre il rischio di encefalopatia epatica. Ipercalcemie Altro valore che possiamo considerare è la calciuria delle 24 ore: in passato si usava di più ma ha un ruolo ancora importante, più che altro per la diagnosi di ipercalcemia ipocalciurica familiare. La calciuria delle 24 ore si ottiene rapportando il calcio osservato per il volume urinario. Clinicamente, il pz. è per lo più asintomatico (80%), con calcemia e PTH stabili nel corso del tempo (o al massimo fino a 1m/dL sopra il range di riferimento): nel 30% però si assiste a un peggioramento del quadro, con la comparsa di sintomi (anoressia, nausea, costipazione, polidipsia, poliuria, nefrolitiasi nel 15-20% dei casi, osteopenia/osteoporosi, disturbi neuromuscolari e disturbi psichiatrici). La nefrolitiasi si è ridotta ultimamente nei paesi occidentali ma è più frequente nei paesi orientali, probabilmente in relazione alla loro frequente carenza di vitamina D. Se è vero che il 15-20% dei pz. ha calcoli renali, è anche vero che solo il 5% di questi ha iperparatiroidismo. Il grado di perdita di matrice ossea in osteopenia/osteoporosi è più grave quanto maggiore è il grado di iperparatiroidismo e in carenza di vitamina D, con tendenza aumentata di fratture. Per quanto riguarda la terapia, la principale è la chirurgia parotidea ma solo se: • Il pz. è sintomatico; • Il pz. è asintomatico ma ha anche • Calcemia >1mg al di sopra del range di riferimento; • Osteoporosi o pregressa frattura; • Insufficienza renale cronica (eGFR <60mL/min); • Calciuria >400mg/24h; • Nefrolitiasi; • Età <50anni. Se il pz. non può subire interventi chirurgici poiché non rientrante in questi casi o se le condizioni cliniche del pz. sono compromesse ed è complesso sottoporlo a intervento chirurgico (o magari non vuole subire un intervento), si può optare per un approccio farmacologico mediante un farmaco chiamato CINACALCET. Per tutti gli altri pz. possiamo scegliere di usare un approccio watch & wait. La forma sporadica si dissocia da quella familiare (MEN1, MEN2a, MEN2b), in cui i pz. sviluppano altri tumori benigni in altre sedi: • MEN1: iperparatiroidismo primitivo (90%), tumori entero-pancreatici (30-70%), adenomi ipofisari (30- 40%); • MEN2a: è una malattia autosomica dominante, in cui abbiamo carcinoma midollare tiroide, feocromocitoma e iperparatiroidismo primitivo. A seconda della mutazione che il pz. mostra, siamo in grado di capire quando iniziare lo screening annuale sia per ipertiroidismo, sia per feocromocitoma che per carcinoma midollare tiroideo: i pz. ad alto rischio sono quelli che tendono a manifestare la malattia in maniera precoce (es. già dagli 11 anni di vita possono essere sottoposti a screening). • MEN2b: è data da carcinoma midollare della tiroide e feocromocitoma, in assenza dell’iperparatiroidismo. Non ha, invece, niente a che vedere con quanto sopra l’iperparatiroidismo secondario: condivide l’aumento di PTH ma ovviamente non ne condivide la causa. È infatti dovuto a: • Livelli ridotti di calcio: calcemia bassa e PTH aumentato; • IRC: calcemia normale/bassa, PTH aumentato, vitamina D ridotta; • Deficit di vitamina D: calcemia normale, PTH aumentato, vitamina D bassa. È una delle forme più frequenti di iperparatiroidismo. 2. IPERCALCEMIA IPOCALCIURICA FAMILIARE È una malattia autosomica dominante da alterazione del sensore del calcio e caratterizzata da: • Calcemia: lievemente aumentata e di lunga durata; • Calciuria ridotta: l’opposto di quello che è caratteristico dell’iperparatiroidismo primitivo (i pz. urinano meno calcio e questo si accumula nel rene) • PTH: normale o lievemente aumentato. Una storia di ipercalcemia familiare è tipica di questo disordine. 3. TUMORI MALIGNI L’ipercalcemia si verifica nel caso di molti tumori, sia solidi che di ambito ematologico. In linea generale, i livelli di calcemia raggiunti in corso di ipercalcemia neoplastica sono maggiori rispetto a quelli riscontrati in corso di iperparatiroidismo primitivo. Ipercalcemie Ad esempio, i valori di calcemia superiori a 11.5mg/dL sono più frequenti in caso un tumore maligno, il cui meccanismo alla base dipende dal tipo di tumore che l’ha causata e questo perché riconosciamo 3 principali meccanismi, ovvero: • Secrezione di PTHrp: proteina relazionabile al PTH. È la causa più comune in pz. con tumori solidi non metastatico e tumore non-Hodgkin: i tumori che più frequentemente causano questa condizione sono il carcinoma a cellule squamose, renale, vescicale, mammario, ovarico, prostatico, colorettale, leucemia mieloide cronica, linfoma e leucemia. Il PTHrp ha una struttura simile al PTH ma diverge per i primi 13 aminoacidi e, diversamente dal PTH, non ha una spiccata azione di attivazione della vitamina D, per questo non favorisce l’assorbimento intestinale di calcio: questo ormone favorisce principalmente l’assorbimento dell’osso, col rilascio di abbondanti quantità di calcio in circolo che peggiora il quadro di ipercalcemia in contemporanea difficoltà del rene nell’eliminazione calcica. • Metastasi osteolitiche: le metastasi osteolitiche si formano nel 20% dei carcinomi solidi (es. mammario e mieloma multiplo): il laboratorio metterà in evidenza una condizione di calcemia elevata, PTH basso e vitamina D bassa. L’azione che si osserva nelle lesioni osteolitiche è principalmente mediata dagli osteoclasti e non da un effetto diretto delle cellule tumorali: infatti il tumore produce tutta una serie di citochine che hanno un’azione locale sull’osso, che determina un maggior riassorbimento dell’osso e, quindi, ipercalcemia. In presenza di PTHrp stimola la produzione di calcitriolo, comportando un aumento del riassorbimento intestinale e una riduzione nell’escrezione renale. Nel tumore della mammella il PTHrp svolge un’azione paracrina o sistemica. Nel mieloma multiplo si ha il rilascio di fattori attivanti gli osteoclasti. • Produzione tumorale di calcitriolo: nel linfoma di Hodgkin si pensa ci sia un’aumentata produzione di calcitriolo. 4. MALATTIE GRANULOMATOSE Fino al 20-30% dei pz. con sarcoidosi sviluppa ipercalciuria e il 10% sviluppa ipercalcemia, aggravata dall’esposizione solare: negli individuo “nomali”, l’a conversione della 25-OHD a calcitriolo avviene a livello del tubulo prossimale renale, attraverso l’enzima 1--reduttasi (diretto dal PTH) e normalmente l’ipercalcemia sopprime la produzione di PTH (e quindi di calcitriolo) ma nella sarcoidosi e nelle altre malattie granulomatose, i monociti (in particolare i macrofagi attivati in polmone e linfonodi) riescono a produrre autonomamente calcitriolo dalla 25-OHD, indipendentemente dalla presenza di PTH. La sarcoidosi è una malattia granulomatosa sistemica a eziologia ignota, caratterizzata da linfadenopatie a livello ilare, associate a opacità polmonari, lesioni della cute, articolazioni e occhi. È una malattia rara (10-20 casi per 100'000), con un’età media alla diagnosi di 40-59 anni (uomini) e 50-69 anni (donne). Mel 90% dei casi colpisce i polmoni (con predilezione dei lobi superiori), in associazione a linfadenopatie ilari e mediastiniche: ciò che si ha è la produzione di granulomi non caseosi. Non è nota la serie di eventi patogenetici che porta a sarcoidosi e la risposta granulomatosa è dovuta a una esagerata risposta immunitaria nei confronti di un ipotetico agente infettivo, ma anche in associazione a un’esposizione ambientale e occupazionale. Tende a colpire età ampie (20-60 anni), con un esordio più precoce nella razza nera e, nel 50% dei casi, il riscontro è accidentale (es. TC per altri motivi che mostra segni di linfadenopatia a livello degli ili polmonari): le modalità di esordio possono essere una malattia interstiziale diffusa polmonare (meno frequenti sono inspessimento pleurico o ipertensione polmonare) o manifestazioni extrapolmonari. Sintomi comuni possono essere tosse, dispnea e dolore toracico, accompagnati da sintomi aspecifici come fatica, astenia, malessere generale, febbricola e perdita di peso: i sintomi sono tanto più frequenti quanto più è alta l’età del soggetto. Interessa frequentemente il polmone ma nel 30% dei casi si presenta con manifestazioni extrapolmonari, le