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Appunti di Museologia (AA 2022-2023), Cimoli, Appunti di Museologia

Appunti completi del corso di Museologia (LM CMC) dell'AA 2022-23. 30

Tipologia: Appunti

2022/2023

In vendita dal 07/09/2023

pizzacheballa
pizzacheballa 🇮🇹

4.3

(50)

29 documenti

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Scarica Appunti di Museologia (AA 2022-2023), Cimoli e più Appunti in PDF di Museologia solo su Docsity! 1 21/02/2023 Pur affrontando un itinerario storico, si cercherà di parlare di contemporaneità, di museo nello spazio sociale. La proposta è quella di calibrare museologia e storia della critica. In particolar modo, la chiave del corso è di interpretare la museologia come una componente critica, in quanto branca della storia della critica d’arte. In questo modo va affrontato il dispositivo museale, un dispositivo complesso, mai neutro, asettico, ma sempre posizionato e schierato, attore dell’arena sociale. Questo è il modo in cui proviamo a leggerlo all’interno del corso, sempre aperto al confronto e alla discussione. Consiglia i seminari: - 22/02 ore 15-18, Sguardo e distanza. I musei come spazi di negoziazione e dialogo - 28/02 ore 14.30-18, Leggere i segni delle città. Monumenti e anti-monumenti - 02/03 ore 9-16.30, Thérèse Rivière. Corrispondere lo sguardo - 27/04 ore 17, seminario e inaugurazione della mostra Luciano Baldessari. Sinfonia di una grande città. Ridotto Gavazzeni del Teatro Donizetti di Bergamo, in occasione del Festival pianistico 2023 Indicazioni utili per l’esame L’esame è orale ed è finalizzato a verificare la conoscenza dei temi trattati e la comprensione dei nodi critici fondamentali che li caratterizzano. L’esame si configura pertanto come un colloquio in cui vengono poste 3-4 domande aperte, così da consentire ai candidati di mostrare la propria capacità di costruire un discorso in autonomia. Si suggerisce (ma non si richiede obbligatoriamente) di preparare un argomento a piacere, anche eventualmente supportandolo con slides, da presentare sul proprio tablet o con stampa cartacea (non su smartphone). Questo argomento a piacere, la cui presentazione potrà durare indicativamente 5-10 min., potrà costituire la parte iniziale dell’esame. I criteri di assegnazione del punteggio si basano sui seguenti punti: - capacità di descrivere il panorama culturale entro cui il pensiero di un critico/museologo si colloca - capacità di muoversi con autonomia e spirito critico all’interno della storia della museologia e della critica d’arte - precisione del linguaggio (consiglio: prima di fare l’esame controllare la pronuncia dei nomi stranieri!!) Essere capaci di insegnare la specifica occasione storica all’interno del tessuto più largo culturale, politico, filosofico, etc. Ogni elemento studiato, come un sasso nell’acqua, i cerchi si allargano, e lo sforzo deve essere quello di leggere quanti più cerchi possibili, vedere fino a dove si espande lo sguardo. Non l’oggetto singolo in quanto tale, scisso e avulso, ma letto sullo sfondo di tutto il tessuto culturale che sta dietro. Il lavoro che ci si propone di fare è quello di leggere i fili che collegano gli eventi tra loro, e non il singolo manufatto, così da comprendere in che modo un elemento discende dall’altro e in che modo gli elementi si collegano tra loro, al di là dello spazio e del tempo. La docente prende nota della partecipazione attiva alle lezioni in forma di interventi puntuali, condivisione di esperienze e riflessioni, proposte di focus, etc. Premessa. La mobilità del punto di vista: la storia dell’arte come “bersaglio mobile” della critica La lezione di oggi vuole essere una premessa di metodo sulla possibilità di leggere la storia. L’obiettivo è quello di provare a esplicitare i metodi con cui è possibile mettersi in gioco nell’ambito del corso, provando a capovolgere e a mettere in discussione una lettura storica lineare, così come è stata fatta fino ad ora. Gli accenti della storia, che abbiamo letto in base a tassonomie e mappature piuttosto codificate, ad oggi possono essere letti in modo più mobile, più dubitativo, con meno sicurezze. Questo è possibile soprattutto negli ultimi 10-20 anni, in particolare sulla scorta di alcuni studi nell’ambito della museologia sociale radicale, della cosiddetta nuova museologia, degli studi postcoloniali, dell’ecologia, dell’eco-femminismo, e 2 tutta una serie di movimenti che ci portano a porre gli accenti della storia in posti diversi da quelli a cui siamo abituati. Vedere passato, presente, futuro Questa intuizione è di per sé molto antica, e si può far risalire all’Angelus Novus di Paul Klee (1920). Questa figura è l’angelo che guarda insieme al passato, al presente, e al futuro. Si tratta di una figura spirituale, evidentemente immaginifica, ma che forse ci fa guardare alla storia in modo diverso, e per questo è stata scelta come una sorta di icona laica, eletta a compagno di viaggio. Nietzsche, in Sull’utilità e danno della storia per la vita (1874), diceva: Questi uomini storici credono che il senso dell’esistenza verrà alla luce sempre più nel corso di un processo, guardano perciò solo all’indietro, per comprendere il presente in considerazione del processo giunto fino a questo punto ed imparare a desiderare il futuro in modo più veemente; non sanno affatto di pensare ed agire in modo non storico nonostante tutta la loro storia, e come anche il loro impegno con la storia non sia a servizio della conoscenza pura, ma della vita. Obiettivo del corso è interrogare questa linea storica, che andremo ad affrontare cercando di chiederci come questa storia possa essere al servizio della vita. Nell’immagine si vedono degli angeli romanici altomedievali. Nella fattispecie, questi sono catalani. Si tratta di affreschi molto antichi, risalenti all’VIII-IX-X sec a.C., ma che si ritrovano in tutto il Mediterraneo. Gli angeli sono raffigurati con degli occhi sulle ali, come a dire che chi più vede, o chi meglio vede, più si eleva: vista come attributo della divinità. Che la si legga in termini sacri o profani, è comunque una buona indicazione: non fermarsi alla prima impressione, ma provare ad andare in profondità. Questo è l’esercizio che il museo e la storia della critica ci richiedono: andare in profondità, dentro le immagini, dentro gli apparati, dentro gli allestimenti, dentro il modo in cui la storia dell’arte e del pensiero visivo ci è stata comunicata. 5 di San Giovanni a Firenze, inventando un metodo tale per riportare su un piano quel battistero ortogonale tardoromano medievale, traducendo la tridimensionalità in bidimensionalità. Brunelleschi ha ben chiaro che è necessario scendere a compromessi: il suo codice funziona a patto di rinunciare ad alcuni aspetti della naturalità. Dalla tavoletta bucata si guarda con un occhio solo: se avesse guardato con due occhi non avrebbe funzionato. Brunelleschi è consapevole che per poter rappresentare il battistero ortogonale su una superficie piana deve fingere che alcuni elementi della vista funzionino diversamente. È solo a partire dall’Ottocento, da quando si è deciso di lavorare sull’anatomopatologia, che si è iniziato a comprendere il funzionamento dell’occhio, per quanto ad oggi ancora non completamente. La scienza dei tempi di Brunelleschi non aveva ancora raggiunto questa conoscenza, e dunque è stato necessario adottare una serie di compromessi. Di nuovo, ritorna Panofsky: la prospettiva è una forma simbolica, un compromesso, una sorta di patto tra gli artisti e gli spettatori per riuscire a governare il caos e la complessità. Altrettanto intuitivamente, molto prima di Brunelleschi, facevano gli uomini che hanno progettato e realizzato i templi, operando una serie di adattamenti visivi. Gli antichi greci costruivano i basamenti dei templi in modo che fossero leggermente convessi, in quanto l’occhio legge le linee rette come leggermente curve e le linee curve come rette: se il basamento fosse stato completamente piano, l’occhio l’avrebbe letto come concavo, e l’impressione sarebbe stata quella di un tempio debole, che collassa su se stesso. Per questo, attraverso strumenti intuitivi, per prove ed errori, gli architetti greci creano questo leggerissimo minimo rigonfiamento. Questo avviene anche a livello delle colonne: le colonne doriche hanno un piccolo rigonfiamento, in modo tale che l'occhio da lontano raddrizzi e legga le colonne come solide, portanti, resistenti. Al contrario, se le colonne fossero state dei cilindri perfetti, l’occhio le avrebbe lette leggermente svasate, come clessidre, e questo avrebbe dato l’impressione di fragilità. La città ideale Bisogna aspettare la metà del XV secolo affinché l’intuizione di Brunelleschi venga assunta in modo molto codificato. Da questo momento si diffondono tutta una serie di immagini di città ideale, che fondamentalmente non esiste, una sorta di assemblage un po’ surrealista. La città viene letta come luogo dell’ordine, dell’armonia, del governo, interpretazione che vuole essere anche un messaggio anche politico. Pienza, un paesino microscopico in Toscana, ne è un esempio: l’organizzazione dei palazzi del potere avviene in base a una logica prospettica. In altre parole, l’architetto traduce in una chiave architettonico-urbanistica quello stesso pensiero, che è appunto un pensiero politico (es. cattedrale, palazzo vescovile, palazzo comunale, etc., oggi certamente in una città di nuova fondazione sono altri gli edifici che si costruiscono). Esito di questo pensiero è l’uomo vitruviano, l’uomo nel cerchio nel quadrato. Si tratta dell’uomo che governa la complessità, o meglio, nel pensiero rinascimentale, il mondo fatto a misura di quell’uomo, e non viceversa. Questa utopia è per noi oggi culturalmente lontanissima: sappiamo perfettamente non solo che il 6 mondo non è fatto a nostra misura, ma anche che la relazione tra esseri umani e ambiente va governata secondo logiche completamente diverse da quelle con cui è stata governata fino ad oggi. Jan Van Eyck, Il matrimonio dei coniugi Arnolfini, 1434 Ci sono tante declinazioni di questo pensiero, tra cui quest’opera di Van Eyck. Siamo negli stessi anni di Brunelleschi, ma nelle Fiandre, un territorio culturalmente ben diverso. Sul fondo si vede uno specchio convesso, entro il quale vediamo i coniugi Arnolfini riflessi, e dunque di spalle, e il pittore che rappresenta se stesso. Il pittore è lì quando la scena avviene, e Van Eyck ci dice qualcosa di importante: va bene la fede, la relazione profonda consustanziale tra il corpo delle persone e il grande corpo divino che è l’universo, ma io pittore garantisco della veridicità di quello che sto raccontando. Infatti, c’è una firma sopra lo specchio che riporta la scritta: Jan Van Eyck fuit hic. Come dire: certifico io, è tutto vero. Si tratta dunque di un passo in più, è tutto vero se io vi dico che è vero: è tutto vero ma non è niente vero perché è arte. In altre parole, la natura è una cosa, l’arte è un’altra cosa. Questo è quello che diranno in seguito i puro-visibilisti: Van Eyck l’aveva già capito. Da lì in poi altri artisti si divertiranno proprio a dire: ma siete davvero convinti che quello che vedete sia la verità? È sufficiente girare quest’opera di 180° per vedere tutt’altra cosa. Si tratta di un gioco manierista della metà del XVI secolo di mettere in discussione le nostre certezze, lavorando attraverso la prospettiva ma capovolgendola: è tutto prospettico, tutto chiaroscurato, tutto realizzato secondo i canoni della buona pittura, ma c’è anche una strizzatina d’occhio, come a dire: fidati ma non fidarti completamente. Pablo Picasso, Ritratto di Ambroise Vollard, 1909-19 Fino ad arrivare a tutte le avanguardie, che di fondo hanno detto esattamente quello. A partire da prospettiva, linearità, chiaroscuro, pittura mitologica, i Salon parigini dell’Ottocento, tutta la produzione nipote del Rinascimento, all’inizio del XX secolo le avanguardie dicono: il nostro cervello funziona diversamente, può funzionare in tanti altri modi, e io artista ti dico che vedo questo. Siamo nel XX secolo, e non possiamo vedere tutto come se fossimo Beato Angelico, e così Picasso ci propone questo Ambroise Vollard esploso. Si diffondono così il Cubismo, ma anche il Surrealismo, l’Espressionismo, etc. Sono anni di grande contrattacco a tutte le certezze rinascimentali. La prospettiva è un grande nemico, come è un nemico il museo. Si cita a tal proposito il Manifesto del Futurismo di Marinetti che vuole chiudere i musei, considerati depositi polverosi. Così fa Picasso. Apollinaire, grande biografo del Cubismo e poeta celebre, scrive: 7 Ancora un piccolo sforzo per liberarsi della prospettiva, del miserabile trucco della prospettiva, di questa quarta dimensione a rovescio, di questo mezzo per rimpicciolire inevitabilmente il tutto. Guillaume Apollinaire, Pittori cubisti, 1913 La prospettiva diventa il nemico, come a dire: ci avete raccontato una realtà che è diversa da quella che noi viviamo e vediamo. Sono tantissimi gli esempi che si potrebbero fare, se ne propongono alcuni. René Magritte, La condizione umana, 1933 e 1935 Magritte lavora tantissimo su questo tema: gran parte dello spaesamento che viviamo guardando le sue opere nasce proprio dal contrasto tra un uso della pittura borghese tradizionale, prospettica e chiaroscurata, e il messaggio complessivo, ovvero questa soglia tra arte e natura costantemente messa in discussione. Non sappiamo dove inizia una e finisce l’altra, e la nostra domanda quando vediamo un pezzo di natura che diventa quadro è che forse è un caleidoscopio di illusioni, e questa natura in cui mi muovo io quando esco di casa chissà se è natura, arte o altro. Maurits Cornelis Escher, Belvedere, 1958 Altrettanto Escher, artista fiammingo autore di una serie di stampe tra gli anni Trenta e Sessanta. Escher lavora usando la prospettiva, ma in modo novecentesco, post-avanguardie. Ci sono pezzi di dipinto perfettamente prospettici, ma c’è qualcosa che non torna, come si era visto in Buoninsegna. Guardando una parte tutto torna, ma spostando lo sguardo di pochissimo non torna più. Cosa è davanti e cosa è dietro, cosa è alto e cosa è basso? Relatività, 1953 Escher ignora la prospettiva lineare e colloca tre punti di fuga al di fuori del quadro, in modo tale che non si possa cogliere l’insieme con un solo sguardo. Lavora con gli strumenti della prospettiva, ma nello spirito di mettere in discussione la nostra capacità di leggere lo spazio prospettico. Ci possiamo passare le ore in questo labirinto di pensiero: qualcuno che sale e qualcuno che scende, come è possibile che la stessa scala venga percorsa in una direzione e nell’altra contemporaneamente. 10 Eleuterio Pagliano, Zeusi e le fanciulle di Crotone, 1899 Pagliano, insieme a tantissimi altri pittori della sua epoca, dipinge Zeusi insieme alle fanciulle di Crotone. Secondo la storia, a Zeusi viene chiesto di realizzare un dipinto in cui fosse raffigurata Afrodite, la dea più bella di tutte. Per realizzare questo dipinto chiama a raccolta le ragazze più belle di Crotone, dove in quel momento lui vive, così da selezionare dei pezzi di ciascuna, assemblando la ragazza più bella. La bellezza può anche essere l’assemblaggio di pezzi di natura: l’arte ha la facoltà di lavorare a partire dalla natura, ma può essere anche una forma di assemblaggio. Controriforma, Accademia di San Luca Durante la Controriforma, di nuovo la gerarchia dei generi cambia. La necessità è quella di ribadire il primato della chiesa cattolica rispetto alla chiesa protestante, elevando il livello della produzione artistica rimuovendo superstizione e ignoranza. L’obiettivo è quello di educare i fedeli con un programma iconografico molto preciso, in cui la chiesa deve tornare a parlare un linguaggio colloquiale con il proprio popolo. I pittori in particolare divengono gli operatori scelti da Federico Borromeo per la nuova missione educatrice: sono anello di congiunzione fra la Chiesa e il popolo. Così, nel 1593 nasce ad hoc l’Accademia di San Luca a Roma, fondata dal pittore Federico Zuccari con l’appoggio del cardinale Borromeo, grande pensatore di questo progetto di propaganda religiosa, allo scopo di formare i pittori. Esiste ancora oggi come istituto culturale importante. Sebastiano Ricci, La visione di papa Paolo III del Concilio di Trento, 1687-88, Musei Civici di Piacenza L’idea è quella di plasmare la vista, che nel progetto controriformista è qualcosa che va rieducato. Tutta la produzione di San Luca è una produzione orientata: la storia religiosa viene estremamente semplificata, raccontata in modo lineare. I pittori sono chiamati a raccontare questa storia in modo attrattivo, valorizzando gli aspetti affettivi, di protezione, il fatto di essere figli di dio, della Madonna, di una grande famiglia in grado di reggere le contraddizioni, non le fiamme dell’inferno e il giudizio universale, ma l’idea di una chiesa che possa essere un luogo attrattivo e di conforto. Le immagini iniziano ad essere selezionate: determinate iconografie vengono espunte, altre valorizzate, in un’operazione di valorizzazione di alcuni accenti rispetto ad altri. In età riformista e tardo-cinquecentesca, con la realtà e con la natura si può giocare in tanti modi diversi. 11 Giuseppe Arcimboldi, Allegoria dell’autunno (1573), Musée du Louvre Da un lato si colloca Arcimboldi, un assemblaggio dolce-amaro, con una componente ironica e scherzosa, ma anche con una componente amara nella riflessione sul confine fra cultura e natura, tra quello che sembra e quello che è veramente. L’immagine è assemblaggio di elementi della natura, viene utilizzata in chiave iper- selettiva e ipercritica: non è più un calco della realtà in stile Zeusi, bensì, più esplicitamente, una sorta di assemblaggio. Caravaggio, Canestra di frutta (1599), Pinacoteca Ambrosiana Dall’altro lato, con un approccio altrettanto filosofico, benché con strumenti diversissimi (le due opere non sono paragonabili!), Caravaggio comunica qualcosa di estremamente simile. La natura esiste, l’uva cresce nel vitigno sulla campagna, ma io pittore faccio un altro mestiere, e il mio compito è dire altre cose che mi stanno a cuore: la vita e la morte, la figura e lo sfondo, e dunque una profondità (all’interno della quale si colloca il pittore), una cornice che taglia il ramo di destra. Caravaggio, in quanto pittore, è libero di selezionare una porzione di natura, e non la mette necessariamente al centro, perché questa natura continua oltre il confine del dipinto. In altre parole, si tratta di operare una selezione: lavora a partire dalla natura, ma con libertà assoluta di interpretare quella natura, che in arte diviene un pretesto per parlare della caducità, della fragilità, della vecchiaia, dell’imperfezione, etc. Metodo galileiano: scuole regionali e quadrerie private A cavallo tra Cinque e Seicento, l’impatto prevalente è quello del metodo galileiano, che determina il primato della ricerca empirica, della vista e dell’ottica: la natura per come la posso effettivamente vedere si divide dall’inganno ottico-visivo. Questo tema dell’inganno attraverso il metodo galileiano viene tematizzato in modo molto più chiaro. Si assiste ad una moltiplicazione dei centri: Firenze non è l’unico polo. Una serie di colpi molto duri vengono inferti al costrutto vasariano: non è più l’epoca delle certezze solide di Vasari, che iniziano a essere messi in discussione. Nella fattispecie, se si lavora in diversi centri, ne consegue che sempre di più vengono valorizzate le scuole regionali, sancendo il superamento della dinamica biografica vasariana. Nascono le quadrerie private. Non esiste ancora il museo cittadino o nazionale (il primo è il Louvre, aperto nel 1793), ma esistono collezioni private: le persone ricche realizzano all’interno delle proprie abitazioni dei piccoli musei: non più la wunderkammer, ma una galleria di sole opere d’arte disposte secondo criteri geografici (le scuole regionali) e cronologici. L’obiettivo è quello di comunicare ed esprimere la propria ricchezza, il proprio potere economico, ma anche lavorare su una categorizzazione della storia dell’arte che tenga conto di queste diverse scuole. 12 Domenico Remps, Scarabattolo, 1690 ca, Opificio delle Pietre Dure, Firenze È molto famoso questo dipinto di Remps, che racconta di questo desiderio privato di raccolta e di esposizione di un insieme di opere che all’epoca era molto soggettivo, orientato dagli interessi del singolo collezionista. Ci sono opere d’arte, insieme a oggetti della natura, strumenti scientifici, oggetti meravigliosi ed esotici, in una sorta di microcosmo che riassuma la complessità del macrocosmo. Le gallerie private non hanno alcuno scopo di categorizzazione del sapere: sono delle espressioni del proprio modo di vedere. L’insieme delle opere diviene così un dispositivo semiotico, un discorso. L’allestimento riguarda non solo il contenuto delle singole opere, ma la relazione che le opere instaurano le une con le altre in base ai loro contenuti, dimensioni, generi. Così, l’occhio può guardare “quasi per una fenestra, o vogliam dire per un orizonte” (Giulio Mancini, Considerazioni sulla pittura, 1621-25). Alla metà del Seicento diventa sempre più chiaro che nella disputa fra natura e pittura, ovvero fra natura e vista/artificio, ha vinto quest’ultima. Il Seicento, nel pieno della stagione barocca, è l’epoca delle deformazioni prospettiche, delle anamorfosi, delle sperimentazioni ottiche, etc. Tanti artisti e architetti barocchi lavorano proprio su questo gioco dell’illusione, attraverso l’artificio architettonico e spaziale, demolendo nell’arco di pochi decenni tutte quelle solidissime certezze di cui la cultura vasariana si era nutrita (realtà conoscibile, storia lineare, etc.), una serie di assunti ottimisti che la cultura seicentesca mette fortemente in discussione. Il Seicento, sulle spalle della cultura galileiana, si interroga su quanti mondi il nostro sguardo possa vedere, ponendosi numerose domande su come funzionano i nostri occhi. Nel momento in cui Brunelleschi va nella Piazza della Signoria, sta realizzando un gioco molto importante in cui in sostanza fa finta che il nostro occhio funzioni in maniera diversa da come funziona. La prospettiva funziona a patto che guardiamo con un occhio solo, che consideriamo curve le linee rette, etc. Come diceva Panofsky, si tratta fondamentalmente di una forma simbolica: la prospettiva è un insieme di negoziazioni. In altre parole, è possibile guardare in chiave prospettica, ma con la consapevolezza che è una grande illusione. Per fare arte abbiamo bisogno di convenzioni, e la prospettiva richiede una serie di compromessi. Nel Seicento si inizia a studiare effettivamente come funziona l’occhio umano, non solo in modo empirico ma in modo sempre più scientifico (es. tavolo anatomico dell’Università di Bologna). Benché bisognerà arrivare al Positivismo ottocentesco per esiti ancora più scientifici, le prime forme si hanno già dall’Umanesimo tardo-cinquecentesco (es. Parmigianino, ritratto con specchio convesso). Un riferimento è lo studio sulle luci e ombre di Athanasius Kircher, Ars magna lucis et umbrae, pubblicato nel 1646. Giovan Pietro Bellori Ci sono alcune figure cardine della storia della critica d’arte. Una è certamente Giovan Pietro Bellori, che nel 1672 pubblica Vite de’ pittori scultori e architetti moderni, spingendosi più vicino alla sua epoca (Annibale e Agostino Carracci, Fontana, Barocci, Caravaggio, Rubens, Van Dyck, Duquesnoy, Domenichino, Lanfranco, Algardi, Poussin). Tuttavia, non sono presenti né Bernini, né Borromini. Bellori riprende un idealismo platonico, il classicismo di Zeusi: l’arte raffigura gli uomini non quali sono, ma quali dovrebbero essere. L’idea è quella di un’imitazione selettiva: contemplazione della natura ispira delle idee, che non sono presenti a priori nella mente umana, e l’arte rappresenta quelle idee in una chiave selezionale (non la natura com’è, ma selezionata). 