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Migrazioni e ruoli familiari: la partecipazione delle donne al lavoro, Appunti di Sociologia delle Migrazioni

Come la migrazione influisca sulle dinamiche di ruoli all'interno delle famiglie, con un focus particolare sulla partecipazione delle donne al lavoro. del cambiamento dei ruoli tradizionali, l'influenza della composizione professionale della rete migratoria e il collegamento tra migrazione e modelli di consumo.

Tipologia: Appunti

2019/2020

Caricato il 09/11/2022

simona-taiocchi
simona-taiocchi 🇮🇹

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Scarica Migrazioni e ruoli familiari: la partecipazione delle donne al lavoro e più Appunti in PDF di Sociologia delle Migrazioni solo su Docsity! STORIA DELLE MIGRAZIONI E DELLE POLITICHE MIGRATORIE INTRODUZIONE Scopo corso: mettere a confronto i principali approcci metodologici Domanda di fondo: “quale sguardo occorre adottare per osservare, studiare e capire i fenomeni migratori?” 1° modulo: origini e sviluppo dei fenomeni migratori Scuola di Chicago I primi sociologi a dedicarsi ai fenomeni migratori furono quelli della Scuola di Chicago nei primi tre decenni del ‘900. Questi studiosi avevano sotto i propri occhi lo sviluppo industriale di Chicago e il richiamo di manodopera da fuori città e fuori continente; la città conobbe una grande espansione tanto che, fin dalla fine dell’800, ebbe una crescita demografica significativa grazie alle diverse ondate migratorie. Volendo studiare i fenomeni urbani questi sociologi non poterono non accorgersi che la città era formata prevalentemente da immigrati e che capire i comportamenti degli abitanti della città voleva dire inserire tali comportamenti nella loro vicenda migratoria: scelte residenziali, spostamenti nella città, tipo di rete di relazioni, strategie di movimento e di frequentazioni si potevano comprendere solo se si teneva in conto che gli abitanti della città avessero origine esterna ad essa. Viene così utilizzato il metodo etnografico: metodo prima utilizzato nello studio delle civiltà premoderne, con la Scuola di Chicago lo si inizierà ad applicare anche alle civiltà occidentali. Scuola di Manchester (anni ’50-’60 del ‘900) Altra scuola importante per gli studi sulla mobilità geografica è rappresentata da quella di Manchester, costituita da antropologi sociali e riuniti attorno al dipartimento fondato nel ’47 da Max Gluckman. Negli anni ’50-’60 questi antropologi studiano soprattutto le società africane subsahariane e notano che durante i processi di decolonizzazione in corso, queste, erano delle società in movimento e non statiche come avevano osservato gli antropologi precedenti. Trovandosi di fronte a società coinvolte in profonde mutazioni in corso, si interrogano sulle forme di questo mutamento sociale e si imbattono in migrazioni soprattutto verso i centri urbani. Questi studiosi mettono sotto esame il concetto di etnicità e lo problematizzano mettendolo in connessione con la mobilità degli individui. Vanessa Maher ha raccolto e tradotto in italiano alcuni saggi di questa scuola in un volume dedicato alla questione dell’etnicità. Utilità dello studio dei fenomeni migratori per comprendere come le migrazioni siano parte integranti delle nostre società sempre in movimento e non come anomalie. Molti studiosi pensano che questo approccio debba essere esteso anche allo studio dei “locali” e si riuniscono (in Italia) attorno alla rivista “Quaderni storici”. Proprio in questa rivista, nel 2001, Michael Eve (sociologo) pubblica un saggio in cui ripercorre le principali tappe degli approcci adottati per studiare gli immigrati in varie parti del mondo occidentale e nota come le metodologie e le domande di ricerca, siano sempre state diverse da quelle usate per i non immigrati. [Con il tempo si è creata una disciplina a sé, la “sociologia delle immigrazioni”, che ha influenzato pesantemente gli storici delle migrazioni (venuti dopo). I sociologi se non aggiornati alle più recenti opere storiche, tenderanno a mettere in luce le discontinuità del presente rispetto al passato, perché privi di profondità storica (es. i più recenti fenomeni di immigrazione).] Secondo Eve i metodi usati per studiare gli immigrati abbiano enfatizzati alcuni aspetti della loro esperienza e li abbiano resi diversi ai no immigrati agli occhi degli spettatori, per es.: - Utilizzo del concetto di catene migratorie - Studio della concentrazione in “villaggi urbani” (viene spesso fatto notare come questi si concentrino soprattutto in precise aree urbane) - Forte accento posto sulla tradizione e sulla cultura del luogo d’origine Spesso si trascurano i fattori di tipo strutturale che riguardano ogni tipo di spostamento, infatti Eve mette in evidenza le costanti che sono presenti in tutte le migrazioni. Eve riconosce che lo sguardo etnografico ravvicinato non ha soltanto limiti, ma riesce a porre l’accento sui meccanismi universali che si riproducono in ogni spostamento, anche da città in città: Eve utilizza come esempio lo spostamento di giovani francesi all’interno del proprio territorio nazionale, i quali adottavano gli stessi comportamenti tipici degli immigrati (anche provenienti fuori dalla Francia). Questo rovesciamento di prospettiva ha delle conseguenze dirompenti per la storia, soprattutto per la storia che indaga i processi sociali perché se si introduce come prospettiva d’analisi la mobilità geografica, si possono dare nuove spiegazioni di molti comportamenti analizzati come modelli di consumi e i loro mutamenti, mutamenti dei consumi in periodi specifici, scelte residenziali, lavorative ecc… Es.: fenomeni migratori nell’Italia degli anni ’60 da sud a nord Prospettiva di genere L’adozione della prospettiva di genere nello studio delle migrazioni risulta molto recente e ha significato porre l’attenzione sulle differenze nei ruoli sociali maschili e femminili e studiandone i mutamenti nel corso del tempo. Si è sempre posta attenzione sulla migrazione di tipo maschile, tanto che nel momento in cui si è iniziato ad assistere al fenomeno della migrazione prevalentemente femminile, si è messo l’accento sulle novità. Es. donne provenienti dall’est Europa che arrivavano in Europa occidentale a partire dagli anni ’80-’90, inserendosi nella rete occupazionale dei lavori di cura; all’epoca visto come punto di rottura per cui anche le donne per la prima volta iniziavano ad inserirsi nei flussi migratori. In realtà non è così perché anche nel passato si sono verificati diversi spostamenti, soprattutto nell’ambito della cura domestica; molte giovani donne si spostavano dalla campagna alle città per trovare lavoro nelle mura domestiche di famiglie facoltose, altro esempio è quello delle “balie da latte” (dopo aver partorito il figlio abbandonavano la propria famiglia, anche per due anni, per trasferirsi in città presso le famiglie nobili/borghesi o gli istituti che raccoglievano neonati abbandonati, fino a quando il bambino affidatogli non aveva più bisogno di essere allattato). La storia di genere è stata tematizzata solo a partire dagli anni ’80 del ‘900; un articolo famoso della storica sociale Joan Scott ha teorizzato l’utilizzo della categoria di genere nell’analisi storiografica. Centralità della famiglia nelle relazioni Le persone che emigrano, quasi sempre, si appoggia ai legami famigliari per esempio i punti di appoggi rappresentati dai famigliari emigrati in precedenza che forniscono informazioni per realizzare la migrazione, oltre a fornire aiuto concreto a trovare alloggio e lavoro nel luogo d’arrivo. Inoltre la famiglia può essere il motivo stesso della migrazione, perché quando si vanno a guardare le dinamiche attraverso cui si elabora la decisione di patire, la migrazione rientra nella strategia famigliare. Storicamente si può pensare alle figlie nubili che venivano inviate a lavorare in città per sostenere economicamente la famiglia o per mettere da una cultura urbana vista come più moderna (presupposte delle differenze insanabili tra queste due culture). Gli storici hanno spesso focalizzato l’attenzione sui pregiudizi incontrati dagli immigrati, sul senso d’identità degli immigrati e dei locali, sulle forme di vita e sulle lotte collettive degli immigrati, mentre è stata data poca considerazione ai fenomeni individuali degli immigrati perché le migrazioni di massa o internazionali sono più visibili agli occhi degli studiosi. Da queste analisi vengono sempre presupposte delle incomprensioni profonde tra culture urbane e rurali o culture nazionali, religiose ecc.. Eve usa un esempio per dimostrare come focalizzarsi