principali delle quali riguardano: • Cute: 25%, spesso sono un segno precoce la comparsa di papule a livello del volto (naso, guance, palpebre), placche (spalle e torso), eritema nodoso; • Occhio: sottoforma di sarcoidosi intra-oculare (uveite anteriore, intermedia e posteriore), sarcoidosi extra-oculare (ghiandole lacrimali, congiuntiva, muscoli extraoculari); • Apparato cardiovascolare: vi è un ampio spettro clinico, da forme benigne e asintomatiche a forme letali. Le manifestazioni tipiche riguardano turbe della conduzione atrio-ventricolare, aritmie cardiache, Ipercalcemie scompenso cardiaco, disfunzioni valvolari, malattie del pericardio, ipertensione polmonare. Il pz. può essere asintomatico o avere tachicardia, sincope; • Linfonodi: ili polmonari nel 90%, periferici nel 40%, e addominali nel 30%; • Fegato: epatomegalia nel 20%; • Splenomegalia nel 5-30%; • Rene: ipercalcemia (per macrofagi attivati che producono calcitriolo in maniera extrarenale, con aumento dell’assorbimento intestinale di calcio, ipercalciuria, ipercalcemia e nefrolitiasi) e interessamento del parenchima renale (inteso come la presenza di granulomi a livello del parenchima renale, evento più comune nelle fasi precoci); • Sindrome di Lofgren: si osserva nel 5% dei casi ed è data dall’unione di eritema nodoso, linfadenia ilare e poliartalgia migrante Non esiste un test diagnostico unico e definitivo per la diagnosi ma vi sono 3 criteri diagnostici: • Manifestazioni cliniche e radiologiche compatibili con la sarcoidosi; • Esclusione delle altre malattie che si presentano in modo analogo; • Documentazione istologica del granuloma non caseoso Vi sono alcuni test diagnostici, come: • Laboratorio: emocromo, indici di flogosi (blando aumento della PCR), profilo epato-renale, ipercalcemia, ipercalciuria, ipergammaglobulinemia; • Marcatori sierici: ACE; • Tubercolina/Quantiferon: per escludere tubercolosi; • Radiografia del torace; • Imaging: RX torace (dà solo immagini grossolane) e TC torace (che mette in evidenza le anomalie riscontrate all’RX). • Broncoscopia: BAL (si osserva un ridotto numero di CD8 e un aumentato numero di CD4, con un aumento del rapporto CD4/CD8, seppur si tratti di un aspetto non patognomonico), biopsia transbronchiale ed endobronchiale; • Biopsia ecoguidata: EBUS (ecografia endobronchiale); • Biopsia chirurgica. 5. FARMACI Sono le più frequenti e sono date soprattutto da: • Diuretici tiazidici: sono usati nell’ipertensione arteriosa, la cui azione è quella dell’aumento dell’escrezione urinaria di sodio. Riducono l’escrezione urinaria di calcio e causano una modica ipercalcemia (<11.5mg/dL). L’ipercalcemia può anche non comparire immediatamente ma anche a distanza di 5 anni dall’inizio dell’assunzione farmacologica; • Litio: aumenta, nel giro di qualche settimana, la concentrazione totale e la frazione ionizzata del calcio (così come i livelli di PTH) ed è usato in depressione psicosi. Causa alterazione della regolazione calcio-PTH, con effetto di modica ipercalcemia o normocalcemia con PTH aumentato. In ipercalcemia, dobbiamo sempre sospettare la presenza di farmaci ed eventualmente valutare la possibilità di eliminare la terapia farmacologica: se il problema persiste, si può pensare o che il problema sia un altro o che l’uso dei farmaci possa essere una concausa. Pancreatite Acuta A seconda dei parametri vitali del pz., si generano degli score numerici che, sommati, danno il risultato dello score: se questo è >=2, siamo in presenza di disfunzione d’organo (definita come transitoria o persistente, a seconda della durata, ovvero se si risolve entro 48 ore è transitoria, altrimenti è definita persistente); • Tardiva: si protrae per un periodo variabile da settimane a mesi. È proprio in questa fase che possono svilupparsi le complicanze locali. Le 2 fasi non sono separate tra loro ma, quasi sempre, vi è una sorta di overlap, essendo una malattia dinamica. SEVERITA’ Si distinguono 3 quadri clinici differenti, che sono: • Lieve: non c’è disfunzione d’organo e non ci sono complicanze locali e sistemiche; • Moderatamente severa: disfunzione d’organo transitoria, associata a complicanze locali o sistemiche, in assenza di disfunzioni d’organo persistente; • Severa: presenza di persistente disfunzione d’organo. TERAPIA I cardini della terapia sono: • Idratazione: il pz. è molto disidratato (per l’edema pancreatico e dei tessuti peripancreatici) e può essere ipoteso. Si suggerisce l’infusione di fino a 500mL/ora di ringer-lattato (piuttosto che di fisiologica), in base alla creatinina e alla diuresi del pz.; • Analgesia: il pz. ha molto dolore e il suo trattamento dev’essere considerato con la stessa importanza dell’idratazione. In dolore persistente, si può somministrare anche morfina (secondo alcuni testi è sconsigliata, perché potrebbe dare spasmo allo sfintere di Oddi, informazione che si è rivelata essere sbagliata); • Supporto nutrizionale: in caso di pancreatite moderatamente severa (e assenza di dolore), il pz. può alimentarsi normalmente, altrimenti viene alimentato mediante sondino nasogastrico o nutrizione parenterale o, ancora, si può decidere di temporeggiare in attesa della terapia dell’agente eziologico (es. rimozione del calcolo); • Terapia specifica dell’agente eziologico. Polmoniti POLMONITI Si tratta di una flogosi acuta polmonare, maggiormente di origine infettiva. Secondo la visione tradizionale, si prendono in considerazione 4 tipi di polmoniti, ovvero: • Acquisite in comunità; • Ab ingestis; • Nosocomiali; • Associate ai ventilatori. Dal 2019 in poi vengono eliminate quelle nosocomiali. POLMONITE COMUNITARIA Si tratta di un’infezione acuta del parenchima polmonare, in un pz. che ha acquisito l’infezione in comunità. Da un punto di vista epidemiologico è molto frequente (16-32/1000 persone l’anno), con una variazione stagionale (principalmente invernale), predilezione per il sesso maschile e una mortalità elevata nei pz. che necessitano di ricovero ospedaliero. È stato stimato che il 12% dei pz. ricoverati morivano entro 30 giorni dal ricovero, soprattutto i pz. con età maggiore di 65 anni. I polmoni sono costantemente esposti a germi presenti fisiologicamente nelle vie aeree (che non sono sterili): in linea generale riusciamo a contenere ogni tentativo di aggressione dei patogeni grazie alle difese immunitarie che mantengono a basso livello l’insieme di questi batteri ma, nello sviluppo della polmonite, abbiamo o un abbassamento delle nostre difese immunitarie o la presenza di un microrganismo particolarmente violento. La maggior parte delle polmoniti, però, non sono causate dai patogeni presenti normalmente negli alveoli e solitamente i macrofagi riescono a controllare la moltiplicazione del germe: devono, pertanto esistere 2 fattori affinché si possa verificare la polmonite, ovvero la moltiplicazione incontrollata dei patogeni e il calo delle difese immunitarie. Vi sono poi dei fattori che incrementano il rischio di polmonite (fumo e alcol), nonché alcuni patogeni che hanno sviluppato alcuni meccanismi che permettono loro di superare le difese immunitarie: • Chlamydia pneumoniae: produce un fattore ciliostatico; • Mycoplasma pneumoniae: riesce a spezzare le ciglia; • Micobatteri: sono resistenti ai macrofagi. Sempre nell’ambito della patogenesi, vi sono anche caratteristiche intrinseche al soggetto che subisce l’infezione: • Età: è il fattore più eclatante e di solito è >65 anni; • Malattie polmonari croniche: BPCO, bronchiectasie, fibrosi cistica, neoplasie polmonari; • Condizione di immunocompromissione: es. in AIDS, trapiantati e con terapie immunosoppressive; • Malattie metaboliche: DM e malnutrizione; • Stile di vita: tabagismo, alcolismo, utilizzo di stupefacenti. Numerosi microrganismi possono causare la polmonite: • Batteri (non sempre trovati e quando trovati possono essere confondenti): • Tipici: Streptococcus Pneumoniae (il più frequente ma in calo grazie ai vaccini), Haemophilus Influenzae (più frequente nelle pneumopatie croniche, come BPCO e fibrosi cistica), Staphylococcus Aureus (distinti in meticillino-sensibili e resistenti, MSSA e MRSA che sono più