Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

appunti di storia moderna, Appunti di Storia

riassunti di vari argomenti di storia

Tipologia: Appunti

2020/2021

Caricato il 07/02/2023

nicole-martini-5
nicole-martini-5 🇮🇹

6 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica appunti di storia moderna e più Appunti in PDF di Storia solo su Docsity! Il regime fascista Stato e partito: quando in Germania il nazismo era ancora una forza marginale, in Italia lo stato fascista era una realtà già consolidata nelle sue strutture giuridiche e nelle sue manifestazioni esteriori. Caratteristica essenziale del regime era la sovrapposizione di due strutture e di due gerarchie parallele: quella dello Stato, e quella del partito con le sue numerose ramificazioni. La prevalenza dello Stato: ma contrariamente a quanto sarebbe accaduto nei regimi più tipicamente totalitari, nel fascismo italiano l’apparato dello Stato ebbe fin dall’inizio, per esplicita scelta di Mussolini, una netta preponderanza sulla macchina del partito. Per trasmettere la sua volontà dal centro alla periferia, Mussolini si servì del tradizionale strumento dei prefetti. A controllare l’ordine pubblico e reprimere il dissenso provvedeva la Polizia di Stato, mentre la Milizia era confinata a una funzione decorativa e “ausiliaria”, imparagonabile al ruolo svolto, dalle SS nella Germania nazista. Le organizzazioni di massa: seppur privo di autonomia politica, il Pnf venne però continuamente dilatando le sue dimensioni e la sua presenza nella società civile. Dalla fine degli anni ’20 l’iscrizione al partito cessò di essere il segno dell’appartenenza a un’élite e divenne una pratica di massa, necessaria fra l’altro per ottenere un posto nell’amministrazione statale. Faceva capo al partito anche una serie di organismi collaterali, come l’Opera nazionale dopolavoro e le numerose organizzazioni giovanili: i Fasci giovanili, per i giovani dai diciotto ai ventun anni, i Gruppi universitari fascisti e soprattutto l’Opera nazionale balilla. Quest’ultima inquadrava tutti i ragazzi fra gli otto e i diciotto anni e forniva loro, oltre a un supplemento di educazione fisica e a qualche forma di istruzione preliminare, anche un indottrinamento ideologico di base. Dall’Onb dipendevano anche i corpi femminili: figlie della lupa. Nel complesso queste strutture svolsero una funzione importante nella fascistizzazione del paese: attraverso queste altre organizzazioni di massa, dai sindacati di regime alla Milizia, il fascismo cercava di “occupare”, insieme con lo Stato, anche la società, risparmiandola dalle fondamenta. L’influenza della Chiesa: nel suo tentativo di permeare di sé la società il fascismo incontrava però alcuni ostacoli: il maggiore era rappresentato dalla Chiesa. In un paese in cui la popolazione si dichiarava cattolica, in cui la pratica religiosa era ovunque diffusa, in cui le parrocchie rappresentavano spesso l’unico centro di aggregazione sociale e culturale, non era facile governare contro la Chiesa o senza trovare con essa qualche accordo. Consapevole di ciò, Mussolini cercò un’intesa col Vaticano, profittando della disponibilità manifestata dalle gerarchie ecclesiastiche nei confronti del regime, per comporre definitivamente lo storico contrasto fra Stato e Chiesa che aveva segnato l’intera vita del Regno d’Italia. I patti lateranensi: le trattative, condotte in segreto, fra governo e Santa Sede si conclusero l’11 febbraio 1929 con la stipula dei patti che presero il nome del Laterano. I patti lateranensi si articolavano in tre parti distinte: un trattato internazionale, con cui la Santa Sede poneva ufficialmente fine alla “questione romana” riconoscendo lo Stato italiano e la sua capitale e vedendosi riconosciuta la sovranità sullo “Stato della Città del Vaticano”; una convenzione finanziaria, con cui lo Stato si