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Lotte Operaie e Sindacati nell'Anno degli Operai (1959-1968) - Prof. Marino, Appunti di Storia Contemporanea

Il ruolo delle operai, dei partiti e dei sindacati durante gli anni del cosiddetto 'anno degli operai' in italia, dal 1959 al 1968. La crescita dell'economia italiana, la trasformazione della manodopera, il primo centro-sinistra e la crescente radicalizzazione delle lotte operaie e studentesche. Vengono discusse le conferenze operaie, la spinta a sinistra e la risposta dei partiti e sindacati.

Tipologia: Appunti

2011/2012

Caricato il 18/07/2012

robydilernia
robydilernia 🇮🇹

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Scarica Lotte Operaie e Sindacati nell'Anno degli Operai (1959-1968) - Prof. Marino e più Appunti in PDF di Storia Contemporanea solo su Docsity! Lotte operaie, partiti, sindacati, in “Per il ‘68”, numero 17/18, 1999. Lotte operaie, partiti, sindacati Sergio Dalmasso Prima del 1969 L’ “'anno degli operai” ha radici lontane. La crescita dell’economia italiana negli anni ‘50 e nei primi ‘60 avviene con forte spostamento di manodopera dal settore primario al secondario e terziario, con industrializzazione accelerata, con afflusso di capitali stranieri, con l’apertura delle frontiere e la creazione della Comunità economica europea che colpisce le più deboli tra le piccole e le medie imprese. A partire dai primi anni ‘60 anche l’Italia conosce fenomeni (tendenze inflazionistiche, deficit delle bilance commerciali e dei pagamenti) che spingono ad ipotizzare il ruolo di regolazione dello Stato: la fine del centrismo e il contrastato nascere del centro-sinistra coincidono con grandi mobilitazioni di massa (la protesta contro il governo Tambroni e il fascismo) e con le istanze dei settori più dinamici del capitale. Per paradosso, è l’ingegner Valletta, l’uomo della repressione antioperaia, ad auspicare la nuova formula politica, criticando gli atteggiamenti retri vi di parte della Confindustria verso le organizzazioni sindacali1. Il primo centro-sinistra punta su un progetto di graduale trasformazione e di superamento dell’arretratezza italiana: fine dello sviluppo duale tra nord e sud, rafforzamento del settore statale e parastatale (ENEL, IRI, ENI), politica di pianificazione, riforma delle strutture dello stato (regioni), politica dei redditi, cioè crescita parallela tra produttività e salari e controllo del volume degli investimenti e dei consumi. L’oggettivo fallimento dell’ipotesi riformatrice della nuova formula governativa è segnata anche dalla crescita esponenziale delle lotte operaie. Nel 1959, nella sorpresa generale, riparte l’agitazione di fabbrica per il contratto nazionale dei metalmeccanici. Sciopera anche, dopo anni, la FIAT. “Nelle lotte sindacali del ’59 non è facile intravedere che il vento sta cambiando. La classe operaia italiana sembra ancora sulla difensiva. D’altra parte, la situazione economica non è ancora sfociata nel boom; e quella politica, ferma al governo Segni, pare anzi promettere il peggio”2. Gli anni successivi vedono un 'ulteriore crescita di conflitti con apice nel ‘62 per il nuovo contratto dei metalmeccanici e per le divisioni nel fronte padronale legate all' avvento del centro- sinistra. Nuovo calo dal ‘63 di scioperi e del numero dei lavoratori che vi partecipano, a causa delle divisioni tra le forze sindacali e di fenomeni recessivi. Picco, invece, nell’autunno ‘66 per il contratto dei metalmeccanici. La chiusura è deludente: modesti aumenti salariali e scarsi ritocchi normativi. Forte però la partecipazione operaia e comportamento radicale della FIM-CISL che “scavalca a sinistra” la CGIL, proponendo scandalosamente la prosecuzione degli scioperi anche durante le trattative. Se i metalmeccanici chiedono la contrattazione articolata, questa contrasta con ipotesi “concertative”. Nel luglio ‘62, il protocollo Intersind, firmato dai sindacati, ha fissato i diversi livelli di contrattazione: nazionale, di settore e di azienda e sempre più forte è la spinta per quell’ “accordo quadro” che molti settori di sinistra leggono come una gabbia per la totale integrazione del movimento operaio. Radicale la critica alle scelte sindacali da parte di consistenti spinte esterne. L’analisi di Quaderni rossi e Classe operaia, nelle profonde diversità, ipotizza una maturità e alterità della lotta operaia tali da non essere più rappresentata dalle formazioni ufficiali. 1 Cfr. l’intervista al “Messaggero”, 26 giugno 1963. Tredici anni dopo, Giovanni Agnelli, in un’altra importante intervista, dirà di non temere la partecipazione dei comunisti al governo. Un mutamento, per quanto graduale delle scelte confindustriali, si avrà anni dopo con i “giovani turchi” (1970: proposta di riforma da parte di Pirelli, 1974: presidenza Agnelli). 2 A. Accornero, Le lotte operaie degli anni 60, in “Quaderni di rassegna sindacale”, n. 31-32, luglio-ottobre 1971, p. 113. 1 Netta la svolta delle ACLI, le cui posizioni iniziano a radicalizzarsi e ad abbandonare il collateralismo con la DC. Non decolla, ben prima del fallimento dell’unificazione PSI-PSDI, l’ipotesi del “sindacato socialista”. Nel gennaio ‘67, grossa divisione nella CGIL sul voto al Piano Pieraccini. I sindacalisti socialisti e comunisti presenti in parlamento si astengono, quelli del PSIUP votano contro la “programmazione capitalistica”. È la prima ed unica volta che i sindacalisti del PCI esprimono alla Camera un voto differente da quello del loro partito. Se il progetto di riforme del PSI non ottiene risultati e il partito paga la sua collocazione subordinata nel governo, lo stesso PCI incontra difficoltà nel suo tradizionale radicamento nelle fabbriche. Le conferenze operaie di partito che si svolgono negli anni ‘60 segnano un calo di iscritti e di intervento diretto (spesso delegato al sindacato), una carenza nella comprensione delle modificazioni strutturali. La sinistra del partito che tenta, su questo tema, una forzatura è isolata e sconfitta: “Cercammo di fare delle lotte operaie l’asse di una nuova azione di massa affermando che il capitalismo, proprio perché si stava sviluppando, doveva essere aggredito nei suoi punti nevralgici, che la tendenza sarebbe stata una sempre maggiore concentrazione di realtà operaie, e che questo doveva diventare l’asse fondamentale della politica di massa del partito. Questa tematica, che fu attaccata per operaismo, fu al centro della conferenza operaia del 1960- ‘61 del PCI. Contemporaneamente e successivamente vennero qualificandosi i contenuti di questa lotta operaia; cercammo cioè di darle un contenuto qualificante di potere”3. Più agile il PSIUP che conosce il suo periodo migliore. La scarsa centralizzazione, la differenza fra le varie generazioni di militanti, il collocarsi in frontale contrapposizione al centro- sinistra, lo caratterizzano come la formazione che più sembra rappresentare la nuova radicalità operaia. Molte realtà, soprattutto quella piemontese, si tingono di operaismo. Prima dell’autunno Già l’ “anno degli studenti” è segnato da forti spinte operaie. L’episodio che simbolizza la fine del paternalismo nel Veneto bianco è, il 19 aprile ‘68, l’abbattimento della statua di padron Marzotto, a Valdagno, nel mezzo di uno scontro sindacale durissimo che coinvolge l’intero gruppo. Nella primavera, scioperi alla FIAT, alla Montedison di Marghera, alla Pirelli, alla S. Gobain di Pisa che anticipano contenuti egualitari propri dell’anno successivo. Nella non operaia Roma, dura mesi l’occupazione dell’Apollon che sembra emblema dell’estendersi geografico della protesta. L’elemento centrale dello scontro è la legge sulle pensioni. La proposta governativa sembra avere inizialmente il