aggressivi), Moraxella Catarrhalis, Streptococchi del gruppo A, anaerobi, aerobi, Gram- (E. Coli, Klebsiella Pneumoniae, Enterobacter, Serratia, Proteus, Pseudomonas Aeruginosa e Acinetobacter); • Atipici: Legionella (si trasmette per inalazione di aerosol che contiene il batterio), Mycoplasma Pneumoniae (è il più comune, trasmetto attraverso droplet), Chlamydia Pneumoniae (non mostra variazioni stagionali), Chlamydia Psittaci. Sono spesso sotto-diagnosticati perché non esistono test semplici e pratici. • Virus: • Influenzavirus: tipico del periodo invernale. Può predisporre a un’infezione batterica; • Virus Parainfluenzale: causa polmoniti nei pz. immunocompromessi; • Virus Respiratorio Sinciziale: tipico dei bambini. Possibile agente eziologico negli immunocompromessi; • Rhinovirus: dubbio il suo ruolo causale nelle polmoniti ma implicato in diverse infezioni respiratorie; Polmoniti • Miceti (comuni negli immunocompromessi, principalmente neutropenici e con HIV): • Cryptococcus: si trova nel suolo (la maggior parte delle persone vi è entrato a contatto) e causa polmoniti sintomatiche nell’immunocompromesso; • Histoplasma Capsulatum: cresce nel guano dei pipistrelli e negli uccelli. Causa una polmonite correlata al grado di esposizione; • Coccidioides: endemici in Sud America, Messico e sud USA; • Pneumocystis Jirovecii: polmoniti nell’ospite immunocompromesso (soprattutto con HIV). Sempre nell’ambito della patogenesi, possiamo distinguere 3 diversi fattori della polmonite acquisita in comunità, ovvero: • Fattori infiammatori locali: se i macrofagi locali non contengono l’infezione, producono citochine che favoriscono l’arrivo di altri macrofagi e l’aumento della permeabilità vascolare che facilita il passaggio dei bianchi, che aiutano i macrofagi a contenere l’infezione; • Risposta infiammatoria sistemica: data da citochine e al fine di stimolare la produzione di leucociti e la gittata cardiaca (con febbre); • Risposta infiammatoria disregolata: quando crea danno tissutale e disfunzione d’organo che facilita lo sviluppo di una sepsi. Le manifestazioni cliniche includono: • Febbre: spesso assente nei pz. anziani; • Tosse con escreato: l’escreato purulento suggerisce una eziologia batterica; • Dolore toracico; • Dispnea; • Tachipnea: aumentato numero di atti respiratori; • Tachicardia. • Nausea; • Vomito; • Diarrea; • Alterazioni del sensorio. Da un punto di vista dell’esame obiettivo, possiamo apprezzare: ronchi (nella maggior parte dei pz. sono segni di consolidamento), riduzione del FVT, riduzione del murmure vescicolare e ottusità percussoria. Gli esami di laboratorio mettono in evidenza la presenza di leucocitosi neutrofili (anche in caso di assunzione di cortisone ma si può verificare anche leucopenia, segno di iniziale sepsi), aumento della PCR (usato sia per diagnosi che per follow-up anche se ha minore specificità della procalcitonina perché può aumentare anche in caso di virus o di infiammazione generale) e procalcitonina (aumenta solo in caso di elevata infezione batterica, anche se la sua sensibilità è bassa e spesso la troviamo bassa anche in infezioni batteriche). La ricerca eziologica, allo stato attuale, è consigliata quando il pz. non risponde alla terapia empirica (basata su dati statistici ed epidemiologici). Esistono però delle eccezioni, ovvero: • Pz. non ospedalizzati: solo in caso di potenziale esposizione a determinati patogeni; • Pz. ospedalizzati: ricerca dell’agente eziologico su tutti o solo su pz. con polmonite severa. L’approccio che usiamo in reparto è quello di trattare la polmonite, riservandoci di fare una ricerca eziologica solo in caso di polmonite severa e in caso di pz. anziani (cosa difficile con l’escreato, in quanto non hanno il riflesso della tosse) • Pz. ospedalizzati in terapia intensiva: emocolture, escreato colture, ricerca di antigeni urinari. Fare o non fare la ricerca dell’agente eziologico ha dei pro e dei contro: • Non ricercare l’agente eziologico: gli outcome clinici sono uguali con o senza la ricerca (considerando anche che nella maggior parte delle polmoniti non si trova) e i costi per la diagnostica sono ridotti; • Ricercare l’agente eziologico: permette di ridurre le complicanze della terapia antibiotica (infezioni da Clostridium Difficile), riduce l’antibiotico-resistenza (alcuni germi ormai rispondono solo marginalmente a un mix di antibiotici) e promuove la ricerca di nuove tecniche molecolari. La ricerca dell’agente eziologico viene fatta su: • Emocolture: sono positive solo nel 7-15% dei casi, ha una scarsa sensibilità (rischio di falsi positivi, dovuto a una non opportuna raccolta, dovuta a una scarsa disinfezione dell’area di prelievo, con presenza di Stafilococco cutaneo) e spesso solo in ambiente ospedaliero. Danno la possibilità di effettuare un antibiogramma (richiede un tempo tecnico non prevedibile); Polmoniti POLMONITI AB INGESTIS Rappresenta un’infezione acuta del parenchima polmonare causata dall’anomalo ingresso di sostanze esogene (per lo più ingesti alimentari) o endogene (secrezioni) nelle vie aeree inferiori. Non è un evento raro (a tutti è capitato) ma in genere non porta a sequele: vi sono persone che devono essere sottoposte a piccole quantità di materiale radioattivo per via orale (es. pasto baritato) e spesso viene trovata una piccolissima quantità anche nei polmoni. Oltre il 50% delle persone che dormono, in più, inalano saliva o secrezioni. Affinché, a seguito dell’inalazione, si verifichi una polmonite ab ingestis, devono manifestarsi delle condizioni predisponenti: • Volume della sostanza aspirata: maggiore è, maggiore è il rischio; • Tipologia della sostanza: può essere più o meno lesiva nei confronti dell’epitelio polmonare (es. secrezioni acide gastriche contro un materiale solido); • Riduzione dello stato di coscienza: può determinare una riduzione del riflesso tussigeno e della chiusura della rima della glottide; • Manovre iatrogene: la distruzione meccanica di glottide o cardias si può verificare durante endoscopia o intubazione o anche all’inserimento di un sondino naso-gastrico (la nutrizione enterale è un fattore predisponente); • Disfagia: è un segno premonitore tipico e, quando presente, deve mettere in allarme il personale sanitario. Il pz. disfagico dev’essere valutato da un logopedista, anche in vista delle vie di alimentazione cui sottoporremo il pz. Vengono classificate, a seconda del fattore eziologico in: • Polmoniti chimiche: • Secondarie all’inalazione di sostanze tossiche: a prescindere da infezione/sovrainfezione batteriche; • Rapida evoluzione clinica: minuti (atelettasia + emorragia peribronchiale) o ore (edema, consolidamento per infiltrazione di PMN, emorragia); • Evoluzione clinica a lungo termine: decesso, fibrosi (rimane una cicatrice a livello polmonare), restitutio ad integrum. Gli scenari sono all’opposto e la possibilità di ritrovare uno o l’altro varia in base all’entità dell’insulto. • Caratteristiche cliniche: insorgenza rapida e improvvisa di dispnea (con tachipnea, è il quadro più immediato), ipossiemia (in concomitanza con la dispnea), cianosi, febbre. • Terapia: aspirazione endotracheale, supporto ventilatorio, corticosteroidi endovena (per favorire la broncodilatazione. Qualcuno li utilizza ma il loro utilizzo è ancora dibattuto), terapia antibiotica se c’è sovrainfezione batterica (in linea generale è opportuno attenersi all’entità dell’inalazione: si preferisce soprassedere se poco, va fatta se il materiale è molto); • Polmoniti batteriche (più comuni): • Cause: sono batteri anaerobi che normalmente risiedono nelle vie aeree. In caso di reflusso gastrico, si può avere sia una polmonite batterica che chimica; • Caratteristiche cliniche: sono variabili a seconda dell’agente patogeno e delle modalità di insorgenza. Generalmente si ha tosse, febbre, dispnea improvvisa e cianosi periferica; • Terapia domiciliare: amoxicillina + ac. clavulanico o cefalosporine; • Terapia ospedaliera: piperacillina + tazobactam o carbapenemici (sono antibiotici ad ampio spettro). POLMONITI NOSOCOMIALI È una polmonite che si sviluppa dopo almeno 48 ore dall’ingresso in reparto e