15 è libero di esprimere la propria libertà creativa: deve raffigurare il fatto che la Spagna possa sedersi al tavolo della proto-modernità, dell’Illuminismo, della ragione, cui la Spagna vuole sedere. Nonostante la Spagna voglia sedere al tavolo della luce, tuttavia, come dirà Goya successivamente, forse non è pronta: c’è ancora superstizione, fiducia nel regno delle ombre. Il Parnaso, studio per l’affresco a Villa Albani, Roma, 1750 ca. In quando attore di questo progetto, Mengs realizza un affresco con il Parnaso per Villa Albani a Roma. A metà del Settecento, il modo in cui dipinge sembra un tema scritto bene, senza alcuna libertà: l’idea è quella di un’adesione al testo scritto anni prima di lui. Mengs sta realmente eseguendo un compito, che sia a Villa Albani a Roma o alla corte reale a Madrid. La critica militante di Denise Diderot Nel frattempo, in Francia nasce una polemica fra filosofi e connoisseur. Fino a Diderot, nel progetto politico è assolutamente evidente ciò che è di qualità e ciò che non lo è: è di qualità ciò che si attiene al dogma classico, non lo è ciò che si differenzia da quest’ultimo. Diderot lavora in una chiave più soggettiva, esplorando più in profondità questo confine, in particolar modo screditando i connoisseur. Nella piena stagione dei lumi, Diderot afferma che non gli interessa il loro sapere di nicchia e soggettivo, bensì un sapere più condivisibile, basato su un criterio più largo e condiviso. In particolar modo, inizia una riflessione interessante su ciò che viene esposto nell’ambito dei Salons parigini, l’ago della bilancia che stabilisce la qualità della produzione pittorica. Si tratta di un appuntamento annuale organizzato dall’Académie Royale, in cui viene raccolto ciò che la giuria dell’Académie Royale giudica migliore. La grande novità dei Salons è il fatto che si tratta di un evento popolare cui ha accesso tutto il popolo parigino: uomini, donne, bambini, curiosi, esperti, critici d’arte, mercanti, etc. Si tratta del primo evento di massa che raccoglie intorno all’arte persone che non necessariamente sono esperti o artisti, da cui nasce una stampa nuova, una stampa di cronaca, basata su vignette, anche satiriche (specializzazione di alcuni artisti che prendono in giro i quadri, o il pubblico). Questo è profondamente nuovo: i Salon sono un vettore che avvicina la cultura popolare e l’arte. Diderot pubblica una serie di cronache dei Salons parigini sulla rivista La corréspondance littéraire, in cui rivendica la necessità di uno sguardo filosofico, capace di penetrare l’essenza della bellezza in modo del tutto indipendente dalle leggi del mercato e del gusto, nonché dalle manie dei collezionisti. In sostanza, il suo sforzo è volto a togliere tutto l’aspetto di superstizione, maniacale e gli investimenti affettivi dati dai connoisseur e dai collezionisti, tutto un mondo che ai suoi occhi appare superstizioso, poco colto, poco attrezzato, che cerca nell’arte un elemento magico. Il suo lavoro cerca di essere razionale, di mettere in evidenza i meccanismi dell’arte, che lui conosce perché si muove in quel mondo, evidenziando appunto le manie dei collezionisti, i divismi, i magheggi dietro questo mondo, etc. Si tratta di letture certamente indigeste, ma molto interessanti, in quanto molto vicine alla critica d’arte per come la intendiamo oggi: l’osservatore è libero, ed anzi è investito del dovere di svelare i meccanismi del mondo 16 dell’arte, privandolo di tutta una componente antica, polverosa e misticheggiante, e raccontandolo in chiave razionale. Queste sono le parole di Diderot, con le quali fornisce la chiave di interpretazione del suo metodo, esplicitando il criterio con cui descriverà le opere: Ti descriverò i quadri e la mia descrizione sarà fatta in modo tale che con un po’ di immaginazione e di gusto sarà possibile renderli reali nello spazio e collocarvi gli oggetti, quasi come se li avessimo visti sulla tela. Del resto, non dimenticate che non garantisco nulla né sulle mie descrizioni, né sul mio giudizio: le descrizioni, perché non esiste al mondo memoria che possa riportare fedelmente tali e tante composizioni diverse; il giudizio, perché non sono un artista e neppure un amatore. Dico soltanto quello che penso e lo dico in tutta franchezza. Se mi capita talora di contraddirmi, è perché qualcosa mi ha colpito in modo contraddittorio, ma sono sempre imparziale, sia quando si tratta di fare un elogio, sia quando si tratta di criticare. Nella descrizione di un quadro, enuncio innanzitutto l’argomento; passo poi al personaggio principale, da lì ai personaggi subordinati dello stesso gruppo; quindi ai gruppi collegati con il primo, lasciandomi guidare dai loro legami; poi alle espressioni dei personaggi, ai tendaggi, ai colori, alla distribuzione di ombre e luci, agli accessori, infine all’impressione generale. Se seguo un altro ordine, è perché la mia descrizione è stata fatta male o il quadro ha una composizione maldestra. Denise Diderot, Pensés détaches sur la Peinture, la Sculpture, l’Architecture et la poésie pour servur de suite aux Salons 28/02/2023 Diderot esplicita il modo in cui legge i dipinti, secondo un metodo di lettura fondamentalmente razionale. Chiaramente si tratta di un trucco, in quanto nessuna lettura di un’opera d’arte sarà mai oggettiva. Oggi sappiamo che i nostri cervelli funzionano in modi molto diversi, al di là della cultura e dell’educazione: da un punto di vista percettivo, l’atto visivo è un atto profondamente radicato nella chimica di ciascuno di noi. Tuttavia, è interessante il fatto che Diderot giochi a carte scoperte, spiegando in che modo leggerà il dipinto, secondo che ordine, etc. È un esercizio che potremmo fare anche noi osservando un’opera e annotando la modalità con cui lo facciamo (es. cosa notiamo prima e cosa notiamo dopo), confrontando il metodo che ciascuno segue nell’osservare un’opera d’arte. Muoversi nel tempo e nello spazio: il Grand Tour Negli anni di Diderot, uno degli strumenti della storia della critica d’arte è il viaggio, precisamente il Grand Tour, inizialmente appannaggio dell’aristocrazia benestante (richiede tempo, e quindi essere senza lavoro, soldi per il trasporto, etc.). In un secondo momento, il Grand Tour si estenderà ad altre classi sociali, soprattutto attraverso il sistema della premialità, come ad esempio il Premio di Roma, che consente a generazioni di artisti e architetti francesi di formarsi a Roma e di poter vivere all’Accademie de France semplicemente grazie a borse di studio. In questa immagine si vede Goethe, grande amante del Mediterraneo e della classicità, che incorpora questo sentimento della nostalgia infinita verso questo Mediterraneo sognato, immaginato, profondamente idealizzato. Questa idea di classicità avrà delle conseguenze molto importanti sulla museologia tedesca. In questo senso, è importante sottolineare la piegatura che la critica d’arte dà alla storia dell’arte, modellandola secondo le proprie istanze di quel momento. La storia dell’arte è da sempre piegata a dire qualcosa che serve alla contemporaneità. Anche oggi, la storia della critica d’arte è piegata a capire di cosa abbiamo bisogno in questo momento: la lettura è sempre 17 profondamente orientata, molto diversa da quella anche solo di vent’anni fa, in quanto la storia della critica d’arte è sempre contemporanea. La classicità viene riletta alla luce di una serie di acquisizioni recenti. La classicità dei viaggiatori del Grand Tour è una classicità a tema, orientata, che ha bisogno di far cantare le pietre in un modo che suoni utile alle contemporaneità, per un insieme di istanze che sono al tempo stesso culturali, politiche, sociali e filosofiche, come avviene sempre in questi momenti di grandi salti cognitivi. La nascita dell’archeologia e la “moltiplicazione delle origini” È importante fare due premesse, una sul concetto di nascita dell’archeologia, una sul concetto di moltiplicazione delle origini. Per quanto riguarda la nascita dell’archeologia come disciplina scientifica, l’esplorazione del passato è sempre esistita: anche la classicità esplorava le tracce di ciò che l’aveva preceduta, ma in questo momento nasce un’archeologia considerabile scientifica. È interessante che l’archeologia come disciplina scientifica vera e propria sia nata pochissimo tempo fa, rispetto alla lunghissima storia dell’umanità: questo significa quello che sappiamo è frutto delle ricerche operate dalla metà del XVIII secolo fino ad oggi. Gli Stati che vanno plasmandosi per diventare Stati-nazione si dotano di strumenti collettivi, e questo vuol dire che gli scavi pertengono a una certa cultura: ci sono scavi fatti dai francesi in Egitto, dagli inglesi ad Atene, etc. In altre parole, nasce una forma di colonialismo nella pratica archeologica: lo scavo archeologico diviene una sorta di ambasciata inglese in Grecia, una cosa certamente problematica sul piano diplomatico, e su cui ad oggi la disciplina archeologica si sta interrogando. Gli scavi del palazzo di Cnosso, ad esempio, costituiscono una sorta di grosso statement, un’affermazione politica da parte degli inglesi, che vogliono esplicitare l’autonomia territoriale di Creta rispetto all’Antica Grecia. Si tratta a tutti gli effetti di un’affermazione politica: il fatto di aver aiutato Creta a liberarsi del fardello dell’eredità greca fa di loro dei paladini della libertà. In questo senso, dunque, accentuare in chiave politica l’originalità dell’architettura cretese rispetto a quella greca diventa un’affermazione assolutamente politica. Un libro interessante che tratta l’argomento è Decolonizzare il patrimonio di Maria Pia Guermandi. Leggendo la nascita dell’archeologia in una chiave in un certo senso psicanalitica, questa porta a galla una sorta di grande rimosso collettivo: quello che emerge dalle stratificazioni, da tutto quello che la terra si è mangiata nel tempo, infatti, racconta una storia diversa da quella che si era raccontata fino ad allora. Quelle che fino ad allora erano state considerate le origini, in un certo senso considerabili delle bandierine, segni dei luoghi in cui tutto è nato, sono collocate in punti diversi sulla mappa rispetto a quelli che fino a quel momento erano stati considerati i punti generativi. In altre parole, il mito per cui le più grandi intuizioni della storia dell’arte nascono nell’Atene di Pericle viene assolutamente messo in discussione, poiché si ritrovano altre origini, altre classicità prima della classicità, altri luoghi che fino ad allora erano nella periferia della mappa e adesso vengono messi al centro. Si tratta di un procedimento rivoluzionario sul piano del pensiero: il canone ribadito dall’asse classicità- Rinascimento-Neoclassicismo si moltiplica e si articola. È dunque necessario superare l’intelaiatura della lettura vasariana e winkelmanniana, individuando altri centri in cui si trovano altre origini. Il Medioevo non è l’epoca dei secoli bui: ci sono dei picchi luminosi, e tutto questo non sarebbe stato scoperto senza l’archeologia, lo strumento che permette di leggere con chiarezza quello che sta succedendo. Il conte di Caylus Incisore e collezionista, il conte di Caylus è uno dei fondatori della moderna archeologia. Compie il Grand Tour nel 1714, in una stagione ancora precoce. Il Grand Tour porta rigorosamente dal nord dell’Europa al Mediterraneo, in genere sicuramente passando per Roma e la Magna Grecia. Ci si spinge 20 Le campagne di Napoleone disegnate da Dominique Vivant Denon Le campagne d’Egitto di Napoleone, a cavallo tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, sono un altro vettore di modernità potentissimo, oltre che un fondamentale strumento di orientamento del gusto. Napoleone ha un’intuizione potentissima: partire per le sue campagne coloniali di conquista portando con sé da Parigi dei disegnatori, che raccontino quasi in tempo reale (appena tornati a Parigi), cosa è stato scoperto. Questa campagna di conquista territoriale viene raccontata come anche una campagna di salvaguardia culturale, secondo una retorica potentissima: solo grazie a noi francesi questi manufatti possono essere scoperti, studiati, misurati, raccontati e conservati (ovviamente al Louvre), etc. Tutto questo discorso è molto delicato, controverso e problematico, e oggi questi musei che ancora conservano monumenti egizi sono letti sicuramente con un altro tipo di guardo. Protagonista di questa campagna di raccolta è Dominique Vivant Denon, generale e artista, autore di queste bellissime stampe, con il titolo Voyage dans la Basse et la Haute. Égypte pendant les campagnes du Général Bonaparte (1802), in cui descrive in modo pre-fotografico non soltanto le antichità, ma anche le persone, con una prima attenzione di carattere antropologico: l’attenzione alla diversità inizia a prendere una piega che riguarda non soltanto il costruito ma anche le persone. La diffusione dell’egittomania A partire dall’Ottocento si diffonde soprattutto in Francia, e da lì nel resto dell’Europa, la cosiddetta egittomania: arredi, abiti, gioielli iniziano a seguire il gusto della decorazione bidimensionale, secondo i canoni di rappresentazione egizi, che non lavorano sul naturalismo ma su altri tipi di grammatiche. Recueil de décorations intérieures (1812) di Charles Percier e Pierre Fontaine immette nel mercato, e non solo nei gusti dei francesi ricchi, ma in tutto il mercato degli arredi, della moda, delle acconciature, etc., un patrimonio di immagini che avrà un successo straordinario. Ancora oggi, visitando la reggia di Versailles, così come in tante residenze estive della corona francese, si ritrovano numerose tracce dell’Egitto. 21 Queste tavole costituiscono un vero e proprio repertorio: il libro non ha il solo scopo di mostrare la bellezza del gusto egizio, ma costituisce una sorta di postal market ante-litteram cui ispirarsi per realizzare ambienti ispirati a questo tipo di linguaggio. Altri esempi sono la tappezzeria, realizzata secondo la manifattura di Oberkampf, con temi a piramide, palme e oasi, oggetti di arredamento, come questa fruttiera, la cui manifattura è ispirata a quella di Sèvres, e numerosi mobili di sapore egittomaniaco. Si arriva così alla moda che sarà una grandissima leva di questo gusto: lo stile impero. In ordine: tunica mamelucca, abito di cotone e seta egiziani, vestito “alla sultana”. Chiaramente, in tutti questi casi si tratta di un Egitto immaginato dalla Francia: c’è sempre una dimensione manipolatoria molto importante. Quello che è interessante è il pensiero che è dietro questa pratica, che in ambito antropologico si chiama “appropriazione culturale”: va di moda vestirsi come si immaginava che Cleopatra si vestisse, piegando questo stilema al gusto della mondanità parigina. 22 A tal proposito, è interessante fare una piccola parentesi dedicata a un’artista contemporanea che permette di leggere più in profondità questi temi, e anche con una maggiore contemporaneità. È interessante affrontare il lavoro di artisti contemporanei, proprio per capire come quella riflessione di Vivant Denon abbia degli strascichi e degli esiti molto attuali, molto rilevanti rispetto al modo con cui noi possiamo guardare alla storia. Sara Sallam Sara Sallam è una giovane artista egiziana che ha esposto alcune sue opere recentemente al museo egizio di Torino. Il suo lavoro è molto pertinente rispetto al nostro discorso. Tutto il suo tema è come rileggere da egiziana il patrimonio egizio disseminato e disperso in tanti musei europei: come si sente un egiziano sapendo che il suo patrimonio si trova più facilmente al Rijksmuseum Museum di Amsterdam che non in Egitto? L’arte contemporanea rilegge la storia dell’arte e il modo in cui i pesi (le parole, i silenzi, i valori) sono stati distribuiti dalla critica d’arte lungo l’asse pseudo-lineare della storia. Questa riflessione ha degli esiti molto attuali, molto rilevanti rispetto al modo con cui possiamo guardare alla storia. A Tourist Handbook for Egypt Outside of Egypt Nel suo libro A Tourist Handbook for Egypt Outside of Egypt, una guida turistica per l’Egitto fuori dall’Egitto, Sallam ha mappato le strade e i luoghi che sono stati nominati a seguito delle campagne napoleoniche. Un esempio è via del Cairo, una via centrale di Parigi, la quale, così come tante altre vie, non è dedicata davvero al Cairo, all’Egitto, bensì alle campagne napoleoniche in Egitto: c’è un sottotesto implicito che attraverso il suo lavoro lei esplicita. Ha quindi realizzato questa guida, nel classico formato delle guide sette-ottocentesche, dunque richiamandosi anche al tema del Grand Tour, andando a lavorare proprio su questa frizione. In quest’immagine, ad esempio, immagina i cammelli, una immissione apparentemente storicizzante, ma in realtà molto aggressiva sul piano visivo, dell’Africa in Francia. Home Outside of Home Un altro suo lavoro molto interessante è Home Outside of Home, in cui giustappone il luogo in cui alcuni reperti archeologici si trovano oggi, tipicamente le diverse parti dell’Europa in cui si trovano numerosi obelischi, provando a riportarli a casa attraverso il fotomontaggio: giustappone la collocazione attuale con un’idea di casa, di ambiente “naturale” per quei manufatti, con tutta la sua rovina, decadenza e mancanza di manutenzione. Anche questo è un tema importante: una delle grandi e automatiche risposte alla richiesta di restituzione è che in Europa sono mantenuti e conservati in condizioni migliori. Questo è un grande classico della questione: meglio al British Museum perché chissà se in Ghana sarebbero bravi come noi a conservarli. 25 Chiusa questa parentesi, andiamo avanti nella lettura del modo in cui l’archeologia ottocentesca costituisce un capitolo fondamentale della storia della critica d’arte, e in che modo quel modo di fare archeologia abbia veicolato e veicoli il modo in cui oggi guardiamo alle opere d’arte nei musei. In questo senso, nulla di tutto ciò che vediamo è neutro: i diversi modi in cui si è fatta archeologia nell’Ottocento veicolano i modi in cui guardiamo l’arte oggi. Due scoperte ottocentesche che cambiano il paradigma Abbiamo tracciato velocemente questa nascita dell’archeologia come disciplina fondamentalmente europea: sono soprattutto le scuole prima di tutto inglese e tedesca, e poi francese e italiana, a creare i propri cantieri in Medio Oriente, Maghreb, Grecia, etc., in qualche modo piantando una “bandierina nazionale”. Gli scavi nella Grecia Classica (Peloponneso e Creta), ad esempio, sono prevalentemente inglesi, propaggini che partono da una volontà assolutamente nazionale, e tutto questo fa sì che il viaggio di alcuni reperti verso un certo paese o un altro sia determinato dal fatto che la scuola che ha scavato sia inglese, tedesca, francese o italiana. A cavallo fra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, due sono i «tradimenti» della linea di ricerca estetica derivata da Winkelmann e valida per tutto il Settecento e oltre, che leggeva la classicità come un tutto omogeneo, espressione di un’idea pura di bellezza e di un’estetica assoluta: 1. La scoperta che non si trattava di originali ma di copie di età ellenistica o romana Progressivamente, nell’arco dell’Ottocento emerge la consapevolezza che le statue emerse dagli scavi molto spesso non erano originali, bensì copie di età ellenistica o romana. Il mito del pezzo unico si sgretola progressivamente nell’Ottocento, quando si scopre che di Discobolo non ce n’è solo uno, ma cinque, otto, dodici. Così, ci si inizia a chiedere che tipo di circolazione hanno avuto e come risalire all’originale: e se non ci fosse un originale, sarebbero da considerare tutti come delle copie di minor valore? O ancora: il Discobolo del British Museum ha più o meno valore del discobolo dell’Altes Museum di Berlino? Etc. Questo scardinamento della logica del pezzo unico, del capolavoro, molto insita nella cultura romantica, cambia radicalmente il modo in cui gli uomini dell’Ottocento guardano la classicità. Come si sa oggi, il vero capolavoro era la matrice, ovvero la fusione in bronzo: un pezzo difficile, costoso, rischioso, sofisticato dal punto di vista tecnologico e che richiedeva uno sforzo umano complesso (ci lavorano circa 30 persone), a partire dal quale nei secoli successivi la classicità trarrà delle copie in marmo. Chiaramente, la copia in marmo non è banale da realizzare, in quanto richiede enorme maestria e capacità di lavoro, tuttavia, la può realizzare una sola persona o una piccola bottega. Successivamente, queste copie inizieranno a circolare nel Mediterraneo, dove vengono vendute e comprate come status symbol. A partire da questa scoperta, nel 1830 circa inizia una fase dell’archeologia in cui si ricostruisce la genealogia delle opere antiche, distinguendo fra originali e copie e articolando queste ultime lungo il tempo. Si parla nello specifico di archeologia filologica, inizialmente diffusa soprattutto in ambito tedesco, il cui lavoro è quello di sovrapporre le copie alle fonti letterarie antiche (Plinio, Pausania, Luciano, Ateneo…), identificando le prime a partire da un originale (es. se una statua ha un puntello è necessariamente una copia in marmo dell’originale in bronzo). Dagli originali, tipicamente del V sec a.C., 26 vengono tratte una serie di copie lungo tutti i secoli dell’ellenismo e della romanità, spostando il paradigma della lettura delle opere d’arte in modo imponente. Lo storico dell’arte Salvatore Settis ha studiato in modo approfondito questo fenomeno, e a lui si deve una lettura meravigliosa della classicità, in particolare nel suo libro Futuro del “classico”, che rimette in prospettiva, in parte anche scardinandole, alcune delle nostre consapevolezze. Nel 2015, Settis è curatore della mostra Serial Classic. Moltiplicare l’arte tra Grecia e Roma alla Fondazione Prada, che espone una serie di statue in marmo datate tra il I a.C. e il II d.C. provenienti da Parigi, Napoli, Roma, Vaticano. Il percorso espositivo riunisce più di 60 opere e si apre con un approfondimento sugli originali perduti e loro copie multiple, rappresentate da due serie particolarmente note come il Discobolo e la Venere accovacciata. Quest’immagine è riassuntiva di tutto questo concetto: all’idea di classico tendiamo ad associare quella di unicità, ma in nessun periodo dell’arte occidentale la creazione di copie da grandi capolavori del passato è stata importante quanto nella Roma della tarda Repubblica e dell’Impero. 