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Appunti di Storia dell'Arte Contemporanea e della Fotografia 2022/2023 (Serena), Appunti di Storia dell'arte contemporanea

Appunti dei tre moduli del corso tenuto dalla prof. Serena (12 cfu) con il commento delle fotografie oggetto d'esame. Senza immagini.

Tipologia: Appunti

2021/2022

Caricato il 06/08/2023

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Scarica Appunti di Storia dell'Arte Contemporanea e della Fotografia 2022/2023 (Serena) e più Appunti in PDF di Storia dell'arte contemporanea solo su Docsity! Storia dell’arte contemporanea e della fotografia Prof.ssa Tiziana Serena (A.A. 2022-2023) Appunti ordinati e integrati a cura di Cercofans Modulo 1 Prima parte La cultura visuale: temi e metodologie Premessa: la svolta visuale Un uomo del Medioevo vedeva in media 40 immagini artificiali nell’arco di tutta la vita. All’epoca dell’invenzione della fotografia (1839) ne vedeva circa 100. Oggi ne vediamo 1000 al giorno. Gioco metrico: supponiamo che l’ uomo medievale con le 40 immagini viste nell’arco della vita compia un viaggio virtuale corrispondente a 40 metri, l’uomo contemporaneo con le immagini che vede durante la sua vita, sempre arbitrariamente tradotte in metri, compirebbe 299 volte il giro del mondo. L’installazione «24h photos» è stata realizzata da Eric Kessels, nel 2021, con le foto caricate dagli utenti di Flickr, Facebook e Instagram nell’arco di 24 ore. Kessels le ha scaricate con l’ausilio di un software, le ha stampate tutte (350.000 immagini) e le ha riversate come detriti nello spazio espositivo. I visitatori possono calpestare le foto, prenderle in mano, tuffarsi in mezzo a questo caos. Attualmente l’umanità produce ogni anno un trilione (un miliardo di miliardi) di immagini. Un anticipatore della svolta visuale (visual turn) che caratterizza la nostra epoca è stato il filosofo Martin Heidegger (1889-1976) che nel 1938 ha parlato della Weltbild, l’epoca dell’immagine del mondo, indicando due conseguenze di questa svolta: 1) La moltiplicazione delle immagini (nel 1938 passava anzitutto attraverso le riviste illustrate); 2) la sostituzione dell’esperienza diretta. Una sorta di conquista del mondo attraverso l’immagine. Heidegger problematizza questo fenomeno: parla di una conquista del mondo risolto in immagine. “Risolto” (verbo “risolvere”) rimanda a “sciogliere”: disfare un nodo, districare elementi che erano intrecciati. La complessità viene disfatta, il mondo è ridotto alla sua apparenza visibile. Non solo quindi le immagini si moltiplicano a ritmo esponenziale, ma il mondo stesso diventa un’immagine. Tutto questo oggi è sfociato nell’iconosfera, che ha sostituito la biosfera. Questa ha caratterizzato le ultime decine di migliaia di anni della storia umana. Quella dalla biosfera all’iconosfera non è un’evoluzione necessariamente positiva. Alcuni studiosi ne vedono le insidie: le immagini sono come trappole, la vita è avvolta, intrappolata nelle immagini. «Ogni esperienza che gli esseri umani fanno è in qualche modo mediata dagli strumenti tecnici e tecnologici» (cfr. Bernard Stiegler). Oggi Epistéme e Téchne sono più che mai implicate. La nostra conoscenza e opinione del mondo viene mediata dalle immagini. Riprendendo un altro concetto del filosofo francese Bernard Stiegler (1952-2020), l’iconosfera è come il phármakon che in greco designa sia un veleno che una medicina. Attraverso l’uso della ragione se ne può aumentare la funzione curativa e ridurne la tossicità. In questa prospettiva, gli studi di cultura visuale sono come un phármakon, sono strumenti di analisi e presa di posizione politica (cioè opinione espressa nella sfera pubblica) di fronte alle immagini con cui ci confrontiamo. La presenza pervasiva delle immagini ci condiziona infatti in modo inavvertito. Si fa l’abitudine al rumore visivo, come ci si abitua ai rumori sonori (ad es. chi abita vicino a un campanile, finisce per non avvertire più il suono delle campane). Per cui le immagini vengono percepite senza che ne siamo coscienti (cfr dagli anni ’70 gli studi sulle immagini subliminali). Il fenomeno della diffusione esponenziale delle immagini inizia con l’invenzione della fotografia, negli anni Trenta del XIX secolo, grazie a Louis Daguerre e William Talbot (cfr. la seconda parte del corso), e con la crescita della stampa periodica, dalla seconda metà dell’Ottocento. Un secondo punto di svolta è ravvisabile negli anni Venti e Trenta del Novecento con la diffusione delle riviste illustrate. A quell’epoca in Francia e Germania nasce la grafica pubblicitaria. L’impennata esponenziale però è avvenuta nel 2005 col Web 2.0 (il Web dinamico). Il passaggio all’iconosfera ha rappresentato una cesura epistemologica ma anche ontologica col passato. Ciò che avviene da quel momento in poi è difficilmente comparabile con quel che c’era prima. Oggi le generazioni si avvicendano al ritmo dell’iconosfera (8 anni) e non della biosfera (25 anni). Il sistema delle immagini viventi (vedi sotto) diviene il rapporto sociale privilegiato su cui poggia la nostra vita (cfr. Federico Ferrari, «Frontiere dell’iconosfera»). La bidimensionalità virtuale dell’immagine mette in crisi le categorie sensoriali e conoscitive di cui l’essere umano si era servito fino a ieri. Il filosofo francese Jean-Luc Nancy segnala la trasformazione del mondo da sistema di produzione di cose in sistema di produzione di immagini. Una frase famosissima di László Moholy-Nagy (pron. Moholi-Nogi), citata da Walter Benjamin nella sua «Piccola storia della fotografia» recita «Non colui che ignora l'alfabeto, bensì colui che ignora la fotografia, sarà l'analfabeta del futuro». Moholy-Nagy, pittore e fotografo ungherese (1895-1946) nel suo saggio «Pittura Fotografia Film» (1925) ha coniato l’espressione «Nuova visione», quella che la macchina fotografica può offrire e che non è accessibile all’occhio umano. All’interno di questo orizzonte teorico si è sviluppato un variegato sistema di saperi denominato visual culture studies. Iconografia e iconologia Erwin Panofsky (1892-1968) può essere considerato il padre degli “studi di cultura visuale”. Nello studio «Il significato delle arti visive» (1a edizione 1955) distingue tre livelli di lettura dell’immagine: 1) Descrizione pre-iconografica: si riconosce il soggetto primario, naturale; 2) Analisi Iconografica: si ricava il significato secondario, convenzionale; 3) Interpretazione iconologica: individua il contenuto intrinseco, legato alle convinzioni dell’artista e ai contesti culturali, geografici, religiosi, ecc… La descrizione pre-iconografica si basa sulla nostra esperienza, che ci consente di identificare il soggetto primario. Non sempre però ci consente una descrizione esatta di quello che vediamo, senza tener conto delle specifiche modalità di rappresentazione e dello stile con cui è stato rappresentato. L’analisi iconografica presuppone familiarità con temi trasmessi dalle fonti letterarie e culturali. Ad esempio, tredici persone sedute a tavola in determinati atteggiamenti rappresentano l’Ultima Cena; due figure che lottano in una certa maniera sono la rappresentazione della lotta fra virtù e vizio… L’iconologia, infine, ci consente di giungere al livello dei valori simbolici. Non bastano quindi i temi trasmessi dalle fonti letterarie ma occorre un’intuizione sintetica, basata sulla familiarità con le tendenze essenziali dello spirito umano, e che Panofsky paragona alla capacità intuitiva di un bravo diagnostico. I simboli possono essere considerati «sintomi culturali». Perché la le pratiche sociali. Gli studi di cultura visuale evidenziano che tra l’osservatore e l’immagine si crea una relazione e non semplicemente una fruizione. Secondo l’antropologo britannico Alfred Gell (1945-1977), autore di «Arte e Agency», la persona, o le sue proprietà, si estende oltre i suoi limiti corporei. Parla quindi di persona distribuita per indicare il modo in cui personalizziamo ambienti e cose. Le particelle di soggettività e di intenzionalità si diffondono negli oggetti che crea, comprese le immagini. In questo Gell è vicino a Epicuro, che intende le immagini come simulacri volanti. Per Epicuro l’oggetto stesso emana dei simulacri, una sorta di fantasmi che si staccano dagli oggetti e volano in tutte le direzioni. Lucrezio, a partire da Epicuro, parla di cortecce o di esuvie, le carcasse vuote degli insetti, che recano l’impronta del corpo che hanno contenuto. Ancora nell’Ottocento si parlerà delle fotografie come di carcasse vuote che cercano quello che è stato . 1 La teoria delle esuvie di Lucrezio arriva fino agli studi di cultura visuale. L’immagine è un’esuvia che si stacca e va incontro all’osservatore. Ma da cosa si stacca? L’oggetto è tridimensionale, ha un’essenza diversa dall’apparenza bidimensionale con cui ci si presenta. Alfred Gell parla di living pictures: le immagini hanno una loro agentività (agency), una carica potenziale che si attiva nel momento relazionale con l’essere umano. È un’agentività secondaria: l’immagine non ha un’anima, non può agire (questa è la convinzione degli animisti, che Gell rifiuta) ma è disposta a farsi agire (come una bambola di una volta). Questa agentività secondaria avviene soprattutto nel caso del contatto visivo. Cfr. gli idoli occhiuti del 3000 a.C.: hanno occhi sproporzionati, per cui sottolineano che è lo sguardo l’elemento fondamentale. C’è inoltre una frontalità che richiede un rapporto molto stretto. L’idolo crea nello spettatore un processo in cui il feticcio si anima: lo spettatore si sente guardato. Il credente è catturato dall’idolo, che però non esiste in sé, ma è una dimensione del credente stesso. Scrive Gell in Arte e Agency: «L’idolo che mi vede è una componente del mio vedere che vedo l’idolo». Alcuni idoli indù hanno frammenti di specchio negli occhi socchiusi, per cui mentre guarda l’idolo, il credente vede se stesso specchiato. Viene riflessa così anche l’intenzionalità, l’agency del soggetto che adora: il credente vede la propria intenzionalità adorante. Questa idea è stata ripresa dal regista Michael Mann nel film «Manhunter» (1986), in cui un serial killer è convinto di ottenere una trasformazione progressiva attraverso omicidi sempre più efferati. Il killer inserisce negli occhi delle vittime già morte dei frammenti di specchio e le filma. Può così cogliere gli indizi della propria trasformazione. Il serial killer trasforma in modo totemico le sue vittime per potersi identificare in loro: vede il se stesso che le vittime hanno visto poco prima di morire. Attraverso la videoripresa, poi, le vittime diventano a loro volta immagine e immagine filmica. Immagini desideranti W.J.Thomas Mitchell (1942-) è uno storico dell’arte americano che ha prodotto studi importanti di iconologia, sviluppando la tematica di Panofsky, come “Iconology” (1986) e “Picture Theory” (1994). Nel 2005 ha pubblicato “What Do Pictures Want? The Life and Loves of Images”, in cui sostiene che le immagini che ci guardano esprimono una sorta di volontà. Mitchell riconosce loro una intenzionalità che si esprime in una forza desiderante. In questo differisce da Gell, che rifiuta l’animismo. Secondo Mitchell, per comprendere meglio le immagini, le dobbiamo considerare come oggetti viventi, non come oggetti inerti, per vedere come ci fanno agire. Queste teorie si trovano anche in Balzac, che di fronte alla fotografia aveva una convinzione simile a quella 1 dei popoli pre-industrializzati: la foto ruba una parte di sé. Balzac considerava se stesso come composto a strati. Riteneva che le fotografie potessero consumarlo. Non a caso di Balzac abbiamo solo fotografie post- mortem. La questione non è cosa fanno le immagini, ma cosa vogliono. Ogni volta che abbiamo gli occhi di un’immagine rivolti verso di noi, quell’immagine manifesta un desiderio, cfr. lo Zio Sam che punta il dito verso i giovani da reclutare: “I Want You” (1917). Lo Zio Sam ci inchioda con lo sguardo per farci agire: andare alla più vicina stazione di reclutamento. Ma Mitchell dice che quell’immagine va analizzata anche dal punto di vista della mancanza: manca di un corpo (sfuma nello sfondo) e, al di là del desiderio espresso dal personaggio, a livello del tessuto iconico esprime il desiderio di un corpo. Nella locandina del primo film sonoro della storia, “Il cantante di jazz” (1927), dallo sfondo nero emergono solo le mani guantate bianche, gli occhi, la bocca del protagonista, al Jolson, che interpreta un ragazzo ebreo che si dipinge la faccia di nero per poter cantare il jazz. L’espediente si basa sui “Minstrel Shows”, spettacoli in cui attori di pelle bianca si dipingevano di nero per rappresentare in modo caricaturale gli afroamericani (derisi per l’ignoranza, la superstiziosità e la passione per la musica). Nel manifesto le mani sono enormi, per deformazione prospettica, e invitano lo spettatore ad entrare a vedere lo spettacolo. Ma al tempo stesso il contrasto tra il bianco e il nero esprimono una mancanza: il corpo vuol emergere ma la vernice lo mescola con l’ambiente. L’identità di Al Jolson è nascosta e non riesce a venire alla luce a causa degli stereotipi razziali. Tensioni e incongruenze, causalità o lapsus, interpellano quindi lo spettatore anche a partire da quello che manca. Roland Barthes (1915-1980) nel saggio “La camera chiara” (1980), a proposito delle fotografie, introduce il concetto di punctum, qualcosa cioè che ci punge in modo soggettivo, il punctum, che causa una ferita, ci ghermisce e ci “anima”. Queste immagini che ci animano, secondo Mitchell, sono incomplete, avendo un possesso solo parziale di una forma di vita propria. Da questo punto di vista, le immagini vanno considerate non tanto come un dominio da contrastare ma come un subalterno da ascoltare (es. il femminile, la negritudine, le culture non egemoniche). Rispetto alle immagini primitive agenti studiate da Gell, le immagini moderne di Mitchell sono lacerate da bisogni e desideri insoddisfatti. In un’immagine senza titolo del 1981 dell’artista statunitense Barbara Krueger (1945-), Senza titolo, un profilo di statua femminile emerge dallo sfondo nero. Una luce molto forte crea un’ombra sul sopracciglio che dà allo sguardo della statua, rivolto altrove, un forte carattere riflessivo. La scritta “Your gaze hits the side of my face” parla di uno sguardo (lo sguardo maschile) che non accarezza ma colpisce una parte del volto. Lo sguardo con cui la statua della donna risponde però è assente: sembra indifferente all’essere vista. Tre messaggi contraddittori colgono l’osservatore e lo bloccano: non c’è un’interpretazione unica (non a caso l’opera è senza titolo). «L’immagine - scrive Mitchell - invia almeno tre messaggi incompatibili sul desiderio: vuole essere vista; non vuole essere vista; è indifferente al fatto di essere vista». Racconti mitici di ogni epoca, dall’antichità al presente, ci parlano di immagini che prendono vita. Così nella vicenda di Pigmalione che si innamora di una sua scultura, Galatea, e ottiene da Afrodite che la statua si trasformi in una donna in carne ed ossa. È la metafora di un’arte tanto efficace da diventare vivente. Questo mito arriva fino ad oggi, con le immagini parlanti di Harry Potter che, mosse dai propri desideri, riescono a intrattenere una relazione con l’osservatore. Nel 1877 Paul Cézanne espose a una mostra di impressionisti a Parigi un ritratto, «Tête d’homme: Étude», che raffigura una testa distorta, oblunga, di uno strano colore giallo. La mostra venne accolta favorevolmente dalla critica, con l’eccezione del giornale satirico «Le Charivari», che pubblica una vignetta di Cham in cui un agente di polizia, allarmato, blocca una signora incinta che vuol entrare alla mostra: «Signora! Non sarebbe prudente! Meglio che ve ne andiate!». La vignetta ironizza sul nome degli “impressionisti” e sul presunto potere delle immagini di impressionare il bambino nel ventre della madre. In particolare quel quadro, scrive il critico d’arte Louis Leroy sulla stessa rivista, avrebbe potuto contagiare con una “febbre gialla” (itterizia) i bambini delle donne incinte. Alla base c’è l’idea di un effetto che scaturisce dalle qualità formali dell’immagine stessa, che avrebbe potuto agire, impressionare, contagiare, anche se la donna avesse opposto resistenza. Horst Bredekamp (1947-), come Panofsky, è uno storico dell’arte. Nel 2015 è stato pubblicato in Italia il suo saggio «Immagini che ci guardano» (Cortina, Milano). Il titolo fa riferimento al pensiero di Alfred Gell. Secondo Bredekamp, le immagini ci «vengono incontro sotto il segno di una corporeità aliena». Non fanno parte della nostra natura e per questo il linguaggio non è adeguato a spiegare l’immagine. Le immagini, «una volta prodotte, diventano autonome e incutono ammirazione e paura, sono cioè oggetti capaci di suscitare sensazioni fortissime». Hanno un potere non solo di significazione ma anche di coinvolgimento emotivo. Bredekamp sostiene che le immagini si realizzano grazie alla «dimensione umana». Le immagini hanno una potenzialità che aspetta di essere attivata dallo spettatore, un’«efficacia latente». Chi guarda, guarda quello che sa e quello che è. Porta con sé le sue idee, la sua cultura, la sua immaginazione che trova riverbero nell’immaginario collettivo. Porta con sé i luoghi comuni, cioè il pensiero sclerotizzato che soddisfa certe nostre aspettative e non richiede di essere verificato (uno dei luoghi comuni più difficili da sradicare è quello del presunto realismo della fotografia). Tuttavia le immagini danno un di più, l’efficacia latente insita nell’oggetto spicca il balzo. Siamo noi ad attivarla. E l’artefatto pone lo spettatore, il fruitore, dinanzi a una controparte che lui non può controllare. Così l’osservatore riceve ben più di un semplice riverbero delle proprie idee o fantasie. Dall’effetto all’affetto Il filosofo e storico tedesco Gottfried Bohem (1942-), ha pubblicato nel 2009 «La svolta iconica», rifacendosi a «Linguistic Turn» (1967) di Richard Rorty sulla svolta strutturalista. La svolta iconica è iniziata alla fine degli anni ’90. Nel passaggio del millennio, specialmente in Usa e Germania, si sono sviluppati gli studi di cultura visuale. Bohem studia le arti filmiche e teatrali per indagare questo cambio di paradigma , che ha portato a 2 una diversa visione del mondo. Si tratta di una crisi del logos, per cui l’informazione oggi è veicolata principalmente dall’immagine. La svolta iconica ha coinvolto diversi settori, non solo la storia dell’arte e la semiotica, ma anche la letteratura, la linguistica, la sociologia e la psicologia. Le immagini hanno la capacità di impressionarci al di là della nostra coscienza. Ogni immagine agisce in un campo di forza, insieme ad altre immagini nello stesso spazio- tempo. C’è l’immagine, lo sguardo, ma c’è anche l’atmosfera, il momento in cui la guardo. Le immagini agiscono in quanto segni. Per questo Bohem parla di un superamento della fatticità: il potere e l’efficacia delle immagini derivano da un surplus, che dipende dalla natura linguistica dell’immagine, che supera la materia in cui è inscritta. Per Mitchell le immagini sono animate, per Gell sono inanimate, per Bredekamp sono sia vicine che aliene. In ogni caso ci condizionano nel momento in cui agiamo, indirizzano il nostro comportamento, hanno un effetto. L’effetto è immediato, ma lavora nella memoria, influisce sulla cultura. Si passa così dall’effetto all’affetto. Vedi sul libro di testo il Box 1.1 (pp. 18-19): «Effetto/affetto, potere/agency, enattivismo/operatività». Questo influsso sul comportamento esprime un potere delle immagini, il loro potenziale emotivo (agency). Alcuni studiosi (specialmente D’Aloia ed Eugeni, studiosi di cinema) parlano di enattivismo delle immagini: queste hanno un potenziale enattivo perché nella loro Sul concetto di “cambio di paradigma” cfr. Thomas Kuhn, «La struttura delle rivoluzioni 2 scientifiche» (1962). turn come della «tendenza moderna a raffigurare o visualizzare l’esistenza [...] [visualizzando] cose che non sono necessariamente visive». Il potere dell’immagine è condizionato dalla cultura . 