sulle diversità culturali sia poco utile, ovvero una sua ricerca che riguarda degli studenti che si sono trasferiti per motivi di studio o di lavoro si sono trasferiti da una città all’altra. Un primo punto importante che introduce Eve è quello dei fattori strutturali che si ripetono indipendentemente dalla distanza della migrazione, dal varcare delle frontiere di uno Stato o meno, ma soprattutto introduce l’importanza dei legami sociali. Eve inizia la sua dimostrazione osservazione dei comportamenti sociali quando ci si trasferisce: i rapporti sociali sono quasi sempre localizzati, legati a dei luoghi specifici e il fatto che le relazioni sociali siano localizzate ha delle implicazioni importanti per tutti gli immigrati, infatti cambiare città costringe tutti a cambiare la propria rete sociale. La tesi di Eve è che la sociologia dell’immigrazione è una particolare sociologia sviluppata per la descrizione degli altri, studiando non solo gruppi di persone considerate altre, ma è specifica nella metodologia che usa e nelle tecniche di rilevazione dei dati poiché differisce da quelle utilizzata per studiare la popolazione normale della società moderna. Se oggi questo ramo della sociologia ha perso di rilevanza all’interno della disciplina sociologica generale, in passato non è sempre stato così, la Scuola di Chicago ne è un esempio: polo di studiosi che ruotava attorno all’università di Chicago che attraverso le loro indagini sull’immigrazione e sui fenomeni urbani ha dominato la sociologia americana soprattutto negli anni ’20 del ’900. Al centro del loro interesse erano i fenomeni urbani in tutta la loro complessità, infatti la città aveva subito un’espansione significativa proprio grazie all’immigrazione di massa proveniente dalle campagne o dall’estero (Europa e Asia in particolar modo). Tra i primi fondatori di questa scuola troviamo Robert Park (1864-1944) e Eve prende in considerazione un concetto su cui Park ha costruito le sue teorie, ovvero quello de “l’uomo marginale”, una persona tra due culture, che riprende l’immagine dell’immigrato proveniente dalle campagne o dall’estero a cavallo tra fine XIX° e inizio XX° secolo. Secondo Park la sua situazione è marginale rispetto a quando viveva nel contesto pre migrazione in cui era totalmente accettato e integrato (comunità di origine stabile e chiusa con determinato insieme di valori). Osservando una grande città come Chicago, Park attribuiva grande importanza al fatto che in città si potesse appartenere a una pluralità di cerchie sociali contemporaneamente e offrivano modelli contrastanti di comportamento, che nella comunità d’origine non esisteva. Per Eve, paradossalmente, l’uomo marginale è proprio simbolo della modernità metropolitana perché è mobile e può appartenere a diverse cerchie sociali, rendendolo quindi una figura non più marginale, ma bensì centrale. A partire dagli anni ’40 il fulcro dell’osservazione sociologica si sposta su altri temi e le migrazioni diventano un tema marginale nella disciplina sociologica. Oggi si ricorda Park soprattutto per il suo “race relations cycle”, ciclo di fasi nei rapporti fra una popolazione immigrata ed una società di accoglienza costituita da: contatto, competizione, conflitto, accomodazione, assimilazione. Eve fa notare come Park considerasse questi concetti come processi fondamentali di tutta l’interazione sociale, quindi non solo per la sfera della migrazione. Come già detto, a partire dagli anni ’40 la Scuola di Chicago perde d’importanza a favore di altri poli che avevano introdotto delle innovazioni metodologiche per studiare la società tutta e consistono nell’introduzione delle tecniche di rilevazione dei dati di tipo quantitativo basate sullo strumento del questionario a risposte chiuse che permette di raccogliere una grande mole d’informazioni. I metodi che utilizzavano gli etnografi di Chicago erano quelli in origine adottati per studiare le piccole comunità al di fuori del mondo occidentale, considerate arretrate e poi estese all’osservazione e studio delle bande giovanili, degli hobo, delle comunità di immigrati ed erano l’osservazione partecipante, raccolta di interviste in profondità (raccoglievano informazioni riguardanti la vita dell’individuo e del contesto in cui era immerso). I questionari, invece, tendono a raccogliere dati sui singoli individui e ad isolarli dal proprio contesto sociale ed è un punto importante perché, secondo Eve, si sono iniziate a separare le strade metodologiche per studiare la popolazione locale/non immigrata e gli immigrati con cui si utilizzavano ancora tecniche qualitative/etnografiche. Nel frattempo si spostano gli interessi teorici dei sociologi abbandonando gli studi urbani, in favore della teoria della modernizzazione. Della Scuola di Chicago rimane la dicotomia tra moderno/tradizionale e lo studio etnografico viene rilegato allo studio di gruppi particolari di persone (persone nere nei ghetti, musicisti jazz, gruppo di tossicodipendenti di una città ecc…). Michael Eve sottolinea come vengano a cadere le implicazioni più vaste che stavano alla base della sociologia di Chicago. Restano molto presenti i ragionamenti dell’accentuazione sugli aspetti culturali e le difficoltà di adattamento nel passaggio da comunità e società. Nello studio degli immigrati ormai da tempo si utilizzano concetti che rimandano a modelli di comportamento e i più comuni sono: modello delle catene migratorie, delle nicchie occupazionali, della successione di un’attività da un immigrato all’altro, delle specializzazioni occupazionali e delle concentrazioni in ambiti territoriali specifici. Le catene migratorie: meccanismo attraverso cui chi emigra solitamente fa affidamento sull’aiuto di qualcuno che ha già emigrato prima nel luogo di destinazione, fornendo informazioni preziose. Le catene occupazionali sono collegate alle catene migratorie perché un immigrato che si è inserito in un contesto geografico e di lavoro, può decidere di chiamare un suo conoscente a lavorare nello stesso luogo di lavoro. Altro esempio è quello del quartiere di abitazione, dove si formano concentrazioni di immigrati che spiccano tra la popolazione per via dei differenti usi e modi di vestire. Quello che Michael Eve però vuol far notare, è che tutti questi modelli di comportamenti potrebbero essere applicati alla popolazione in generale, non solo agli immigrati. Di conseguenza per la popolazione maggioritaria è quasi sempre difficile individuare i comportamenti della rete di relazioni perché vengono pescate dalle indagini in modo più sparso, mentre invece il metodo tipico per studiare gli immigrati è quello della cosiddetta “palla di neve” che prevede l’accostamento a un immigrato il quale a sua volta introdurrà lo studioso alla sua cerchia sociale portandolo a studiare le sue relazioni, cose che non si fa con la popolazione non immigrata. UN’ALTRA SOCIOLOGIA La proposta di Michael Eve è quella di abbandonare la distinzione tra metodologia e tecniche di rilevazione dei dati utilizzate per lo studio dei migranti e quelle utilizzate per lo studio della società in generale, favorendo anzi, l’estensione della metodologia per lo studio dei migranti a quella della società tutta. Se questa proposta Eve la introduce per la sociologia, è altresì importante per gli studi storici delle migrazioni, infatti molti storici hanno applicato questi suggerimenti alle migrazioni del passato. Un primo passo verso questa direzione è riconoscere come alcuni modelli che vengono considerati propri degli immigrati, in realtà potrebbero venire rilevati anche all’interno della popolazione non immigrata. Eve per dimostrare questa tesi, porta come esempio una sua ricerca condotta in Francia alla fine degli anni ’90, su una popolazione di giovani francesi che si trasferiscono dalla casa dei genitori nei rispettivi luoghi di origine verso due grandi città: Parigi e Rennes. Fra questi studenti, ben inseriti all’interno della società francese e non stranieri, era chiaro che pochissimi di loro si erano trasferiti in modo totalmente individuale: infatti molti avevano degli zii residenti in città, il 17% aveva già un fratello presente sul posto e questi avevano contatti con i propri parenti molto frequenti. Tramite le interviste compiute Eve aveva inoltre scoperto come molti loro amici avessero avuto esperienza in quelle città e avessero consigliato agli amici di trasferirsi, divenendo un appoggio concreto per coloro che avevano deciso di intraprendere questa scelta; tale appoggiarsi su questi punti di riferimento relazionali è servito anche per costruire nuove amicizie. Anche se tutti si erano