2. La scoperta che i templi e le statue erano colorati L’altro grande colpo inferto alla lettura della classicità nell’Ottocento è la scoperta che le statue classiche non erano bianche, pure e immacolate come aveva sostenuto Winkelmann, bensì colorate con i colori più vivaci che la natura mettesse a disposizione: il blu dei lapislazzuli, il rosso della cocciniglia, il verde di una serie di radici, etc. Tutta quella costruzione mentale, quel costrutto filosofico di Winkelmann sulla purezza, sull’equilibrio, sull’armonia, su cui era stato costruito un sistema di pensiero potentissimo (basti penare a Canova), si scopre progressivamente essere solo un costrutto: è il modo in cui l’epoca di Winkelmann aveva bisogno di leggere la classicità, selezionandone un pezzo per comunicare alla propria epoca un certo set di valori, che in questo caso erano anche morali e politici. L’archeologia, lavorando da minimi frammenti, porta alla scoperta di una nuova verità: queste statue erano in realtà colorate. Questo aiuta a capire come il nostro sguardo sia stato plasmato per decenni su Winkelmann: la classicità su cui ci siamo formati, e che in qualche modo persiste nel discorso comune, così come tutta la tradizione del Rinascimento, si è basata sul biancore, e per noi oggi nel 2023, così come per gli archeologi di metà Ottocento, voleva dire fare i conti col fatto che il paradigma era in realtà potentemente diverso. Questo cursore della storia, e conseguentemente il nostro modo di vedere, si sposta a seconda delle consapevolezze che abbiamo in una certa epoca, ma ancora di più: a seconda di quello che possiamo vedere in una certa epoca, di quello che una certa epoca ammette o meno di poter vedere. Oggi leggiamo l’egittomania con un certo sguardo grazie a Sara Sallam, ai musei egizi, alla storia della critica d’arte, che oggi ci consentono di vedere anche il tipo di violenza e il tasso di colonialismo insiti nelle pratiche archeologiche: la nostra epoca ci consente, anzi ci chiede, di guardare anche con quella lente. 27 Negli anni centrali del Settecento vengono scavate Ercolano (1738-66) e Pompei (1748), nelle quali emerge una classicità che prima non si immaginava: si incontra un certo tipo di classicità molto colorata (es. affreschi delle ville, fondi rosso pompeiano), un apparato visivo molto complesso in cui peraltro si intrecciano culti mediorientali e culti classici del Pantheon greco-romano. A questo punto è necessario parlare di un argomento riguardante una questione importante, ovvero quella della restituzione, prendendo ad esempio il caso dei marmi del Partenone, noti anche come “marmi Elgin”, che ad oggi si trovano sparpagliati in diverse parti del mondo (il grosso si trova tra il museo dell’acropoli di Atene e il British Museum di Londra). I marmi di Lord Elgin Il caso della richiesta di restituzione dei marmi Elgin l’esempio più noto e controverso, ricapitola tanti altri episodi minori che possono essere raggruppati sotto questo caso di studio. Nel 1799 Elgin aveva un incarico diplomatico a Costantinopoli, la capitale turca, dove lavorava come Ambasciatore dell’Inghilterra. All’epoca, Atene era un lontano avamposto dell’Impero ottomano. Mentre si trovava a Costantinopoli, Elgin dà ai suoi uomini l’ordine di staccare e portare a Londra un centinaio di sculture e frammenti scultorei di marmo prelevati dal sito dell’Acropoli di Atene, mandando ordini a distanza e finanziando l’intera operazione. Breve storia dei marmi La maggior parte di queste sculture facevano parte del Partenone, l’edificio centrale in cima all’Acropoli, e si dividono in tre tipologie: 1) le statue monumentali di divinità greche provenienti dai frontoni, 2) le metope (altorilievi di formato quadrato) provenienti dalle pareti esterne e 3) i frammenti del fregio a bassorilievo che correva lungo il naos. La rimozione delle sculture si può contestualizzare nell’ambito dei cambiamenti sopravvenuti nelle epoche successive alla costruzione. Alla fine del Settecento, infatti, l’edificio non era certamente integro, poiché era stato oggetto di numerosi riusi creativi, e giaceva nel totale disinteresse di un mondo che all’epoca aveva altre preoccupazioni, non la salvaguardia patrimoniale. Eretto inizialmente come tempio dedicato alla dea Atena, il Partenone diventò in seguito una chiesa, poi una cattedrale e una moschea, subendo ogni volta una serie di modifiche strutturali che con il tempo finirono per deteriorare le parti scultoree. Il danno più grave si verificò durante un disastroso assedio della città da parte dei veneziani nel 1687, che bombardarono l’Acropoli e centrarono il naos del Partenone, usato dagli ottomani come deposito di polvere da sparo. L’esplosione mandò in frantumi gran parte del tempio, e da quel momento l’edificio divenne una rovina. Il documento principale che sembrava consentire la rimozione fu redatto da un alto funzionario ottomano a Costantinopoli nel luglio 1801 e indirizzato al governatore e alla massima autorità giudiziaria di Atene. Che si trattasse o meno di un firmano ufficiale, la lettera si rivelò convincente per la burocrazia turca. All’epoca il documento venne tradotto in italiano a beneficio degli incaricati di Elgin, e questa traduzione, oggi, è tutto ciò che ci resta. Il fatto che dei funzionari locali abbiano effettivamente permesso la rimozione di sculture per un periodo lungo tre anni significa che un tacito assenso di qualche tipo era stato con tutta probabilità accordato. È quasi certo che le attività di Elgin avessero il benestare delle autorità ottomane. 30 infatti, non esisteva ancora un equivalente del British Museum, che era lì da ben prima dell’arrivo dei marmi di Elgin, e per questo motivo la Germania decide di dotarsi di un edificio analogo. Allo stesso modo, Thorvaldsen si pone come alter ego di Canova, schierandosi in favore di un’accentuazione purista, di una valorizzazione di una pretesa qualità di ingenuità e incorrotta purezza. Nell’immagine si vedono alcuni disegni di von Klenze nel momento in cui viene costruita la Glyptotek di Monaco di Baviera. Ovviamente, il codice è neoclassico: si tratta di una sorta di immaginario tempio riletto alla luce delle sovrapposizioni storiche, un edificio simmetrico, con il suo pronao, il suo frontone, con la sua grammatica classica. In generale, per tutti i primi anni del XIX secolo si lavora in questo modo: l’epoca esprime il bisogno di ritornare a una classicità in larga parte immaginata. Gli edifici realizzati secondo la grammatica di quegli anni, infatti, erano caratterizzati da una compresenza tra un codice classico e un codice rinascimentale. Oggi per noi sono due mondi profondamente diversi, ma osservando questa sezione si potrebbe definire l’edificio una sorta di Pantheon riletto in chiave rinascimentale: un po’ di Grecia, un po’ di Roma, un po’ di Rinascimento. Tutto ciò è esito di quella tessitura forte della storia dell’arte, che per noi oggi è ancora fortemente presente, per cui i momenti alti vanno da Fidia con gli architetti del Pantheon, a Raffaello e alla classicità, e da lì al Settecento. Questa linea solida è una struttura su cui noi ancora oggi siamo chiamati a lavorare, e costituisce in larga parte il modo in cui guardiamo alla storia dell’arte e dell’architettura. Nel modo in cui è stato realizzato vediamo questa sorta di strano codice: un basamento fondamentalmente raffellesco, cinquecentesco (idea della nicchia con la statua tipicamente rinascimentale), su cui è stato “appoggiato” un frontone di tempio, un palinsesto classicheggiante. Si tratta chiaramente di un manifesto, attraverso il quale la Germania vuole affermare la sua consapevolezza dei termini del dibattito, ponendosi come una potenza economica e culturale contrapposta a quella inglese. A sinistra si vedono le statue dei due frontoni del tempio di Atena Aphaia risarcite da Thorvaldsen, che ha aggiunto gli arti mancanti, mentre a destra si vedono le statue per come sono osservabili oggi. Nell’immagine di sinistra non viene dichiarato quale parte è autentica e quale no, perché l’effetto che si voleva raggiungere era quello di unità visiva, e solo nel Novecento si decide di mantenere solo ciò che è originale, a prezzo di una lettura meno facile. 31 A un certo punto del XX secolo, precisamente 1967, viene presa la decisione di riportarle allo stato originale, e i restauri di Thorvaldsen vengono espunti. Gli anni Sessanta-Settanta sono anni fondamentali sul piano della rilettura e della rinegoziazione dei dati storici. Così è come li vediamo oggi: mutili, con arti mancanti, così come sono stati trovati dagli archeologi. Le staffe metalliche che tengono insieme questi corpi, fatti di assenze e di presenze, sono molto evidenti e non sono mimetizzati, come a dire che è un intervento e una lettura che richiede un grande contributo umano. 09/03/2023 Lavoro di gruppo Motivazioni per non restituirle - Dovrebbero rimanere al british perché, nonostante le tecnologie contemporanee, sarebbe rischioso trasportarle in quanto rischierebbero di danneggiarsi ulteriormente. - Restituirle legittimerebbe l’avanzamento di richieste di restituzione potenzialmente da parte di tutte le opere che sono custodite all’interno dei musei e che non sono geograficamente o culturalmente legittimate. - A livello economico e turistico significherebbe una perdita ingente nei confronti dell’Inghilterra, oltre al costo effettivo che implicherebbe l’operazione di spostamento. Motivazioni per restituirle - Sul piano etico sarebbe corretto che ritornassero nel loro luogo d’origine soprattutto in quanto testimonianza di un passato storico, politico e religioso del popolo greco. - Nell’ottica di restaurare il tempio di Nike sono essenziali per il completamento dell’operazione - Il documento di vendita a cui ci si appella non è un effettivo documento legislativo. - Non è attribuibile a nessuno il possesso del Partenone e dunque non è concepibile un atto di vendita che prevede un venditore e un acquirente. Una possibile soluzione sarebbe, in accordo con quanto sostenuto nel libro, il compromesso: restituire una parte di marmi affinché possano essere annessi al tempio di Nike e mantenerne una parte al British Museum affinché possano rimanere come testimonianza storica. Un’alternativa potrebbe essere cedere alla Grecia l’intero patrimonio marmoreo, affidando al British Museum la restaurazione. I musei: luoghi di formazione dello sguardo e palestre per la critica d’arte delle origini (XVIII-XIX sec.) L’ordinamento museale È importante sottolineare il processo attraverso cui si lavora sul concetto di organizzazione del sapere e di ordinamento museale. Il Settecento, secolo dei Lumi e dell’Illuminismo, si fonda sull’utopia di poter governare il conoscibile etichettandolo e catalogandolo, contrapponendosi al secolo precedente, un Seicento letto come luogo della meraviglia, del non-ponderabile, del non-misurabile. Al contrario, il 32 Settecento sente la necessità di lavorare su categorie commensurabili, su tutto ciò che può essere nominato, misurato, governato. L’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert, così come tutto l’Illuminismo, lavorano proprio su questa organizzazione del sapere per trasformare il caos in cosmos, inteso come spazio ordinato. Questa grande operazione ciclopica trova nel museo un braccio armato fondamentale: è esattamente il tipo di strumento che serve, in quanto permette di tradurre il concetto in una forma plastica. Il museo, che già esiste ma in tutt’altre forme (collezione, accumulo di merabilia, etc.), prende adesso la via del discernimento, della separazione, dell’individuazione, dando origine alla grande stagione epica della catalogazione. In questo momento storico nasce inoltre un approccio scientifico alla catalogazione, da cui si svilupperanno progressivamente lungo tutto il Settecento e Ottocento delle forme di descrizione e catalografiche normate e condivise. Ad oggi i musei lavorano con delle norme universali, tali per cui la scheda di descrizione di un oggetto è condivisa a livello mondiale, e non solo nazionale: esistono dei parametri che sono frutto di un lavoro di catalogazione universale (Unesco, International Counseling Museum, etc.). L’esito di questo colossale lavoro di nominazione, individuazione, rappresentazione e descrizione viene reso per quanto possibile pubblico attraverso la stampa. Oggi, la maggior parte dei siti museali che riflettono sul tema della trasparenza pubblicano per intero tutti i loro documenti interni. Alcuni musei fanno della pubblicazione dei propri documenti di lavoro un vero e proprio manifesto (es. musei che pubblicano il proprio bilancio in home page). Quest’onda nasce esattamente a quest’altezza. Alessandro Capponi: lo storico d’arte come tecnico Nella prima metà del Settecento, precisamente nel 1733, nasce il museo Capitolino, collezione papale risalente al XV secolo, aperta al pubblico a seguito dell’acquisizione della collezione di statue e ritratti del cardinale Albani ad opera di Clemente XII. Il museo viene ordinato dal tecnico Alessandro Capponi. Anche questo è interessante: si individua una figura professionale deputata a svolgere questo lavoro in virtù della sua conoscenza pregressa, che non è più il collezionista o l’appassionato, ma un vero e proprio tecnico, portando alla nascita della figura dello storico dell’arte come tecnico (non critico, non interpretativo, non letterario). Oltre a realizzare l’ordinamento della collezione, Capponi si occupa di redigere un catalogo con la funzione di rendere pubbliche le opere conservate all’interno di quella collezione. Il catalogo ha anche la funzione di contare ciò che appartiene al museo in quel momento storico, operando un censimento dal valore anche tutelativo. Questi sono anni in cui la tutela dei beni culturali è ancora agli inizi: si pensi a quanto fatto da Napoleone. Per questi motivi, il catalogo è un elemento fondamentale di questa episteme che va configurandosi all’inizio del Settecento: nominare, catalogare, mappare e rendere pubblico. Grazie alla stampa vengono descritte le singole opere, tanto in forma visiva quanto in forma testuale: esattamente il concetto di catalogo come oggi lo conosciamo nasce in questo momento storico. Étienne La Font de Saint-Yenne: critico d’arte militante Contemporaneamente, nasce anche un’altra attività, più militante e con minore velleità scientifica, portata avanti da alcuni uomini (sono tutti maschi in questa stagione storica, per le donne dovremo aspettare gli anni Trenta dell’Ottocento), che danno delle potenti spallate nella direzione di una trasparenza verso il pubblico. Nel 1750 parte delle collezioni reali francesi è allestita al Palais du Luxembourg ed esposta al 35 Un primo esempio storico è la colmata persiana sull’acropoli di Atene. Dopo il 480 a.C., gli ateniesi seppelliscono sottoterra alcune opere d’arte affinché non vengano saccheggiate dai persiani, nascondendole per evitare la distruzione totale: meglio non vedere che rischiare di perdere per sempre. Il 12 marzo 2001 vengono distrutte le due enormi statue note come Buddha di Bamiyan, scolpite da un gruppo religioso buddista nelle pareti di roccia della valle di Bamiyan, in Afghanistan, e abbattute dai talebani per motivi ideologici. Un caso recente riguarda la statua di Edward Colston, mercante e schiavista inglese, buttata nel canale di Bristol e risignificata da una serie artisti-attivisti, che hanno interpolato il racconto ufficiale con una serie di contro-narrazioni parallele. Il valore aggiunto di questo esempio è il fatto che la città di Bristol abbia operato un sondaggio pubblico chiedendo a quanti più cittadini possibile che cosa pensassero di quell’abbattimento e che cosa avrebbero voluto fare della statua: il 56% dei partecipanti al sondaggio ha pensato che i manifestanti avessero fatto bene a buttare la statua nel fiume. La decisione sul piano simbolico è stata provvisoriamente quella di disporre la stata in posizione orizzontale, in modo che potesse essere vista dall’alto al basso, lasciandola completamente imbrattata delle scritte fatte dagli attivisti, capovolgendo il paradigma del monumento che prevede l’elevazione sul plinto. Al momento è ancora in corso il dibattito su come esporre questa statua, ed è certamente interessante questa modalità partecipativa per cui la cittadinanza è stata interpellata. Il Musée des Monuments Français viene chiuso nel 1816, in piena Restaurazione (caduta del progetto napoleonico), con restituzione di molti monumenti alle chiese d’origine: in parte viene spostato al Louvre, andando a formare il primo nucleo della collezione di scultura, in parte nella nuova École des Beaux-Arts, in parte a Versailles, etc. Il museo è stato in seguito riaperto ed è tuttora esistente, in forma naturalmente diversa (non ha più lo scopo di incoraggiare i francesi del proprio patrimonio). Il lavoro di Lenoir è stato innanzitutto un lavoro solitario ed eroico: recatosi nelle diverse discariche e depositi, ha raccolto tutto quello che trovava. Come si vede nell’immagine, prima della sistemazione, il convento ospitava un grande accumulo disordinato di pezzi di storia, che viene poi progressivamente costruito in un racconto: il compito del curatore è quello allineare gli elementi del suo racconto affinché convincano, raccontino una storia che è quella che ha bisogno di raccontare in quel momento. Il museo viene costruito accentuando soprattutto il valore dell’architettura gotica, momento apicale della produzione francese. Nuovamente, il museo è caratterizzato da un’interpretazione evolutiva: dopo lo schematismo gotico, l’apice è rappresentato dal Rinascimento, seguito da una fase di decadenza sotto Luigi XIV. 36 Lenoir allestisce questo spazio attingendo a tutto quello che può amplificare il significato: l’opera del Duecento, del Quattrocento, etc. viene allestita all’interno di un’architettura che rifletta le caratteristiche dell’epoca di appartenenza dell’opera d’arte. Accostando originali e copie, commissionando anche opere ad artisti contemporanei, crea dei «cronotipi», delle messinscene, ovvero delle ricostruzioni di un «gusto», un’epoca, un linguaggio artistico: capsule spaziali che restituiscano ai visitatori il sapore di un determinato momento storico e della sua traduzione visiva (un’enciclopedia tridimensionale). L’idea era quella di riunire in una sola sala, a colpo d’occhio, tutti gli archetipi: una sorta di riassunto estremo dell’evoluzione della storia dei monumenti nell’arco cronologico considerato. È l’antenata di quella che nella museografia dell’Ottocento-Novecento viene chiamata period room, ovvero un’esposizione che rappresenta l'arte decorativa di un particolare contesto storico sociale all’interno del museo. Il giardino del museo, l’Elysée, è progettato per ospitare monumenti/memoriali dedicati ai grandi uomini della Francia (Abelardo ed Eloisa, Molière, Molière, La Fontaine, Mabillon, Descartes) provenienti dalla basilica di Saint-Denis, dove si trovavano i monumenti funebri, senza alcuna scansione cronologica. Lo scopo è quello di ricordare al popolo francese la grandezza della storia e dell’identità francese: è un palinsesto potentissimo a livello comunicativo, in grado di mandare un messaggio molto direzionato, durato per tutta la stagione napoleonica. È interessante ragionare su questo cameo come una sorta di primo modello di un museo straordinariamente orientato sul piano comunicativo, con la consapevolezza che ogni museo porta con sé un grado di messaggio politico, anche quello apparentemente più oggettivo. Ogni museo si pone con una dimensione narrativa molto forte, ma il primo premio va certamente al Musée des Monuments Francais. Riassumendo, dal XVIII e per tutto il XIX secolo, il museo diviene nazionale e «universale». I cambiamenti centrali riguardano: - Importanza del catalogo - Classificazione per generi e scuole locali (a Dresda, Kassel, Vienna…) - Ruolo del Grand Tour (turismo) per la circolazione dei modelli - Colonizzazione (estrazione) > exotica e fondi per la creazione di musei Il museo classico del XIX secolo europeo è il simbolo di una nazione o di una collettività. Tutti gli oggetti che vi sono esposti sono altrettanti elementi caratteristici o rappresentativi di un’opera, di una cultura, di un uomo famoso, in breve di una parte della realtà, esteriore e spirituale al tempo stesso, della comunità immaginaria in questione. Essi rispondono a severe questioni di autenticità, di qualità e di proprietà pubblica e si organizzano in vista di una rigenerazione della memoria culturale per i compiti del presente. L’autorevolezza del museo dipende dalla padronanza di un sapere positivo, di cui si serve per avere la meglio su collezionisti o musei di altri paesi. Dominique Poulot, Musei e museologia, 2005 37 16/03/2023 In questa storia incrociata e molto complessa, la politica fa un po’ da trave contenitore dell’evoluzione del pensiero. In particolare, il grande contenitore su cui lavoriamo è la formazione dello Stato tedesco. La relazione tra formazione del pensiero culturale nell’Ottocento e formazione degli Stati nazione è intrinseca, molto complessa e mescolata, e il lungo tramonto dell’Impero austroungarico sta sullo sfondo di questa riflessione in modo assolutamente imponente: non riusciremmo a capire questa pagina di storia se non leggessimo anche questa dinamica di dissoluzione dell’Impero austroungarico, che per tanti secoli era stato un motore culturale importantissimo, oltre che lo sfondo su cui si reggevano alcune certezze importanti. Sehen lernen. Imparare a vedere: la Scuola di Vienna (1870-1930) Dalla metà dell’Ottocento l’Impero austroungarico perde potere e compattezza in seguito ad alcuni eventi: la perdita della Lombardia nel 1859, la sconfitta contro la Prussia e la perdita del Veneto nel 1866. Nel 1871, dieci anni dopo lo Stato italiano, nasce lo Stato tedesco. Nel 1873, all’indomani di questa nascita, si svolge il I Congresso Internazionale di Storia dell’Arte. Questa quasi concomitanza con la nascita della Germania come la intendiamo oggi è molto significativo: la storia dell’arte, una disciplina giovane rispetto all’evoluzione della storia del pensiero, guadagna il suo ruolo in prima fila, in quanto evidentemente è funzionale nella costruzione della coesione e dell’identità nazionale. Strumento centrale di questa politica imperiale della Germania unita, tale per cui arte e storia dell’arte sono elementi fondativi della nuova cultura che si vuole promuovere, è la costruzione di musei a Berlino: - 1876: Nationalgalerie - 1904: Kaiser-Friedrich-Museum (poi Bodemuseum) - 1912: Pergamonmuseum (inaugurato nel 1930, raccoglie opere provenienti dagli scavi di grandi archeologi tedeschi come Schliemann) I musei costituiscono la manifestazione esteriore di questa politica culturale: il loro compito è concretizzare, raccontare e rappresentare la potenza della Germania. Nel 2021 è stato inaugurato l’Humboldt Forum di Berlino, museo che raccoglie le collezioni etnografiche di diverse culture, collocato nel centro storico della capitale. L’inaugurazione del nuovo centro culturale è stata al centro di grandissimi polemiche e dibattiti sull’utilizzo della cultura in chiave giustificativa anche laddove l’acquisto e il possesso delle collezioni non è sempre del tutto limpido ed è spesso esito di forme di violenza coloniale ed economica. Il museo affronta anche le circostanze in cui sono i manufatti stati presi dalle comunità indigene, il dilemma degli attori sul terreno, in breve: la complessa storia del colonialismo i cui effetti persistono ancora oggi, e il ruolo dell'Europa al suo interno. Riprendendo la riflessione sul ruolo della storia dell’arte, chi penserebbe possa essere un ago della bilancia così importante? Nella percezione comune è considerata una disciplina che attiene alla conservazione e tutela, non certamente un braccio armato così potente da poter divenire una leva su cui lo Stato germanico fa forza per comunicare il proprio potere. In quegli anni invece la storia dell’arte (Kunstwissenschaft) va definendosi come una disciplina scientifica a tutti gli effetti, facendosi faticosamente strada: si tratta, infatti, di definire una Kultur autonoma nella Germania di Bismark, da poco unita sotto la guida della Prussia (necessità di limitare l’influenza della cultura meridionale, italiana, cattolica, etc). La storia dell’arte si pone in contrasto rispetto alla connoisseurship, l’arte dei conoscitori, degli esperti, di tutte quelle figure così diffuse nella seconda metà dell’Ottocento. La contrapposizione è tra un sapere scientifico, documentario, quantificabile e dimostrabile, dall’altra un sapere fondato sul “colpo d’occhio”, sull’expertise, una conoscenza che in quel momento culturale sembra essere più di pertinenza di una cultura più superficiale, più leggera, meno normata. In altre parole, la storia dell’arte come disciplina scientifica nasce per differenziarsi dal sapere empirico, basato sull’“occhio fine”, considerato quasi sciamanico, della connoisseurship. 