4 La famosa fotografia «Falling Man» del fotoreporter Richard Drew (1946-) ritrae un uomo che si getta dalla Torre Nord del World Trade Center. Realizzata con una Nikon DCS digitale, dotata di un motore che realizzava ad ogni scatto 12 fotografie a 3 fotogrammi al secondo. Drew punta la fotocamera verso il grattacielo da cui le persone cominciano a lanciarsi nel vuoto, senza sapere quello che otterrà. Viene meno il classico concetto di «istante decisivo» (cfr Henri Cartier-Bresson, vedi sotto). Ora da una raffica di immagini viene scelta la versione che rende di più. «Falling Man» fissa l’immagine di un uomo che cade a capofitto ma in un surreale equilibrio formale. Colpisce per la sua qualità estetica. L’immagine viene ritagliata e riquadrata, tra molti altri fotogrammi che mostravano ciò che era visibile anche a occhio nudo, cioè l’uomo che si contorceva spinto dal vento, come gli altri che subivano la sua stessa sorte. Questo fotogramma è diverso dagli altri perché la persona sembra non opporre resistenza alla caduta, non apre le braccia, sembra che abbia accettato il suo destino. La capacità di significare di questa immagine dipende anche dalla luce diversa che segna l’angolo tra le due facciate dell’edificio e dalla simmetria delle linee con la figura dell’uomo. È un’immagine che è stata vista soltanto dalla fotocamera, a cui si sono aggiunti elementi simbolici e affettivi. La macchina registra quello che il nostro occhio non può percepire (cfr l’inconscio ottico di Walter Benjamin o l’esempio di «Blow Up» di Michelangelo Antonioni). Il grande fotografo Steve McCurry (1950-) invece fotografa il Ground Zero con una macchina analogica, in Kodachrome ad alta definizione, con un registro descrittivo molto classico: l’immagine è statica, si vedono i resti dell’edificio in primo piano, in controluce, mentre la polvere che si alza diventa dorata. Le gru sono al lavoro. La luce apre uno spiraglio. Nessuna di queste due fotografie è un documento in senso stretto. Si possono definire piuttosto “atti di documentazione”. Sono configurate in forma iconica per essere efficaci in termini comunicativi, per impattare sull’immaginario. A questo proposito, ci sono molti termini con cui si può esprimere il rapporto tra una fotografia e il mondo reale: documento, traccia, testimonianza, prova… Il filosofo e critico cinematografico Pietro Montani (1946-) ha trattato della differenza fra autenticità e autenticazione. L’autenticità è la capacità di restituire un frammento di mondo. L’autenticazione è invece il processo attraverso cui quell’immagine viene assunta come testimonianza attendibile di un fatto. La fiducia incondizionata nella capacità riproduttiva della fotografia cresce nel secondo dopoguerra, quando i materiali cine-fotografici servono a smentire il negazionismo riguardo alla Shoah. C’erano dei cineoperatori a seguito degli inglesi e americani che arrivarono nei campi di concentramento. Con l’avvicinarsi delle truppe alleate, i nazisti avevano incrementato le uccisioni. Di fronte a quello che trovarono, gli operatori dovettero «azzerare l’occhio», guardare quella realtà con un occhio vergine perché non esistevano precedenti (così riferisce il regista George Stevens). Il critico cinematografico francese Serge Daney (1944-1992) ha studiato questi filmati osservando che l’occhio di Stevens non poteva riconoscere il reale e applicarvi uno schema di senso. Di qui l’«innocenza» dei materiali: grezzi, senza montaggio, oggettivi, pronti per essere utilizzati come prove giudiziarie al processo di Norimberga. Fa pensare l’importanza data da Al Qaeda alla messa in scena, dato che l’Islam è aniconico. Ma certo 4 anche i terroristi islamici riconoscono l’importanza dell’uso delle immagini in sede bellica, per incutere paura (cfr le immagini dei martiri copti). La paura è una scorciatoia per toccare l’immaginario. Alla fotografia è affidata una capacità di «redenzione del reale» (cfr Siegfried Kracauer, «Teoria del cinema. La redenzione della realtà fisica»), salvare ciò che è effimero dalla caduta nell’oblio. Il 6 agosto 1945, a Hiroshima, abbiamo le cosiddette fotografie naturali dei corpi dissolti dai raggi sprigionati dalla bomba atomica, a oltre 2000°, che lasciano un’impronta sul cemento. Segni indessicali di esistenze passate. L’essenza della fotografia, come scrive Roland Barthes, è la fissazione di un frammento di realtà, un «è stato». La condizione self-mediale Con l’espressione «condizione self-mediale» si intende «la relazione che i soggetti intrattengono coi media per modalità e atteggiamento, habitus di convivenza, mentalità» (Federica Villa, «Vite impersonali. Autoritrattistica e media», 2012). Il dialogo con i media ha sempre più il carattere della spontaneità e coinvolge il corpo. Nei visual culture studies si è parlato di medialità per indicare il raggio d’azione che ognuno traccia intorno a sé nel suo avere a che fare con i media e in questo modo definisce il proprio sé. Come descrivere questo raggio di azione? Quando si nasce il contesto è quello familiare. È qui che si impara a sorridere, ad evitare i pericoli, ecc… Poi ci inseriamo nel gruppo amicale. Ma nel momento in cui incontra la società mediale, l’individuo determina la propria identità anche attraverso le tecnologie, proponendo un’immagine di sé. Trova riscontro così in un raggio più ampio, arrivando anche agli sconosciuti. Vedi il Box 5.1: «Social media e affordances» (p. 218-219). Le persone su Facebook dicono “mettimi mi piace”, su Twitter “stammi a sentire”, su Linkedin “assumimi”, su YouTube dicono “guardami”, ecc… Le affordances sono questa richiesta di attenzione rivolta all’esterno, sono di tipo tecnologico (sono legate ai media) ma anche sociale, sintetizzano le aspettative ma anche le regole morali che permettono di fare alcune cose e impediscono di farne altre (Gibson, 1999). Il grande successo di Instagram, social che connette le persone attraverso le immagini, dipende da alcune sue caratteristiche: 1) Facilità di manipolazione di foto e video, attraverso i filtri; 2) Velocità nell’upload; 3) Immediatezza della condivisione. Il repertorio di filtri è stato molto arricchito negli ultimi anni, acquistando sempre più importanza. È diventata una sorta di post-produzione. Già negli anni ’80, in piena epoca analogica, l’artista berlinese Joachim Schmid sosteneva che esistono troppe immagini e ha lavorato con le found photos, le foto di altri, spesso anonimi, considerate degli scarti, ma alle quali l’artista ha dato nuova vita e un significato estetico. Un libro importante sulle immagini è il già citato «La camera chiara: nota sulla fotografia» (1980) di Roland Barthes (1915-1980). Il critico francese non traccia una storia ma un’epistemologia della fotografia. Barthes denuncia l’invadenza della fotografia che oggettifica la persona. Secondo Barthes la vita privata «è quella zona di spazio, di tempo, in cui io non sono un’immagine, un oggetto». E in un paragrafo racconta il modo in cui si sente quando viene fotografato: «Ogni volta che mi lascio fotografare, io sono immancabilmente sfiorato da una sensazione d’inautenticità, talora d’impostura. La fotografia rappresenta quel momento in cui non sono né un oggetto né un soggetto, ma piuttosto un soggetto che si sente diventare oggetto». Nel ritratto che un altro mi fa entrano in gioco quattro immaginari campi di forza: quello che credo di essere, quello che vorrei essere, quello che il fotografo crede che io sia e ciò di cui il fotografo si serve per far mostra della sua arte. Barthes aveva presenti le riflessioni di Susan Sontag (1933-2004), «Sulla fotografia: realtà e immagine nella nostra società» (1977). La filosofa e scrittrice americana vedeva la fotografia come una sorta di «violenza predatoria». Chi fotografa impone uno sguardo, invade la sfera di sicurezza dell’altro. Fotografare «equivale a trasformare le persone in oggetti che possono essere simbolicamente posseduti». Oggi lo percepiamo meno, ma pensiamo all’uso della fotografia nei regimi coloniali, come ostentazione di potere. Oggi invece siamo costretti a darci in modo iconico, a diventare immagine. In circa 40-50 anni l’individuo si è definito sempre più attraverso la qualità del suo rapporto con i media. Questo è coinciso col passaggio dai mass media analogici e collettivi a quelli digitali e individuali. Nei nuovi mass media gli utenti sono al tempo stesso produttori e consumatori (prosumer). Gli effetti sono antropologici e psicologici: crescente postura a utilizzare i media come gli strumenti più adatti per condurre la rappresentazione del sé e la socializzazione del sé. Si è parlato di selfizzazione della medialità. Il soggetto diventa il medium stesso. I media non possono esistere senza la presenza dell’individuo e l’uso che ne fa. Questo processo inizia negli anni ’90 con i primi Blog, le webcam, e dal 2000 conosce uno sviluppo enorme. Frank Furedi (1947-) ha molto studiato la relazione tra società e individuo in termini culturali. Nel momento in cui permettiamo a forze esterne di guidarci (la schiavitù dei like, ndr), l’effetto è che l’autonomia si trasforma in una merce negoziata in cambio di protezione. Perde valore l’autodeterminazione: il sé è dipendente dall’approvazione esterna. Per questo i social sono pericolosi nell’età adolescenziale. Oggi come non mai l’individuo è incoraggiato ad attestare la propria presenza attraverso i media, a spettacolarizzare le proprie emozioni, le proprie abitudini, il proprio quotidiano. La novità delle webcam, diffusesi nella seconda metà degli anni Novanta, rappresenta il primo caso paradigmatico di questo fenomeno. La statunitense Jennifer Ringley attraverso il suo sito JenniCam ha ripreso e diffuso per sette anni (1996-2003) la propria vita privata, diventando la prima lifecaster della storia. La moda dei reality ha diffuso questa tendenza a spettacolarizzare ed erotizzare la banalità della propria vita quotidiana. Nel 2004 debutta Facebook e dà il via alla moltiplicazione dei media messi a disposizione del soggetto per mostrarsi e raccontarsi. Le timeline di Facebook e Instagram mostrano una dinamica cumulativa, additiva più che narrativa, che ricalca l’andatura digitale. Anticipatrice da questo punto di vista è stata Susan Szucs, che dal 1994 al 2009 si è scattato un autoritratto Polaroid ogni giorno. Più di 5000 ritratti (senza negativo e quindi non modificabili) che sono stati esposti a partire dal 2010 e poi trasformati in un cortometraggio (15 Years in 15 Minutes). Nel loro insieme significano la posizione del soggetto nel tempo. Così sui social: racconto l’esperienza del mio io, che si esprime con le sue idee, determinazioni, racconta la negoziazione tra i miei valori e quelli della società, assumendo varie identità. Il selfie è la prima «firma visiva della nostra epoca» (Nicholas Mirzoeff). Va messo in relazione con l’autoritratto, che emerge dall’esperienza del riflesso (nell’acqua, nel piombo lucidato, nello specchio). Poi la fotografia e il cinema. Il selfie si colloca in questa linea, svolge la funzione dello specchio: mentre scatto mi guardo. La cifra dell’immediatezza ha un significato conversazionale (André Gunther). L’attrice francese Sarah Bernhardt è stata ritratta dai maggiori fotografi dell’epoca (come Nadar - vedi modulo 2 - o Carjat). La concezione del ritratto d’attore e di attrice assume connotazioni sociali nuove in parallelo al sempre più diffuso mercato del ritratto borghese. Lo sviluppo di quest’ultimo è accelerato dall’invenzione del fotografo Disdéri, che nel 1854 idea il formato carte de visite: una macchina fotografica impressionava 8 scatti sullo stesso negativo. Se il soggetto si muoveva, venivano pose diverse. Poi le 8 immagini venivano ritagliate e montate su altrettanti cartoncini. Attraverso questa tecnica si velocizzava il processo di produzione e riproduzione dell’immagine si abbattevano i costi, favorendo la diffusione e democratizzazione della fotografia. In questo periodo le fotografie si diffondono come oggetti sociali. Cfr. Gisèle Freund, «Fotografia e società» (1974). Mediante l’atto simbolico del ritratto, la persona rende visibile la propria immagine in società. Se il dipinto era appannaggio della classe aristocratica, la fotografia, arte industriale, si diffonde nell’ambito della borghesia. I ritratti fotografici mirano principalmente a rappresentare lo status sociale. Un’altra differenza tra la pittura e la fotografia è che, mentre il pittore andava a ritrarre la persona a domicilio, erano le persone ad andare nello studio del fotografo per farsi ritrarre. Qui trovavano un fondale dipinto, dei drappeggi: la persona veniva inserita in un contesto ricostruito. Paradossalmente proprio la natura ‘realista’ del mezzo fotografico, in grado di ritrarre soltanto ciò che è fisicamente presente nel campo inquadrato, porta il fotografo a una vera e propria teatralizzazione della fotografia, non tanto per il soggetto ritratto (non tutti sono attori) quanto per la messa in scena dell’ambiente. Vediamo una foto di Disdéri che ritrae l’attrice Adelaide Ristori (1822-1906) in formato carte de visite. La Ristori è una delle prime attrici a intuire l’importanza della fotografia per farsi conoscere. Le fotografie delle attrici venivano acquistate e inserite negli album fotografici familiari borghesi, accanto alle foto dei parenti. Si crea così una familiarità con le dive. Questo fenomeno testimonia l’evoluzione del ruolo sociale dell’attore. Una foto tipicamente destinata a un album di famiglia dell’Inghilterra vittoriana è la composizione di superminiature della compagnia Ristori. Al centro, più grande, campeggia il ritratto ovale di Adelaide Ristori, circondato dalle foto degli altri membri della compagnia. Ai quattro lati, le foto di quattro scene teatrali. Adelaide Ristori girò il mondo con delle tournée molto intense, come quella del 1875-1876, che durò 20 mesi ed ebbe più di 300 repliche. Disdéri la fotografa, con la tecnica della carte de visite, nei panni di Maria Stuarda. L’attrice era specializzata nei grandi personaggi femminili tragici e la «Maria Stuarda» di Schiller era uno dei suoi cavalli di battaglia. Abbiamo visto che la foto ha una natura analitica, si esprime attraverso i dettagli. Queste foto non hanno sfondo, tutto è giocato su costume e acconciatura, che per Adelaide Ristori erano frutto di una ricerca approfondita per caratterizzare i personaggi. Con quali gesti l’attrice restituisce il suo personaggio? La sintesi visiva nelle fotografie di Disdéri viene resa in tre pose: 1) Imperiosa, protesta contro i suoi avversari; 2) Si afferra alla fede, consolazione e causa delle sue sofferenze; 3) Siede mesta, abbandonata al suo destino. Nelle foto di Sarony, fotografo francese che lavorava a New York, cambiano le intenzioni del ritrattista. La Ristori interpreta Lucrezia Borgia. Qui non è un’attrice in posa. C’è un’azione che si sta svolgendo, è qualcosa di dinamico. C’è la presenza di un altro attore. Si vuol dare l’idea di una foto di scena, che però non era ancora possibile (siamo nel 1875). Dieci anni dopo la Ristori fu fotografata in veste di Maria Antonietta dal fotografo Michele Schemboche, che lavorava per la corte sabauda a Torino. Faceva ritratti di aristocratici in un contesto di benessere. E non cambia registro neanche quando fotografa Adelaide Ristori. Il rapporto fra fotografo e attrice si complica: entrambi hanno una loro autorialità. Il fotografo dilettante fiorentino Mario Nunes Vais, ha lasciato un archivio fotografico