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appunti di storia moderna, Appunti di Storia

riassunti di vari argomenti di storia

Tipologia: Appunti

2020/2021

Caricato il 07/02/2023

nicole-martini-5
nicole-martini-5 🇮🇹

6 documenti

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Scarica appunti di storia moderna e più Appunti in PDF di Storia solo su Docsity! l’età della guerra fredda la lezione della guerra: l’entità dello sterminio, ma anche la sua inedita e sconvolgente “qualità”, colpirono profondamente la coscienza collettiva e conferirono una nuova dimensione all’orrore per la guerra. La conferenza di San Francisco: questa terribile lezione produsse allora, un generale desiderio di rifondare su basi più stabili il sistema delle relazioni internazionali. Il risultato più importante fu la nascita dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (Onu). Fondata, in una conferenza tenuta a San Francisco fra l’aprile e il giugno del 1945, l’Onu si presentava all’inizio come un prolungamento destinato a sopravvivere in tempo di pace di quel “patto delle Nazioni Unite” che, aveva legato gli Stati in lotta contro le potenze dell’Asse. Lo statuto delle Nazioni Unite: ispirato ai principi della Carta Atlantica, lo statuto dell’Onu porta l’impronta di due diverse concezioni: da un lato l’utopia democratica che era stata di Wilson, e a cui ancora si ispirava una parte dell’opinione pubblica americana; dall’altro l’approccio realistico tipico di Roosevelt, convinto della necessità di un “direttorio” delle grandi potenze come unico efficacie strumento di governo negli affari mondiali. I princìpi dell’universalità dell’organizzazione e dell’uguaglianza fra le nazioni si realizzano nell’Assemblea generale degli Stati membri, che si riunisce annualmente e può adottare solo risoluzioni non vincolanti. Il meccanismo del “direttorio” è invece alla base del Consiglio di sicurezza, organo permanente che, in caso di crisi internazionale, ha il potere di prendere decisioni vincolanti per gli Stati membri e di adottare misure che possono giungere fino all’intervento armato. Il Consiglio si compone di quindici membri: le cinque maggiori potenze vincitrici sono membri permanenti di diritto, mentre gli altri dieci vengono eletti a turno fra tutti gli Stati. Ciascuno dei membri permanenti gode inoltre di un diritto di veto col quale può paralizzare l’azione del Consiglio quando la ritenga contraria ai propri interessi o ai propri convincimenti: un meccanismo che fu introdotto soprattutto per volontà dell’Urss, diffidente nei confronti di un’organizzazione in cui avrebbe potuto facilmente essere messa in minoranza. Gli organismi dell’Onu: malgrado l’aspirazione a costituire un embrione di governo mondiale, l’Onu è stata fin dall’inizio lo specchio del carattere conflittuale della comunità internazionale. Egemonizzata, ma anche esautorata, dalle maggiori potenze, paralizzata dai loro contrasti sulle questioni più importanti, si è rivelata molto spesso inadempiente al suo compito principale: quello di prevenire e contenere la crisi. I processi di Norimberga e Tokyo: parallelo, fu il tentativo di aggiornare e codificare il diritto internazionale, includendovi un settore penale, con i suoi reati e le sue sanzioni, in modo da colpire sia gli Stati sia i singoli individui. Per questo, gli alleati costituirono, a guerra conclusa, tribunali militari per giudicare i colpevoli dei crimini più odiosi fra i responsabili delle principali potenze sconfitte. I processi che ne seguirono si conclusero con numerose condanne a morte e destarono grande scalpore in tutto il mondo. Le istituzioni economiche internazionali: sotto l’impulso degli Stati Uniti, la rifondazione dei rapporti internazionali si estese anche al campo economico. L’opera di riforma fu improntata alla filosofia economica e agli interessi del capitalismo americano, che tendevano a creare un vasto e vitale mercato mondiale in regime di libera concorrenza. Vennero così ridimensionati i vincoli protezionistici e le aree preferenziali di commercio, a cominciare da quella legata al sistema imperiale britannico. A guerra ancora in corso, con gli accordi di Bretton Woods del luglio 1944, fu creato il Fondo monetario internazionale, con lo scopo di costruire un adeguato ammontare di riserve valutarie mondiali, in cui gli Stati membri potessero attingere in caso di necessità, e di assicurare la stabilità dei cambi fra le monete, ancorandoli non soltanto all’oro, ma anche al dollaro. Si venne così a consolidare il primato della moneta americana come valuta internazionale per gli scambi e come valuta di riserva per le banche centrali di