40 Semper lavora sulle diverse possibilità dell’intreccio, dal più semplice al più complesso: dal semplicissimo concetto del nodo si arriva a una voluta, che può essere una voluta greca o romana, poi traghettata nella cultura rinascimentale e oltre. Questo per lui è il gesto iniziale. Quando in occasione dell’Expo del 1851 tutto il mondo conosciuto viene riassunto in un unico spazio espositivo, Semper si aggira curioso e ha delle grandi epifanie e rivelazioni, una delle quali proprio di fronte a questa capanna caraibica. Osservando questa struttura, una pianta discontinua, retta da pilastri verticali, e chiusa da strutture fatte di intrecci di paglia, Semper ha un’illuminazione che gli consente di metterla in sequenza con altre capanne realizzate in modo simile in diversi contesti del mondo. In altre parole, la riconosce come una sorta di forma primigenia, povera, semplice, fatta di poco tecnologicamente, che costituisce il punto iniziale della storia dell’architettura, come a dire che le mura del palazzo non sono altro che la pietrificazione di quel tessuto intrecciato. Questa è l’idea: Semper non parte dall’analisi della forma, bensì dalla funzione. In questo senso, tutta la complessità della storia dell’architettura precipita fino a convergere su quattro funzioni/bisogni fondamentali: 1. Di produrre di calore e di cibi > focolare 2. Di difesa dall’esterno > recinzione 3. Di protezione dalle intemperie > tetto 4. Di difesa dalle inondazioni > terrapieno. Questo è il messaggio profondo di Semper: solo se si legge la storia dell’umanità in termini di bisogno e sopravvivenza si può capire la storia dell’arte. Si tratta di fatto di una teoria evoluzionistica, che ovviamente riecheggia da vicino quella di Darwin, che conosceva sicuramente. Nel 1864, sul modello del South Kensington Museum di Londra, ovvero il Victoria & Albert Museum, anche Vienna decide di dotarsi di un museo di arti applicate: così nasce il Österreichisches Museum für Kunst und Industrie. La cultura germanica in quel momento guarda con grande interesse a Londra, modello industriale e di organizzazione della cultura nei musei per eccellenza, oltre che di divulgazione del progetto industriale. Per questo motivo, non stupirà vedere quanti intellettuali viennesi e austroungarici sono andati a formarsi a Londra: alcuni venivano mandati appositamente affinché si formassero al linguaggio della modernità. L’Österreichisches è il primo museo a adottare il modello di Semper per il proprio allestimento. Questo è importante da sottolineare: ogni museo ha l’allestimento che l’epoca gli suggerisce. Oggi nessun museo si organizzerebbe secondo i bisogni dell’umanità, e se lo facesse avverrebbe con mille spiegazioni 41 rispetto a un posizionamento così darwiniano: oggi si lavora con tutt’altre modalità, tra cui per esempio proprio la mobilità dei criteri allestitivi. I tappeti e i tessili hanno un ruolo centrale nell’allestimento del museo: plasmano e raccontano in forma tridimensionale quello che il saggio di Semper aveva raccontato bidimensionalmente sulla pagina. Il museo va costituendosi come una sorta di pop-up del suo saggio. Un caso analogo interessante è quello del Museo dell’Innocenza, un museo che racconta un romanzo. Il positivismo di Giovanni Morelli (1813-1891) Un’altra corrente, non del tutto concorrenziale, bensì parallela, è quella di Giovanni Morelli, che è stato innanzitutto un medico. Questo è importante da sottolineare: la pratica medica e lo sviluppo della medicina in quegli anni sono strettamente legate all’arte. Morelli è stato anche autore di studi sulle collezioni Doria Pamphili e Borghese di Roma, pubblicate a Vienna negli anni Settanta dell’Ottocento. Nonostante il nome italiano, le sue origini sono svizzero-tedesche. A 20 anni emigra in Germania, dove si laurea in medicina e dove svolge gran parte del proprio lavoro e del proprio studio. Approfittando dell’incarico di rappresentanza che il Governo Provvisorio di Milano gli conferisce all’Assemblea costituente del 1849 a Francoforte, Morelli prosegue gli studi in ambito artistico: a lui si deve l’attribuzione della “Venere” di Giorgione e la prima ricostruzione, per quanto approssimativa, della carriera di Caravaggio, che allora era un pittore pressoché sconosciuto, divenuto in seguito una figura mitica della storia dell’arte. Il suo è un metodo empirico-positivista, certamente scientifico, finalizzato a distinguere l’originale dalla copia. Come si vede dalle pagine del suo saggio, la questione dell’autenticità viene risolta attraverso l’osservazione del dettaglio, e proprio in questo è importante la formazione medica: il dettaglio anatomico è rivelatore, e da un’osservazione anatomica lavora sulla comparazione (es. riconosco Botticelli per il modo in cui dipinge l’attaccatura dell’unghia). La sua presenza in quell’epoca è fondamentale: il metodo morelliano è oggetto quasi di una forma di culto, in quanto è considerato essenzialmente invincibile. Oggi in realtà non tutte le sue conclusioni sono ancora accreditate al 100% (es. sappiamo che un pittore può cambiare tecnica nel corso degli anni), tuttavia, il paradigma introdotto da Morelli è certamente potentissimo. È interessante che in quegli stessi anni sir Arthur Conan Doyle inizi a scrivere di Sherlock Holmes, storie di indagini che partono dall’idea di osservare il dettaglio. Conan Doyle e Morelli sono entrambi medici, e in tutti e due i casi si intravede il modello della semeiotica medica: la disciplina che consente di diagnosticare le malattie inaccessibili all’osservazione diretta sulla base di sintomi superficiali, talvolta irrilevanti agli occhi del profano. Allo stesso modo, Sherlock Holmes lavora con la lente d’ingrandimento, lo strumento principe di questo metodo, poiché consente di andare a vedere il piccolo dettaglio che permette di sciogliere il nodo. Carlo Ginzburg: il «paradigma indiziario» Spie. Radici di un paradigma indiziario, un capitolo del manuale di storia della critica d’arte Miti emblemi spie. Morfologie e storia, scritto dallo storico Carlo Ginzburg, racconta di come gran parte della narrazione della storia dell’umanità abbia viaggiato sul pattern morelliano, che Ginzburg definisce il «paradigma indiziario». Oggi forse abbiamo letture meno positiviste, tuttavia, è un dato di fatto che in quel momento storico abbia costituito un modello epistemologico potentissimo. 42 Anche Paolo D’Angelo, in Giovanni Morelli e l’estetica positivistica, parla di come l’evoluzione della medicina in quegli anni abbia costituito un volano fondamentale per la storia dell’arte. Tutto questo evidenzia come la storia della critica d’arte sia una disciplina estremamente scivolosa: non si fa in tempo ad appropriarsi di un paradigma che già il punto di vista si è spostato, e questo dice di quanto diversi paradigmi e necessità si esprimano attraverso le epoche storiche. In generale, la questione dell’autenticità, di distinguere l’originale dalla copia, è un tema importante su cui si sviluppa tutta quanta la storia dell’arte. Edgar Wind, grande storico dell’arte dell’epoca, scrive: «Qualsiasi museo d’arte studiato da Morelli acquista subito l’aspetto di un museo criminale». Sulla spinta di Morelli, il museo diviene una sorta di luogo dell’indizio. Verso la fine dell’Ottocento comincia ad affermarsi nelle scienze umane un paradigma indiziario imperniato per l’appunto sulla semeiotica. Ma le sue radici erano molto più antiche. Citando le parole di Carlo Ginzburg: Forse l’idea stessa di narrazione […] nacque per la prima volta in una società di cacciatori, dall’esperienza della decifrazione delle tracce. […] Il cacciatore sarebbe stato il primo a ‘raccontare una storia’ perché era il solo in grado di leggere, nelle tracce mute (se non impercettibili) lasciate dalla preda, una serie coerente di eventi. Il cacciatore sopravvive solo se possiede un paradigma indiziario. Tutto il lavoro di Ginzburg, molto affascinante sul piano scientifico, individua una somiglianza tra il paradigma venatorio, per cui il cacciatore legge le tracce del terreno, e quello dei testi divinatori mesopotamici (passato/futuro): entrambe sono discipline qualitative (es filologia, storia, medicina…), che lavorano a partire da indizi. Al contrario, la medicina soffre di essere inclusa in un paradigma qualitativo. In questo senso, potremmo leggere la storia dell’arte come una disciplina divinatoria, che parte dall’osservazione delle tracce per risalire a un contenuto. Ginzburg è parte di un lungo cammino epistemologico atto a portare il paradigma indiziario – orale, popolare, individuale – a un livello scientifico. Così scrive ancora: La capacità di riconoscere un cavallo difettoso dai garretti, un temporale in arrivo all’improvviso mutare del vento, un’intenzione ostile in un viso che si adombra, non veniva certo appresa sui trattati di mascalcia, di meteorologia o di psicologia. In ogni caso queste forme di sapere erano più ricche di qualsiasi codificazione scritta; non venivano apprese dai libri ma dalla viva voce, dai gesti, dalle occhiate; si fondavano su sottigliezze certo non formalizzabili, spesso addirittura non traducibili verbalmente; costituivano il patrimonio […] di uomini e di donne appartenenti a tutte le classi sociali. Questo paradigma, questo spirito di osservazione, nasce prima della scrittura e della scienza: è un sapere disorganizzato che passa di voce in voce che certo non si imparava sui libri, ma apparteneva a quel sapere empirico insegnato ai figli (es. cacciare, tessere, etc.). Si passa da un paradigma popolare, da una conoscenza diffusa, per arrivare a un paradigma scientifico. Questo cammino della storia e della storia dell’arte verso una scientificità (o sistematizzazione) dei saperi popolari compie un balzo nella seconda metà dell’Ottocento, a partire dal processo tassonomico iniziato con l’Encyclopédie. Secondo Ginzburg il romanzo per come si viene a costituire nell’Ottocento costituisce una forma importante della ritualizzazione del sapere: è una sorta di nuovo rito, in un momento in cui alcune forme rituali e folkloriche si stanno perdendo sotto la spinta dell’industrializzazione. Il romanzo è considerato il luogo in cui questi riti folklorici trovano spazio: il cacciatore medievale si è spostato nelle pagine del romanzo, si chiama Sherlock Holmes ed è un medico. Ma può un paradigma indiziario essere rigoroso? Da un certo punto di vista, questo tipo di rigore è non solo irraggiungibile, ma persino indesiderabile nel momento in cui la fisiognomica di Lombroso stabilisce una linea deterministica tra alcune conformazioni fisiche e alcuni tratti criminali. In altre parole, un indizio è sempre rivelatore di un certo esito? La storia ci insegna che questo approccio è decisamente problematico. 45 Riegl si concentra non soltanto sul grande maestro che detta il ritmo e il linguaggio, ma in particolare su quello che accade nelle botteghe del quotidiano, in cui si lavora con le tecniche dell’oreficeria, dell’intreccio, etc.: lì Riegl riconosce una sorta di autenticità nei modi in cui lo stile di esprime autonomamente da tutto. Il suo approccio non è filologico, bensì comparativo: la sua idea è quella di costruire un grande catalogo, e così procede in un alfabeto di forme. Prendendo la greca, Riegl compara tutte le greche che conosce, tutte quelle disponibili nelle diverse forme e latitudini, lavorando su come è stata trattata nelle diverse culture, ed ecco allora che emergono le grundbegriffen, o leggi generali, che permettono di leggere la continuità e la persistenza di alcuni motivi al di là delle epoche e delle geografie. Un altro esempio, tratto proprio da Problemi di stile, è la spirale, che si ritrova ad altitudini diversissime: Riegl la individua sia presso gli Egizi che presso i Maori. Questa visione è imponente, perché certamente non possiamo ritenere che i Maori abbiano studiato l’Antico Egitto: la spirale si manifesta in modo diverso a latitudini diverse, pertanto è necessario studiare il modo in cui si manifesta indipendentemente nelle diverse parti del mondo, considerando la permanenza degli stili e la loro autonomia. L’industria artistica tardoromana (IV-VII sec.) (1901) Un passo ulteriore e potente da parte di Riegl è un libro considerato un talismano della rilettura dei pesi storici, pubblicato nel 1901 con il titolo L’industria artistica tardoromana. Fino ad allora, l’epoca tardoromana, dal IV al VII secolo, era considerata una grande storia di decadenza. Al contrario, secondo Riegl, come già detto, non esiste «decadenza», ma solo una costante evoluzione. È chiaro che il momento storico in cui si trova Riegl riecheggia profondamente quella storia: la caduta dell’Impero austroungarico riecheggia la caduta dell’Impero romano, e c’è un evidente riferimento all’identità sovranazionale dell’Impero asburgico rispetto al nazionalismo dello Stato tedesco, formatosi nel 1871, che vede una perdita di potere e autorevolezza che sarà straziante per la cultura austroungarica. La riflessione sulla storia dell’arte di Riegl contenuta in questo volume di nuovo è un punto di osservazione molto attuale: studiando l’industria artistica tardo-romana parla in realtà della propria epoca, come fanno tutti i critici e storici dell’arte con consapevolezza di questa dimensione. Nella fattispecie, Riegl parte a studiare di prima mano territori parte dell’Impero fino ad allora considerati una periferia poco interessante, come i Balcani. Nuovamente, si interroga sui terreni marginali (arti minori, fasi di decadenza, territori periferici, etc.): la sua prospettiva costituisce un’enorme rivoluzione. In questo libro viene coniata una parola per un concetto sottile, quello di Kunstwollen, a indicare la volontà d’arte o impulso artistico (dell’arte stessa, non del singolo artista), ovvero “ciò che determina l’arte”. In sostanza, esiste aprioristicamente una volontà d’arte, che si esprime «a priori», indipendente dal materiale, una pulsione artistica, che non è un atto cosciente della volontà. Questa volontà esiste in modo indipendente dal materiale: è un impulso artistico che l’arte ha, che è anonima, quell’idea appunto dello studio dei tappeti, delle ceramiche, delle fibbie, delle monete, una volontà che appartiene all’arte, e non al singolo artista. Secondo Riegl, grazie a questa volontà d’arte ogni epoca storica e ogni civiltà produce delle forme che le somigliano, che non possono non essere messe al mondo: costituiscono una sfida primigenia che ogni cultura ha, poiché è naturalmente portata a cercare il proprio approdo espressivo. Se le evoluzioni dello stile possono essere spiegate in base al potere creativo di ogni civiltà artistica, e non sulla base di un semplice sviluppo della tecnica artistica (grazie al Kunstwollen, ogni civiltà produce manifestazioni artistiche proprie), si può finalmente sganciare la storia dell’arte dalla funzionalità di Semper dal positivismo di Morelli che fino ad allora avevano dominato. È la fine del «giudizio di gusto»: ogni civiltà si esprime con i bisogni, i materiali, le forme e i linguaggi che le sono proprie, sancendo la fine di ogni idea evoluzionistica e deterministica. Il concetto di assoluto relativismo dello sguardo è fondativo del modo in cui guardiamo all’arte oggi. 46 Una pagina importante della storia dello sguardo di Riegl è la sua attenzione alle arti industriali, in un’epoca che si concentra molto sul problema della produzione in serie. Riegl propone quasi una storia delle tecniche artistiche: la Kunstwollen, il bisogno di stile, si esprime ugualmente attraverso diversi linguaggi, pittura, scultura, architettura, ma anche la tecnologia e le tecniche più contemporanee, tra cui il design. Riegl è infatti uno dei grandi pensatori che porteranno allo sviluppo del design, che non verrà più considerato ancillare rispetto alle altre forme di arte, bensì assolutamente centrale. In questo senso, alcuni grandi capitoli di storia del design (es. fondazione del Deutscher Werkbund nel 1907) fanno profondamente riferimento al pensiero di Riegl. Nel 1948, un grande storico dell’architettura, Siegfried Giedion, scrive Mechanization takes command, il cui sottotitolo recita «Un contributo alla storia anonima»: il pensiero di Riegl continua a viaggiare nel Novecento attraverso tantissimi architetti e designer, che lavorano proprio con quegli oggetti di vita quotidiana assolutamente anonimi, e proprio per questo perfetti nell’esprimere il loro kunstwollen, quell’idea di un bisogno espressivo che si incarna più facilmente nelle opere anonime che in quelle autoriali. Il culto moderno dei monumenti L’ultimo libro importante di Riegl, pubblicato nel 1903, Il culto moderno dei monumenti. Il suo carattere e i suoi inizi, è un testo di fondamentale importanza per la storia del restauro e della tutela, poiché mette a fuoco la difesa delle stratificazioni storiche. Secondo Riegl, infatti, non si restaura in base a un giudizio estetico, ma in base al principio inappellabile di difesa della «mano dell’uomo» attraverso le epoche. L’idea centrale è quella del rispetto del valore attribuito da ogni epoca a un certo monumento (teoria dei valori, che fa eco al concetto di kunstwollen). In altre parole, ogni stratificazione storica ha una sua autonomia, e gli storici dell’arte devono guardare al modo in cui le storie si sono sovrapposte l’una all’altra, a come le forme si sono evolute, senza aspirare a tornare a una sorta di primigenia originalità: Riegl invita a leggere le stratificazioni storiche, il modo in cui le forme si sono sovrapposte nelle diverse epoche. L’idea di Riegl è che vada conservata ogni stratificazione storica, e in questo modo diventa paladino dell’idea di restauro. Per questo motivo si batte contro l’eliminazione delle superfetazioni del palazzo di Spalato (in quanto membro della Regia Commissione Centrale per lo Studio e la Conservazione dei Monumenti Storici, creata per il restauro dei monumenti nei territori asburgici). 21/03/2023 Joseph Maria Olbrich, Palazzo della Secessione (1899, Vienna) Palazzo della Secessione di Vienna, costruito dall’architetto Joseph Maria Olbrich. Vienna si era già separata da tutto il sapere che considerava fortemente espressivo di qualcosa di antico. L’idea è quello dello stile giovane, della Ver Sacrum (trad. primavera sacra), come è scritto sull’edificio: è il nome della rivista della secessione viennese. La primavera rappresenta un modo nuovo di guardare a tutto: alla storia, all’arte, alla cultura, etc. Alla svolta del secolo, tra Ottocento e Novecento, l’idea è quella di una grande palingenesi, un rinnovamento delle arti e dei linguaggi. 47 La metafora vegetale, floreale, la gemma, il germoglio, tutto quello che viene da una tradizione tardo- ottocentesca, non è solo decorativismo: ha un valore filosofico ed etico profondo. Questo è un buon presupposto per guardare alle forme in modo diverso: il fiore, il germoglio, lo stelo, la radice, tutto questo grande organismo, diviene come una forza tellurica che preme dalle viscere della terra per uscire e rinnovare profondamente la faccia della terra. La visione è cosmologica, e questo passaggio aiuta a fare un grosso salto dal particolare al generale, dal decorativismo a una struttura filosofica profonda. Ciò che si vuole rinnovare è l’intera umanità: il pensiero di Olbrich, di Riegl, della Scuola di Vienna e di altri pensatori, vuole guardare alla possibilità di un uomo nuovo, con sicuramente Nietzsche e tutta la filosofia di ambito germanico sullo sfondo. L’idea è questa: all’ingresso nel nuovo secolo, mentre la psicanalisi freudiana e junghiana lavorano su quest’idea di partire dai sintomi per leggere cosa sta in profondità, una nuova umanità si deve affacciare, con linguaggi e strumenti nuovi, ma soprattutto con una nuova dotazione cognitiva. Questa utopia nasce in ambito austroungarico, e non è altro che una conseguenza del lutto profondo che aveva seguito il crollo dell’Impero austroungarico mentre si andava formando lo Stato germanico, un sentimento di lutto e di palingenesi, di perdita e ritrovamento, che è di fatto la polarità in cui si deve leggere questa parte di storia della critica. Per noi che ci occupiamo di museologia e storia della critica insieme, questo edificio, che ora sta nel cuore della città di Vienna, ha un valore di totem, di talismano. Questo edificio ha in sé sicuramente qualcosa di antichissimo: possiamo pensare al Pantheon, ma prima di esso risalire a tutti gli edifici a pianta centrale mesopotamici (la pianta centrale è uno dei sintomi cosmologici più antichi). La cupola traforata è un luogo che idealmente mette in comunicazione basso e alto: le viscere della terra con il sintomo della psiche, della forma, o della pianta. C’è una pianta che ha la sua chioma, ed ecco le foglie d’alloro, ma c’è anche una radice profonda: questo edificio ci aiuta a ricapitolare quel grande mito cosmologico tale per cui l’architettura ricapitola il cosmo. Il biancore classico, perché l’impero austroungarico guarda alla grecità con amore e devozione, caricandola anche di più simboli di quelli che aveva (vedi Goethe), è affiancato all’oro bizantino: Oriente e Occidente si danno la mano nell’impero austroungarico, che vede un ponte tra queste culture che l’Italia, la Francia e le altre nazioni ancora non vedevano. Ma c’è un elemento in più che è fondamentale capire: le radici affondano nella storia, ma le chiome sono proiettate nel futuro, tanto che il motto è esattamente questo: A ogni epoca la sua arte A ogni arte la sua libertà Per la prima volta ci viene detto autorevolmente, e scolpendolo nella carne dell’edificio, che certamente la storia è fondamentale (questo spirito di rinnovamento non va ai danni della storia, che va conservata, capita, dissezionata, analizzata e studiata), ma l’arte ha il diritto di esprimersi con un linguaggio autonomo. Qui arriva tutto il pensiero di Riegl e della Scuola di Vienna, per cui ogni forma artistica ha un suo kunstwollen, un suo bisogno espressivo: ogni civiltà ha un suo bisogno di arte. In questo senso, dunque, non siamo più legittimati a leggere tutta l’arte attraverso il filtro del Neoclassicismo, o della mimesi: ogni espressione artistica ha una propria necessità espressiva. È come se i testi di Riegl abbiano trovato una propria manifestazione architettonica, e nessuna descrizione meglio di questo motto definisce il suo pensiero. Una volta per tutte, la critica d’arte si sgancia da quella lettura lineare per alti-bassi, per originale-copia, da quello schema binario che viene superato grazie a Riegl, Olbrich, Freud, e altri pensatori di questa generazione. 