teatrale che non è andato né distrutto né disperso (cosa rara) ed è conservato a Roma. Era uno dei ritrattisti più acclamati. Nel suo archivio troviamo sopratutto ritratti, realizzati in teatri di posa. Ci sono però anche esempi di fotografie in cui, durante lo spettacolo, gli attori interrompevano l’azione e si facevano fotografare, poi proseguivano. Un primo tentativo di foto di scena. Alcune case editrici si specializzano nelle cartoline coi ritratti delle attrici. Si tratta di oggetti iconografici e testuali, vengono spedite per posta e quindi c’è il fascino dell’attesa che la cartolina arrivi. Chi spedisce la cartolina ha presente quello spettacolo, forse non l’ha visto ma fa parte del suo immaginario. È uno status symbol per chi la invia. La lunghezza del testo (auguri, pensieri) è determinata dal costo del francobollo. Queste cartoline si possono datare grazie al timbro postale ma anche attraverso l’intreccio con la storia degli spettacoli teatrali. Il formato comune delle cartoline è 15x10, ma ne esistono alcune di formato più piccolo. Ne vediamo una di 14x9, con un’immagine di Tina di Lorenzo nei panni della Samaritana (1901). Proviene da un importante studio milanese, Varischi e Artico. Attraverso il costume e la posa l’attrice interpreta il personaggio. Spesso si trova anche una citazione dal Vangelo: «Chi beve di quest’acqua vivrà in eterno» (cfr. Gv 4,14). La cartolina è acquerellata a mano, un po’ a chiazze, in modo approssimativo. La fotografia a colori sarà inventata nel 1907 ma comincerà a diffondersi solo negli anni Trenta. Questa cartolina racconta la cultura visiva dell’epoca e il legame tra immagine teatrale e messaggio religioso. Oggetti sociali, le cartoline mettono in relazione due persone che ad esse riconoscono un significato particolare. Una cartolina d’attrice avrà più possibilità di essere conservata tra i ricordi. Questi oggetti cominciano a diffondersi anche nei ceti popolari grazie alla loro economicità. Un altro mezzo di diffusione delle immagini delle attrici sono le riviste, che per gli studiosi divengono fonti primarie. Accolgono inizialmente illustrazioni non fotografiche, ad es. incisioni tratte da fotografie. I cliché a tratto continuo infatti davano luogo a immagini troppo confuse. Circa a metà degli anni ’80 viene inventato il retino tipografico che permetteva di porre sopra il cliché una sorta di setaccio composto da puntini, che permetteva di avere foto più definite. L’immagine veniva stampata contemporaneamente ai caratteri mobili. Così la foto tenderà ad essere sempre più legata al testo. Le fotografie potevano essere stampate anche a tutta pagina (anche formato lenzuolo). Già agli inizi del XX secolo le riviste potevano pubblicare foto di altissima qualità. «L’introduzione della fotografia nei giornali è un fenomeno di fondamentale importanza. Cambia la visione delle masse. Prima di allora l’uomo comune poteva visualizzare soltanto gli avvenimenti che accadevano vicino a lui, nella sua strada, nel suo villaggio. Con la fotografia si apre una finestra sul mondo. I volti dei personaggi pubblici, gli avvenimenti che si svolgono nel paese, e anche oltre il confine, diventano familiari. Si amplifica lo sguardo e il mondo si rimpicciolisce. La parola scritta è astratta, ma l’immagine è il riflesso concreto del mondo in cui si vive» (Gisèle Freund, «Fotografia e società», 1974). Quindi con la fotografia si apre una finestra sul mondo. Immagini che arrivano dall’altra parte del globo possono essere viste con la certezza che sono reali. I volti dei personaggi famosi diventano familiari. Cambia profondamente l’immaginario. «La fotografia artistica» è la più importante rivista di fotografia italiana, diffusa a livello internazionale. Anche qui troviamo foto di attrici in prima pagina. L’immagine dell’attrice è pubblicitaria, serve a celebrare il carattere artistico della rivista. I testi celebrano la grazia e la nobiltà delle artiste. Abbiamo visto anche una foto che ritrae un’attrice importante, Ines Cristina, mentre attende il suo turno per essere fotografata nello studio Alinari. Guarda alcune stampe già realizzate, come a misurarsi con l’iconografia preesistente. Le pareti dell’anticamera sono piene di riproduzioni di quadri più o meno famosi. È un’immagine meta-iconografica. Chiaramente non è una candid camera, è una messa in scena, un’ostentazione del valore culturale del fotografo. Anche sulle riviste teatrali cominciano a circolare con frequenza i ritratti d’attrice. Il quindicinale «Il teatro illustrato» pubblica notizie, recensioni e articoli illustrati sugli artisti più noti della scena. In alcuni casi, durante la prova generale, si interrompeva la scena per dare modo al fotografo di scattare una fotografia, poi lo spettacolo riprendeva. Una delle prime fotografie di scena nel contesto italiano è tratta dallo spettacolo «Amore senza stima» (1906) con Tina di Lorenzo. Importante è anche la didascalia che la accompagna con un’informazione tecnica: “istantanea presa alla luce di magnesio”. Questo flash permetteva di fotografare in condizioni di scarsa luminosità. La luce al magnesio non era facile da indirizzare, ma forse la fotografia è stata ritoccata. In ogni caso, nella didascalia c’è la preoccupazione che il lettore creda che si tratti un’autentica foto di scena. Un’altra rivista italiana di teatro è «L’Arte Drammatica». È un settimanale. In questa prima pagina c’è un ritratto di Emma Gramatica. L’immagine fa da esca comunicativa. Non sappiamo chi sia il fotografo. Questo è un problema ricorrente nelle riviste fino agli anni Sessanta: i fotografi non sono identificati. Unica eccezione le riviste specializzate in fotografia, che rivendicano quindi l’autorialità del fotografo. Ma di solito la foto viene apprezzata per il suo valore di testimonianza neutrale, immediata. Il pregiudizio sull’apparato meccanico che semplifica l’atto creativo porta ad ignorare il valore artistico dell’autore. Si dimentica così che la macchina fotografica è uno strumento come il pennello del pittore. Altri fattori hanno radicato questo pregiudizio. Tra questi il processo di democratizzazione della fotografia: cfr. lo slogan della Kodak, «Premi il pulsante e al resto ci pensiamo noi». Tutti possono improvvisarsi fotografi. Vediamo la rivista femminile «La donna», supplemento illustrato de La Stampa e La Tribuna. Si tratta di una rivista di approfondimento che va incontro al desiderio di visione dei lettori. Questo è il primo settimanale femminile italiano. Si ha l’affermazione della donna come consumatore i prodotti editoriali. I ruoli dirigenziali sono però ancora appannaggio di uomini. Vi scrivono tuttavia autrici importanti come Matilde Serao e Grazia Deledda. I temi riguardano la vita domestica, l’educazione, la cultura, specialmente lo spettacolo e la letteratura. Vi collaborano i principali fotografi dell’epoca: Alinari, Varischi e Artico, Bertieri…). Questa impostazione si mantiene nel tempo (cfr i rotocalchi femminili). Le fotografie di Tina Di Lorenzo all’interno del settimanale «La donna» (1905) la ritraggono in un contesto di vita privata. Nelle dive le donne possono identificarsi, sono modelli di eleganza borghese. Il titolo del servizio è emblematico: «Tina di Lorenzo nella vita e nel teatro». Le immagini interagiscono col testo e ci mostrano vari momenti della vita dell’attrice: donna semplice ma raffinata, madre e attrice, la vediamo rientrare in casa, poi nel suo appartamento, seduta in una sorta di trono e poi nel suo studio ad autografare le foto scattate da Oreste Bertieri. Le riviste danno il via al processo di «consumo del privato» delle attrici, portate al livello della quotidianità. Gli attori maschi vengono rappresentati più frequentemente in ambito lavorativo, le attrici nella dimensione domestica. Si suppone che chi compra la rivista abbia già visto le attrici a teatro e quindi voglia sapere qualcosa di più sulla loro vita privata. Cfr oggi le riviste di gossip. Inoltre, avere la fotografia degli abiti delle attrici consente di riprenderne il modello. Vediamo una doppia pagina di ritratti fotografici delle attrici, sempre su «La donna» (febbraio 1905). Si tratta di un referendum a cui le lettrici potevano partecipare tramite dei tagliandi, che contenevano una serie di domande sul gradimento riguardo alle varie attrici. A questo sondaggio era collegato un gioco a premi. La vincitrice otteneva nientemeno che un fonografo. Grazie al referendum sull’attrice più bella, le lettrici sono coinvolte a livello personale e attivo. È una trovata di marketing che si serve dell’immagine come di una vera e propria merce. Dalla fine dell’Ottocento la fotografia viene inserita nelle pubblicità. Prima erano solo testo e illustrazioni di scarso valore. Con la pubblicità del Campari, la foto diventa fondamentale per la réclame. La riflessione su grafica e fotografia per la pubblicità parte dagli Usa. consideriamo la serie completa delle fotografie, questa rende comunque una sintesi dello spettacolo. La prospettiva fortemente rialzata e laterale consente una visione della plasticità della scena, del movimento dei gruppi, della tridimensionalità. A Brecht serve per archiviare lo spettacolo in modo di avere materiale per rimetterlo in scena. Le immagini e il testo del drammi verranno in seguito pubblicati nei Modellbücher, insieme alle note di regia. Grazie al potere dell’archivio viene consegnato al futuro l’insieme del fatto teatrale. A partire dal 1936, Brecht collabora con la fotografa danese Ruth Berlau (1906-1974), fotografa danese che documenta i suoi spettacoli, cura l’archivio fotografico e si occupa dell’intero processo di pubblicazione dei Modellbūcher. Nel 1949 esce il primo vero e proprio Modellbūch che fornisce il modello per i successivi: «Antigonemodell 1948» per cui Ruth Berlau realizza le fotografie. Nella pagina riprodotta accanto notiamo delle frasi scritte tra le fotografie: note di regia o testo. Delle 2000 fotografie che Ruth Berlau scattò ne vennero selezionate 83 che secondo Brecht e la fotografa erano le più significative per ricostruire lo spettacolo nella sua dinamicità. «A partire dalle fotografie di pose, gesti, modi di muoversi, di raggrupparsi, raccogliamo quanto è necessario per archiviare la verità della scena», scrive la Berlau in «Antigonemodell». È a partire da queste esperienze che tutta la fotografia di teatro e di danza si è sviluppata nei decenni successivi, quando i fotografi si sono avvicinati allo spettacolo accettando la sfida di fotografare in presa diretta. Roger Pic faceva qualcosa di simile a Parigi. Un altro fotografo importante, Ugo Mulas (1928-1973) che ha collaborato a lungo col Piccolo Teatro di Milano, in dialogo con Giorgio Strehler (1921-1997), dai cui spettacoli trae delle “fotocronache”. Il rimando è a qualcosa di fortemente documentaristico, vicino a quello che faceva Brecht. Mulas afferma che le fotografie di teatro sono di due tipi: 1) quelle che servono ad attirare l’attenzione del pubblico e quindi a pubblicizzare lo spettacolo; 2) le vere fotografie di teatro, che lasciano una traccia precisa dello spettacolo. Attraverso la fotografia si può ricostruire il senso della regia e si può rimettere in scena lo spettacolo di Strehler. L’enfasi è posta sulla significazione delle forme. Importante da questo punto di vista è il gesto: la continuità nell’evolversi dei gesti, anche se in modo frammentario. Il tema della selezione delle fotografie è fondamentale. Mulas dice di aver realizzato 5-600 foto per lo spettacolo «Vita di Galileo», uno spettacolo che durava 3 ore. Si collocava tra la quinta e la sesta fila della platea del Piccolo di Milano. lo stesso fotografo scrive: «La macchina non si deve muovere, le uniche cose che si muovo sono le scene e gli attori; ora devi registrare in maniera del tutto impersonale, il più possibile fedele a quella che è la realtà scenica». Quindi, Mulas sostiene che il fotografo dev’essere il più possibile impersonale. Ci sarà da fidarsi delle sue parole? Ovviamente no, è un’affermazione retorica. Mulas ha ben chiara la sua posizione autoriale (era uno dei fotografi più quotati dell’epoca). La scelta stessa di essere neutrale è un posizionamento linguistico, autoriale. Con Maurizio Buscarino (1944-), vediamo qualcosa di molto diverso: un posizionamento critico di fronte alla scena. Buscarino si dedica alla fotografia di teatro dal 1977. La sua non è né pura documentazione né pura narrazione. Adotta una linea riflessiva personale, creando una linea interpretativa. Buscarino vive il teatro come campo d’indagine antropologico. Coglie l’essenza del momento teatrale come rappresentazione delle passioni umane. Il suo lavoro è una sintesi della rappresentazione teatrale in cui possiamo riconoscerci, entrando in empatia. Ma al tempo stesso evidenzia la solitudine dell’attore e del personaggio, metafora della solitudine umana e del fotografo di fronte alla scena. «Il popolo del teatro» (1999) con testi di Buscarino, Roberta Valtorta e altri presenta il teatro come un paesaggio umano da abitare e capire. Rimanda anche alla dimensione del rito. Buscarino ha pubblicato diversi libri di una certa importanza, anche come dimensione e peso. Si è confrontato con molti spettacoli, lavorando con diverse compagnie e registi, specialmente del «nuovo teatro». Ha un approccio etnologico. Scrive: «Una mia convinzione, nell’attraversare tanto teatro, è sempre stata quella di essere [...] una specie di uomo bianco nel territorio indiano, uno straniero che percorre i sentieri, che entra nei villaggi, accolto in modo diverso di volta in volta, ma sempre viso pallido, estraneo. È la favoletta di cui mi nutro cercando, in questa condizione, di non posare i miei arnesi, il mio abito, il mio sguardo: non entrare nel cerchio magico della danza per danzare perché per vedere, oltre che per capire, occorre girare intorno ed essere forestiero». Il fotografo si sente sempre estraneo, è quindi sempre segnato da una solitudine. Non è parte del popolo, non è un teatrante né uno spettatore: è un testimone. Roberta Valtorta ha analizzato l’opera di Buscarino per parole chiave che accomunano i due mondi del teatro e della fotografia: 1) Il volto. L’essere umano è al centro del teatro. Il fotografo di teatro ha davanti a sé, concentrate nel tempo della rappresentazione teatrale, un’infinità di espressioni dell'attore che può cogliere e ritrarre; 2) Lo sguardo. Il soggetto fotografato può restituire lo sguardo o guardare altrove, verso un punto che non vediamo. Il fotografo a sua volta scruta il teatro; 3) Il gesto (cfr a lato «Ricardo Santacruz. El sol bajo las patas de los caballos»). Buscarino si riconosce dall’intensità, dal contrasto delle luci: sfondi neri e luci forti abbracciano le figure. Attraverso il gesto il fotografo coglie l’essenza del teatro come nella fotografia antropologica (cfr. Berengo Gardin: un microgesto, un quid colto casualmente). 4) Il buio. Fotografia e teatro sono luoghi di buio, che si modellano con la luce. Un buio simbolico appartiene anche al pubblico. Le opere di Buscarino si distinguono per un’opera di rilevamento, attraverso la luce, di figure che emergono dal buio. 5) La morte. Ciò che è fotografato appartiene alla memoria, è già passato. Si tratta di una micro-esperienza della morte (Roland Barthes). L’attore vive la morte ogni volta che il personaggio esaurisce la propria vita in scena, scrive il grande regista Kantor. Vediamo un ritratto di Tadeusz Kantor (1915-1990) dallo spettacolo «La classe morta» (1977). Sulla scena, manichini di legno con le mani poggiate sui tavolini costituivano la scenografia. 