impegnava a corrispondere alla Santa Sede una forte somma, equivalente all’importo delle annualità previste dalla “legge delle guarentigie” dopo la presa di Roma; infine un concordato, che regolava i rapporti interni fra Chiesa e il Regno d’Italia, intaccando sensibilmente il carattere laico dello Stato. Il concordato stabiliva fra l’altro che i sacerdoti fossero esonerati dal servizio militare, che i preti spretati fossero esclusi dagli uffici pubblici, che il matrimonio religioso avesse effetti civili, che l’insegnamento della dottrina cattolica fosse considerato “fondamento e coronamento” dell’istruzione pubblica, che le organizzazioni dipendenti dall’Azione cattolica potessero continuare a svolgere la propria attività, purché sotto il controllo delle gerarchie ecclesiastiche e al di fuori di ogni partito politico. La crescita del consenso: per il regime fascista i Patti lateranensi rappresentarono un notevole successo. Presentandosi come l’artefice della “conciliazione”, Mussolini consolidò la sua area di consenso e la estese anche a strati della popolazione rimasti fino ad allora ostili o indifferenti. I vantaggi per la Chiesa: se il fascismo trasse dai Patti lateranensi immediati vantaggi politici, fu però il Vaticano a cogliere i successi più significativi e duraturi. In cambio della rinuncia a qualcosa che aveva irrevocabilmente perduto da quasi sessant’anni, la Chiesa acquistò una posizione di privilegio nei rapporti con lo Stato, anche in materie importanti come la legislazione matrimoniale e l’istruzione. Non a caso, l’unico serio contrasto emerso dopo il concordato fra il regime e la Santa Sede riguardò le organizzazioni di Azione cattolica, che, nel 1931, furono oggetto di violenze squadristiche per aver difeso la loro autonomia organizzativa nel settore giovanile. Di questi spazi la Chiesa non si servì mai per fare opera di opposizione; lì usò, però, per educare ai suoi valori una parte non trascurabile della gioventù, per formare una classe dirigente capace, all’occorrenza, di prendere il posto di quella fascista: cosa che si sarebbe verificata nel secondo dopoguerra. La monarchia: un altro limite insuperabile stava all’interno, anzi al vertice delle istituzioni statali ed era rappresentato dalla monarchia. Per quanto fosse nei fatti regolarmente esautorato, fino ad apparire come un ostaggio nelle mani di Mussolini, il re restava pur sempre la più alta autorità dello Stato. A lui spettavano, secondo lo Statuto, il comando supremo delle forze armate, la scelta dei senatori e il diritto di nomina e revoca del capo del governo. Si trattava di poteri del tutto teorici, destinati a restare tali finché il regime fosse rimasto forte e compatto attorno al suo capo. Ma, in caso di crisi o di spaccatura interna, le carte migliori sarebbero fatalmente tornate in mano al re. Queste eventualità rappresentava per il fascismo un motivo di sotterranea debolezza. La società italiana tra sviluppo e arretratezza: alla vigilia della Seconda guerra mondiale l’Italia era ancora un paese fortemente arretrato rispetto alle maggiori potenze europee. Alla fine degli anni ’30, il reddito medio di un italiano era poco più della metà di quello di un francese, un terzo di quello di un britannico. Malgrado spendesse più della metà del suo reddito in consumi alimentari, l’italiano medio si nutriva essenzialmente di farinacei, mangiava carne e beveva latte in quantità tre volte inferiore a quella di un cittadino britannico o statunitense e considerava generi di lusso il caffè, il tè e lo zucchero. Il tradizionalismo fascista: l’arretratezza economica e civile della società italiana fu per certi aspetti funzionale al regime e all’ideologia fascista. Il fascismo predicò il “ritorno alla campagna”, lanciando a più riprese la parola d’ordine della ruralizzazione, e tentò di scoraggiare, l’afflusso dei lavoratori