appoggiati a canali personali, gli esiti del loro inserimento potevano essere differenti: una parte di loro continuava ad avere un legame fortissimo con il luogo d’origine ed era contrassegnato da una forte nostalgia per la propria casa, che è una caratteristica tipica dell’immigrato e spesso tornavano a casa ogni fine settimana e in città frequentavano solo persone aventi le stesse radici. I comportamenti anche quando sono apparentemente legati a logiche di comunità, devono essere interpretati per ragioni che rimandano alle relazioni sociali Giovani trasferiti a Rennes e Parigi Progetto migratorio e riferimenti affettivi Eve ha notato come i giovani che ritornavano nelle proprie città natali nei weekend avessero come punto di riferimento non la città in cui studiavano/lavoravano ma quella d’origine, questo perché il proprio futuro era visto nell’ottica del ritorno a “casa”, motivo per cui l’investimento affettivo era rivolto a persone non della città di studio/lavoro (es. fidanzato/a erano della stessa città). Nel descrivere, durante l’intervista, il loro inserimento nelle nuove città, traspariva un enorme senso di disagio, di alienazione per la “freddezza” con cui quelle città li avevano accolti (nostalgia del luogo d’origine). Nello studio delle migrazioni del passato gli storici hanno rilevato gli stessi sentimenti di disagio e nostalgia per il luogo d’origine, tanto che il progetto migratorio della maggior parte degli immigrati (ad es. italiani trasferitisi negli USA) prevedeva come scopo finale il ritorno ai legami affettivi di origine. Non tutti però si descrivevano come degli esiliati, ma sottolineavano come fossero in grado di spostarsi ed entrare in contratto con due poli diversi di riferimento. Il risultato dell’osservazione a livello macro è che soprattutto nella città di Rennes, si potevano osservare tanti piccoli gruppi di persone che vivevano come piccole comunità di immigrati o piccoli villaggi; è il cosiddetto “villaggio urbano”, concetto introdotto dagli antropologi britannici che serve per descrivere queste comunità di persone che vivono isolate dal resto della città e che frequentano prevalentemente persone dello stesso luogo d’origine. Importante notare come la vita di tutta la comunità d’origine fosse condizionata dal modello migratorio degli emigrati perché gli “emigrati settimanali” una volta giunti a casa, uscivano con gli amici i quali rinunciavano ad uscire durante i giorni feriali per stare con gli amici nel weekend. Eve nota anche come il senso di appartenenza al luogo di origine, in queste situazioni, aumenti e si rafforzi. VB intervista a Catherine L’INTEGRAZIONE COME PROBLEMA GENERALE (NON SOLO DEGLI IMMIGRATI) Eve nella sua ricerca, come già detto, osserva anche un modello di migrazione diverso da quanto precedentemente riportato, infatti si sono presentati diversi casi in cui i giovani non sentissero un attaccamento così forte alle proprie origini, dando vita ad una rete di relazioni che non avevano come punto di riferimento solo i compaesani; per questo motivo Eve propone di osservare in che modo queste persone costruivano una propria rete sociale. La produzione serica a Paterson inizia ad espandersi fin dagli anni ’80 dell’800 per poi continuare nella sua crescita una volta che ci si era ormai resi conto della crisi del telaio a mano non era un fatto temporaneo. Inoltre è importante tenere conto che nell’arco alpino le migrazioni non erano una novità perché per secoli vi sono stati diversi spostamenti dalle valli alle città o valicando i confini. Storia di Paterson in breve: la sua storia inizia a partire dagli ’60-’70 dell’800 in un centro urbano sede antica di industrie pesanti, per iniziativa di impresari locali supportati da capitali inglesi, tedeschi, svizzeri e francesi che avevano attinto manodopera dai bacini di produzione della sete in Europa, nei corrispettivi paesi dei finanziatori. Questo settore stava vivendo una fase di transizione che richiedeva grandi trasformazioni nella composizione della manodopera, infatti gli impresari richiedevano sempre più manodopera a basso costo e gli operai italiani, apprezzati per la loro esperienza e tecnica, facevano al caso loro. L’arruolamento degli operai tessitori poteva avvenire in diversi modi: o venivano arruolati direttamente nelle località d’origine attraverso degli intermediari, ma più si utilizzavano le relazioni personali degli operai che già lavoravano presso la città americana (modalità di reclutamento diffusa in tutto il settore tessile- serico). Grazie a questo tipo di arruolamento si favorì una costante e crescente catena migratoria dalle valli piemontesi fino a Paterson. Chi entrava in fabbrica a Paterson apriva la strada a chi voleva cogliere l’opportunità di trasferirsi in città e lavorare ai telai meccanici con prospettiva di guadagni allettante (si apriva la strada in primis a parenti e ad amici); il flusso di emigranti cresceva su se stesso lungo i fili dei legami esistenti tra le persone e le famiglie, quindi si può dire che non partivano gli individui ma vere e proprie rete sociali. Tra questi operai che partono, Ramella segue più da vicino Fiorentino, un tessitore a mano di lana che aveva sempre portato avanti questo mestiere fino alla crisi della tessitura a mano e che un giorno partì insieme a parenti e ad amici verso la città di Paterson facendo avanti e indietro tra il New Jersey e Biella per più volte negli anni ’80 dell’800. Infatti, Fiorentino, non trascorse mai periodi di tempo particolarmente lunghi nella città americana, perché faceva spesso ritorno a casa con il fino ultimo di poter ritornare definitivamente in Italia senza più spostarsi. L’emigrazione per lui non era un’esperienza sconosciuta dato che il padre era stato battezzato al paese ma era nato a Lione all’inizio del secolo, valendogli il soprannome “il francese”, anche grazie alla sua professione di falegname ebanista che aveva ereditato dai genitori e lo portavano a spostarsi spesso oltralpe; la Francia era meta usuale per i falegnami piemontesi che pur spostandosi continuamente in quel paese avevano le proprie radici salde nelle valli biellesi e dove parte della famiglia rimaneva (moglie e figli). Questo avviene anche nell’emigrazione oltreoceano, il modello migratorio rimane tale a quello delle migrazioni più brevi verso Lione, zona anch’essa di tessitori. Dopo diversi spostamenti Fiorentino decide di trasferirsi a Paterson in maniera più stabile nel 1894, quando non era più giovane (nato nel 1851), la figlia primogenita in quell’anno compie 14 anni, età in cui le sue coetanee della stessa classe sociale terminavano il loro percorso scolastico per iniziare a lavorare, tanto che l’anno seguente si trasferirà insieme al padre a Paterson; qui la ragazza vivrà delle esperienze molto importanti che segneranno il suo percorso di vita. La cosa importante è notare come la decisione presa da Fiorentino non fosse al di fuori dall’ordine del giorno per qualcuno della stessa condizione sociale, infatti era comune portare con sé i figli più grandi ormai abili per il lavoro con sé, lasciando moglie e figli piccoli a casa. Questa strategia migratoria si spiega guardando la struttura delle opportunità della città americana dove l’industria della sete offriva un gran numero di posti di lavoro a ragazzi e ragazze giovanissimi; in questa fase non sembra avere un senso anche la migrazione delle mogli perché il progetto migratorio puntava sull’accumulazione di risparmi che poi devono essere inviati nei paesi d’origine. LO SCIOPERO ITALIANO DEL 1913 E IL POSTO DEGLI ITALIANI A PATERSON Nel 1913 viene organizzato un glorioso sciopero di cinque mesi, nella fabbrica serica di Paterson, che passò alla storia come “lo sciopero italiano”, perché furono proprio gli operai di origine italiana a svolgere il compito più importante e inoltre il centro vitale della protesta era il balcone di un’abitazione di una coppia di italiani da cui parlavano i leader dello sciopero ai manifestanti. In quel periodo erano trascorsi all’incirca 25 anni dall’inizio dei flussi migratori tra gli operai tessitori della provincia di Biella e la città di Paterson, che sono stati rinominati “new immigration” (non solo operai italiani), a confronto con la “old immigration”. Questa distinzione è importante perché il saggio di Ramella si basa tutto sulla diversa prospettiva dei vecchi immigrati (con anzianità migratoria maggiore) e dei nuovi costituiti da quelli italiani e in particolar modo biellesi. All’epoca del grande sciopero del ’13 ciò che caratterizza il gruppo migratorio degli italiani è il fatto che tra le proprie fila