che non era in fase di incubazione al momento dell’arrivo in reparto. L’importanza della polmonite nosocomiale risiedeva nel fatto che in ospedale è più facile riscontrare infezioni da batteri resistenti a più classi antibiotiche (multidrug resistance) ma, dal 2019, non viene più presa in considerazione come entità a sé, in quanto i criteri per la quale si classificava potevano causare un over- treatment: si prescrivevano antibiotici ad ampio spettro per polmoniti magari dovute a batteri semplicemente trattabili con comuni terapie antibiotiche. Polmoniti POLMONITI ASSOCIATE AI VENTILATORI Mentre le polmoniti nosocomiali sono decadute, quella associata ai ventilatori esiste ancora e rappresenta una polmonite che compare 48 ore dopo l’intubazione endo-tracheale. È una polmonite sostenuta da MDR (batteri multidrug resistance), ovvero resistenti ad almeno 2 classi di antibiotici e mortali. La sua eziologia si deve a: • Microaspirazione di germi orofaringei; • Inoculazione diretta: es. acqua inserita nel gorgogliatore. I germi che più frequentemente si associano a queste polmoniti sono: • Bacilli gram -: E. Coli, Klebsiella Pneumoniae, Enterobacter, Acinetobacter e Pseudomonas Aeruginosa; • Cocchi gram +: Stafilococco e Streptococco; • MDR: la cui variabilità varia tra ospedale e ospedale, può essere dovuta a una degenza prolungata o anche a un recente utilizzo di antibiotici. La diagnosi è complessa: • Evidenza di un nuovo infiltrato polmonare; • Febbre; • Tosse purulenta; • Leucocitosi; • Ipossiemia; • Escreato coltura. La terapia, in genere, è complessa per cui la possiamo anche tralasciare. POLMONITI A LENTA RISOLUZIONE Rappresentano delle polmoniti a risoluzione lenta o incompleta, nonostante una terapia antibiotica apparentemente adeguata. Vi sono diverse ragioni per cui una polmonite può risolversi in maniera lenta o incompleta, tra cui ricordiamo: • Comorbidità: es. pz. anziani, diabetici, con BPCO hanno un 20% di avere una guarigione radiologica più lenta; • Severità: una polmonite severa all’origine ha bisogno di maggior tempo per una risoluzione completa; • Agente eziologico: • Streptococcus Pneumoniae: è l’agente più frequente, per cui statisticamente, la maggior parte delle polmoniti a lenta risoluzione può essere dovuta a lui. In individui senza comorbidità, il miglioramento clinico della sua polmonite avviene in media dopo 2-3 giorni dall’inizio della terapia ma vi è una piccola percentuale di pz. (5%) che rimane febbrile anche a distanza di giorni: questa evenienza capita soprattutto in pz. che hanno una polmonite che interessa più lobi (multilobare) e in caso di infezioni sostenute da germi multiresistenti; • Legionella: possiamo avere una lenta risoluzione, soprattutto in pz. fumatori, anziani e magari in terapia con cortisone. Nei 2/3 dei pz. con legionella possiamo avere addirittura un peggioramento clinico, nonostante terapia appropriata, con sequele che permangono anche un paio di mesi dalla fine della terapia. • Diagnosi errata: può succedere che trattiamo una polmonite, nella convinzione che sia di origine batterica ma poi ci rendiamo conto di altre origini. Altre origini possono essere: • Causa infettiva diversa: tubercolosi (si differenzia bene dalle polmoniti batteriche, in quanto appare come masse rotonde o cavitazioni e va sospettata in anziani, immigrati, tossicodipendenti, o in pz. con AIDS), funghi (possono mimare le infezioni batteriche e tra questi ricordiamo l’aspergillo, soprattutto in pz. con AIDS, neutropenia o che hanno fatto terapie antibatteriche per molti giorni), complicanze della polmonite iniziale (magari curiamo bene il pz. ma poi può comparire un ascesso polmonare o un empiema); • Cause non infettive: tumori (possono causare una sintomatologia clinica simile e la radiografia del torace non ci aiuta quanto la TC), malattie infiammatorie (rientrano malattie complesse e rare come le vasculiti sistemiche, la cui terapia è completamente diversa, in quanto prevedono cortisonici e immunosoppressori). • Complicanze della polmonite. BPCO BPCO La broncopneumopatia cronica ostruttiva rappresenta un’altra patologia polmonare molto comune, soprattutto nella popolazione anziana. Viene definita come una malattia caratterizzata da sintomi respiratori persistenti e limitazione all’inspirazione, dovuta ad anomalie delle vie aeree (o degli alveoli), secondari all’esposizione a particelle o gas nocivi. La cronica limitazione al flusso aereo (caratteristica della BPCO) è causata in parte dalle alterazioni che si hanno a carico delle vie aeree (bronchite ostruttiva) e in parte dalla distruzione del parenchima polmonare (enfisema): il contributo di ciascuna di queste due varia da individuo a individuo. I pz. hanno un’infiammazione cronica che causa alterazioni strutturali: il restringimento delle piccole vie aeree e la distruzione del parenchima polmonare portano alla limitazione dell’inspirazione e alla disfunzione mucociliare. In passato veniva suddivisa in 3 sottotipi principali: • Bronchite cronica: presenza di tosse cronica e produttiva per 3 mesi e in 2 anni consecutivi, avendo escluso altre cause di tosse cronica (es. bronchiectasie). Può essere antecedente o successiva alla limitazione dell’inspirazione; • Enfisema: è un termine che descrive alcuni cambiamenti strutturali (ingrandimento anomalo e permanente dei bronchioli terminali accompagnato da distruzione delle pareti aeree, senza fibrosi; • Asma: infiammazione cronica delle vie aeree, a eziologia multifattoriale. Si associa a ricorrenti episodi di dispnea, respiro sibilante e senso di costrizione toracica, che insorgono soprattutto alla notte e al mattino presto. Questa classificazione è caduta in disuso perché si è visto che i fenotipi di un pz. con BPCO sono molti di più e quelli vengono usati per spiegare la prevalenza dell’uno piuttosto che l’altro sono ricavati dal diagramma di Venn (immagine a destra), che ne identifica almeno 11. Dal punto di vista epidemiologico, i dati mostrano una notevole variabilità imputabile alle differenti metodiche usati per la diagnosi, oltre alle variazioni degli approcci analitici. La diagnosi, però, si riscontra in meno del 6% della popolazione adulta, indicando una sottodiagnosi o sottostima. Sappiamo che la frequenza è più alta nei fumatori, negli uomini e che ha una prevalenza globale cha arriva quasi al 12% della popolazione. I fattori di rischio per il suo sviluppo sono numerosi e i più importanti sono: • Età: spesso è indicata ma non è noto se compaia anche in pz. che invecchiano bene o solo in quelli che hanno abusato di vizi, cui vengono sommati fattori specifici del pz.; • Sesso: dati recenti hanno evidenziato che la prevalenza nei 2 sessi è praticamente sovrapponibile, a causa di una sovrapposizione dell’abitudine tabagica; • Fattori genetici: • Deficit di -1-antitripsia ereditario: è un inibitore delle proteasi sieriche ed è il fattore più pericoloso, seppur poco frequente; • Interazione geni-ambiente: anche se si sa poco dei geni che possono intervenire in corso in BPCO. • Esposizione a particelle: ci riferiamo soprattutto al fumo di sigaretta, sebbene questo non sia l’unico e sebbene anche i pz. non fumatori possano sviluppare un’ostruzione cronica delle vie respiratorie. La maggior parte delle evidenze derivano, tuttavia, da questi studi epidemiologici che evidenziano più rapporti di associazione (coesistenza) piuttosto che di causa-effetto (che prende in considerazione anche la variabile tempo); • Asma: è un fattore di rischio importante importantissimo e il rischio di sviluppare BPCOP è 12 volte superiore rispetto ai pz. non asmatici; • Bronchite cronica: è storicamente associata a BPCO, soprattutto in fumatori, dove si ha un declino della VEMS e tosse produttiva; • Infezioni: un’anamnesi positiva di gravi infezioni respiratorie infantili è stata posta in relazione con una riduzione della funzione polmonare e con un aumento dei sintomi respiratori dell’adulto; BPCO A noi, in questo caso, interessa solo l’espirazione forzata: il pz. espira ma a un certo punto non ce la fa più e raggiunge un plateau. La capacità vitale è uguale più o meno a 5L: possiamo calcolare il volume residuo (aria intrappolata nei nostri polmoni), oltre al volume espiratorio forzato. In particolare, valutiamo il volume espiratorio forzato nel primo secondo (FEV1): se disegniamo una retta che parte al 1° secondo, abbiamo un valore di circa 4L. Rapportando questo parametro alla capacità vitale forzata, vediamo che 4/5=0.8 (80%), ovvero un valore normale tra FEV1 e capacità vitale forzata. Lo spirometro calcola questo parametro automaticamente. In un pz. con BPCO, si ha un marcato spostamento delle curve verso sinistra, a causa dell’aumento della capacità polmonare totale (che diventa maggiore di 6), con un aumento del volume residuo, mentre la capacità vitale rimane invariata o leggermente ridotta. Se prendiamo in considerazione la variabile tempo, vediamo come un pz. con BPCO abbia una capacità vitale uguale al soggetto normale ma una FEV1 ridotta: si parla quindi quando il rapporto tra FEV1/CV<70%. Prima di pensare a una terapia, è importante classificare: • Gravità dell’alterazione spirometrica: si valuta dopo somministrazione di salbutamolo e si misura in gradi GOLD (Global Obstructive Lung Disease) • GOLD1: lieve. FEV1>=80% del predetto (rispetto a un soggetto normale simile per età, sesso e superficie corporea); • GOLD2: moderato. 50=> FEV1 > 80% del predetto; • GOLD 3: grave. 30=<FEV1>50% del predetto; • GOLD4: molto grave. FEV1<30% del predetto. • Livello dei sintomi del pz.: esistono varie scale, tra cui • SGRQ: misura bene lo stato di salute correlato alla malattia ed è ampliamente usato, sebbene sia lungo e difficile da eseguire (ha 76 parti da compilare prima di avere uno score); • CAT: misura lo stato di deterioramento di salute in BNPCO (sono solo 8 elementi da analizzare); • MRC Dyspnea Scale: è una scala sostituita da 5 punti ed è molto usata in pratica clinica. • Rischio di riacutizzazioni: • Lievi: broncodilatatori; • Moderate: broncodilatatori a breve durata d’azione + antibiotici e/o cortisone orali; • Gravi: ricovero ospedaliero o visita specialistica urgente. Vi è una correlazione con gli stati di GOLD: circa il 20% dei pz. con GOLD 2 ha riacutizzazioni che richiedono broncodilatatori e antibiotici orali. • Comorbidità: sono quasi sempre presenti e la BPCO è essa stessa un fattore di rischio per lo sviluppo di patologie. • Alterazioni nutrizionali; • Sarcopenia; • Malattie cardiovascolari; • Sindrome metabolica; • Osteoporosi; • Depressione e ansia. Tutti questi parametri vengono usati per ottenere uno score (ABCD) che permettere di comprendere al meglio l’impatto della BPCO: il pz. si sottopone a spirometria, ai test per valutare il grado di dispnea e deve registrare il numero di riacutizzazioni (con entità, ricoveri compresi). Il quadro tipico della BPCO, però, può entrare in diagnosi differenziale con: • Asma bronchiale: ha un esordio precoce, la sintomatologia è variabile a seconda dei giorni, sono frequenti i sintomi notturni (o nelle prime ore del mattino), spesso sono presenti allergia, rinite o eczema, vi è una storia familiare di asma e coesistenza di obesità; BPCO • Scompenso cardiaco congestizio: la radiografia del torace mostra ingrandimento dell’ombra cardiaca e edema polmonare. Le prove di funzionalità respiratoria mostrano una sindrome restrittiva e non ostruttiva; • Bronchiectasie: vi è la presenza di un espettorato abbondante e purulento e sono comunemente associate a infezioni batteriche. L’RX/TC del torace mostra dilatazioni bronchiali e inspessimento delle pareti bronchiali; • Tubercolosi: l’esordio può avvenire in qualunque età e la diagnosi si ottiene mediante RX torace (infiltrato polmonare) ed esami microbiologici di conferma; • Bronchiolite obliterante: esordisce in giovane età, in soggetti non fumatori e può essere presente una storia di artrite reumatoide o esposizione acuta a fumi. Si osserva spesso dopo un trapianto polmonare o di midollo osseo e la TC torace mostra aree ipodense in espirium; • Panbronchiolite diffusa: è predominante negli asiatici e molti pz. sono maschi e non fumatori. Quasi tutti i pz. mostrano sintomi di sinusite cronica e la RX torace e la HRTC mostrano piccole opacità nodulari centrolobulari diffuse e iperinsufflazione. Per quanto riguarda la terapia, i capisaldi sono: • Mantenimento: serva l pz. per ridurre i sintomi, ridurre le riacutizzazioni, migliorare lo stato di salute e migliorare la tolleranza allo sforzo. Si basa sull’uso singolo (o in combinazione) di: • Broncodilatatori: aumentano il FEV1, migliorano il flusso respiratorio (migliorando la muscolatura liscia bronchiale) e tendono a ridurre l’iperinsufflazione dinamica a riposo e durante lo sforzo, migliorando le prestazioni fisiche. Si usano principalmente: • SABA: Short Acting Beta2 Agonist. Hanno una breve durata d’azione (4-6 ore) e l’utilizzo regolare migliore sia FEV1 che sintomi; • LABA: Long Acting Beta2 Agonist, come Formeterolo, Salmeterolo, Indacaterolo. Hanno una durata di circa 12ore. Formeterolo e Salmeterolo migliorano FEV1 e tasso di riacutizzazioni mentre Salmeterolo di usa 1 volta al giorno; • Anticolinergici: bloccano l’effetto di broncocostrizione dell’acetilcolina sui recettori muscarinici espressi sulle cellule del muscolo liscio delle vie aeree. Anche qui distinguiamo: • SAMA: Short Acting: Ipratropio, Oxitropio; • LAMA: Tiotropio, Aclidinio, Glicopirronio bromuro e Umeclidinio. Il trattamento con i long acting migliora i sintomi e lo stato di salute in generale, riducendo le riacutizzazione e i conseguenti ricoveri ospedalieri; • Corticosteroidi inalatori: il loro solo uso non modifica la FEV1 e il loro problema è legato alla presenza di effetti collaterali, come candidosi orale, voce rauca, ecchimosi e polmoniti. Il rischio è maggiore in fumatori correnti, in pz. con età >55 e che hanno un basso BMI. • Terapie associative: • SABA+SAMA; • LABA+LAMA; • Corticosteroidi inalatori + LABA; • LABA + LAMA + corticosteroidi inalatori; Questi farmaci sono assunti tramite modalità inalatoria e bisogna istruire i pz. alla loro assunzione. Sono disponibili in aerosol predosati in bombolette pressurizzate (spray costituiti da una bomboletta in polvere solida, per cui è necessaria l’agitazione della bomboletta prima dell’uso. Altri sono gli MDI che sono in sospensione e non necessitano di agitazione ma hanno una maggiore durata d’azione, in quanto erogano un’elevata quantità di particelle), DPI (dispositivi per erogazione di polvere, che possono essere in monodose o in multidose e sono utili in pz. che non sono in grado di coordinare l’inalazione, sebbene possano causare la tosse). • Corticosteroidi orali: dovrebbero essere evitati nella terapia di mantenimento, in quanto questi sono provvisti di numerosi effetti collaterali, tra cui debolezza muscolare, miopatie, alterata glicemia a digiuno. È meglio privilegiare il loro utilizzo nella cura delle riacutizzazioni. • Terapia che mira alla cura delle riacutizzazioni: le riacutizzazioni rappresentano un peggioramento acuto (spesso scatenate da infezioni delle vie aeree causate da agenti batterici, virali come il rinovirus ma anche da fattori ambientali) dei sintomi respiratori e richiede una terapia addizionale (diversa da quella che il pz. praticava a domicilio). Tra i sintomi vi sono dispnea (sintomo chiave della BPCO), tosse e sibili respiratori e può essere trattata in base alla forma: BPCO • Lieve: SABA; • Moderata: SABA + antibiotico +/- corticosteroidi orali; • Grave: ospedalizzazione (va sospettata quando l’espettorato è purulento). Nelle ospedalizzazioni si utilizzano: • Broncodilatatori: SABA +/- SAMA; • Glucocorticoidi: prednisolone/metilprednisolone; • Antibiotici: terapia empirica per la difficoltà nel riconoscere l’agente eziologico (generalmente amoxicillina + acido clavulanico +/- macrolide). Se peggiora o persiste, cominciamo a ipotizzare la presenza di un batterio resistente; • Ossigenoterapia: occhialini nasali, ventilazione invasiva, NIV (generalmente in alcalosi o quando i livelli di Co2 sono drammaticamente bassi e non possiamo ridurre l’ossigeno, in quanto causeremo ipossiemia). Seguiamo il pz. mediante emogasanalisi ALGORITMO TERAPEUTICO