verso i centri urbani. Il regime, difese e esaltò la funzione del matrimonio e della famiglia, come garanzia di stabilità e come base per lo sviluppo demografico. Ispirandosi alla dottrina che identificava la potenza con la forza del numero, il fascismo cercò di incoraggiare con ogni mezzo l’incremento della popolazione: furono aumentati gli assegni familiari dei lavoratori, vennero favorite le assunzioni dei padri di famiglia, furono istituiti premi per le coppie più prolifiche, venne addirittura imposta una tassa sui celibi. In coerenza con questa linea, il regime ostacolò il lavoro delle donne e, più in generale, si oppose al processo di emancipazione femminile. L’utopia dell’“uomo nuovo”: il fascismo, però, non era solo un regime conservatore e immobilista. Se da un lato voleva mantenere in vita strutture sociali e tradizioni del passato, dall’altro era in qualche modo proiettato verso il futuro, verso la creazione dell’“uomo nuovo”, verso un sistema totalitario moderno, in cui l’intera popolazione fosse inquadrata nelle strutture del regime e pronta a combattere per la grandezza nazionale. Le classi lavoratici: ma era soprattutto la scarsezza delle risorse che impediva al regime di praticare una politica economica e sociale capace di conquistare il consenso delle classi lavoratici. Ma le generiche enunciazioni della Carta non erano certo sufficienti a ripagare i lavoratori della scomparsa dei sindacati liberi e dunque della perdita di qualsiasi autonomia organizzativa e capacità contrattuale. dell’Istituto avrebbe dovuto essere transitorio, limitandosi al risanamento delle imprese in crisi in vista si una loro riprivatizzazione. Accade invece che la vendita ai privati risultò quasi impraticabile e l’Iri diventò un ente permanente. Il ruolo dei tecnici: queste scelte non si tradussero comunque in una fascistizzazione dell’economia: per gli interventi più importanti Mussolini non servì di personale proveniente dal partito o dalla nascente burocrazia “corporativa”, ma si affidò piuttosto ai tecnici, come l’esperto di agraria Arrigo Serpieri, teorico della bonifica integrale, o come Alberto Beneduce, ex socialista, fondatore e primo presidente dell’Iri. L’autarchia e l’economia di guerra: intorno alla metà degli anni ’30 l’Italia era uscita dalla fase più acuta della crisi, sia pure a prezzo di sacrifici non lievi. A questo punto, però, mancarono al regime la capacità e la volontà di profittare della ripresa per mettere in moto un processo sviluppo che si riflettesse sulle condizioni di vita della popolazione. Al contrario, il regime si lanciò in una politica di dispendiose imprese militari. Alla fine del 1935, traendo spunto dalle sanzioni economiche imposte all’Italia per l’aggressione all’Etiopia, Mussolini decise di insistere con la politica “autarchica” già inaugurata con la “battaglia del grano” e consistette nella ricerca di una sempre maggiore autosufficienza economica, soprattutto nel campo dei prodotti e delle materie prime utili in caso di guerra. In pratica l’autarchia si tradusse in un ulteriore stretta protezionistica, in un più intenso sfruttamento del sottosuolo e in un incoraggiamento alla ricerca applicata, soprattutto nel campo delle fibre artificiali e dei combustibili sintetici. Le spese militari sottrassero risorse ai consumi e agli investimenti produttivi accentuando l’isolamento economico del paese, senza nemmeno ottenere, tranne che i settori interessati alle commesse belliche, quegli effetti positivi che il riarmo produsse sulla ben più forte struttura industriale della Germania nazista. La vocazione nazionalista: diversamente dalla Germania, uscita sconfitta dalla guerra e punita al tavolo della pace, l’Italia mussoliniana non aveva da avanzare rivendicazioni territoriali capaci di mobilitare l’opinione pubblica. Nonostante le delusioni subite a