tutto il mondo. Al Fondo monetario fu affiancata, sempre a Bretton Woods, la Banca Mondiale, col compito di concedere prestiti a medio e lungo termine ai singoli Stati per favorirne la ricostruzione e lo sviluppo. Sul piano commerciale, un sistema fondato sul libero scambio fu instaurato dall’Accordo generale sulle tariffe e sul commercio, stipulato a Ginevra nell’ottobre ’47, che prevedeva un generale abbassamento dei dazi dogali. Concepiti all’inizio come strumenti di governo dell’economia mondiale, questi organismi videro in parte compromessa la loro rappresentatività della mancata adesione dell’Urss e poi degli atri regimi comunisti. Le superpotenze: il verdetto del secondo conflitto mondiale non si esaurì nella sconfitta della Germania hitleriana e dei suoi alleati e nella liquidazione del nazifascismo. La guerra segnò anche un mutamento irreversibile degli equilibri internazionali. Le antiche grandi potenze dovettero presto rendersi conto di non poter più mantenere le proprie posizioni di dominio. L’Europa, perse definitivamente la sua centralità. A un ruolo egemonico, potevano ormai aspirare due soli Stati, due superpotenze continentali e multietniche, molto diverse dai vecchio Stati-nazione: gli Stati Uniti, che vantavano una schiacciante superiorità economica e una netta supremazia militare, esaltata dal processo dell’arma atomica; e l’Unione Sovietica, che disponeva di un imponente apparato industriale e militare e occupava con le sue truppe la metà orientale del continente europeo. I contrasti fra Usa e Urss: a partire dal 1941, Usa e Urss avevano combattuto assieme contro le potenze fasciste, offrendo il contributo più consistente alla “grande alleanza” antihitleriana. E, avevano provato insieme a gettare le basi di un nuovo ordine internazionale centrato sulla creazione dell’Onu. Ma, proprio in quella fase, erano emerse tra i futuri vincitori divergenze profonde sul futuro del mondo e in particolare dell’Europa. Gli Stati Uniti puntavano a una ricostruzione nel segno dell’economia di mercato e della libertà degli scambi internazionali, come contesto ideale per far valere la loro egemonia. L’Unione Sovietica, che aveva pagato un prezzo altissimo in distruzioni di materiali e perdite umane, pretendeva la punizione degli Stati aggressori, adeguate riparazioni economiche e soprattutto garanzie territoriali contro ogni possibile atto lanciato da Occidente, sull’esempio di Napoleone, Guglielmo II e Hitler. Questa esigenza di sicurezza, che in Stalin assunse tratti quasi ossessivi, si traduceva per l’Urss nella richiesta di spingere le proprie frontiere il più possibile a Ovest e di non avere regimi ostili negli Stati confinanti. Gli alleati occidentali erano in parte disposti ad accogliere queste richieste, vuoi per realismo politico, come nel caso di Churchill, vuoi perché convinti, come Roosevelt, che una Unione Sovietica appagata nelle sue legittime aspirazioni potesse rappresentare un fattore di stabilizzazione nell’irrequieto scacchiere dell’Europa orientale. La crisi della “grande alleanza”: nell’aprile del 1945 Roosevelt morì, e con lui tramontò il “grande disegno” di cooperazione fra l’Occidente e Urss. Il successore di Roosevelt, si mostrò meno aperto alle istanze di Stalin, che era portato già di suo alla diffidenza nei confronti degli alleati occidentali. L’Urss e il controllo dell’Europa orientale: il principale banco di prova del contrasto fra le potenze vincitrici fu l’Europa orientale. Nei paesi occupati dall’Armata rossa le possibilità che l’influenza sovietica si affermasse nel rispetto della volontà popolare erano praticamente nulle. Per imporsi in un contesto ostile, l’Urss non trovò così altro mezzo, che puntare sui partiti comunisti locali, per lo più privi di larghe basi di consenso, e portarli al potere in spregio a qualsiasi principio democratico. I contrasti emersero chiaramente già nella conferenza interalleata che si tenne a Potsdam, presso Berlino, fra luglio e agosto del 1945. Sei mesi dopo, nel marzo 1946, Churchill pronunciò a Fulton, un discorso che ebbe un’enorme risonanza, in cui denunciava il comportamento dei sovietici in Europa orientale. La conferenza di pace: i lavori della conferenza di pace, che si aprirono a Parigi nel luglio 1946, si interruppero tre mesi dopo senza che su molti punti fossero state raggiunte conclusioni definitive. Nonostante l’assenza di un accordo generale, furono fissati i nuovi confini fra Urss, Polonia e Germania: l’Unione Sovietica incamerava le ex Repubbliche baltiche, parte della Polonia dell’Est e della Prussia orientale; la Polonia, si rifaceva a ovest a spese della Germania, portando il suo confine