50 Per una «storia dell’arte senza nomi» Abbiamo già parlato dell’attrazione potentissima che esercita l’arte anonima verso questa pagina di storia dell’arte. Tanti storici della Scuola di Vienna hanno detto che la vera natura di un popolo, di una forma d’arte, di una pagina di storia dell’arte è nelle sue forme anonime, nel fregio, nella decorazione, nei manoscritti miniati. Non c’è una storia di capolavori contro il Romanticismo, contro quell’idea della figura talentuosa, geniale, unica: la Scuola di Vienna dice che non gli interessa nulla del genio, del talento interessa come l’epoca esprimeva nell’anonimato il proprio kunstwollen, la propria identità più profonda. Questo culto di una storia dell’arte senza nomi, per l’anonimato, un’autenticità non in senso romantico, al contrario: gli scalpellini, i miniaturisti, etc. Wőlfflin crea una sorta di abbecedario, che oggi suona forse un po’ datato, per provare a contrapporre alcune grandi categorie, coniando una sorta di vademecum per aiutare una lettura dell’arte più contemporanea, più libera: Lineare (disegno) Pittorico (luce e colore) Piano Profondità Forma chiusa Forma aperta Molteplicità (gli elementi di una composizione hanno vita autonoma) Unità (gli elementi di una composizione concorrono a formare un significato unico e unitario) Chiarezza assoluta Chiarezza relativa (incompiutezza, transitorietà, dinamismo) Wőlfflin porta come esempio due dipinti dello stesso soggetto iconografico, ma trattato in modo diverso: l’Ultima cena di Leonardo e l’Ultima cena di Tiepolo. In sostanza, stabilisce una sorta di schema attraverso cui leggere l’arte, propendendo per la seconda forma, incoraggiando anche una lettura del Tardo Rinascimento e del Barocco, pagine della storia dell’arte allora quasi dimenticate. Leonardo, Ultima cena (S. Maria delle Grazie, 1494-98) > disegno, piano, forma chiusa, molteplicità, chiarezza Assoluta Giovan Battista Tiepolo, Ultima cena (Louvre, 1745-47) > stile pittorico, profondità, forma aperta, unità, chiarezza relativa Wilhelm Worringer (1881-1965) Nel 1907 scrive la sua tesi di dottorato, discussa a Berna: Astrazione e empatia. Un contributo alla psicologia dello stile. Il piccolo volume viene inviato ad alcuni amici, e per puro caso finisce sul tavolo di un grande editore, che decide di pubblicarlo. Da quel momento, l’opera guadagna un grandissimo successo: al di là dell’intelligenza e della potenza delle sue analisi, e al di là di aver fotografato un bisogno della propria epoca sul piano della critica d’arte, Worringer è un contemporaneo dei primi grandi artisti che lavorano con l’astrazione (es. Kandinsky, Paul Klee, Mondrian, etc.), e il suo pensiero viene in qualche modo adottato da tante scuole della pittura astratta. Worringer viene conosciuto anche in Italia, dove la scuola dell’astrazione è legata ai Sette di Como, e dove tutta la riflessione degli anni Dieci e Venti ha bisogno di legittimazione. 51 I pittori astratti portano sottobraccio il libro di Worringer come se fosse una sorta di bibbia laica, ma ovviamente sarebbe sbagliato parlare di un’appropriazione: non c’è mai una fusione a freddo, e è sempre una cultura che genera diverse espressive. In questo senso, il pensiero di Worringer nasce in un contesto storico e in un’epoca in cui nasce anche l’astrazione, e sono due facce della stessa medaglia. Lui stesso è molto stupito del successo del suo lavoro, e ogni volta negli anni non mancherà di manifestare lo stupore per il viaggio che ha fatto questo volume, che in fondo era solo un’intuizione di un giovane studente. In sostanza, dice molte cose importanti. Worringer parte da Theodor Lipps, un filosofo e studioso di estetica che per primo aveva codificato il concetto di "sentimento di simpatia", o Einfuhlung, l’identificazione sentimentale tra la persona e la forma, un moto dinamico che va dalla persona verso la forma. Al polo opposto si colloca l’astrazione, un’espressione di civiltà o di pagine della storia che esprimono un sentimento completamente diverso rispetto al mondo. Secondo Worringer, c’è un motivo per cui le diverse generazioni, le diverse popolazioni e civiltà lungo la storia si sono espresse secondo un criterio o secondo l’altro, ovvero astrazione o empatia: questo approccio astratto o empatico dipende dalla relazione di quella civiltà con il mondo esterno, da quanto quella cultura era a proprio agio nel mondo, o provava un’estrema “agorafobia spirituale”. Dal suo punto di vista, l’angoscia viene dominata e cristallizzata attraverso l’astrazione, concepita come una grande forma introspettiva e terapeutica: per come la legge Worringer questo corrisponde a un livello più elevato di dominio di sé. Il cuore di Worringer, infatti, batte per l’astrazione, perché comporta un’elaborazione quasi eroica della propria angoscia in relazione al mondo. Si tratta di grandi categorie psicologiche, e oggi sarebbe difficile leggere la storia dell’arte in termini di felicità o angoscia di una cultura: è evidente quanto la psicologia e la psicanalisi siano importanti negli studi di questi studiosi germanici. Per Worringer, i mutamenti di stile nell’arte cambiano al cambiare del «sentimento del mondo», o Weltgefuhl, ovvero il rapporto primordiale dell’uomo con il cosmo. Lo stile cambia quando cambia un sentimento del mondo da parte di una civiltà. Anche Worringer prende in considerazione l’anonimato, l’arte anonima: non parla di Leonardo, Michelangelo, Raffaelo, bensì del mondo in cui un’intera cultura si pone rispetto all’intera storia dell’arte. Secondo Worringer, un’opera va valutata «per la capacità di manifestare immediatamente quel bisogno di arte e di stile in cui si esprime a sua volta il sentimento del mondo caratteristico di un popolo e di un’epoca intera». Ritroviamo il concetto di bisogno dell’arte, che evidentemente viene da Riegl, di sentimento del mondo, e di anonimato (un popolo e un’epoca, non singolo artista etc.): la sua lente d’ingrandimento non si pone sulla singola scuola o produzione artistica, bensì su un grande arco cronologico e geografico. Astrazione e empatia Ecco allora questa polarità: da un lato l’empatia, come gratificazione di sé nella bellezza del mondo organico. Così scrive Worringer: Il godimento estetico è godimento di sé oggettivato. Questo accade nella dimensione dell’empatia: quando vado a Brera e vedo questo meraviglioso dipinto di Tintoretto vedo me stessa riflessa all’interno, e questo mi rassicura enormemente. Worringer parla di «auto-attivazione interiore», di «dilatare la vista interiore». Sull’altro polo si colloca l’astrazione, la gratificazione nella bellezza del mondo inorganico, cristallino, astratto. Dunque, c’è gratificazione anche nell’astrazione. Ovviamente, il presupposto è aver capito e interiorizzato che l’opera d’arte si pone alla natura in posizione paritetica: l’opera d’arte non è ancella della natura (vedi Zeusi). Secondo Worringer, l’arte rifugge da ogni implicazione con la natura. Worringer parla del concetto di «appercezione», coniato da Lipps per indicare il moto verso la percezione dell’opera. Non capiremmo il pensiero di Worringer e di quell’epoca se non riflettessimo anche sulla 52 componente dinamica (in questa stagione è centrale la danza, così come qualsiasi disciplina del movimento). Worringer parla di un movimento che è come quello della cassa toracica nella respirazione: da un lato l’espansione: «dilatare la vista interiore sino a che abbracci l’intera linea», e dall’altro la delimitazione: «delimitare ciò che ho percepito da quanto lo circonda», lavorando sull’implicazione quasi corporea della lettura delle opere d’arte. Esistono due tipi di empatia, o appercezione. Da un lato l’empatia positiva: posso compiere la mia auto-attivazione senza ostacoli. In questo caso c’è godimento estetico, che è «godimento di sé oggettivato». Il valore di una linea, di una forma, consiste per noi nel valore della vita che esse contengono. A dar loro bellezza e soltanto il nostro sentimento vitale, che proiettiamo in esse per vie misteriose. Dall’altro lato si trova l’empatia negativa: la mia auto-attivazione incontra degli ostacoli. In questi casi, il cervello deve attivarsi per trovare nuove forme di relazione con l’opera d’arte, che vanno appunto nella lettura della dimensione astratta. Contro Semper Il suo grande nemico è Gottfried Semper, principale esponente del funzionalismo, che legge l’arte come risposta a un bisogno materiale dell’uomo. Secondo Semper l’arte più antica è l’arte della tessitura, perché anticamente era utile affinché l’uomo potesse ripararsi, e in questo senso l’architettura non è nient’altro che una tessitura pietrificata. Questa lettura positivista, funzionalista, secondo cui arte e architettura sono una funzione alla risoluzione di problemi materiali, dove da bisogno discende soluzione, nella mente di Worringer è una forma di «anti progressismo e pigrizia mentale»: con il suo «materialismo» e la sua lettura evoluzionistica delle forme ha determinato una comprensione distorta della storia dell’arte. Per fortuna, secondo Worringer, Riegl ha contrattaccato questa «pigrizia» con il suo concetto di kunstwollen. Si passa così dal Kőnnen, ovvero il «saper fare» di Semper (intento utilitario, materia prima, tecnica), al Wollen, ovvero il volere artistico assoluto (bisogno espressivo). In questo senso, dunque, l’astrazione non è esito di un «non saper fare», ma espressione di un diverso «volere artistico». Una psicologia del bisogno di arte […] non è ancora stata scritta. Sarebbe una storia del sentimento del mondo, e come tale si affiancherebbe su un piano di parità alla storia delle religioni. Per “sentimento del mondo” intendo quello stato psichico in cui si trova l’umanità, a ogni momento dato, nei confronti del cosmo e dei fenomeni del mondo esterno. Il sentimento del mondo è lo stato psichico in cui si trova l’umanità in ogni momento, non solo quando c’è la creatività: in ogni momento c’è un bisogno espressivo. L’astrazione è per lui una risposta a una «immensa agorafobia spirituale», e non è necessariamente un dato negativo (fa l’esempio dei popoli più culturalmente evoluti dell’Oriente il cui «istinto della relatività di tutto ciò che è non si colloca prima, ma al di sopra della conoscenza»). L’aspirazione all’astrazione sarebbe propria di quei popoli e di quelle epoche che sentono maggiormente l’arbitrio e l’oscurità. Se l’arte figurativa trae ispirazione dalla natura, da dove trae ispirazione l’arte astratta? Non possiamo ritenere che l’uomo abbia desunto queste leggi dalla materia inanimata; al contrario, e per noi un’esigenza intellettuale suppore che queste leggi siano implicite all’organizzazione umana. Quando un bambino nasce ha già dentro di sé una necessità espressiva, e delle strutture che possono esprimersi secondo questi due modi: sarà la sua epoca a determinare se quel bambino si esprimerà in forme astratte o in forme concrete. 55 In altre parole, l’iconologia è una disciplina nell’ambito della quale si formulano i concetti di rappresentazione e di significato attraverso la dinamica delle immagini, negli elementi di continuità e variazione, nella loro valenza simbolica in rapporto al contesto storico-culturale. Uno dei passaggi fondativi di questa disciplina è la pubblicazione di Arte e astrologia nel palazzo Schifanoia di Ferrara, un piccolo testo di Warburg in cui legge tutte le simbologie in parte pagane e in parte cristiane nel palazzo di Schifanoia. Con Warburg il bacino dei riferimenti si allarga moltissimo: non si lavora solo sulla storia dell’arte, bensì su qualunque tipo di immagine, a qualunque latitudine e in qualunque momento storico, come ad esempio i francobolli o la cosiddetta ‘letteratura grigia’ (dépliant, poster, biglietti, etc.), oggetti residuali che per Warburg raccontano qualcosa dei problemi e delle urgenze di una certa epoca. Jacob Burckhardt, il mito del Rinascimento Alla metà del XIX sec si delinea un vero e proprio mito del Rinascimento nella cultura germanica, il cui punto di partenza sono due opere di Jacob Burckhardt: - Il Cicerone: guida al godimento delle opere d’arte in Italia (1855), una guida turistica molto colta utilizzata da generazioni di viaggiatori di ambito germanofono (ma non solo) - La civiltà del Rinascimento in Italia (1860) La lettura proposta da Burckhardt è piuttosto nuova: il Rinascimento incarna lo spirito dell’uomo borghese e l’individualismo tipico anche della propria epoca. Viene sepolta definitivamente l’era in cui era stato il Medioevo ad essere trainante: per molti Stati che andavano formandosi, tra cui la Francia, era stato il Medioevo il luogo in cui si andava a cercare la propria radice. Al contrario, Burckhardt porta a consapevolezza di una intera generazione il valore del Rinascimento, in cui individua quella radice imprenditoriale, borghese, propositiva, del self-made man, che appartiene molto alla sua stessa epoca. Spesso la riscoperta di un’epoca storia del passato è figlia di urgenze contemporanee. In questo senso, rispondendo a questa esigenza propria della sua epoca, di una borghesia che si sta legittimando, in particolare intorno all’industria bellica, Burckhardt esprime una rivalutazione del Rinascimento, fino ad allora rimasto molto marginale rispetto all’enfasi posta sul Medioevo. L’Italia del Rinascimento, con la sua parabola evolutiva, anticipa l’Europa degli anni centrali del secolo: Accanto alla Chiesa sorge un nuovo elemento morale che, diffondendosi dall’Italia, invade il resto d’Europa e diventa come l’ambiente ordinario di tutti gli uomini forniti di un certo grado di cultura. L’uomo del Rinascimento aveva una moralità superiore rispetto ad altre epoche: Burckhardt individua un certo segmento di suoi contemporanei cui rivolge questo suo messaggio, invitando a riscoprire nel Rinascimento i valori dell’individualismo, dell’imprenditorialità, etc., tutto ciò che serve alla sua epoca nel momento in cui si sta formando lo Stato tedesco indipendente. In che modo Warburg si inserisce nella sua epoca, recuperando il suggerimento di Burckhardt di guardare al Rinascimento in modo talmente non dogmatico da rinviarlo a tutte le latitudini e tutte le epoche storiche? “storie di fantasmi per adulti” Warburg si riferisce alla storia dell’arte con l’espressione storie di fantasmi per adulti: sono storie di fantasmi perché sono storie di idee, forze e figure del passato, ma per adulti, perché possono fare molta paura. Nella cultura rinascimentale si trovano incorporati temi scomodi come omicidio, incesto, etc.: la storia dell’arte, una volta e per sempre, non è una questione di bellezza. In questo senso, per Warburg il Rinascimento non è solo una storia di armonia, proporzione, etc., anzi: nei suoi studi va a recuperare una serie di dettagli che testimoniano della presenza del pagano nella cristianità, così come ci sono intuizioni che riecheggiano tra popoli tra loro lontanissimi. 56 Il buon Dio è nel particolare. Questo suo motto aiuta a capire come questa idea di dettaglio sia per lui un’indicazione di metodo sempre presente. Formazione e primi studi Aby Warburg nasce ad Amburgo da una ricca famiglia di banchieri. A 13 anni rinuncia al diritto alla primogenitura per non doversi occupare degli affari di famiglia, in cambio della possibilità di comprare tutti i libri che gli servono. Il fratello accetta ben volentieri, e così inizia a collezionare libri, formando il primo nucleo di una biblioteca ad oggi esistente al Warburg Institute di Londra. Studia storia dell’arte e delle religioni a Bonn. Nei suoi studi successivi, l’elemento della spiritualità e della religione, intesa come il modo in cui visivamente si traducono in simboli religiosi, sarà un elemento centrale. A seguito di un viaggio a Firenze nel 1888, che gli consente di incontrare di prima mano l’arte rinascimentale, si laurea a Strasburgo con una tesi di dottorato in filosofia su Botticelli. Si iscrive alla facoltà di medicina ad Amburgo, senza laurearsi. Questo interessa in relazione a quel paradigma per cui il dettaglio può essere molto più interessante e rivelatore dell’insieme (Morelli, Conan Doyle, Sherlock Holmes). Nel 1895 soggiorna negli Stati Uniti in occasione del matrimonio di uno dei suoi fratelli. Qui, grazie ai contatti della Smithsonian Institution di Washington, studia i nativi Pueblo del New Mexico e gli Hopi dell’Arizona. Nel 1898 si stabilisce a Firenze per fondare il Kunsthistorisches Institut con due colleghi. La sua idea è quella di fondare una grandissima biblioteca, e approfitta dell’occasione per studia la cappella Brancacci, Lippi, Brunelleschi e Botticelli, artisti del Rinascimento più interessati all’espressività e al dinamismo. Si comincia a chiarire il suo ambito di ricerca, orientato non tanto al mondo più statico e tradizionale della figurazione, bensì agli artisti che stanno lavorando nella direzione di un maggiore dinamismo. Di fatto, il movimento, non solo dei dipinti e delle sculture, ma anche nel senso del dinamismo dei simboli attraverso le culture, è il grande motore che spinge la ricerca di Warburg. Nel 1902 torna ad Amburgo. Da questo momento lavora come «storico dell’arte indipendente», rifiutando di affiliarsi a un’università o centri di ricerca. Metodo Definiamo il metodo di Warburg. Multidisciplinarietà: Warburg si interessa di tantissime discipline diverse, dalla storia delle religioni, alla mitologia, all’antropologia, al teatro, alla danza, ma anche feste, leggi, usanze, lasciti testamentari, superstizioni, etc.: ogni forma espressiva è utile a capire qualcosa. Con Warburg si ha un superamento della gerarchia tra le discipline, in quanto le opere d’arte hanno la stessa dignità delle testimonianze della cultura materiale (nega il feticismo dell’opera d’arte come «capolavoro»). In altre parole, per lui non si tratta di attraversare diverse discipline, bensì studiare un’unica disciplina: la storia dell’arte, l’estrema sintesi di tutto questo, figlia della frizione e dell’intima unione di quell’area comune che sta al centro di tutte le discipline quando c’è qualcosa che gli uomini non possono fare a meno di esprimere. Multiculturalità: per lui l’idea è che la storia dell’arte è sempre internazionale, non ha senso circoscrivere e limitare. Ciò che interessa a Warburg è il modo in cui le diverse culture, non importa quanto distanti tra loro, esprimono alcuni fondamentali. Comparativismo: riguarda la questione della migrazione delle immagini nello spazio (Nord-Sud, Oriente- Occidente) e nel tempo (sopravvivenza del classico), con un interesse sempre maggiore verso la dimensione astrologica (affreschi del palazzo Schifanoia a Ferrara, 1912). Con Warburg si ha un superamento della discontinuità fra antichità, medioevo e età moderna. Rapporto tra figura e parola: concetto di iconologia. L’immagine per Warburg non è solo un testo da leggere con metodo filologico, ma anche una forma espressiva, un segno. Come era tipico dell’Ottocento, in 57 particolare tedesco, per cui la filologia era considerata la disciplina più importante, Warburg applica metodi filologici, provenienti dallo studio del linguaggio, alla dimensione visiva. In particolare, parla del «senso dei valori espressivi che si sono conservati nella memoria», i quali «rappresentano le funzioni più significative di una tecnica spirituale». Troviamo per la prima volta la parola memoria, non solo individuale ma soprattutto collettiva, concetto su cui Warburg lavora su tutta la vita. Warburg studia il concetto di «civiltà» in ogni sua espressione. Questo concetto viene dal pensiero di Burkhardt, ma per Warburg non esiste un’arte maggiore e un’arte minore, e il suo interesse per le cosiddette arti minori (non concetto feticistico del «capolavoro») è una componente davvero rivoluzionaria. Il suo interesse muove dal particolare al generale. Tavola I, Atlante di Mnemosyne L’Atlante di Mnemosyne è un progetto su cui lavora per tutta la vita. Si tratta di pannelli tematici che colloca nella sua biblioteca, in cui lavora sulle sue ossessioni su alcuni temi che gli stanno cuore. In questa tavola, la prima dell’atlante, Warburg individua diversi sistemi di relazione tra uomo e mondo, rappresentati dallo schema cosmico, terrestre e genealogico. Gli schemi che indicano graficamente queste relazioni si configurano come «atti del pensiero», proiezioni intellettuali che interpretano il reale secondo le coordinate dinamiche dell’orientamento (le costellazioni), dello scambio (l’Occidente, il Mediterraneo) e dell’ordinamento sociale (la famiglia Tornabuoni). In altre parole, il suo lavoro è cercare le ricorrenze, ovvero quali sono i fondamentali, gli elementi comuni tra la mappa delle costellazioni celesti, la mappa del Mediterraneo e l’albero genealogico della famiglia Medici-Tornabuoni. Così scrive nelle sue didascalie alle tavole: Diversi sistemi di relazioni in cui l’uomo si trova inserito, cosmico, terrestre, genealogico. Coincidenza di tutte queste relazioni nel pensiero magico, dato che la distinzione tra discendenza, luogo di nascita e posizione cosmica presuppone già un atto del pensiero. 