consenso dei sindacati, ma la CGIL si irrigidisce e proclama lo sciopero nazionale per il 7 marzo. È questo uno dei temi centrali delle elezioni politiche (affermazione di PCI e PSIUP, scacco dell’unificazione socialista che prelude alla nuova scissione dell’anno successivo). Al nodo pensioni si somma l’esplosione della vertenza contro le “gabbie salariali”. È una tipica vertenza sindacale che mira a parificare le condizioni economiche e normative di tutti i lavoratori, superando in tempi brevissimi, le sei fasce in cui è diviso il paese e assume un forte contenuto meridionalista. Per la sinistra: “perfino la scienza economica nega oggi che i bassi salari possano incentivare gli investimenti: infatti è vero il contrario”4. A dicembre ‘68 si firma l’accordo per il superamento delle “gabbie” nelle industrie statali. Nel marzo ‘69, l’accordo è firmato anche per quelle private. Secondo il presidente di Confindustria, Costa, la mediazione del ministro Brodolini è stata parziale e lesiva delle libertà di contrattazione fra le parti. 3 L. Magri, Le origini del Manifesto, seminario di Rimini, 1973, pubblicazione interna, p. 17. 4 V. Foa. dichiarazione al “Giorno”, 12 novembre 1968. Scrive lo stesso Foa: “L'Italia a fette è un’ingiustizia sociale che non avendo giustificazioni produttive, fornisce un motivo in più alle lotte nelle zone arretrate e specialmente al sud” in S. Turone, Storia del sindacato in Italia, Bari, Laterza, 1973. p. 449. 2 teme di allontanare i lavoratori più professionalizzati. Per Gino Giugni, la proposta è discutibile, evoca velleità egualitaristiche e da comunismo cinese, ma diventa simbolo politico di partecipazione9. Contemporaneamente, la vertenza contrattuale supera definitivamente strutture operaie radicate nel tempo come le commissioni interne, a favore dei consigli di fabbrica, strumenti di partecipazione di base, meno soggetti a burocratismo e dei delegati che vengono eletti direttamente, inizialmente senza alcun filtro sindacale. Complesso e non univoco il rapporto con le organizzazioni sindacali, anche su questo terreno costrette a rincorrere. Il 19 novembre, grande sciopero in sostegno della politica di riforme, a cominciare da quella della casa. La spinta all’unità sindacale e la pressante richiesta di cambiamenti che investono frontalmente il quadro politico fanno pensare che il sindacato possa coprire il tradizionale spazio dei partiti. Da qui le ricorrenti accuse di “pansindacalismo”, di una supplenza, cioè, rispetto alle carenze del quadro politico. A Milano, dopo il comizio del segretario della CISL, Storti, la polizia carica il corteo degli “extraparlamentari”. Negli scontri, muore l'agente di polizia Antonio Annaruma. Segue la prima grande reazione di destra, con caccia all’estremista, ma soprattutto con ricomposizione di settori conservatori e moderati. La manifestazione nazionale dei metalmeccanici (Roma, 28 novembre) segna la maggiore prova di forza dei lavoratori e del movimento sindacale. Due settimane dopo, le bombe di Piazza Fontana e il successivo “suicidio” del ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli causano una spirale di repressione e l’inversione della spinta politica manifestatasi per tutto l’autunno. La conclusione del contratto dei metalmeccanici sembra stemperare parzialmente le tensioni e, al tempo stesso, limitare una estensione politica della spinta sindacale. L’accordo, raggiunto prima con l’INTERSIND e quindi con la Confindustria, riduce l’orario settimanale a 40 ore, limita gli straordinari, introduce l’assemblea in fabbrica durante l’orario di lavoro. Indubbio il successo sindacale (la Confindustria accusa il ministro Donat-Cattin di mediazione non neutrale) che sembra nascere dall’intreccio tra battaglia per nuovi equilibri nei rapporti di lavoro, inserimento delle rivendicazioni di categoria in una pressione per riforme sociali complessive, utilizzo dell’unità di base per unità organica tra le confederazioni. I mesi successivi, le denunce contro tanti attivisti, la pressione della destra iniziata dopo l'attentato di Piazza Fontana, lo scacco della politica di riforme, la non conclusione dell’unità che pareva in dirittura d'arrivo, gli stessi risultati elettorali delle amministrative (giugno 1970) testimonieranno la non immediata trasposizione a livello complessivo della protesta di fabbrica e l'inizio di una fase involutiva. È ovvio, comunque, che: - l’autunno italiano segni, per il numero e la portata dei conflitti sociali, una combattività operaia unica in Europa; - le forme di lotta, la loro radicalità e i loro contenuti mettano in discussione la tradizionale impostazione del sindacato e anche quella dei partiti che, tutti, vengono parzialmente scavalcati; - l’aspirazione all’unità sindacale manifesti una forte spinta di base e la necessità di uno strumento di azione politica di classe; - la richiesta di cambiamento diretta alle forze politiche ottenga risposte anche se solo parziali10. Segni tangibili di queste contraddizioni sono le scelte di PSI, PCI e PSIUP. Quest’ultimo, ormai all'inizio della parabola discendente della propria breve storia, davanti alla ondata repressiva seguita all'attentato di Piazza Fontana, decide, il 10 gennaio 1970, una autodenuncia pubblica per sollecitare l’intera sinistra e anche il mondo culturale e la società civile tutta: “Contro la repressione: se la lotta di classe è un reato, il PSIUP ne è corresponsabile ... La repressione in atto ... è diretta a combattere la lotta di classe e le organizzazioni tutte politiche e 9 G. Giugni, L’autunno caldo, in “Il Mulino”, gennaio-febbraio 1970. 10 Cfr. per un tentativo di bilancio del “dopo autunno caldo”, G. Couffignal, I sindacati in Italia, Roma. Editori Riuniti, 1979, che giudica del tutto inedita, nel panorama europeo, l’esperienza italiana e analizza le nuove domande della classe, la risposta sindacale e politica alle richieste operaie tramite le riforme di struttura, le ipotesi - poi fallite - di unità e la stagione in cui il sindacato si caratterizza come protagonista del sistema politico. 5 sindacali che la promuovono e la coordinano ... Se la lotta di classe e la propaganda e l’incitamento all’azione politica per il rovesciamento degli attuali rapporti di classe sono considerati reati, il CC del PS/UP ne è solidalmente corresponsabile e ne è promotore”11. L’ autodenuncia non produce gli effetti sperati. Il partito è, ormai, privo di validi riferimenti nel movimento degli studenti e, anche in fabbrica, i gruppi hanno assunto posizioni più radicali e nette delle sue. Il PSIUP, privo di una fisionomia precisa, pressato tra spinte di movimento, operaismo e una dirigenza che appare come burocratica e filosovietica, perde progressivamente il proprio ruolo politico, incamminandosi verso lo scioglimento. Il PSI tenta un rilancio della propria presenza in fabbrica (avranno, però, poco spazio i Nuclei Aziendali Socialisti N AS) e ripropone un proprio ruolo riformatore che pure, nonostante l’approvazione dello Statuto dei diritti dei lavoratori la cui paternità è attribuita a Giacomo Brodolini, non riesce a modificare gli equilibri di governo. Nel PCI, si manifesta la più significativa fronda di tutto il dopoguerra. Il ‘68 chiede i conti anche al più grande partito comunista dell’occidente capitalistico. Dall’estate' ‘68, un gruppo di quadri di area ingraiana inizia a chiedere una ridiscussione ed un mutamento di politica su tre grandi questioni: le scelte internazionali, con giudizio critico sull’URSS e rivalutazione della rivoluzione culturale cinese, lo sbocco da dare alle lotte operaie e studentesche in Italia, considerata uno dei poli di un possibile rilancio rivoluzionario, la democrazia interna al partito, con richiesta esplicita di riconoscimento di posizioni critiche. La risposta del gruppo dirigente comunista, nonostante un tentativo di mediazione di Enrico Berlinguer, dal febbraio ‘69 di fatto leader del partito, è negativa su tutti i punti. L’uscita - giugno ‘69 - della rivista Il Manifesto, fondata e diretta da Natoli, Rossanda, Pintor, Caprara, Magri è letta come frazionistica: il problema politico diviene immediatamente questione disciplinare. Il gruppo del Manifesto è radiato nel mese di novembre, proprio in coincidenza con la fase più acuta delle lotte contrattuali, quasi a significare un distacco di PCI e sindacato dal tentativo di dare a queste una dimensione politica capace di uscire dai limiti della strategia riformista. Dopo la radiazione, il Manifesto si colloca nell’area della nuova sinistra, in una posizione più attenta, rispetto a tanti gruppi - Lotta Continua e Potere Operaio sono nati pochi mesi prima12 -, alle contraddizioni e alle posizioni della sinistra storica, quasi tentando un contatto fra la storia del movimento operaio italiano e le emergenze uscite dal nuovo “biennio rosso”. Per la rivista e la formazione politica che ne prende il nome, la lotta di massa ha aperto potenzialità a cui non hanno corrisposto l’analisi e l’iniziativa di tutte le forze tradizionali. I delegati possono costituire una nuova forma di democrazia operaia (anche di qui il legame con l'analisi storica sui Consigli, oggi più di ieri, in occidente più che altrove, fondamento di un autentico processo rivoluzionario). Il dopo-contratti, per il Manifesto impone di socializzare le lotte, di trasformare spinte (casa, scuola, salute, trasporti, fisco ... ) tradizionalmente interne all'orizzonte riformi sta, in scontri che abbiano come controparte il potere capitalistico nel suo insieme. Occorre rifiutare come vincolante il quadro di compatibilità del sistema, avere come vincolanti, al contrario, i bisogni delle masse uscendo dalla concezione dell’interesse nazionale. Mai partiti e sindacati hanno messo in discussione le basi dell'ordinamento giuridico: l’iniziativa privata, il profitto capitalistico, l’ordinamento giuridico: “Il riformismo, per la sua fiducia negli organi istituzionali e il rispetto della legalità borghese, ha sempre concepito le lotte sociali come movimenti di opinione che premono sulle forze politiche e le assemblee rappresentative. Per questo il movimento è sempre stato troppo generico e disarticolato per consentire una partecipazione di massa, e insieme troppo direttamente strumentalizzato dalla lotta elettorale per poter far crescere momenti davvero unitari”13. Aumento di partecipazione, crescita del peso sindacale, anche se fallirà l’unificazione e le tre confederazioni non diverranno quel soggetto politico che l’autunno caldo aveva fatto pensare, 11 In S. Miniati, PSIUP 1964-1972: vita e morte di un partito, Roma, Edimez, 1981. 12 Cfr. anche per la diversa analisi, fra i due gruppi, sulla situazione e sull'organizzazione, D. Giachetti. Il giorno più lungo, la rivolta di corso Traiano, Pisa, Biblioteca Franco Serantini, 1997. 13 L. Magri. Dalla fabbrica alla società, in “Il Manifesto”, n. 3-4, marzo-aprile 1970. 6 riconferma delle scelte gradualiste nella sinistra storica, mancata trasposizione della spinta operaia in equilibri politici e istituzionali, diverse strategie nella stessa nuova sinistra che non riesce, comunque, a “sfondare” nei settori egemonizzati da PCI e sindacato. Così si chiude l’ “anno degli operai”, lasciando aperti tutti i nodi (strategia riformista o rivoluzionaria, presenza nei sindacati o strade alternative, rapporto con la sinistra storica, risposta alla strategia della tensione) che caratterizzeranno il decennio successivo, quello in cui si bruceranno le speranze di una trasformazione radicale del paese. 7
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