6) La memoria. La fotografia, scrive Roberta Valtorta, può apparire povera rispetto alle tracce lasciate dall’esperienza nella memoria personale. Ma la fotografia ha la capacità formidabile di costruire la memoria di ciò che non abbiamo sperimentato, quindi crea una memoria collettiva Buscarino, parlando dello spettacolo «La classe morta» di Kantor, dice: «Molto raramente mi sono sentito così preso da perdere quel controllo che devo mantenere di fronte a chi fotografo. Di solito riesco ad avere un atteggiamento concentrato e anche, in un certo senso, predatorio su ciò che accade. Invece quello spettacolo mi schiacciava e dovevo continuamente riprendermi, con grande sforzo. [...] Mi parlava di qualcosa che era nascosto nella mia vita, di qualcosa che mi apparteneva, era quasi insopportabile». Quindi non era riuscito a rimanere un osservatore estraneo. Era entrato in quello spettacolo, rimanendone coinvolto. Carla Cerati, fotografa di scena Carla Cerati (1926-2016), nata a Bergamo, prese il cognome del marito (da nubile si chiamava Carla Tironi). Solo le donne che appartenevano all’alta borghesia potevano dedicarsi alla fotografia a tempo pieno. Iniziò come fotografa negli anni Sessanta. Determinante fu il suo incontro col Living Theatre, foriero di sviluppi nella sua fotografia. Cerati ha lavorato come fotografa per 30 anni. È anche scultrice e autrice di romanzi. Dagli anni Novanta si è dedicata prevalentemente alla scrittura anche se continuerà a fare mostre, pubblicare libri di fotografie e ordinare il proprio archivio. Si dedica alla fotografia teatrale fin dal primo anno della sua attività, ma fa anche dei reportage. Percorre diversi generi di fotografia: paesaggio urbano, ritrattistica, foto di scena. Ma non è un lavoro a compartimenti stagni. Questi generi si influenzano a vicenda. La storia della fotografia codifica diversi tipi di foto, ma ci sono congiunzioni date dallo sguardo dello stesso fotografo. Le fotografe donne si caratterizzano per la prevalenza dell’espressività sulla tecnica. Carla Cerati è stata soprattutto fotografa di Milano e della sua metamorfosi. Percorre la città da un capo all’altro per il progetto che chiama, appunto, «Milano Metamorfosi». Come tanti altri fotografi, documenta anche l’alluvione di Firenze del 1966. Una caratteristica di Carla Cerati è che non interviene per modificare le sue fotografie. In gergo: «taglia in macchina». Quando scatta ha già ben chiaro cosa vuole inquadrare. Prima del clic ha già interiorizzato il reale che ha di fronte, è entrata in empatia con esso. Al contrario, i fotoreporter realizzano tante foto, immagini con tante varianti, e poi scelgono le più significative. Il grande fotografo Federico Vender estraeva solo dei dettagli dagli scatti originali. Cerati invece controlla il preludio della scenografia. Sono modi diversi di vedere l’atto della fotografia. Cerati non allestiva ma teatralizzava attraverso lo sguardo. La sua serie più importante è quella che riguarda la compagnia del Living Theatre, un’esperienza del Nuovo Teatro del secondo Novecento (cfr Peter Brook, Jerzy Grotowski). Si tratta di un collettivo teatrale americano che porta avanti tematiche anarchiche e pacifiste. Una forma di teatro rivoluzionario in cui il pubblico doveva essere coinvolto, reso partecipe di questa lotta politica non violenta contro la barbarie massificante. Il Living Theatre nasce negli anni Sessanta grazie a Julian Beck e la moglie Judith Malina. Intorno agli anni ’64-65 il LIving Theatre affronta l’«esilio europeo» e dà vita a una serie di spettacoli importanti ispirati al «teatro della crudeltà» di Antonin Artaud (1896-1948), che deve stimolare lo spettatore. Ad esempio, lo spettacolo «The Brick» mette in scena la cattiveria umana, è ambientato in una prigione e rappresenta in modo crudo le vessazioni sui prigionieri. Nel 1967 il Living Theatre in scena l’«Antigone» di Sofocle riscritta da Brecht. La Cerati è già esperta come fotografia di teatro, ma qui si confronta con un teatro che ancora non si era visto in Italia: un nuovo modo dissacrante, che scuote il pubblico alto-borghese, mette in crisi lo status spettatoriale. Il linguaggio teatrale è deteatralizzato (De Marinis): gli attori si privano del costume di scena, indossano jeans e magliette. L’«Antigone» è recitata con lo straniamento brechtiano, accentuato anche dalla lettura in scena delle note di regia. «Antigone» mantiene ancora una certa separazione tra scena e pubblico. Gli attori sono sul palco, anche se c’è una pedana aggettante che permette agli attori di avvicinarsi molto agli spettatori. Cerati fotografa questo spettacolo in un teatro piccolo, un teatro “off”, il Durini di Milano, senza palchetti, per cui deve fotografare da una posizione frontale. Non aveva potuto partecipare alle prove (il Living Theatre non le faceva o, se le faceva, erano a porte chiuse). Cerati fotografa le teste degli spettatori in penombra. Gli spettatori rappresentavano i nemici dei tebani, il popolo di Argo. E anche al momento degli applausi, gli attori invece di ringraziare si allontanano terrorizzati, come se si sentissero minacciati. Il fatto teatrale deborda, non coincide più con il testo. Carla Cerati coglie questa rivoluzione nel ruolo degli spettatori e la documenta. Il testo teatrale è finito ma il fatto teatrale continua. La fotografa usa 4 rullini da 35, quindi realizza circa 130 scatti. Pensava molto bene a quello che doveva fotografare. Fa un’esperienza come spettatrice, nelle teste degli spettatori riflette se stessa. Usa diversi obiettivi, che le permettono di avvicinarsi alla scena. Cogliendo l’insieme restituisce il tentativo degli attori di lavorare con la plasticità dei corpi, secondo la poetica del tableau vivant. Il punto di vista frontale le consente di isolare i personaggi usando gli obiettivi. Evidenzia ad esempio il volto-maschera di Julian Beck, che interpretava Creonte. lenzuolo bianco, la testa reclinata, aggiungono significato allo scatto. Cerati avrebbe potuto spostarsi di lato per mettere l’infermiere fuori dall’inquadratura, ma includendolo ha trasformato la foto di cronaca in una scena teatrale. A pagina 58-59 il riferimento formale è più evidente. Nella prova di un balletto con Carla Fracci, la posa rimanda a un cartello stradale a Barcellona che raffigura Picasso in posa da toro. Le immagini assumono un nuovo significato solo con l’impaginazione. Il fruitore è chiamato in causa per leggere, con la sua creatività, la relazione tra le immagini. Lo sguardo filtra, seleziona, compone e taglia. Carla Cerati narratrice utilizza materiale esistente per creare storie apparentemente reali. I l sociologo americano Erwin Goffman , ne «La vita quotidiana come rappresentazione» (1959), pensa alla società da una prospettiva drammaturgica, riconduce tutto a una performatività e lo fa 60 anni prima dell’era dei social. Ogni gesto, anche banale, è postura culturale sul mondo. Probabilmente la Cerati conosceva questo testo. Goffman considera quindi la società come un teatro in cui gli individui assumono ruoli e si presentano e agiscono in modo performante. Scena e fuori scena sembra richiamare l’attenzione su questi meccanismi di rappresentazione. È interessante notare, infatti, come Cerati sembri condividere l’idea di Goffman sulla vita come messa in scena e sull’individuo come attore che interpreta il proprio ruolo nella rappresentazione sociale. Nel fotolibro, la fotografia diventa non solo un mezzo narrativo, ma anche il medium stesso che testimonia visivamente questa tensione dialettica e semantica tra teatro e vita. A pagina 78-79 sono accostate due fotografie con un rimando iconografico formale. La prima riguarda una manifestazione pro-aborto del 1976, l’altra è un momento del Festival del teatro in piazza di S. Arcangelo di Romagna. Nella manifestazione la protesta si trasforma in spettacolo, con la ragazza truccata da maschio, le gravidanze posticce, ecc… e in piazza a S. Arcangelo il teatro e la vita sono evidentemente mescolati. Modulo 2 Storia della Fotografia Introduzione Che l’immagine fotografica sia una rappresentazione della realtà senza finzione, senza traduzione, senza interpretazione, è un pregiudizio, un costrutto culturale. Quando ci facciamo un selfie, ci riconosciamo e ci autocompiaciamo della nostra bellezza fisica, morale, etica. Crediamo alla macchina? O crediamo ai filtri? Alla foto chiediamo di essere veritiera ma non troppo. Già i primi fotografi si ingegnarono a ritoccare, a migliorare, a nascondere le rughe… Quando ancora si esaltava il valore di oggettività delle fotografia, si apriva già una piega di finzione. Lo storico Marc Bloch (1886-1944) parlando delle false notizie di guerra, affermava che il primo conflitto mondiale era stato anche «un’immensa esperienza di psicologia sociale», di cui fare tesoro, pur riconoscendone gli orrori. Anche nella fotografia c’è sempre una distorsione prospettica: all’interno dell’immagine c’è sempre colui che l’ha creata e colui che la guarda. La famosa fotografia di Joe Rosenthal che immortala lo sforzo quasi epico dei soldati che conficcano l’asta della bandiera americana a Iwo Jima è riprodotta su tutti i testi scolastici, su gadget, tatuaggi, ecc… Quell’immagine è divenuta un simbolo talmente introiettato da venire riproposto, ad esempio, quando i pompieri issarono la bandiera sulle macerie dell’11 settembre. È entrata nell’immaginario collettivo. Eppure è frutto di una finzione. Il fotografo fece ripetere quel gesto ai soldati, mettendoli in posa. Thomas Ruff (1958-) ha preso tante immagini dello schianto sulle torri gemelle e le ha composte in un’unica immagine, come in un puzzle le cui tessere sono i pixel. Walter Benjamin, in «Piccola storia della fotografia» (1931) presentava la fotografia non come una registrazione della realtà ma come «una scintilla magari minima di caso, di hic et nunc, con cui la realtà ha folgorato l’immagine». Ribalta così la prospettiva: è la realtà a folgorare l’immagine. E in questo si inserisce il caso e quindi anche l’involontarietà, l’errore. Anche i lapsus, le tracce involontarie fanno la storia. La prima attestazione del fotografo come artista si ha con la foto «Fantaisies» (1855) di Henri Le Secq, che è una natura morta, una disposizione di oggetti. Il tono bluastro viene dalla cianotipia (sale di ferro in emulsione) ottenuta da negativo di carta. La didascalia è interna all’immagine: l’etichetta della bottiglia con la scritta «Fantaisies par H. Le Secq». L’artista si firma quindi a priori, prima del processo fotografico. Nel flacone ci immaginiamo che possano essere contenuti gli elementi necessari per la fotografia: l’immaginazione, la fantasia… Senza di esse non c’è autorialità. John Szarkowski («L’occhio del fotografo», 1966) ha evidenziato le differenze di approccio tra il pittore e il fotografo. Il pittore davanti alla tela ha in mente la scena, si misura con la tradizione; il pennello disegna prima il contorno delle figure, poi le riempie. Quindi parte dal centro. Il fotografo invece parte dai bordi. Ha una cornice con cui taglia la continuità spazio-temporale. «La fotografia si fa con il coltello» (Philippe Dubois, «L’atto fotografico»). Per questo è importante anche ciò che è stato tagliato fuori, eliso. L’apparecchio fotografico Si parte dalla camera obscura o camera ottica, il cui principio era già stato intuito da Aristotele. Fin dal Medioevo viene applicato allo studio dell’astronomia: passando per un’apertura circolare (foro stenopeico) praticata nell’imposta di una stanza immersa nell’oscurità, i raggi luminosi disegnano sulla parete opposta l’immagine capovolta del sole. L’utilizzo della camera oscura in campo artistico si diffonde dal XVI secolo. Leonardo da Vinci (1452-1519) ne parlò come di uno strumento utile per disegnare edifici e paesaggi dal vero, ponendo una lente regolabile sul foro stenopeico e un foglio sulla parete opposta per ricalcare l’immagine proiettata. Gli artisti rinascimentali seguono le leggi della proporzione. Albrecht Dürer (1478-1521) raffigura un disegnatore che ha di fronte a sé una griglia (che ricorda la finestra che si frappone fra noi e il mondo, di cui parlava L.B. Alberti). La griglia può essere trasposta in piccolo sul foglio quadrettato e questo aiuta il disegnatore a mantenere le proporzioni. Per far questo l’artista deve chiudere un occhio e guardare in un mirino. Nel 1657 la camera oscura diventa portatile: si tratta di una scatola chiusa con un solo piccolo foro su cui viene montata una lente per rendere più nitida l’immagine. La luce proietta sul fondo della scatola l’immagine rovesciata del mondo esterno. Inserendo nella scatola uno specchio inclinato a 45° è possibile ottenere l’immagine raddrizzata. Il gesuita Athanasius Kircher (1602-1680) inventa la lanterna magica, che permette di proiettare le immagini ingrandite: cfr. «Ars magna lucis et umbrae» (1646). Questo principio viene poi usato per disegnare, facilitando il passaggio dall’immagine tridimensionale a un’immagine prospettica bidimensionale. Nel Settecento la camera ottica viene usata per lo studio della prospettiva e per ottenere un grande dettaglio, accuratezza, aderenza alla realtà da parte dei vedutisti (cfr. Canaletto, Guardi). Vengono progettati diversi tipi di camera obscura portatile, come il Picture Box, un casco progettato da Robert Hooke (1698), che però non riscosse particolare successo. A lauto in un’illustrazione settecentesca di William Derham. La scoperta delle proprietà fisiche della luce e il recepimento di tale scoperta da parte degli artisti non bastavano ancora per la futura invenzione della fotografia. Era necessario integrare questa tecnica con il fenomeno osservato dai chimici dell’azione dei raggi luminosi su certe sostanze (sostanze fotosensibili). L’artista Paolo Gioli (1942-2022), mettendo della sostanza fotosensibile nel proprio pugno si è fatto delle fotografie a mano nuda, come «Pugno chiuso contro me stesso» (1989). Lo stesso ha fatto attraverso il minuscolo foro di un bottone. Stampe alla gelatina d’argento da negativo realizzato con il pugno. Nel Seicento viene osservato l’annerimento dei sali d’argento, che però viene attribuito al calore del sole e non alla luce. Il sapere intorno alla luce accumulato nel corso dei secoli resta senza effetto finché non si incontra col desiderio di fissare in maniera più permanente le immagini ottenute con la camera obscura. Nel 1727 Johann Heinrich Schulze fornisce un altro ingrediente necessario per la fotografia. Fa una serie di esperimenti chimici e scopre accidentalmente che mischiando gesso, argento e acido nitrico, si ottiene una sostanza che si ossida alla luce. Mette questo miscuglio in una bottiglia e appoggia dei disegni sul vetro. Ottiene così delle zone ossidate, dove i sali d’argento sono stati colpiti dalla luce, mentre le sagome, dove la luce non era passata, erano rimaste chiare. Schulze chiamò questa sostanza scotophorus, portatrice di tenebre, perché la forma che rimane è quella che è rimasta al buio. Tuttavia queste sagome sono effimere, tendono a svanire. Come renderle permanenti? Questa possibilità interessava in particolare alcune categorie di artigiani, ad es. i produttori di ceramiche. Thomas Wedgwood (1771-1805) era figlio di un famoso ceramista inglese. Conosceva gli esperimenti di Schulze ma rovesciò la prospettiva e chiamò le sue immagini, immagini solari. Usando il nitrato d’argento, riuscì ad ottenere impronte su carta appoggiandovi sopra degli oggetti. Dove la luce colpiva il foglio, la sostanza si anneriva, mentre rimaneva chiara nelle zone coperte dagli oggetti. Queste immagini però non erano stabili e continuavano ad annerirsi alla luce. Potevano essere viste solo al piccolo negativo su carta, grande poco più di un francobollo, è lo incollò su un cartoncino su cui scrisse titolo, sottotitolo, data e una didascalia parlante (che cioè non riguarda l’immagine ma il modo in cui deve essere guardata): «Quando è stata fatta per la prima volta, i quadrati di vetro in numero di circa 200 potevano essere contati, con l’aiuto di una lente». Talbot abitava nel 1835 in un ex convento (Lacock Abbey) in piena campagna e inquadrò dall’interno una bow-window (tipica del nord Europa). Collocò la camera oscura in relazione all’ampiezza dell’obiettivo e alla struttura rettangolare della finestra. Non gli interessava la veduta oltre la finestra. Anche la stanza era una camera oscura, con al suo interno una camera oscura. Usò questa foto nel 1839 presso la Royal Society come prova testimoniale per rivendicare la priorità della propria invenzione rispetto a quella di Daguerre. Le riviste pubblicarono la notizia della sua invenzione due settimane dopo quella del dagherrotipo. Nella didascalia rivendica la datazione (agosto 1835) e la capacità visiva potenziata grazie alla fotografia. La offre al mondo della scienza, che ha sviluppato la visione col microscopio e il telescopio. Osserviamo che Talbot avrebbe potuto contare il numero di losanghe per lato e moltiplicarle, ma a lui interessava che i quadrati si potessero contare uno per uno ad occhio. Non fa menzione degli altri oggetti che si intravedono nell’immagine. (Studiare approfondimento Batchen). Talbot sposta la sua ricerca sulla carta emulsionata in una camera oscura e ottiene un negativo su carta sensibilizzata. Nel 1841 brevetta la calotipia (kalós: bello + typos: stampa) , il primo metodo per ottenere un’immagine positiva partendo da un’immagine 6 negativa. Con questa tecnica, Talbot realizza il sogno di Niépce: ottenere da una sola matrice un numero illimitato di positivi. Talbot utilizza carta sottile imbevuta di nitrato d’argento e poi di ioduro di potassio (si ottiene così lo ioduro d’argento). Doveva conservarla al buio. Poi veniva esposta in una camera oscura. Otteneva così un’immagine latente che doveva essere sviluppata. Il negativo veniva immerso in una soluzione al gallonitrato d’argento (acido gallico e nitrato d’argento), un altro apporto di Herschel. Dopodiché il fotografo decideva quando fissare l’immagine immergendo il negativo nell’iposolfito di sodio. La stampa avveniva per contatto: il negativo era unito a un foglio di carta salata e pennellata da un lato col nitrato d’argento all’interno di due lastre di vetro, quindi esposto al sole per alcuni minuti. Il vantaggio di questa tecnica era che lo sviluppo dell’immagine poteva essere fatto in un secondo momento. Un discreto vantaggio rispetto al dagherrotipo, che invece richiedeva di fare tutti i passaggi di seguito e in loco, usando una tenda. Il dagherrotipo però dava risultati migliori per quanto riguardava i dettagli (non c’era infatti il “rumore” dato dalle fibre di cotone della carta). Talbot produce il primo libro fotografico al mondo, «The Pencil of Nature» (1844-46), la cui importanza nella storia della fotografia è equiparabile a quella della Bibbia di Gutenberg per l’editoria (Beaumont Newhall). Talbot realizza le fotografie e le incolla sulle pagine del libro. Vediamo il frontespizio e a destra una coppia di pagine: una natura morta e la sua spiegazione nella pagina accanto. Non è una spiegazione tecnica ma riguarda il significato dell’immagine nell’intenzione dell’autore. La tavola n. 8 presenta due scaffali di una biblioteca: «Scene in a Library» (prima del 22 marzo 1844), stampa su carta salata da negativo calotipico Talbot sceglie appositamente di volumi da fotografare, come per realizzare una sorta di autoritratto culturale, e li porta all’aperto perché per fotografarli serviva la luce del sole. Li sistema su due assi di legno improvvisate, per dare l’impressione che si tratti di scaffali di un’intera biblioteca. La didascalia infatti, mentendo, parla di una fotografia scattata all’interno della sua biblioteca. In futuro, afferma Talbot, «le fotografie potranno forse cogliere il pensiero Il riferimento alla bellezza deriva evidentemente dal Talbot appassionato di filosofia greca.6 all’interno di una stanza, esplorare le apparenze per determinare il nostro modo di vedere il mondo». Vediamo un’altra