un numero elevato di donne coniugate lavorava presso le aziende tessili, ed è proprio il passaggio dal progetto migratorio che prevedeva il solo trasferimento del capofamiglia e dei primogeniti al progetto che invece avrebbe finito per includere anche le mogli (le quali lavoravano) e in generale, l’intera famiglia, che è al centro delle indagini di Ramella. Le donne italiane, una volta sposate, erano abituate, nel settore tessile, a non essere confinate ad attività legate principalmente alla cura domestica come avveniva in altri ambienti, ma addirittura al lavoro svolgevano le stesse mansioni degli uomini e utilizzavano le stesse macchina; da qui deriva anche un salario uguale a quello percepito dal collega uomo, dando a queste donne una maggiore indipendenza e un aumentato potere relativo all’interno della coppia. Franco Ramella introduce subito il problema della disponibilità di fonti per riuscire ad interpretare l’alta presenza di donne italiane sposate nel settore tessile, asserendo l’impossibilità di indagare l’ipotetico aumento di potere all’interno della dinamica di coppia, ma con alcune fonti a sia disposizione è possibile indagare l’evoluzione della vicenda migratoria di questo gruppo di operai, quindi come si è evoluto il progetto migratorio. La sua tesi è che nell’arco di questi decenni sono cambiate le strategie economiche e sociali degli immigrati italiani. Cosa è cambiato nella strategia degli immigrati del Nord Italia a Paterson? Nella fase “pioneristica”: - Emigrano i mariti e i figli adolescenti, le mogli restano al paese - Si lavora per accumulare risparmi da inviare a casa (rimesse) - Si risparmia il più possibile sulla vita a Paterson - Si cerca di spendere il meno possibile per l’alloggio Tramite la storia di Fiorentino e la figlia Emma si può osservare lo stesso pattern che accomuna la maggior parte delle strategie migratorie degli emigrati italiani del biellese a Paterson: parsimonia estrema nella ricerca dell’alloggio e in generale della vita a Paterson. La scelta di Fiorentino è quella di puntare su abitazioni a bassissimo costo, molto modeste e dividendo l’affitto con compagni di lavoro. Quando la figlia Emma si trasferisce temporaneamente in Italia, il padre resiste un paio di mesi prima di scrivere una lettera, in cui le chiede quando sarebbe ritornata in città per capire come organizzarsi, in quanto era rimasto nell’appartamento che condivideva con lei da solo e un collega gli aveva offerto di condividere con lui un nuovo spazio, meno costoso e in base alla sua scelta avrebbe deciso che fare. STRATEGIE DI CONSUMO E RAPPORTI FAMIGLIARI Lettera di Fiorentino alla figlia Emma (aprile 1901): [ho] «bisogno di sapere subito come vuoi fare» [per decidere cosa fare su] «l’alloggio e la mobiglia». «[…] affittando non è come lì a casa che essere uno o due o più o meno vi è sempre posto lo stesso per alloggiarsi senza disturbi e senza discapiti nel pagare il mese». [ora potrei] «andare a stare […] insieme at un compagno o due e siccome io non potrei averne abbastanza di una stanza per far stare la mobiglia che abbiamo» [si potrebbe venderla] «per pagare meno di fitto». Il modo di pensare e di agire di Fiorentino era molto diffuso tra gli emigranti temporanei nella grande emigrazione italiana, infatti al lievitare del salario non corrispondeva un miglior tenore di vita, ma ad aumentare erano le rimesse inviate a casa. Progetto migratorio di Fiorentino e la moglie Maria Il progetto migratorio della famiglia di Fiorentino, che ha condizionato le strategie economiche e sociali a Paterson, era un progetto voluto soprattutto dalla moglie Maria (come testimonia il carteggio tra i due coniugi) che prevedeva l’ascesa familiare attraverso l’istruzione dei due figli maschi minori (scopo delle rimesse). Il più grande dei due fratelli era stato iscritto a inizio ‘900 ad un collegio di gesuiti nella città di Torino e l’anno successivo avrebbero voluto fare lo stesso con il fratello minore. Le strategie degli individui si comprendono meglio attraverso il prisma dei rapporti familiari, piuttosto che quelli individuali. LAVORO FEMMINILE E PROGETTO FAMILIARE NEL CICLO DI SVILUPPO DELLE COMUNITÀ IMMIGRATE La partecipazione di donne sposate al lavoro di fabbrica È legata alle diverse strategie economiche e sociali delle famiglie in fasi diverse del ciclo migratorio, in queste fasi mutano la composizione demografica della comunità (muta il profilo degli immigrati ed età) e muta anche il tipo di reti sociali che gli immigrati italiani formano e trasformano attorno a sé. La partecipazione delle donne coniugate al mondo del lavoro verrà messa in rapporto con il ruolo che queste donne hanno in famiglia e nel progetto famigliare legato alla migrazione. Ramella nella sua trattazione, applica un modello di analisi che si deve ad una studiosa inglese che condusse una ricerca sull’immigrazione pakistana a Manchester nella seconda metà del ‘900, Pnina Werbner. Pnina Werbner Nella sua ricerca elabora un modello che si fonda sull’idea che ogni comunità immigrata percorra un ciclo di sviluppo che nei suoi tratti fondamentali si ripete sempre allo stesso modo, distinto in fasi che si susseguono e si svolgono parallelamente al ciclo di vita della famiglia e dei singoli individui: 1. Fase pionieristica: prevalgono immigrati maschi, giovani e soli 2. Fase del settlement: gli immigrati si stabilizzano e le famiglie si ricompongono 3. Fase finale: ricompaiono le tre generazioni ovvero i nonni, i figli e le persone in età da lavoro Migrazione e modelli di consumo I consumi sono legati all’ambito sociale di riferimento, a seconda dal tipo di rete sociale possono cambiare i modelli di consumo Collegamento con due articoli o Michael Eve, Modelli di consumo, modelli di famiglia. La costruzione della famiglia «casa-centrica» nei decenni del dopoguerra, in “Studi culturali”, n.3, dicembre 2009 Analizza i modelli di spesa delle famiglie inglesi di due diverse comunità: una caratterizzata da una popolazione stabile, una comunità di minatori e l’altra una comunità di famiglie di recente immigrazione, inoltre si ha la presenza di un’industria metalmeccanica. o Laura Oso Casas, La réussite paradoxale des bonnes espagnoles de Paris, Revue européenne des migrations internationals, vol. 21 – n°1 2005 Riguarda le domestiche spagnole che vanno a lavorare nella Parigi degli anni ’60 e rimangono in Francia nei decenni successivi, interessante notare come l’ambito sociale di riferimento della Coloro che si trasferiscono ad Haledon necessitano di aprire un mutuo per pagarsi la casa ed è qui che entra in gioco il lavoro femminile, serviva il salario di un altro membro della famiglia. Il saggio di Ramella è da considerare un lavoro microstorico, volto ad osservare in profondità una realtà circoscritta andando ad individuare alcuni meccanismi e spiegazioni per comprendere alcune tendenze che possono essere viste a livello macroscopico. MADRI E FIGLIE NELL’EMIGRAZIONE AMERICANA di Andreina de Clementi Questo saggio fornisce una panoramica inizialmente sulle principali dinamiche dell’emigrazione italiana in tutto il continente americano, passando poi al contesto statunitense (principale meta dell’emigrazione italiana), per arrivare infine a trattare le diverse occupazioni a cui si occupavano le donne, non solo riguardo il lavoro operaio. Ad ogni categoria di lavoro corrispondeva un’età diversa della vita delle donne e di una diversa generazione, infatti verranno prese in considerazione tre diverse generazioni. Modelli migratori e ruoli femminili - Nella migrazione temporanea: emigrano solo i mariti con i figli adolescenti, mentre le mogli rimangono nel luogo d’origine con i figli minori e dove amministrano le rimesse che arrivavano da oltreoceano (modello pendolare); - Nella migrazione definitiva: iniziano a ricongiungersi intere famiglie per il cambio di progetto migratorio e qui le donne continuano ad avere un ruolo (economico) importante nell’amministrazione della casa e della famiglia (risparmio, autoproduzione, lavoro informale come prendere a pensione dei connazionali che arrivavano negli USA); continuano a rimanere nella maggior parte dei casi al di fuori del mercato del lavoro, puntando su quello informale (mercato del lavoro maschile è stagionale/legato a dei cicli di produzione, senza il ruolo economico svolte dalle donne le famiglie non riuscirebbero a sopravvivere). I LAVORI DELLE DONNE SPOSATE IMMIGRATE IN USA Nel sistema del subaffitto, in inglese boarding house, coinvolgeva un altissimo numero di famiglie e coloro che se ne occupavano erano le donne sposate, questo perché era un sistema