alla linea segnata dai fiumi Oder e Neisse. La “dottrina Truman”: la conferenza di Parigi fu l’ultimo atto della cooperazione postbellica fra Urss e potenze occidentali. Fra il 1946 e il 1947 i contrasti si approfondirono. E gli Stati Uniti si dichiararono pronti a intervenire militarmente in sostegno di quei paesi che si sentissero minacciati da nuove mire altre forze politiche, costringendo, sotto minaccia della guerra civile, il presidente della Repubblica Eduard Benes ad affidare il potere a un nuovo governo da loro completamente controllato. Lo scisma di Tito: ancora diverso fu il caso della Jugoslavia. Qui i comunisti, sotto la guida di Tito, si imposero da soli al potere con ampio uso della violenza contro i loro avversari, ma anche grazie all’autorità e al prestigio guadagnati con l’impegno nel movimento di Resistenza, che aveva liberato il paese dall’occupazione nazista. Fu proprio la forza della leadership jugoslava, che aveva consentito al regime di superare o soffocare i tradizionali conflitti etnici e religiosi, a porre un ostacolo al pieno dispiegarsi del dominio dell’Urss. La rottura si consumò nel giugno 1948, quando si manifestarono le ambizioni jugoslave di svolgere un ruolo-guida fra i paesi balcanici e di perseguire una via autonoma allo sviluppo industriale: accusati da Stalin di “deviazionismo” e di collusione con l’imperialismo, i comunisti jugoslavi furono espulsi dal Cominform. Il modello jugoslavo: completamente isolata dal mondo comunista, la dirigenza jugoslava resistette alle pressioni sovietiche e cominciò a sperimentare una linea autonoma in politica estera, basata sull’equidistanza fra i due blocchi, e un nuovo corso in politica economica, volto alla ricerca di un difficile equilibrio fra statizzazione e autonomia gestionale delle imprese. Eppure, l’esperienza jugoslava suscitò interesse in Occidente, perché rappresentò in quegli anni l’unica ribellione riuscita al dominio sovietico in Europa orientale, proprio nel momento in cui le tensioni della guerra fredda conoscevano la loro fase più acuta con il riproporsi della questione tedesca. Il blocco di Berlino e le due Germanie: dalla fine della guerra, la Germania era divisa in quattro zone di occupazione (statunitense, britannica, francese e sovietica). La capitale Berlino era a sua volta divisa in quattro zone. Saltata ogni possibilità di intesa con i sovietici sul futuro del paese, gli Stati Uniti e Gran Bretagna avviarono, l’integrazione delle loro zone, introducendo una nuova moneta, liberalizzando l’economia e rivitalizzandola poi con gli aiuti del piano Marshall. Di fronte a quella che ormai si profilava chiaramente come la rinascita di un forte Stato tedesco integrato nel blocco occidentale, Stalin reagì con la prova di forza del blocco di Berlino. Nel giugno 1948 i sovietici chiusero gli accessi alle città impedendone il rifornimento, nella speranza di indurre gli occidentali ad abbandonare la zona ovest della ex capitale da loro occupata. L’Europa sembrò nuovamente sull’orlo di un conflitto. La crisi si risolse tuttavia senza uno scontro militare. Gli americani organizzarono un gigantesco ponte aereo per rifornire la città, finché, nel maggio ’49, i sovietici si risolsero a togliere il blocco, rivelatosi inefficace. Nello stesso mese furono unificate tutte e tre le zone occidentali della Germania e fu proclamata la Repubblica federale, con capitale Bonn. Il Patto atlantico e il Patto di Varsavia: a questo punto la divisione dell’Europa in due blocchi contrapposti era compiuta. Nell’aprile 1949, mentre era ancora aperta la crisi di Berlino, fu firmato a Washington il Patto atlantico, un’alleanza difensiva fra i paesi dell’Europa occidentale, gli Stati Uniti e il Canada. Il patto, che si fondava su una comune professione di fede nella “civiltà occidentale”, prevedeva un dispositivo militare integrato composto da contingenti dei singoli paesi membri: la Nato. Nel 1951 aderirono al patto la Grecia e la Turchia, nel 1955 anche la Germania federale, fulcro della difesa avanzata contro un possibile attacco sovietico. Industrializzazione e modernizzazione: l’imposizione del modello collettivistico sovietico ebbe conseguenze profonde sugli assetti socioeconomici dell’Europa orientale. I latifondisti furono spazzati via fin dalle prime riforme agrarie. Fra il ’46 e il ’48, furono nazionalizzate le miniere, le industrie siderurgiche e meccaniche, le banche e l’intero settore commerciale. La subordinazione all’Urss: questo sviluppo fu però condizionato, dalla subordinazione delle economie dei paesi “satelliti” a quella dello “Stato-guida”. Gli obiettivi di produzione furono scelti in modo da