fotografia di Talbot: «Trafalgar Square con la colonna di Nelson in costruzione». Anche questa è una stampa su carta salata da negativo calotipico. È poco più piccola di un foglio A4 e quindi è stata realizzata con una camera obscura piuttosto grande (non c’era ancora la possibilità di ingrandire le foto). Sullo sfondo la chiesa di Saint-Martin-in-the-Fields con la statua di Giorgio IV. La colonna riecheggia la statuaria antica. Non mostra la National Gallery. Per creare una forma chiusa colloca una linea diagonale scura in basso a destra, costituita dalla recinzione con le affiches, e in alto a sinistra la balaustra chiara. Non mostra il coronamento della colonna, che può essere virtualmente infinita. Notiamo la trilogia di sguardi: Niépce è un erudito dilettante, fotografa «punti di vista», si affaccia sulla campagna. Daguerre si affaccia invece sulla città, sullo spazio pubblico, sulla modernità. Talbot raffigura il simbolo della propria conoscenza, rimanendo all’interno della sua casa (o così vuol farci credere). Tra i padri della fotografia si può annoverare anche Hyppolite Bayard, che era un impiegato del Ministero delle Finanze. Incuriosito dalle notizie uscite sui giornali riguardo a queste invenzioni, senza sapere nulla di chimica, si ingegna a creare immagini «fatte dalla natura stessa». Riesce ad ottenere delle immagini con stampa diretta su carta. Si tratta di positivi diretti discretamente stabili. Si rivolge anche lui ad Arago, che però era già impegnato a promuovere i dagherrotipi, e non lo considera. Così nel 1840 Bayard inviò all’Accademia delle Scienze una lettera scritta in terza persona che accompagna con un «Autoritratto da annegato». Si tratta del primo falso fotografico della storia. Questo getta il dubbio sulla presunta veridicità delle fotografie, che possono essere realistiche ma non sempre sono vere. «La fotografia non mente ma può essere realizzata da un bugiardo». Fotografia e viaggi Come già accennato, i dagherrotipi sono oggetti unici, per questo non ce ne sono molti. In Europa la loro produzione si interrompe negli anni Cinquanta dell’Ottocento. Negli Usa continuano fino agli anni Sessanta. Particolarmente attivo fu l'editore Lerebours che pubblicò «Le escursioni daguerriane» (1842-44), in cui 120 dagherrotipi, provenienti dai siti più importanti di diversi continenti, erano trasformati con un pantografo in incisioni all’acquatinta e pubblicati a fascicoli. Cfr «Luxor» di Frédéric Goupil-Fresquet. Facendo seguito a quest’opera francese, l’editore milanese Ferdinando Artaria pubblicò «Vedute delle città e dei luoghi principali d’Italia» (1842-1847) con 66 tavole all’acquatinta e una raccolta di vedute di Firenze (1842-43). L’attendibilità delle incisioni era garantita dal fatto che erano tratte da dagherrotipi. Accanto alle produzioni editoriali di Lerebours e Artaria, con stampe all’acquatinta, troviamo progetti più specificamente fotografici. Alexander John Ellis vuol documentare le bellezze architettoniche italiane. Accompagna i suoi dagherrotipi con note manoscritte indicando il giorno, l’ora, il tempo di esposizione e il punto di vista scelto. È quindi un’opera molto importante per la storia della fotografia. Un famoso dagherrotipo di Ellis su piazza Duomo col campanile di Giotto e lo scorcio della cattedrale è ottenuto da un punto di vista insolito: non si può ottenere da terra. Occorre salire in un appartamento di fronte per correggere gli errori di prospettiva. Il barone Jean-Baptiste Louis Gros comincia a interessarsi alla dagherrotipia dal 1840. In qualità di diplomatico, viaggia molto in Oriente e Medio Oriente. Gros viene dalla pittura e nel 1851 è fondatore e presidente della Société Héliographique, di cui faceva parte anche Delacroix. Ambasciatore di Francia, Gros si reca in Grecia. La sua azione diplomatica si svolge attorno al Partenone, per sostenere la richiesta di restituzione dei marmi portati a Londra. Va a fotografare i siti archeologici e realizza vedute e dettagli di fregi e sculture. I suoi dagherrotipi vengono elogiati da Francis Wey, fondatore del primo periodico dedicato alla fotografia, «La Lumière». Il dagherrotipo del fregio del Partenone (1850), conservato al Musée d’Orsay, è infatti limpido, molto bello. Gros ha scelto il momento di luce più congeniale. Francese è anche Joseph-Philibert Girault de Prangey, che esegue dagherrotipi in vari Paesi della fascia mediterranea: Italia, Grecia, Egitto, Siria, Turchia… Si tratta di un nuovo modo di viaggiare prendendo appunti con il dagherrotipo. È un’ideale prosecuzione delle campagne conoscitive già avviate in Egitto con Napoleone, mediante l’uso delle incisioni e anche portando via importanti reperti archeologici, come la stele di Rosetta. De Prangey era archeologo e storico dell’architettura. Negli anni Trenta era divenuto celebre per gli studi sull’architettura islamica in Spagna e Italia. Declina la dagherrotipia per studio. Lo strumento conoscitivo principe, che era il disegno sul luogo, viene così sostituito dalla fotografia. Tra il 1842-45 realizza un migliaio di dagherrotipi nel Medio Oriente. Abbiamo le prime foto delle rovine in Grecia, Turchia, Siria, Terra Santa. Nella veduta dell’Acropoli di Atene realizzata da De Prangey (1842) è ancora possibile vedere il paesaggio non urbanizzato sullo sfondo. Sulla slide abbiamo anche il retro dell’immagine: sulla lastra di rame (che è argentata solo dalla parte dell’immagine) c’è l’etichetta originale col numero di serie. Vediamo a lato uno strano dagherrotipo, realizzato a Rosetta (Egitto). De Prangey ha usato solo metà della lastra, sull’asse longitudinale. La seconda metà è impressa in un secondo momento. Ottiene così due vedute panoramiche realizzate in momenti diversi sulla stessa lastra. La dagherrotipia prevedeva che la preparazione della lastra, la sua sensibilizzazione e lo sviluppo andassero fatte sul posto. Il punto di vista e le condizioni di luce andavano scelti accuratamente. Le stagioni preferite erano primavera e autunno. In una giornata intera si potevano ottenere pochi dagherrotipi, al massimo cinque. Il dagherrotipo inoltre ribalta destra e sinistra. Una litografia tratta dalla serie «Monuments arabes» permette di vedere che l’edificio con la torre era ubicato dalla parte opposta. Per quanto riguarda le foto di viaggio, accanto al dagherrotipo vanno menzionate le tecniche con negativo di carta. La diffusione del procedimento della calotipia era ostacolato dal fatto che Talbot ne consentiva la pratica solo a chi avesse acquistato da lui la licenza. Si sviluppano tuttavia ricerche alternative per ottenere fotografie su carta. Così furo no apportati decisivi miglioramenti, specialmente da Louis Blanquart-Évrard (1802-1872), che a Lilla fonda la prima industria fotografica. Nel 1851 sostituisce la stampa mediante esposizione con la stampa mediante sviluppo, elevando il numero di stampe e riducendo i costi. Eugène Piot, fondatore della rivista «Il gabinetto dell’antiquario», è il primo a lasciare un progetto innovativo: «L’Italie Monumentale» (1851-1855). Promette un’edizione di 100 stampe fotografiche ma ne vengono pubblicate soltanto 12. In Italia, il pittore Luigi Sacchi viene a sapere di questo progetto leggendo «La Lumière» e pubblica a sua volta «Monumenti, vedute e costumi d’Italia» (1851-1855). Le immagini mostrano non solo monumenti, come quelle di Piot, ma anche persone. Anche questa pubblicazione rimane incompiuta. Per il loro progetto sul Medio Oriente Maxime Du Camp e Gustave Flaubert adottano la tecnica di Blanquart-Evrard: carta salata esposta ancora umida. La veduta della moschea del Cairo (1849) di Maxime Du Camp presenta una grande qualità della stampa da negativo su carta. In questa stampa su carta salata (1852) notiamo però che il cielo è estremamente compatto perché le sostanze non sono sensibili all’azzurro del cielo. Il cielo veniva quindi mascherato con della china o della carta. Vediamo poi l’opera di August Salzman sui siti archeologici di Gerusalemme. Nella fotografia della salita verso il Tempio, carta salata su cartoncino litografato, notiamo che l’erba è quasi nera. È un problema delle sostanze fotosensibili rispetto al verde. Salzman inquadra tre arcate: il frame è completamente riempito. I ritocchi erano una pratica comune per correggere i limiti della fotografia. Negli stabilimenti fotografici c’erano proprio dei ritoccatori, non solo dei paesaggi ma soprattutto dei ritratti. Gustave Le Gray (1820-1889) sente questo momento di trasformazione. Comincia in questi anni a rappresentare le marine, che sono problematiche, ci vuole capacità della macchina di fare foto velocemente e poi c’è il problema del cielo con le nuvole. Per “La grande onda, Sète” (1857). Stampa all’albumina. Le Gray utilizza un negativo di vetro, lo espone per il tempo necessario per avere le nuvole, poi fa l’esposizione corretta per il mare su un altro negativo. Li ritaglia e li combina insieme . 8 La manipolazione del negativo riporta all’ambito manuale dell’arte e comporta una negoziazione col referente reale. La foto rimanda sempre a un continuum spazio- temporale che è stato percepito dal fotografo, anche se non completamente (c’è l’inconscio ottico). Poi c’è l’apparato meccanico che una sua autonomia, nonostante il controllo del fotografo. L’idea di raffigurare l’errore, ad esempio, è tipico dei surrealisti (cfr. la scrittura automatica). La qualità della fotografia di rendere il reale più bello è stata denominata da Talbot fotogenia. Con la fotogenia comincia a determinarsi un nuovo statuto della fotografia: migliorare la foto, anche per motivi commerciali, col fotoritocco. Nei retrobottega delle industrie di fotografie si ritoccavano le fotografie. La corrente del pittorialismo eleva la manipolazione ad espressione estetica. Questo cambio di paradigma si colloca negli anni 1850, con la manipolazione dei negativi di carta. Henry Peach Robinson (1830-1901) nel 1858 realizza «Fading Away», una fotografia realizzata utilizzando 5 negativi. (Si può notare una sutura in corrispondenza del tavolino di vimini). Fa diversi bozzetti (prove fotografiche) per trovare la giusta luce, la giusta postura delle persone ritratte. Ha un’immagine mentale e vuol realizzare una scena: un’adolescente che spira attorniata da figure della famiglia. In secondo piano un uomo di spalle che, affranto, poggia la fronte sul braccio. Fuori c’è un cielo plumbeo. Con le tecniche di allora sarebbe stata un’immagine impossibile da ottenere. Robinson si trova di fronte a una realtà che non è fotogenica. Così fa il procedimento inverso: parte da un’idea e la costruisce. Tra i riferimenti formali ci sono i Pre-Raffaelliti e Shakespeare. Dalla semplice manipolazione si passa all’idealizzazione. Stampa all’albumina. A differenza di Gustave Le Gray che si pone il problema tecnico di fronte al mare e al cielo, perché vuole esaltare la bellezza della realtà, Henry Peach Robinson va oltre. Realizza una messa in scena teatrale. Affronta questioni tecniche dovute alla correttezza della luce e al chiaro-scuro (al variare della luce c’è un’apertura diversa del diaframma e quindi cambia la messa a fuoco). Fu molto criticato per la rappresentazione della morte di una giovane fanciulla, ma la consapevolezza che si trattava di una modella vinse le opposizioni della rigida morale dell’Inghilterra vittoriana. Anzi, «Fading Away» divenne un’immagine molto diffusa e apprezzata come esempio di progresso tecnico. Ritratti Nella stagione primitiva francese (1850-1855) abbiamo dei pittori che diventano fotografi. Nel 1854 la Società Eliografica diventa Societé Française de Photographie, un’associazione artistica e scientifica che mira a rafforzare il movimento fotografico francese. La tecnica combinatoria della fotografia inventata da Le Gray verrà utilizzata anche più tardi, ad esempio 8 da Wanda Wulz per “Io+gatto” (1932). Qui i negativi interi sono combinati, sovrapposti come un sandwich. Per tenere insieme i due negativi ha messo le lastre a contatto con la gelatina. L’immagine è divenuta così indivisibile. Wanda Wulz realizzò quest’opera in Italia, non a Parigi, ma possiamo collocarla nell’ambito del surrealismo. A servizio dello Stato e per fini commerciali si cominciano a ritrarre personaggi importanti del tempo. André Adolphe Eugène Disdéri (1819-1889), uno dei fotografi più importanti della Parigi di metà Ottocento, realizza un montaggio, una sorta di montagna umana, intitolata «La corte imperiale di Napoleone III» (1866). Disdéri è l’inventore del formato carte-de-visite (vedi sopra Adelaide Ristori nei panni di Maria Stuarda, 1860). Con una macchina fotografica con 4, 6 o 8 obiettivi e lastre di vetro di 23x25 cm, realizzava più pose al prezzo di una. Potevano essere tutte uguali oppure diverse (in questo caso azionava un obiettivo alla volta con un sistema di sportellini). Infine, le singole immagini venivano ritagliate, stampate all’albumina e incollate su cartoncini della grandezza di un biglietto da visita (7x9 cm). Si potevano anche ottenere diversi formati: cfr il ritratto di Clara Pilvois. Le foto di personaggi famosi potevano essere acquistate da chiunque e diventavano oggetti da collezione. L’invenzione di Disdéri ebbe una diffusione straordinaria, condizionando l’immaginario collettivo: memoria e identità. Però, dopo essere stato uno degli uomini più ricchi di Parigi, Disdéri morì in miseria. Uno dei suoi concorrenti fu Nadar (Gaspard-Félix Tournachon, 1820-1910), che aveva un laboratorio con grandi vetrate al 35 del Boulevard des Capucines (si può ancora vedere). Inizia negli anni ’40 come illustratore caricaturista. Nel 1849 fonda la Révue Comique. Arriva in seguito alla fotografia per ricavarne una litografia intitolata Pantheon (1854) in cui intendeva ritrarre un migliaio di personaggi illustri, che aveva schedato, raccogliendo le iconografie esistenti. Non riesce a portare a termine quest’opera: vediamo una tavola con 249 personaggi. L’immagine è dotata di cartigli con i numeri corrispondenti al nome di ciascun personaggio. Riuscì a raccogliere i letterati (hommes de lettres). Questa glorificazione francese attraverso i suoi uomini illustri era particolarmente apprezzata. Era resa possibile dalla fotografia, che forniva la base per i ritratti. Così Nadar sviluppa abilità di fotografo. Un ritratto di Nadar costava 5 volte uno di Disdéri. Nadar è considerato un genio romantico della fotografia. Sperimenta le vedute aeree da mongolfiera, le luci artificiali negli anni Sessanta dell’Ottocento. Cercava di conciliare l’attività commerciale e preoccupazioni artistiche. A differenza dei suoi concorrenti, si rifiutava di ricorrere al ritocco. Una delle fotografie più famose di Nadar è il ritratto dell’attrice Sarah Bernhardt (1862), stampa all’albumina. C’è una grande intensità espressiva. La luce forte che proviene dalla finestra in alto a sinistra avrebbe lasciato in ombra una parte del volto, ma con pannelli riflettenti illumina anche dall’altra parte del volto. Realizza un forte chiaroscuro. Non c’è sfondo, l’attrice è appoggiata su una colonna che si intravede appena. Ha una posa da artista, molto plastica, che risolve elegantemente il problema della posa delle mani. L’abito è molto particolare, non di uso quotidiano, con un raffinato panneggio. Questi ritratti potevano avere vari usi: dare la foto all’effigiata, che ne avrebbe fatto un uso pubblicitario, ad esempio spedendola agli ammiratori in risposta alle loro lettere; inserirlo in un catalogo per venderlo ai privati che potevano metterlo nel proprio album di famiglia o attaccarlo a una parete di casa. Altri fotografi esplorano il tema urbano. Charles Nègre (1820-1880) fotografa monumenti o scene di genere (es. barche attraccate). La fotografia degli Spazzacamini in cammino (1852) è la prima fotografia non in posa. Nègre riprende i soggetti in movimento. Non guardano in macchina. Per metterli a fuoco deve rinunciare allo sfondo cittadino. Agli angoli la fotografia è scura. Forse è un’errore della lente, o ha preso luce durante lo sviluppo. L’enfasi è data alle ombre. La luce non è zenitale, ma forte. Stampa all’albumina da negativo di carta cerato. (Studiare approfondimento Marien). In un’altra foto, scattata da una posizione più alta, ritraeva gli spazzacamini seduti. È una foto più controllata. È una posa, anche se vuol dare l’impressione di istantaneità (questo termine sarà usato negli anni Settanta e poi dopo il 1880 col lancio della macchina fotografica Kodak). Nègre firma in basso a sinistra la seconda fotografia. Non voleva fare un ritratto delle persone ma del tipo di lavoro. È una documentazione anche di denuncia, anche se non è assente l’idealizzazione. Artisti e letterati cominciano a ritrarre le classi lavoratrici. Accademismo Nel 1853 nasce a Londra la seconda società fotografica dopo il Calotype Center: la Royal Photographic Society. Queste società pubblicano periodici che diventano strumenti importanti per i fotografi per aggiornarsi e farsi conoscere. A questo scopo nascono anche le esposizioni internazionali di fotografia, come la Reed Exhibition del 1851. Vi partecipano esponenti della classe dominante borghese. Tra il 1854 e il 1855 il negativo su vetro, per la sua maggiore precisione, apre una nuova stagione nella fotografia. Accanto a stabilimenti commerciali si affiancano i dilettanti, che non sono più gli scienziati e ricercatori. Alcuni di loro si definiscono «fotografi artisti», autori non ancora interessati alle dinamiche del mercato. È una stagione diversamente interpretata dagli studi commerciali che avevano un mercato di incisioni ma anche un mercato da inventare ex novo. In questo quadro, i dilettanti sono un’altra categoria ancora: persone che provengono dal mondo aristocratico e dell’alta borghesia e dal mondo degli studi e di dilettano di fotografia, che diventa una moda. Henry Peach Robinson entra a far parte della Royal Photographic Society nel 1857. Viene anche lui da disegno e pittura. Nel 1869 pubblica un manuale intitolato«The Pictorial Effect in Photography» come riflessione teorica sul carattere artistico della fotografia. Parla in modo esplicito della composizione e del chiaroscuro, con un capitolo anche sulla combinazione delle stampe. Questo testo ebbe grande successo, con traduzioni in tedesco e francese. Con l’opera di Peach Robinson la fotografia ambisce ad essere messa sullo stesso piano dell’arte figurativa pittorica. I testi di riferimento di Robinson sono i «Discourses» di Reynolds, testo di riferimento per la formazione accademica dei pittori. Un altro testo è di Burnett, «Treatise on Painting». Questi testi gli servono per dare un’intelaiatura alla teoria dell’arte applicata alla fotografia. Ad esempio, composizione e chiaroscuro sono tecniche e linguaggi della teoria dell’arte che la fotografia assume su di sé: all’epoca era vista come una forzatura intellettuale non da poco. Robisnon stabilisce un lessico comune che possa essere utilizzato da queste due arti ed espresso in immagini. Sottolinea il contributo della fotografia nel rinnovamento di alcuni generi, come ad esempio il ritratto. L’ultimo capitolo tratta della combinazione delle stampe. Robisnon parte dai limiti tecnici della fotografia e dice che intento del suo manuale è trovare delle leggi intramontabili della tradizione antica che, se correttamente applicate… L’imitatio era uno dei precetti dei pittori dei secoli precedenti. Con la fotografia il letto del realismo assume una connotazione diversa. Ad esempio, il realismo di Courbet è una descrizione politica della società. Baudelaire nel recensire il Salon del 1859, in cui la fotografia è ammessa a partecipare, scriverà pagine dure, dicendo che la strada della fotografia non è quella dell’arte perché non ha respiro creativo: infatti si limita a riprodurre il reale. Henry Peach Robinson invece sostiene che le possibilità della fotografia sono molto più vaste. All’Esposizione dei tesori artistici di Manchester (1856), una mostra dei prodotti della manifattura del Regno unito, fra cui anche la fotografia, la regina Vittoria acquista dal pittore e fotografo Oscar Gustav Rejlander (1813-1875) un quadro fotografico intitolato «The Two Ways of Life» (1857). L’opera è definita nel sottotitolo «A Pictorial Composition from Nature». Stampa all’albumina da circa 32 negativi. Rappresenta un’allegoria dei vizi e delle virtù. Al centro della scena un vecchio barbuto che conduce un giovane in formazione, che a di fronte a sé due mondi: sulla sinistra ci sono i vizi e a destra lo studio, la famiglia, ecc… All’epoca suscitò dibattito non per quel che rappresentava ma perché metteva al servizio dell’ideologia statale la fotografia. Il suo successo si deve anche al Pittorialismo All’inizio degli anni 90 dell’Ottocento si ha una radicale trasformazione dei modi di produzione dell’immagine fotografica. La comparsa sul mercato prima della lastra asciutta, poi di piccoli apparecchi d’uso semplificato (come i Detective e i Kodak) e infine dell’emulsione su pellicola mette la pratica della fotografia alla portata di molti. Il pubblico non compra più fotografie, compra gli strumenti per farle. Una certa categoria di dilettanti e professionisti decide di reagire alla proliferazione di immagini giudicate banali. Per questo intendono porre la fotografia sotto l’egida di un’autorità magistrale. Questo si traduce nella prima mostra del Camera Club di Vienna del 1891, che segna la nascita del Pittorialismo come movimento internazionale. Il suo grande intento è quello di considerare la fotografia come una delle belle arti. Nuove associazioni di dilettanti rappresentano il movimento pittorialista europeo: il Camera Club di Vienna, il Photo Club di Parigi, il Linked Ring di Londra, ecc… A New York il Camera Club pubblica il bollettino Camera Notes. Il confronto delle immagini avviene principalmente in prestigiose esposizioni internazionali, come la Première Exposition d’Art Photographique a Parigi (1894) e grazie a un’abbondante letteratura fotografica composta di cataloghi di mostre e di album portfolio come il famoso “Die Kunst in der Photographie” (1897-1908), diretto da Franz Goerke (1856-1931), importante esponente della fotografia d'arte tedesca. Ogni associazione è abbonata ai bollettini delle associazioni affini. I saggi battono incessantemente sullo stesso tasto: «La fotografia è arte?», come quello più famoso di Roberta de la Sizeranne (1898) con immagini di Robert Demachy, Constant Puyo, Heinrich Kühn e altri. Frederick Evans (1853-1943) erano noto per le stampe al platino delle sue fotografie di soggetti architettonici. Fotografa un sottotetto di Kelmscott Manor (1896), casa di William Harris, fondatore del movimento delle «Arts and Crafts» inglese. Luogo strategico per i movimenti culturali, per artisti e intellettuali. Ci aveva abitato anche Dante Gabriel Rossetti. Evans realizza un reportage di 31 foto di questo luogo simbolico. Stampe al platino. L’evidente subordine dell’importanza del soggetto rispetto alla interpretazione del fotografo è un preludio del modernismo. Il sottotetto è un luogo senza particolare interesse. È il fotografo che gli dà una sequenza emotiva con toni di carattere spirituale. Inizialmente il movimento pittorialista non ha un manifesto e raccoglie una produzione disparata. Convinzione comune è che la fotografia ha già reso molti servizi alla scienza e dimostrato la sua efficacia nel dettaglio realistico. Questo porta i fotografi a tradurre in immagini il reale in un altro modo, imponendo la loro presenza. Per far questo usano una serie di tecniche di distanziamento. È nota la predilezione dei pittorialisti per l’umidità, la pioggia, la nebbia, la neve. Usano obiettivi più morbidi o semplicemente alitano Constant Puyo (1857-1933), una delle figure di maggior importanza del pittorialismo francese, aveva messo a punto degli obiettivi soft focus che ottenevano una maggiore morbidezza. Elabora procedimenti di stampa alla gomma bicromata. Appassionati di tecniche di stampa che consentano l’intervento manuale, i pittorialisti prediligono le tecniche di asportazione: l’immagine appare via via che il fotografo la libera dall’eccesso di materia che la ricopre. L’austriaco Heinrich Kühn (1866-1944) sviluppa una riflessione sull’uso della luce. Le fotografie sono svuotate del reale attraverso l’uso della luce e del chiaroscuro. Le tecniche di distanziamento servono anche ad introdurre la fotografia nella cerchia delle arti, di darle uno status di quadro. «Barca a vela in partenza» (1897 ca.) è una gomma bicromata pubblicata come fotoincisione. La regola aurea dei 2/3 taglia la vela dell’imbarcazione. La fotografia è firmata in basso a destra. Nella foto Nel porto (1897) dell’inglese Frank Meadow Sutcliffe (1853-1941) il controluce è ancor più dichiarato. Il cielo è chiaro mentre le figure sono nere. Per la prima volta il soggetto della fotografia è la luce stessa. Quest’opera si potrebbe quasi leggere in parallelo con i dipinti di Turner. George Davison (vedi sopra, Il «campo di cipolle») nel 1889 era stato nominato direttore della Kodak a Londra. Nella fotoincisione Oxford Street - A Wet Day (1897) il centro è dato dal riflesso della luce sul bagnato. Una una Kodak Cartridge n. 4. La macchina fotografica monta un rullo di pellicola, molto semplice. Notiamo in queste fotografie le tecniche di distanziamento caratteristiche della tradizione pittorialista. Ampie zone delle foto non corrispondono a un oggetto specifico. Kühn abbassa la macchina fotografica in favore di elementi minori della scena. C’è una degerarchizzazione del soggetto. Si cerca piuttosto di creare una certa atmosfera, uno spazio metafisico. I pittorialisti usano i filtri naturali, come la nebbia o la pioggia, come tecniche di distanziamento. Tutto questo permette un’idealizzazione della realtà, creando distanza col fotografo. L’opera dei pittorialisti ruota intorno a un ristretto gruppo di temi: le pecore al pascolo, tema dell’Arcadia, in un tempo sospeso; i ritratti negli interni domestici, le natura morte con certi aspetti della luce; le vedute urbane, senza però attenzione per i temi di denuncia sociale e per la crescita urbanistica. I pittorialisti appartengono alla classe aristocratica o alto-borghese. Nella loro fotografia non c’è impegno, ma idillio, tempo sospeso. Alfred Stieglitz (1864-1946) studia a Berlino, poi torna negli Usa nel 1890. Usa la camera a mano, stampa con varie tecniche (notiamo che la tecnica di stampa fa dello stesso negativo fotografie diverse). Si forma intorno a lui un piccolo gruppo di fotoamatori. Stieglitz è direttore di «Camera Notes» (1897-1902), rivista americana. Della stessa epoca della rivista «Kunst der Photographie», questa però era espressione di un desiderio di riscatto nazionale, mentre «Camera Notes» ha un respiro internazionale. Nell’editoriale del n. 1 Stieglitz sostiene di voler conoscere quello che succede in Europa per quanto riguarda gli strumenti e i fotografi. Il gruppo americano si sviluppa quindi in rete con altri gruppi. La fotografia Mending Nets (1894), era considerata da Alfred Stieglitz una delle immagini più rappresentative della propria opera. Realizzata in Olanda, fa parte della prima serie di foto che si collocano a cavallo del 1890. Non è ancora pittorialista, perché non attua tecniche di distanziamento, ma ha una resa morbida. Stampa al platino. Una donna rammenda le reti da pesca. Infinita poesia di un popolo pittoresco e affascinante. “Pittoresco” è un aggettivo molto usato in ambito anglosassone, indica il gusto per certe particolarità che hanno una dimensione narrativa e suscitano sentimenti poetici. Stieglitz descrive questa donna olandese come parte del paesaggio. Siamo nel campo della idealizzazione. C’è una ricerca del momento favorevole della luce e quindi la messa in posa. «Tutte le sue speranze sono concentrate in questo gesto»: l’immagine evoca tutta una storia. Stieglitz sarà il primo a produrre per il mercato un portfolio delle proprie foto-incisioni. A partire dal negativo di vetro si possono ottenere foto più piccole a minor prezzo. Robert Demachy (1859-1936) divenne famoso manipolando le stampe con la tecnica della gomma bicromata, un legante in cui possono essere inglobate le sostanze fotosensibili ma anche sostanze pigmentate. Interveniva manualmente con raschietto e pennello per togliere l’emulsione dove voleva dare un effetto particolare. Questo faceva delle sue stampe dei pezzi unici. Demachy fa riferimento al disegno rinascimentale. In Study in Red (1895) il riferimento è alla “sanguigna” del Rinascimento italiano. Siamo ancora nell’ambito dell’idealizzazione. Altro fotografo di “Camera Notes” è Clarence White (1871-1925). Vediamo una foto, Spring (1899), concepita come trittico: un’allegoria della Primavera. Ricorda Henry Peach Robinson. Combina tecnica e riferimenti al mondo dell’arte (cfr il concetto stesso di trittico). Ne abbiamo due versioni: una al platino (quella a lato) e una foto-incisione. Un giovane pupillo di Stieglitz, Edward Steichen (1879-1973), in questo autoritratto si raffigura in veste di pittore, per sottolineare l’espressione artistica attraverso la fotografia: Ritratto di Steichen con la tavolozza (1901). Il lavoro della gomma bicromata si nota sul bianco, reso più denso. Nel 1901 Robert Peach Robinson fonda nel Regno Unito un altro gruppo di fotografi dilettanti, il Linked Ring, a cui inizialmente aderiscono anche Stieglitz e Clearence White. È un club esclusivo: vi si può partecipare solo su invito. Questo gruppo vuol giungere all’emancipazione della fotografia dall’ambito scientifico e tecnico. Si oppone quindi alla foto di documentazione. La fotografia per loro è un’arte indipendente. Il sogno di raffigurare il reale tramonta: è più importante l’intenzione del fotografo. Photosecession newyorkese Il corrispettivo americano del Linked Ring è la Photosecession newyorkese. Nel 1902 New York diventa il fulcro del pittorialismo internazionale. Stieglitz, Streichen, Gertrude Käsabier, Clarence White danno il via a questo movimento che intende «riunire gli americani dediti alla fotografia pittorialista nel tentativo di. imporre il suo riconoscimento non come ancella dell’arte, ma come mezzo distinto d’espressione individuale». Grande enfasi viene posta sulla tecnica della stampa (stampa al platino e soprattutto gomma bicromata), sulla composizione dell’immagine e sui riferimenti ai temi più tradizionali delle arti figurative. Le fotografie hanno titoli estremamente allegorici. Il gruppo pubblica una lussuosa rivista, fondata nel 1903 da Stieglitz Camera Work, che ospita riproduzioni delle migliori opere americane ed europee. Nel 1905 per iniziativa di Streichen il gruppo apre la Little Gallery al numero 291 della Fifth Avenue, una sala d’esposizione che sarà conosciuta come Galleria 291, aperta a fotografi, pittori e scultori, testa di ponte dell’avanguardia europea in America. Vi espongono Rodin, Matisse, Cézanne, Picasso, Brancusi, Braque, Picabia. Quest’ultimo dedicherà a Stieglitz un “ritratto” in absentia, in cui si vede la macchina fotografica disarticolata insieme alla leva del cambio di un’automobile in rosso e il numero 291. Con la mostra Photosecession 1906 Stieglitz inventa un modo nuovo di esporre le fotografie. Prima erano tutte affastellate su una sola parete. Qui invece ogni fotografia ha la sua cornice, ognuna è illuminata ed è in corrispondenza a una piccola mensola su cui ci si può appoggiare. Gertrud Käsebier (1852-1934) nella fotografia Tu sei benedetta tra le donne (1899). Stampa al platino. Raffigura la moglie di un fotografo di Boston con la figlia. Si trovano sulla soglia dell’ambiente domestico, controluce. La figlia è vestita da scolara e rimane ferma, mentre la madre le mette un braccio attorno le spalle. Dietro di loro si vede un dipinto della Visitazione, a cui fa riferimento la citazione evangelica. Anche questa è una fotografia idealizzante. Esalta valori domestici. Il titolo è allegorico. Stieglitz la pubblica più volte e la espone nel 1906, in una mostra dedicata a Clarence White. Edward Steichen era l’avamposto di Stieglitz a Parigi. Riesce ad entrare nelle grazie di Rodin, che era considerato il più grande artista vivente. Steichen viene ammesso nel suo studio e Rodin si concede come modello per alcuni ritratti fotografici. Nella fotografia Rodin il pensatore (1902), Steichen raffigura l’artista francese nel suo studio e sullo sfondo pone il gruppo scultoreo in marmo dedicato a Victor Hugo e di fronte le celebre scultura del “Pensatore” (alter ego dell’artista). Lo studio era ingombro di opere, ma Steichen sceglie questi due lavori emblematici. Per raggiungere il controllo dello spazio e delle luci, monta due negativi e inverte l’immagine del pensatore, per creare una relazione con l’artista. Stampa alla gomma bicromata. Per creare questa fotografia ha impiegato mesi di lavoro. Nel 1907 Alfred Stieglitz realizza una fotografia, The Steerage, considerata il capolavoro dell’avanguardia americana. Fotoincisione. Raffigura i passeggeri della terza classe dalla passerella di un transatlantico. La foto non ha valenza sociale: ciò che interessa Stieglitz è la composizione, le relazioni formali: la passerella di taglio, l’uomo col cappello bianco. Fa una foto della scena che lo ha colpito per i suoi valori formali. La tiene con sé fino al 1911 della Nuova Oggettività, che in pittura ha come protagonisti Otto Dix e George Grosz. Questi reagiscono all’espressionismo rivendicando un ritorno all’oggettività. C’è un’enfasi sulla crudeltà della realtà raffigurata senza applicare filtri. Una critica artistica che è anche politica. Siamo nel contesto del Dada berlinese. Karl Blossfeldt, nel libro «Le forme dell’arte in natura» (1928) ha come soggetti degli elementi vegetali in frammenti. Cfr Impatiens glandulifera (1928). Stampa alla gelatina d’argento. L’autore interroga queste forme su uno sfondo vuoto, diventando delle sculture vegetali bastevoli a se stesse. In una visione organicistica, isola dei dettagli nel suo studio, come se fosse una foto pubblicitaria per esaltare la bellezza delle forme organiche, come a voler dire che l’arte può tornare alle forme di bellezza presenti in natura. Il catalogo riporta i nomi delle piante, sembra un erbario ma in realtà è un catalogo di forme: le piante sono un pretesto. Col fotomontaggio Metropolis (1923) di Paul Citroen - stampa alla gelatina d’argento - ci si affaccia al tema della città. Siamo nel contesto della fotografia sperimentale che nulla ha a che fare con la fotografia amata dai regimi, tutto sommato uniforme e non particolarmente originale. La fotografia sperimentale è una palestra di formazione che annovera vari personaggi che formano il Bauhaus. La città soggetto-oggetto moderno, luogo da esplorare e dentro cui muoversi (siamo in un tempo in cui i fotografi usano macchine fotografiche più leggere), per studiarne le possibili rappresentazioni in fotografia restituendone nuove visioni. Citroen qui è come se guardasse la città con un caleidoscopio, frammentandola in 200 pezzi di riviste e cartoline incollati a collage su un supporto secondario. Poi fotografa il lavoro. La foto di Umbo, Mistery of the Street (1928) - stampa alla gelatina d’argento - presenta un altro modo di vedere la città, dall’alto verso il basso. Fotografa dalla sua finestra: abbassando lo sguardo, aspetta gli “attori” di questa scena realizzino la posa che cerca. È un’immagine all’interno di una serie. La fotografia è capovolta. Legittima questo gesto linguistico apponendo la sua firma. Di solito dalla finestra si guarda il panorama, lui si abbassa per guardare il quotidiano, non gli interessa il soggetto ma la modalità compositiva. E quando va a stampare la foto capisce che essa assume un significato diverso se la capovolge (un suggerimento che dà Moholy-Nagy nel suo libro). Mette così in discussione l’atto del fotografare perché il significato non viene dallo scatto. anche dopo la fotografia ha una sua autonomia, al di là anche dell’autore. È importante anche l’ombra nella fotografia moderna. In passato sarebbe stata vista come un errore, ma ora diventa marcatore di modernità e messaggio meta-fotografico. È la luce che si proietta. L’ombra viene elevata a protagonista, volontario aspettare che le ombre siano parallele al marciapiede. C’è ancora uno spostamento dell’attenzione dal soggetto della fotografia al soggetto della raffigurazione, che in questo caso è la funzione dell’ombra. Umbo mantiene lo stesso punto di vista e a ritmo costante osserva ciò che succede sotto, come se la macchina fosse uno strumento scientifico, un vetrino che osserva la realtà. La foto di August Sander, Capomastro, Colonia (1932) - stampa alla gelatina d’argento - fa parte di una serie importante, realizzata tra il 1920 e il 1934: “Uomini del XX secolo”. Sander è un artista progressista che si batte per fare della fotografia un’arte al servizio della rappresentazione della società. Lavora a questo progetto per un quindicennio, finché il Reich gli proibisce di continuare. Fa ritratti delle gerarchie sociali. Questi autori partono da una certa esperienza visiva e giungono alla modificazione dello sguardo. Il progetto auto-commissionato per ritrarre il popolo tedesco: tutti i lavori sono rappresentati con i loro attributi. La modalità tipica è quella del documento fotografico. Sander non è un artista ma un fotografo professionista. Non viene dal Bauhaus. Verrà considerato l’iniziatore di un tipo di fotografia che mantiene una postura documentale. Altra cosa importante è che tutti siano in posa: una posa rigida che fa trasparire la mancanza di familiarità, all’epoca, con la tecnica fotografica. Nell’Unione Sovietica la fotografia ha una funzione sociale. nel 1929, il regista Dziga Vertov realizza il film “L’uomo con la macchina da presa”, un viaggio metalinguistico nella città e nel cinema. L’ultimo fotogramma del film presenta una sovrapposizione tra occhio umano e obiettivo. Meccanismi simili a quelli di Umbo. Una figura di spicco di quegli anni è Aleksandr Rodchenko (1891-1956), uno dei firmatari del Costruttivismo. Adotta prospettive insolite e audaci, con l'intenzione di combattere tutte le convenzioni della fotografia artistica del periodo. Grazie a queste inquadrature insolite, isolò e mise in risalto i più semplici elementi grafici, linee, cerchi, curve. Vediamo un ritratto pubblicato sulla copertina della rivista Fotografia Sovietica (1927) che mette in gioco un simbolismo: La lettera F che in cirillico richiama la lente con la stanghetta che il soggetto ha in mano, capace di farci vedere un’altra realtà. Rodchenko critica il realismo fotografico sovietico, idealizzato dal regime. Il suo modo di fotografare veniva considerato troppo "formalista" e accusato di seguire le orme di fotografi "occidentali" come László Moholy-Nagy e Man Ray. Rodčenko fu inoltre accusato di aver dato troppa importanza all'estetica a scapito del contenuto, tradendo così quello che veniva considerato vero fotogiornalismo. In seguito le sue fotografie furono messe al bando. Il Modernismo in fotografia valorizza la forma, scevra da ogni forma di pittorialismo. Descrive nei minuti dettagli la realtà. Moholy-Nagy mette in risalto l’importanza dei valori formali nella didascalia parlante della foto Nella sabbia dal libro «Pittura Fotografia Film» (1925). È un’immagine girevole, ruotandola si ottengono sempre nuove immagini. Si rifà alle teorie della Gestalt, sviluppate negli anni Venti. Sappiamo che la direzione nella lettura delle immagini è da sinistra a destra e dall’alto al basso. Ruotando la fotografia cambia l’impressione. Vediamo sulla slide, che l’immagine capovolta è molto più dinamica. Surrealismo In Francia, nel 1924, abbiamo il Manifesto del Surrealismo. Sembra esserci incompatibilità tra fotografia (che è traccia della realtà) e surrealismo, che attinge all’inconscio. André Kertész, (1894-1985) di origini ungheresi, giunge a Parigi nel 1926. Costruì la sua carriera sulla capacità di registrare magnificamente immagini senza pretese, come quella di una forchetta. Lavorava soprattutto con la Leica, ciò che dava ai suoi documenti un aspetto spontaneo. Nel 1933 realizza una serie intitolata “Distorsioni”, in cui ritrae il corpo nudo di una donna attraverso l’immagine che ne dà uno specchio deformante. Cfr Distortion #34 (1933) - stampa alla gelatina d’argento -. C’è un interesse per questo implodere ed esplodere del corpo nelle fotografie, che dipende dalla rappresentazione fotografica e dalle opzioni del fotografo. L’idea di Kertész è che la fotografia più pura può celare una distorsione, una presa di posizione soggettiva. Anche l’americano Man Ray (1890-1876) lavora in Francia. La sua opera si identifica col surrealismo. Abbinò al lavoro d’artista d’avanguardia l’attività di fotografo commerciale, dedicandosi soprattutto ai ritratti. Nega qualsiasi dimensione artistica e autoriale alle fotografie. Lacrime (1932) - stampa alla gelatina d’argento - è una metafora dell’artificio dell’arte. Si tratta di perline di vetro che rappresentano le lacrime in modo da estetizzare il sentimento (sono lacrime false, che lasciano intatto il trucco). Un’altra autrice importante, Germaine Krull, pubblica un libro fotografico come opera d’arte autonoma. Concepito come portfolio, «Métal» consiste in una serie di 64 fotoincisioni di scenari industriali, che per l’autrice sono metafora del mondo moderno. Ci sono anche artisti italiani che guardano alla sperimentazione europea e si formano negli ambiti della grafica. Uno di questi è Luigi Veronesi. Realizza anche foto off-camera per la serie «Fotogramma». La tecnica off-camera si presta a processi di astrazione più di altre. Si tratta di fotografia astratta perché le forme non sono inizialmente riconoscibili. È un tipo di fotografia che raramente mette in gioco lo spazio: bastano gli oggetti. André Kertész realizza una veduta di Parigi dal titolo La lastra rotta (1929). Il protagonista è infatti il negativo accidentalmente bucato. Non butta via questa foto e la stampa negli anni ’70. L’ingranditore ha sensibilizzato le sostanze fotosensibili e ha ottenuto una parte nera. La parte più fotografica, colpita da più luce, è proprio quella che non ha relazione col referente reale. È la luce stessa il referente. È un colpo di genio, una licenza poetica: questa foto non rappresenta il referente reale ma la sua capacità di andare oltre il referente stesso. Cfr. Clément Chéroux, “L’errore fotografico”: in pittura ci sono i “pentimenti”, in fotografia posso buttare via la foto e farne un’altra, o trarre vantaggio dall’errore. C’è una piega (cfr. Gilles Deleuze) fra intenzione dell’autore e oggetto, dove si hanno delle possibilità creative. Qui si collocano i surrealisti e Kertész. La dialettica, il rapporto mai fermo tra l’immagine e la realtà genera una capacità euristica, di scoperta. Marcel Duchamp nel “Nudo che scende le scale” (1912) prende ispirazione da una serie di lezioni della storia della fotografia. In un fumetto sulla vita di “Eadweard Muybridge” pubblicato su “Camera Comics” nel 1945. Eadweard Muybridge nel 1878 aveva collocato una serie di macchine fotografiche a distanza regolare (ogni mezzo metro) lungo un pista per cavalli. Ogni macchina era collegata a un filo che attraversava il tracciato ed era fissato dall’altra parte. Il cavallo passando azionava in sequenza le macchine fotografiche. Ottiene così una serie di immagini che descrivono in maniera corretta il galoppo del cavallo. Nessuno aveva mai visto la fase in cui il cavallo ha tutte e quattro le zampe alzate. La macchina fotografica vede in modo diverso dall’occhio umano, che è condizionato da un inconscio ottico (noi vediamo solo quello che sappiamo o vogliamo vedere). La fotografia e il cinema permettono di vedere quello che il nostro occhio non è “culturalmente” preparato a percepire. Questa tecnica viene usata per studiare il movimento di animali, corpi umani… Con una lanterna magica (lo zoogiroscopio) si possono proiettare le immagini collocate su un disco che viene fatto ruotare per dare l’illusione del movimento. Un altro fotografo, Jules Etienne Marey, nel 1882 inventa un “fucile fotografico” con cui riprende un saltatore con l’asta e fissa tutta la serie di movimenti su un unico negativo fotografico. Da una simile sequenza fotografica Un soldato in marcia a Joinville (1883) ricava una cronofotografia (serie di immagini in un unico negativo) ,cioè una sintesi, mediante linee astratte, del movimento del soldato. Ottiene così una fotografia astratta. Il soggetto di questa immagine è il tempo. Ispirandosi alla cronofotografia, Duchamp inserisce il tempo nella scomposizione cubista. Vediamo una fotografia che Duchamp concepisce insieme a Man Ray. È quest’ultimo a scattare materialmente la foto Allevamento di polvere (1920), stampa alla gelatina. Man Ray aveva ricevuto una commissione dalla pittrice e collezionista Katherine Dreier, che gli aveva chiesto di fotografare i pezzi della sua collezione. Man Ray va a visitare Duchamp, che a New York stava realizzando «Sposa messa a nudo dai suoi scapoli, anche», che sarà conosciuta anche col titolo «Il grande vetro». Si compone infatti di due lastre di vetro sovrapposte sulle quali sono raffigurate diverse figure. Man Ray vede una lastra coperta di polvere, che Duchamp non aveva volutamente spolverato per “coltivare” la polvere per questa sua opera. Duchamp invita Man Ray ad esercitarsi sul tema della polvere, che rimanda alla vita delle opere nel tempo. Man Ray sistema la macchina fotografica sul cavalletto, mette tutto perfettamente a fuoco e lascia un tempo di esposizione lungo. I due vanno a pranzo. Quando sviluppa la pellicola, Man Ray trova la fotografia “perfetta”. Questa fotografia si colloca all’origine del Surrealismo. Viene pubblicata nel 1922 sulla rivista surrealista «Litérature». L’opera viene attribuita a Man Ray ma in un articolo su Duchamp da André Breton, l’opera viene presentata col titolo «ll dominio di Rrose Sélavy» (alter ego femminile di Marcel Duchamp). Perché il dominio? Si vuol evocare l’unicità dell’io artistico ma al tempo stesso la contaminazione. La polvere elettrostatica è nemica della fotografia, ma è anche una traccia del deposito del tempo. La fotografia è quindi una traccia della traccia: qui si inserisce il surrealismo. L’opera riporta anche il dello “stile documentario”. Scrive Evans: “Ho fatto fotografie in stile documentario, non foto documentarie”. Come si distingue lo stile dal significato?. Se nella storia dell’arte lo stile è la relazione tra cifra personale e appartenenza a un contesto più ampio. Ma lo stile è qualcosa di diverso dal valore documentario. Tutte le foto hanno valore documentario. In questo caso però lo stile utilizza le caratteristiche, gli stilemi del documento, per questo si chiama «stile documentario». Ma il significato dell’immagine è diverso da quello di un semplice documento. Evans fa dei reportage sulla città. La Female Pedestrian (1929-31), stampa alla gelatina d’argento, ritrae una passante. Evans è evidentemente colpito dalla contingenza delle forme: la figura del cerchio (il disegno del vestito, la collana, gli occhiali); i giornali sullo sfondo e anche sotto il braccio della donna. Questa è protesa in avanti, è in tensione, non passeggia rilassata. La borsa è stretta al corpo, atteggiamento è tipico dello spazio urbano. In un’altra fotografia Evans riprende la cartellonistica di un hotel. Una parete provvisoria a cui stanno lavorando due operai. Si tratta di un’immagine dentro un’immagine. Procedendo da sinistra a destra, si può immaginare quello che ancora non c’è. Tipico di Evans è inserire delle scritte e delle immagini dentro le immagini. Tutto è perfettamente a fuoco, la prospettiva è frontale, le luci non sono eccessive. Appunto, uno stile documentario. Evans è sempre colpito dalle forme. Nella fotografia Sidewalk and Shopfront, New Orleans 1935, stampa alla gelatina d’argento. La porta del negozio non è al centro dell’immagine. Evans gioca sull’assenza di simmetria. Il titolo è dato semplicemente dal nome dei luoghi, non ci sono citazioni o frasi evocative. Questo crea un corto circuito col valore documentario. Evans, nel 1938-41, fa una serie di istantanee delle persone che prendono la metropolitana, a loro insaputa, una sorta di candid camera. Una selezione di questi ritratti sarà pubblicata in un volume nel 1966: «Many Are Called». Evans lavora sulla spontaneità delle espressioni facciali. La fotografia come analisi sociale viene utilizzata in un progetto statale della FSA (Farm Security Administration) nel 1935-44. L’istituzione, voluta da Roosevelt, faceva documenti fotografici relativi allo stato di vita e l’indigenza dei cittadini, specialmente nel mondo agricolo. Gli Usa non sono assistenzialisti e la FSA faceva opera di sensibilizzazione per convincere il Congresso a fare leggi a favore della ripresa economica. Roy Stryker, funzionario governativo, invia un gruppo di fotografi negli Stati del Sud. Qui fotografano i contadini, i lavoratori più umili, documentano il lavoro minorile, gli slum dove vivono gli emigrati, molti dei quali italiani. La FSA non indica i nomi dei soggetti ritratti. È uno spaccato sociale. Tutte le foto vengono raccolte alla Library of Congress (175.000 negativi e 100.000 stampe). Cedendo il negativo i fotografi hanno ceduto i diritti. Le stampe hanno tutte le dimensioni di 20x30 cm in modo da essere facilmente raccolte in uno schedario. Vediamo una fotografia di Arthur Rothstein: in Oklahoma, Un contadino e i suoi figli camminano in una tempesta di sabbia, Oklahoma (1936). Si nota il pulviscolo nell’aria. I volti delle persone non sono visibili. La fotografa Dorothea Lange si avvicina di più ai suoi soggetti. È una grande ritrattista. Dorothea Lange racconterà negli anni Sessanta che le riviste illustrate americane furono riluttanti ad accettare le foto della FSA perché non documentavano eventi ma situazioni statiche. Queste immagini avrebbero reso confuso il resoconto giornalistico. Sarà il tempo a dare valore a queste foto. Una delle foto più note della Lange è quella della Madre migrante, Nipomo, California (1936). In California, la fotografa vede una famiglia al riparo di una tenda provvisoria, si ferma e realizza la famosa foto. Scatta 5 foto, alcune di avvicinamento. Dialoga con la donna, che ha 32 anni. Quella tenda era la sua casa. Con i figli piccoli si spostava per lavorare nei campi. Si nutrivano di piselli danneggiati da una gelata e di uccelli che riuscivano a catturare. Si trovavano lì perché avevano dovuto vendere gli pneumatici dell’automobile per mangiare. Vediamo lo sguardo e l’espressione preoccupata della donna, gli abiti sono logori e sporchi. Anche i bambini appaiono sporchi. Ma si nota anche la dignità della donna. C’è una speranza: la foto diventa subito famosa. Viene definita: una Madonna laica. La composizione a triangolo rimanda infatti alle immagini sacre. Nell’originale, il pollice della donna reggeva la tenda in basso a destra. Questo particolare viene cancellato. Era un’attrazione visiva incoerente: distoglieva l’attenzione dalla costruzione in cui il tendaggio fa da telo come negli studi dei fotografi. Non si capisce dove siamo: il contesto non viene descritto. Negli anni Settanta questa fotografia torna in auge quando si scopre che la donna ritratta, Owen Thompson, aveva origini native americane. Si inserisce quindi in una storia controversa. Le fotografie dalla FSA sedimentano una memoria visiva riguardo popolazioni che non erano ancora entrate nella storia. La fotografia sicura di sé (1930-1950) I fotografi avevano cominciato a lavorare e a guadagnare con le riviste illustrate. In Germania, dal 1891, veniva pubblicata la «Berliner Illustrierte Zeitung». Poi in Francia dalla fine degli anni Venti fino al 1940, con «Vu Magazine». Alle copertine di questa rivista collaborano autori che hanno dato vita al Surrealismo. Questa rivista dettò un nuovo modo di concepire il ruolo della fotografia nel giornalismo: le immagini hanno più peso dei testi. Dagli anni Trenta, molti fotografi e grafici si spostano dall’Europa negli Stati Uniti. Qui nasce la rivista «Fortune», fondata da Henri Luce nel 1930. Poi la rivista «Life» (1936-1972), che mette in primo piano proprio la fotografia. Grandi fotografi si dedicano anche alla pubblicità. Fino alla prima guerra mondiale non c’erano fotogiornalisti autonomi. Chi realizzava i reportage di guerra erano militari ed erano soggetti alla censura. Dagli anni Venti in poi i fotografi hanno la possibilità di avere obiettivi intercambiabili con la macchina Leica (1922). Il fotogiornalismo di guerra diventa meno pericoloso grazie all’uso degli obiettivi. Nasce la figura del fotoreporter. Vediamo la celeberrima foto della Morte di un soldato a Cordoba (1936) di Robert Capa, stampa alla gelatina d'argento, pubblicata su «Vu» nel 1936. L’anno successivo viene ripubblicata da «Life» a pagina piena, tagliata nel formato. L’immagine ha suscitato diverse polemiche: si è discusso sulla sua autenticità, infatti non c’è il negativo. Si sono fatte ipotesi sull’identità del miliziano ucciso a Córdoba. In ogni caso, per decenni ha funzionato come simbolo della brutalità della guerra. Cfr il video documentario «La sombra del iceberg». Nel 1939 era scomparsa una valigetta con i negativi di Robert Capa. Il fotografo era scappato da Parigi ed aveva affidato le valigette col suo archivio a un suo assistente, Weisse. Queste