1) Orientamento; 2) Scambio; 3) Ordinamento sociale. Secondo Warburg, l’oroscopo non è una forma di superstizione, un’arte minore di gente in vena di farsi raccontare il futuro, bensì un atto di pensiero profondo: 1) orientamento, ovvero la mappa delle costellazioni, 2) scambio, all’interno del Mediterraneo, 3) ordinamento sociale, all’interno della famiglia. Questa tavola costituisce un perfetto esempio del suo modo di procedere, e le didascalie sono sempre molto belle perché consentono di entrare nel suo pensiero. Tutto ciò è ulteriormente approfondito nel suo testo Da arsenale a laboratorio, in Mnemosyne: Per non rischiare che i miei progetti si disperdessero nell’infinito, mantenni come perno delle mie ricerche il tema dell’influenza dell’antichità. Questo proposito fu messo a dura prova quando più tardi fui posto di fronte al compito di considerare l’opera figurativa non solo come specchio della vita storica, ma anche come strumento per orientarsi nel cosmo celeste. […] Sicché insieme al mio fedele amico e assistente Fritz Saxl riuscimmo a creare una scienza dell’orientamento in forma di immagini che ci autorizzò a parlare di una nuova storia dell’arte scientifico- culturale che non avrebbe avuto né limiti temporali, né spaziali. Warburg ha una dimensione sempre molto corporea: parla di scienza dell’orientamento, una questione di relazione tra il corpo e lo spazio. Ricorre non solo a simboli e mappe (l’Atlante di Mnemosyne sono mappe 60 Salvatore Settis, grande studioso di Warburg, lo racconta così: La domanda da cui parte il lavoro di Warburg è, mi pare, l'emozione (o la risposta) estetica di fronte alle immagini: un sentimento umano universale e importante, del quale egli intese cercare la fonte prima e il valore fondamentale, prescindendo dallo status dell'“arte” nella società contemporanea, e cioè dall'“artisticità” come valore. Warburg non è interessato ad un approccio estetizzante: per lui un’opera non deve essere estetica, ciò che conta è il sintomo visivo e la sua storia. Questo non significa in nessun modo che Warburg negasse il problema della qualità nell'arte: ma egli ne cercava una spiegazione più onnicomprensiva e profonda, che, come tale, doveva liberarsi dal linguaggio degli 'entusiasti', osservatori 'laici' o storici dell'arte che fossero. Nella risposta estetica dell'uomo moderno, egli riconosceva un nocciolo intimo e remoto, proprio della natura umana e perciò identico a quello che caratterizza le reazioni alle immagini (e al mondo) dell'uomo primitivo: un nucleo incandescente, che all'origine – nelle fasi più antiche della storia umana – faceva delle immagini uno degli strumenti per l'orientamento dell'uomo nel mondo, per la sua faticosa ricerca di un equilibrio attraverso il controllo dell'altro-da-sé, e che si è perpetuato, per così dire filogeneticamente, fino a noi, trasformandosi profondamente. […] Ritrovare quel nucleo originario corrispondeva a un processo propriamente “etimologico”. Le immagini sono strumenti per l’orientamento dell’uomo nel cosmo, e in questo senso le formule del pathos rappresentano l’espressione di quella difficoltà di muoversi nel cormo e il modo che si è trovato per rappresentarla. La ninfa come «topos» e «simbolo» L’esempio più noto di formula del pathos è la figura dell’ancella/ninfa, rimandante a un immaginario pagano classico, che Warburg individua a partire da un affresco del Ghirlandaio: La nascita del Battista. Warburg si reca per anni nella chiesa di Santa Maria Novella a Firenze, dove si trova l’affresco, per studiare lo strano contrasto tra le tre signore sulla sinistra, che assistono alla nascita del Battista, quanto di più rinascimentale si possa immaginare, e una figura incoerente, che entra danzando con i vestiti mossi dal vento. Questa seconda figura è per Warburg una scheggia dal passato: una figura pagana classica rimasta incorporata come un insetto nell’ambra all’interno in un dipinto di più di mille anni dopo. Prova etimologicamente ad andare indietro, cercando le origini di questa figura, Warburg trova numerose ninfe nella storia dell’arte. L’interpretazione che ne dà è che si tratta di una testimonianza dell’eterna presenza del classico: il classico non è solo un’epoca storica, bensì qualcosa di sempre presente. Esiste un pensiero pagano ancora profondamente inscritto nella società, e non importa quanto il cristianesimo sia radicato: c’è sempre una componente pagana, e andando ancora più indietro va cercare simboli che vadano a confermare esattamente questo. Secondo Warburg i pittori rinascimentali «si appoggiavano a modelli antichi ogniqualvolta si trattasse di raffigurare il moto fisico attraverso accessori come vestiti o capigliature». In questo senso, parla di «accessori in movimento». Gli «accessori in movimento» sono elementi ricorrenti e stereotipati, «antinaturalistici», che veicolano la permanenza del classico: per Warburg sono sintomo della trasmigrazione delle forme classiche. 61 In altre parole, i pittori rinascimentali non sapevano rappresentare il movimento se non appoggiandosi a questa forma proveniente dall’antichità, e così Warburg rilegge in questa chiave numerose altre opere vicine a lui. Tale è la sua ossessione verso questa figura della ninfa, una sorta di nota dissonante, che dedicherà tantissimi dei suoi studi a questo, iniziando una corrispondenza con un suo amico olandese, André Jolles, che si finge realmente innamorato di quell’ancella. In una di queste lettere, Warburg scriveva: Ho perso la ragione. Nella scena che sarebbe stata serena, era sempre lei che recava vita e movimento. Certo sembrava l’incarnazione del movimento…ma non era facile amarla…Chi è? Da dove viene? Dove l’ho incontrata prima? In questa scena assolutamente statica, il movimento è tutto riassunto nella figura dell’ancella. In questa tavola dell’Atlante di Mnemosyne studia questo concetto della figura della ninfa e le ricorrenze lungo le diverse epoche, selezionando casi dall’Antichità, dal Rinascimento e da epoche più recenti alla ricerca di quel topos. Che la tua pagana figura possa irrompere inq uesta quieta rispettabilità, in questo controllato cristianesimo, mi rivela i tratti enigmatici ed illogici della semplice umanità dei Tornabuoni, la quale mi attira non meno di quanto tu sia attirato dal fascino fuggevole della tua ignota apparizione. Tu ti senti pronto a seguirla come un’idea alata attraverso tutte le sfere. Io invece mi sento spinto a cogliere con sguardo filologico il terreno da cui essa si è elevata e a chiedermi con sorpresa: questa pianta, così stranamente delicata, ha davvero le sue radici nella terra fiorentina? Gli studi di Warburg aprono una crepa nei cliché della lettura del Rinascimento di metà Ottocento, e in particolare nella cultura fiorentina, che si vuole in qualche modo autoprodotta e autogenerata (Firenze è peraltro una città priva di tracce archeologiche dell’antichità). Questo impianto teorico così scrupolosamente costruito da Burckhardt inizia ad avere qualche cedimento: quella dimensione religiosa comunicata così fortemente nella letteratura, nella filosofia, etc. sembra in qualche modo infiltrata dal paganesimo, che irrompe attraverso la figura della ninfa. I Tornabuoni rappresentano i mercanti, la cultura laica, e non una cultura cristiana: non a caso Savonarola li attacca duramente (sono anni in cui il pensiero di Savonarola è più diffuso). Chi è dunque la ninfa? Come essere umano in carne e ossa può essere stata una schiava tartara liberata, ma nella sua vera essenza è uno spirito elementare, dea pagana in esilio, i cui antenati sono nel bassorilievo ai suoi piedi. 62 La ninfa richiama una classicità pagana: è una scheggia di paganesimo rimasta inserita nel Rinascimento. Secondo Warburg, non sarebbe possibile comprendere il dipinto senza prendere in considerazione questa dimensione laica e dissonante. In altre parole, la ninfa arriva disturbare una lettura troppo superficiale, costruita a tavolino: c’è sempre una compresenza di passato e presente. Quella storia raccontata sotto la specie del cattolicesimo in realtà è sempre filtrata dal paganesimo, ovvero quella cultura classica politeista che ha preceduto l’avvento del cristianesimo, ma anche tutto ciò che sta dietro: i culti pagani mediorientali, egiziani, etc. Per Warburg, dunque, paganesimo e religione cristiana convivono. Warburg utilizza una metafora interessante: «cercare nei bruchi lo sviluppo della farfalla»: si tratta di un’azione etimologica alla ricerca delle radici. In quest’immagine si vedono a destra la ninfa dipinta dal Ghirlandaio, e a sinistra la ninfa del bassorilievo che sta ai suoi piedi. Il Ghirlandaio aveva ben chiaro questo nesso, poiché viveva in quell’epoca, e vi ritrovava una permanenza del paganesimo e di antichità: le letture storiche che si sono stratificate successivamente hanno in un certo senso obliterato quel pensiero, cristallizzandolo. In questo senso, Warburg avvolge il nastro all’indietro, andando a leggere la complessità di quell’immagine e la compresenza di mondi diversi: la Ninfa del Ghirlandaio è una scheggia di antichità sopravvissuta. Al suo ritorno ad Amburgo, dopo un lungo soggiorno a Firenze, Warburg inizia manifestando il suo interesse verso la produzione artistica contemporanea, acquistando alcune opere soprattutto di ambito simbolista ed espressionista. Tra gli artisti di suo interesse si citano Munch, Corinth, Klinger, e poi la Brücke e il Blaue Reiter, parte di una corrente fortemente interessata alla dimensione del sogno, dell’incubo, del sintomo, vicina alla cultura psicanalitica. Carl Bantzer, Danza popolare, 1898 Franz Marc, Cavalla e puledri, 1916 Questi due elementi che si ritrovano nel titolo delle opere, la danza e gli animali, sono importantissimi nel pensiero di Warburg, in quanto costituiscono una dimensione in cui si può essere più scoperti, meno costruiti socialmente: nel ballo è il nostro corpo con la sua verità che si mette in gioco, mentre gli animali rappresentano l’istinto, hanno una bioantropologia incorporata. In questa sua collezione, Warburg non sta cercando una qualità artistica, bensì degli echi alla sua intuizione: sta lavorando sulla sua ossessione. 65 secolo, ero stato spinto in America – oggetto che misi al servizio di una causa sovrapersonale – per conoscere come la vita nella sua tensione oscilli tra i due poli dell’energia naturale, istintiva e pagana da un lato, e dell’intelligenza strutturata dall’altro. Dimensioni centrali nella sua riflessione sono quelle del movimento (il sismografo è uno strumento che registra dei movimenti) e dell’essere al servizio di quella percezione: spesso Warburg si racconta così (segugio, sismografo), a dire di voler mettere la propria sensibilità a disposizione di ciò che si trova al di fuori. È nato, ha vissuto e ha studiato sempre al confine: è scomodo da tutta la vita, e a forza di stare tanto scomodo ha capito che la vita è tensione, è stare tra i due poli: da un lato l’energia istintiva e pagana, e dall’altro l’intelligenza strutturata. A posteriori, Warburg ricomprende gran parte della sua vita leggendola in questa dinamica. Warburg ha un’intuizione potentissima, soprattutto per uno storico dell’arte: chiede ai bambini Hopi di disegnare e raccontare come vedono quel serpente. Di fatto, Warburg riconosce l’autorialità di quel bambino e del suo sguardo: anche quel bambino, come lui, è un sismografo. Si tratta di un metodo antropologico, ad oggi ritenuto un metodo scientifico a tutti gli effetti, ma che allora era una grandissima novità. Il bambino disegna questo uccello-serpente-fulmine, di cui Warburg fornisce un’interpretazione di carattere mitico: nel serpente si trova tutto questo, l’immagine dell’uccello e del fulmine. Questo disegno raffigura un altare di sabbia in un tempio Hopi (dove i serpenti vengono buttati e ammassati prima del rituale), con 4 serpenti-fulmini che rappresentano i punti cardinali. I fulmini assumono la forma di un serpente, mentre la parte superiore del disegno, che ricorda le squame del serpente, è un cielo carico di pioggia. Il serpente viene infatti utilizzato nei riti per propiziare la pioggia in una regione molto secca, ponendosi come un anello di congiunzione tra cielo e terra: è un fulmine, venerato perché garantisce la sopravvivenza della popolazione. In questa foto Warburg coglie il momento della danza. Nelle diverse epoche, il serpente è uno strumento totemico con funzione protettiva: presso la cultura Hopi, Pueblo, gli antichi americani che studia, è la garanzia della pioggia e quindi del nuovo raccolto. Sempre in Il rituale del serpente scrive: I Pueblo si trovano a metà strada fra magia e logos, e lo strumento con cui si orientano è il simbolo. Tra il raccoglitore primordiale e l’uomo che pensa si trova l’uomo che istituisce connessioni simboliche. E le danze dei Pueblo sono un esempio di questo stadio simbolico del pensiero e del comportamento. 66 La connessione simbolica è lo strumento che permette di orientarsi in un mondo spaventoso, e le danze dei Pueblo sono esempi di questo stadio simbolico del pensiero e del comportamento: performare quella danza è un modo per ristabilire le connessioni simboliche. Il fatto che quella danza avvenga ritualmente, così come qualsiasi altro rituale, religioso o laico, è un modo per riagganciare quei significati e quei significanti che lasciati scissi rischiano di farci impazzire. Ludwig Binswanger, lo psichiatra che tiene in cura Warburg, è uno dei primi a adottare la psicanalisi a scopo terapeutico. Il fatto che la clinica Bellevue lavori con il metodo psicanalitico, ovvero sul sintomo, secondo l’analisi freudiana, è una grandissima novità per quegli anni. A dire quanto Binswanger fosse all’interno di una cultura complessa, in cui la psicanalisi viene letta come un fenomeno culturale sin dall’inizio, a Bellevue furono ricoverati anche il pittore tedesco Ludwig Kirchner e il danzatore russo Nijinski, considerato il più grande danzatore della sua epoca, che vi starà a lungo prima di morire giovanissimo. Nel 1923, alla fine del suo soggiorno presso la clinica, Warburg racconta del modo in cui la permanenza presso la clinica gli ha dato delle consapevolezze: Ciò che ho visto e vissuto rende solo l’apparenza superficiale delle cose di cui ho oggi il diritto di parlare, se comincio col dire che il problema insolubile che esse pongono ha pesato sulla mia anima in modo tanto opprimente che non avrei mai osato esprimermi da uomo di scienza su di esso all’epoca in cui ero ancora in buona salute. Ma oggi, nel 1923, a Kreutzlingen, in un istituto chiuso, dove ho l’impressione di essere un sismografo fabbricato a partire da pezzi di legno provenienti da un albero trapiantato dall’Oriente nella fertile pianura della Germania del Nord, e sul quale è stato innestato un ramoscello proveniente dall’Italia, lascio uscire da me i segni che ho ricevuto. Quel nodo di riflessioni, di costellazioni in cui riconosceva gli stessi simboli a diverse latitudini ed epoche storiche, ha pesato profondamente sulla coscienza di Warburg, rendendolo una persona molto problematica, per certi versi infelice. Quando era in buona salute non avrebbe mai osato prendere la parola, tuttavia, oggi, trovandosi in un luogo che percepisce come protetto e sicuro, sente di poter esprimere quell’albero che è diventato. In altre parole: era necessario passare per Bellevue per poter esprimere tutta quella complessità. Durante la Prima guerra mondiale Warburg disegna delle trincee, accumulando tantissimi disegni delle linee del fronte. Ci sono tantissimi disegni di carattere militare e strategico che stupiscono: per quale motivo uno storico dell’arte avrebbe dovuto seguire e rappresentare queste linee? Il curatore e storico dell’arte Didi-Huberman prova a leggere le mappe delle trincee delle linee del fronte disegnate da Warburg durante la Prima guerra mondiale, in particolare interrogandosi sulla relazione tra il suo modo di disegnare, tracciare e rappresentare quello che gli interessa in quel momento e ciò che può essere successo nel suo sistema intellettuale, di pensiero. La teoria di Didi-Huberman è che gli studi di Warburg, e le conseguenze che avranno sulla sua salute mentale, siano in parte una forma di reazione rispetto al 67 coinvolgimento della sua famiglia, nel ramo dell’acciaio e della produzione di armi, nella Prima guerra mondiale: l’idea che la sua famiglia sia complice di quella guerra è per lui una frattura insanabile. Warburg si era definito un sismografo, uno strumento in grado di cogliere le vibrazioni provenienti a centinaia di chilometri. Secondo Didi-Huberman quel sismografo si rompe, e così sopraggiunge la schizofrenia, la malattia della separazione. In generale potremmo dire che di fronte alla guerra, come è successo a molti suoi contemporanei, la complessità che Warburg cercava di tenere insieme (sintomi, simboli, lavoro di tessitura-unione che porta a origini comuni) viene mandata in frantumi: la guerra fa saltare tutto (relazioni, alleanze, confini), e tutto quel lavoro di tessitura fatto per portare ad un’unitarietà esplode in mille schegge. Ecco allora la schizofrenia, la malattia della divisione, che va nella direzione opposta, e che in quegli anni colpisce tante persone. Questo dice Didi-Huberman parlando della schisi, a intendere lo scisma e la frattura, che portano a far saltare violentemente quel lavoro di tessitura, e questo è il tema delle linee di frontiera, non più linee che uniscono, bensì che dividono, fratturano, come spiega in L’immagine insepolta: In mezzo alle sue venticinquemila note sulla guerra in trincea, sconvolto da ogni morte d’uomo, senza sapere chi fosse il colpevole e chi l’innocente, Warburg si mise a far corpo con i fantasmi: si mise a credere di essere lui la causa della guerra – lui che aveva risvegliato i demoni pagani dell’oscurantismo […]. La linea del fronte, la schisi erano in lui. Allora, proprio come il sismografo nietzscheano, bruscamente si guastò. 10/05/2023 Così scrive Warburg in Il rituale del serpente: La redenzione dal sacrificio cruento permea come un intimo ideale di purificazione la storia dell’evoluzione religiosa da Oriente a Occidente. Il serpente partecipa a questo processo di sublimazione religiosa, e il modo di porsi in relazione con esso può essere visto come indice dell’evoluzione della religiosità dal feticismo a pura religione di salvezza. […] Questa idea del serpente come potere ctonio distruttore ha trovato il suo simbolo tragico più efficace nel mito e nel gruppo scultoreo del Laocoonte. Il sacerdote e i suoi due figli, che per vendetta degli dèi muoiono avvolti nelle spire dei serpenti, diventano in questa famosissima scultura dell’antichità l’incarnazione stessa della suprema sofferenza umana. Si propone di seguito una piccola genealogia della figura del serpente, a partire dal disegno fatto dal ragazzino Hopi sotto richiesta di Warburg, ma anche: - Le Menadi danzanti con serpenti: figure mitologiche della cultura classica greca, donne in preda alla frenesia estatica e invasate da Dioniso, il dio della forza vitale, che danzano tenendo in mano i serpenti, senza averne paura → - Il caduceo di Asclepio: personaggio della mitologia greca e romana, divenuto in seguito il dio della medicina. Il suo simbolo è il caduceo, un bastone sacro capace di guarire ogni tipo di malattia, oggi simbolo internazionale del soccorso medico. Il serpente rappresenta il potere guaritivo del dio, simboleggiato dalla muta del rettile che richiama un'eterna rinascita. 70 All’interno di questo spazio, a metà tra la biblioteca e lo spazio espositivo, in cui tutto è intrecciato in nodi profondi, avvengono anche delle conferenze. I cicli di conferenze sono interessanti, perché c’è il libro, la parola, e l’immagine (i pannelli accompagnano e incarnano i contenuti delle conferenze): troviamo tanti elementi di quell’epoca, in cui la presa di parola e la dimensione performativa e teatrale è centrale. Warburg scrive come questa idea di biblioteca/spazio espositivo/luogo di conferenze sia organizzato intorno a quattro concetti-faro: - Pathosformeln: formule del pathos, del ‘come se’ (valenza espressiva e gestuale delle immagini: diverse ricorrenze in cui nelle diverse epoche storiche si incarna il dolore) - Polarität: polarità fra opposti (apollineo e dionisiaco, passato e presente, pathos = dinamismo ed ethos = staticità...) - Orientierung: orientamento (temporale e spaziale: Est-Ovest, Nord-Sud, terra-cosmo, etc.) - Denkraum: spazio del pensiero, minacciato dalla contemporaneità. È uno spazio non solo mentale, ma anche reale, generato dalla distanza posta fra sé e il mondo per proteggersi dal reale. Il denkraum di Warburg è rappresentato dall’Atlante di Mnemosyne. Atlante di Mnemosyne L’Atlante di Mnemosyne, allestito da Warburg con i suoi assistenti, è uno strumento per raccogliere e rappresentare le Pathosformeln, dall’antichità a Rembrandt (il modo in cui «i diversi Paesi e le diverse generazioni […] abbiano successivamente concepito, e concependo trasformato, l’eredità patetica dionisiaca dell’antichità»). L’Atlante si compone di 60 pannelli tematici in cui prova a riassumere, utilizzando immagini con didascalie a parte (spiegazione sintetica delle immagini) la sua idea di denkraum, ovvero di spazio del pensiero, ricostruendo in che modo alcuni archetipi delle storie del pensiero si sono manifestati in spazi e tempi diversi. Sono concepiti come serie morfologiche, lette attraverso lo strumento della comparazione. Volutamente, manca una disposizione sequenziale o temporale: Warburg non sta creando gerarchie o cronologie, né un discorso lineare, poiché i poli sono sempre molteplici, e si lavora nella complessità. Obiettivo di Warburg non è spiegare l’evoluzione di un concetto, bensì mapparne le ricorrenze e le ricadute visive in momenti diversi della storia. Prendendo spunto dall’Atlante di Aby Warburg, che ha studiato approfonditamente, Georges Didi Huberman progetta Atlas. Come portarsi il mondo sulle spalle, una mostra decisiva, allestita nel 2011 al Reina Sofia di Madrid, nella quale, lavorando a partire da mappe complesse, spinge il metodo di Warburg fino alla stretta contemporaneità. Così Warburg parla del suo progetto: Mnemosyne. Il risveglio degli dei pagani nell’epoca del Rinascimento europeo in quanto forma di valore espressivo-energetica. Un tentativo per una scienza della cultura storico-artistica. Due volumi di testo. Inoltre, un atlante con circa 2mila immagini. L’Atlante di Mnemosyne è rimasto incompiuto a causa della morte prematura di Warburg: avrebbe dovuto far parte di un progetto unitario di cui la Biblioteca e gli scritti erano parte integrante. Ad oggi rimangono tutti e 60 i pannelli salvati dai suoi assistenti (Gertrud Bing e Fritz Saxl), consultabili integralmente sul sito Engramma, affiancati dai testi di Salvatore Settis. Ho in mente per la mia biblioteca una definizione come questa: una raccolta di documenti relativi alla psicologia dell’espressione umana […]. Nell’uomo primitivo l’immagine della memoria produce un’incarnazione religiosa delle cause (il feticcio), nell’uomo civilizzato un distacco mediante l’atto di denominare […]. In uno stadio successivo, la memoria non suscita un movimento immediato, un riflesso diretto a uno scopo, ma le immagini della memoria sono ormai coscientemente immagazzinate nelle raffigurazioni, e (…) tra queste due fasi si situa un modo di manipolare le impressioni che possiamo definire simbolico. 