risultare complementari a quelli dell’Urss. I tassi di cambio all’interno dell’ “area del rublo”, nonché la quantità e i prezzi dei bene scambiati, furono rigidamente regolati attraverso il Consiglio di mutua assistenza economica, fondato a Varsavia nel gennaio ’49 con l’adesione di tutti i paesi del blocco orientale. Le purghe nell’Europa dell’Est: per conservare e tenere unito il suo “impero”, l’Urss dovette quindi esercitare un controllo molto forte sui partiti comunisti dei paesi satelliti. Una violenta stretta repressiva si ebbe già all’indomani dello scisma jugoslavo: per evitare che l’eresia di Tito trovasse nuove adesioni, furono attuate, tra la fine degli anni ’40 e l’inizio degli anni ’50, massicce “purghe” nei confronti dei dirigenti comunisti dell’Est europeo sospettati di velleità autonomistiche. La guerra civile: mentre in Europa il confine fra i due blocchi si andava stabilizzando, il teatro del confronto fra il mondo comunista e mondo capitalistico si allargava al continente asiatico, intrecciandosi con le vicende della lunga e sanguinosa guerra civile che da decenni si stava combattendo in Cina. Dopo la sconfitta del Giappone e la fine del conflitto mondiale, la repubblica cinese era diventata formalmente una potenza vincitrice; ma era sempre più lacerata dallo scontro fra il governo “nazionalista” di Chiang Kai- shek e i comunisti di Mao Zedong, che occupavano e amministravano ampie zone dell’ex impero. Fallito ogni tentativo di accordo fra i contendenti, Chiang Kai- shek lanciò, fra il 1946 e il 1947, una violenta offensiva militare, contando sul sostegno degli Stati Uniti. I comunisti riuscirono ancora una volta a riorganizzarsi e a contrattaccare, puntando sull’appoggio delle masse contadine, attratte dalla promessa di una radicale riforma agraria. La vittoria dei comunisti: nel febbraio 1949 i comunisti entrarono a Pechino. Due mesi dopo cadeva Nanchino, capitale della Cina nazionalista. Il 1° ottobre 1949 fu proclamata a Pechino la nascita della Repubblica popolare cinese, subito riconosciuta dall’Urss e dalla Gran Bretagna, ma non dagli Stati Uniti e da molti dei loro alleati, che continuarono a considerare come legittimo governo cinese quello di Taiwan. Una nuova potenza comunista: l’Urss, che durante la guerra civile aveva fornito ai comunisti cinesi solo aiuti limitati, continuando fino all’ultimo a riconoscere il regime di Chiang Kai-shek, stipulò subito col nuovo regime un trattato di amicizia e di mutua assistenza. Ma la dirigenza sovietica guardò con qualche preoccupazione all’emergere di una nuova potenza capace di contestare all’Urss il ruolo di Stato-guida e di proporsi come modello di società comunista, distinto da quello sovietico e destinato a esercitare una certa attenzione sui paesi ex coloniali. Le due Coree: la prova più drammatica delle nuove dimensioni mondiali assunte dal confronto fra i due blocchi si ebbe nel 1950 in Corea. Alla fine del secondo conflitto mondiale, la Corea, in base agli accordi tra gli alleati, era divisa in due zone, delimitate dal 38° parallelo. Una delle due zone era governata da un regime comunista guidato da Kim Il Sung, mentre nell’altra si era insediato un governo nazionalista appoggiato dagli Stati Uniti. La guerra e gli interventi stranieri: dopo una serie di incidenti di frontiera, nel giugno 1950 le forze nordcoreane, armate dall’Urss, invasero il Sud. Di fronte a quella che appariva come una clamorosa conferma delle mire espansionistiche del blocco comunista, gli Stati Uniti reagirono inviando in Corea un forte contingente, che agiva sotto la bandiera dell’Onu, in quanto il Consiglio di sicurezza, assente il delegato sovietico, aveva condannato la Corea del Nord e autorizzato l’invio delle truppe. I nordcoreani furono respinti e in ottobre gli americani oltrepassarono il 38° parallelo. A questo punto, fu la Cina di Mao a intervenire in difesa dei comunisti, con un massiccio invio di falsi volontari, che in poche settimane respinsero gli americani sulle posizioni di partenza. I negoziati si trascinarono per altri due anni, per concludersi infine nel 1953 con il ritorno alla situazione precedente, con la Corea divisa in due da una “zona demilitarizzata”. Le conseguenze della guerra: gli effetti della crisi coreana furono di ampia portata. Anche in assenza di un coinvolgimento diretto dell’Urss, l’eventualità di uno scontro fra le superpotenze era apparsa vicina e lo spettro di una guerra nucleare concreto come non mai. Da qui un vasto riarmo americano, un’accresciuta sensibilità degli Stati Uniti alla minaccia nel Pacifico, un rafforzamento dei loto legami militari con gli alleati asiatici ed europei. La