alimentato dallo squilibrio tra i sessi in questo flusso migratorio (in questa prima fase della migrazione erano soprattutto gli uomini a spostarsi e a cercare soggiorno in case di altri immigrati, a costo di sopportare condizioni estremamente disagevoli. I tipici appartamenti della città di New York che ospitavano famiglie italiane, erano composte da poche stanze e la maggior parte di esse erano prive di finestre per arieggiare l’ambiente, erano areate da un sistema di tubature che servivano principalmente a trasmettere odori e infezioni.). Spesso si ospitavano in un piccolo appartamento più immigrati e a testimonianza di ciò abbiamo il diario di un’immigrata italiana negli USA, Rosa Cavalleri, che descrive la vicenda di una giovane donna richiamata dal marito minatore, emigrato prima di lei, nel Massachusetts per offrire questo tipo di ospitalità ad altri emigrati; nel progetto del marito Rosa avrebbe dovuto prendersi cura di dodici compagni di lavoro. La seconda attività riservata alle donne era quello del lavoro a domicilio soprattutto nell’ambito delle confezioni e dell’abbigliamento, tanto che queste attività coordinate tra loro, nella città di New York, facevano parte del più grande sistema di abbigliamento nazionale; inoltre le donne italiane che erano abituate a vivere in ampi spazi aperti in campagna e con la luce del sole che filtrava dalle finestre, non erano abituate a trascorrere molte ore chiuse in casa con la luce elettrica. Queste attività (boarding house e lavoro a domicilio) sono ben testimoniate per il fatto che le condizioni di vita degli immigrati italiani sono stati oggetto dell’attenzione dei lavoratori dei servizi sociali; le assistenti sociali si occupavano delle donne immigrate aiutandole nelle prime fasi di insediamento nel nuovo ambiente, soprattutto nelle realtà urbane. Senza la documentazione di questi lavoratori difficilmente si potrebbe ricostruire la vita famigliare degli immigrati. Le novità per le donne sposate Le condizioni di vita misere non erano motivo di grande turbamento per le donne italiane, abituate anche in patria a vivere in condizioni assai precari, ciò che per le donne immigrate si rivelerà una grande sfida da superare saranno altri aspetti: - Necessità di imparare a fare acquisti giornalieri: la nuova realtà urbana non permetteva la produzione in proprio di ciò che serviva per l’auto sostentamento, motivo per cui le donne si sono viste obbligate a fare acquisti giornalieri almeno per quanto riguarda l’ambito alimentare (i vestiti erano cuciti da loro) scarsa abitudine a maneggiare il denaro - Barriera linguistica - Mancanza di rete parentale e isolamento sociale: anche se molti nuclei famigliari si inserivano in ambienti abitati da italiani, questo non bastava a colmare il vuoto dell’abbandono della rete parentali strette lasciate a casa. L’isolamento sociale ha anche delle ricadute sulla loro partecipazione al mondo del lavoro data dalla preferenza nel rimanere a casa piuttosto che entrare nel mercato del lavoro, questo perché non sapevano a chi affidare i figli durante le ore di lavoro. Italiane escluse dal servizio domestico Secondo Andreina De Clementi le donne italiane erano escluse dal servizio domestico perché questa nicchia occupazionale era stata occupata dalle donne provenienti dalle ondate migratorie precedenti come le donne scandinave, le irlandesi. Questi flussi migratori avevano un grande numero di donne che emigravano da sole a differenza delle donne italiane, infatti questo tipo di migrazione favorisce la scelta delle donne di andare a vivere nelle case dei propri padroni, per risolvere la questione di dove lasciare i figli durante le ore di lavoro. UN PASSAGGIO DI TESTIMONE TRA GENERAZIONI DI DONNE IMMIGRATE Dopo la prima guerra mondiale Dopo la prima guerra mondiale mutano le politiche statunitensi nei confronti degli immigrati, infatti rispetto al periodo precedente, lo scenario internazionale muta radicalmente: le società dei vari paesi d’arrivo dei flussi migratori italiani si stavano poco a poco chiudendo nei confronti degli immigrati, infatti durante una seduta del Congresso degli Stati Uniti, si introduce, nel 1917, il literacy test ovvero una legge che proibiva l’ingresso negli USA agli analfabeti. Tra il 1921 e il 1924 vengono emanate delle misure che limitavano in maniera drastica il numero di nuovi arrivati delle nazionalità poco gradite come ad esempio i cinesi o gli italiani. Finisce l’immigrazione temporanea La conseguenza a queste misure è quella di interrompere i pendolarismi da una parte all’altra dell’Oceano, mettendo gli immigrati italiani davanti a una decisione cruciale: rimanere negli USA o ritornare in patria. Chi decide di stabilirsi fa in modo di essere raggiunto dal resto della famiglia che risiedeva ancora in Italia, provocando così l’aumento di donne italiane immigrate, lo squilibrio tra i sessi si riduce; i figli degli immigrati italiani contribuiscono a riequilibrare la disparità dei sessi. Andreina De Clementi porta la testimonianza di una ragazzina arrivata negli USA a seguito del padre e della madre, ancora in età scolare, dopo aver finito la terza elementare nel suo paese: Antonia una volta arrivata nel nuovo paese, a scuola viene inserita in una classe inferiore rispetto a quanto aveva conseguito in Italia e questo elemento, che si ritrova in altri sistemi scolastici tra cui il nostro durante gli anni del boom economico, è realizzato in teoria per agevolare l’inserimento dei bambini stranieri, ma dal punto di vista del vissuto dei bambini rappresenta un grande ostacolo psicologico. Da questa testimonianza si può evincere come questa scelta abbia provocato alla bambina un grande senso di inadeguatezza e un desiderio di abbandonare la scuola. Con la Grande Depressione del 1929 Tutti gli immigrati post prima guerra mondiale hanno vissuto collettivamente l’esperienza della Grande Depressione: la testimone intervistata da Andreina De Clementi racconta dell’arrivo negli USA nel 1927 all’età di 11 anni e di come due anni dopo la sua famiglia si ritrova investita dalla grande crisi economica del ’29, questo perché i settori più colpiti del settore secondario sono quelli dell’industria pesante che sono quelli più mascolinizzati (uomini adulti senza lavoro, mentre le donne impiegate in altre settori continuano a lavorare diventando i veri pilastri delle famiglie italiane). Gli industriali approfittando delle paghe più basse che devono elargire alle donne, preferiscono queste ai lavoratori maschili, alimentando non solo l’occupazione femminile ma anche un allarme sociale nei confronti delle donne che mantenevano interi nuclei famigliari: la propaganda trasmetteva il messaggio che se le donne avessero continuato ad essere le uniche in grado di mantenere le proprie famiglie, quest’ultime sarebbero state destinate allo sfascio. Antonia a 13 anni riesce a farsi assumere in una piccola azienda di confezioni dall’altra parte della città, mentendo sulla propria età perché non era ancora formalmente in età da lavoro (età legale dopo i 16 anni) e vi resterà per 8 anni. Il suo orario di lavoro va dalle 8 del mattino alle 17 e uscita dal lavoro, racconta, che era impegnata a coltivare assieme al padre e al fratello, il pezzo di terra elargito dal governo Roosevelt per tamponare la crisi alle famiglie che ne avevano bisogno. Molte ragazze hanno avuto un ruolo cruciale nel sostentamento delle proprie famiglie, diventando così esperienza comune per la maggior parte degli immigrati italiani: le donne sposate con figli rimasero escluse da questo processo, questo significa che erano le figlie, tramite il lavoro in fabbrica ad essere le principali risorse di queste famiglie. Donne sposate Perdono molte occasioni di guadagno; le entrate provenienti dai lavori solitamente svolti dalle donne sposate diminuiscono perché: - Diminuisce il lavoro a domicilio per l’industria dell’abbigliamento data la sempre più crescente meccanizzazione - Diminuiscono uomini soli che hanno bisogno di ospitalità e servizi (pasti, servizi di lavanderia ecc…) Questo tipo di attività sono importantissime nelle migrazioni, non solo in questo specifico caso, e sono attività semiclandestine, precarie che sfuggono alle rilevazioni statistiche ma hanno alto valore economico; è il caso della migrazione verso il Nord negli anni del boom economico in Italia. Soprattutto in Italia le attività svolte dalle donne sono state a lungo ignorate dalla ricerca scientifica. DALLA SECONDA ALLA TERZA GENERAZIONE DI IMMIGRATE Il passaggio al lavoro impiegatizio Dopo la fine degli anni ’30 un profondo mutamento strutturale dell’economia statunitense, avrà delle ricadute importanti sul mercato del lavoro femminile. Se fino a quel momento le giovani immigrate italiane avevano lavorato fianco a fianco con le loro coetanee statunitensi, dopo la fine deegli anni ’30 questo settore occupazionale viene abbandonato man mano dalle native e lasciato alle ragazze immigrate perché le native hanno per prime, accesso ad un nuovo settore del mercato del lavoro, in continua espansione, ovvero quello dei servizi (settore terziario). Questo passaggio ha un forte significato simbolico: salto a livello sociale, si abbandono il lavoro manuale per quello impiegatizio e le ragazze americane riescono a Le donne nubili sono più libere di organizzare la propria migrazione indipendentemente dagli impegni famigliare, infatti la loro migrazione è di tipo pendolare, tranne nel caso in cui decidono di sposare con qualcuno incontrato proprio in Egitto, spesso capita che i propri partner siano di altre nazionalità. Alessandria d’Egitto: la New York del Mediterraneo Le donne di Ripatransone ad Alessandria d’Egitto entrano in contatto con stili di vita diversi da quelli di provenienza e delle cartoline dell’epoca testimoniano queste differenze nella diversa socialità; le donne italiane, per quanto domestiche, devono atteggiarsi e vestirsi in maniera conforme all’ambiente che le circondava (anche per le donne che lavoravano nei grand hotel). L’ALLARME SOCIALE E LE REAZIONI DELLA COMUNITÀ DI PARTENZA Il fenomeno della partenza delle donne per l’Egitto è cosi intenso a Ripatransone da destare la preoccupazione delle autorità religiose e civili; indagini di polizia vengono promosse per ordine del prefetto e del viceprefetto di Fermo, mentre il vescovo si impegna per arginare il fenomeno attraverso i parroci i quali a lavoro volta, indirizzano delle relazioni in cui si dimostrano preoccupati per la continua partenza di giovani donne verso l’Egitto. Il timore delle autorità religiose: il contatto con una società moderna e il rischio per la «moralità» delle donne Il timore delle autorità religiose è la perdita della fede e il naufragio morale: il fenomeno di cui stiamo parlando è una migrazione che coinvolge tante donne al di fuori delle strategie famigliari, che partono in modo indipendentemente e donne sposate; queste donne entrano in contatto con un mondo non paragonabile con quello di partenza (ambiente internazionale dove si viene in contatto con stili di vita propri di altre classi sociali) e le famiglie presso cui lavorano incentivano l’adattamento a questo nuovo mondo. Al di fuori del lavoro queste donne vivono una vita molto più libera, possono frequentare cinema, uscire con altri giovani, andare nelle sale da ballo, una vita mondana molto diversa da quella disponibile nel paese d’origine. L’esibizione del successo economico e sociale nell’abbigliamento e negli stili di vita Molte ragazze trovano in Egitto il proprio futuro marito, la Gobbi porta come esempio una giovane donna che decide di sposarsi con un artigiano svizzero e che deciderà di rimanere a vivere in Egitto. Nel caso delle donne costrette a tornare nel proprio paese d’origine la situazione era invece molto diversa e più complicata, perché erano tornate con modi di fare e di vestire molto differenti a quelli a cui prima erano abituati stando in paese: abbigliamento e accessori esibiti in pubblico a dimostrazione del successo economico e sociale ottenuto durante il periodo di soggiorno in Egitto, comprano dei beni immobili con le proprie risorse e soprattutto, parlano con le giovani del paese suscitando in loro il desiderio di partire a loro volta. Incoraggiando le giovani a partire, queste donne iniziano ad essere considerate pericolose dalle autorità religiose perché accusate di turbare l’ordine famigliare (pensavano che avrebbero minato le dinamiche di potere all’interno delle famiglie, in cui il marito non sarebbe più stato garante dell’ordine). Il sindaco come garante Le autorità civili sospettano soprattutto che questi guadagni derivino da un’attività di prostituzione, fenomeno all’epoca che prendeva il nome di “tratta delle bianche”. I mariti sembrano spaventati da questa situazione, come testimoniano i reperti trovati negli archivi del comune da Olimpia Gobbi, alcuni mariti e padri non condividono il progetto migratorio delle loro moglie e figlie, ed è qui che entra in gioco il sindaco: svolge un ruolo di conciliatore, di arbitro e garante tra chi emigra e la famiglia rimasta nel comune (il vertice di un triangolo di relazioni). Tra gli atti amministrativi che il sindaco controlla troviamo il nulla osta per la partenza all’estero, la tutela dei minori e altre funzioni cruciali, controllando di fatto il fenomeno migratorio. Sono le donne stesse che chiedono la sua protezione nei confronti degli uomini delle loro famiglie. Accuse e difese delle emigrate L’ombra della tratta delle bianche Il fatto di ricondurre sotto la categoria della prostituzione l’esperienza di migrazione in Egitto, è un modo per delegittimare la loro vicenda migratoria, un’esperienza di indipendenza. Queste accuse di prostituzione vengono quasi sempre smentite dal consolato italiano di Alessandria e certe accuse vengono messe in campo dagli stessi padri e mariti delle donne partite. Le donne si muovono al di fuori delle regole e dal controllo socialmente imposto dalla comunità e un modo per arginare gli esiti trasgressivi di questa migrazione, è quello di delegittimarla con la narrazione e identificandola come collocata nell’ambito del lavoro deviante. MONDO OPERAIO E MITO OPERAIO di Maurizio Gribaudi Si tratta di un lavoro interessante per il suo valore di rottura rispetto alle letture della realtà sociale italiana del periodo in cui è stato scritto. Siamo negli anni ’80 e come Gribaudi specifica nell’introduzione la preparazione universitaria sua era avvenuta negli anni in cui la società italiana di assestava a seguito della contestazione ed i movimenti di massa, Torino era stata al centro di questo cambiamento sia tramite le contestazioni operaie sia grazie a quelle studentesche (Gribaudi è torinese ma la sua carriera da accademico si sviluppa Francia) le quali hanno dato il via al ’68. Nell’arco di una decina di anni in Italia, come nel resto dell’Europa occidentale si era passati da una fase di intensa mobilitazione ideologica ad una fase in cui la vita privata sembrava aver preso sopravvento sulla collettività e le mobilitazioni politiche; questo processo aveva fatto sorgere diversi interrogativi tra gli intellettuali e studiosi dell’epoca: perché la classe operaia aveva smesso di lottare in modo compatto? Le interpretazioni sui motivi e le dinamiche di tali mutamenti sociali erano all’epoca basate su rigide categorie sociologiche che non soddisfacevano Gribaudi: lui si concentra sui fattori culturali, sul paino della mentalità e sugli elementi microsociali, Gribaudi è uno dei migliori esempi di microstorici italiani (dopo questa ricerca venne richiamato da un’università francese, che gli aveva riconosciuto grandi capacità e merito per l’opera pubblicata). L’idea fondamentale che propone Gribaudi è di come in realtà la classe operaia torinese (ma il mondo operaio in generale) fosse tutto tranne che compatto, motivo per cui con fare provocatorio, Gribaudi decide di intitolare il saggio “mito operaio”. Cerca di spiegare la realtà operaia, andando oltre il mito di una classe che aspirava in maniera unanime agli stessi obiettivi. Le origini della classe operaia torinese Per capire le dinamiche all’interno del mondo operaia, non si sofferma nello studio e nell’osservazione degli operai a lui contemporanei, ma va ad indagare le sue origini, come si è originato questo gruppo sociale; Gribaudi individua le radici della classe operaia torinese nella migrazione, una migrazione di corto raggio perché negli anni tra le due guerre (considera soprattutto gli anni ’30) piemontesi provenienti da diverse province della regione si riversano a Torino, dalle campagne, per essere assunti in fabbrica (attratti dalla crescita industriale torinese che aveva bisogno di manodopera nelle sue industrie). Importante ricordare come negli anni ’10-’20 la classe operaia italiana era politicamente attiva e presentava coscienza di classe (biennio rosso ecc…), la situazione si capovolge con l’ascesa del fascismo quando il ritorno alla centralità della vita privata primeggia sulla militanza politica. Uno sguardo microstorico La strategia di Gribaudi è quella di studiare questo processo di ripiegamento portando maggiore attenzione alle componenti interne del mondo operaio, con lo sguardo microstorico osserva