Versailles, era pur sempre una potenza vincitrice e aveva risolto in modo soddisfacente la spinosa questione adriatica. Ma non per questo il fascismo poteva accantonare quella vocazione nazionalista ed espansionista che faceva parte dei suoi caratteri originari e lo portava a proporsi come il restauratore delle glorie di Roma antica. Fino ai primi anni ’30, le aspirazioni imperiali del fascismo rimasero vaghe e si tradussero, in una generica contestazione dell’assetto europeo uscito dai trattati di Versailles. Il che tuttavia non impedì all’Italia di mantenere buoni rapporti con la Gran Bretagna e di restare all’interno del sistema di sicurezza collettiva fondato sull’intesa fra le potenze vincitrici. Questa fase, culminata negli accordi di Stresa, dell’aprile 1935, si esaurì però con l’attacco dell’Italia fascista all’impero etiopico, allora l’unico grande Stato indipendente del continente africano. L’impresa etiopica e le sanzioni: con la conquista dell’Etiopia il duce intendeva innanzitutto dare uno sfogo alla vocazione imperiale del fascismo, vendicando al contempo lo scacco subìto dall’Italia nel 1896 con la sconfitta di Adua. Ma voleva anche creare una nuova occasione di mobilitazione popolare che facesse passare in secondo piano i problemi economici e sociali del paese. I governi francese e britannico erano disposti ad assecondare, almeno in parte, le mire italiane. Ma non potevano accettare che uno Stato indipendente, membro della Società delle Nazioni, fosse cancellato dalla carta geografica da un atto di aggressione. Così, quando all’inizio di ottobre del 1935 l’Italia diede avvio all’invasione dell’Etiopia, Francia e Gran Bretagna chiesero al Consiglio della Società delle Nazioni di adottare delle sanzioni economiche, consistenti nel divieto di esportare in Italia merci necessarie all’industria di guerra. La rottura con le democrazie: le sanzioni ebbero un’efficacia molto limitata: sia perché il blocco non era esteso alle materie prime, sia perché non impegnava gli Stati che non facevano parte della Società delle Nazioni, come gli Stati Uniti e la Germania. Le decisioni prese ebbero però l’effetto di approfondire la frattura fra il regime fascista e le democrazie europee e consentirono a Mussolini di montare un’imponente campagna propagandistica tesa a presentare l’Italia come vittima di una congiura internazionale. L’Impero: sul piano militare l’impresa fu più difficile del previso: gli etiopici si batterono con accanimento per più di sette mesi sotto la guida del negus Hailè Selassiè. Ma il loro esercito, nulla poteva contro un corpo di spedizione che giunse a impegnare circa 400mila uomini e fece ampio ricorso ai mezzi corazzati e all’aviazione, usata in più occasioni per bombardare le truppe nemiche con gas letali. Il 5 maggio 1936, le truppe italiane, comandate dal maresciallo Pietro Badoglio, entrarono in Addis Abeba. Quattro giorni dopo, Mussolini poteva annunciare alle folle plaudenti “la riapparizione dell’Impero sui colli fatali di Roma” e offrire a re Vittorio Emanuele III la corona di imperatore d’Etiopia. Da un punto di vista economico la conquista dell’Etiopia, paese povero di risorse naturali e poco adatto agli insegnamenti agricoli, rappresentò per l’Italia un peso non indifferente, cui si aggiunsero i problemi suscitati dalle sanzioni. Ma sul piano politico il successo fu indiscutibile. Portando a termine una campagna coloniale vittoriosa, imponendo la propria volontà alle democrazie occidentali e costringendole poi ad accettare il fatto compiuto, Mussolini diede a molti la sanzione, illusoria, di aver conquistato per l’Italia una posizione di grande potenza. L’asse Roma-Berlino: inebriato dal successo, il duce credette di poter condurre una politica ambiziosa e spregiudicata, sfruttando ogni occasione per allargare l’area di influenza italiana. In questo periodo