tutela americana: la vittoria dei comunisti in Cina e la guerra in Corea resero sempre più essenziale, il ruolo del Giappone: nemico irriducibile fino all’agosto 1945, sottoposto dopo la sconfitta a un duro regime di occupazione affidato al generale MacArthur, il paese dovette non solo rinunciare alle sue ambizioni espansionistiche, ma anche adeguare le sue istituzioni ai modelli occidentali. La nuova Costituzione approvata 1946, in realtà scritta da funzionari americani, trasformava l’autocrazia imperiale in una monarchia parlamentare. L’azione di rinnovamento imposta dagli Stati Uniti ebbe un effetto durevole nel rimodellare su nuove basi la realtà del paese. Tuttavia, essa incontrò un freno nella necessità di non indebolire troppo quei ceti conservatori su cui gli occupanti contavano per legare a sé il paese e per farne un bastione del “mondo capitalistico” in Asia. La ripresa economica: questo orientamento si accentuò quando, con la guerra di Corea, il Giappone divenne base logistica e fornitore dell’esercito americano. A partire dagli anni ’50 le grandi imprese sarebbero diventate il motore principale di una rapidissima ripresa economica, favorita dall’assistenza degli Stati Uniti, oltre che da una stabilità politica che si fondava sull’egemonia dei gruppi moderati, raccolti nel Partito liberal-democratico. La quasi completa assenza di spese militari imposta dal trattato di pace, assieme a una politica economica fondata sul contenimento dei consumi, consentì negli anni ’50 un tasso di investimento elevatissimo, pari a un terzo del prodotto nazionale. Inoltre, il sistema delle imprese basato sulla compresenza di pochi grandissimi complessi industrial-finanziari e di una miriade di piccole e medie aziende si rivelò particolarmente adatto a cogliere le occasioni di sviluppo. Merito della classe imprenditoriale fu quello di puntare sui settori in crescita e sulle tecniche d’avanguardia. Il miracolo giapponese: tutto ciò permise al Giappone di mantenere per tutto il ventennio 1950-70 un tasso di sviluppo medio del 15% annuo e di invadere il mondo con i prodotti della sua industria, compensando ampiamente le importazioni di materie prime e mantenendo in perenne attivo la bilancia commerciale. Repressione e “caccia alle streghe”: Il quinquennio che va dalla crisi di Berlino del 1948 alla fine del conflitto in Corea fu il periodo più buio della guerra fredda. In Urss Stalin rispose alle necessità della ricostruzione e alle sfide poste dal confronto con l’Occidente accentuando i connotati autocratici e repressivi del suo regime. Le purghe tornarono a colpire quadri del partito e comuni cittadini, mentre i condizionamenti sulla vita intellettuale e artistica si fecero ancora più soffocanti. Negli Stati Uniti, si scatenò una campagna anticomunista che prese a tratti la forma di una “caccia alle streghe” e che ebbe principalmente ispiratore nel senatore repubblicano Joseph McCarthy, presidente di una commissione parlamentare istituita per reprimere le “attività antiamericane”. Nel 1950, il Congresso adottò l’Internal Security Act, che costituì lo strumento giuridico per emarginare o epurare quanti, fossero sospettati di filocomunismo o di simpatie di sinistra. Gli eccessi del maccartismo si protrassero fino al 1955, quando il senatore, fu censurato e costretto a uscire di scena. Segnali di distensione: nelle elezioni presidenziali del novembre 1952, Truman non si presentò e la vittoria andò al candidato repubblicano, il generale Eisenhower, già comandante degli eserciti alleati nell’ultima fase della Seconda guerra mondiale. Nel marzo 1953, Stalin morì all’improvviso. L’uscita di scena dei principali protagonisti della guerra fredda non portò, in un primo tempo, mutamenti significativi nei due blocchi. Eppure, proprio in questi anni di tensione, venne maturando un atteggiamento di accettazione reciproca, che, pur non comportando alcuna tregua nel confronto ideologico o alcuna pausa nella corsa, agli armamenti, costituiva almeno una premessa per una per una coesistenza pacifica. Se i sovietici avevano di fronte lo spettacolo di crescente prosperità offerto dal blocco occidentale, gli Stati Uniti erano costretti a prendere atto del consolidamento dell’Urss e del continuo rafforzamento del suo apparato militare: nell’agosto 1953 l’esplosione della bomba all’idrogeno sovietica, un anno dopo il primo analogo esperimento americano, mostrava che in questo campo il divario tecnologico fra le due superpotenze andava scomparendo. In questa fase, Usa e Urss rinunciarono ad agire militarmente fuori dalle rispettive aree di influenza. E addirittura arrivarono a collaborare per il mantenimento dello status quo: accadde costituzionale, come richiesto dal generale. La nuova Costituzione si distingueva dalla precedente soprattutto per il rafforzamento delle prerogative del presidente della Repubblica, che diventava il vero capo dell’esecutivo. Il presidente aveva il potere di nominare il primo ministro, di sciogliere le Camere e indire nuove elezioni quando lo ritenesse opportuno e di sottoporre a referendum le questioni da lui considerate più importanti. Gli accordi di Evian: eletto alla presidenza della Repubblica, De Gaulle deluse le aspettative della destra colonialista che pure ne aveva accolto con favore il ritorno al potere: avviò alla sua logica soluzione l’affare algerino, riconobbe, con gli accordi di Evian del 1962, l’indipendenza all’ex colonia e stroncò i tentativi di sedizione da parte degli oppositori più radicali, che diedero vita a un gruppo clandestino armato. La politica di De Gaulle: d’altra parte, De Gaulle cercò di risollevare il prestigio internazionale del paese, facendosi promotore di una politica estera che tendeva a svincolare la Francia da legami troppo stretti con gli Stati Uniti e a proporla come guida di una futura Europa indipendente dai due blocchi. Il presidente volle dunque che la Francia si dotasse di una propria “forza d’urto” nucleare; ritirò nel ’66 le truppe francesi dall’organizzazione militare della Nato, pur senza mettere in discussione l’Alleanza atlantica; contestò la supremazia del dollaro nell’economia occidentale, proponendo il ritorno al sistema della convertibilità in oro; si oppose ai progetti di integrazione politica fra i paesi della Cee che non si accordavano col suo ideale di un’Europa egemonizzata dalla Francia ; mise il veto all’ingresso della Gran Bretagna nel Mercato comune. La stagione dell’ottimismo: la pace armata che seguì la fase più acuta della guerra fredda coincise, con una stagione di crescita demografica, di innovazione tecnologica e di intenso sviluppo produttivo. In realtà, al di là delle rappresentazioni convenzionali, il clima dei rapporti internazionali fu in questi anni piuttosto agitato. Non mancarono le crisi locali e la coesistenza si consolidò solo attraverso momenti di scontro, a tratti anche drammatico. Kennedy e la “nuova frontiera”: le speranze e le contraddizioni di questa stagione furono ben incarnate dalle figure dei due leader che si trovarono allora alla testa delle due superpotenze: il segretario del Pcus Nikita Kruscev e il presidente degli Stati Uniti, il democratico John Fitzgerald Kennedy, eletto nel novembre 1960, a 44 anni e primo cattolico a entrare in Casa Bianca. Assistito da un nutrito gruppo di intellettuali, Kennedy suscitò immediatamente ampi consensi attorno alla sua persona, riallacciandosi alla tradizione progressista di Wilson e Roosevelt e aggiornandola col riferimento a una “nuova frontiera”: una frontiera non più materiale come quella dei pionieri dell’800, ma spirituale, culturale e scientifica. In politica interna lo slancio riformatore kennediano si tradusse in un forte incremento della spesa pubblica, assorbito in parte dai programmi sociali e in parte dalle esplorazioni spaziali, ma anche nel sostegno al movimento per i diritti civili dei neri guidato dal pastore Martin Luther King e alle sue battaglie per imporre l’integrazione in quegli Stati del Sud che ancora praticavano forme di discriminazione razziale. Il muro di Berlino: in politica estera, la presidenza di Kennedy seguì una linea ambivalente, in cui l’enfasi sui temi della pace e della distensione con l’Est si univa a una sostanziale intransigenza sulle questioni ritenute essenziali. Il primo incontro tra Kennedy e Kruscev, avvenuto a Vienna nel giugno del ’61 e dedicato al problema di Berlino Ovest, si risolse in un fallimento. I sovietici risposero con la costituzione di un muro che separava le due parti della città. Il muro di Berlino sarebbe diventato da allora il simbolo più visibile della divisione della Germania secondo le linee già segnate dalla guerra fredda. La tensione fra Cuba e gli Usa: ma in questo periodo il confronto più drammatico fra le due superpotenze ebbe per oggetto l’isola di Cuba, dove si era affermato il regime socialista di Fidel Castro. La presidenza di uno Stato ostile a meno di duecento chilometri dalle coste della Florida fu sentita negli Stati Uniti come una minaccia alla sicurezza del paese. Per questo, Kennedy tentò di soffocare il regime cubano, sia boicottandolo economicamente, sia appoggiando i gruppi di esuli anticastristi che tentarono, una spedizione armata nell’isola. Lo sbarco, che ebbe luogo in una località chiamata Baia dei porci e che avrebbe dovuto