e studia le vite delle famiglie degli operai che popolavano i quartieri delle città industriali e le fabbriche; nella sua osservazione i trasferimenti da un quartiere all’altro hanno un significato importante per quanto riguarda le aspirazioni degli operai, che vanno a sommarsi ai progetti migratori di questi ultimi. MONDO OPERAIO E MITO OPERAIO PT 2 Quali sono gli ambiti di riferimento degli operai? Gribaudi si chiede se fossero solo il lavoro in fabbrica e le organizzazioni operaie gli unici ambiti di riferimento su cui si basava l’identità di questo gruppo sociale oppure se ci fossero altri ambiti che potessero dare una spiegazione al ripiegamento a vita privata a partire dagli anni ’80. L’ambito fondamentale risulta essere quello dei rapporti sociali concreti degli individui attorno alla famiglia, localizzati attorno ai quartieri di residenza, motivo per cui Gribaudi inizia la sua ricerca in un quartiere torinese densamente abitato da quel gruppo sociale e famiglia (quartiere di Borgo San Paolo). Il suo studio parte con una nuova tecnica storiografica, la storia orale, che all’epoca era ai suoi inizi: la storia orale serve a far emergere la soggettività degli individui, le loro aspirazioni e soprattutto la configurazione del mondo relazionale degli individui, come gli individui si spostano nello spazio relazionale e nello spazio della città; la storia orale fornisce molti elementi a questo scopo. Prima fonte: interviste ai testimoni Nelle prime pagine dell’introduzione mostra che una fonte di questo tipo vada sempre messa in discussione ed integrata con fonti di altro tipo, infatti le persone intervistate in età anziana avevano descritto il quartiere come un’entità unità e coerente, un quartiere idilliaco dove tutti i residenti lottavano per gli stessi ideali, questo fino alla seconda guerra mondiale. In realtà andando a scavare meglio nelle testimonianze emergono degli elementi che incrinano questa compattezza di gruppo, la realtà sociale è molto più complessa: le famiglie avevano aspirazioni e strategie individuali estremamente diversificate. Le aspirazioni mostravano tendenze e conflitti attivi all’interno del quartiere e della classe operaia in generale, come spesso accade Gribaudi nota un divario tra la rappresentazione della classe operaia e la realtà solo attraverso una lettura attenta della fonte orale; il suo obiettivo diventa quindi di comprendere le differenze e riuscire a spiegarle: la scoperta rivelatrice di Gribaudi è che il mondo operaio non è un modo stabile ed ereditario, si tratta di operai che arrivano da altre realtà sociali ed economiche. Come a Torino, in altre città europee, gli anni della seconda industrializzazione avevano portato una forte immigrazione dall’esterno delle città verso l’interno e anche di un forte turnover di operai (una classe che viene continuata formata da nuovi ingressi e uscite, segnate da persone che tramite mobilità sociale iniziano ad appartenere ad una nuova classe, più elevata rispetto a quella di partenza). A partire da queste considerazioni Gribaudi inizia ad indagare sulle storie famigliari passate, degli individui che aveva intervistato, motivo per cui passa a considerare una nuova fonte che potesse fornirgli ulteriori dettagli ed informazioni, incrociandola con la prima fonte. I risultati sono molto interessanti, aveva capito che i genitori e gli avi delle persone che aveva intervistato non avevano origini nella classe operaia, ma appartenevano alla classe contadina (entrati in città nella prima infanzia dopo aver abbandonato con la famiglia, la campagna piemontese). Nel luogo d’origine dei suoi testimoni, Valdoria (usa un nome fittizio per indicare il comune), nella seconda metà dell’800, di fronte alla crisi che stava investendo tutta la penisola, (i testimoni e le famiglie) riuscivano continuamente a modificare i propri atteggiamenti e strategie al fine di migliorare la propria posizione sociale, un gruppo disposto al mutamento costante pur di superare le crisi economiche e migliorare la propria condizione. Una delle strategie era di emigrare a Torino e questa migrazione aveva le stesse dinamiche delle migrazioni oltreoceano (progetti migratori diversi a seconda dell’individuo), è importante sottolineare come una migrazione di corto raggio si presenti molto simile ad una di lungo di raggio, con le dovute differenze. (Ramella conclude che i titoli di studio non portano a nessun avanzamento di carriera). Ramella mostra dei dati dove si vede chiaramente che a parità di titoli di studio (terza media) i piemontesi riescano comunque ad ottenere posizioni lavorative migliori, al contrario dei meridionali. Osservazione ravvicinata dei percorsi migratori e di inserimento Per indagare questo tema e capire cosa faccia la differenza nelle traiettorie degli uni e degli altri Ramella osserva da vicino le traiettorie passo a passo già dal momento della partenza (scelta della meta, come avviene, ovvero sulla base della propria rete di conoscenze). Man mano quindi vengono presentate e messe a confronto diverse traiettorie dove si può vedere che le differenti reti di relazioni possono portare gli individui a fare diverse scelte in base alla possibilità di avere un corso di qualificazione oppure farsi una qualificazione all’interno della fabbrica, lavorando, per potere scalare i gradini possibili di questa carriera operaia (alcuni addirittura riescono ad ottenere un lavoro impiegatizio). L’inserimento in città è segnato da un punto cruciale dove tutti gli immigrati si recano per cercare un tetto sotto cui ripararsi, ovvero il mercato di Porta Palazzo dove i migranti meridionali sanno di trovare molti compaesani a cui chiedere alloggio o informazioni per un possibile lavoro. In questo mercato si incontrano compaesani che offrono posti di lavoro nel settore edile, per diventare manovali non si ha bisogno di grandi titoli di studio o esperienza nel campo. Si tratta anche delle occupazioni meno interessanti nel mercato del lavoro torinese, perché chi punta a Torino in realtà puntava al lavoro stabile possibilmente in grandi fabbriche; in quell’epoca la fabbrica rappresentava il tipo di occupazione più garantita dal punto di vista contrattuale e più tutelata dal punto di vista sindacale, permetteva di fare progetti di vita e famigliari sul lungo periodo. La grande fabbrica fordista rappresenta quindi sicurezza ma allo stesso tempo si poteva incorrere nel rischio di rimanere tra i gradini più bassi della piramide occupazionale, nella maggior parte della generazione dei giovani che arrivano negli ’60 a Torino questi rimangono fino alla pensione operai semplici (non sempre arrivano alla pensione perché con la crisi degli anni ’70 spesso si ricorre alla cassa integrazione o al licenziamento). DONNE IMMIGRATE NEL TRIANGOLO INDUSTRIALE A lungo non ci si era chiesti cosa avessero fatto quelle donne, in molti studi dell’epoca si dava per scontato che fossero rimaste tra le mura domestiche a svolgere il ruolo di casalinga (gli anni ’60 sono passati alla storia come l’era delle casalinghe, idea alimentata dalla rappresentazione televisiva dell’epoca a causa del boom degli elettrodomestici e lo stretto legame con il lavoro casalingo svolto dalle madri/mogli). Il mercato del lavoro torinese, per quanto fosse dominato dall’industria automobilistica e metalmeccanica che reclutavano soprattutto manodopera maschile, offriva occasioni di lavoro anche alle donne in altri settori industriali (esistevano anche altre opzioni di lavoro fuori dall’industria regolare e non) con qualifiche molto basse (sia lavoro maschile sia lavoro femminile richiedevano bassa qualificazione). Un dato interessante è legato alla qualificazione dei lavoratori: se nella generazione dei nati tra gli anni ’10 e ’20 le donne avevano dei livelli di istruzione ancora più bassi della loro controparte maschile, a partire dalla generazione successiva possiamo osservare un’inversione di tendenza che vede le figlie degli immigrati meridionali stabilitesi al nord, ottenere dei titoli di studio più elevati rispetto ai figli. L’aspirazione a un lavoro sicuro, moderno e pulito Tra le poche ricerche che sono state dedicate dai sociologi alla componente femminile dell’epoca, troviamo uno studio di Fortunata Piselli su un caso specifico di donne che emigrano dal comune di Palmi, in Calabria, verso un’area specifica della periferia di Milano, il gallaratese. Questa ricerca rappresenta ancora un documento importante perché basata su interviste alle donne di Palmi, dove si cerca di indagare le motivazioni di una spinta all’emigrazione verso il triangolo industriale. Palmi all’epoca