valigette spariscono e diventano un mito. Cornell Capa, dopo la morte del fratello maggiore Robert, dà la caccia a questo archivio. Nel 1974 fonda l’International Center of Photography. Nel 1995 si viene a sapere che tre valigette si trovano in Messico. Benjamin Turner le aveva ottenute e conservati in soffitta in una sua casa in Messico. Grazie all’ICP nel 2007 questi rullini arrivano a New York. Sono 4500 negativi, ma tra questi non c’è la morte del miliziano. Ci sono anche negativi di Seymour e Gerda Taro (l’amante di Capa). L’archivio permette di attribuire alcune fotografie, pubblicate sotto pseudonimo, e di evidenziare il legame tra questi tre fotografi, tutti morti giovani mentre facevano il lavoro di fotoreporter. Era una generazione che credeva che la fotografia valesse la pena di rischiare la vita. I protagonisti della stagione d’oro del fotogiornalismo inventano una nuova forma narrativa: il photo-essay. Il fotografo fa una serie di foto ed è autore anche del testo. La rivista «Life» ha fra i suoi redattori un gruppo di fotoreporter. Senza la fotografia, la notizia non esiste e la rivista non si vende. Le immagini comunicano anche alla popolazione parzialmente alfabetizzata (bastava leggere titolo, sottotitolo e sommario, poi le foto bastavano). Il presupposto era questo: «Una foto vale più di mille parole». Una foto efficace doveva avere caratteristiche sia documentaristiche che estetiche. Poteva perciò essere interpretata in vari modi. Robert Capa diventa famoso con il reportage sulla guerra civile in Spagna, poi con le foto dello sbarco in Normandia. Sbarca con i soldati americani e fotografa la scena partecipando all’evento. Cfr D-Day Omaha Beach (1944), stampa alla gelatina. Le immagini sono fuori fuoco, sgrammaticate, ma efficaci perché danno l’impressione della concitazione del momento. Cfr il diario di Capa, «Slightly out of Focus». Capa diventa un eroe del fotogiornalismo per il carattere narrativo che viene dalla sequenza delle fotografie integrate col testo. È imprescindibile descrivere la verità, per questo ha derogato ai principi di carattere estetico. Fuori fuoco che abbiamo già trovato con la Cameron a metà dell’Ottocento, come scelta estatica. Il soft focus era poi divenuto, con Puyo, una tecnica di distanziamento, estetizzazione, verità interiore. Capa invece vuole trasmettere la verità esterna, frutto del corpo a corpo del fotografo con la realtà. La velocità nel cogliere l’attimo e i caratteri salienti, la composizione delle forme del reale, restituisce momenti non controllati. Erich Solomon è considerato il primo interprete e inventore di un vero e proprio genere del fotogiornalismo: lo scoop. Vediamo la sua foto di una seduta della Corte Suprema degli Stati Uniti (1932), che non poteva essere fotografata. Stampa alla gelatina. Solomon era entrato con una fasciatura al braccio, in cui nascondeva la macchina fotografica. Così riuscì a fotografare all’insaputa dei soggetti. Con la stessa tecnica riesce a fotografare Stravinsky mentre dirige l’orchestra. Diventa famoso nel 1928, quando era ancora in Germania, con un servizio su un omicidio, di cui pubblica un’immagine sul «Berliner Illustrierte». È il primo scoop fotografico della storia. Solomon è stato definito il primo Candid Camera Man. Con lui nasce l’etichetta «fotoreporter». Inizialmente aveva una macchina troppo ingombrante, la Nekel, ma poi passò alla Lemanx e poi alla Leica con obiettivi intercambiabili. Può cogliere così persone in pose spontanee. Sdogana anche quello che avverrà con Capa nel D-Day: ciò che conta non è il livello estetico ma l’impatto emotivo, anche scandalistico. Felix Man realizza un fototesto col fine di svelare il vero volto di Mussolini nel 1931. Si accorda con le forze dell’ordine e con la censura e riesce a seguire per un’intera giornata il duce. Vediamo la foto: Mussolini a Palazzo Venezia (1931), stampa alla gelatina. Mussolini è ripreso all’interno di uno spazio enorme. Ne emerge la figura di un piccolo dittatore all’interno di una grande storia. Man veicola i significati lavorando sulla distanza e sulle dimensioni. Nel 1933 chiede di poter fare un altro servizio fotografico ma il duce rifiuta. Vediamo una delle fotografie più iconiche di Martin Munkácsi, Liberia (1931), stampa alla gelatina d’argento. Ha lavorato per giornali sportivi in Germania. Poi, emigrato negli Usa, diventa un fotografo importante, che influenza anche Cartier-Bresson. La sua fotografia avrà un grande influsso per l’aspetto compositivo, estetico. Munkácsi collabora con Harper’s Bazaar, rivista di New York, diretta da Aleksej Brodovič, che ospita fotografi emigrati. La fotografia «Liberia» è organizzata intorno ai movimenti dei corpi dei ragazzini che corrono a tuffarsi in mare (cfr «I danzatori» di Matisse). Armonia delle linee. Questa capacità estetica di lavorare sulle forme influenza anche Richard Aldon, noto ritrattista. Henri Cartier-Bresson (1908-2004) ha pubblicato il volume nel 1952 «Images à la sauvette» (lett. immagini alla spicciolata), tradotto in inglese «Il momento decisivo» perché all’interno del testo c’è questa frase che sintetizza la poetica di Cartier-Bresson. Si forma come pittore, frequenta l’ambiente surrealista, è interessato al cinema e va a studiare con ragazzini. Anche lui non cerca luoghi rimarchevoli, ma guarda dove non c’è niente da guardare. Ricordiamo che Klein diventa anche un fotografo delle città: ha pubblicato un libro su Roma. Ma le sue fotografie non sono da cartolina. Lavora sulla doppia pagina, senza cornice (taglio al sangue) in modo da coinvolgere di più. Lee Friedlander ha fatto molto discutere col libro «Self Portrait» (1970), con testo di John Szarkowski. Friedlander fotografa gente da dietro: è interessato all’ombra del fotografo proiettata sui soggetti. L’ombra del fotografo, che era considerata un errore, viene elevata a soggetto della fotografia. Vediamo Self Portrait, New York City, 1966, stampa alla gelatina ai sali d’argento. Abbiamo visto che l’ombra era diventata un espediente nei modernismi europei. Con Friedlander siamo a fine anni Sessanta, nel clima dell’arte concettuale. Fa un discorso meta-fotografico: il soggetto è l’atto fotografico. In un’altra foto è una donna senza volto a scattare una fotografia al fotografo, del quale si vede l’immagine riflessa sul vetro. Non è immediatamente intelligibile. C’è sempre qualcosa che resta indeterminato. Garry Winogrand girava con più macchine fotografiche a tracolla e fotografava le persone per strada in maniera ossessiva. Quando scopre di essere malato, Winogrand decide di conservare 30.000 negativi in frigo. Alla sua morte, John Szarkowski è incaricato di sviluppare le migliori, tenendo conto delle indicazioni disponibili dell’autore. Raccoglie così una sfida intellettuale: l’opera di un fotografo dipende sempre in parte dalle scelte che altri fanno (qui siamo a un caso estremo). Winogrand dichiarava di fare fotografie per vedere cosa succede al mondo quando viene fotografato, ma in realtà aveva un occhio rapace, attento dal punto di vista formale e contenutistico.. In una sua fotografia si vede una coppia a passeggio nello Zoo di Central Park (1967), stampa alla gelatina ai sali d’argento. Lui è nero e lei bianca, e portano ciascuno in braccio uno scimpanzé vestito buffamente. Winogrand chiede ai due di fermarsi. Gioca sul piano bidimensionale: sulla destra infatti c’è un bambino che sta dando la mano a un adulto del quale si intravede solo la testa al di sopra di quella della scimmietta. Sembra che il bambino cerchi un contatto con l’uomo che porta in braccio lo scimpanzé. Un altro fotografo, Tod Papageorge, si trovava presente sul posto e scattò una fotografia dello stesso soggetto, traendone però una fotografia in chiave divertente. Papageorge non problematizza attraverso l’uso delle ombre e del piano bidimensionale come fa invece Winogrand. Fotografia concettuale Questi autori che lavorano a New York nel secondo dopoguerra respirano l’aria dell’arte concettuale. La fotografia era spesso entrata nelle prime forme di concettualismo (ante-1968). Vediamo un’azione artistica di Yves Klein, «Salto nel vuoto» (1960). La performance è stata fotografata da Harry Shunk e Janos Kender. Ma si tratta di un fotomontaggio. Poi pubblicano questa foto sulla prima pagina di un finto giornale: «Dimanche». Quest’opera chiama in causa la credibilità della fotografia e della stessa stampa. Il termine «arte concettuale» si dilata includendo pratiche e tendenze di vari contesti geografici, spesso ignari l’uno dell’altro. I tratti dell’arte concettuale vengono identificati con il predominio dell’aspetto filosofico, testuale o performativo rispetto all’oggetto artistico stesso. Joseph Kosuth realizza delle installazioni, intitolato «Uno e tre» (1945) in cui espone un oggetto reale (es. una sedia o una sega) accanto a una foto dell’oggetto stesso e a una didascalia che ne dà la definizione. È un’operazione tautologica, rimanda a se stessa. L’oggetto è affiancato alla sua sintesi bidimensionale e alla sua definizione. In termini semiotici, le parole sono simbolo, l’oggetto è indice e la fotografia icona. Kosuth sostiene che ciò che rende questi elementi arte non è altro che l’intenzione dell’autore. La domanda era stata posta da Marchel Duchamp con i suoi readymades: che cosa può essere arte? La risposta: ciò che l’artista battezza come arte. La fotografia era già entrata nell’arte concettuale nel 1917, quando Stieglitz fotografò «Fontana» di Duchamp (l’orinatoio firmato R. Mutt), che era stato rifiutato da un salone. Stieglitz non aveva fatto però una foto documentaria. Aveva messo l’orinatoio su un piedistallo. L’oggetto forma un’ombra che sembra un volto che guarda verso il basso. Si tratta di una fotografia ready-made di un ready-made. Ricordiamo la performance di Keith Arnatt che in una sequenza di fotogrammi interpretava il proprio Autoseppellimento. La sequenza fu trasmessa alla tv tedesca nel 1969: ogni singola fotografia compariva per due secondi una volta al giorno, con l’autore sempre più dentro la fossa. Queste immagini non venivano né annunciate né spiegate. Gli spettatori potevano solo immaginare cosa volesse dire. Facendo seguito al saggio «La morte dell’autore» di Roland Barthes, Arnatt documenta la scomparsa dell’artista: in questo modo il lettore è liberato dalla tirannia dell’intenzione dell’autore. Un’opera composta di testo e immagine caratterizzata dall’assenza dell’evento reale fu portata a termine da Richard Long (1967): «Una linea realizzata camminando, Inghilterra». Long andava in campagna e camminava avanti e indietro su un terreno fino a far apparire una linea sul suolo. L’atto del camminare rimane invisibile allo spettatore della fotografia, finché non legge la didascalia. Resta la linea sul terreno come segno indessicale. D’altra parte, la linea non esiste più nella realtà e l’unica cosa che ne rimane è la fotografia. Questa fu esposta alla mostra «When Attitudes Become Form» (Quando gli atteggiamenti diventano forma) a Londra nel 1969. Alla stessa mostra fu esposta l’installazione minimalista di Victor Buggin, «Photopath» (Fotosentiero), le fotografie di parti di un pavimento, a grandezza naturale e in varie condizioni di luce, furono sovrapposte al pavimento stesso. Anche qui è soppresso qualsiasi riferimento alla presenza dell’artista a parte lo strumento fotografico. John Hilliard nel 1970 fotografa 12 volte un cronometro da camera oscura con un tempo di esposizione sempre più intenso, finché l’immagine diventa più diafana. È una riflessione sul ruolo della fotografia nel nostro modo di vedere la realtà. Ma la fotografia concettuale più nota è quella di Ed Ruscha che nel 1963 fotografa tutte le stazioni di rifornimento della Route 66, Twentysix Gasoline Stations. Pubblica poi un libro che si apre a fisarmonica. Una documentazione ripetitiva che non assegna un valore a ogni singola stazione se non come tappa di un percorso. In Italia, Franco Vaccari (cfr «Fotografia e inconscio tecnologico») realizza «Esposizione in tempo reale» alla Biennale di Venezia del 1972. I visitatori si facevano delle foto in una cabina e le affiggevano al muro. Così l’opera si componeva poco a poco. Se i visitatori non avessero collaborato, l’opera non sarebbe esistita. La performance si spostava sul pubblico. Inoltre, entravano in gioco i meccanismi autogenerativi dell’atto fotografico. Anche Vaccari metteva così in atto un autoseppellimento dell’autore. Geografia come spazio abitato Szarkowski ha definito la fotografia come una rete che cattura il suo soggetto ma non può fare a meno di perdere quello che sta attorno, che rimane escluso dal frame. Si tratta di una frazione di spazio e di tempo. Nel 2006 Claudio Marra ha pubblicato un libro, «L’immagine infedele: la falsa rivoluzione della fotografia digitale» in cui sostiene che la presunta rivoluzione digitale in realtà non ha scosso la nostra convinzione che la fotografia attesti il reale. Il cinema ha il montaggio, la fotografia ha una relazione unica con lo spazio geografico, reale o allestito. La fotografia modernista aveva una relazione privilegiata a partire dalle didascalie. Il primo ad usare le didascalie assertive è stato Paul Strand, con un’indicazione geografica precisa. Si tratta di un modo per riflettere sul rapporto linguistico della foto col reale. Come Strand rinuncia alle tecniche di distanziamento, così rinuncia alle didascalie allegoriche, liriche. Non vuole più avere a che fare con l’idealizzazione ma con la realtà. E il grado 0 della realtà è riferirsi al toponimo. Strand passa da un elemento riconoscibile e lo scrive, altrimenti si limita a indicare il nome della città. Dà un appiglio al desiderio di realismo della fotografia. Ma in alcuni casi il riferimento topografico è troppo vago e non serve a nulla. Equivale al famoso titolo “Senza titolo” con cui l’artista rifiuta di fornire il significato. Così il fotografo rifiuta di dare il significato, fornendo solo il riferimento topografico. Questo approccio nasce con la «straight photography» che riscopre il primo Pittorialismo. David Bate nel saggio «La fotografia come forma d’arte» (vedi bibliografia) fa riferimento al filosofo francese Gaston Bachelard, che ha a lungo riflettuto sul tema della rêverie, cioè la capacità di sognare a occhi aperti. È la capacità creativa del pensiero in campo estetico. Nell’opera «Poetica dello spazio» afferma che lo spazio abitato trascende lo spazio geometrico. Bachelard si concentra sugli «spazi felici», che ci fanno sentire a casa. Questi sono creati dall’immaginazione: la soffitta, la casetta sull’albero. Il loro possesso è emotivo e psicologico. Il loro ricordo non è obiettivo: corrisponde all’impressione appunto di uno “spazio felice” (al di là di quanto potessero essere scomodi, freddi, bui, ecc…). Questa può essere definita topofilia (amore per i luoghi). La distinzione tra spazio geometrico e spazio abitato è resa particolarmente evidente nelle immagini fotografiche, perché in esse lo spazio è sempre costruito (dall’obiettivo, l’inquadratura, gli effetti ottici). La topofilia rientra nel lavoro di molti fotografi che cercano di cogliere quel quid, quella relazione positiva con gli spazi di rifugio. Il loro intento è quello di portare lo spettatore ad abitare quello spazio. La fotografa americana Penelope Umbrico ha scaricato da Flickr le fotografie disponibili di tramonti per farne dei grandi collage, che poi ha stampato in formato cartolina. Vediamo 541795 soli da Tramonti da Flickr (parziale) 26/01/06, stampe da computer. La fotografie dei tramonti sono ubique, si trovano in tutte le culture, fanno parte dell’immaginario collettivo. Non ci sono riferimenti preferenziali al luogo geografico. Sono astrazioni. Il tramonto, come la mansarda di Bachelard, stimola la rêverie. Ricordiamo che Stieglitz aveva fatto un esperimento simile con le forme delle nuvole. Qui c’è un’attenzione per i colori (resi più ricchi dalla tecnologia degli smartphone). Magari, il sentimento di struggimento e di stupore non è più quello di una volta: è un’immagine psicologica a bassa tensione. La «realtà psichica» (cfr. Freud), ciò che sentiamo, ha una sua realtà, a prescindere dal rapporto col reale. Possiamo essere felici o tristi in una situazione che oggettivamente non lo è. Questo ci fa capire perché lo spazio abitato dai pensieri umani ha iniziato ad interessare i fotografi. Vediamo una fotografia di Yto Barrada, fotografa francese di origini marocchine. Forse siamo sulle Dolomiti, su un lago. Ma si coglie un’effrazione di significato. C’è uno strappo (cfr il buco nel vetro di Kertész). Lo strappo mette in evidenza la linea di congiunzione del poster. Non vediamo un luogo di montagna ma la rappresentazione di una rappresentazione. Il titolo è Carta da parati Tangeri (2001), stampa cromogenica. La fotografia appartiene a un progetto che la Barrada ha realizzato sullo Stretto di transito fra Africa ed Europa, uno spazio di frontiera che la fotografa problematizza: «Una vita piena di buchi: il progetto dello stretto». Questa gigantografia dell’Europa a Tangeri offre lo spunto per una narrazione sugli ideali, le aspettative di chi emigra, un’immaginario che però al tempo stesso presenta dei buchi, è sbiadito, incrinato. Introduciamo il concetto di eterotopia di Michel Foucault. Il filosofo francese asserisce che la modernità è caratterizzata dall’ossessione per lo spazio, più che per il tempo. Per Foucault lo spazio è un insieme di relazioni, non solo soggettive ma anche sociali, che si hanno con un determinato luogo. Lo spazio si dà in misura delle relazioni che lo attraversano e delle interconnessioni tra le persone. In questo senso Foucault aveva anticipato con largo anticipo (nel 1967) l’avvento di internet.
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