suscitare un’insurrezione contro Castro, si risolse però in un totale fallimento e in un gravissimo scacco per l’amministrazione Kennedy. La crisi dei missili: nella tensione così creatasi si inserì l’Unione Sovietica, che non solo offrì ai cubani assistenza economica e militare, iniziò l’installazione nell’isola di alcune basi di lancio per missili nucleari. Quando, le basi furono scoperte da aerei-spia americani, Kennedy ordinò un blocco navale attorno a Cuba per impedire alle navi sovietiche di raggiungere l’isola. Ma alla fine Kruscev cedette e acconsentì a smantellare le basi missilistiche. In cambio gli Stati Uniti si impegnavano ad astenersi da azioni militari contro Cuba e a ritirare i loro missili nucleari dalle basi Nato in Turchia. Il dialogo Usa-Urss: lo scontro mancato dell’ottobre 1962 riaprì la strada del dialogo fra le superpotenze. Nell’agosto del 1963 Usa e Urss firmarono un trattato per la messa al bando degli esperimenti nucleari nell’atmosfera. Nello stesso periodo entrò in funzione una linea diretta di telescriventi fra la Casa Bianca e il Cremlino, che serviva a scongiurare il pericolo di una guerra “per errore”. La caduta di Kruscev e la morte di Kennedy: nell’ottobre del 1964 Kruscev fu estromesso da tutte le sue cariche e sostituito da una nuova “direzione collegiale”. Pesarono nel suo siluramento le divisioni interne al gruppo dirigente. Ma pesò soprattutto il fallimento dell’incauta sfida lanciata al mondo occidentale da leader sovietico, che era giunto a promettere al suo popolo il raggiungimento, nel giro di un decennio, di un livello di vita superiore a quello dei paesi capitalistici più sviluppati. Un anno prima era scomparso tragicamente l’altro protagonista della scena internazionale dei primi anni ’60. Il 22 novembre 1963 Kennedy fu ucciso a Dallas, nel Texas, in un attentato di cui non raggiunse mai a scoprire i mandanti: il primo di una serie di omicidi politici che contribuirono a imprimere un segno di inquietante violenza su tutta la fase della storia degli Stati Uniti. A Kennedy subentrò il vicepresidente Lyndon Johnson, che riuscì a tradurre in atto e ad ampliare alcune importanti progetti in materia di legislazione sociale e di diritti civili avviati in epoca kennediana. Johnson finì col legare il suo nome soprattutto allo sfortunato impegno americano nella guerra del Vietnam. L’intervento americano in Vietnam: per oltre dieci anni gli Stati Uniti furono coinvolti in una guerra, questa volta con dispiegamento di armi ed eserciti, nel lontano Vietnam. Un conflitto combattuto sempre in nome della lotta contro il comunismo, che logorò la superpotenza americana economicamente e militarmente, ne sfigurò l’immagine e ne divise profondamente l’opinione pubblica. Dopo il ritiro della Francia dalla penisola indocinese, gli accordi di Ginevra del ’54 avevano diviso il Vietnam in due repubbliche: quella del Nord, retta dai comunisti di Ho Chi-minh; e quella del Sud, governata da un regime semidittatoriale appoggiato dagli Stati Uniti che cercavano di sostituire la loro influenza al dominio francese. Contro il governo del Sud, si sviluppò un movimento di guerriglia, il Vietcong, guidato dai comunisti e sostenuto dallo Stato nord- vietnamita. Preoccupati dalla prospettiva di un’Indocina comunista, gli Stati Uniti inviarono nel Vietnam del Sud un contingente di “consiglieri militari” che, si ingrossò fino a raggiungere la consistenza di 30 mila uomini. L’escalation militare: sotto la presidenza Johnson la presenza Usa in Vietnam compì un salto qualitativo, trasformandosi in aperto intervento bellico. Nell’estate del 1964, in risposta a un attacco subìto da due navi da guerra statunitensi nel Golfo del Tonchino, il presidente, con l’autorizzazione del Congresso, ordinò il bombardamento di alcuni obiettivi militari nel Vietnam del Nord. In seguito, i bombardamenti divennero sistematici, mentre crescevano continuamente le dimensioni del corpo di spedizione impegnato nel Sud, che giunse a contare, oltre mezzo milione di uomini. La continua dilatazione dell’impegno militare americano non fu però sufficiente a domare la lotta in Vietcong, che godevano di vasti appoggi fra le masse contadine, né a piegare la resistenza della Repubblica nordvietnamita che, continuò ad alimentare la guerriglia con armi e uomini. La protesta contro la guerra: negli Stati Uniti, il conflitto vietnamita apparve ai settori più progressisti dell’opinione pubblica come una guerra fondamentalmente ingiusta, contraria alle tradizioni della democrazia americana. Vi furono imponenti manifestazioni di protesta e molti giovani in età di leva rifiutarono di indossare la divisa. Anche fuori