71 Il feticcio dell’uomo civilizzato, ovvero l’uomo del Rinascimento, è denominare. In questo senso, il simbolo è quell’oggetto che compie un andirivieni tra due fasi, legando l’oggetto al suo significato. La biblioteca è organizzata su quattro piani, dal basso all’alto: 1. Orientierung (orientamento) 2. Wort (parole) 3. Bild (immagini) 4. Dromenon (azioni) Nel 1929 Warburg muore per un attacco cardiaco, e nel 1934 la Biblioteca viene trasferita al Warburg Institute di Londra, dove Gertrud Bing e Fritz Saxl continuano i suoi studi e ne portano avanti il lavoro, anche sistematizzando Biblioteca e Atlas e pubblicando gli inediti. La generazione successiva vede la presenza di Erwin Panofsly, Rudolf Wittkower ed Ernst Gombrich (direttore del Warburg Institute nel 1959-76), storici dell’arte importantissimi cui dobbiamo un’ulteriore elaborazione del pensiero di Warburg. Nella fattispecie, nel 1970 Gombrich scrive e pubblica un libro interessantissimo: Aby Warburg. Una biografia intellettuale. A questo punto è interessante raccontare un’esperienza fatta da un artista all’interno del Kunsthistorisches Institut di Firenze, uno degli istituti di storia dell’arte che Warburg ha contribuito a fondare. Questo istituto ha una fototeca estremamente ricca, che si è prestata a una riflessione di un artista contemporaneo, Massimo Ricciardo, che ha lavorato su alcuni oggetti lasciati dai migranti a Lampedusa. Un’esperienza contemporanea al Kunsthistorisches Institut di Firenze Il lavoro di Ricciardo è particolarmente interessante per il suo metodo in un certo senso warburghiano: consentire a schegge di contemporaneità di riaffiorare nella storia, ricucendo pezzi di storia passata e presente attraverso una chiave di ricorrenza. Trattandosi di un lavoro artistico, in alcuni casi c’è proprio una componente di installazione, ma il più delle volte il lavoro è stato presentato nella forma di una sorta di mostra pop-up, in cui ciclicamente l’artista riallestisce la mostra, che viene aperta al pubblico (l’arista, la direttrice dell’istituto e un gruppo di persone che di volta in volta si riuniscono intorno agli oggetti). Una mappa usata effettivamente dai migranti (o più probabilmente dagli scafisti), ad esempio, viene accostata a delle mappe antiche conservate nell’istituto: l’idea è di ritrovare quel metodo warburghiano non con uno spirito di riflessione filologica, ma con uno sguardo puramente artistico. Non ci sono didascalie né spiegazioni: si tratta di una comparazione con sguardo artistico, con un certo grado di serendipità, poiché priva di un legame evidente o didascalico: sono due poli, è un ‘come se’, un due, la possibilità di creare un nesso. Sacchetto di plastica contenente terra (di origine) Provenienza: Portopalo di Capo Passero Data di arrivo: 12/09/2007 Nota: l'imbarcazione trasportava 28 immigrati eritrei ed etiopi (25 uomini e 3 donne) Fotografia di un calco in gesso di vittima dell'eruzione di Pompei Provenienza: sconosciuta Data di inventariazione in Photothek: 28/10/1982 Nota: fotografia scattata dallo studio fotografico Brogi presso il Museo di Pompei nel 1879/80 72 Diario personale di un migrante Provenienza: Portopalo di Capo Passero Data di arrivo: sconosciuta Nota: la barca trasportava 28 migranti eritrei ed etiopi (25 uomini e 3 donne) Recto del supporto con stampa al collodio che riproduce il Giovanni Battista di Andrea Previtali Provenienza: Lascito di Gustav Ludwig Data di inventariazione in Photothek: 1907-11 Otto fotografie a colori (15 x 10 cm) Provenienza: sconosciuta Data di arrivo: 25/06/2007 Nota: la nave trasportava 33-38 migranti Supporto in cartoncino con tracce di immagini staccate Provenienza: sconosciuta Data di inventariazione in Photothek: 14/01/1933 Nota: il supporto in cartoncino reca tracce di colla e le didascalie originali; è stato trovato nella scatola "Fehlende Fotos" (fotografie mancanti). 11/05/2023 Quando nel 1550 Vasari pubblica Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architetti, esprime, forse per la prima volta (c’erano stati già tentativi meno celebri di raccontare le vite di artisti celebri), l’idea che quello che un tempo era il lavoro della bottega, un lavoro anonimo e collettivo, che atteneva più alla vita lavorativa che all’arte, entrava nel regno dell’arte, una disciplina fondamentalmente nuova, che nasceva in quel momento. A partire dal XIV secolo si esce dal paradigma medievale, per cui l’icona è oggetto di culto essa stessa: non è solo la rappresentazione della Madonna, bensì un pezzo di sacralità caricato di potere. Nel cristianesimo orientale le icone vengono dipinte da persone che hanno ricevuto i sacramenti, poiché l’atto di dipingere è considerato esso stesso una forma di liturgia, di preghiera. Fino al XIII-XIV secolo un’icona della cultura del cristianesimo occidentale ha quello stesso valore, e così come c’è una componente di anonimato nella produzione tecnica di una cattedrale, di un ponte, di una strada, etc., così fino a quella stagione è anonimo l’autore di icone religiose. Nel passaggio tra XIII e XIV secolo, con il cambiamento del cristianesimo, e con esso della relazione tra uomini e divinità, si iniziano a conoscere nomi e cognomi degli artisti. A partire da Cimabue e Giotto si conosce il nome di grossomodo tutti gli artisti, e quelli non noti sono stati ricostruiti attraverso procedimenti di carattere investigativo e sintomatico (metodo di Giovanni Morelli). Si entra così nella Modernità, che va dal XV al XIX secolo. Con le Avanguardie artistiche, in particolare a partire dagli anni Trenta-Quaranta del Novecento, arrivando in tempi più recenti ai cosiddetti Visual Studies, o Cultural Studies, si è trasformata la consapevolezza della storia dell’arte come un filo lineare che si sviluppa, come lo raccontava Vasari, dal peggio al meglio, dal bene, al benissimo, all’ottimo, come una freccia scagliata linearmente da punti oscuri e confusi verso la più grande capacità di rappresentare la realtà: per Vasari l’apice era rappresentato dalla capacità mimetica di rappresentare la natura, e noi siamo figli di questo pensiero (Cimabue-Giotto-Raffaello). 75 Il 24 aprile 2019 alcuni tifosi della Lazio, noti per essere una delle curve più a destra d'Italia, espongono in corso Buenos Aires angolo piazzale Loreto uno striscione che recita il testo “Onore a Benito Mussolini”. Dopo qualche minuto, scandito da saluti romani e slogan fascisti, lo striscione è stato ripiegato. Questo episodio fa riflettere su una questione importante: forse, la mancanza di tracce della memoria, di una traccia che dica “qui è successo questo”, genera la possibilità di ri-significazioni e riappropriazioni nostalgiche, uno spazio dove la memoria va ad infilarsi. Una lettura storica A questo punto è utile fare una piccola riflessione storica sul passaggio dal monumento, che dall’origine dell’umanità fino alla Seconda guerra mondiale è stato il luogo che cristallizzava la memoria storica, verso il memoriale, per arrivare ad esperienze ancora più recenti, a partire dagli anni Settanta del Novecento, che sono quelle del contro-monumento (James Young, 1992), del museo diffuso, del parco della memoria, etc. In Il museo e la biblioteca postcoloniale (2012), lo storico dell’arte e antropologo Iain Chambers scrive: Il museo, da cripta nazionale e cimitero commemorativo, diventa una rete migrante di tracce e memorie. Nel Novecento la “cripta nazionale”, ovvero il museo come luogo politico istituzionale, con tutta la sua prosopopea politica, diventa una “rete migrante di tracce e memorie”. Lo si definisce migrante perché si può spostare: è un tracciato spesso immateriale, digitale, incorporato, tradotto in una performance, intesa come momento di rappresentazione effimero che si crea e poi si scioglie. Altare di Pergamo (II sec a.C.) L’Altare di Pergamo è il monumento per eccellenza, realizzato dal re di Pergamo Eumene II in onore di Zeus, costruito come conferma definitiva della vittoria di Pergamo sui rivali, i Galati, nel 166 a.C. Si tratta di una struttura simmetrica di grandi dimensioni che si appoggia su un basamento formato da cinque gradini sui quali si eleva uno zoccolo in marmo. È circondato su tre lati da un portico con colonne ioniche che si prolunga in avanti con due ali a fiancheggiare la scalinata di accesso. Tra gli elementi chiave si sottolineano innanzitutto la scalinata e le grandi dimensioni: questo comporta che lo si guardi dal basso verso l’alto. Il monumento, infatti non è mai qualcosa di osservabile dall’alto verso il basso: è fatto per essere visto dal basso. 76 Ara Pacis Augustae (9 a.C.) Altro monumento celebre è l’Altare della Pace di Augusto, che rappresenta una delle più significative testimonianze pervenuteci dell'arte augustea e intende simboleggiare la pace e la prosperità raggiunte come risultato della Pax Romana. In questo monumento si ritrova la stessa organizzazione dell’Altare di Pergamo: scalinata, monumentalità, simmetria, cui si aggiunge una dimensione processionale. È interessante questo elemento di verticalità e simmetria totale, a sottolineare una linearità dell’approccio: già nel 9 a.C. si aveva una sorta di codificazione del concetto di monumento: non un edificio con scopo religioso, culturale o funzionale, bensì un luogo in cui coltivare la memoria. La Prima Guerra Mondiale, che costò al mondo intero nove milioni di vittime tra i militari, a cui si aggiunsero circa sette milioni di vittime civili, per effetto dei nuovi mezzi d’assalto messi a punto per la Marina e l’Aeronautica militare, cambiò in maniera determinante ed irreversibile non soltanto le modalità delle operazioni belliche ma anche le modalità di percezione e di elaborazione del lutto collettivo. Al termine del conflitto, in tutta Europa furono eretti sacrari sui campi di battaglia e monumenti commemorativi nei loro pressi. È facile capire per quale motivo, soprattutto nel Ventennio Fascista, si riprenda esattamente quel modello classico, transitato pressoché senza soluzione di continuità fino agli anni immediatamente successivi alla Prima guerra mondiale, in cui l’Italia e l’Europa, come detto, pullulano di monumenti ai caduti. Monumento al Milite Ignoto, Altare della Patria (Roma, 1921) Un esempio importante è l’Altare della Patria di Roma, che in sostanza riprende tutto l’apparato linguistico del mausoleo di Alicarnasso spostandolo a Roma. Si tratta di una tomba di un militare italiano caduto al fronte durante la Prima guerra mondiale e sepolto a Roma sotto la statua della dea Roma all'Altare della Patria al Vittoriano. La sua identità resta ignota poiché il corpo fu scelto tra quello di caduti privi di elementi che potessero permettere il riconoscimento, e rappresenta simbolicamente tutti i caduti e i dispersi in guerra italiani. In questo monumento torna quel vocabolario della classicità, della simmetria, della monumentalità, con un’assoluta sproporzione tra le dimensioni della sepoltura di quel singolo soldato e l’enorme apparato che gli viene costruito intorno: si viene a creare una sorta di doppio registro tra l’intimità della sepoltura di una sola persona e questo apparato, che però avrà una vitalità e una permanenza molto potente lungo i decenni. Ancora oggi, infatti, è scenario di cerimonie ufficiali che si svolgono annualmente in occasione di festività civili durante le quali il Presidente della Repubblica Italiana e le massime cariche dello Stato rendono omaggio al sacello del Milite Ignoto con la deposizione di una corona d'alloro in ricordo ai caduti e ai dispersi italiani nelle guerre. 77 Sacrario di Redipuglia (Gorizia, 1938) Interessante è anche il Sacrario di Redipuglia, il più grande e maestoso sacrario italiano dedicato ai caduti della Prima guerra mondiale, in cui sono sepolti 100.187 soldati. Questo monumento lavora sullo stesso vocabolario (monumentalità, simmetria, etc.), ma in una chiave aggiornata: si aggiunge della ridondanza e della ripetizione, con una necessità di leggibilità (con un solo colpo d’occhio sono in grado di abbracciare quello che ho davanti). Mi viene raccontata una sola storia, quella della guerra, e la necessità di onorarla camminando tra le sepolture, all’interno di questo sacrario. L’iconografia tradizionale del Monumento ai Caduti della Grande Guerra Dopo la Prima guerra mondiale in Italia e in Europa sono tantissimi i monumenti ai caduti della Grande Guerra, tanto che avviene una sorta di specializzazione degli artisti in questa categoria: molti artisti di questi anni realizzano per tutta la loro vita quasi solo monumenti ai caduti. Questa è un’immagine tipica, potremmo moltiplicarla all’infinito. Sotto il profilo architettonico ed artistico, in particolare per quanto attiene agli aspetti iconografici e simbolici, la fantasia dei progettisti e degli artisti si sbriglia in un ventaglio assai ampio ed articolato di proposte ispirate di volta in volta al linguaggio figurativo classico, liberty, futurista: di particolare rilievo appaiono quelle interpretazioni del tema monumentale che si rivelano capaci di rielaborare in chiave civile il modello della Pietà (soldato sorretto dalla Madonna, etc.). Si affermano anche stilemi attraverso i quali filtra utilmente la visione fascista dell’uomo e delle cose: l’immagine classica o classicheggiante della Vittoria alata mentre depone una corona sul capo del milite caduto o sul cippo che reca incisi i nomi dei caduti, la figura del soldato (che rappresenta i vari corpi delle Forze Armate) in posizione statica oppure colto plasticamente in azione, etc. Fondamentalmente, visto l’enorme numero di caduti ignoti, il paradigma è esattamente quello di celebrare il coraggio dei soldati, dell’uno che vale per tutti. Ad oggi, la nostra vista ha incorporato questi monumenti come parte di un paesaggio urbano consueto. 80 Il processo Eichmann, 1961 Il processo a Adolf Eichmann è il termine usato per descrivere il processo contro l'ex SS- Obersturmbannführer tedesco Adolf Eichmann, in cui fu ritenuto responsabile dell'omicidio di milioni di ebrei davanti al tribunale distrettuale di Gerusalemme tra l'11 aprile e il 15 dicembre 1961. Il verdetto è stato di morte per impiccagione. Il processo contro Eichmann ha attirato l'attenzione internazionale ed è stato seguito con grande interesse dai media di tutto il mondo, in particolare in Germania e in Israele, poiché per la prima volta ha sensibilizzato l'opinione pubblica sulle uccisioni pianificate degli ebrei europei. Le immagini e le registrazioni sonore del processo Eichmann sono diventate icone dell'Olocausto. Molti documentari si sono avvalsi degli zoom, degli estratti e delle prospettive scelte all'epoca dalla troupe cinematografica. Il processo Eichmann, le sue citazioni e le sue immagini hanno segnato un punto di svolta nella visione della Germania occidentale del passato. Ha portato a un rinnovato interesse e alla fine della repressione che aveva prevalso nella Germania occidentale fino a quel momento in relazione allo sterminio degli ebrei. Nel 2015 esce il film The Eichmann Show, particolarmente interessante perché racconta il pensiero visivo, il processo visto con gli occhi della troupe che ha filmato, fondamentale per capire questo discorso sulla memoria, oltre che per capire come lo strumento della televisione può essere certamente un alleato potentissimo, ma anche soggettivo, delicato, orientato. Inizia con Eichmann, costretto a presentarsi fisicamente a processo, dove vengono esposti pubblicamente e in mondovisione progetti di documentazione, archivi, video, etc., la cosiddetta era del testimone, che a partire dagli anni Sessanta rappresenta la possibilità di non negare l’esistenza della Shoah. Anni Cinquanta-Sessanta: oblio o cancellazione delle tracce materiali della dittatura nazifascista Con gli anni Cinquanta e Sessanta inizia una riflessione sulle modalità in cui raccontare le tracce materiali della dittatura nazifascista. Questa riflessione si concentra sulle possibilità di trasformare questi luoghi, che sono stati centrali negli avvenimenti della Seconda guerra mondiale, preservando la loro memoria per affinità o per contrasto, per conservazione o per distruzione. Un esempio è il caso della Topographie des Terrors a Berlino, negli anni della guerra sede della Gestapo a Berlino, riaperta e trasformata in forma di mostra nel 1987, a documentare le agghiaccianti strategie omicide, i piani e le azioni della Gestapo, delle SS e della Sicurezza del Reich che lì avevano sede. 81 Christian Boltanski, Maison manquante (Berlino, 1990) A partire dagli anni Ottanta e Novanta per la prima volta si può lavorare a partire dall’arte contemporanea (fino a quel momento non c’era la possibilità di rappresentare in forma artistica). Uno degli artisti più importanti che hanno lavorato per mantenere la memoria è l’artista francese di origine ebraica Christian Boltanski, il quale, con un approccio assolutamente laico, ma molto potente sul piano visivo, ha lavorato proprio sul tema del risarcimento della memoria. Come si vede nel caso della Maison manquante, il suo lavoro è apporre delle targhe in corrispondenza di appartamenti di famiglie uccise o deportate durante la Shoah ricordando i loro nomi e cognomi. Boltanski lavora preservando questo vuoto, poiché esso stesso è il monumento, e semplicemente lo puntella scrivendo queste piccole targhe memoriali, antiretoriche, leggere, non leggibili dalla strada, di cui al contempo si capisce molto bene il senso: all’interno del reticolo che si viene a creare tra una targa e l’altra, il nostro cervello automaticamente ripristina il pieno. Gunther Demnig, pietre d’inciampo Si arriva così a una forma notissima, presente in tutte le città, inventata dall’artista tedesco Gunther Demnig: le pietre d’inciampo (Stolpersteine in tedesco). Questa iniziativa è una delle tante azioni intraprese in ogni parte del mondo per preservare il ricordo delle vittime del nazismo e del fascismo. Questi piccoli blocchi quadrati di pietra (10x10 cm), ricoperti di ottone, vengono posti davanti alla porta delle case nelle quali vivevano le persone deportate nei campi di sterminio, ricordate nelle stolpersteine con una formula standard, tradotta nella lingua del paese di destinazione: nome e cognome, data di nascita, data e luogo di deportazione e quella della morte (la scelta della parola “assassinato” e non “morto” è evidentemente significativa). Obiettivo delle pietre d’inciampo, un inciampo emotivo e mentale, non fisico, è mantenere viva la memoria delle vittime dell’ideologia nazi-fascista nel luogo simbolo della vita quotidiana, ovvero la loro casa, invitando allo stesso tempo chi passa a riflettere su quanto accaduto in quel luogo e in quella data, per non dimenticare. È esattamente il contrario del monumento al milite ignoto: le pietre d’inciampo sono osservate dall’alto e hanno dimensioni modeste. Monumento al Deportato Politico e Razziale (Carpi, 1973) Soprattutto negli anni Sessanta e Settanta, ma spesso ancora oggi, si lavora molto alla costruzione dei memoriali, che sostituiscono sempre più il monumento. Un esempio è il Monumento al Deportato Politico e Razziale, un museo storico sulla deportazione e sui campi di concentramento nazisti progettato dallo studio BBPR, situato al piano terra del Palazzo dei Pio, nel centro storico della città di Carpi. 82 Nel cortile esterno sedici grandi stele, monoliti in cemento alti sei metri, recano i nomi di 60 campi di concentramento e di sterminio nazisti. Le stele, nelle cavità da cui emergono, sono arricchite da roseti, simbolo di rinascita. Il museo, inaugurato nel 1973, è composto da tredici sale, caratterizzate da luci ed elementi grafici particolari tesi a creare un'atmosfera di impatto emotivo per il visitatore basato su simboli e graffiti. La continuità delle sale è scandita dall'incisione di frasi alle pareti, che costituiscono la principale testimonianza del Museo: si tratta di brani scelti da Nelo Risi dalle Lettere dei condannati a morte della Resistenza europea (Einaudi, Torino, 1954). Le frasi delle vittime incise sui muri trattano la loro terrificante esperienza nei lager nazisti, e vogliono contribuire alla partecipazione emotiva del visitatore. Le pareti di alcune sale sono decorate da graffiti su bozzetti di noti pittori, come Cagli, Guttuso, Léger, Longoni, Picasso, mentre le teche contengono reperti, materiali e fotografie, che documentano la vita dei prigionieri nei campi, raccolti e ordinati da Lica e Albe Steiner. L'ultima sala reca incisi sulle pareti e sulle volte i nomi di circa 15.000 cittadini italiani deportati nei lager. L’idea alla base del graffito non è solo quella di richiamare l’atto dei prigionieri deportati che incidono sulle pareti, ma anche di fondere, di incorporare nel muro, affinché non ne venga più sradicata la memoria, le immagini e le parole che ricordano questi avvenimenti, perché tutto l’edificio è monumento: è un memoriale, e questo in particolare è un luogo unico nel panorama dei memoriali europei. Risiera di San Sabba (Trieste, 1975) Un altro luogo di deportazione e di sterminio è la Risiera di San Sabba a Trieste, un campo di concentramento nazista, situato nella città di Trieste, utilizzato come campo di detenzione di polizia, nonché per il transito o l'uccisione di un gran numero di detenuti, in prevalenza prigionieri politici ed ebrei. Le vittime (stimate fra le 3000 e le 5000, sulla scorta delle testimonianze raccolte) venivano fucilate, uccise con un colpo di mazza alla nuca, impiccate oppure avvelenate con i gas di scarico di furgoni appositamente attrezzati. Del lager faceva parte un forno crematorio, di concezione rudimentale, che veniva utilizzato per bruciare i cadaveri (si tratta dell’unico campo con camera a gas in Italia). 85 Superato l’ingresso principale affacciato su piazza Edmond J. Safra 1, i visitatori accedono all’atrio, dominato da un lungo muro lacerato al centro, nel quale è incisa la grande scritta “Indifferenza”, quintessenza, secondo Liliana Segre, deportata da questi spazi, del motivo per il quale la Shoah è stata possibile. Il primo allestimento permanente che si incontra è l’osservatorio dove si proietta un filmato dell’Istituto Luce che, illustrando l’utilizzo originario dell’area e il funzionamento del montavagoni, permette di comprendere come quest’area nascosta al pubblico fu requisita dall’occupante nazista nel settembre 1943 e adibita fino alla liberazione, nel 1945, alla formazione dei treni speciali diretti ai campi di transito, di concentramento e di sterminio. Nella seconda campata, alle spalle delle stanze delle testimonianze dove si proiettano le interviste videoregistrate dei sopravvissuti, sorge anche lo “spazio mostra” dedicato a Bernardo Caprotti. La demolizione dei tramezzi non originali che separavano la terza campata dalla zona dei binari di manovra consente la vista della banchina delle deportazioni o area dei binari (). Qui i visitatori si trovano di fronte ai vagoni merci originali, sui quali venivano caricati a forza i prigionieri. Oltre il vagone, in corrispondenza di un successivo binario, di fronte al montavagoni, è collocato il Muro dei Nomi, su cui sono proiettati tutti i nomi dei prigionieri che sono stati deportati da questa stazione, ai piedi del quale si trovano le lapidi dei convogli (→). Al termine della banchina, dalla parte opposta del montavagoni, attraverso una rampa elicoidale si accede al cosiddetto Luogo di Riflessione (), un luogo di meditazione aconfessionale pensato come uno spazio a sezione tronco-conica nel quale è possibile sostare, confrontarsi, pensare, pregare. Questo spazio è privo di alcun simbolo religioso (la pianta si limita a indicare l’est per le religioni monoteiste). Le persone che hanno lavorato nel Memoriale tengono molto al fatto che sia considerato non un museo o un luogo di fede, bensì un luogo di memoria storica. Il memoriale, a differenza del museo, ha una qualità che prescinde dalle spiegazioni, dalle didascalie, dal racconto: ha valore come spazio architettonico, una sua sacralità che in questa fattispecie è data dal fatto di essere un luogo autentico, e non un pezzo di memoria applicato dall’esterno. 