rientrava anche l’avvicinamento dell’Italia alla Germania, cominciato subito dopo la guerra d’Etiopia e sancito, dalla firma di un patto di amicizia cui fu dato il nome di Asse Roma-Berlino. Mussolini considerava l’appoggio alla Germania non tanto come una scelta irreversibile, quanto come uno strumento che, le consentisse di ottenere qualche ulteriore vantaggio in campo coloniale: il tutto in attesa che il paese fosse preparato ad affrontare un conflitto in posizione di forza. Il “patto d’acciaio”: ma il dinamismo aggressivo della Germania non consentì a Mussolini i tempi e gli spazi di manovra necessari per realizzare il suo programma. Credendo di potersi servire dell’amicizia tedesca, il duce ne fu in realtà sempre più condizionato, al punto da dover accettare passivamente tutte le iniziative di Hitler. Finché, nel maggio 1939, si decise alla scelta che sarebbe risultata fatale al regime e al paese: la firma di un formale patto di alleanza con la Germania che legava definitivamente le sorti dell’Italia a quelle dello Stato nazista. Le incrinature del consenso: svaniti gli entusiasmi che avevano accompagnato l’impresa coloniale, il fronte apparentemente compatto dei consensi conobbe alcune significative incrinature. A suscitare preoccupazione era soprattutto il nuovo indirizzo di politica estera attuato da Mussolini e dal suo principale collaboratore. L’aspetto che più inquietava l’opinione pubblica era l’amicizia con la Germania: un’amicizia che urtava contro le tradizioni del Risorgimento e della Grande Guerra, e soprattutto contro la diffusa antipatia di cui era oggetto Stato nazista. La campagna antiborghese di Mussolini: ma le aspirazioni alla pace contrastavano con i programmi di Mussolini. Il duce auspicava per l’Italia un avvenire di imprese militari e pensava che gli italiani avrebbero dovuto non solo armarsi adeguatamente, ma anche rinnovarsi nel profondo, trasformandosi in un popolo di conquistatori e di guerrieri. La radicalizzazione del regime: per avvicinarsi a questo obiettivo, il regime doveva diventare il più totalitario di quanto non fosse stato fino ad allora. Da qui scaturirono alcune modifiche istituzionali, che andavano dalla creazione del ministero per la Cultura popolare all’accorpamento delle organizzazioni giovanili nella Gioventù italiana, dall’ampliamento delle funzioni del Partito fascista alla sostituzione, della Camera dei deputati con una nuova Camera dei fasci e delle corporazioni dove, si entrava semplicemente in virtù dalle cariche ricoperte negli organi di regime. Le leggi razziali: ma la manifestazione più seria e aberrante della stretta totalitaria voluta da Mussolini fu l’introduzione, nell’autunno 1938, di una serie di leggi discriminatorie nei confronti degli ebrei: leggi che ricalcavano nelle grandi linee quelle naziste del ’35, escludendo gli israeliti dagli uffici pubblici, limitandone l’accesso alle professioni e vietando i matrimoni misti. Adottando queste misure, tanto gratuite quanto moralmente ripugnanti, Mussolini si proponeva di inoculare nel popolo italiano il germe dell’orgoglio razziale e di fornirgli così un nuovo motivo di aggressività e compattezza nazionale. Ma, anziché suscitare consenso e mobilitazione, le leggi razziali furono accolte con indifferenza e perplessità dall’opinione pubblica; e aprirono per giunta un serio contrasto con la Chiesa, contraria non tanto alla discriminazione in sé quanto alle sue motivazioni non religiose, ma biologico-razziali. Il coinvolgimento dei giovani: l’unico settore della società in cui le aspirazioni totalitarie ottennero qualche successo fu quello giovanile. I ragazzi cresciuti nelle organizzazioni di regime, gli studenti inquadrati nei Gruppi universitari fascisti, i giovani più impegnati intellettualmente che ogni anno partecipavano a migliaia ai “littoriali della cultura” si abituarono