Possiamo distinguere 4 tipi di pz, per la cui classificazione è necessario conoscere il numero di riacutizzazioni e lo score dei test di cui sopra: • Gruppo A: comprende pz. che hanno una riacutizzazione moderata e un CAT score <10. In questi pz. è indicata una terapia con broncodilatatore a breve o lunga durata d’azione e la terapia dovrebbe essere continuata se viene documentata l’efficacia; • Gruppo B: i pz. hanno un CAT score >=10, per cui è indicato l’uso di un broncodilatatore a lunga durata d’azione o, in alternativa, un anticolinergico a lunga durata d’azione; • Gruppo C: i pz. hanno un numero di riacutizzazioni maggiore di 2 (o anche 1 ma con ricovero ospedaliero) e un CAT score <10. In questi pz. è indicato un anticolinergico a lunga durata d’azione (che è superiore a un broncodilatatore a lunga durata); • Gruppo D: i pz. hanno un CAT score >=10 e un numero di riacutizzazioni maggiore di 2 (o anche 1 ma con ricovero ospedaliero). In questi pz. si può iniziare con un anticolinergico a lunga durata d’azione e, nel caso in cui il pz. abbia sintomi marcati, si può anche scegliere una combinazione associativa tra anticolinergico e broncodilatatore a lunga durata d’azione. La terapia va monitorizzata, rivalutata ed eventualmente modificata in base alle caratteristiche del pz., per cui si ha bisogno di rivalutare periodicamente il pz., per capire se il pz. ha tratto beneficio dalla terapia oltre che vedere se assume la terapia in maniera adeguata (cosa che non sempre avviene). Ittero mese dopo l’infezione e la bilirubina si riduce dopo circa 2 settimane dalla comparsa del picco delle transaminasi. I pz. affetti sono contagiosi durante il periodo di incubazione e per 1 settimana dopo la comparsa dell’ittero. La normalizzazione degli indici biochimici avviene entro 2-3 mesi e raggiunge il 100% dei casi nei pz. a distanza di 6 mesi dall’evento acuto. L’infezione da HAV non cronicizza e gli individui infettati non possono reinfettarsi (grazie alla presenza di un’immunità cellulare duratura), sebbene possano avere una ricaduta (10% dei casi). Tra le complicanze vi sono principalmente l’epatite colestatica (colestasi di almeno 3 mesi) e la recidiva di epatite (non si sa perché si abbia, coinvolge fino al 10% dei pz. e avviene entro 6 mesi dall’infezione, con una durata di circa 3 settimane e con alterazioni biochimiche che possono durare per un periodo maggiore di tempo). La diagnosi si basa sulla clinica del pz., sulle modalità di insorgenza, sulla presenza di ittero e sull’aumento delle transaminasi. Il laboratorio mostra IgM anti-HAV presenti dall’inizio e che rimangono riscontrabili dai 3 ai 6 mesi dall’infezione (poi compare una sieroconversione che prima vede una presenza contemporanea di IgM e IgG per poi avere solo IgG); • HBV: è sia acuta che cronica e l’ittero compare solo nel 30% dei pz. Il periodo di incubazione è di circa 1-4 mesi, con trasmissione variabile in base alla geografia (prenatale in zone in via di sviluppo e trasmissione sessuale e percutanea in zone sviluppate)e un’insufficienza epatica rara (0.1-0.5%) e dovuta a una lisi eritrocitaria da parte del sistema immunitario. Tra i sintomi vi sono anoressia, nausea, vomito e discomfort nei quadranti addominali destri mentre tra i segni troviamo ittero e prurito. Il laboratorio mostrerò un valore aumentato di AST/ALT (1000- 2000U/L) con bilirubina normale o aumentata. Segni e sintomi ci aiutano poco con la diagnosi e la diagnosi di certezza si fa con la sierologia, soprattutto per capire se si tratta di un’infezione acuta o cronica: l’HBs-Ag è l’antigene di superficie e compare prima dell’esordio clinico della malattia (per cui il pz. sviluppa anticorpi anti-HBs o non svilupparli, per cui l’antigene permane dopo i 6 mesi e il pz. si identifica come cronico), l’HBe compare in fase di replicazione virale (gli anticorpi compaiono quando si è in via di risoluzione e possono comparire anche in pz. guariti) mentre l’HBc-Ag (si possono formare IgM che si dosano in fase acuta e IgG che, invece, durano tutta la vita); • Virus epatotropi minori: raramente causano aumento della bilirubina mentre più frequentemente causano semplicemente un aumento delle transaminasi; • Da farmaci: uno dei farmaci che causa maggiormente epatite è il paracetamolo, che ha un assorbimento completo intestinale, un picco di concentrazione dopo 1-2 ore, emivita di 2-4 ore e metabolismo epatico (che spiega l’associazione con l’epatite acuta). Ha una tossicità quando le concentrazioni sono superiori a 250mg/Kg o 12g/24h: il rischio di avvelenamento non tanto legato all’assunzione di solo paracetamolo ma in assunzione combinata con oppioidi. Il paracetamolo non è il solo farmaco e quando sospettiamo un’epatite acuta, dobbiamo sempre escludere le cause farmacologiche, senza limitarci al solo paracetamolo (es. anche amiodarone). • Colangite biliare primitiva: in passato chiamata cirrosi biliare primitiva, legata all’attacco di linfociti T delle cellule dei dotti biliari intraepatici, con manifestazioni di segni di colestasi che evolvono verso la cirrosi e l’epatite. La prevalenza è maggiore nelle femmine, è stata ipotizzata una certa familiarità (anche se i geni responsabili non sono stati trovati) e le manifestazioni sono varie, in quanto si va da soggetti assolutamente asintomatici a sintomi come la fatica, il prurito (associato a pelle secca e che peggiora la notte) e dolore addominale ai quadranti destri. L’obiettività varia in base alla fase della malattia: vi può essere epatomegalia (la frequenza è più alta col passare degli anni), splenomegalia (in caso di ipertensione portale), iperpigmentazione cutanea, ittero, xantomi, xantelasmi, pelle secca e tendenza a infezioni di piedi e unghie. Gli esami di laboratorio possono essere del tutto normali o mettere in evidenza sintomi di colestasi (fosfatasi alcalina e GGT con incrementi paralleli), modico aumento delle transaminasi (circa 5 volte superiori alla normalità), aumento del colesterolo totale, AMA (anticorpi antimitocondrio) e ANA (anticorpi antinucleo). La cosa “caratteristica” è che avremo delle possibili concomitanti malattie autoimmunitarie, come la S. di Sjögren (40-65%), tiroidite cronica autoimmune (es. Hashimoto 10-15%), sclerodermia (5-15%) e artrite reumatoide (5-10%). Le complicanze che possono essere presenti sono la cirrosi (con una possibilità maggiore di sviluppo di varici esofagee), il carcinoma epatocellulare (rischio di 20 volte rispetto al soggetto sano) e le malattie Ittero metaboliche dell’osso (per l’effetto inibitorio delle sostanze tossiche sugli osteoblasti, con un’osteomalacia e una maggiore tendenza alle fratture). Questa malattia deve essere sospettata in tutti i pz. che hanno una fosfatasi alcalina alta (1.5 volte la norma) senza ostruzione biliare e comorbidità epatiche, la presenza di AMA (titolo 1:40 o maggiore ) ed evidenze istologiche (la biopsia epatica non è spesso richiesta ma ci permette di avere molte informazioni sulla stadiazione e sulla prognosi). L’unico farmaco in nostro possesso è l’acido ursodesossicolico, che fluidifica la bile (che passa meglio anche in condizioni di ostruzione); • Epatite autoimmune: è una infiammazione caratterizzata dalla presenza di autoanticorpi fegato- specifici, a esordio acuto e tendenza alla cronicizzazione. È una rara malattia a interessamento principalmente femminile e spesso si trova in associazione con altre malattie autoimmunitarie. a eso. La presenza e la presentazione fenotipica della malattia variano in base alla razza (gli afroamericani vanno verso la cirrosi mentre i nativi dell’Alaska vanno verso l’ittero). L’esatta patogenesi non è nota, per cui si parla di condizioni genetiche scatenate da fattori ambientali. Lo spettro di presentazione è variabile, da un pz. asintomatico (a riscontro occasionale per screening, come le donazioni del sangue in cui si osservano transaminasi aumentate, da cui parte l’iter diagnostico) a pz. che hanno un quadro più drammatico (con riscontro di un’insufficienza epatica acuta grave, ittero e alterazioni della coagulazione). Anche in questo caso, come la colangite biliare primitiva, anche le persone che soffrono con epatite autoimmune hanno associazioni con altre patologie autoimmunitarie, come tiroidite, artrite reumatoide, DM1, celiachia e LES. Gli esami di laboratorio mostrano aumento degli indici di necrosi epatica predominanti sugli indici di colestasi, bilirubina normale (o alta nelle forme più grave), aumento delle gammaglobuline, aumento delle transaminasi (10-20 volte rispetto al normale) e presenza di autoanticorpi, come ANA (più frequenti) ma anche ASMA, Antiactina, p-ANCA, AMA e Anti-LKM (anti-microsomi epato-renali); • Farmaci che causano colestasi: sono vari e accomunati col fatto che hanno un effetto dose-dipendente. Tra questi abbiamo gli steroidi, l’etinil-estradiolo e l’arsenico; • Nutrizione parenterale totale: sono substrati che non passano per il canale gastroenterico e comportano colestasi (dopo qualche settimana dall’inizio della terapia) per overgrowth batterica, traslocazione di endotossine intestinali (all’interno del circolo portale e ingresso di acidi grassi) e fango biliare (che compare dopo circa 6 mesi di nutrizione parenterale totale); • Ostruzione meccanica delle vie biliari: • Colelitiasi: sono molto comuni nella popolazione occidentale e i pz. possono essere o meno sintomatici e possono avere complicanze a livello della colecisti o a livello dell’albero biliare. La maggior parte dei pz. rimane sintomatica ma una parte di questi ha una colica biliare (dolore ipogastrico, irradiato al dorso, con nausea e vomito) che viene definito di tipo colico, anche se continuo. Viene esacerbato da pasti particolarmente ricchi, non migliora col riposo ed è dovuto dall’aumento della pressione all’interno della colecisti che cerca di espellere il calcolo. Le principali complicanze sono: • Colecistiti; • Pancreatite; • Coledoco-litiasi: si riferisce alla presenza di calcoli all’interno del dotto comune delle vie biliari, secondario al passaggio di un calcolo dalla colecisti al dotto comune (condizione favorita dalla stasi biliare). Il dolore è più intenso e duraturo dei calcoli della colecisti e il laboratorio mostra aumento di transaminasi, GGT, bilirubina e fosfatasi alcalina. La diagnosi è data da un quadro clinico abbastanza eclatante (nelle forme sintomatiche), alterazione degli indici di colestasi e imaging strumentale (ecografia addominale e colangio-RM). Il trattamento varia in base alla gravità: si fa un’ERCP (una sorta di gastroscopia) e una colecistectomia. • Colangite sclerosante primitiva: è una malattia cronica e progressiva ad eziologia ignota, caratterizzata da infiammazione, fibrosi e stenosi dei dotti biliari di medio e grande calibro nell’albero biliare intra- ed extraepatico; • Tumori: • Primitivi: di fegato, vie biliari intraepatiche, coledoco, papilla del Vater, pancreas. Il tumore più frequente è quello del pancreas, la cui diagnosi è spesso tardiva e solo il 10-15% dei pz. è candidabile alla pancreatectomia. Rappresenta la 4° causa di morte per carcinoma ed è tipica Ittero dei paesi occidentali (minore in asia del sud e africa sub-sahariana), con un’incidenza intorno ai 65- 69 anni (sesso maschile) e 75-79 anni (nel sesso femminile) ma può comparire a qualunque età. Non si conoscono con esattezza i fattori di rischio, sebbene alcuni sembrerebbero aumentare l’incidenza: tabagismo, obesità e inattività fisica, dieta occidentale, DM2 e familiarità (5-10%). Il problema del tumore del pancreas è la sua silenziosità clinica, i cui sintomi sono aspecifici: astenia (86%), perdita di peso (83%), anoressia (83%), dolore addominale (79%), ittero (55%), nausea (51%) e dolore lombare (50%). La presentazione clinica varia in base alla localizzazione del tumore: il 60% a livello della testa (con manifestazione itterica), il 15% a livello del corpo, il 5% a livello della cosa e il 20% in maniera diffusa. • Secondari: metastasi epatiche e linfonodali. Osteoporosi Per quanto riguarda gli androgeni, vi sono meno evidenza scientifiche rispetto agli estrogeni: è noto, però, che l’ipogonadismo (carenza di testosterone) è un fattore di rischio per l’osteoporosi, così come bassi livelli di Vit. D (causa iperparatiroidismo secondario e quindi un’aumentata erosione ossea). Un altro passaggio importante è un inadeguato picco di massa ossea (immagine a destra): rappresenta l’acme della robustezza dell’osso e si raggiunge intorno ai 16 anni, con una massa ossea maggiore nei maschi piuttosto che nelle femmine (sebbene queste lo raggiungano prima). L’acquisizione del picco di massa osseo è più rapido nella pubertà e coincide con la massima secrezione di ormone della crescita (ormone anabolico prodotto dall’ipofisi): i meccanismi con i quali si forma il picco di massa ossea non sono noti ma si pensa sia dovuto a fattori ormonali (estrogeni, testosterone, GH e Vit.D) oltre che genetici (per lo più sconosciuti). Raggiunto il picco, abbiamo un fisiologico calo della massa ossea: è evidente che più è alto il punto di partenza, maggior tempo si impiegherà a perdere massa ossea. In altri termini, se abbiamo una curva più bassa, ovviamente la discesa sarà più rapida e breve, con un maggior rischio di osteoporosi. Per fattori ambientali ci riferiamo ai fattori nutrizionali (Vit.D e calcio) e allo stile di vita (es. sedentarietà come fattore di rischio). SECONDARIA Per le osteoporosi secondarie, le cause sono tantissime e la maggio parte delle quali è legata a malattie endocrinologiche, autoimmunitarie e tumorali: questo significa che una donna in età post-menopausale non necessariamente va etichettata come un soggetto con osteoporosi primaria ma può avere anche una causa sottostante che va assolutamente indagata con una serie di esami. Quando sospettiamo un’osteoporosi secondaria va quindi fatto uno screening (per evitare che non vi siano malattie sottostanti) che comprende: • Emocromo; • Enzimi epatici; • Elettroliti; • Esami ormonali: PTH, ormone tiroideo, ormoni sessuali, ecc. QUANTIZZAZIONE DELL’OSTEOPOROSI Il metodo più utilizzato per la quantizzazione è la DEXA (ma ne esistono anche altri, come l’ultrasonografia) che permette lo studio dei 2 distretti anatomici più colpiti, ovvero il femore e la colonna vertebrale: per convenzione si utilizza il femore dell’arto non dominante mentre per la colonna vertebrale, si valutano soprattutto le vertebre lombari L1, L2,L3 e L4. La DEXA ha una serie di vantaggi, come la bassa esposizione a radiazioni, un tempo di scansione basso (10-15min) e una variabilità nelle letture inferiore all’1% (la ripetizione dell’esame con un altro operatore riporterà più o meno lo stesso risultato, anche perché il grosso del lavoro è eseguito dalla macchina e l’operatore deve solo centrare il macchinario). I calcoli della DEXA ci permettono di ottenere: • T-score: è riferito alla popolazione in perfetto stato di salute; • Z-score: è riferito alla media dei soggetti di quell’età anagrafica, di quel sesso e con quel BMI (è una standardizzazione); La DEXA ci permette di ottenere sia la media delle vertebre, sia il punteggio di ogni singola vertebra: quando analizziamo i dati, quindi, dobbiamo sempre stare attenti a vedere se ci sono delle alterazioni dovute alla presenza di una marcata osteoporosi su di una sola singola vertebra, con altre vertebre assolutamente normali (cosa che, ovviamente, falsa il dato poiché la media delle vertebre è normale). Siamo, inoltre, in grado di monitorizzare l’andamento del tumore osseo mediante sia marcatori sierici che urinari: • Marker di formazione ossea: • Fosfatasi alcalina: potremo richiedere la fosfatasi alcalina ossea ma in genere viene dosata come totale (può andare comunque bene, in quanto l’attività dell’osso è prevalente rispetto a quella del fegato); • Osteocalcina: è una proteina sintetizzata dagli osteoblasti; • Telopeptide C-terminale: è un peptide proveniente dalla degradazione del collagene I, che è la più abbondante proteina presente nella matrice ossea. • Marker di riassorbimento osseo: • Piridinoline e deossipiridoline: sono molecole che si formano dall’unione di catene di collagene I e stabilizzano la matrice extracellulare. Osteoporosi Come già ampliamente detto, il problema