dagli Usa le ripercussioni furono vastissime. I successi dei Vietcong: all’inizio del ’68, i Vietcong lanciarono contro le principali città del Sud una grande offensiva che, pur non ottenendo risultati decisivi, mostrò tutta la vitalità della guerriglia. In marzo Johnson decise la sospensione dei bombardamenti sul Nord e annunciò contemporaneamente la sua intenzione di non ripresentarsi alle elezioni di quell’anno. Il suo successore avviò negoziati ufficiali con il Vietnam del Nord e con i rappresentanti del Vietcong, e ridusse progressivamente l’impegno militare americano. Ma nel contempo allargò le operazioni belliche agli Stati confinanti, il Laos e la Cambogia, dove pure erano attivi i movimenti di guerriglia comunisti, nel tentativo di tagliare ai Vietcong le vie di rifornimento. La sconfitta degli Usa e l’Indocina comunista: solo nel gennaio 1973, americani e nordvietnamiti firmarono a Parigi un armistizio che prevedeva il graduale ritiro delle forze statunitensi. Dopo l’inizio del ritiro americano, la guerra continuò per oltre due anni: fino a quando, il 30 aprile 1975, i Vietcong e le truppe nordvietnamite entrarono a Saigon, capitale del Sud, mentre i membri del governo, assieme agli ultimi consiglieri e al personale dell’ambasciata Usa, abbandonavano precipitosamente la città. Pochi giorni prima, i guerriglieri comunisti cambogiani avevano conquistato Phnom Penh, capitale della Cambogia, cacciandone il governo filoamericano. Tre mesi dopo era il Laos a cadere nelle mani dei partigiani del Pathet Lao. Tutta l’Indocina era così diventata comunista. l’Urss di Breznev: mentre nella superpotenza americana si logorava nell’avventura vietnamita, l’Unione Sovietica doveva ancora una volta confrontarsi con le inquietudini dei paesi satelliti dell’Europa orientale. Il gruppo dirigente salito al potere dopo l’allontanamento di Kruscev, raggiungere i livelli di brutalità dell’era staliniana, la repressione di ogni forma di dissenso, che colpì in particolare gli intellettuali. In economia, fu varata una riforma che accordava alle imprese più ampi margini di autonomia, ma i risultati non furono brillanti e l’Urss vide in questo periodo accentuarsi il suo distacco rispetto ai paesi occidentali. In politica estera, la linea della coesistenza con l’Occidente non fu mai messa in discussione, ma si accompagnò a una più decisa politica di riarmo che assorbì quote crescenti del bilancio, a scapito del tenore di vita dei cittadini. E soprattutto fu ribadito con i fatti il vincolo di subordinazione che doveva legare allo Stato-guida i paesi satelliti dell’Europa orientale: solo la Romania, sotto la guida di Nicolae Ceausescu, riuscì a conquistare una certa autonomia, sia sul piano delle scelte economiche sia su quello della politica internazionale, ma senza mettere in discussione le strutture interne del regime. i dirigenti sovietici si mostrarono invece intransigenti nei confronti del più ampio e interessante esperimento di liberalizzazione mai tentato fino ad allora in un paese del blocco sovietico: quello avviato in Cecoslovacchia all’inizio del ’68 e culminato nella cosiddetta primavera di Praga. La “primavera di Praga”: nel gennaio 1968 salì alla segreteria del Partito comunista cecoslovacco Aleksander Dubcek, leader dell’ala innovatrice. Premuto da un’opinione pubblica in fermento, appoggiato con entusiasmo dagli intellettuali, dagli studenti e dagli stessi operai, Dubcek varò un programma che cercava di conciliare il mantenimento del sistema economico socialista con l’introduzione di elementi di pluralismo economico e soprattutto politico e con più ampia libertà di stampa e di opinione. Fra la primavera e l’estate del ’68, la Cecoslovacchia visse dunque una stagione di radicale rinnovamento politico e di grande fermento intellettuale, che parve dar corpo all’ideale di un “socialismo dal volto umano”. A differenza del moto ungherese del ’56, l’esperienza cecoslovacca del ’68 fu sempre controllata dai comunisti e non mise mai in discussione la collocazione del paese nel sistema di alleanze sovietico. L’intervento sovietico e la “normalizzazione”: il 21 agosto 1968, reparti corazzati dell’Urss e di altri paesi del Patto di Varsavia occuparono Praga e il resto del paese. Non vi fu in questo caso una reazione armata; ma solo un efficacie resistenza passiva contro gli occupanti, mentre un congresso clandestino del partito tenuto in una fabbrica di Praga confermava nel loro ruolo i dirigenti riformisti, vanificando il tentativo sovietico di insediare un nuovo gruppo dirigente. Ma fu un successo di breve durata: costretti in un primo
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