era un borgo che ha un’economia agricola e le donne coinvolte nell’emigrazione sono occupate in agricoltura, in lavori saltuari e nella raccolta delle olive che è un lavoro faticoso e svolto in condizioni disagevoli di cui le donne si lamentano (questo a Palmi) con la ricercatrice; quindi tra le motivazioni per lasciare il paese per recarsi a Milano, incontriamo la speranza di trovare un lavoro o uno sbocco occupazionale diverso che vedono come moderno (il lavoro nell’industria) dove il rapporto con il datore di lavoro è differente rispetto a quello instaurato nel paesello d’origine, loro lo vedono anche come lavoro più tutelato e pulito. Notiamo anche qua, come nel caso maschile, una spinta a partire basata principalmente sul lavoro e non di certo basata sulla volontà di rimanere confinate tra le mura domestiche, anzi, volevano costruirsi dei progetti di vita personali che avvenivano tramite il lavoro. Il lavoro irregolare come risorsa Il problema è che come gli uomini, anche le donne del Mezzogiorno, una volta arrivate a destinazione, non riuscivano immediatamente ad entrare in questo settore, ma devono prima passare tramite altre occupazioni meno ambite ma più facili da ottenere per chi sprovvisto di solide reti sociali: per gli uomini i primi lavori disponibili erano quelli nell’edilizia, mentre per le donne erano lavori irregolari (gran parte del lavoro delle donne appena arrivate non risulta nelle statistiche ufficiali perché in nero); si tratta di lavoratrici nascoste, non di casalinghe (occupazioni che ruotano attorno all’economia fordista che si basa anche su lavori non regolari o dichiarati). I settori sono diversi e dipendono dai canali personali delle donne come la parentela femminile, in tanti casi finiscono per trovare impiego in sartorie perché le donne dopo gli anni di obbligo scolastico venivano immediatamente istruite nel cucire da dei sarti (lavori in piccole realtà industriali). A Torino era presente il “Gruppo finanziario tessile”, una grande industria di confezioni che all’epoca reclutava molte immigrate al loro arrivo; il problema di questo settore è che è un tipo di industria con garanzie inferiori rispetto ai settori metalmeccanico e automobilistico, infatti si veniva pagate a cottimo. Alcune al loro arrivo venivano impiegate come ricamatrici presso conventi di suore per ricamare arredi, alter trovano lavoro nel settore delle pulizie di uffici, condomini o presso le famiglie: la figura della domestica ad ore è centrale sia in questo periodo storico sia in quello della migrazione interna; la nuova classe media in espansione negli anni ’60 non può permettersi una domestica fisso in casa, ma può permettersi di pagare qualcuno per venire a pulire casa qualche ora a settimana, in questo settore si vanno ovviamente ad inserire le immigrate meridionali e sarà una preziosa risorsa anche nella fase critica del ciclo di vita in cui dopo il matrimonio e la nascita dei figli, devono abbandonare eventuali occupazioni di tipo regolare e che le tengono fuori casa molte ore al giorno (chi arriva ad essere impiegata come operaia, posizione molto ambita, non di rado devono dimettersi una volta arrivato il primo figlio a causa dell’assenza della generazione precedente a cui affidare i bambini piccoli e l’assenza dei servizi dell’infanzia). Questo significava rinunciare ad una pensione di un certo tipo e rinunciare ad avere un budget personale quasi assimilabile a quello del marito. SECONDE GENERAZIONI DELLE MIGRAZIONI INTERNE Soltanto negli ultimi anni si è iniziato a studiare il destino dei figli degli immigrati nel triangolo industriale, perché per molto tempo non sono stati considerati delle vere seconde generazioni di immigrati: quando si studiano le migrazioni internazionali i percorsi dei figli/e degli immigrati è un tema di grande interesse e rilevanza (sviluppato soprattutto nell’ultimo decennio), esiste quindi una letteratura vastissima che mette a fuoco se i processi di integrazione nelle società in cui si sono installati i genitori abbiano funzionato o meno. Si analizzano i percorsi nell’infanzia, l’inserimento dei figli nei percorsi scolastici, nei percorsi lavorativi, nei percorsi abitativi, i rapporti sociali instaurati o meno con gli autoctoni e/o con i vecchi immigrati ed infine. Per quanto riguarda le migrazioni interne ci si è fermati a studiare la prima generazione di immigrati, dando per scontato che la seconda generazione si fosse mescolata perfettamente con gli autoctoni facendo perdere le sue tracce all’interno delle società urbane. Ricerca pioneristica di Ceravolo, Eve e Meraviglia Una prima ricerca è stata svolta nei primi anni 2000 da Eve, Ceravolo e Meraviglia su un campione di immigrati in Piemonte (ricerca svolta con questionari e su un numero limitato di individui); sono emersi elementi importanti che hanno suggerito l’importanza di affrontare, successivamente nuove ricerche e approfondimenti. Ciò che emergeva era che, considerando il mondo dei figli degli operai in Piemonte, quelli nati da operai piemontesi o torinesi avevano affrontato una mobilità sociale superiore rispetto a quella dei figli degli immigrati meridionali (i primi erano riusciti a passare più facilmente dal lavoro manuale a quello impiegatizio) che erano rimasti confinati al lavoro manuale. Delle ricerche successive hanno rilevato che anche dal punto di vista dei titoli di studio, vi erano enormi differenze tra figli di immigrati piemontesi e meridionali: i figli dei migranti meridionali si fermavano prima nel percorso di studio rispetto ai figli degli immigrati torinesi/piemontesi, questo apriva loro meno possibilità nel mercato del lavoro, ovvero accesso al mercato del lavoro impiegatizio molto difficile. La ricerca storica è stata aiutata dal fatto che all’epoca delle grandi migrazioni, i figli degli immigrati erano stati molto studiati nel loro inserimento nelle società del nord, da parte dei pedagogisti e dei sociologi durante tutti gli anni ’60-’70, poi nei decenni successivi l’interesse si spense. Perché venivano osservati questi bambini? Perché ci si rendeva conto che il loro arrivo nelle scuole del nord era stato molto difficile e ricco di situazioni traumatiche e di esiti fallimentari. ANALOGIE CON L’IMMIGRAZIONE INTERNAZIONALE ODIERNA Il problema dell’inserimento dei bambini meridionali nelle classi del nord era sotto gli occhi di tutti, anche i giornali trattavano con molta frequenza questo tema, tema che nei decenni successivi è stato completamente dimenticato; è un argomento importante perché possiamo creare un confronto con il cattivo inserimento odierno dei bambini immigrati nelle scuole con quello dei bambini immigrati degli anni ’70 (dato sconfortante perché significa che le istituzioni non sono state in grado nel tempo, di comprendere le problematiche delle famiglie migranti e di agire di conseguenza per un inserimento positivo dei figli, nelle scuole); sono difficoltà che si ripetono ad ogni migrazione. A scuola Durante il periodo del boom economico che va dalla fine degli anni ’50 fino all’inizio degli anni ’70, una massa importante di bambini si riversa nelle scuole di Torino, Milano e Genova senza che le istituzioni scolastiche siano pronte ad accoglierli, dal punto di vista pratico non si sapeva dove mettere questi bambini tanto che nei quartieri maggiormente abitati da immigrati erano stati istituiti due o più turni di lezioni e istituendo classi di emergenza. Problema abitativo Parallelamente a quello della scuola coesisteva anche il problema dell’alloggio, molto importante e affrontato in diversi studi di sociologi ma anche dagli architetti e dai giornali dell’epoca. Le famiglie più povere, che non si potevano permettere delle vere e proprie abitazioni da prendere in affitto, venivano alloggiate in abitazioni di fortuna come delle caserme (ex caserme a Torino, dove sono state fatte ricerche sul campo tramite interviste ai genitori e ai figli per capire le loro condizioni di vita e aspirazioni; realizzate da assistenti sociali), altri andavano ad inserirsi illegalmente in baracche nella periferia come a Milano con le cosiddette “coree” (agglomerazioni di abitazioni che sorgevano nelle periferie delle città costruite dagli stessi migranti come alloggio, nel proprio tempo lavoro dato che gli uomini spesso erano impiegati nel campo dell’edilizia). Successivamente gli enti locali si adeguano a queste nuove dinamiche e predispongono i lavori per la nascita di nuovi quartieri, volti ad accogliere le famiglie immigrate, questo anche tutti i comuni dell’hinterland delle città-
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