dell’osteoporosi non è la malattia in sé ma la frattura: • Di vertebre: può essere spontanea o avvenire anche a seguito di un minimo traumatismo, è una delle manifestazioni più comune ed è divisa in gradi (da 0 a 4) a seconda della deformità; • Del femore: è una delle maggiori cause di morbidità e mortalità delle persone anziane. La maggior parte di queste avviene a livello del collo o alla base del grande trocantere e si associano a traumi anche di minima entità; • Del polso (di Colles): deriva da una caduta a terra con iperestensione della mano. PREVENZIONE L’obiettivo principale è la prevenzione delle fratture, per cui si raccomanda: • Adeguato apporto calcico: • 1-3 anni: 700mg/die; • 51-70 anni: 1200mg/die; • >70 anni: 1200mg/die; • Gravidanza/lattazione: 1300mg/die. • Adeguato apporto di Vit.D: • 600Ul/die; • >71 anni: 800Ul/die. • Esercizio fisico, stile di vita e prevenzione delle cadute. TERAPIA Per quanto riguarda la terapia della propria osteoporosi, abbiamo 4 armi a disposizione: • Bisfosfonati: sono farmaci che riducono l’assorbimento osseo mediato dagli osteoclasti, promuovendo l’apoptosi degli stessi osteoclasti. Contestualmente aumentano la densità ossea e quindi riducono il rischio di fratture. Tra questi abbiamo diversi farmaci, distinti in base alla durata d’azione e alla modalità di sommistrazione: • Andronato: si può dare nel trattamento (in donne in periodo post-menopausale a 10mg/die o 70mg/sett per os ma anche a uomini a 5mg/die) e anche per la prevenzione dell’osteoporosi indotta da cortisone (uomini e donne a 5mg/die); • Ibandronato: è indicato sia nel trattamento dell’osteoporosi nelle donne in post-menopausa, sia nella prevenzione di fratture in pz. con tumore alla mammella, sia nel trattamento dell’ipercalcemia neoplastica. Si somministra a 150mg/mese o anche 3mg/3 mesi con iniezione intramuscolare; • Risedronato: è indicato nel trattamento dell’osteoporosi nelle donne in post-menopausa ma anche nella prevenzione dell’osteoporosi cortisone-indotta nelle donne, a una dose di 5mg/die o 35mg/sett; • Zolendronato: è una somministrazione che si esegue una volta l’anno (5mg/anno endovena), nel trattamento dell’osteoporosi e dell’osteoporosi cortisone-indotta. • Ormone paratiroideo: il Teriparatide è un PTH umano ricombinante, considerato un ormone anabolico. Una somministrazione quotidiana (20mg/die sottocute per 24 mesi) comporta un miglioramento della massa dell’osso trabecolare e con scarso effetto sul corticale, comportando una riduzione delle fratture. La terapia va fatta quotidianamente, sotto cute e a bassissimo dosaggio per un massimo di 24 mesi: non oltre perché studi preclinici hanno dimostrato che l’utilizzo di lunga durata aumenterebbe il rischio di osteosarcoma nei ratti; • Anticorpi monoclonali: il Denosumab previene il legame RANK al suo recettore, riducendo la differenziazione delle cellule precursori in osteoclasti maturi. È indicato in osteoporosi post-menopausale, in pz. oncologici e in osteoporosi cortisone-indotta. Ha il vantaggio di essere somministrato sottocute ogni 6 mesi (60mg/mese) ma presenta un effetto rebound: sospendendolo, dopo 1 anno la densità ossea torna ai valori antecedenti alla sua sospensione. Ha un effetto collaterale di indurre l’ipocalcemia, frattura subtrocanterica atipica del femore e osteonecrosi della mandibola. • Terapia ormonale sostitutiva. Osteoporosi EFFETTI COLLATERALI – OSTEONECROSI DELLA MANDIBOLA I bisfosfonati (così come il Denosumab) hanno però una serie di effetti collaterali (che poi sono fattori limitanti per il loro utilizzo), come esofagite (limitata ai bisfosfonati dati per via orale), ipocalcemia (dovuta al fatto che il farmaco favorisce l’apposizione della matrice ossea, prelevando il calcio dal sangue, per cui in questi pz. il calcio dev’essere sempre supplementato), frattura subtrocanterica atipica del femore e osteonecrosi della mandibola. L’osteonecrosi della mandibola è un’area di esposizione dell’osso nella regione maxillo-facciale, con una presentazione clinica estremamente variabile, in quanto si trova in associazione: • Diretta: con la potenza dei bisfosfonati e con la durata della terapia; • Indiretta: con la durata della sospensione del farmaco (tanto più tempo abbiamo sospeso il farmaco, tanto più basso è il rischio di sviluppare questa complicanza); • Dubbia: con i bisfosfonati per curare l’osteoporosi, perché questa complicanza era nota in pz. neoplastici che facevano i bisfosfonati per la cura delle metastasi ossee (rischio maggiore rispetto a quello dei pz. che utilizzano i bisfosfonati per la cura dell’osteoporosi). Ad ogni modo, le linee guida internazionali suggeriscono di trattare queste due diverse tipologie di pz. allo stesso modo, per prevenire questa complicanza. Le condizioni per una corretta definizione di osteonecrosi della mandibola sono di esclusione, quindi: • Trattamento: pregresso o attuale con bisfosfonati; • Esposizione ossea nella regione maxillo-facciale persistente per almeno 8 settimane; • Assenza di pregressa irradiazione dell’osso. Le modalità di somministrazione dei bisfosfonati incidono in maniera importante sull’incidenza del problema, infatti: • Somministrazione EV: incidenza dello 0.8-1.2%; • Somministrazione per OS: incidenza dello 0.01-0.04%; • Somministrazione di Denosumab: incidenza dell’1-2%. Tra i fattori di rischio troviamo: • La potenza dei bisfosfonati: possono aumentare l’incidenza tra 2-4 volte; • Patologie orali concomitanti: sono il fattore di rischio più importante, in quanto sono in grado di aumentare il rischio di 7 volte; • Fattori locali: ad es. l’anatomia locale o la chirurgia dentoalveolare possono aumentare il rischio di 5-21 volte. Quindi se un pz. effettua una chirurgia dentoalveolare e sta assumendo bisfofonato, ha un rischio elevatissimo di sviluppare questa complicanza: può essere relativa anche alle cose più banali, anzi, tra gli interventi maggiormente associati all’aumentato rischio di osteonecrosi della mandibola ritroviamo soprattutto l’estrazione dentaria (probabilmente per irritazione a livello locale). Per quanto riguarda la patogenesi, non è ancora chiaro il perché si abbia. Tra le varie cause, si è pensato a: • Soppressione degli osteoclasti: il processo di riassorbimento osseo è un requisito per la guarigione delle ferite ossee dopo la chirurgia mininvasiva, per tale motivo se gli osteoclasti sono soppressi non si può dare origine alla guarigione dell’osso; • Alterazione immunitaria: è quantomeno dubbia • Inibizione dell’angiogenesi locale: è stata la prima ipotesi supposta e testata, in quanto, in passato l’osteonecrosi della mandibola veniva chiamata “necrosi avascolare della mascella”. Si pensa che i bisfosfonati possano in un certo qual modo alterare l’angiogenesi locale a livello dell’osso della mandibola. È importante prevenire questa complicanza, facendo fare al pz. una valutazione odontoiatrica prima dell’inizio della somministrazione del bisfofonato a tutti i pz. (compresi quelli oncologici): se, invece, dobbiamo far sottoporre il pz. già in terapia a un intervento di chirurgia orale, dobbiamo sospendere il bisfofonato 3 mesi prima e 3 mesi dopo la chirurgi orale stessa. Questo avviene per quanto riguarda i pz. ambulatoriali, in cui possiamo programmare la terapia con bisfosfonati e riusciamo a fare la valutazione odontoiatrica ma ci sono, però, dei casi in cui non possiamo aspettare (es. l’arrivo in PS di un pz. con ipercalcemia severa): in questo caso dobbiamo somministrare bisfosfonati in acuto (per aiutare la riduzione della calcemia), senza aspettare la valutazione odontoiatria. Una volta diagnosticata l’osteonecrosi della mandibola, dobbiamo tener presente che a volte non abbiamo la possibilità di sospendere il trattamento, poiché è un farmaco importante per un pz. oncologico, nella cura delle metastasi ossee. In tal caso dobbiamo preservare la qualità della vita del pz., educandolo, controllandogli il dolore, prevenendo/controllando le infezioni e prevenendo/controllando l’estensione delle lesioni e dello sviluppo di nuove aree di necrosi.
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