86 17/05/2023 Nella scorsa lezione si era parlato del processo che porta dal monumento tradizionale (vedi Mausoleo di Alicarnasso) verso l’idea di un contro-monumento, un monumento che parla dal basso verso l’alto, piccolo e leggero, disponibile a una rinegoziazione, etc. In questo periodo si parla tantissimo di queste tematiche, a valle di tutto un insieme di movimenti (BLM, Me Too, Fridays For Future, etc.) che hanno portato un’attenzione su temi di giustizia sociale che anche solo dieci anni fa non sarebbero stati così rilevanti. La critica dell’ultima Biennale di Venezia (aprile-novembre 2019) era una critica tutta orientata da questo tipo di lettura, in chiave di giustizia sociale, decolonizzazione, restituzione. La memoria è una struttura magmatica e fluida, che si costruisce e decostruisce nelle epoche, ma quello che Warburg ha suggerito è che la memoria di un evento o di una forma non scompare mai. Warburg aveva parlato nello specifico di pathosformeln: ci sono momenti ed epoche, come già avevano detto Riegl o Worringer, in cui c’è una necessità espressiva (Kunstwollen), per cui si ritorna a riutilizzare quella forma, quell’icona, magari non utilizzata per duemila anni. Lo stesso facciamo noi pensando per esempio alla Shoah: c’è stata una lunghissima stagione in cui volontà politiche, culturali, importanti rimossi collettivi ne hanno silenziato la memoria. In Italia, per esempio, è la memoria del Fascismo, per tutti i motivi che sappiamo: gli anni Settanta-Ottanta, la DC, il delitto Moro e un insieme complessissimo di altri fattori (è sempre una costellazione complessa di fattori memoriali, politici e economici che concorrono). Grossomodo negli anni Novanta arriva un momento in cui ci si rende conto, a livello non solo europeo, che i corpi dei testimoni non saranno disponibili per sempre. È il momento in cui Liliana Segre, e con lei molti altri, che avevano rischiato di divenire voci silenziate nella storia, decidono di prendere la parola. Questo avviene non solo in Europa ma anche negli Stati Uniti, dove il lavoro di Steven Spielberg è stato fondamentale nel recupero delle testimonianze: Spielberg è stato a capo di una campagna di raccolta testimonianze che ha generato un palinsesto colossale sul piano della memoria di catalogazione e raccolta di testimonianze di prima mano. Studio Azzurro, Museo Audiovisivo della Resistenza (Fosdinovo, 2000) Un’esperienza visiva molto interessante è quella del Museo Audiovisivo della Resistenza di Fosdinovo, dove un importante studio di artisti e progettisti audiovisivi, Studio Azzurro, ha fatto un lavoro attraverso l’audiovisivo, in anni abbastanza precoci per questo media (siamo nel Duemila). Negli anni Ottanta, Studio Azzurro è stato pioniere di un lavoro di cosiddetta public history: la storia fatta non solo da storici e accademici, ma dai cittadini che l’hanno vissuta in prima persona. Secondo questa linea di pensiero, la storia ha validità sia che la racconti il grande storico, sia che la racconti il singolo cittadino, magari anche con poca formazione scolastica, ma testimone di prima mano. Questa narrazione con audiovisivo, media di cui si parlava molto negli anni Novanta, va nella direzione di cui si parlava prima: smaterializzare, alleggerire. Lo scopo non è creare mausolei, bensì delle strutture narrative leggere, potenzialmente integrabili e trasformabili nel tempo, perché le sensibilità cambiano, e il tema non 87 è creare delle narrazioni immutabili, bensì poter lavorare sulla memoria in una chiave dialogante, che testimonia che la storia è sempre contemporanea. In quegli anni andavano di moda le proiezioni interattive: il gesto di toccare permetteva di entrare. Dal nostro punto di vista, questo elemento dell’interazione, collocato tra gli anni Ottanta-Novanta-Duemila è un tema molto forte: in quegli anni l’interazione veniva estesa dalla dimensione del lavoro con i bambini, e portata anche al lavoro educativo con gli adulti. È ovvio che questa implicazione corporea è cognitivamente rilevante. Sul piano cognitivo è molto rilevante, e caratteristico di questo preciso momento storico è che si lavora nei musei e nei luoghi espositivi pensando agli spettatori come interlocutori. In realtà, lo spettatore non è mai passivo: l’atto di osservare implica un lavoro intenso, e nemmeno quando dormiamo il nostro sistema visivo si annulla (rem, sogni, etc.): il nostro cervello è sempre in relazione con la visione, che siamo vedenti oppure no, che abbiamo gli occhi aperti o chiusi, che stiamo vegliando o dormendo, e non possiamo prescindere da questo, poiché il nostro apparato visivo è sempre attivo, e noi siamo la nostra visione. In questo senso, dunque, non esiste il concetto di spettatore passivo, e l’interattività per certi versi può distrarlo, depotenziando la sua visione. In ogni caso, è interessante leggerla storicamente, e anche capire in che modo è evoluta questa lettura di interazione con la memoria. In questo caso, il tema è far sfogliare, aprire il libro, entrare dentro le pagine, facendo sentire lo spettatore più partecipe. Come questa realtà di Studio Azzurro, tanti altri musei si sono basati sull’interazione. La domanda principale è: con la caduta del Muro di Berlino (1989) finisce la stagione dei monumenti? La riflessione sulle statue, alla luce di movimenti come BLM, ci porterebbe a dire di no: le abbiamo viste buttate nel fiume, imbracciate, travestite, negoziate, protette, difese, ancora fortemente centrali. In questo senso, dunque, non è la fine della stagione del monumento: è finita la stagione in cui si pensava che qualunque statua messa al centro di una piazza cittadina rappresentasse persona necessariamente d’esempio. In altre parole: abbiamo maturato un rapporto più complesso e più maturo con la storia. Nell’immagine si vede la deposizione della statua di Enver Hoxha (Tirana, 1991). Mille altre statue vengono abbattute nel mondo ex- sovietico. Da questo momento in poi, dalla caduta del Muro di Berlino, e conseguentemente dalla fine della contrapposizione tra Europa dell’Est ed Europa dell’Ovest, che cessa di essere un paradigma vincolante, la storia non va più a incorporarsi nella statua, nel monumento, bensì in meccanismi leggeri, flessibili, esportabili, immateriali, performativi: tutto quello che si contrappone alla solidità del bronzo e del marmo. Oggi l’accento viene posto sui nessi relazionali, sulla partecipazione, sull’antiretorica, e così nascono il contro-monumento, il museo diffuso, il parco della memoria, la casa della memoria, etc. In Memento. L’ossessione del visibile, Pietro Gaglianò scriveva: Soprattutto negli ultimi decenni del Novecento si è sviluppata un’estetica alternativa alla tradizione plastica dei memoriali [….]: opere permanenti e installazioni temporanee negli spazi pubblici che escludono percorsi narrativi eccessivamente informativi o dettagliati, che non incorporano condanne dirette a precise categorie sociali, politiche, nazionali, ma puntano a ispirare riflessioni sulle responsabilità piuttosto che sulle colpe, a sollecitare l’impegno per il futuro anziché una più o meno dolente recriminazione verso il passato. Attorno alla loro presenza si aprono discussioni sul ruolo che ognuno può assumere rispetto alla storia, su quale storia scrivere, sugli strumenti e sulle forme da utilizzare per scriverla. 90 Le «rose di Sarajevo», anonimo Quest’opera anonima consiste in vernice rosa colata nei buchi lasciati nell’asfalto dalle granate durante la guerra dei Balcani. A tal proposito, numerose città hanno deciso di mantenere le ferite lasciate dalla guerra. Jamie Wardley e Andy Moss, The Fallen (Normandia, 2013) Questa installazione, realizzata nel 2013 per celebrare la Giornata mondiale della Pace, rappresenta quanto di più leggero e immateriale. Dotati di rastrelli e stampini, gli artisti e una serie di volontari hanno inciso nella sabbia 9000 sagome di soldati caduti: si tratta di un promemoria visivo delle persone e delle forze alleate che morirono combattendo durante il D-Day nella Seconda guerra mondiale il 6 giugno 1944. Il gruppo di volontari, inizialmente composto da poche decine di persone, ha visto poi la partecipazione di tutta la cittadinanza. 24/05/2023 Che cosa fare delle tracce del fascismo? Il tema è fare in modo, per quanto possibile, che non ci sia una lettura ideologica, anche se è chiaro che si tratta di temi caldi, su cui non è possibile alcun tipo di neutralità. La domanda da porsi è: in che modo è possibile rinegoziare quelle tracce? Un esempio è la Piazza del Tribunale, Bolzano, dove si trova un bassorilievo del 1939 con Mussolini a cavallo. La decisione che si è presa è stata quella di inserire alcune scritte, tra le quali la frase di Hanna Arendt (nessuno ha il diritto di obbedire), per «depotenziare» il palinsesto visivo che si trova sotto, come a divenire una nuova didascalia. Ad oggi nei musei si lavora sulle molteplici didascalie, magari conservando una didascalia originaria che usa un termine desueto, aggiungendone una nuova, che contestualizzi la prima. 91 Un caso noto è quello riguardante l’opera di Andy Warhol Pink Race Riot. Il museo Ludwig (Colonia, Germania) in cui è esposta una delle stampe, ha scelto di accompagnarla da una didascalia che spiega perché hanno deciso di conservare quel titolo originariamente attribuitogli da Warhol, nonostante il termine “race” nel contesto tedesco sia particolarmente controverso e problematico. È come se fosse una nuova didascalia. Un lavoro molto importante che si fa nei musei è quello di lavorare sulle molteplici didascalie: conservare la didascalia originaria, magari con termini desueti o parole che oggi non sono più utilizzate, mantenendola ma aggiungendone di nuove, ad esempio spiegando perché quella parola oggi considerata offensiva secondo la sensibilità di quegli anni poteva essere tranquillamente utilizzabile. Un altro tema interessante è quello dell’odonomastica, ovvero tutto ciò che riguarda le denominazioni di strade, piazze, edifici, luoghi pubblici, etc. Un esempio a Bergamo riguarda Antonio Locatelli, figura problematica da tanti punti di vista, cui sono intitolati numerosi luoghi della città. Oggi, molte città vedono la presenza di gruppi che si occupano di rinominazione, o di denominazioni plurime. Un esempio riguarda la rinominazione di una fermata della metro C di Roma. Dopo una petizione online che ha raccolto migliaia di firme, la futura stazione della metro C che collegherà San Giovanni e Fori Imperiali a Roma, verrà intitolata alla memoria di Giorgio Marincola, il primo partigiano nero d’Italia, e non come originariamente previsto seguendo le vie dove insisterà la struttura, all’Amba Aradam, l’altopiano montuoso al nord dell’Etiopia, dove durante la campagna fascista più di 20.000 etiopi vennero massacrati dai gas e dai bombardamenti della guerra coloniale. Questo è un procedimento importante: si mantiene il luogo ma si cambia la denominazione. Museo diffuso Riassumendo, l’andamento va dal monumento tradizionale ottocentesco della Prima guerra mondiale verso altre forme memoriali: museo diffuso, parco della memoria, opera d’arte, etc. In generale, si tratta di forme più leggere, provvisorie e meno istituzionalmente solide di negoziare la memoria. Un esempio è il Museo diffuso della Resistenza, della Deportazione, della Guerra, dei Diritti e della Libertà di Torino. Uno dei grandi valori di questo museo è il fatto che è ricavato in un luogo autentico: si tratta infatti di un bunker, all’interno del quale sono stati ricavati degli spazi con tavoli interattivi e strumenti tecnologici importanti. L’idea degli apparati interattivi è quella di animare lo spazio attraverso voci, racconti, testimonianze di prima mano, dando al fruitore la possibilità di interagire in tempo reale. 92 In altri casi il museo si mette in moto: tram che collegano tra loro punti importanti dal punto di vista storico diventano occasionalmente, in coincidenza di eventi storici (es. 25 aprile), delle vere e proprie sale di museo viaggianti. Un esempio è la visita guidata in tram storico a Milano, in cui, sedute a bordo di un tram anni Venti, le persone trovano una testimonianza storica di alcuni dei principali monumenti del centro città: la Scala, il Duomo, il Castello Sforzesco, Piazza della Repubblica, i Navigli e la Darsena. La tecnologia è un alleato potentissimo nella conservazione della memoria in forma lieve, dinamica. In questa direzione, infatti, vanno numerosi progetti digitali, tra i quali MI4345 – Topografia della Memoria, un progetto di mappatura e comunicazione dei luoghi della memoria storica della città di Milano realizzato nel 2015. Attraverso una mappa georeferenziata e interattiva accessibile da smartphone, il progetto racconta le vicende che segnarono la Resistenza, le deportazioni nei campi di sterminio e di internamento in Europa e la Liberazione. Parco della Memoria Sono un’altra creatura degli anni Novanta, che vanno proprio nella direzione del contro-monumento, del museo diffuso, etc. Un esempio interessante riguarda la mulattiera che da Sant’Anna di Stazzema scende fino a Val di Castello, nel nord della Toscana, un territorio molto interessante sul piano della rinegoziazione, perché ospita sia questo monumento degli anni Sessanta, molto tradizionale (arco, verticalità, croce, bandiere), con il sapore ufficiale dei monumenti ai caduti, ma anche una rilettura più contemporanea della stessa pagina di storia: il Monumento all’Attenzione realizzato da Gianni Moretti. Il monumento, in memoria delle vittime dell’eccidio nazi-fascista di Sant’Anna di Stazzema, è dedicato in particolare ad Anna Pardini, forse la più giovane vittima: aveva 20 giorni quando perse la vita. Per ogni suo giorno non vissuto, l’artista ha voluto piantare un elemento dorato nel terreno di una delle mulattiere percorse dalle truppe. Ogni anno sono aggiunti altri 365 punti a questa nebulosa di punti dorati per vivificare la memoria. 95 Mentre a Città del Capo la statua è stata rimossa, altrettanto non è avvenuto per la statua di Rhodes incorporata nella facciata di un edificio universitario di Oxford, un’università molto prestigiosa con un focus sulle immagini e sulla storia molto forte. Cittadini e attivisti hanno protestato per la rimozione della statua, che però continua ad essere esposta: l’Inghilterra fa molta fatica a compiere un lavoro di rilettura sulle proprie tracce coloniali (es. British Museum che non intende restituire alcuna opera). In Inghilterra c’è una narrazione molto solida e molto resistente, ma al contempo sono forti l’attivismo, la ricerca storica e la critica sociale: dove non arrivano le istituzioni arriva la coscienza di molte persone. Un caso simile riguarda la statua di Francisco Franco al Parco del Montjuic di Barcellona, rimossa nel 2008 dal governo Zapatero. Nel 2016 la statua viene decapitata “misteriosamente” nei magazzini del Comune e poi esposta in piazza in una mostra che suscitò forti polemiche. I discendenti di persone che hanno lottato contro la dittatura di Franco, figli di persone che hanno anche perso la vita, hanno protestato affinché la statua, benché decapitata, non venisse esposta. Secondo gli attivisti la ferita era ancora troppo recente, e per questo motivo la statua non andava assolutamente esposta, anche perché non tutti hanno gli strumenti storici per leggerne le stratificazioni: alcuni potrebbero pensare che sia acefala, e che la statua abbia comunque un valore di monumento. 25/05/2023 Statua a Indro Montanelli, Milano Arrivando in tempi più vicini, un caso noto è quello riguardante la statua di Indro Montanelli, uno dei più popolari giornalisti italiani del Novecento, uomo-simbolo del Corriere della Sera, il principale quotidiano d'Italia, oltre che un autorevole saggista e scrittore. La sua figura è controversa, in quanto è stato uno dei tanti italiani che in Abissinia hanno sposato donne locali, spesso bambine tra gli 8 e i 12 anni. Nel 1969, durante il programma televisivo L'ora della verità di Gianni Bisiach, la scrittrice e giornalista afrodiscendente Elvira Banotti gli chiese come intendesse il proprio rapporto con le donne, dal momento che in Europa il matrimonio con una bambina di 12 anni è considerato violenza. Montanelli si giustificò dicendo che «in Abissinia funziona così». 96 L’8 marzo 2019, le attiviste di “Non una di meno” hanno protestato contro la sua statua, considerata simbolo di colonialismo, razzissmo e violenza di genere. Dopo aver imbrattato la statua con vernice rosa, le attiviste ne hanno chiesto la rimozione, o quantomeno che rimanga con sopra la vernice, di modo che chiunque ci passi di fianco si chieda il perché. La riflessione su cosa fare di quella statua è tutt’oggi molto viva: come raccontarla, forse in modo più complesso? Ad oggi, il monumento fa sorridere nella sua ingenuità: Montanelli, seduto con la macchina da scrivere con cui ha scritto i suoi pezzi da corrispondente in molte parti del mondo, viene raccontato soprattutto come giornalista all’interno di un’arena circondato da panchine, secondo l’idea che le persone possano sedersi intorno alla statua. Si tratta di un apparato con tutte le caratteristiche del monumento visto fino ad ora, molto tradizionale, soprattutto considerando che si tratta di un’opera realizzata negli anni Novanta del Novecento. Oltre alla manifestazione di “Non una di meno”, sono poi intervenute tutta una serie di reinterpretazioni critiche da parte di gruppi di attivisti, essenzialmente richieste di rinegoziazione di quei contenuti. Nel 2020 nei giardini di Porta Venezia è stata posta la statua a Thomas Sankara, un militare, politico, rivoluzionario e patriota burkinabé, rimossa dal comune il giorno dopo. Lo stesso anno il Mudec (Museo delle Culture) di Milano aveva organizzato delle passeggiate volte a leggere i simboli del potere all’interno della città, il modo in cui erano perpetrati, negoziati, l’impatto che potevano avere. Una delle tappe era stata proprio la statua di Idro Montanelli, ed è interessante rendersi conto di come questa statua sia ancora estremamente divisiva, e lo è ancora più rispetto a quando è stata posta, in quanto oggi abbiamo raggiunto delle nuove consapevolezze. USA. Movimento per la rimozione dei simboli degli Stati Confederati Negli Stati Uniti, da molti anni prima dell’uccisione di George Floyd, tutto il pensiero di Black Lives Matter ha condotto una riflessione sul senso di mantenere le statue dei generali confederati negli Stati soprattutto del Sud-Est, i cosiddetti Stati Sudisti, dove razzismo e schiavismo sono stati più forti. Il movimento per la rimozione delle statue dei generali confederati nasce dal cosiddetto massacro di Charleston, avvenuto nel 2015, l’uccisione di nove afroamericani in una chiesa di Charleston da parte di un suprematista bianco, il quale, poco prima di commettere la strage, si era fatto fotografare con la bandiera degli Stati confederati nell’atto di bruciare quella degli USA. BLM si interroga sul senso di mantenere simboli come la bandiera degli Stati Confederati, che si trova ancora oggi esposta in moltissimi stati del sud-est. All’epoca, la bandiera era esposta sul Campidoglio del South Carolina e in molti altri stati ex-confederati. In un’intervista, Obama dichiarò che tali bandiere andassero conservate nei musei. Una domanda che è interessante porsi, in questo senso, è: il museo è effettivamente il luogo adatto per raccogliere tutti quei simboli controversi e problematici disseminati nelle piazze e nei luoghi pubblici? Ad esempio, portare in un museo l’affresco di Antonio Locatelli, attualmente collocato nel Palazzo della Libertà di Bergamo, gli darebbe più rilevanza di quella che vorremmo che avesse, oppure porterebbe più facilmente ad una riflessione, aprendo una discussione sui simboli del fascismo? Ha senso lasciarlo in quel palazzo, defilato, in un certo senso non tematizzato, e dunque depotenziato? 97 Il Southern Poverty Law Center ha realizzato una mappa interattiva della diffusione dei monumenti dei generali confederati negli USA, realizzati dopo la guerra civile a seguito delle «leggi Jim Crow» (1877-1964). «Sovrascrivere la storia» nella stagione di Black Lives Matter Un caso molto noto di reinterpretazione, riscrittura e sovrascrittura riguarda la statua di Edward Colston, mercante e schiavista di Bristol, collocata su un asse molto centrale della città. Ben prima di Black Lives Matter, negli anni la statua è stata oggetto di ripensiero, riscrittura e contestazioni. Nell’ottobre del 2018, in occasione dello Slavery Day, è stata realizzata un’installazione che evoca la forma delle navi che trasportavano gli schiavi (→). Il 7 giugno 2020, durante una manifestazione del movimento Black Lives Matter, la statua di Colston viene abbattuta da un gruppo di attivisti e buttata nel canale di Bristol (). Molte persone afrodiscendenti sono salite sul piedistallo al posto di Colston. Il piedistallo, privato della statua, diviene un infatti un luogo di reinterpretazione, con la possibilità di scrivere, sovrascrivere, porre cartelli, etc. (→) In quell’estate sono state numerose le reinterpretazioni di monumenti: controstatue umane, persone salite al posto o di fianco al monumento esponendo il proprio corpo, oppure il monumento travestito, ironizzato, trasformato con una serie di modalità tipiche della protesta del XX secolo. Un mese dopo, il 15 luglio 2020, è stata posta sul piedistallo una statua realizzata da Marc Quinn raffigurante l’attivista Jen Reid con il pugno destro chiuso, simbolo del movimento. () La statua, collocata nottetempo, è stata rimossa il giorno dopo, ma il gesto di Quinn è rimasto: un fine provocatorio ma comunque documentato. La statua di Colston è stata poi recuperata dal fiume dove i Black Lives Matter l’avevano buttata e successivamente posta in un museo della stessa città di Bristol, con allegata una placca che commemora l’azione dimostrativa dei BLM. Sono stati conservati anche alcuni dei cartelli posti durante la protesta, nell’ambito di una pratica che prende il nome di rapid response collective, ovvero la raccolta a caldo di materiali storici che documentano una certa pratica e una certa posizione.
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