a “pensare fascista”, a considerare il regime come una realtà immutabile, come un quadro di riferimento obbligato nelle sue linee di fondo. Fu solo con lo scoppio del conflitto e con i primi rovesci bellici che il fascismo cominciò a perdere progressivamente il sostegno sul quale contava: quello appunto dei giovani. I quali, diventati nel frattempo soldati e ufficiali, vissero in prima persona il fallimento di un regime che, si dimostrò poi incapace di preparare sul serio la guerra e la perse rovinosamente. Il silenzio e l’esilio interno: a partire dalla metà degli anni ’20 un numero crescente di italiani dovette affrontare il carcere o il conflitto politico, l’esilio o la clandestinità. Non tutti gli antifascisti sperimentarono i rigori dele repressioni. Molti, scelsero il silenzio o cercarono di sfruttare i ridotti spazi di autonomia culturale che il regime lasciava sussistere purché non si trasformassero in centri di opposizione politica. Se i cattolici potevano contare su qualche forma di tacito e prudente appoggio da parte di una Chiesa che restava pur sempre alleata del fascismo, i liberali trovarono un importante punto di riferimento in Benedetto da Croce. Protetto dalla sua notorietà internazionale, ma anche da una precisa scelta del regime, l’anziano filosofo poté proseguire senza eccessivi fastidi la sua attività culturale e pubblicistica, evitando però ogni esplicita presa di posizione politica. La clandestinità: per coloro che intendevano opporsi attivamente alla dittatura, restavano aperte solo due strade: l’esilio all’estero e l’agitazione clandestina in patria. A praticare fin dall’inizio quest’ultima forma di lotta furono soprattutto, anche se non esclusivamente, i comunisti: gli unici preparati all’attività cospiratoria, sia per caratteristiche della loro struttura organizzativa, sia perché erano stati oggetto per primi di una repressione sistematica da parte delle autorità. Il Partito comunista riuscì a tenere in piedi e ad alimentare dall’interno e dall’estero una propria rete clandestina, a diffondere opuscoli, giornali e volantini di propaganda, a infiltrare suoi uomini nei sindacati e nelle organizzazioni giovanili fasciste. Tutto questo nonostante i modesti risultati immediati e gli altissimi rischi a cui andavano incontro i militanti: più di tre quarti dei 4500 condannati dal Tribunale speciale e degli oltre 10 mila confinati fra il ’26 e il ’43 furono infatti i comunisti. L’emigrazione politica: anche gli altri gruppi antifascisti cercarono di tenere in vita qualche isolato nucleo clandestino in Italia. Ma la loro attività principale si svolse all’estero. Nel 1927 questi gruppi si federarono in un’organizzazione unitaria, la Concentrazione antifascista, che si ricollegava all’esperienza dell’Aventino, ereditandone anche i limiti pratici e le divisioni interne. Nonostante ciò, i partiti della Concentrazione svolsero un’attività importante a livello di testimonianza e di propaganda, fecero sentire la voce dell’Italia antifascista nelle organizzazioni internazionali, stamparono giornali, proseguirono in esilio le elaborazioni ideologiche e i dibattiti politici iniziati in patria sulle ragioni della loro sconfitta e sui possibili fattori di una riscossa democratica. Giustizia e Libertà: un nuovo impulso all’azione concreta contro il fascismo e un’aperta critica alla tattica attendista della Concentrazione vennero in movimento di Giustizia e Libertà, fondato nell’estate del ’29 da due antifascisti della giovane generazione: Emilio Lussur e Carlo Rosselli. Il GL voleva essere innanzitutto un organismo di lotta, capace di far concorrenza ai comunisti sul pino dell’attività clandestina; ma si proponeva anche come nucleo di una nuova formazione politica che sapesse coniugare gli ideali di libertà e di giustizia
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved