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APPUNTI DIRITTO INTERNAZIONALE - FODELLA/FASOLI, Sbobinature di Diritto Internazionale

Sbobinature ordinate delle lezioni di diritto internazionale (anno 2020) del professore Alessandro Fodella e della professoressa Elena Fasoli. Trattazione di tutti gli argomenti funzionali per l'esame.

Tipologia: Sbobinature

2019/2020

In vendita dal 28/08/2020

Serafino.Malossi
Serafino.Malossi 🇮🇹

4.5

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Scarica APPUNTI DIRITTO INTERNAZIONALE - FODELLA/FASOLI e più Sbobinature in PDF di Diritto Internazionale solo su Docsity! DIRITTO INTERNAZIONALE Il concetto tradizionale di diritto internazionale è quell’insieme di norme che regolano i rapporti tra gli Stati. È anche detto diritto dell’ordinamento della comunità degli Stati (o anche sovranazionale). Si preferirebbe internazionale in quanto è un diritto che regola un rapporto tra soggetti che sono sullo stesso piano; non è un diritto imposto dall’alto per cui “sovranazionale” suggerisce l’idea che sia sovraordinato agli Stati e ciò induce in errore. È il diritto che regola il rapporto tra Stati dal punto di vista soggettivo (in quanto SOLO tra Stati) e dal punto di vista oggettivo (in quanto regolava esclusivamente quello che poteva essere un rapporto interstatale, ad es. relazioni diplomatiche). C’è stata una grande espansione dal punto di vista soggettivo. Non parliamo più solo di Stati, oggi, esistono svariati attori all’interno dell’attività internazionale che si affiancano agli Stati. Alcuni li affiancano come soggetti veri e propri, mentre altri hanno un ruolo in passato sconosciuto (imprese, individui, comunità indigene). L’espansione si ha anche dal punto di vista oggettivo. Non si parla più solo di rapporti tra Stati, ma anche di questioni che in origine erano solo di rilevanza interna agli Stati. Se immaginiamo metaforicamente il diritto internazionale come insieme di regole che connette i vari Stati, oggi, questo inizia a penetrare all’interno dei singoli Stati. Si occupa, quindi, di questioni interne ai singoli Stati. Ciò succede, ad es., quando ci si inizia ad occupare di diritti umani (non è più una relazione tra Stati). Si inizia a regolare ciò che avviene all’interno. Un altro esempio è che si afferma un diritto internazionale penale con norme che disciplinano questioni penali interne agli stati. Ancora, la questione ambientale (l’affermarsi cioè di una serie di norme riguardanti le risorse dell’ambiente che prima erano escluse). Questa evoluzione si è anche avuta grazie:  all’affermazione delle Organizzazioni internazionali (UE, Nazioni Unite ecc.), cioè organizzazioni che in qualche modo ricevono dagli Stati una piccola parte della loro sovranità e dunque a loro volta possono agire (ad es. adottando normative che penetrano all’interno dei singoli Stati);  al fenomeno della “globalizzazione”. Il fatto che dal punto di vista geopolitico gli stati siano diventati interdipendenti. La società degli albori era fatta di Stati che se volevano potevano anche vivere tendenzialmente isolati (in maniera autosufficiente). Quindi il diritto internazionale diviene il diritto che regola la relazione simbiotica tra gli Stati. (es.) L’ASIL incrementa costantemente il catalogo di “International Law: 100 ways it shapes our lives”, ossia di esempi in cui il diritto internazionale influisca sulle nostre vite. Essi sono organizzati in sette capitoli: daily life, leisure, travel, commerce, health and environment, personal liberty, and public safety and security. Quando parliamo di diritto internazionale, si cita il diritto internazionale pubblico perché ne esiste anche uno privato. Il diritto internazionale privato è quell’insieme di regole del diritto interno di ciascuno Stato che regola i rapporti nei quali vi è un elemento di internazionalità (ad es. contratto o matrimonio tra cittadini di due Stati diversi). Vi sono alcune caratteristiche essenziali del diritto internazionale: A. FUNZIONE LEGISLATIVA :  La Comunità di Stati è composta da soggetti posti tutti sullo stesso piano (superiores non ricognoscentes) e quindi non riconoscono nessuna autorità superiore. È una società a struttura “orizzontale” (in quanto il diritto internazionale fa da tessuto connettivo che collega sullo stesso piano tutti questi soggetti) (≠ strutture con autorità superiori, verticistiche, si tratta di strutture piramidali in quanto noi singoli soggetti siamo sottoposti ad una autorità che pone il diritto);  Le norme sono prodotte dai consociati stessi (≠ Parlamento che fa le leggi e i singoli le seguono). Le norme nel diritto internazionale si formano grazie alla partecipazione da parte degli Stati alla formazione delle norme. Senza partecipazione dei consociati, le norme non vengono ad esistere;  Le fonti internazionali sono: trattati (conclusi dagli Stati e vincolano solo gli Stati che ne fanno parte, quindi è escluso chi ne resta fuori) e consuetudini (la partecipazione dei consociati al processo formativo, a differenza del trattato gli Stati non si pongono attorno ad un tavolo a decidere le norme del dettaglio in quanto essa riguarda un diritto che si sviluppa spontaneamente); B. FUNZIONE GIUDIZIALE :  Cambia la funzione giudiziaria (rispetto alle funzioni di ciascuno Stato). Necessito in tal caso della partecipazione dello Stato. La funzione giudiziaria, in diritto internazionale, si dice di natura “arbitrale” (NON arbitraria). Non si intende dire che i giudici NON esistono, ma essi esistono e sono imparziali esattamente come accade negli Stati. Inoltre, NON vuole nemmeno dire che i giudizi finali non sono vincolanti (anzi è una sentenza vincolante), ma la grande differenza sta all’inizio. Cioè per innescare il procedimento giudiziale ci deve essere il CONSENSO delle parti; C. FUNZIONE ESECUTIVA :  Come si fa a costringere all’adempimento? Negli ordinamenti interni degli Stati si può costringere all’adempimento anche se il soggetto non lo desidera. In diritto internazionale NON esiste un’autorità terza superiore che possa imporre l’attuazione in modo coercitivo (essa è lasciata ai consociati). Si usa l’autotutela. Gli Stati da soli o collettivamente reagiscono alle violazioni con delle contromisure. È UN DIRITTO? Dipende! Se ci sono alcuni elementi che mancano (e sono ritenuti indispensabili), allora non è un diritto (ad es. se ritengo che per avere un diritto io debba avere attore terzo, cioè colui che impone la norma). Per altri (Fodella) è un diritto, perché:  Livello del rispetto delle norme è elevato (NON stiamo dicendo che venga rispettato sistematicamente). Si può anche banalmente dire, che tale grado di rispetto dipende dal modo d’essere del diritto in questione in quanto esso è definito dai consociati (ad es. la consuetudine si forma perché la maggior parte degli Stati la segue, quindi ho una buona fetta di Stati che si conforma ad essa). Io misuro l’efficacia di un ordinamento (di un diritto) sulla base se sia rispettato o meno;  Quando gli Stati violano il diritto internazionale, spesso si giustificano sostenendo di aver rispettato la norma magari offerta un’interpretazione ambigua o vaga della norma in esame. Quello che accade è che quando uno stato (secondo altri Stati), lo Stato presunto autore dell’illecito cerca di giustificarsi (semplicemente interpretando la norma in un modo in forza del quale lo Stato ritiene di essere conforme). Quindi la norma si “rafforza/riafferma”! Quindi se lo Stato si comporta in tal modo rafforza la norma;  La sanzione sociale (molto più importante nel diritto internazionale che nel diritto interno). Si intende, in senso ampio, il fatto che quando uno Stato non rispetta la norma (a prescindere dalla possibilità che qualcuno vi imponga qualcosa) vi sia disistima da parte degli altri consociati (tale crepa può condurre a isolamento politico, rottura di relazioni diplomatiche e così via) (esse NON sono contromisure, in quanto ciò è nelle funzioni di ogni Stato). Sul piano pratico le conseguenze sono estremamente dannose e a volte il motivo principale per cui gli Stati si muovono per prevenire le violazioni o per ritornare in una situazione comoda è tale. Ciò rende questo un diritto perché rafforza la norma. (es.) Oggi passa la notizia che il Sudan consegna al Bashir all’Aja e le varie interviste hanno evidenziato che il gesto è stato fatto perché stufi dell’isolamento politico. Le caratteristiche peculiari presentate innanzi NON rimangono nette (si vanno smussando). C’è stata, però, un’evoluzione che avvicina il diritto internazionale ad un ordinamento interno. Perché: Autodeterminazione dei popoli (presente nella Carta). L’idea di per sé è di andare a contrastare ciò che è accaduto durante le guerre quando c’erano popoli sottoposti a dominio straniero. Nella logica del mantenimento di pace e sicurezza, è logico trovare nella carta il principio che i popoli hanno il potere di scegliere liberamente il proprio assetto politico – sociale. Quello, però, che era un riferimento di ciò che era accaduto in guerra (nella Carta), quando la Carta viene adottata ciò assume significati diversi. Ci si aggrappano popoli diversi da quelli originari (colonie). Esse iniziano a rivendicare il diritto all’indipendenza. Dunque, il concetto di autodeterminazione nella carta diventa il motore per l’intero processo di decolonizzazione che determinerà la fase successiva. Arrivano sulla scena i paesi in via di sviluppo. Ciò cambia la fisionomia della organizzazione ed essa diviene una comunità globale. La presenza di questi cambia il modo in cui funziona il diritto internazionale. Innanzitutto, questi hanno esigenze diverse (rispetto ai paesi della comunità eurocentrica) e rivendicano aspirazioni diverse che spingono all’interno del processo di formazione delle norme. Si inizia a parlare di lotta alla povertà, diritto allo sviluppo. Cambiano le normative dal punto di vista SOSTANZIALE. Tale emersione cambia l’assetto dal punto di vista PROCEDURALE perché all’interno delle organizzazioni internazionali queste costituiscono la maggioranza e quindi cominciano a spingere l’attività dell’organizzazione in direzioni diverse. Come se, a un certo punto, la Comunità cambiasse il suo corso. Vengono create anche altre organizzazioni diverse dall’ONU (es. quelle di competenza regionale). Tale assetto è arricchito dal fatto che ci siano svariate organizzazioni con un raggio d’azione minore e che cercano di allargarlo. Come il Consiglio d’Europa (che darà risultati nei diritti umani), l’UE e così via. A catena la nascita di tali organizzazioni dà vita ad un effetto domino. Sempre più pezzi di sovranità sono concessi a queste organizzazioni e sempre più si espande il diritto internazionale. Si affermano dei concetti sconosciuti in termini di responsabilità penale dell’individuo in linea internazionale. Nascono “tribunali penali ad hoc” (uno sulla guerra della ex Jugoslavia e uno sui crimini commessi in Ruanda). Accanto a ciò, nascerà un accordo che creerà la Corte penale Internazionale. Altro settore è quello del commercio (es. si svilupperanno norme in cambio ambientale che limiteranno l’azione degli Stati sul proprio territorio). Ultimo elemento di evoluzione è una forte espansione dal punto di vista soggettivo (nuovi attori si affermano e contribuiscono all’espansione del diritto stesso). Cominciano ad emergere, in qualità di attori, gli individui titolari di diritti umani e di obblighi, i popoli, le imprese che assumono sempre di più. Tutto ciò contribuisce ad ERODERE il “dominio riservato” (domestic jurisdiction) (sfera di competenza statale ove lo Stato esercita sovranità totale, libera da qualsiasi ingerenza del diritto internazionale). Prima questa sfera, dove la libertà dello Stato era illimitata, era ampissima. Se lo si immagina come un nocciolo duro a riparo dal diritto internazionale, lentamente tutti i fenomeni storico-politici hanno eroso il nocciolo duro diventato sempre più piccolo al punto che oggi vi è un RIBALTO. Tanto più si è esteso il diritto internazionale, tanto più si è ridotta la domestic jurisdiction. Dal punto di vista delle potenze a livello statale, avendo illustrato il bipolarismo, oggi è difficile trovare una espressione che sintetizzi la situazione odierna. Chi ritiene che ci troviamo in unilateralismo (USA unica potenza dominante), ma ad alcuni (Fodella) pare riduttivo. È ovviamente una potenza predominante (USA), ma essendo emerse altre potenze, non si può sintetizzare il tutto con unilateralismo. SOGGETTIVITA’ INTERNAZIONALE Intendiamo la capacità di essere destinatario di norme internazionali (essere titolari di diritti e obblighi sul piano internazionale). Un soggetto in diritto internazionale ha personalità e quindi anche capacità. Egli è in grado di compiere tutti gli atti tipici del diritto internazionali (concludere accordi, essere responsabile sul piano internazionale dal punto di vista negativo, poter ricorrere davanti ad un giudice) (non è un elenco tassativo)! Altra differenza con altri sistemi è che tale concetto è FLUIDO e non assoluto, è RELATIVO. Tale soggettività varia: vi sono soggetti con soggettività piena o no ed essa può mutare nel tempo. Soggetto tipico e necessario dell’ordinamento internazionale è lo STATO. Ha soggettività PIENA e la acquista in modo ORIGINARIO. Uno Stato è composto dalla triade: autorità politica di Governo (o solo Governo) che controlla un territorio su cui si trova una determinata comunità di persone (Territorio e Popolo). In diritto internazionale, abbiamo popolo e governo, ma quale è lo Stato? Se parlo di Stato ho l’insieme di persone o l’autorità di Governo? In diritto internazionale parlando di Stato si parla di STATO – ORGANIZZAZIONE ossia dell’autorità di Governo (non la comunità di persone). Ciò lo si capisce da una serie di indizi su come funziona il diritto internazionale. Cioè gli atti posti in essere dalla gente comune NON sono attribuibili allo Stato proprio perché quando parlo di uno Stato in diritto internazionale lo identifico come autorità di Governo. Gli sono attribuibili solo gli atti degli organi dello Stato (ad es. di un diplomatico italiano). Stesso discorso sul piano della responsabilità (ad es. commette un illecito lo Stato italiano se un suo organo lo commette, si dirà “illecito dell’Italia). Non basta, in diritto internazionale, ciò. È necessario, affinchè ci sia uno Stato, che lo Stato-organizzazione eserciti effettivamente il controllo sugli altri due elementi della triade. Due riflessioni:  La struttura complessiva dello stato-organizzazione deve essere in grado di controllare le persone del territorio (sovranità interna, capacità della macchina organizzativa di Governo di controllare sul piano concreto la comunità);  Si parla, poi, di sovranità esterna o indipendenza cioè lo Stato-organizzazione deve essere indipendente sul piano formale e quindi non derivare la propria legittimazione da una autorità esterna. Deve essere quindi un ordinamento originario, autonomo. Mentre il primo è un requisito pragmatico, il secondo è formale (in quanto tutti gli Stati nel modo o nell’altro sono connessi ad altri Stati e quindi se considerassimo il fattore pragmatico non potremmo individuare nessuno Stato). A questo concetto qualcuno (Gioia) vi aggiunge anche come requisito la associabilità internazionale, capacità di relazionarsi con altri stati. Esso secondo Fodella potrebbe essere ricollegato all’indipendenza. Si parla di diverse entità sulle quali ragionare:  Governi in esilio cioè governi di stati esistenti che si trasferiscono all’estero (ad es. perché il loro territorio è occupato). Ciò accadeva spesso nella II guerra mondiale durante la quale si trovava ospitalità presso paesi alleati nel caso di invasione bellica del proprio. Diverse posizioni in merito:  (Conforti) essi non hanno soggettività. Questo dovrebbe essere logico in quanto si tratta di autorità a cui manca l’effettività (l’autorità esiste, ma si è all’estero), l’indipendenza (l’autorità di governo si trova all’estero);  (Altri internazionalisti) è una situazione temporanea quindi se riescono a reinsediarsi allora possiamo considerarli stati anche quando erano all’estero (simbolo della flessibilità delle norme internazionali). Se, ad es. prendiamo la Prima guerra del Golfo (1990-1991) allora il governo in esilio considera gran parte della comunità internazionale come rappresentante dello Stato del Kuwait in quanto tale.  Comitati o fronti di liberazione nazionale i quali sono organizzazioni che rappresentano i popoli nell’esercizio del loro diritto di autodeterminazione e sono abbastanza simili per certi versi con quanto suddetto. Essi combattono per liberare un territorio mai stato prima uno Stato. Si possono tracciare analogie. Tanto che il Conforti dice “se questi comitati non hanno controllo sul territorio, non possono considerarli come veri soggetti”. Sostanzialmente tutto sommato il Conforti li vede come governi in esilio. Lo diventano, secondo il Conforti, nel momento in cui riescono ad ottenere il controllo su una parte del territorio. Vi sono teorie diverse sulla loro soggettività;  Stati cd falliti in cui vige l’anarchia. Il Conforti è scettico. Sostanzialmente non è favorevole a riconoscere la soggettività a queste entità in quanto secondo la sua logica manca l’effettività. Quando si parla di failed state sto dicendo che c’è un’autorità che non ha controllo sul territorio. Altri autori hanno posizioni diverse. Se diciamo che in uno stato in cui c’è anarchia, questo non è uno soggetto e cessa di esistere. Ma sarebbe terra nullius in tal caso. Per cui certi autori sono più prudenti nel dire che basterebbe l’anarchia per dire che lo Stato ha cessato di esistere (ad es. Cannizzaro). Secondo questi autori dipende dal caso concreto. Ronzetti ad esempio dice che “lo Stato non cessa di esistere in quanto tale, possono considerarlo come se fosse un’occupazione bellica”. Quando c’è invasione le due entità vigono sullo stesso territorio e il diritto internazionale distribuisce vari diritti e obblighi (c’è coesistenza, ossia c’è che l’amministrazione è disgiunta dalla sovranitàlo stato occupante amministra il territorio, ma non gli si riconosce la sovranità). Ciò è in un’ottica pragmatica. Se si vieta l’uso della forza e dico che uno stato appena occupato scompareindebolisco l’uso della forza. In diritto internazionale, il divieto dell’uso della forza è sacro e quindi se vi è invasione di uno stato straniero NON dobbiamo accettarne le conseguenze (rimane in vita lo Stato e temporaneamente un’altra autorità lo amministra). Per analogia, per evitare le conseguenze disastrose (anarchia che cancella lo Stato), si crea una situazione temporanea. Ciò risponde a quello che succede nella prassi (es. stato del genere era la Somalia lungo le cui coste si sviluppano atti di pirateria marittima e si è arrivati a dire che si trattava di uno stato fallito in quanto in concreto non era garantito controllo effettivo. Per evitare di considerare come cancellato lo Stato, gli altri comunque vi intrattenevano relazioni con l’autorità governativa della Somalia di tal periodo. Anche senza il governo effettivo, il governo somalo era comunque considerato con potere). Ragioniamo sull’indipendenza. Ci sono enti che apparentemente esercitano un’autorità di governo sul territorio di una comunità, avrebbero tutto per essere considerati Stati MA non lo sono:  Enti territoriali che hanno tutte le caratteristiche teoriche dell’autorità e sempre più spesso intrattengono anche relazioni internazionali. Ci sono accordi tra entità territoriali di diversi stati.. Non li considero degli Stati perché se io vado a guardare gli ordinamenti degli Stati dell’autorità di cui parliamo esso varierà. La realtà è che questi enti NON sono mai indipendenti anche quando intrattengono relazioni apparentemente internazionali. Esse DIPENDONO sempre da una autorità centrale. Si ha un rapporto con questa in vari modi (ad es. si può agire solo dopo autorizzazione o viene chiesto che nonostante vi sia una autonomia è necessaria ratifica). Quindi NON HANNO MAI indipendenza anche nei casi più eclatanti (come gli stati degli USA). NON SONO SOGGETTI DI DIRITTO INTERNAZIONALI, bensì organi dello Stato;  Governi fantoccio entità con l’apparenza nominale di uno stato, controllo sulla comunità MA va esclusa la loro soggettività. Infatti, nei fatti, vengono controllati da un altro Stato (dipendono da questi) (ad es. si parla della Francia di Vichy durante la Seconda guerra mondiale controllata dalla Germania). Per motivi diversi era stata portata avanti dal Sudafrica nell’apartheid quando si avevano stati formalmente autonomi creati con lo scopo di segregare la popolazione di colore. All’apparenza formale sono Stati, ma completamente asserviti al potere centrale. Altro esempio, la Turchia ha occupato una parte dell’isola di Cipro definendo la Repubblica turco-cipriota. Non è considerata uno Stato, perché soggiogata alla Turchia. Altro caso Loizidou v Turchia ove la Corte ragiona proprio di ciò. La signora Loizidou ha delle proprietà in questo nuovo stato ove le verrà negato l’accesso e questa lamenta lesione del diritto alla vita privata e familiare nonché diritto di proprietà. La Convenzione europea prevede di ricorrere alla Corte Europea dei diritti umani DIRETTAMENTE senza intermediazione. Ci si deve lamentare che uno Stato abbia violato i propri diritti. La signora cita in giudizio la Turchia. Le violazioni in oggetto avvengono nella Repubblica, ma la Turchia non c’entra in quanto quello è uno stato autonomo. La Corte analizza i fatti (c’è occupazione militare e controllo pressoché completo)è un governo fantoccio quindi quello che vi accade è sotto l’ala della Turchia; Stati. Esse sono DIVERSE da uno Stato in quanto hanno soggettività internazionale LIMITATA dunque PARZIALE. E soprattutto, tale soggettività è DERIVATA dagli Stati. A cosa servono? Sono create dagli Stati (soggettività derivata) affinchè gestiscano la cooperazione interstatale in certe materie. In alcuni alcuni vi è una vera e propria delega degli Stati a tali organizzazioni di propri compiti in modo tale che siano questi a gestirli. La cooperazione interstatale c’è sempre stata, MA avveniva in modo diversogli Stati si incontravano e si accordavano su questioni. Quando gli Stati si incontravano, prima della nascita dell’ONU, restavano AUTONOMI e indipendenti, si accordavano sulle questioni, la conferenza si scioglieva. Le organizzazioni sono diverse in quanto gli Stati creano un ENTE TERZO con natura PERMANENTE che gestisce la cooperazione tra Stati GIUSTAPPONENDOSI agli Stati come ente separato. Vi sono alcune caratteristiche (elementi costitutivi) di queste: a) Create dagli Stati (detti stati membri) (Fodella preferisce stati membri di un’organizzazione, stati parte di un trattato) con trattato (accordo) in forma scritta e a livello terminologico si può chiamare “atto istitutivo/carta/accordo istitutivo”, la sostanza NON cambia; b) Sono dotate di propri compiti e proprie funzioni disciplinate dal trattato. Ciò in diversi casi implica che vi sia una corrispondenza rinuncia da parte degli Stati a gestire quelle materie che vengono attribuite come funzione all’organizzazione. Ciò NON accade sempre e comunque (ossia che ogniqualvolta vi sia la nascita di un’organizzazione, vi è anche la cessione delle prerogative di parte). Nell’ambito, ad es., dell’UE abbiamo competenze di natura diversa: esclusive (evidente la cessione delle prerogative) e concorrenti (organizzazione accanto allo Stato che mantiene le proprie prerogative). Altri esempi si hanno col Consiglio di sicurezza dell’ONU è l’organo a cui è stata data la possibilità di uso della forza (salva l’ipotesi di legittima difesa, gli Stati membri dell’ONU unendosi hanno ceduto quella parte di prerogative); c) Hanno propri compiti e funzioni e per svolgerli sono dotati di organi. GIUSTAPPOSIZIONE ORGANIZZAZIONI RISPETTO AGLI STATI appare evidente dalla composizione degli organi in alcuni dei quali NON sono rappresentati tutti gli Stati membri. Immaginiamo per assurdo a ragionare al contrario. Immaginiamo di avere un’entità astratta chiamata organizzazione internazionale. Questa è costituita da un unico organo composto da tutti gli Stati membri dell’organizzazione. Questo decide all’unanimità. Se ho queste caratteristiche possono chiamarla organizzazione, ma coincide con la somma degli Stati membri (situazione pre- ONU). Quindi:  le organizzazioni internazionali NON sono fatte di organi composti da ciascuno Stato membro (vi sono organi a composizione ristretta) (es. Consiglio di sicurezza, 15 stati membri);  in certi casi gli organi sono addirittura composti da individui che siedono a titolo personale (no legame con gli Stati);  il criterio delle decisioni per unanimità è stato abbandonato totalmente (si decide a maggioranza in linea di massima);  in certi casi i risultati dell’attività decisionale dell’organizzazione sono vincolanti. Dunque, gli Stati membri subiscono quanto deciso (in alcuni casi non c’è vincolatività normativa, ma di fatto);  esistenza di un diritto interno all’organizzazione (le organizzazioni internazionali sono regolate nel funzionamento quotidiano da ordinamenti separati) (alcuni lo hanno definito diritto amministrativo delle organizzazioni). Hanno soggettività DERIVATA e PARZIALE. Quali sono i loro atti? Va precisato che:  A differenza degli Stati NON hanno sovranità (l’ONU, ad es., che amministra territori sono territori sui quali l’ONU non ha mai rivendicato sovranità);  Da ciò la prima prerogativa delle organizzazioni: concludono accordi (primo tra tutti l’accordo di sede, se non ho sovranità su nessun territorio, devo stabilire un posto ove stanziarmi). L’ONU conclude un accordo con gli USA (sede a New York) nel quale l’ONU è singolo;  Le organizzazioni godono di immunità (di sedi e funzionari) sempre in funzione di garanzia della loro posizione di indipendenza;  Hanno, inoltre, la capacità di ottenere risarcimento nel caso di danni arrecati all’organizzazione stessa. Nasce il Caso Bernadotte. Il signor Bernadotte, funzionario delle Nazioni Unite, si reca in Israele e viene ucciso. Ciò reca un danno all’individuo e allo Stato da cui viene (Svezia). Si pone per la prima volta il problema: se le Nazioni come soggetto separato abbiano diritto o meno a un risarcimento vista la morte di un proprio funzionario. Per poter rispondere in senso affermativo si dovrebbe riconoscere soggettività all’organizzazione. Viene chiesta un’opinione consultiva alla Corte Internazionale di giustizia che prenderà la struttura dell’organizzazione, guarderà la carta, valuterà la struttura, le sue funzioni e gli organi. Arriverà alla conclusione che si tratta di un soggetto separato e distinto dagli stati e quindi in quanto tale ha diritto di chiedere risarcimento per sé stessa. Quindi essa ha una personalità internazionale, MA non equivale a dire che è uno Stato (quindi in quanto dotata di personalità internazionale ha possibilità di procedere ad un reclamo internazionali (necessario per la soluzione di controversie). Nel caso Bernadotte la Corte si impegna dicendo l’organizzazione NON è uno Stato, men che meno un superstato. Questa idea del superstato nasce dal fatto che vi sono dei casi in cui le organizzazioni adottano provvedimenti vincolanti nei confronti degli Stati. Ciò non le rende sovraordinate per alcuni motivi: il fatto che le organizzazioni derivino la propria soggettività dallo Stato NON è mutato (tutto deriva dalla volontà degli Stati che hanno liberamente deciso di aderire ai trattati istitutivi) e anche ove siano in grado di imporre la propria autorità lo fanno sempre solo se lo Stato ha aderito a ciò (tanto è vero che se lo stato non è più d’accordo fa exit). ONU È l’organizzazione internazionale più importante! Esse vengono create con la Carta dell’ONU (o anche detta di San Francisco del 26/6/1945 e entrerà in vigore nell’ottobre del medesimo anno dopo la ratifica dei cinque permanenti e della maggioranza dei paesi firmatari). Essa nasce dall’esigenze principale di creare stabilità. Il primo paragrafo del Preambolo “Noi popoli delle Nazioni Unite, decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili afflizioni all'umanità (…) abbiamo risoluto di unire i nostri sforzi per il raggiungimento di tali fini”. I promotori sono le potenze vincitrici (accanto alle quali vi sono altri cinquanta stati più o meno). Tutto ciò, ancora oggi, regola l’organizzazione nel suo complesso. L’Onu nasce primariamente per evitare lo scatenarsi di un terzo conflitto mondiale e per costituire un meccanismo per bloccare sul nascere le guerre e prevenire o reagire con prontezza all’uso della forza armata nei rapporti tra Stati OBIETTIVI E PRINCIPI FONDAMENTALI: L’obiettivo principale è mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. Ciò NON esaurisce il discorso perché come corollario possiamo avere l’obbligo di risolvere pacificamente le controversie, rispetto dei diritti umani e autodeterminazione dei popoli nonché si parla di organizzazione che si basa sulla sovrana eguaglianza degli Stati. Ognuno deve rispettare la sovrana uguaglianza dell’altro. Si parla poi di cooperazione in materia economico-sociale-culturale. Era già presente agli estensori della Carta di quanto questi elementi siano collegati tra loro e NON possono essere separati (es. se non ho tutela dei diritti umani, non posso avere garanzia della pace). Infatti, se essi non venissero rispettati ciò potrebbe generare malcontento che darebbe vita alla guerra. Inoltre, anche la povertà porta ai conflitti. Ripercorrendoli arrivo alla conclusione banale (l’ONU si occupa di tutto). Cosa è escluso? NULLA. Cioè è l’UNICA organizzazione con finalità generali. Salvo piccole eccezioni, TUTTI gli Stati sono parte (quindi tale unicità è presente anche in questo carattere). Nel 1945 gli stati che creano l’organizzazione sono preoccupati dall’idea di costruire un mostro che si occupa i tutto. Quindi all’art. 2 paragrafo 7 si dice “nulla, nella Carta, autorizza ad interferire nel dominio riservato degli Stati”. Ciò protegge gli Stati dall’ingerenza, ma poichè NON esiste un elenco tassativo del dominio riservato ciò è stato interpretato nel tempo in senso ristretto. Quindi tale protezione è diventata BLANDA. L’ONU ha lentamente contribuito ad andare ad erodere il dominio riservato. Metafora: dominio riservato come costa erosa dal mare; lo Stato è l’isolotto e il mare lentamente si mangia la costa mentre lo Stato resta attaccato alla palma al centro dell’isola. Dunque, l’ONU stessa contribuisce al fenomeno dell’erosione. STRUTTURAZIONE A LIVELLO ISTITUZIONALE Partiamo dagli Organi Principali: a. Assemblea generale, tutti gli organi si rivedono nell’Assemblea ove è rilevante la persona fisica che vi siede (lo Stato membro). Tanto è vero che se prende parola qualcuno si dice prende la parola lo Stato. è un organo composta da Stati su base PARITARIA. Si riunisce in maniera PERMANENTE tanto che concettualmente essa NON cessa di esistere mai (nonostante gli individui tornino nei propri stati) (a differenza di quanto avveniva pre-ONU con riunioni che si aprivano e scioglievano). Essa decide a maggioranza (NON unanimità) (segno dell’autonomia dagli Stati membri). Sulle questioni più delicate decide a maggioranza di 2/3. Essa adotta strumenti non vincolanti: raccomandazioni, dichiarazioni di principio. Quindi la sua essenza è il foro di discussione politica. Quindi è l’organo con la più ampia partecipazione e il più ampio raggio di azione. Non è infatti a casa la non vincolatività dell’atto costitutivo. Ci sono eccezioni in quanto ha compiti su temi importanti. Quindi decide in maniera vincolante quando approva espulsione di alcuni Stati o approva il budget. È anche tendenzialmente l’organo al quale fanno capo gli altri organi che hanno compiti più specifici (e al termine dei propri lavori presentano risultati della propria attività, i quali finiscono nell’assemblea che deve approvarli). Anche se essa agisce con strumenti di soft-law, non vincolanti, possono trasformarsi in strumenti vincolanti. Oggi nell’Assemblea hanno la maggioranza i paesi in via di sviluppo (in quanto ogni Stato un voto) ed essi sono numericamente la maggioranza. Le dinamiche politiche cambiano da organo a organo. È difficile parlare di ONU come soggetto UNITARIO in quanto il modo di funzionare degli organi fanno sì che a volte vi siano dominanti che fanno sì che alcune caratteristiche non si trovino in un altro organo (quindi si possono trovare tendenze in un organo NON presenti in un altro). Ciò è stato fondamentale per aiutare il processo di decolonizzazione (è proprio l’assemblea come organo dell’ONU che ha spinto sempre di più verso la decolonizzazione man mano che ne entravano paesi sorti dalla decolonizzazione). È anche il motivo per cui vi sono stati momenti in cui l’Assemblea si è occupata di tematiche (es. sviluppo) care a tali paesi; b. Consiglio di Sicurezza, è l’organo esecutivo. Così come tutti gli organi esecutivi dell’organizzazione, è ristretto. Vi sono quindici Stati. Ciò perché se voglio un organo che sul piano pratico agisca, non posso avere troppi Stati perché è logica comune a tutte le organizzazioni avere un organo più pratico a nucleo stretto per il rapido raggiungimento degli accordi. L’ONU però comincia ad essere anomala quando ha tecniche di voto peculiari. Infatti, cinque sono membri permanenti (USA, UK, Cina, Russia, Francia), gli altri dieci ruotano in fascia biennale e sono votati. I paesi vincitori della guerra hanno costruito un meccanismo che resta nelle loro mani e ciò in diverse parti della Carta. Se vogliono emendare l’accordo, ho bisogno del pass da parte dei fondatori. Come decide il Consiglio? A maggioranza (9/15) e vi deve essere il voto concorrente dei cinque membri permanenti. Il Consiglio NON decide con soli cinque voti, bensì con nove. Quindi NON sono SOLO i membri permanenti a decidere! Però, ovviamente, perché è necessario il voto di questi allora ciò può essere sintetizzato con il famoso diritto di veto. Esso ha vari compiti: adozione di misure sanzionatorie che in certi casi possono arrivare all’intervento armato. Vi sono discussioni in merito alla composizione, diritto di veto, compiti ma nessuna riformazione ha avuto successo. Per modificare il segretario generale nello svolgere le proprie funzioni magari si reca nello Stato e nel prendere decisioni emana un comunicato. Tale comunicato può essere critico nei confronti dello Stato. Il segretario generale (al di là del mero dato giornalistico) emana, poi, atti nei quali le considerazioni del comunicato possono divenire dichiarazioni con peso politico (rappresentano il punto di vista dell’organizzazione) (ad es. ci si può lamentare che in uno Stato non vi sia tutela dei diritti umani). Non è una sentenza di un tribunale, MA si fa sentire. Quando si parla di funzione politico – diplomatica spesso viene chiamato in causa per svolgere funzioni diplomatiche in senso stretto o aiutare le parti ad una controversia a trovare un punto di incontro. Lo si fa per la propria posizione e perché rappresenta un organizzazione importante a livello mondiale; f. Consiglio per l’amministrazione fiduciaria creato per facilitare il processo di decolonizzazione (ormai concluso) (organo caduto in desuetudine). Gli altri organi sono accorpabili tutti sotto un unico cappello. In un modo o nell’altro se sono legati alle Nazioni unite il loro cordone ombelicale si attacca all’Assemblea Generale (essendo l’organo di indirizzo politico al quale fanno riferimento tutti gli Stati). Un organo in particolare è la commissione del diritto internazionale fatta di accademici (esperti di diritto internazionale) che siedono a titolo personale. Prestano il loro servizio in ragione dell’esperienza che hanno. Essa è importante perché ha contribuito in maniera significativa allo sviluppo del diritto internazionale. Si è deciso di creare un organo tecnico di giuristi al quale affidare il compito di studiare il diritto internazionale per aiutare lo Stato nella sviluppo dell’evoluzione. La commissione ha svolto questo compito con diverse modalità:  è stato chiesto di tentare di codificare in forma scritta il diritto consuetudinario in una certa materia. Ancora oggi utilizziamo rapporti creati dalla Commissione che mettono per iscritto il diritto consuetudinario in un determinato settore;  è stata anche chiamata a sviluppare il diritto in un determinato settore. Anche in questo caso si utilizzano i lavori della Commissione quando questi han dato vita a veri Trattati. Fodella fa considerazioni: è difficile fare un discorso complessivo sulle organizzazioni. Quando ci si addentra all’interno di queste, si capisce che ci possono essere atteggiamenti diversi a seconda degli organi e della loro natura (la stessa Assemblea e Consiglio lo sono). Se si guarda alla storia dell’ONU sin ora si riconosce tale diversità d’azione di modo tale che l’Organizzazione NON si è mossa in un’unica direzione in blocco. Vi sono momenti in cui si è mossa in modo schizofrenico. Paradosso assoluto di questo processo in senso assoluto è il blocco ossia l’azione del Consiglio in gran parte del periodo successivamente post lotta tra i due blocchi della Guerra fredda. Poi la situazione si è sbloccata. Questo per sottolineare quanto detto. Si è andati al di là del disegno originale della Carta. Complessivamente l’organizzazione ha fatto passi in avanti rispetto a quanto previsto nella Carta. Prendendo, ad esempio, alcune linee direttrici attraverso il quale vi è stato tale sviluppo: o Violazioni massicce dei diritti umani sottratte alla domestic jurisdiction dei diritti umani. Storicamente è uno dei primi elementi di superamento del mero dato testuale della Carta. Ciò che accadeva all’interno di uno Stato era tradizionalmente concepito ancora come una questione di dominio riservato. Come uno Stato trattava i propri cittadini, ad esempio, era di mera rilevanza interna. Quando nella Carta si dice che “le Nazioni Unite non devono occuparsi della domestic jurisdiction” si intendeva dire anche questo. La materia della violazione dei diritti umani è sottratta alla riservatezza (ad es. si inizia a parlare di quello che sta accadendo nella Spagna di Franco o nel Sudafrica circa l’apartheid). Ciò diventa (in Assemblea generale) qualcosa di cui si può parlare; o Le violazioni dei diritti umani diventano anche una minaccia alla pace e sicurezza internazionale. Se ne può, quindi, occupare anche il Consiglio di sicurezza. Dunque, la prassi dell’Organizzazione è andata nel senso di intervenire. Il Consiglio lo ha fatto (intervenendo concretamente anche con l’uso della forza; o Conflitti armati interni (guerre civili) anch’esse cominciamo ad essere considerate come minacce alla pace e sicurezza. Oggi è scontato, all’epoca no. Prima si intendeva solamente la guerra interstatale; o Funzione di mantenimento della pace e della sicurezza interpretata in senso ampio dal Consiglio. Si inizia ad inviare forze di interposizione per mantenere o costruire la pace in un conflitto (quello che è detto peace keeping). Ciò si trasformerà in peace building (intervento teso a creare e costruire la pace). Ciò non si riconosce nella Carta. Per quanto riguarda le azioni di peace keeping ci si chiede se lo ponga in essere sulla base del capitolo sesto o settimo. Grande dibattito in dottrina anche perchè si è di fronte ad una novità; o Il consiglio ha cominciato ad agire da organo giudiziale (almeno indiretto). Attraverso la creazione di tribunali penali ad hoc successivamente al conflitto della ex Jugoslavia e in Ruanda. È difficile trovare nella Carta dell’ONU una disposizione a cui ancorare con sicurezza tale prerogativa. Essa è stata attuata su una base di interpretazione ampia; o Il Consiglio negli ultimi anni ha svolto compiti che lo avvicinano contemporaneamente a un legislatore e a un giudice (Fodella). Questo è accaduto occupandosi di antiterrorismo. Post 11 settembre ci si è occupati di terrorismo internazionali attraverso vari interventi. Nell’ambito della lotta al terrorismo internazionale il Consiglio ha iniziato a creare liste di persone sospettate di terrorismo. Le persone incluse vengono colpite da sanzioni. Di nuovo e in maniera più eclatante: non c’è nulla nella Carta che permetta esplicitamente ciò. Tali sanzioni colpiscono gli individui (non gli Stati) (per questo legislatore) e poi giudice in quanto il Consiglio senza intermediazione di un tribunale vero e proprio può stabilire sanzioni (bloccare i beni, impedire il movimento delle persone e così via). Peraltro, questo meccanismo è stato messo insieme per la lotta al fenomeno del reclutamento dei bambini – soldato. Tutti questi spostamenti in là dell’asticella hanno dei pro e dei contro. Essenzialmente a seconda dei punti di vista. Il Consiglio ha iniziato ad intervenire, ad esempio, nella violazione massiccia dei diritti umani. Tutti vogliamo vengano protetti quindi ci fa piacere? La ARBITRARIETA’ dell’azione del Consiglio è inevitabile perché c’è una dose di soggettività in quello che fa (ad esempio può avvenire in alcuni casi e non in altri). Prima di tutto vi è quindi di azioni soggettive e parziali. Rimane infatti pur sempre un organo politico. Dunque, può anche sbagliare. Per esempio, paradossalmente potrebbe decidere di intervenire dove non dovrebbe perché c’è un interesse ad intervenire in quel determinato Stato. La gelosia degli Stati nei confronti della propria sovranità NON va condannata, ma affonda le radici nella sovrana indipendenza. Ogni apertura alla possibilità per il Consiglio di intervenire è un’apertura e diminuzione di tale autonomia. L’arbitrarietà e la natura politica NON hanno correttivi (poichè non esiste controllo). Non c’è il controllo della Corte internazionale di giustizia. Nessun’ altra corte può farlo (si mantiene flessibilità). Va anche sottolineato che a volte l’intervento del consiglio è stato un intervento che ha portato a conseguenze sul piano pratico disastrose. Infatti, a volte, partecipare ad un conflitto può portare anche a peggiorare a situazione. Lo stesso vale negli atti di terrorismo attuali. Lì è evidente la mancanza del controllo. Parliamo in quel caso di provvedimenti che un Consiglio adotta avendo riversamenti sui singoli individui. Noi che viviamo in uno Stato di diritto siamo abituati al fatto che se ci viene comminata una sanzione, possiamo far ricorso. In questo caso invece se mi fermano i beni, non posso far ricorso. Tale problema è esploso in quanto si sono iniziate a adottare molte sanzioni in materia di terrorismo e si è posto il problema perché le persone che subivano le questioni non avevano soluzioni. I singoli che hanno subito tali funzioni si sono rivolti alle Corti. Il primo profilo di problematicità è che le sanzioni violavano i diritti umani. Dunque, sono stati presentati ricorsi alla Corte europea dei diritti umani e Corte di Giustizia nonché davanti ad un organo (Human Rights Committee). Le corti hanno risposto in maniera diversa, ma affrontando l’assenza del controllo sugli organi del Consiglio. Nessuna è arrivata a sindacare le decisioni del Consiglio (una corte esterna dell’UE non può sindacare sulla legittimità dell’atto del Consiglio). In alcuni casi le corti han fatto di tutto per evitare di esprimersi. Nell’ambito dell’UE si è solo detto che ci sono valori da tutelare per cui non ci si piega ossequiosi a quanto detto dal Consiglio di sicurezza. Resta questa spada di Damocle. Anche in ragione del fatto che gli obblighi che scaturiscono dalla Carta prevalgono sugli altri. In pratica si è presentato uno scontro quasi frontale tra organi che sono sul medesimo piano (vi è quindi una struttura orizzontale della società): NON c’è una Corte costituzionale che decide in merito. Non vi è nulla di sovraordinato. Va detto che si sono creati una serie di meccanismi interni per cercare di tutelare i diritti umani senza mai arrivare alla garanzia dei diritti riconosciuti internamente. Però si sono via via creati meccanismi attraverso i quali gli individui colpiti possono rivolgersi agli organi. Sono stati introdotti correttivi senza arrivare mai a sottoporre a controllo di tipo giudiziale questi diritti. Con le organizzazioni internazionali si chiude il capitolo degli attori. Apriamo adesso una parte relativa agli ATTORI NON STATALI. Parliamo di tali entità come attori non meno importanti. Questo è uno dei segnali dell’evoluzione della comunità internazionale: inizialmente composta solo da stati e poi nell’ultimo periodo si fanno sempre più sentire questi attori non statali (anche se NON soggetti). Abbiamo:  Organizzazioni non governative (Ong), sono associazioni di organizzazioni nelle quali non vi è l’elemento statale. Sono associazioni tra privati che magari hanno anche un rilievo internazionale (con sede centrale in uno Stato e altre sedi altrove). Sono associazioni che su scala internazionale si associano in un’unica associazione (es. Green Peace, Amnesty International ecc.). NON sono gli stati a farne parte, bensì le organizzazioni che riuniscono a livello internazionale varie associazioni in un’unica associazione. Esse fanno parte della Società civile, anche se spesso si confondono i due termini. Il concetto di società civile è molto più ampio. In primis non molto definito nel diritto internazionale. Il concetto in sé è un concetto NON definito che diviene sempre più importante in quanto questa società civile inizia ad avere un ruolo sempre più importante. Appoggio su cui si può fare affidamento è nell’ambito delle Nazioni unite, ove per società civile si intendono i major groups. Chi ne fa parte può partecipare ai vari incontri organizzati dall’ONU. All’interno dei major groups vi sono attori di cui le ONG sono solo un elemento. Troveremo: Ong, sindacati, donne, bambini, enti locali, accademia, popolazioni indigene ecc. È COSTANTEMENTE in evoluzione (quindi si capisce la fluidità della definizione). Perché sono importanti? Per le Ong e altri major groups essi hanno iniziato ad avere prerogative a livello internazionale. C’è un ruolo di lobbying (pressione dall’esterno) nei confronti stati e organizzazioni internazionali affinchè questi vadano in una determinata direzione. Ciò può essere al fine di adottare regolamentazione in un ambito che ne è carente (ad es. organizzazioni ambientalistiche che premono affinchè si adotti un trattato nella salvaguardia dell’ambiente). C’è anche un risvolto contrario. Cioè quando la pressione in senso lobbistico è andata in senso opposto (contrario agli interessi delle Ong). Celebre caso del tentativo dia dottare un trattato per lo sfruttamento delle risorse in Antartide. La pressione della società civile è stata talmente forte che il trattato NON è mai entrato in vigore. La pressione di tipo lobbistico è qualcosa che esse fanno dall’esterno. C’è tuttavia un modo attraverso il quale entrare all’interno delle delegazioni statali. È la prassi di alcuni stati di contemplare all’interno delle delegazione anche rappresentanti della società civile. Se vado ad un negoziato e c’è delegazione italiana allora di questa ne faranno parte solo delegati del Governo. Sempre più spesso come parte della delegazione si includono rappresentati della società civile e quando si siedono partecipano a pieno titolo al processo esecutivo. Quando parlano rappresentato lo Stato, NON la società civile. La prassi più diffusa è quella di fare attività lobbistica. Si può fare:  da lontano, usando i mass media (comunicato stampa);  da vicino, presentandosi fisicamente alle riunioni. Ciò dovuto al fatto che essi sono sempre più ammessi come OSSERVATORI all’interno dei processi decisionali. C’è per una Ong un rappresentante che siede in una stanza ove si sta decidendo di un determinato tema. Ci sono casi in cui lo status di osservatore è meramente letterale (si osserva e non si dice nulla); altre volte è sottoposti a dominio coloniale (è il motore che ha messo in moto il processo di decolonizzazione). Inizialmente è concepito come diritto di ottenere maggiore autonomia per tali ex colonie. C’è stata, però, una significativa evoluzione. Infatti, sul piano soggettivo è stato esteso ad altre situazioni (nella fattispecie anche a popoli sottoposti a dominio razzista, apartheid, o a dominio straniero). Esso si sviluppa anche sul piano delle prerogative dei popoli. Se all’inizio era concepito come mera autonomia, nella fase successiva si sviluppa nel senso di quella che è stata chiamata autodeterminazione esterna: diritto per i popoli di emanciparsi da questo dominio straniero (alieno) e possono dare vita a un nuovo stato (creando un nuovo stato o divenendo indipendenti)la chiave è staccarsi dall’oppressore. Ciò addirittura con la forza. Si può dire che gli Stati abbiano l’obbligo di permettere l’autodeterminazione (non si può impedire). In questi termini la norma, soprattutto alla luce della giurisprudenza, la si può considerare consuetudinaria e che preveda obblighi erga omnes. Obblighi erga omnes sono obblighi che uno Stato si assume nei confronti di tutti gli altri Stati contemporaneamente. Possono essere contenuti nei trattati (chiamati, obblighi erga omnes partes) o essere norme consuetudinarie (chiamati solamente obblighi erga omnes). Si fanno alcuni errori comunemente: obbligo erga omnes NON è un obbligo che lega tutti gli Stati. Infatti, ERGA è versoquindi “erga omnes” è nei confronti di tutti gli altri (es. ci sono obblighi in materia di protezione diplomatica e questi obblighi non sono erga omnes perché se ho un trattato che stabilisce che tutti gli Stati devono rispettare l’ambasciatore altrui, questo è un obbligo che può vincolare tutti ma non essere erga omnes in quanto è un obbligo che ogni stato si impegna a rispettare di volta in volta rispetto a un altro stato, quindi si crea un fascio di rapporti bilaterali tanto è vero che se nel territorio italiano è ucciso l’ambasciatore del Costa Rica, allora questo si lamenterà con lo Stato italiano). Gli obblighi in materia di diritti umani di cui fa parte l’autodeterminazione, sono invece obblighi erga omnes. Ciò perché sono obblighi che gli Stati si assumono nei confronti di tutti gli altri Stati contemporaneamente. L’Italia quando assume l’obbligo di rispettare il diritto alla vita di tutte le persone sotto la sua giurisdizione non si sta assumendo un impegno verso uno Stato specifico. Tali obblighi in materia di diritti umani, infatti, sono anche (ma non solo) nei confronti dei cittadini. Altro esempio è il caso delle presunte vessazioni di Myanmar verso i Rohingya (minoranza musulmana), popolazione trasferitasi nel vicino Bangladesh. È stato presentato un caso contro il Myanmar per presunte vessazioni che ammonterebbero a violazioni gravi dei diritti umani (si parla addirittura di genocidio). Il Gambia ha presentato il caso perché l’obbligo che si è assunto il Myanmar sono in confronto di tutti gli Stati parte. L’autodeterminazione è anche considerata da molti (dottrina) come norma imperativa del diritto internazionale (norma di ius cogens). Queste sono particolari norme imperative che sono l’unico caso in cui esiste la gerarchia tra le fonti nel diritto internazionale. Le norme di questo tipo NON possono essere derogate da altre norme aventi lo stesso valore. Ultimo elemento per ricostruire l’autodeterminazione è la sua natura irretroattiva. È importante sottolineare che il principio non si applica in modo retroattivo. In principio, salvo il caso coloniale, si applica solo alle situazioni che si sono venute a creare dopo che il principio si afferma nel diritto internazionale (banalmente non posso far leva sull’autodeterminazione per riaprire tutte le occupazioni straniere/non posso invocarla oggi per dire che nel 1200 un determinato territorio è stato occupato e va liberato). L’autodeterminazione dei popoli non è un principio che mira a ristabilire l’assetto interno degli Stati. In linea generale, non sembra (per quanto vi sia un minimo livello di soggettività) che si possa dire affermato il principi consuetudinario che consenta the remedial secession (recessione come rimedio). Ossia la possibilità per una popolazione di dare vita ad un nuovo stato a causa delle violazioni massicce dei diritti umani. L’idea di questa teoria è che una popolazione oppressa come ultima ratio ha solo quella di andare via dallo Stato. NON sembra però che il diritto consuetudinario accolga tale ipotesi. Qualcuno in dottrina la sostiene (Tubuscià); mentre la dottrina italiana è conforme nel negare la natura consuetudinaria. Quello su cui si sta ragionando è sempre se nelle determinate condizioni, vi possa essere una rottura della sovranità costituzionale di uno Stato per dare vita ad un altro Stato. NON stiamo dicendo che sia lecito che uno Stato sottoponga la popolazione a violazione massiccia e sistematica dei diritti umani. Io posso avere una violazione che non dà vita al diritto della popolazione di creare un nuovo Stato. Ciò non significa che lo Stato possa violare sistematicamente i diritti delle minoranze (essi ci sono, ma non ha diritto di creare un nuovo Stato). Per chi ha sostenuto la remedial secession si parte dai diritti umani (un popolo ha possibilità di sottrarsi alle vessazioni dando vita ad un altro stato); e poi perché in un caso recente sembra esserci sostegno di ciò. È il caso del Kosovo. Il Kosovo era una provincia dello Stato della Serbia a maggioranza della popolazione albanese. Durante il regime di Milosevic aveva subito vessazioni paragonabili a violazioni dei diritti umani. In quel contesto, anche a tutela della popolazione locale, vi è stato un intervento armato da parte della NATO in forza del quale è stato creato un regime di amministrazione del popolo del Kosovo da parte delle Nazioni Unite. Le organizzazioni internazionali hanno gestito l’amministrazione di questo territorio tanto è vero che parlando di uno Stato soggetto alla tutela dell’organizzazione internazionale è proprio il Kosovo (è un esempio). Il regime internazionale di amministrazione e gestione del Kosovo deriva da una Risoluzione del Consiglio di Sicurezza n. 1224 che stabiliva una serie di regole in tema di amministrazione e creava equilibrio tra il riconoscimento della sovranità ancora della Serbia e la tensione verso maggiore autonomia da parte del Kosovo. Sostanzialmente, rimanendo neutrale l’assetto definitivo del Kosovo stesso (creando un equilibrio tra le forze). Nel 2008 il Kosovo proclama la propria indipendenza e questo è il momento in cui parte della dottrina utilizza l’esempio del Kosovo come un esempio di parte della dottrina che utilizza il potere come esempio di remedial secession. Si agisce al punto tale che viene chiesto alla Corte internazionale di Giustizia di esprimersi circa la legalità della Dichiarazione di indipendenza. La prospettiva è che si chiariscano i punti fondamentali della vicenda davanti alla Corte. Essa NON dà la risposta espressamente. Non dirà mai se c’è o meno un processo di autodeterminazione del popolo del Kosovo. La domanda posta alla Corte “è illegittima, ai sensi del diritto internazionale, tale dichiarazione di indipendenza ai sensi del diritto internazionale?”: NO, nulla lo vieta. La Corte dirà che il principio di integrità territoriale degli Stati è un principio degli Stati (es. lo posso invocare se lo Stato ha mire espansionistiche nei confronti di un altro Stato e si può dire NO stato A che attacchi lo Stato B non puoi farlo). La corte dice “Tale dichiarazione di indipendenza NON è fatta da uno Stato, ma da privati”quindi non è violata una norma di diritto internazionale generale. Quindi anche la Risoluzione del Consiglio di sicurezza non stabiliva un regime preciso da rispettare, è ambigua e mantiene neutralità rispondendo che vi è legittimità. La Corte NON tocca l’argomento (discutendo di autodeterminazione). NON si può utilizzare l’argomento della Corte per sostenere la remedial secession. Tale non è l’unico argomento contrario. Ma anche quando alcuni Stati sono intervenuti presentando delle memorie durante il caso e quasi nessuno ha sostenuto la remedial secession. Se io voglio interrogarmi se c’è una regola generale in un determinato ambito, vado a guardare prassi e opinio iuris degli Statiossia cosa fanno nella prassi e la loro opinione dal punto di vista del diritto (leggo ad esempio atti scritti con cui gli Stati esprimono i motivi giuridici per cui tengono determinati comportamenti). Guardando l’opinio iuris non trovo soluzione alla remedial secession. Guardando ciò, il caso del KOSOVO è sui generis, non può essere utilizzato come elemento di una prassi generalizzata. Altri elementi possono aggiungersi: la Risoluzione 1224 era ambigua, ma a detta di molti la direzione verso cui si andava era ambigua, ma essenziale (inevitabile) per molti. Si sarebbe dovuti arrivare a tale indipendenza attraverso un accordo con la Serbia attraverso un negoziato lungo e doloroso (ma probabilmente i promotori non ne avevano pazienza). Inoltre, si può sostenere che già vi fosse la prospettiva dell’indipendenza (e quindi ciò è uniforme). L’opinio iuris è fondamentale. Gli Stati possono comportarsi in modo concreto (perché, ad es., è utile dal punto di vista pragmatico), ma è fondamentale guardare l’opinio iuris per colorare l’ambito pragmatico con la stessa opinione dello Stato. uno Stato può tenere un comportamento considerandola mera cortesia (anche se lo ripete costantemente, lo Stato può NON considerarlo obbligatorio) (opinio iuris fondamentale). Come esempio lampante, la Serbia ha poi concluso accordi col Kosovo per normalizzare la situazione (pragmaticamente ci sono accordi, ma le opinio iuris della Serbia è comunque di non riconoscere il Kosovo). Fodella apre una piccola parentesi. Il Kosovo è importante anche dal punto di vista della statualità (Kosovo è uno stato?). Anche qui c’è ambiguità che torna nel diritto internazionale. La comunità internazionale e dottrina son divise. La risposta secca è NON SI SA. Però è importante sempre presentare il ragionamento alla base dell’incertezza. Innanzitutto:  Dal punto di vista del riconoscimento, circa il 50% degli Stati ha riconosciuto il Kosovo e altro 50% circa non lo ha fatto (nonostante non abbia carattere costitutivo il riconoscimento, è comunque un importante indizio) (persino la Serbia intrattiene comunicazione col Kosovo senza riconoscerlo);  Il Kosovo NON è parte in sé delle Nazioni Unite per l’opposizione di Russia e Cina. È però parte della Banca Mondiale e Fondo Monetario internazionale (altre organizzazioni);  Poi sul piano pratico, ancora parte della gestione spetta alle organizzazioni internazionali (in pratica infatti il Conforti è molto negativo in merito). La questione rimane DUBBIA. Dopo tale ragionamento sull’autodeterminazione dei popoli, si parla di principio e non di diritto di autodeterminazione. Ciò perché mi domando: i popoli hanno questo diritto perchè sono soggetti titolari di questo diritto? DUBBI. Gran parte della dottrina e degli elementi normativi fanno propendere per una risposta negativa. L’autodeterminazione sarebbe un principio negativo dal quale deriverebbe l’assunzione di obblighi di alcuni stati nei confronti di altri. Di cui sono i materiali beneficiari i popoli, ma non concretamente i titolari di un diritto. A differenza delle dichiarazioni che troviamo nelle norme sono rarissimi i casi in cui i popoli possono agire in giudizio per far valere questo diritto. Per esempio, in maniera molto differente dall’individuo per il quale sono evidente. Viene in mente il Patto sui diritti civili e politici che attribuisci diritto all’autodeterminazione dei popoli. Esso crea un meccanismo di controllo (organo) al quale gli individui possono rivolgersi per far valere i diritti contenuti nel patto stesso. Esso vale per tutti tranne che per l’autodeterminazione. Persino in un accordo che sancisce l’autodeterminazione come diritto, persino in un accordo che contiene diritti umani e possibilità di ricorso per questiesso non include l’autodeterminazione. L’ultimo caso di possibilità di agire direttamente in giudizio è il Trattato regionale, Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli. È atipico e contiene esplicitamente diritti umani in senso tradizionale (dell’individuo) e in più i diritti dei popoli. I popoli possono far valere in giudizio i diritti attribuiti ad essi. Se non sono i popoli in sé ad essere soggetti titolari del diritto all’autodeterminazione, i soggetti potrebbero essere i movimenti di liberazione nazionale. Cioè enti organizzati che rappresentano i popoli nell’esercizio del diritto all’autodeterminazione. Esse sono strutture organizzate che rappresentano i popoli nell’autodeterminazione. È assai più semplice attribuire soggettività al movimento di liberazione nazionale che rappresentano. Infatti, questi enti svolgono una serie di funzioni (atti) tipici dei soggetti internazionali (concludono accordi funzionali a discutere della situazione del popolo/possono avere rapporti anche stabili con organizzazioni internazionali, ad es. in materia di obblighi sui conflitti armati). Apparentemente potrebbero sembrare assimilabili agli insorti. Infatti, movimento organizzato che rappresenta un popolo nella richiesta di liberazione. L’indipendenza per un popolo in tali specifiche situazioni può avvenire con le armi. La differenza con gli insorti c’è:  Gli insorti, per definizione, agiscono con la forza, in assenza di questa non parliamo di insorti. Tali movimenti liberazione nazionale possono, invece, spingere per la liberazione anche solo sul piano politico;  I movimenti di liberazione nazionale sono tali solo se agiscono con quel fine preciso (autodeterminazione del popolo). È l’unico fine che li connota come movimenti di liberazione internazionale. Gli insorti possono agire per qualsiasi fine; di vista li si avvicina QUASI agli individui). Nel contesto interamericano e africano AGISCONO in giudizio rivendicando veri e propri diritti collettivi. È la ragione per cui qualcun ne sostiene la soggettività. Non esiste una definizione del popolo indigeno perché negli anni ’70 gli Organi delle Nazioni Unite che sono state chiamata ad agire hanno elaborato la definizione “sono i popoli che abitavano certi territori sin da epoca ancestrale, che sono stati poi occupati da un colonizzatore straniero”. Una minoranza può a volte coincidere, ma non vi è perfetta identità. La cosa interessante è che questa definizione è stata rigettata dai popoli indigeni perché uno degli argomenti portati avanti dai popoli indigeni è la negazione di una definizione imposta dall’esterno. Il motivo a sostegno di questa posizione è espresso dalle popolazioni indigene come “noi popoli indigeni sappiamo chi siamo (know who we are). Se ne comprendono le ragioni storico – politiche. Se gli Stati si incontrano e iniziano a adottare Dichiarazioni sui popoli indigeni, a un certo punto io Stato posso cancellare tutto con la cancellazione della definizione (attributiva di diritti). Senza definizione vi è anche rischio, però, di eccessiva applicazione di queste norme anche a situazioni diverse. FONTI DEL DIRITTO INTERNAZIONALE Per trovare quali siano, a livello tradizionale, si fa riferimento all’art. 38 dello Stato della Corte internazionale di giustizia. Essa banalmente dice quando la Corte deve decidere e come (non dà legittimità). Esso recita: o “The Court, whose function is to decide in accordance with international law such disputes as are submitted to it, shall apply”. La norma in sé ha una funzione circoscritta e tradizionalmente è considerato un ingenerale esempio delle fonti del diritto internazionale; o “international conventions, whether general or particular, establishing rules expressly recognized by the contesting states”. I trattati sono una fonte scritta vincolante solo per le parti; o international custom, as evidence of a general practice accepted as law. La consuetudine si forma in modo spontaneo attraverso il comportamento ripetuto nel tempo, laddove gli Stati nel tenere il comportamento sono convinti che sia dovuto a una norma; o “the general principles of law recognized by civilized nations”. Essi sono una sottocategoria delle consuetudini; o “subject to the provisions of Article 59, judicial decisions and the teachings of the most highly qualified publicists of the various nations, as subsidiary means for the determination of rules of law”. Dottrina e giurisprudenza NON sono fonti autonome in sé. La dottrina agli albori del diritto internazionale aveva autori che erano organi degli Stati. Dunque, è chiaro che il parere della dottrina aveva un peso diverso. Altra cosa sono le decisioni della giurisprudenza che sono vincolanti, ma l’art. 59 dice “The decision of the Court has no binding force except between the parties and in respect of that particular case”. Quindi vale per le parti della lite e solo per l’obbligo specifico. NON c’è una gerarchia! Esistono fonti di primo e secondo grado in quanto c’è qualcuno che dice che la consuetudine sia di primo grado e il trattato di secondo grado. Questi autori sottolineano un aspetto della dinamica tra le fonti. I trattati derivano la propria validità dall’esistenza di una norma consuetudinaria, la norma che quel brocardo latino dice “pacta sunt servanda”. In ragione di questa dinamica qualcuno dice se il trattato deriva la propria validità dalla norma consuetudinaria, allora avremo che essi sono fonti secondarie. Esse sono, però, sempre poste sulla stessa linea (posso derogare rispettivamente a una o all’altra con l’una o con l’altra). Non essendoci gerarchia tra consuetudine e trattati, ognuno può derogare all’altro. Chi sostiene che la consuetudine sia fonte di primo grado e il trattato fonte di secondo grado, lo sostiene sulla base di un argomento puramente logico (Conforti). Il trattato trae la propria validità in una norma che ha natura consuetudinaria (pacta sunt servanda), quindi dal punto punto di vista logico la consuetudine è di primo grado e il trattato di secondo. Il Conforti dice “la consuetudine sta alla legge come il trattato sta al contratto” e per Fodella ciò è fuorviante perché immediatamente si è portati a pensare che il trattato deve rispettare la consuetudine. NON è così infatti si può tranquillamente derogare. Io posso avere una consuetudine generale e gli Stati possono concludere un trattato col quale disciplinino i propri rapporti con modalità diverse. È da ricordare che il trattato si applica solo tra le parti (es. per secoli la norma consuetudinaria circa l’uso delle risorse in alto mare era quella della libertà, gli Stati hanno concluso un accordo che disciplina in maniera differente ciò introducendo dei limiti. Si ha la Convenzione di Montego Bay). Naturalmente è possibile l’inverso (io posso derogare con una consuetudine ad un trattato). L’art. 2 paragrafo 7, nel momento dell’adozione della carta ha un certo significato e poi è stato modificato in via consuetudinaria. Il dato testuale era di un certo tipo (dominio riservato particolarmente esteso) e poi è stato eroso con la consuetudine (cioè la prassi ha modificato la norma). Anche il diritto di veto nasconde un processo di questo tipo. Infatti, se andiamo a leggerne la norma (art. 27 paragrafo 3) essa dice “con il voto favorevole di nove membri tra cui vi sia il voto concorrente dei membri permanenti”. Cosa succede in caso di astensione? Passa o no il provvedimento? Il dato testuale dice che serve il voto favorevole di tot membri quindi l’astensione dovrebbe bloccare, ma invece no perché il dato testuale di partenza è stato modificato in via consuetudinaria. Le prime volte che c’è astensione ci si chiede cosa succeda, ci si interroga. Il provvedimento passa ed ecco che la consuetudine ha agito. È un processo dinamico, da valutare in concreto. Fa eccezione a tutto questo discorso lo ius cogens (corpo normativo inderogabile se non da norme aventi lo stesso valore). Quindi la gerarchia in questo caso c’è. Non esiste un catalogo delle norme di ius cogens e naturalmente è preoccupante alla luce dell’importanza di ciò. Guardando la dottrina e la giurisprudenza sembra ragionevole dire che nel novero di queste norme rientri: o Divieto dell’uso della forza; o Autodeterminazione dei popoli (meno unanime l’idea a favore). Il resto è un po’soggetto a opinione. Es. il Conforti vi aggiunge: × il nocciolo duro dei diritti umani. Fodella dice che ci sono forti argomenti per sostenere la natura di ius cogens di due diritti umani: divieto di tortura e divieto di genocidio (su questo in particolare si soffermano altri autori, ad esempio Cassese); × carta dell’ONU con norme in sé e in toto alla luce anche della norma (art. 103) che stabilisce che gli organi che ne scaturiscono prelevano sugli altri. Il Conforti ravvisa in questa clausola di prevalenza un carattere di ius cogens. Fodella dice che ciò è esagerato. Lo stesso Conforti sottolinea che questa idea della prevalenza della Carta pare vacillare di fronte agli episodi di antiterrorismo ove si ritiene che le conseguenze derivanti dai provvedimenti adottati dal Consiglio di sicurezza in materia di antiterrorismo siano state invocate davanti a Corti internazionali quali la Corte europea dei diritti umani o Corte di Giustizia in quanto in contrasto con alcuni diritti umani fondamentali. Le Corti non si sono inchinate di fronte alla prevalenza delle disposizioni di sicurezza solamente perché esiste l’art. 103 della Carta. Questa disposizione in materia di terrorismo mostra una certa resistenza da parte di una parte della Società internazionale di fronte a questa idea che la Carta sia di ius cogens e inderogabile. Consuetudine Diritto non scritto che si forma in modo spontaneo e che vincola tutti gli Stati (esistenti o meno al momento in cui si forma la norma). Essa può vincolare anche altri soggetti che non siano Stati nei limiti della parziale soggettività di questi (es. se si sviluppa una norma di diritto internazionale di tipo umanitario si può applicare agli Stati, ma anche ad es. ai movimenti di liberazione nazionali, le organizzazioni internazionali). Le consuetudini si formano con la partecipazione delle Organizzazioni o nel seno di queste. La consuetudine è composto di due elementi:  elemento oggettivo, è la prassi o ripetizione nel tempo di un certo comportamento. È detta diuturnitas ossia ripetizione costante nel tempo;  elemento soggettivo, cioè il convincimento che quel comportamento è dovuto in quanto richiesto da una norma giuridica. Questo elemento viene detto opinio iuris sive necessitatis. Entrambi gli elementi sono FONDAMENTALI, ciò significa avere una concezione dualistica. Ne esiste anche una tesi monista che sostiene che sia sufficiente la prassi. Essa sostanzialmente riposa su un argomento esclusivamente logico: richiedere che ci siano i due elementi è un errore intrinseco perché come faccio a richiedere che ci sia l’opinio nel momento di formazione della norma? In quel momento la norma non è ancora diritto quindi non è possibile richiedere agli Stati l’opinio. Il comportamento statale riposerebbe su un errore poichè la norma ancora non c’è. Il controverso è che è richiesta la opinio iuris sive necessitatis per cui il comportamento sarebbe dettato dal convincimento che sarebbe dovuto da una norma giuridica, ma anche da una necessità. (ciò che taglia la testa al toro)L’opinio iuris è fondamentale affinchè si formi la norma consuetudinaria per una serie di motivi. È importante la sent. 20 febbraio 1969 della Corte internazionale di Giustizia relativa alla piattaforma continentale del Mare del Nord. Motivi per cui l’opinio iuris è importante: a) lo ha detto la Corte di Giustizia; b) è l’unico modo per distinguere una vera norma giuridica da quelli che sono meri atti di cortesia (es. consuetudini in senso lato nelle relazioni diplomatiche) ossia consuetudini che gli stati tengono per mantenere buone relazioni, ma non sono obbligatori. Ciò che distingue il comportamento ripetuto nel tempo obbligatorio da quello non obbligatorio è l’opinio iuris; c) è un modo per distinguere l’illecito dall’evoluzione di una norma consuetudinaria. L’opinio iuris mi permette di distinguere un comportamento diverso da ciò che è richiesto da una norma classificandolo come illecito o evoluzione. Se non esistesse l’opinio iuris e tutte le norme si formassero per ripetizione nel tempo. Si ripete un certo comportamento per un periodo di tempo e allora si è formata la norma consuetudinaria. Gli Stati tengono improvvisamente un comportamento diverso. Come lo valuto? Guardo l’opinio iuris dello Stato autore e degli altri Stati. Se questi protestano, quello sarà un illecito; se, invece, con delle dichiarazioni ne accettano la difformità allora sarà stato il primo tassello dell’evoluzione della norma consuetudinaria; d) necessaria per ricavare resistenza o meno della norma consuetudinaria dalla prassi convenzionale. e) lo ius cogens è una categoria particolare di consuetudine e vive di regole un po’ diverse. Infatti, quando faccio l’indagine sull’opinio iuris vado alla ricerca di una opinio iuris qualificata. Quando parlo di ricostruire l’esistenza di una norma di ius cogens, l’opinio iuris di quello Stato deve essere qualificata; f) caso del Kosovo. Ci siamo domandati se costituisse un esempio di una nuova norma consuetudinaria che permette la remedial secession. Anche quegli Stati che hanno accettato l’idea dell’autodeterminazione si sono affrettati a sottolineare che si tratta di una situazione sui generis per evitare che quel comportamento favorevole venga adottato come prassi in vista di una norma consuetudinaria in quel senso. Quella dichiarazione è fondamentale perché l’opinio iuris degli Stati è contraria e non prendo la norma. Come si rivela la consuetudine? Ce lo dice anche la Corte internazionale di Giustizia. È un processo che va per INDUZIONE partendo dai dati della prassi. Non parte da idee precostituite (no deduttivo). Il materiale che vado a cercare può essere o a segnale di prassi o di opinio iuris o a segnale di entrambe le cose (es. prendo in considerazione conclusione di accordi/trattati, non sono da soli perché possono avere valore ambiguo, ma l’adozione dei trattati sono un buono argomento di prassi). Anche l’adozione di strumenti di soft – law può essere importante (es. atti di organizzazioni internazionali, quando per esempio l’assemblea adotta una dichiarazione di principi lo strumento non è vincolante, ma è un dato di prassi degli Stati in quanto si vota il comportamento, ma è anche opinio iuris perché è il voto favorevole a un procedimento che spiega il diritto delineazione dei confini. Il lavoro di codificazione della Commissione per questo è fondamentale anche quando non si trasforma in trattati. × Cosa succede se la consuetudine è codificata in un Trattato? In primis i trattati di codificazione non hanno un valore superiore rispetto agli altri trattati. Il contenuto può coincidere con una norma consuetudinaria, ma posso liberamente avere un trattato che codifica una consuetudine che perda la validità (si scopre nullo) e ciò non incide sulla consuetudine (che continua a vivere autonomamente); o Seconda sinergia: cristallizzazione della consuetudine. Non abbiamo una norma consuetudinaria già venuta ad esistenza e un trattato che successivamente la codifica (come nel primo caso). Essa avviene quando c’è una consuetudine che non si è ancora perfezionata. Ossia abbiamo avuto elementi di prassi e opinio iuris, ma non si è formata ancora la consuetudine. Il trattato è l’ultimo mattoncino che mi consente di dire che la consuetudine grazie al trattato è venuto ad esistenza. Quindi trattato propedeutico per dire che quella consuetudine viene in esistenza. È il trattato che con il suo contribuito aiuta a venire in esistenza la consuetudine (la cristallizza); o Terza sinergia: trattato come “fattore generatore” di consuetudine. Non parliamo di una consuetudine preesistente né di un processo avanzato di consuetudine, ma il trattato è uno dei primi momenti in cui si afferma nel diritto internazionale quel contributo necessario alla formazione della consuetudine. Tale contributo è fondamentale perchè il trattato innesca un meccanismo che favorisce formazione di prassi e opinio iuris che permetteranno la nascita della consuetudine. Quindi trattato come elemento generatore. Tutte tali sinergie possono coesistere all’interno di un medesimo trattato. Es. Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati che pur nascendo con lo scopo di codificare consuetudini preesistenti in questo settore, ne ha cristallizzate altre e poi è stato innovativo. SOFT LAW: (diritto morbido) insieme di norme non vincolanti. Dunque, si può dire che se uno stato non rispetta una norma di soft law, non commette un illecito internazionale. A cosa servono? Benchè non vincolanti, hanno molte funzioni. Esempio classico è quello delle risoluzioni dell’Assemblea generale dell’ONU quando assume la forma di Dichiarazione dei principi (es. dichiarazione dei diritti umani). Parliamo, quindi, di fonti importanti dal punto di vista politico. Funzioni: a. può contribuire alla formazione spontanea delle norme: quando uno stato vota a favore di una norma, ciò può costituire prassi degli Stati. Quel comportamento può avere anche la valenza di accertare l’opinio iuris di quello Stato sempre in riferimento al soft law (in quanto il voto in sé può essere un gesto neutrale, ma è anche ben possibile che ciò si accompagni con dichiarazioni di vario genere che portino a determinare opinio iuris in senso stretto); b. può codificare o cristallizzare norme consuetudinarie.  Possono cristallizzare una norma consuetudinaria con uno strumento di soft law in quanto ultimo momento di processo formativo della norma grazie all’opinio iuris e prassi degli Stati che vi partecipano.  Può anche codificare, ad esempio in particolare nel diritto internazionale dell’ambiente. Anche lo strumento di soft law come il trattato può comunque servire a tracciare i confini precisi in forma scritta di una norma consuetudinaria formatasi in modo spontaneo; c. può essere seguito dagli Stati. Benchè non vincolanti, può essere che gli Stati seguono lo strumento di soft law. Può avvenire per “pressione sociale” che induce a dare attuazione a tale strumento. Ciò può accadere con strumenti come le Risoluzioni dell’Assemblea Generale; d. può essere usato come strumento interpretativo di norme vincolanti. Può capitare che io abbia uno strumento vincolante, una norma ambigua e abbia degli strumenti di soft law che si occupano della medesima materia e sono più dettagliati. Si ricorre a questo per riempire di contenuto lo strumento di hard law. DIRITTO DEI TRATTATI È l’insieme di tutte le norme pattizie – consuetudinarie poste al funzionamento dei trattati stessi. Punto riferimento fondamentale è la Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati:  Elaborata dalla Commissione del diritto internazionale a partire dal 1949 (emerge l’importanza di quest’organo che ha contribuito all’elaborazione di questa Convenzione. Essa ha portato ad elaborare i concetti del trattato, ma non il trattato stesso. il lavoro è stato prodromico alla Conferenza);  Adottata nel 23/5/1969 dalla Conferenza diplomatica appositamente convocata dall’ONU (ruolo fondamentale delle organizzazioni internazionali è proprio favorire la conclusione di trattati attraverso tali Conferenze);  Entrata in vigore nel 27/1/1980. Per quanto sia un trattato fondamentale e peculiare (essendo il trattato sui trattati), tale Convenzione rimane un semplice trattato per cui:  Si applica solo nei rapporti tra le parti;  Si applica solo ai trattati conclusi dopo la sua entrata in vigore (no valore retroattivo). L’art. 4 dice “Without prejudice to the application of any rules set forth in the present Convention to which treaties would be subject under international law independently of the Convention, the Convention applies only to treaties which are concluded by States after the entry into force of the present Convention with regard to such States”. Quindi sono fatte salve quelle norme consuetudinarie che si applicherebbero a prescindere della validità della Convenzione ciò a riprova dell’indipendenza tra la fonte pattizia e quella consuetudinaria;  In parte codifica delle regole consuetudinarie già formate e in parte è innovativa in quanto dà lo spunto per altre norme in materia. TRATTATI La Convenzione di Vienna agli artt. 1 e 2 ci fornisce la definizione di quei trattati che ricadono nell’ambito della Convenzione di Vienna; l’art. 3 precisa che ciò non pregiudica la validità di altri trattati: 1) L’art. 1 dice “The present Convention appese to treaties between States” e l’art. 2 dice “Treaty means an international agreement concluded between States in written form and governed by international law, whether embodied in a single instrument or in two or more related instruments and whatever its particular designation”. Da tali norme emerge come vi sia una serie di elementi essenziali per la definizione di trattato (secondo la Convenzione di Vienna):  In primis un trattato è la convergenza di manifestazioni di volontà;  Tale manifestazione di volontà è tra due o più Stati. Esiste, inoltre, anche la Convenzione sui trattati fra Stati e OOII, o fra OOII del 21/3/1986:  Il trattato deve essere in forma scritta (ciò all’interno di tale Convenzione in quanto al di fuori sono possibili trattati orali);  Regolato dal diritto internazionale. Stati e altri soggetti del diritto internazionale, infatti, possono stabilire tra loro accordi di diritto privato; A ciò si aggiunge che i Trattati sono contenuti in uno o più testi in quanto possiamo avere un unico testo su cui convergono tali manifestazioni di volontà o l’accordo può convergere su più testi (es. scambio di note). Inoltre, è irrilevante la denominazione del Trattato se presenta le caratteristiche suddette. Segue che la pubblicità non è un requisito indispensabile per la validità del Trattato (ci possono essere accordi segreti). Ciò può avere conseguenze in contesti specifici (es. registrazione presso il Segretario Generale dell’Onu per quanto concerne la Convenzione di Vienna, ciò determina solo che se non registrato è inopponibile). Procedimento di formazione e conclusione dei trattati: è finalizzato a ottenere la convergenza fra le manifestazioni di volontà degli Stati a obbligarsi naturalmente circa il contenuto del Trattato. a tal proposito, NON esistono prescrizioni tassative in merito alla forma o procedura di formazione e conclusione. Così dice la Convenzione di Vienna all’art. 11 “The consent of a State to be bound by a treaty may be expressed by signature, exchange of instruments constituting a treaty, ratification, acceptance, approval or accession, or by any other means if so agreed.” (tra i tanti strumenti scrive “ogni altro mezzo sul quale vi sia accordo tra gli Stati e ciò mostra come l’elenco è esemplificativo e non tassativo). L’art. 7 della Convenzione dice che è abilitato a rappresentare lo Stato: × “chi esibisce i pieni poteri”, ossia un documento (art. 2) proveniente dalle Autorità competenti dello Stato e che designano la persona a tal fine; × “chi è considerato avere tale prerogativa in base alla prassi o circostanze”; × esiste una serie di soggetti si presume che abbiano pieni poteri nel proprio stato. Ossia:  Capi di stato, di governo e ministri degli esteri: sono competenti per tutti gli atti;  Capi delle missioni diplomatiche: sono competenti in relazione solo all’adozione del testo tra stato accreditante e accreditario;  Rappresentanti accreditati dagli Stati o da un conferenza internazionale o organizzazione internazionale o uno dei suoi organi: competenti per adottare il testo del trattato nella conferenza. Gli atti compiuti da chi non ha i pieni poteri sono privi di effetti giuridici a meno che non siano confermati dallo Stato tesso (art. 8). Normalmente la procedura di formazione del Trattato inizia con: 1) Fase preparatoria, gli Stati dialogano e cercano di raggiungere un accordo sul testo. Di solito ciò avviene per i trattati multilaterali importanti con la convocazioni di Conferenze diplomatiche (in ciò hanno un ruolo fondamentale le Organizzazioni internazionali che convocano la Conferenza e gli Stati si pongono sotto il cappello dell’organizzazione). La natura giuridica del trattato non cambia se conclusa sotto un’organizzazione. Il primo punto per cui tale convocazione dell’organizzazione è fondamentale è il regolamento di procedura in quanto gli Stati non si sono ancora messi d’accordo sulle regole. Le Organizzazioni risolvono il problema in quanto gli Stati appartenendo alle Organizzazioni hanno già accettato delle regole (quindi ciò risulta molto facile per la conclusione). Il negoziato conduce alla fine all’adozione del testo (si formulano proposte e si trova un punto di incontro). La Convenzione dice che il testo viene approvato all’unanimità o con i 2/3 degli Stati che han partecipato se si tratta di una Conferenza ampia sempre “salva diversa disposizione degli Stati”. vi è anche la fase dell’autenticazione del testo (solo eventuale). Si rende necessario introdurla quando i negoziati sono particolarmente lunghi e frammentati in quanto non sempre avvengono in maniera fluida, bensì spesso possono andare avanti anche decenni quindi non è detto che il voto sul testo avvenga in breve tempo. Alla fine, quindi, ci può essere molta confusione quindi urge un momento di sintesi/chiarezza e viene utilizzato questo passaggio in cui tutti gli Stati certificano la cristallizzazione del testo finale su cui vi è stato accordo. Se post adozione o post autenticazione (se necessario) si ha un testo, allora si è raggiunto l’accordo sul testo. Tale testo del trattato è definitivo e se volessi modificarlo dovrei iniziare da capo; 2) Fase di manifestazione del consenso (o della stipulazione), ognuno espone il consenso a vincolarsi e questo deve essere portato a conoscenza degli altri (per questo si parla di raggiungimento della convergenza delle varie manifestazioni del consenso a obbligarsi). L’art. 11 dice che vige il principio di il contenuto degli obblighi, le riserve aprono la possibilità di modifica dell’accordo. La funzione è la facilitazione della partecipazione più ampia possibile degli Stati a quel Trattato. Si accetta che il Trattato venga modificato, ma questo è il prezzo da pagare affinchè si possa avere la più ampia partecipazione possibile al trattato medesimo. La Convenzione di Vienna in parte codifica l’evoluzione precedente e in parte è innovativa e addirittura per certi aspetti è stato forse superata. Evoluzione storica delle riserve:  Fase I : dagli albori del diritto internazionale sino a, le norme sulle riserve erano ispirate ad un problema generale di salvaguardia dell’integrità del trattato (infatti la riserva permettendo ad uno Stato di modificare l’applicazione della norma, finisce per frammentare lo stesso in tanti fasci di rapporti bilaterali tra gli Stati). Innanzitutto, le riserve erano ammissibili:  solo se il trattato le prevedeva espressamente;  solo se tutti gli altri Stati le accettavano. In mancanza dei requisiti di cui sopra, lo Stato non diventava parte del trattato in quanto tale.  Fase II : Si è andati verso una maggiore flessibilità mirata a garantire una maggiore partecipazione al Trattato. le riserve, infatti, sono un meccanismo che favorisce la partecipazione al Trattato dello Stato medesimo. La Corte internazionale di giustizia (nel ’51) viene chiamata ad esprimere un parere sulla repressione del crimine del genocidio. In sella alla disposizione alla Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine genocidio (1948) non vi sono riserve per questo è chiesto alla Corte se anche non disposte esse possano essere comunque poste.  La riserva, aggiunge la Corte, si può porre anche nel silenzio del trattato. questo è il primo passaggio che scardina l’approccio precedente.  Queste riserve, inoltre, sono valide anche se alcuni Stati si oppongono (a differenza di quanto avveniva nella prima fase. Come conseguenza, lo Stato non diventa parte al Trattato ma solo nei rapporti con chi si oppone (prima, in assenza di requisiti, lo Stato non diventava parte al Trattato nella sua interezza mentre qui lo Stato entra come parte nel Trattato solo con Stati che non si sono opposti).  A fronte di questa flessibilità, la Corte pone un freno. Si va verso una direzione di maggiore partecipazione, ma la Corte a salvaguardia dell’integrità del Trattato enuncia un limite: si possono porre riserve, ma sempre nel limite della compatibilità con l’oggetto o lo scopo del trattato (la riserva deve essere compatibile).  Fase III : aperta dalla Convenzione di Vienna. Guardiamo la disciplina di dettaglio della Convenzione (art. 19 ss.).  Quando è possibile apporre una riserva? Art. 19 dice che uno Stato può, al momento di firmare, ratificare o accedere ad un Trattato, firmare una riserva a meno che la riserva si proibita dal trattato; o che il trattato disponga che si possano porre solo specifiche riserve; o se la riserva è incompatibile con oggetto e scopo del trattato (in tale ultimo caso si incorpora quanto detto per la convenzione sul genocidio). In generale, di solito le riserve vengono formulate al momento della manifestazione del consenso, la prassi si è evoluta in senso più flessibile (si può presentare una riserva post manifestazione del consenso purchè nessuno Stato si opponga entro 12 mesi). Secondo l’articolo succitato lo Stato può formulare una riserva a meno che (unless), quindi viene ribaltato completamente il principio base del divieto delle riserve. La Convenzione prevede una permissibilità generale salve eccezioni. Successivamente, in via giurisprudenziale, si è apposta un’altra eccezione ossia “non si possono apporre riserve vaghe e indeterminate”, in quanto non si riuscirebbero ad individuare le modifiche delle norme del Trattato che la riserva si prefigge di modificare.  Reazione degli altri stati: questi possono accettare o opporsi (art. 20).  Accettazione: non è più richiesta l’accettazione da parte di tutti gli altri Stati anzi la manifestazione di volontà di uno Stato accompagnata da una riserva ha effetti quando anche solo uno degli altri Stati accetta. Inoltre, l’accettazione si presume se non c’è obiezione entro 12 mesi. Ancora si dice che non è richiesta se la riserva posta è espressamente permessa. Vi è quindi un netto favore verso l’accettazione. × Effetti giuridici dell’accettazione (art. 20 – 21): lo stato che pone la riserva diviene parte al trattato nei confronti dello Stato accettante. Inoltre, il trattato si applica fra i due Stati così come modificato dalla riserva stessa. La disposizione del paragrafo art. 21 dice che una riserva stabilita secondo norme precedenti modifica per lo Stato che ha posto la riserva e per l’altro stato, le disposizioni del Trattato nel modo in cui dispone la riserva. Di fatto con l’accettazione, nei rapporti tra Stato che pone e quello che accetta, il Trattato si applica come modificato. L’art. 21 continua dicendo che l’effetto di questo meccanismo è modificare la disposizione per entrambi gli Stati (ossia si dice la riserva ha effetto reciproco) × Rapporti con altri Stati che non partecipano: la riserva non modifica il rapporto fra gli Stati inter – se. Es. Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche (1961), al paragrafo 3 dell’art. 27 si dice che “la valigia diplomatica non può essere aperta o confiscata”. Lo Stato del Bahrain ha effettivamente posto una riserva proprio a tale articolo dicendo che esso si riserva il diritto di aprire tale valigia se vi sono seri motivi per presumere che essa contenga articoli la cui importazione/esportazione sia proibita per legge nazionale. Uno Stato B accetta questa riserva. Quale è il risultato? La Convenzione di Vienna entra in vigore tra i due Stati, in primis; poi, il Trattato si applica così come modificato dalla riserva tra i due Stati. Ciò è permesso affinché il Bahrain possa prendere parte al Trattato. Tra i vari stati non coinvolti il Trattato si applicherà esattamente come era in origine.  Opposizione (obiezione): (art. 20 – 21) in tal caso lo Stato autore della riserva diventa parte al trattato nei confronti dello Stato obiettante, a meno che lo Stato obiettante non dichiari espressamente il contrario. È ben possibile, infatti, che la riserva posta da uno Stato sia fondamentale per un altro in quanto cambia inderogabilmente il proprio fine in merito al Trattato. Se tutta la disciplina sin ora studiata è tesa a favorire l’uso delle riserve, si tende anche a salvaguardare la volontà di Stati che desiderano opporsi. × Conseguenze: le disposizioni del trattato alle quali la riserva si riferisce non si applicano fra i due Stati nella misura prevista dalla riserva (art. 21 paragrafo 3). Tra i due Stati, proponente e oppositore, non si riesce a formare l’accordo circa la nuova e diversa regolamentazione della fattispecie e la conseguenza di ciò da un punto di vista logico è che non si possa considerare che quella disposizione su cui verte la riserva sia in vigore per gli Stati. quindi anche se permetto che il Trattato entri in vigore, quella disposizione per la quale manca accordo, non si applicherà. Quindi NON si applicano le disposizioni, non la riserva. × Rapporto tra gli altri Stati: questo non è modificato. Es. prendendo l’esempio di prima, l’Australia non considera valida la riserva posta dal Bahrain in relazione all’art. 27 circa la valigia diplomatica. Come conseguenza le disposizioni del trattato su cui verte la riserva non si applicano. In pratica, è come si creasse (in senso lato) una lacuna nel Trattato. Per gli altri Stati, la riserva in sé non intacca i rapporti inter – se. Vi sono alcune questioni critiche nonostante la disciplina della Convenzione di Vienna: o Paradosso della riserva eccettuativa (riserva che mira ad escludere l’applicazione di una disposizione del trattato). Es. (inventato) immaginiamo come la riserva del Bahrain non miri a modificare il trattato, ma ad escluderne l’applicazione (il Bahrain si riserva di non applicare). Quali sono gli effetti dell’accettazione/opposizione da parte di un altro Stato? o Riserve inammissibili (contrarie a scopo e oggetto). In primis sorge il problema su come definirle. Tutto sommato è proprio una mera questione di interpretazione soggetta a una mera relazione tra Stati. A ciò segue che ammesso di aver chiarito l’ambito sostanziale, ci si chiede quali siano le conseguenze di una riserva di tal genere. Posso avere varie soluzioni:  immaginare che tutto sia risolto;  possiamo immaginare che lo Stato che formuli tale riserva divenga parte al Trattato tranne per quella parte coperta da riserva;  lo Stato che propone non può essere parte al Trattato. Per parte della dottrina, la soluzione è l’ultima nel momento in cui sia espressamente previsto il divieto di quanto la riserva dispone.  ultima opzione possibile è che la riserva si consideri non apposta. Altra questione in merito alle riserve inammissibili è: chi decide? Non c’è un meccanismo accentrato e quindi dipenderà da Trattato a Trattato. Spesso la questione è lasciata direttamente agli Stati oppure se questi hanno un contrasto nascerà una normale controversia che verrà risolta seconda tradizionali mezzi. È possibile porre riserve anche sulle regole per i trattati sui diritti umani. Le regole in proposito, che si sono sviluppate, sono frutti giurisprudenziali (in tale settore tutti i problemi succitati sembrano essere risolti). Due sono gli organi di controllo dei Trattati in tale materia:  Corte europea dei diritti umani, relativamente alla Convenzione omonima;  Comitato dei diritti umani (Human Rights Committee) non è un organo, ma sorveglia il rispetto del trattato ossia il Patto sui diritti civili e politici. La riserva invalida in tali trattati si considera come non apposta e lo Stato che l’ha fatta rimane parte al trattato nella sua versione integrale. Ciò è decisamente contrario alla volontà dello Stato. Considerarla come non apposta significa intrappolare lo Stato che ha cercato un cambiamento a suo favore, lo si trattiene lasciandolo vincolato. Ciò è dettato dalla natura del Trattato in esame che tende a tutelare la persona, quindi si adopera una soluzione a favore della persona. Altro problema risolto in questo settore è anche chi decide. Decide in tutte le questioni l’organo di controllo del Trattato (organi succitati). Ciò è importante in quanto non si delegano gli Stati che potrebbero agire a proprio piacimento. Infine, in questo settore, si sono sviluppate regole per definire cosa sia una riserva contraria a oggetto e scopo del trattato. PACTA SUNT SERVANDA È un principio consuetudinario che stabilisce (Convenzione di Vienna all’art. 26) che ogni trattato in vigore vincola le parti e deve essere rispettato (vi si deve dare attuazione) in buona fede. Lo Stato che non rispetta il trattato commette un illecito internazionale (differenza chiave tra trattati e soft law che non sono vincolanti). Es. si pone il problema di interpretare come si utilizzi il termine “missione” nell’ambito della sezione 22 dell’articolo VI Convenzione sui privilegi e le immunità delle NU. Ciò è posto di fronte alla Corte internazionale di giustizia che deve capire se i privilegi e immunità concessi agli organi durante la missione si intendono concessi quando si abbia con missione l’accezione di uno spostamento o meno. La Corte dice che si deve chiarire il termine mission sia in inglese che in francese per poter capire. In ossequio al metodo testuale dice che il termine inizialmente presupponeva uno spostamento, ma il termine francese e inglese hanno acquisito un significato più ampio accogliendo i meri incarichi che implichino o meno uno spostamento. La Corte ricerca il senso letterario dei termini nella loro evoluzione storica. In riferimento all’accezione di “contesto”, la CV ne parla al paragrafo 2 del medesimo articolo. Esso comprende:  Testo, ossia la parte dispositiva quindi il contenuto normativo del trattato stesso;  Preambolo, presente nella stragrande maggioranza dei casi atto ad illustrare il contesto normativo/politico/storico e le ragioni che han portato ad elaborare il trattato;  Allegati, si trovano in coda ai trattati. Formalmente sono separati dalla parte dispositiva, ma svolgono un ruolo fondamentale in termini di chiarezza (es. trattato che si occupa di sostanze pericolose. Nella parte dispositiva si dice che i trattati hanno il divieto di esportare sostanze di tal genere e quando si vanno ad elencare le sostanze si porranno negli allegati in quanto sarebbe scomodo avere l’elenco in mezzo al trattato);  Tutti gli altri atti (accordi o strumenti) relativi al trattato e adottati in connessione col medesimo (es. l’atto finale di una Conferenza diplomatica, o un Protocollo adottato contestualmente a una convenzione quadro). In merito al criterio teleologico, esso può tornare utile in merito ai trattati sui diritti umani nei quali l’oggetto e scopo è la tutela della persona e per cui a fronte di più opzioni scelgo quella che tutela maggiormente la persona. In merito, invece, al criterio soggettivo si può ricostruire come le parti dimostrano di interpretare il trattato implicitamente o esplicitamente. Cerco, quindi, come le parti intendono i termini spostandoli rispetto all’ancoraggio al testo in maniera obiettiva tipica del criterio oggettivo che è la regola base. Oltre al contesto (art. 31 paragrafo 3- 4) si tiene conto di:  Accordi successivi fra le parti in materia di interpretazione e applicazione del trattato (funge da interpretazione autentica) (art. 31. 3 a) (processo esplicito);  Prassi successiva seguita dalle parti nell’applicazione del trattato che dimostri l’accordo sull’interpretazione (interpretazione per fatti concludenti) (art. 31. 3 b) (processo implicito). La linea di confine è sottile tra questa ipotesi e la modifica in via consuetudinaria di un trattato. Es. concetto di dominio riservato o meccanismo di voto nella Carta dell’ONU. In pratica, la differenza tra i due dipende dal mio punto di vista (di partenza): se ho una norma ambigua/vaga, la prassi successiva degli Stati mi chiarirà in maniera implicita come devo interpretare la norma; se invece il mio punto di partenza è una norma chiara, la prassi successiva accompagnata dall’opinio iuris potrà modificare quella norma. Se riesco a dimostrare che le parti hanno inteso il senso in modo particolare (rispetto all’accezione testuale), ne applicherò questo. La norma dell’art. 31 paragrafo 3 sotto paragrafo c) è una norma che va al di là del semplice ruolo interpretativo perché è una norma che mira ad assicurare la coerenza dell’ordinamento internazionale. La disposizione in questione dice che oltre al contesto si deve tenere conto di “qualsiasi regola di diritto internazionale applicabile tra le parti”. Con questo ci si riferisce sia ai trattati che alle consuetudini. Ha un ruolo fondamentale nel chiarire la coerenza del diritto internazionale in quanto serve ad armonizzare alcuni settori del diritto internazionale sviluppatesi in parallelo senza tener conto del reciproco sviluppo. È una norma che chiede all’interprete di interpretare non isolatamente, ma nel quadro generale. Essa serve a garantire coerenza, unità e permettere di superare la frammentazione del diritto internazionale. Così come devo interpretare il singolo termini del trattato nel suo complesso, devo interpretare il singolo trattato alla luce dell’insieme dell’ordinamento internazionale. Es. due settori: commercio internazionale e protezionale internazionale dell’ambiente che hanno viaggiato per anni su binari paralleli senza incontro. Nel commercio internazionale vi è il GATT e tutto il diritto del commercio internazionale si è sviluppato a partire da questo. Di base questo prevede una serie di principi generali in tema di commercio che possono essere un ostacolo allo sviluppo di norme ambientali (es. stato parte al GATT non può adottare restrizioni quantitative al commercio di un bene). Si potrebbe ad esempio decidere di vietare importazione/esportazione di specie in estinzione, cioè è fatto col CITES. Abbiamo due regime giuridici apparentemente in conflitto (da un lato una chiede di chiudere, dall’altro l’altra chiede di aprire). È possibile per gli Stati porre eccezioni a quelle restrizioni quantitative. Si prevede che il GATT possa adottare misure necessarie (…) alla conservazione di risorse naturali esauribili. Sembrerebbe possibile adottare come eccezione delle restrizioni al commercio le specie minacciate. Per lungo periodo però da questo concetto del GATT era esclusa la biodiversità in quanto le specie erano riproducibili per cui inizialmente tale accezione del GATT è stato applicato solo per il commercio sino a quando è arrivata una decisione di un organo di controllo (col compito di valutare se gli Stati rispettano il GATT) in merito a un caso riguardante dei divieti di importazione da parte degli USA di gamberetti pescati in altri stati con tecniche dannose per tartarughe marine. Gli Stati colpiti, dal punto di vista commerciale hanno fatto ricorso e tale organo è stato chiamato a valutare se le misure adottate dagli USA fossero compatibili col GATT. Si è anche interpretato l’art. 20 in esame e lo si è fatto in maniera nuova interpretando in senso di apertura delle norme del commercio internazionale verso l’esterno applicando l’art. 31. 3 c per cui “risorse naturali esauribili” non viene più applicato solo per come è inteso nel commercio, ma devo aprirmi verso l’esterno. Interpretando in riferimento al CITES, si inquadrano tali tartarughe come animali in estinzione e la tutela di questi va sotto il cappello del GATT grazie all’applicazione dell’art. 31. Vi sono anche mezzi complementari di interpretazione all’art. 32 per cui si può ricorrere a tali mezzi solo a titolo suppletivo. Ciò solo se applicando i criteri all’articolo 31:  Il trattato resta oscuro;  Il trattato resta manifestamente assurdo o irragionevole. Naturalmente li posso anche usare per confermare l’interpretazione già ottenuta. Quali sono? All’incipit dell’art. 32 si parla di mezzi (in modo esemplificativo) con riferimento a lavori preparatori scritti (negoziati che hanno condotto alla conclusione del trattato) e alle circostanze di conclusione del trattato (contesto politico storico). Fodella aggiunge che, aldilà delle norme specifiche di Vienna, vi sono anche principi generali riconosciuti dalle nazioni civili:  In claris non fit interpretatio;  Applicare l’interpretazione che permette di assegnare una funzione alla norma (principio di effettività). Problema che si pone: diverse lingue di redazione del trattato. La questione è disciplinata da CV all’art. 33 che dice che quando un trattato è autenticato in due o più lingue tutte fanno ugualmente fede a meno che il trattato o le parti non decidano che una lingua debba prevalere sull’altra. Il problema si ha quando non è identificata una lingua che debba prevalere. Se applico le normali regole di interpretazione dei trattati e non riesco a risolvere il problema interpretativo, la CV mi dice che “devo scegliere il significato che, tenuto conto di scopo e oggetto, concilia meglio i due testi”. (ES.) La European Convention on Human Rights prevede all’art. 5.3 la durata della carcerazione preventiva:  (francese) persona processata entro un tempo ragionevole;  (inglese) persona giudicata entra un tempo ragionevole. Entrambi i testi fanno fede, quindi non è il trattato a risolvermi la questione. Sul punto è intervenuta la CEDU con sentenza 27/6/1968 sul caso Wemhoff dà prevalenza al testo francese:  perchè consente una sola lettura. Secondo il testo francese, la durata della carcerazione preventiva termina con la sentenza che giudica l’imputato: il testo inglese potrebbe essere interpretato nel senso che tale durata termini quando l’imputato sia condotto al processo (ci deve essere il processo entro un termine ragionevole);  e anche perché conforme a oggetto e scopo del trattato (tutela della persona). Il periodo massimo di privazione della libertà personale subito dall’imputato è più breve nella versione francese perché viene calcolato anche il periodo del processo fino alla sentenza. FASE PATOLOGICA DEL DIRITTO DEI TRATTATI La materia è connotata da una serie di soluzioni giuridiche che presentano analogie col diritto dei contratti a livello interno. La disciplina della CV che parla delle ipotesi in cui il trattato manca di validità è contenuta agli artt. 42 ss. e sin da questo emerge la tipicità delle cause: il trattato manca di validità solo ed esclusivamente in funzione delle norme stabilite in questo senso dalla CV. Ciò favorisce il mantenimento in vigore il più possibile degli accordi internazionali. La CV dice anche che l’assenza di validità del trattato non fa venire meno gli obblighi corrispondenti di natura consuetudinaria (a riprova ulteriore dell’indipendenza dell’autonomia di queste fonti) (art. 43). Ci sono tre situazioni di difetto di validità del trattato: i. Invalidità, secondo la quale il trattato è inidoneo a produrre effetti:  È invalido ab initio;  È inidoneo a produrre effetti giuridici;  È le cause di invalidità operano ex tunc. ii. Estinzione, il trattato cessa definitivamente di avere effetti:  Il trattato cessa di avere effetti giuridici dopo che per un periodo è stato in vigore;  Le cause di estinzione operano ex nunc. iii. Sospensione, il trattato cessa temporaneamente di avere effetti:  Il trattato cessa temporaneamente di avere effetti giuridici dopo che per un periodo è stato in vigore;  Poi torna nuovamente in vigore. INVALIDITA’ (art. 46 ss.) Le cause sono ascrivibili a due famiglie: × Vizi della formazione del consenso. Tali cause sono invocate dal singolo Stato. a) La prima causa di invalidità è l’art. 46 che prevede la violazione del diritto interno sulla competenza a stipulare. Parliamo del caso di uno Stato che mostri il proprio consenso senza seguire il diritto interno. A livello internazionale vi è rispetto delle norme in quanto il problema è la conformità rispetto al diritto interno. Tale problema ci si è posto quando la competenza a concludere i trattati è passata dal sovrano (che esprimeva tutte le fasi) ad altri organi (vari ministri) idonei a tale procedura. Da un lato emerge l’esigenza di trovare una soluzione quando il trattato venga concluso violando i nuovi assetti (cosa succede se un organo conclude l’accordo senza chiedere parere alle Camere laddove l’ordinamento lo richieda). Ecco perché vi sono delle condizioni da rispettare affinchè si possa invocare questo vizio del consenso. Inoltre, è l’unica eccezione prevista all’art. 27 della CV per cui è l’unico caso nel quale un problema di diritto Dichiarazione dell’ONU e durante la Conferenza di San Francisco viene discusso ciò. Un comitato, in esame, dice che se uno Stato si vedesse a recedere l’Onu non intende costringere tale stato a procedere nella collaborazione. Addirittura, sembra che si possa dire che fosse intenzione degli Stati concedere tale possibilità; o Lo posso considerare implicito nella natura stessa del trattato. In alcuni casi, ad esempio nel caso di giurisprudenza dei diritti umani lo HRC ha detto che in merito al Patto esso non è denunciabile vista la natura del Trattato. Cosa succede se in seguito alle denunce il numero delle parti al Trattato scende al di sotto del numero per l’entrata in vigore? La CV dice “Non c’è estinzione del Trattato se il numero delle parti scende sotto il numero richiesto per la sua entrata in vigore” (art. 55). × Inadempimento, art. 60 per cui la violazione del trattato ad opera di una parte può comportare estinzione o sospensione del trattato in tutto o in parte nei rapporti con gli altri contraenti. Non qualunque inadempimento comporta le conseguenze. Infatti, per far scattare le conseguenze dobbiamo parlare di “material breach”, ossia violazione sostanziale del trattato. al paragrafo 3 dell’art. 60 si dice che material breach è:  ripudio del trattato. Gioia dice che si ha un’ipotesi del genere quando uno Stato pretende di denunciare uno Stato senza fondamento rigettando il trattato senza ragioni;  violazione di una previsione essenziale per la determinazione di oggetto e scopo del trattato. La CV fa una distinzione a seconda che parliamo di:  Trattato bilaterale , la controparte può invocare sospensione o l’estinzione in tutto o in parte del Trattato;  Trattato multilaterale (tre ipotesi): o Prima di tutto tutte le parti di comune accordo possono invocare l’estinzione o la sospensione del Trattato (in toto o solo nei rapporti con la parte inadempiente); o Altra ipotesi è che la parte colpita in modo particolare (specially affected) (ciò può accadere quando un trattato multilaterale si può scomporre in tanti fasci di obblighi bilaterali, es. Convenzione di Vienna sulle immunità) dalla violazione può invocare la sospensione (non l’estinzione) nei rapporti con lo Stato inadempiente; o Siamo in presenza di accordi che prevedono obblighi integrali o interdipendenti. La CV usa la perifrasi “se il trattato è di tale natura che una violazione di una sua disposizione da parte di uno Stato cambia radicalmente la posizione di un’altra parte circa il rispetto del resto degli obblighi previsti”. Questi obblighi integrali sono dei trattati per i quali si crea una sorta di equilibrio tale per cui tutti gli obblighi assunti dagli Stati sono necessari a mantenere l’equilibrio. Si crea l’equilibrio se tutti rispettano il trattato e se anche solo uno venisse meno l’equilibrio svanirebbe (es. accordi sul disarmo che mirano a far sì che tutti gli Stati rispettino l’equilibrio/es. Trattato antartico che congela pretesa degli Stati che ne avevano avanzato e funziona finché tutte queste mire espansionistiche siano represse). Ci sono dei limiti all’inadempimento:  Non è applicabile in materia di tutela della persona (diritti umani e diritto umanitario) in quanto si persegue un interesse superiore;  Non può essere invocata da uno Stato a sua volta inadempiente (si è posta la questione nel caso Gabcikovo – Nagymaros, 1997, in quanto la questione riguardava la costruzione di dighe lungo il Danubio. A un certo punto di realizzazione del progetto l’Ungheria aveva affermato l’estinzione del trattato bilaterale che aveva creato il quadro. Tra i diversi argomenti addotti dall’Ungheria vi era quello che la Cecoslovacchia era stata inadempiente. La CGI dice che l’Ungheria no poteva invocare l’inadempimento in quanto essa stessa era stata inadempiente);  Resta impregiudicata la questione della responsabilità per illecito. La violazione di un trattato è sia illecito internazionale che motivo di sospensione dello stesso. Le vicende legate alla validità del Trattato non incidono su eventuali questioni di responsabilità per illecito (lo stato inadempiente può essere responsabile per illecito). × Impossibilità sopravvenuta (art. 61). Si può invocare l’impossibilità di dare esecuzione al trattato come motivo di estinzione o recesso ma a determinate condizioni:  L’impossibilità deve risultare da scomparsa o distruzione definitiva di un oggetto indispensabile all’esecuzione del trattato (impossibilità oggettiva, non una semplice difficoltà) (es. canale che sia temporaneamente non navigabile per un evento naturale quando l’oggetto del trattato è controllo della navigazione);  L’impossibilità deve essere definitiva; È invocabile solo se non deriva a sua volta da una violazione da parte dello Stato che la invoca. × Mutamento fondamentale delle circostanze nelle quali era stato concluso il trattato (rebus sic stantibus) (art. 62). Per evitare l’uso eccessivo, la ratio della norma fa sì che si possano invocare: o quei cambiamenti soltanto che non erano stati previsti dalle parti (mutamenti imprevisti); o il mutamento deve riguardare circostanze essenziali per l’accordo (senza le quali l’accordo non si sarebbe concluso); o l’entità del cambiamento deve essere decisiva, il cambiamento deve dare trasformazione radicale. Essa non può essere invocata se il Trattato stabilisce un confine o se il mutamento risulta da fatto illecito della parte che lo invoca. Tornando al caso dell’Ungheria di prima. Questa adduceva tra le ragioni anche il principio rebus. Infatti, erano avvenuti mutamenti in materia politica e si erano sviluppate norme di salvaguardia dell’ambiente che giustificavano l’estinzione del trattato. La Corte rigetta ciò sia perché il cambiamento dello scenario storico – politico non era essenziale nella formazione in origine; sia perché non si trattava, nell’ambito ambientale, di mutamenti imprevisti. × Contrarietà a una norma di jus cogens che si viene a formare (art. 64). Conseguenze (art. 70) del trattato in quanto tale o della partecipazione del singolo Stato: Il Trattato cessa di avere effetti giuridici dal momento del verificarsi della causa (ex nunc); Le parti sono liberate dagli obblighi; L’estinzione non pregiudica diritti e obblighi sorti per effetto dell’applicazione del trattato prima dell’estinzione. SOSPENSIONE (art. 57 ss.) Le cause di estinzione sin ora possono anche essere causa di sospensione del Trattato (es. sospensione per accordo tra le parti o stabilita dal Trattato, impossibilità temporanea o mutamento temporaneo delle circostanze).  Vi sono poi regole in caso di inadempimento o sospensione solo tra alcune parti.  In caso di contrarietà allo jus cogens è possibile solo estinzione. Conseguenze (art. 72): Le parti sono temporaneamente liberate, ma durante la sospensione devono astenersi da atti che possano ostacolare la ripresa dell’applicazione del trattato; La sospensione non incide su altri rapporti. In merito alla contrarietà allo jus cogens (art. 71) distinguiamo:  Trattato invalido, le parti devono eliminare le conseguenze di ogni atto basato su quel trattato (conformarsi allo jus cogens);  Trattato estinto, le parti sono liberate da ogni ulteriore obbligo e diritti e obblighi sorti precedente da ogni trattato non sono pregiudicati salvo che essi stessi non siano in contrasto con lo jus cogens. CONTENUTO DEL DIRITTO INTERNAZIONALE Studiamo diritti e obblighi degli Stati in riferimento ad alcuni settori specifici. SOVRANITA’ Il punto di partenza della nostra analisi è la sovranità. Abbiamo detto più volte come la società internazionale sia composta da enti superiori non recognoscentes (vista la struttura piramidale). Il principio che esprime questa struttura è quello dalla sovrana uguaglianza degli Stati. Lo troviamo in alcune fonti: o Carta dell’ONU (art. 2) o Dichiarazione dell’Assemblea generale dell’ONU n. 2625 del 1970. Da queste norme si evince come si possa articolare tale principio. Ne deriva che:  Gli Stati sono uguali dal punto di vista giuridico (parliamo di un’uguaglianza formale non sostanziale);  Ogni Stato gode dei diritti inerenti alla piena sovranità: a. Innanzitutto, lo Stato ha diritto di esercitare liberamente e in maniera esclusiva la potestà di governo sul territorio. Essa è:  Libera nella sue forme;  Esercitata in maniera esclusiva, è libera da interferenze altrui. Per cui:  Integrità territoriale e indipendenza politica dello Stato sono inviolabili;  Divieto di ingerenza negli affari interni altrui.  Gli Stati sono liberi di esercitare tale potere: erga omnes). In molti casi a questi meccanismi di controllo possono rivolgersi anche gli individui spesso anche direttamente senza intermediazione di uno Stato. Circa la natura erga omnes degli obblighi e dell’assetto attuale della comunità, è importante il caso Gambia v. Myanmar riguardante la richiesta di misure cautelari fatta alla CGI dal Gambia verso il Myanmar. La vicenda nasce dalle vessazioni poste in essere dalle autorità del Myanmar nei confronti del gruppo Rohingya. Si tratta di pratiche in corso da tempo e perpetrate ai danni di queste persone e che probabilmente nascono da motivi religiosi. Al termine di un processo vessatorio su ampia scala, culminato l’anno scorso nello spostamento forzato/fuga da parte di questa popolazione del Myanmar verso il vicino Bangladesh a seguito della lesione dei diritti umani nei confronti di queste persone. Prima che la CGI si esprimesse non si ha un quadro chiaro della situazione in quanto è stato vietato l’accesso dalle autorità del Myanmar a osservatori esterni. Qui parliamo di misure cautelari in cui la CGI si limita a verificare di avere una giurisdizione e prescrive misure cautelari nei confronti delle parti per salvaguardarne i diritti in pendente lite. Ma ci sono molte testimonianze da chi è fuggito dal Myanmar stesso. Ciò che ci interessa è che uno Stato (Gambia) africano cita in giudizio uno Stato del sud – est asiatico per un modo in cui tratta una frazione della popolazione presente sul proprio territorio. Prima ciò avrebbe rappresentato qualcosa di insindacabile, figuriamoci come si vedeva la possibilità di agire in giudizio. È del tutto evidente quanto la giurisdizione delle persone sotto il dominio dello Stato sia sottratto alla nazionalità e sia di natura internazionale.  Al paragrafo 41 la CGI si soffermava sul punto erga omnes. Si pone il problema se la CGI abbia giurisdizione e se il Gambia possa citare il Myanmar difronte alla CGI in quanto tali soggetti non sono cittadini del Gambia e quindi questo non ha particolari legami col Myanmar. La corte è in primis chiamata a giudicare se il Gambia possa agire in giudizio. Essa richiama l’opinione sulle riserve in tema di genocidio. Già allora si era soffermata sulla natura degli obblighi che scaturiscono. La Corte dice che gli Stati parte hanno un interesse comune rivolto al raggiungimento dell’obiettivo stabilito dalla Convenzione, ossia la repressione del crimine di genocidio. In tal caso non si può parlare di vantaggi o svantaggi, in altre parole la Corte dice che non si tratta dei famosi fasci di rapporti bilaterale. Esiste un interesse superiore. Tutte le parti alla Convenzione sul genocidio hanno come interesse comune quello di assicurare che gli atti di genocidio sia proibiti e se si verificano gli autori non rimarranno impuniti. Ciò implica che gli obblighi in questione sono dovuti da parte di ciascuno Stato a tutti gli altri Stati coinvolti.  La Corte chiama un altro caso (Belgium v. Senegal) che riguardava la tortura. La Corte richiamando quella particolare decisione sottolinea come le due convenzioni si somigliano essendoci obblighi di medesima natura. Essa disse che le disposizioni della Convenzione creavano obblighi che possono essere definiti erga omnes partes, ossia che ciascuno Stato parte ha interesse rispetto a questi organi qualsiasi caso. Qualunque stato parte quindi può invocare la responsabilità di un altro Stato parte in caso di violazione della Convenzione medesima alla luce degli obblighi erga omnes. Parliamo di obblighi erga omnes tout cour per dire in generale obblighi che uno Stato deve nei confronti di un altro Stato; mentre parliamo di obblighi erga omnes partes quando parliamo di obblighi aventi natura inter- partes e che quindi si è tenuti a rispettare nei confronti di tutti gli altri Stati parte nel trattato. QUADRO GIURIDICO – NORMATIVO A TUTELA DEI DIRITTI UMANI Guardiamo le fonti che hanno sviluppato gli standard succitati. Punto di riferimento di partenza è la Carta ONU giacchè il processo di internazionalizzazione dei diritti umani è stato possibile grazie al ruolo dell’organizzazione stessa. Dove trovo i riferimenti ai diritti umani nella Carta?  Preambolo: si riafferma la fede nei diritti fondamentali dell’essere umano nell’uguaglianza tra uomini e donne. Si capisce che i diritti umani sono tra i diritti fondamentali sui quali si vogliono basare gli Stati parte dell’ONU che vogliono ristabilire e mantenere pace e sicurezza internazionale;  All’articolo 1 tra gli obiettivi dell’ONU troviamo alcuni riferimenti ai diritti umani: o Al paragrafo 2 si parla dello sviluppo delle relazioni amichevoli tra gli Stati, basati sul rispetto del principio di uguaglianza e autodeterminazione dei popoli; o Al paragrafo 3 si dice che si può ottenere la cooperazione internazionale nella promozione e incoraggiamento dei diritti umani per tutti senza distinzione alcuna.  All’art. 13 comma 1 lettera b a proposito del ruolo dell’Assemblea generale alla quale viene assegnato il compito di “(…) promuovere il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per tutti senza distinzione di razza, di sesso, di lingua, o di religione”;  All’articolo 55, ossia disposizione che autorizza in maniera generale l’azione dell’Onu in vista della promozione dei diritti umani e negli artt. 62 e 68 che assegnano all’ECOSOC il compito di occuparsi della tutela dei diritti umani;  Infine, all’art. 76 c’è un riferimento al fatto che nel quadro del sistema di amministrazione fiduciaria l’Organizzazione si impegna “ad incoraggiare il rispetto per i diritti umani e le libertà fondamentali senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione”. Lo sguardo dato alla Carta ci induce a delle considerazione: La Carta contiene pochi diritti dettagliati, specifici. Si parla in generale di diritti umani (ma di quali diritti umani parliamo). Ci sono sì alcuni riferimenti a diritti (es. autodeterminazione dei popoli e uguaglianza), ma non c’è un elenco; Anche il linguaggio utilizzato nella Carta suggerisce una intrinseca debolezza. Si parla di promuovere i diritti umani (non vi è un linguaggio forte e incisivo); Fin dall’inizio la strategia è quella di non inserire nella Carta né il catalogo dei diritti né un linguaggio troppo forte. All’epoca del negoziato vi è il rischio che se si fosse inserito quanto detto, il negoziato sarebbe potuto fallire in quanto non tutti includono i diritti citati poichè non vi è accordo sul catalogo su quali siano i diritti umani. Per non tenere in ostaggio il processo di formazione dell’ONU, si decide di procedere per gradi: nella Carta verrà incluso tra i fini dell’organizzazione il riferimento ai diritti umani, ma si terrà comunque un linguaggio non molto incisivo e si lascerà a fasi successive la specificazione del diritto. È la strategia del Bill of rights a livello mondiale, ossia si adotta accanto alla Carta dell’ONU uno strumento di soft – law che contenga il catalogo. Poi, adottare nella fase successiva strumenti che travasino in forma vincolante gli elementi di cui parliamo. DICHIARAZIONE UNIVERSALE DEI DIRITTI UMANI Inizia quindi il lavoro per la Dichiarazione universale dei diritti umani. A essa lavora la Commissione dei diritti umani (anche e soprattutto poichè non era stato dato un catalogo vincolante dei diritti) basandosi sul lavoro dell’UNESCO che aveva contattato illustri pensatori (Ghandi, Benedetto Croce etc.) e grazie alla leadership di importanti soggetti come Eleanor Roosevelt, Cassin e Charles Malik. A Cassin, nell’aprile del 1947, fu affidato il compito di presiedere a un gruppo di lavoro ristretto che poi presentò al comitato di redazione (drafting committee) un progetto di dichiarazione. Questo testo costituì la base su cui la Commissione avviò i negoziati per la Dichiarazione universale, che durarono diciotto mesi e portarono all’adozione presso il Palais de Chaillot. Viene adottata con la risoluzione 217 del 1948 e non fu approvata per consensus ma con un voto di quaranta stati a favore, solo otto astensioni e due assenti (Yemen e Honduras). Tra gli otto, sei del blocco socialista (Urss, Ucraina, Cecoslovacchia, Bielorussia, Polonia e Jugoslavia) geloso del principio in quanto vi sarebbe una erosione della sovranità ed erano contrari alla sottovalutazione di diritti economici e sociali; si astiene anche l’Arabia Saudita in quanto sostiene che riguardi diritti occidentali in particolare nel matrimonio e nel diritto di cambiare religione; infine, si astiene il Sudafrica contrario alle discriminazioni sulla razza. L’Italia non votò in quanto Paese sconfitto e non ancora appartenente (aderì alla Carta nel 1955). Il tono della Dichiarazione universale, come ricordava Cassin, era volutamente solenne e non meramente indirizzato agli Stati ma in senso più ampio ai popoli, alle nazioni e agli individui. Un significato di qualche rilievo va anche attribuito al fatto che al termine “internazionale” è stato preferito “universale” con il proposito di rivolgersi non soltanto agli Stati ma all’umanità nel suo complesso. Come aveva detto Cassin in un rapporto al governo francese proprio all’inizio dei lavori, nel febbraio del 1947 “una dichiarazione internazionale non può essere un ingrandimento fotografico di una dichiarazione nazionale. Se gli uomini vogliono essere protetti dall’insieme della società umana contro l’arbitrio, devono in contraccambio assumere, come cittadini del mondo, i loro doveri e le loro responsabilità”. Con la Dichiarazione universale la dignità umana e i collegati diritti si innervano sulla comune appartenenza di tutti gli individui al genere umano che determina la formale irrilevanza delle barriere costituite dalla reciproca indifferenza di ogni ordinamento giuridico sovrano rispetto agli altri. I valori comuni sottostanti permeano tutti gli ordinamenti nazionali. La Dichiarazione richiama la nozione, insita nella Carta ONU, per cui il fondamento dei diritti umani sta nel fatto che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali e inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo. Essa è suddivisa in quattro parti: la parte preambolare (preambolo e primi articoli) in cui si definisce il contesto generale in cui viene adottata la Carta e le sue aspirazioni, poi la proclamazione delle libertà e dei diritti di matrice liberale (diritti civili e politici), quindi i diritti economici e sociali, e infine la parte conclusiva che fa riferimento alle modalità di godimento di tali diritti da parte degli individui. Per capire lo spirito che anima tale strumento normativo si parte dal Preambolo. 1) Nel Preambolo emerge chiaramente il collegamento che c’è tra la tutela dei diritti umani e mantenimento di pace e sicurezza internazionale.  Esso esordisce “Considerato che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana, e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo”, i diritti umani sono il pilastro su cui si regge la pace.  Il secondo considerando “Considerato che il disconoscimento e il disprezzo dei diritti umani hanno portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell'umanità, e che l'avvento di un mondo in cui gli esseri umani godano della libertà di parola e di credo e della libertà dal timore e dal bisogno è stato proclamato come la più alta aspirazione dell'uomo”  Il terzo considerando “Considerato che è indispensabile che i diritti umani siano protetti da norme giuridiche, se si vuole evitare che l'uomo sia costretto a ricorrere, come ultima istanza, alla ribellione contro la tirannia e l'oppressione” 2) Il secondo punto che emerge dal Preambolo è il collegamento stretto tra Dichiarazione e Carta dell’ONU. La Dichiarazione dice “Considerato che i popoli delle Nazioni Unite hanno riaffermato nello Statuto la loro fede nei diritti fondamentali, nella dignità e nel valore della persona umana, nell'eguaglianza dei diritti dell'uomo e della donna, e hanno deciso di promuovere il progresso sociale e un miglior tenore di vita in una maggiore libertà. Considerato che gli Stati membri si sono impegnati a perseguire, in cooperazione con le Nazioni Unite, il rispetto e l'osservanza universale dei diritti umani e delle libertà fondamentali”. Questo intimo collegamento avrà delle potenti conseguenze giuridiche. 3) Infine, i passaggi che riassumono il valore cruciale della Dichiarazione: “Considerato che una concezione comune di questi diritti e di questa libertà è della massima importanza per la piena realizzazione di questi impegni; L'Assemblea Generale proclama La presente dichiarazione universale dei Diritti Umani come ideale comune da raggiungersi da tutti i popoli e da tutte le Nazioni”. Per la prima volta uno strumento internazionale offre una concezione comune in materia di diritti umani e fissa un ideale comune da raggiungere a tutte le nazioni. Roosevelt la definisce “Magna Charta di tutta l’Umanità”. Un importante giurista dice “la Dichiarazione rende i diritti umani la lingua comuna dell’Umanità”. La vincolanti (CEDU) es. già nella considerazione del diritto alla vita in entrambe (il concetto è espresso in brevi termini nella Dichiarazione, mentre nella CEDU è nel dettaglio) o es. nel divieto di schiavitù.  Continuando troviamo le libertà della sfera giuridica:  Uguaglianza davanti alla legge (art. 7);  Diritto ad essere riconosciuto come persona davanti alla legge (diritto al riconoscimento della personalità giuridica (art. 6);  Diritto a un ricorso effettivo per ogni violazione dei diritti umani (art. 8), è il pilastro senza il quale tutto crollerebbe in quanto senza ricorso i diritti sanciti sono svuotati in massima parte della loro incisività;  Divieto di arresto arbitrario, detenzione o esilio (art. 9);  Diritto all’equo processo (art. 10), di cui consideriamo una sfaccettatura: Principio di presunzione di innocenza e irretroattività della legge penale (art. 11). Ci si sposta quindi dalla persona e si tende a una sfera più complessa.  Seguono libertà dell’individuo come membro di una società e tutela della sfera psicologica:  Divieto di interferenze arbitrarie nella vita privata (art. 12), qui parliamo di un diritto alla privacy che nasce con l’affermarsi dell’individuo come parte a una comunità;  Libertà di pensiero, di coscienza, di religione (art. 18) e intimamente legato a questo vi è anche la libertà di opinione ed espressione (art. 19). Entrambe le norme tutelano l’essenza dell’aspetto psicologico (es. ciascuno ha diritto di scegliere una religione o avere delle convinzioni). Si parla anche della sfera sociale di questi soggetti e quindi il soggetto non solo ha libertà di scegliere una religione, ma può anche professarla esteriormente;  Libertà di riunione e di associazione (art. 20);  Diritto di partecipare al governo del proprio paese (art. 21).  Cittadinanza e immigrazione (oltre all’art. 21):  Libertà di movimento (art. 13);  Diritto di cercare asilo (art. 14);  Diritto a una cittadinanza (art. 15). Quelli visti sin ora sono diritti civili e politici (I generazione). Si era, però, già affermato un dibattito delle democrazie occidentali che avevano già radicati tali diritti mentre il blocco socialista era il blocco nel quale si affermava la preminenza di diritti economici, sociali e culturali. Sintetizzando il dibattito: per le democrazie occidentali di tradizione liberale si diceva che fossero più importanti diritti di prima generazione; mentre nel blocco socialista si dava maggiore preminenza ai diritti di seconda.  Diritti economici, sociali e culturali :  Diritto di proprietà (art. 17).  Diritto al lavoro (art. 23 – 24);  Diritto alla salute (art. 25);  Diritto alla sicurezza sociale (art. 22);  Diritto all’istruzione (art. 26);  Diritto di partecipazione alla vita culturale della comunità (art. 27). Essi sono intimamente legati ai diritti di prima generazione (es. diritto al lavoro legato alla libertà di associazione per determinate attività).  L’idea dei limiti alla tutela dei diritti umani , contenuto nell’art. 29 ma con contorni vaghi. L’idea sottesa a tale articolo è che vi sono dei limiti alla tutela dei diritti umani. La Dichiarazione, come i Trattati, enunciano i diritti ma prevedono la possibilità che essi siano limitati. Nell’esercizio delle libertà previste nella Dichiarazione “tutti sono soggetti alle limitazioni stabilite nella legge e per gli obiettivi citati nell’art. 29” (es. rispetto dei diritti degli altri, rispetto della morale, rispetto dell’ordine pubblico etc.). Sono contenute in nuce le limitazioni. Immaginiamo al diritto di vedere rispettata la propria privacy. È un diritto che appartiene all’individuo intrinsecamente in quanto appartenente alla socialità (quindi non può essere illimitato). Accettiamo che abbiamo la privacy che può essere limitata, però, per interessi superiori (es. intercettazioni ambientali per delle indagini). Con l’adozione della Dichiarazione universale del 1948 i diritti umani fanno il loro ingresso sulla scena internazionale portando alla nascita del “diritto internazionale dei diritti umani”. In quegli stessi frangenti vengono anche approvati dall’Assemblea generale dell’Onu, la Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio e i cd Principi di Norimberga. Nel frattempo, si mette in cantiere quelle che nel 1950 sarà in Europa la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Con l’avvento delle norme internazionali sui diritti umani, gli individui godono di una protezione che non dipende più soltanto dal potere stesso e che non trova il suo fondamento ultimo all’interno dell’ordinamento nazionale ma è loro dovuta a prescindere e anche contro la volontà del proprio paese. Nonostante i progressi compiuti nel secondo dopoguerra, ancora oggi ci si trova spesso in presenza di violazioni massicce e su vasta scala, alle quali non si riesce a rispondere adeguatamente. Quanto meno, però, possiamo affermare con forza che si tratta di violazioni del diritto internazionale e che esse non possono essere accettate. Inoltre, la forza di reagire è attribuita a tutta la comunità internazionale, agli Stati in primo luogo e alle organizzazioni internazionali create dagli Stati, ma anche alla società civile internazionale, alle organizzazioni non governative, alla stampa e alle persona comuni. Proprio queste ultime, come ha ricordato Antonio Cassese, possono dare vita a quelle “minuscole onde di speranza” di cui parlò Kennedy in un discorso in Sudafrica nel 1966. QUADRO ISTITUZIONALE DELLE NAZIONI UNITE A TUTELA DEI DIRITTI UMANI Il difetto con cui nasceva la Dichiarazione è il difetto di controllo, ma col tempo si è sviluppato un quadro istituzionale. Diversi organi principali dell’ONU si occupano di tutela dei diritti umani: A. Assemblea Generale: nel tempo essa ha cominciato ad occuparsi di violazioni massicce dei diritti umani che anche grazie al lavoro di tale organo sono uscite dalla domestic jurisdiction. Essa lo ha fatto col tipo di attività tipicamente proprio (ossia con l’adozione di studi, di raccomandazioni e più in generale con la discussione politica sia in generale che su specifiche situazioni). È intervenuta, ad es., sulla Spagna di Franco, la questione di Israele, dell’apartheid. Altro atto tipico dell’assemblea è la produzione normativa di strumenti non vincolanti (Dichiarazione dei diritti umani) e infine nella promozione di Trattati (non è l’Assemblea a adottarli, ma essa ha un ruolo promotore degli stessi). In seno all’Assemblea Generale il compito di occuparsi delle questioni relative ai diritti umani è assegnato principalmente alla terza Commissione. Quest’ultima è un organo interno all’Assemblea e ne riflette la composizione (in essa sono rappresentati tutti gli Stati membri delle NU) e sostanzialmente ha il compito di dibattere e negoziare i progetti di risoluzione che poi l’Assemblea generale in plenaria adotta. L’Assemblea generale è anche una sede per il negoziato multilaterale di trattati internazionali in tema di diritti umani. La duplice circostanza che, da una parte, vi sono rappresentati praticamente tutti gli Stati del mondo e, dall’altra, la tematica della protezione o promozione dei diritti umani è uno dei compiti principali dell’Assemblea fa sì che venga spesso dato incarica alla stessa Assemblea di negoziare e approvare convenzioni internazionali. Esse dovranno poi naturalmente essere sottoposte dagli Stati alle rispettive procedure nazionali di ratifica, ma almeno sotto il profilo del processo e della sede negoziale hanno già il crisma della universalità, perché i negoziati in un consesso al quale partecipano tutti gli Stati.  Organo subordinato a essa è l’ECOSOC a cui l’Assemblea demanda compiti in sviluppo economico – sociale. L’ECOSOC, in misura di minor preminenza, è anch’ess intervenuto. Nell’articolo 68 della Carta delle NU l’ECOSOC è designato come l’organo con la responsabilità di occuparsi dei diritti umani e dello sviluppo, e in questa veste già nel 1946 aveva istituito la Commissione per i diritti umani. L’attività dell’ECOSOC si dispiega essenzialmente nel coordinamento di molte iniziative di istituzioni e organismi collegati alle NU, con i maggiori effetti nel settore dei diritti economici e sociali. B. Segretariato: nella figura del Segretario Generale. Quella che all’origine era una struttura burocratica, ha assunto poi un ruolo diplomatico grazie al Segretario Generale che rappresenta l’Organizzazione. Nell’ambito del ruolo diplomatico ha svolto un ruolo nella tutela dei diritti umani, infatti si fa promotore di istanze di tutela (es. Segretario si reca in missione in uno Stato membro e dopo emana un atto che non è una sentenza vincolante con conseguenze sanzionatorie, ma quella dichiarazione che stigmatizza il comportamento di uno Stato che sta violando/rischia di violare i diritti umani, ha peso dal punto di vista politico). Il segretario generale, con una sua importante circolare sul finire degli anni ’90 (cd Bulletin), ha imposto anche alle forze dell’Onu di attenersi sempre nelle operazioni al rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario. Esso ha nominato un elevato numero di suoi rappresentanti o inviati per per varie specifiche situazioni nelle quali emerge la violazione dei diritti umani; recentemente si è dotato di collaboratori stabili, quali per esempio lo Special Adviser per la prevenzione o repressione del crimine di genocidio o la Special Representative sul tema delle violenze sessuali in tempo di conflitti armati; C. Consiglio di Sicurezza: parliamo di un contributo concreto alla tutela dei diritti umani. Nel tempo il consiglio ha cominciato ad intervenire in situazioni che inizialmente non erano contemplate nell’idea della minaccia alla pace e sicurezza internazionale. Le situazioni via via annoverate nel concetto di pace e sicurezza ha cominciato a fare la comparsa anche la “violazione massiccia dei diritti umani all’interno di uno Stato”, benchè di profilo interstatale. Essa diventa, nella prassi di Stati membri, una questione che rientra nell’ipotesi di minaccia della pace e sicurezza internazionale (che permette al Consiglio di intervenire). Es. si è intervenuti contro il regime di apartheid, contro la repressione dei civili in Iraq ai tempi della Prima Guerra del Golfo (1991) (è intervenuto con sanzioni o autorizzando l’uso della forza, es. in Ruanda, Somalia). Più di recente l’azione del Consiglio a tutela dei diritti umani ha preso più sfumature: il Consiglio ha adottato misure, direttamente o indirettamente, di natura giudiziale (es. adottando tribunali ad hoc con la questione del Ruanda ed ex – Jugoslavia). È poi intervenuto con sanzioni in ambiti come il reclutamento di bambini – soldato. Esso è anche intervenuto con la risoluzione 1325 del 200 in materia di donne, pace e sicurezza (argomento ne contesto del quale vengono indicate puntualmente varie iniziative per ridurre la vittimizzazione delle donne nel corso dei conflitti). Inoltre, in occasione della crisi libica, il Consiglio ha affermato con forza l’applicabilità della nozione di responsibility to protect in base alla quale viene rafforzato l’obbligo per ciascuno Stato di proteggere la propria popolazione dalle gravi violazioni dei diritti umani; D. Corte internazionale di Giustizia: il ruolo di per sé della Corte è importantissimo in questo settore perché ricostruisce il diritto internazionale. È non una fonte in sé di diritto, ma è un punto di appoggio che ci aiuta a ricostruire le fonti (ci aiuta a interpretare e applicare trattati e consuetudini) (es. è grazie ad essa che possiamo ricostruire norme che ad es. contrastano il genocidio). È grazie ad essa che ricostruiamo norme che riguardano i diritti umani e grazie al suo lavoro possiamo dire che gli obblighi siano erga omnes. Anche, sempre, grazie alla Corte possiamo sostenere che la violazione di certi diritti umani (es. scaturenti dalla Dichiarazione) sono considerabili come violazioni della Carta dell’ONU. Poi, la Corte si è occupata concretamente di alcune questioni relative a diritti umani occupandosi di violazioni di trattati e consuetudini (es. Gambia v. Myanmar violazione presunta della Convenzione circa il genocidio). Benchè la Corte abbia un ruolo rilevante, va detto anche che non è estremamente efficace per l’individuo in quanto è ancora una Corte interstatale (solo gli Stati possono giungervi), non fa parte o Ha la funzione di promuovere il rispetto dei diritti umani a livello universale. Lo fa attraverso modalità diverse non vincolanti (infatti si pubblicano studi, rapporti, raccomandazioni etc.). Esso svolge:  Attività di educazione, formazione, assistenza tecnica;  È foro negoziale e di dialogo;  Il compito di monitoraggio del rispetto (considerare situazioni generali e specifiche di possibili violazioni dei diritti umani). Svolge l’attività di monitoraggio attraverso vari meccanismi:  Attraverso Universal Periodic Review, la valutazione complessiva di tutti gli obblighi in materia di diritti umani che hanno tutti gli Stati membri. Usa come standard di riferimento: la carta dei diritti umani, la Dichiarazione universali dei diritti umani e ogni documento circa diritti umani in merito a cui lo Stato è parte; Essa deve anche prendere in considerazione il diritto umanitario applicabile. Finisce per essere quell’organo di controllo che mancava. Nasce strumento non vincolante eppure si sviluppa nel tempo un meccanismo che ne controlla rispetto degli Stati. Ciò è analogo rispetto ad altre funzioni di organi che inviano rapporti periodici che indicano come si stanno tutelando i diritti umani all’interno di uno Stato. Quindi si parla di complementarietà rispetto a meccanismi analoghi di altri trattati; Ha anche possibilità di attingere ad un ampio raggio di informazioni. Può attingere alle informazioni raccolte dall’Alto commissario, da tutti gli altri esperti dei diritti umani sulle NU o dalla società civile; Al termine del meccanismo, viene pubblicato un “outcome report” nel quale si offrono le conclusioni circa la tutela dei diritti umani nello Stato come eventuali consigli su come si possa migliorare la situazione.  Complaint procedure, è una procedura di ricorso. Ha l’obiettivo di valutare situazioni gravi e sistematiche che avvengono ovunque e in qualunque circostanza. È sì un meccanismo di ricorso, ma il Consiglio riceve delle petizioni (ricorsi) da parte di persone, di gruppi o di Ong che siano vittime/abbiano conoscenza di violazione di diritti umani o nel caso delle Ong che abbiano conoscenza di una violazione (conoscenza diretta). Quindi non vengono considerate in quanto tali, non si esamina il singolo caso; le petizioni vengono usate come elementi probatori dell’esistenza di “violazioni gravi e sistematiche”. Tratti essenziali di questa: Tutta la procedura è improntata al dialogo con lo Stato (chiedendo a questo integrazioni/informazioni in una sorta di contraddittorio); Lo screening iniziale è fatto dal “working group on communications” (cinque membri dell’advisory committee) sul piano dell’ammissibilità. È evidente il momento giuridico – tecnico inserito per evitare un mero stampo politico. Esso:  Valuta i ricorrenti;  Valuta se sono stati esauriti i ricorsi interni (ciò deve essere provato dai ricorrenti);  Valuta che il caso non sia sottoposto ad un altro meccanismo di controllo sui diritti umani (per evitare sovrapposizioni che potrebbero portare a dei contrasti). Se ammissibile, si passa al WG on situations (sottogruppo del Council) che fa raccomandazioni al Council; Il Council può:  Derubricare la questione e considerarla chiusa;  Richiedere ulteriori informazioni seguendo il principio base del dialogo con lo Stato;  Rendere pubblico tutto, se non contento delle informazioni che ha ottenuto e quando è convinto vi sia la violazione. Di base, infatti, la procedura è confidenziale in quanto ciò serve ad aiutare lo Stato a sentirsi a proprio agio e poi risolvere la questione. Inoltre, la minaccia di rendere pubblica la situazione può incentivare a risolvere il problema;  Da ultimo, nominare degli esperti per seguire la situazione (chiamate special procedures).  Indagine, può creare una commissione di inchiesta che con la collaborazione degli Stati in esame può svolgere questo compito. Molto spesso è il centro (cuore) della disputa e dunque riuscire a ricostruire la realtà dei fatti è essenziale. È successo, ad es., nelle situazioni in Libia e Darfur ove queste commissioni di inchiesta (composte da persone indipendenti) sono capaci, non solo di ricostruire i fatti, ma anche di suggerire in maniera non vincolante come si possa procedere una volta ottenute le informazioni;  Special procedures, che si possono adottare autonomamente o al termine di una complaint procedure. Si dividono in: country e thematic. a. I membri possono esercitare pressione politica per movimentare la situazione emettendo statement in cui pongono l’attenzione della comunità internazionale circa la situazione di cui si occupano e criticare uno Stato; b. Hanno una componente rilevante di indagine, infatti prevedono una fase investigativa di raccolta di informazioni (fact – finding); c. Nell’ambito delle special procedures vengono stabiliti meccanismi di complaints. Chi li riceve non considererà come se fosse un giudice decidendo sul caso, ma li raccoglie come manifestazione di una situazione generalizzata dei diritti umani. Nella grande galassia delle istituzioni che operano per la tutela dei diritti umani, vi è una serie di organi di controllo che operano all’interno di sistemi specifici previsti da altrettanti trattati internazionali, sono i cd Treaty based bodies. Sono in genere comitati composti da individui che vi siedono a titolo individuale, senza prendere ordini né da governi né da altra fonte e senza rappresentare gli interessi di alcuno Stato e che svolgono il mandato loro assegnato dal rispettivo trattato con imparzialità ed indipendenza. Vi sono quanto meno nove comitati:  Comitato per i diritti umani;  Comitato sui diritti economici, sociali e culturali;  Comitato sull’eliminazione della discriminazione razziale;  Comitato sull’eliminazione della discriminazione contro le donne;  Comitato contro la tortura;  Sottocomitato per la prevenzione della tortura;  Comitato dei diritti del fanciullo;  Comitato sui lavoratori migranti e quello sui diritti delle persone con disabilità;  Comitato sulle enforced disappereances. Ciascun organo di controllo ha un segretariato che è messo a disposizione delle NU e si riunisce a Ginevra o a New York. Il compito di questi comitati è svolgere azioni di controllo circa l’attuazione delle rispettive convenzioni. In linea di massima tre sono le funzioni:  ricevono rapporti periodici sulla situazione dei diritti umani negli Stati membri del relativo trattato. Senza dubbio il meccanismo più diffuso, con l’intento di mettere in luce eventuali problemi strutturali che ostacolano l’attuazione del trattato, oltre che specifiche violazioni. Ovviamente la ratifica di un trattato sui diritti umani non è di per sé sufficiente ad assicurare la piena protezione di questi. Anzi, i tratta soltanto id un primo passo in quanto è necessario che seguano misure specifiche a livello interno. Si può trattare dell’istituzione di organi nazionali competenti a prestare tutela ai diritti coinvolti, oppure della previsione di procedure per la realizzazione di tali diritti, o ancora dell’adozione di norme interne che li prevedano. Tale sistema dei rapporti periodici può servire a mettere in luce l fragilità normative/istituzionali degli ordinamenti nazionali. I comitati oltre ai rapporti ufficiali possono ricevere anche altre informazioni da fonti diverse. Sulla scorta del materiale esaminato i comitati formulano un proprio documento che contiene le valutazioni sulla situazione e raccomandazioni su cosa si può fare per migliorare la tutela. Esso non ha natura vincolante, ma il cui carattere pubblico e la possibilità che esso venga invocato nel dibattito interno e internazionale possono servire da stimolo alle autorità nazionali per adottare le misure necessarie;  si esprimono in maniera astratta sull’attuazione delle convenzioni, attraverso i cd commenti generali. Tali commenti possono essere su questioni tematiche sostanziali (ossia interpretazione dei diritti previsti dal trattato) oppure su questioni procedurali relative al funzionamento del sistema di controllo;  ricevono denunce su ipotesi specifiche di violazioni. Tale strumento può essere attivato da denunce provenienti dagli Stati membri oppure attraverso denunce delle vittime delle violazioni o per conto delle stesse. L’esito non è mai comparabile ad una sentenza contro lo Stato, né ha la forza vincolante né gli effetti, tuttavia si avvicina il più possibile ad essa nelle forme di accertamento delle violazioni. Denunce individuali Una delle questioni più delicate nel panorama de meccanismi di tutela dei diritti umani riguarda la possibilità per gli individui che subiscano violazioni dei propri diritti di presentare delle vere e proprie denunce contro i soggetti che abbiano commesso tali violazioni. Sul piano internazionale non c’è una regola generale che consenta tali denunce individuali, e non esiste nemmeno un diritto a portare coloro che abbiano commesso le violazioni davanti ai tribunali interni. Esistono delle corti regionali, ma al momento non si è ancora arrivati alla creazione di una giurisprudenza internazionale. Tuttavia, un principio generale di diritto vorrebbe che a ogni violazione debba corrispondere una qualche forma di riparazione. Sul piano internazionali si tratterebbe dunque di assicurare che, accertata la violazione, venga data attuazione alla responsabilità. Esistono almeno cinque trattati internazionali sui diritti umani che prevedono l’istituzione di appositi organi di controllo competenti a ricevere anche denunce individuali. A tal fine è però necessario che gli Stati, oltre ovviamente a ratificare la convenzione che prevede i diritti fondamentali garantiti, prestino il loro consenso alla possibilità di essere oggetto di denunce individuali. Il Comitato sui diritti umani può esaminare denunce individuali relative a Stati parte al primo Protocollo addizionale al Patto. Pressoché la stessa cosa vale per gli altri comitati per attivare la competenza dei quali è previsto o l’adozione di uno specifico protocollo addizionale oppure la formulazione di una specifica dichiarazione prevista dalla convenzione base. La Convenzione sui lavoratori migranti contiene anch’essa disposizioni che consentono agli individui di presentare denunce individuali sulle violazioni dei diritti garantiti dalla Convenzione davanti al Comitato di controllo.  Divieto di arresto e detenzione arbitrari (art. 9);  Diritti dei detenuti (art. 10), sintetizzabili in “trattamento umano”. La disposizione dell’art. 10 è rara e in questo caso il patto entra molto nello specifico;  Divieto di imprigionamento per debiti (art. 11);  Diritto al riconoscimento come persona davanti alla legge (art. 16);  Equo processo (art. 14), è una norma dettagliata perché ci sono tante garanzie dell’equo processo Gli elenchi e i contenuti dei diritti possono, quindi, variare. Non sempre, infatti, i diritti vanno interpretati nello stesso modo. × Libertà dell’individuo come membro di una società e tutela della sfera psicologica :  Diritto al rispetto della vita privata e familiare (art. 17):  Protezione della famiglia (inclusa libertà di matrimonio) (art. 23);  Diritti del fanciullo.  Libertà di pensiero, coscienza e religione (art. 18);  Libertà di espressione (art. 19):  Divieto di propaganda bellica e incitamento all’odio (art. 20)  Diritto di riunione pacifica e associazione (artt. 21 – 22). × Libertà di movimento (artt. 12 – 13), ma manco il diritto di cercare asilo. Manca il diritto di proprietà che potrebbe considerarsi di natura economica, ma in altri strumenti (es. CEDU) concernenti diritti civili e politici è considerato. Natura degli obblighi: (art. 2) ciascuno Stato parte si impegna a rispettare e garantire sul proprio territorio (e per i territori sotto la sua giurisdizione) i diritti garantiti nel seguente patto. Utilizziamo il General Comment n. 31 dello Human Rights Committee per potere capire l’interpretazione di questa norma. Esso dice (nell’analisi dell’art. 2): a. Da questo patto derivano obblighi erga omnes partes; b. Questi obblighi vincolano lo Stato nel suo insieme, a tutti i livelli. In questo senso si intende dire che lo Stato risponde per gli atti di tutti i propri organi i quali si devono impegnare, prescindendo il proprio livello gerarchico, a rispettare i diritti umani. A tutti i livelli sia per quanto concerne le funzioni dello Stato (es. in particolare per la funzione normativa, la traduzione in legge non è un requisito richiesto. Solo in certi casi è richiesto, come ad esempio, nel caso del divieto di tortura. È invece, sistematicamente richiesta l’attività giudiziaria in quanto esiste l’obbligo di tutela da violazioni) sia per la propria posizione geografica (es. enti regionali); c. Lo Stato ha obblighi:  Negativi (to respect), indicano l’astensione ossia l’obbligo per lo Stato di non interferire nei diritti umani;  Positivi (to ensure), indicano l’obbligo di fare ossia di attivarsi per adottare le misure di tutela di questi diritti. Il Comitato si è addentrato negli obblighi positivi e lo HRC dice che gli obblighi positivi dello Stato possono essere tutto sommato quattro:  Lo Stato deve prevenire le violazioni (adottare le misure necessarie a prevenire). All’interno di questa idea della prevenzione c’è un concetto ossia quello degli “effetti orizzontali indiretti” di questi trattati, si intende che lo Stato ha l’obbligo di garantire i diritti anche da violazioni rispetto ad altri trattati. Di per sé, il Trattato impone obblighi allo Stato, non nei rapporto interindividuali, ma poichè il Trattato obbliga lo Stato a proteggere ciascun individuo anche dalle violazioni di altri trattati, finisce per creare indirettamente effetti nei rapporti tra privati. L’obbligo di prevenire obbliga ex ante a differenza dei prossimi tre;  Lo Stato deve indagare per ricostruire fatti e attribuire responsabilità;  Lo Stato deve indagare ai fini di punire;  Lo Stato deve offrire un rimedio per la vittima (diritto autonomo che lo Stato è chiamato a garantire). d. Lo Stato deve garantire i diritti del Patto a tutti gli individui:  Sparisce la distinzione tra cittadino e straniero;  Sono diritti individuali (non sono garantiti diritti collettivi in senso proprio). e. Lo Stato deve garantire i diritti sul territorio o sotto la sua giurisdizione.  I diritti devono essere rispettati e garantiti non solo quando l’individuo di trova sul territorio dello Stato, ma anche quando si trova sotto la sua giurisdizione (situazioni in cui fuori dal territorio dello Stato, sia sotto il controllo effettivo dello Stato): Compimento fatti leciti di alcuni agenti di uno Stato all’estero (cd passport cases nei casi dei diplomatici quando si negava la concessione di passaporti); Ciò può accadere anche per fatti illeciti (es. presenza non autorizzata di agenti dello Stato sul territorio straniero o addirittura occupazione bellica).  L’andare aldilà comporta che lo Stato possa essere chiamato a rispondere per ciò che accade in casi di estradizione, espulsione etc. Lo Stato ha l’obbligo di non estradare, espellere una persona dal proprio territorio verso il territorio di un altro Stato qualora al soggetto in esame possano derivarne gravi pregiudizi. I diritti umani non sono sempre tutelati in maniera assoluta; esistono diversi meccanismi che pongono dei limiti ai diritti umani e sono autorizzati e disciplinati dai trattati stessi: I. Limitazioni (limitations), es. art. 18 del Patto ove le limitazioni si evincono la paragrafo 3. Le limitazioni, in questo caso, non vanno ad incidere sulla sfera del credo della persona; si va a limitare la manifestazione della religione (non la convinzione religiosa). Il paragrafo 3 dice che la libertà di manifestare il proprio credo può essere sottoposto alle limitazioni se: × Stabilite dalla legge. Devo avere una disposizione normativa che ha previsto in via general quel tipo di restrizione; × Necessarie. Quindi limitazioni adottabili solo se necessarie per scopi tassativamente elencati; × Necessità in funzione degli scopi. II. Deroghe : le limitazioni sono collegate a diritti specifici e le troviamo nelle stesse norme che disciplinano i diritti; le deroghe sono una clausola generale che si applica alla generalità dei diritti. Inoltre, la ratio delle limitazioni è creare limiti strutturali a diritti umani (senza scadenza specifica e non legata a diritti umani specifici), per le deroghe esse sono una sospensione in via generale dei diritti umani in situazioni eccezionali. Lo si evince leggendo l’incipit dell’art. 4 “ci deve essere una situazione di public emergency che minaccia la vita stessa della Nazione” (cd stato di necessità). Tale è sia ratio che prima condizione. Altre condizioni: stato di emergenza deve essere ufficialmente proclamato (secondo procedure di ciascun paese) e poi, in presenza di queste condizioni, si possono adottare misure strettamente necessarie a fronteggiare l’emergenza. Le scelte dello Stato devono essere determinate dalla necessità d fronteggiare questa esigenza. L’art. 4 aggiunge che le deroghe sono accettabili se non incompatibili con altre disposizioni di diritto internazionale e poi non devono comportare una limitazione. NON tutti i diritti sono derogabili. Infine, bisogna portare all’attenzione delle altre parti la presenza/adozione delle deroghe attraverso il Segretario generale dell’ONU; III. Riserve : per quanto riguarda il Patto in esame sono state oggetto del General Comment n. 24. La giurisprudenza dello HRC ha chiarito: × Riserve che si presumono contrarie all’oggetto e allo scopo del trattato (quindi non si applicano):  Riserve a norme consuetudinarie;  Riserve a norme imperative;  Riserve a diritti inderogabili;  Riserve che vertono su garanzie processuali a tutela dei diritti sostanziali. × Le riserve illegittime si hanno come non apposte. Lo Stato diviene parte del Trattato senza beneficio della riserva che ha posto; × Tutto viene valutato dallo HRC. Meccanismo di monitoraggio del Patto: non è tra i meccanismi più forti perché siamo comunque in tempi di guerra fredda e l’Unione Sovietica vorrebbe evitarlo addirittura. Alla fine, viene creato un meccanismo articolato a diverse procedure e ruota attorno allo Human Rights Committee (istituito col patto stesso), composto di membri (18) eletti dagli Stati parte e che siedono personalmente (non a rappresentanza degli Stati). Inoltre, non è costituito dalla Carta delle NU, ma è treaty built (costruito su trattato). I meccanismi di controllo sono tre: A. Rapporti periodici obbligatori dello Stato (unico obbligatorio), prevede l’obbligo per gli Stati parte di inviare dei rapporti periodicamente all’interno dei quali lo Stato deve illustrare come tutela i diritti umani previsti all’interno del proprio territorio e territori sotto la sua giurisdizione. Il Comitato, quando considera tale rapporto, può invitare lo Stato ad un confronto o raccogliere altre informazioni attraverso altre agenzie delle NU o Ong e può anche svolgere delle indagini in locu.  Il Comitato adotta osservazioni conclusive ove si dirà quali sono i punti di forza e criticità di tutela dei diritti all’interno dello Stato. Esse non equivalgono a una sentenza, ma costituiscono un punto di riferimento fondamentale per la situazione complessiva della tutela dei diritti umani;  Il Comitato adotta, anche, General Comments raccogliendo in un unico commento le valutazioni su vari sistemi. Un esempio è il General Comment sulla natura degli obblighi che gli Stati hanno. Quando alla luce di queste il Comitato ritiene sia utile interpretare determinate disposizioni e tali Comments fanno quindi da fonte cruciale di interpretazione. B. Conciliazione interstatale opzionale, meccanismo opzionale disciplinato nel fatto. Si prevede che gli Stati possano procedere a una conciliazione (risolvere una controversia). È questo uno dei meccanismi di soluzione delle controversie che prevede che gli Stati si rivolgono a una Commissione di conciliazione che propone una soluzione alla controversia (che può essere accettata o meno). Nel caso speciale del patto è un meccanismo mai utilizzato; C. Meccanismo opzionale di ricorso individuale, è basato sulle individual communications proposte al Comitato da individui che ritengono di aver subito una violazione dei propri diritti. Tale meccanismo si basa su un trattato separato, ossia il Protocollo opzionale per i ricorsi individuali entrato in vigore il 23/3/1976 e oggi conta centosedici Stati parte (es. UK, Cina non lo hanno ratificato). Affinchè ci si possa rivolgere al Comitato e lamentare violazione, vi deve essere stata la ratifica di tale Protocollo. Ammissibilità dei ricorsi, (art. 1) ogni Stato parte del Patto che diviene parte al protocollo riconosce la competenza del Comitato a ricevere e analizzare ricorsi di individui che sostengono di essere vittima di violazione dei diritti riconosciuti. Requisiti di ammissibilità: a) Il caso deve riguardare uno Stato parte al Patto e al Protocollo. Ciò nasconde anche un aspetto temporale, ossia posso evocare responsabilità dello Stato davanti al Comitato solo post entrata in vigore del Patto e del Protocollo per quello Stato; b) Sono ammissibili solo ricorsi di individui (non collettivi) sotto la giurisdizione dello Stato e che sono vittima della violazione (non possono sollevare violazione dei diritti umani nell’interesse altrui, come accade nella procedura davanti al Consiglio). Il concetto di vittima è stato  Diritto alla salute, lo Human Rights Council ha adottato una postilla sul “diritto all’acqua” che di per sé non è sancito esplicitamente a livello normativo. È stato estrapolato da un diritto a uno standard adeguato di vita e dal diritto alla salute. Si svolge un lavoro utilissimo con grande valenza creativa. Oggi si può dire che il Patto richiede di riconoscere il diritto all’acqua grazie a tale postilla. III. Diritti culturali (artt. 13 – 15):  Diritto all’istruzione;  Partecipazione alla vita culturale del Paese;  Diritto all’identità culturale delle minoranze;  Tutela della proprietà intellettuale. Natura degli obblighi: in principio questa natura è differente rispetto al precedente Patto. Ci aiuta, nell’interpretare la norma, il General Comment n. 3 del Comitato sui diritti economici, sociali e culturali (CESCR) che si concentra sull’art. 2 paragrafo 1. In forza di ciò “ciascuno Stato parte al Patto si impegna ad adottare i passi necessari al fine di assicurare progressivamente la piena realizzazione dei diritti contenuti nel patto”. Si è discusso a lungo circa la natura degli obblighi che scaturiscono da questo Patto. Sono radicalmente diversi dagli obblighi nascenti dall’altro Patto e sono più deboli rispetto a quelli del Patto sui diritti civili e politici. Essi sarebbero più deboli perché:  Si prevedono solamente obblighi di raggiungere obiettivi di lungo termine attraverso una realizzazione progressiva (invece gli altri sono di realizzazione immediata);  Sono obblighi difficilmente misurabili ed esigibili in giudizio (richiedono sforzo positivo dello Stato teso al raggiungimento di un obiettivo futuro);  Sono realizzabili compatibilmente con le risorse disponibili (cosa che svuota di significato i diritti stessi). La distinzione rispetto all’altro Patto non è, in realtà, così netta come si vuole far credere. Infatti: A. Innanzitutto, ci sono aspetti di tali diritti ESC suscettibili di applicazione immediata × nell’ambito delle libertà sindacali vi è diritto allo sciopero; × o all’art. 13 paragrafo 3 vi è l’obbligo di rispettare le scelte dei genitori per l’educazione dei propri figli; × nell’ambito della protezione per la famiglia si parla di libertà di matrimonio o obbligo di proteggere i bambini dallo sfruttamento economico – sociale. B. Anche se si parla di progressiva realizzazione di obiettivi nel lungo termini, gli obblighi sono suscettibili di essere concretizzati maggiormente perché per gli Stati c’è l’obbligo di adottare passi per raggiungere l’obiettivo di lungo termini: × implica l’obbligo di muoversi il più velocemente possibile e con continui miglioramenti verso l’obiettivo. Il fatto che ci siano dei passi non implica che gli Stati si possano crogiolare. Vi è, quindi, un’inversione dell’onere della prova in caso di regresso (se non progredisce, deve giustificarsi); × a volte sono indicati i passi precisi da adottare:  es. per combattere il fenomeno del lavoro minorile, gli Stati devono fissare limiti di età sotto i quali il lavoro minorile è punibile;  es. lavoratrici madri devono avere congedo per maternità;  es. ambito del diritto all’istruzione si deve garantire che l’istruzione primaria sia garantita e gratuita. C. I diritti ESC sono variabili a differenza dei CP che sono assoluti in quanto gli Stati hanno l’obbligo di impegnarsi al massimo e se uno Stato non ha risorse o ne ha poche può sempre non impegnarsi e scusarsi. Ma si è chiarito che: × Non si può scendere al di sotto di uno standard minimo; × Bisogna utilizzare tutte le risorse disponibili al massimo dell’efficienza e in modo equo (l’onere della prova spetta allo Stato che dimostra di aver fatto tutto il possibile per impiegare in modo equo le risorse); D. Si dice che poi che i diritti ESC non sono giustiziabili (ossia non sarebbero esigibili in giudizio), ma abbiamo esempi di diritti di questo tipo che sono giustiziati: × Gli aspetti dei diritti ESC suscettibili di applicazione immediata; × Diritto di una equa remunerazione; × Diritto di formare e partecipare a sindacati; × Diritto di beneficare della protezione della interesse materiale e morale risultanti dalla produzione di cui si è autori. La distinzione, in definitiva, è meno netta di quella che sembra. Infatti, nessuno contesta la giustiziabilità degli stessi diritti contenuti in altri strumenti.  (CEDU) Es. diritto al lavoro nel Patto ESC che trova corrispettivo nell’articolo 4 paragrafo 2 della CEDU. Nessuno contesterebbe mai la giustiziabilità dell’art. 4 della CEDU che trova corrispettivo nell’art. 6 del Patto ESC e quindi anche la giustiziabilità di questo non è contestabile. Altro esempio è la possibilità di formare sindacati e far parte ai medesimi. Esiste l’art. 11 della CEDU che prevede questo e trova riscontro nell’art. 8 del Patto ESC.  (PATTO CP) Il parallelo si può fare anche con il Patto CP in quanto l’art. 13 parla del rispetto delle scelte dei genitori sull’educazione dei figli; l’art. 18 Patto ESC prevede una disposizione identica. Ancora nell’art. 10 sul Patto ESC si parla di diritto al matrimonio ripreso poi nell’art 23 del Patto CP. E. Inoltre, anche quando poi non abbiamo medesima norma e diritto nei due patti, in realtà diritti analoghi sono stati poi interpretati nei rispettivi sistemi come aventi lo stesso contenuto. Es. art. 11 Patto ESC nell’ambito dello standard adeguato di vita contiene il diritto alla vita e se guardo alla giurisprudenza scoprirò che ciò riflette fedelmente quello che si è dedotto dall’art. 17 sul Patto CP. Per dimostrare che le due categorie di diritti non sono distanti si può anche fare strada inversa laddove anche i diritti CP prevedono obblighi positivi, di natura progressiva, che richiedono investimenti economici (identico ai diritti ESC). Nell’ambito delle norme a tutela dell’equo processo, nel Patto CP, si richiede si istituire un gratuito patrocinio ed è vicina a quello che viene chiesto agli Stati ai sensi del Patto ESC. Meccanismo di monitoraggio: non molto diverso rispetto al precedente.  L’organo di controllo (Comitato ESCR) ha la stessa natura rispetto allo HRC in quanto composto da esperti indipendenti;  Gli Stati hanno l’obbligo di inviare rapporti periodici. Da ciò: o Il Comitato può produrre osservazioni conclusivi sui rapporti; o Il Comitato produce General comments su singoli diritti e questioni.  È stato adottato un Protocollo opzionale (nel 2008 ed entrato in vigore nel 2013). Quando si è fatta distinzione tra diritti, uno degli argomenti a sostengo del fatto che i diritti ESC non sarebbero giustiziabili era anche che per il Patto ESC mancasse un meccanismo giudiziale o quasi giudiziale (es. non esisteva ricorso individuale). Quando il Patto è stato adottato, infatti, non è stato immediatamente dotato di un meccanismo di ricorso come era avvenuto con l’altro Patto, quindi la riflessione è valida sino al 2008 quando vi è stata adozione del Protocollo. Esso prevede: o Meccanismo di ricorso interstatale che poichè contenuto in un Protocollo opzionale, è facoltativo (non solo perché è disponibile solo per quelli che ratificano il Protocollo, ma anche perché gli Stati devono esprimere con dichiarazione l’accettazione di tale meccanismo). Se vi è stata tale duplice procedura, per loro è disponibile il Comitato che offre i propri buoni uffici aiutando le parti a raggiungere un accordo sulla soluzione della controversia; o La possibilità di ricorsi individuali. Sul piano dell’inammissibilità:  È inammissibile se il caso è presentato oltre un anno dall’esaurimento dei ricorsi interni (non si parla di scadenza temporale nell’altro Patto CP);  È inammissibile se il caso è pendente o se è stato già deciso da altro meccanismo di controllo sui diritti umani. o Procedura di inchiesta per violazione gravi e sistematiche dei diritti nel Patto ESC se lo Stato ha accettato la competenza del Comitato in tal senso. Specializzazione e settorializzazione: dopo la conclusione dei Patti internazionali del 1966 si è compresa una caratteristica fondamentale dei diritti umani ossia l’insieme di questi è flessibile e meglio adattabile alle esigenze degli Stati. Era possibile ipotizzare delle geometrie variabili, ossia raccogliere gli Stati soltanto attorno a certi specifici diritti sui quali vi era accordo e lasciare da parte per un futuro negoziato altri diritti più controversi. Spesso, infatti, gli Stati possono avere sensibilità, situazioni politiche e culturali, contesti economici e sociali, diversi; pertanto, è ben possibile che non siano tutti in grado di dare attuazione agli stessi diritti, nello stesso modo e nello stesso momento. Il trattato sotto questo profilo può presentarsi come uno strumento flessibile che si può adattare a varie situazioni. Emerge così il fenomeno di una screscente specializzazione e settorializzazione della normativa in materia di diritti umani. È vero come molti affermano che la Carta sembra indicare che i diritti umani sono unici e indivisibili. È anche indubbio che si è spesso affermato che i diritti civili e politici non devono essere visti come diritti gerarchicamente sovraordinati ai diritti economici, sociali e culturali; talvolta, peraltro, i nemici dei diritti umani hanno invocato la scindibilità dei diritti per conseguire obiettivi inconfessabili. Tuttavia, è anche certo che non è possibile perseguire efficacemente a livello internazionale una tutela eguale per tutti i diritti. × Così, sin dall’indomani dell’adozione dei due Patti, viene avviato il processo di settorializzazione. Tale processo è consistito nell’adozione di convenzioni specifiche (es. contro la tortura, contro l’apartheid etc.). Al tempo stesso la settorializzazione è intervenuta anche con riferimento all’istituzione di organi e politiche di promozione e controllo in ogni specifico settore; × Parallelamente si è assistiti ad una specializzazione, in linea con l’organizzazione delle strutture dell’Onu (es. Unicef). Il rischio di questi due fenomeni può essere la perdita di prospettiva e la riduzione dell’impatto dei diritti umani a mere opzioni tecniche. Il fatto di essere confinati ad un certo ambito o a certe categorie di individui rende i diritti umani meno solidi. Inoltre, essi hanno creato il rischio che vi siano diritti umani di serie A e di serie B perché per esempio previsti da convenzioni meno ratificate. Sono nove complessivamente i principali trattati internazionali sui diritti umani (ad alcuni di questi accordi sono stati affiancati dei Protocolli che completano i trattati e affrontano generalmente questioni più specifiche):  Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razionale (1965);  Convenzione contro l’apartheid (1973);  Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne (1978);  Convenzione contro la tortura e ogni trattamento o punizione crudele, inumano o degradante (1984);  Convenzione dei diritti del fanciullo (1989);  Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie (1990);  Convenzione relativa ai diritti delle persone con disabilità (2006);  Convenzione internazionale per la protezione di tutte le persone da “sparizione forzata” (2006). Il ricorrente va contro l’UK lamentando il rischio di subire violazione se venisse estradato e quindi UK responsabile per ciò che rischia di accadere se estradasse il soggetto), respingimenti (Hirsi Jamaa and others v Italy nel quale vi erano persone respinte in zone di mare al di fuori della giurisdizione italiana verso l’Africa. Le autorità italiane si difendevano sostenendo che tutto ciò fosse avvenuto al di fuori. La Corte, invece, arriverà a dire che l’Italia è responsabile perché le persone erano sotto il controllo italiano in quanto gli atti erano posti in essere da autorità italiane).  Come limiti ai diritti umani:  Limitazioni, limiti inseriti nel medesimo articolo che disciplina il diritto in sé e che sono il più delle volte associati a diritti che disciplinano la partecipazione alla società. I criteri sono gli stessi visti per il Patto. Es. articolo 8 rispetto per la vita privata e familiare ove al paragrafo 2 si dice “non vi possono essere interferenze a rispetto della vita privata e familiare tranne che (…) eccezioni incluse per legge, necessari e per perseguire determinati obiettivi che la convenzione elenca tassativamente);  Deroghe, disciplinate all’art. 15. La ratio è una situazione di emergenza che consente allo Stato di sospendere i diritti previsti nella CEDU. Le condizioni per cui possa scattare il meccanismo è che siamo in presenza di una guerra o altro pericolo pubblico che minacci la nazione (stato di necessità). Posso intervenire solo sui diritti che possono essere sospesi in funzione dell’esigenza e secondo criterio di proporzionalità. Inoltre, le deroghe sono temporanee in quanto servono solo a fronteggiare l’emergenza. Le condizioni per cui esse siano accettabili non esentano gli Stati a rispettare altri obblighi (es. in materia di diritto umanitario). Ci sono anche diritti inderogabili (lista diversa dal trattato, in comune ci sono diritto alla vita/divieto di tortura/divieto di schiavitù/irretroattività della legge penale). Qualcuno ha sostenuto, in dottrina, che sarebbero automaticamente consuetudinarie quelle norme che riflettono i diritti inderogabili. Questo argomento ha un fondamento di logica, ma si ferma nel momento in cui riscontriamo che la lista dei diritti inderogabili varia da trattato a trattato. il discorso dell’inderogabilità aggiunge un elemento di prova in più alla ricerca quando ci si interroga sull’esistenza di norme consuetudinarie in questo settore. Ultima cosa da dire è che quando siamo in presenza di deroghe lo Stato deve informare l’organo di riferimento per poter rendere anche gli altri Stati edotti circa le misure (in questo caso è il Segretario Generale del Consiglio);  Riserve, si applicano le regole sulle riserve nel campo dei diritti umani. Le riserve che non sono poste lecitamente sono considerate come non apposte (quindi lo Stato è vincolato al trattato nella sua dicitura iniziale). Rispetto al Patto, la CEDU disciplina le riserve. All’art. 57 ove si disciplinano le riserve si dice che sono vietate “riserve generiche”. In questo la CEDU non è rivoluzionaria in quanto non fa che mettere per iscritto un requisito sviluppato in via giurisprudenziale. Ciò perché la riserva mira a modificare come un trattato venga applicato e quindi non posso considerare come legittimamente apposta una riserva se non riesco a capire come cada sul trattato questa. Meccanismo di controllo: vero fulcro di efficacia. Esso si fonda sulla Corte Europea dei Diritti umani (sede a Strasburgo). Una delle caratteristiche è la possibilità dell’individuo di rivolgersi direttamente alla Corte, ma non bisogna creare l’equivoco che appena vi sia violazione si possa subito rivolgersi alla Corte. Infatti, esso rimane un sistema sussidiario rispetto alla tutela statale: esiste sempre il previo esaurimento dei ricorsi interni che non è un requisito di ammissibilità ma di primazia dello Stato. Questo è un sistema che si è perfezionato nel tempo in quanto il sistema originario era simile a quello della attuale tutela interamericana (c’era una Commissione a cui si era affiancata la Corte e per i ricorsi individuali lo Stato doveva avere accettato, l’individuo non si poteva presentare direttamente). C’è stata, poi, evoluzione del sistema. Un momento importante si è avuto nell’adozione del Protocollo 11. Si è arrivati poi al meccanismo attuale: Commissione scompare; unico organo di controllo è la Corte; sono spariti tutti i filtri di intervento della Corte e l’individuo ha possibilità di agire direttamente. Inoltre, nel momento in cui lo Stato accetta la CEDU, automaticamente si impegna ad accettare anche la giurisdizione della Corte. Va sottolineato che l’andamento di questo sviluppo è stato in una certa direzione sino ad un certo punto per fare poi un passo indietro. Il sistema di controllo è andato sempre più a favore del ricorso individuale e la Corte è rimasta l’unica a gestire. Questo ha naturalmente aumentato il numero di casi 6500 casi ca nel 1998, post Protocollo 1 nel 2004 i casi erano circa 75000. Ciò significa che la Corte con l’aumentare delle possibilità di ricorso ha conosciuto il “carico eccessivo”. Se in un primo periodo, quindi, il progresso è andato nella direzione di ammettere sempre più ricorsi per l’individuo, a un certo punto è stato necessario introdurre limiti a questi ricorsi. La Corte ha competenza per decidere su: a) Ricorsi interstatali , per essi qualunque stato parte si può rivolgere alla Corte lamentando la violazione da parte di un altro Stato parte. In essi uno Stato può anche lamentare di una violazione in astratto (es. se un altro Stato ha adottato una legge che in astratto sembra essere in contrasto con la Convenzione stessa); b) Ricorsi individuali , può fare ricorso qualsiasi persona fisica o giuridica che lamenti la violazione. La vittima deve lamentare una violazione concreta e non meramente astratta: × Concetto di vittima interpretato in modo ampio (es. sono state considerate vittime i parenti legati alle persone che hanno materialmente subito la violazione, es. madri di soggetti che hanno subito sparizioni forzate/lo stesso si può dire per la vittima potenziale ossia estradizione, espulsione del soggetto che possa subire altrove una violazione); × Condizioni di ricevibilità:  Previo esaurimento dei ricorsi interni, si richiede l’esaurimento solo se questi siano efficaci e accessibili senza ritardi. La cosa interessante è che in ragione di quella evoluzione accennata pocanzi nell’ambito della CEDU sono stati introdotto limiti entro i quali deve presentarsi ricorso alla CEDU post perfezionamento del ricorso interno. Il ricorso deve essere presentato entro sei mesi (il Protocollo 15 lo porta a 4 mesi);  Sono inammissibili: ricorsi anonimi, già presentati ad altro meccanismo (si vuole evitare il ne bis in idem), incompatibili con la CEDU, manifestamente infondati (es. ipotesi di invocazione di un diritto non contenuto nella CEDU) o abusivi;  Aver subito un “significant disadvantage”, si vuole evitare che vengano presentati ricorsi se ci sono danni irrisori (caso Korolev v Russia in cui il ricorrente si lamenta del fatto che lo Stato non gli ha pagato una somma minima). È uno dei requisiti introdotti per evitare ricorsi. Procedura: 1. Caso esaminato da Giudice unico che valuta l’ammissibilità. Può dichiarare inammissibile; 2. Altrimenti si va presso un Comitato (composto da tre giudici) il quale può dichiarare inammissibilità (all’unanimità): altrimenti può decidere nel merito se la questione riguarda “well – established case law of the Court” (giurisprudenza consolidata). In caso in cui non si risolva ci si sposta; 3. Camera (composta da sette giudici), decide su ammissibilità e merito (decide su ricordi interstatali). La Corte si riunisce poi nella Grande Camera (17 giudici): × Relinquishment (rimessione) a meno che una parte non si opponga. Esso viene fatto quando si vogliono evitare contrasti di giurisprudenza o eventuali contatti con Protocolli; × Referral (rinvio) da parte di una delle parti alla controversia. Sentenza della Camera definitiva a meno che non vi sia entro tre mesi un referral. Esso viene rinviato o per grandi problemi di interpretazione o abbiamo problemi di applicazione della Convenzione. La Camera può rovesciare la decisione. Non è un sistema di doppio grado, ma di mantenimento di coerenza; × Competenze consultiva, su richiesta del Comitato dei ministri si esprime sull’interpretazione della Convenzione. Le sentenze della Corte sono vincolanti e adottate a maggioranza. A livello di contenuto accertano la violazione ricostruendo il diritto, stabiliscono che lo Stato deve rimuovere effetti negativi della violazione (es. risarcimento economico a favore del ricorrente). Esse creano obblighi di conformarsi, ma non sono ad es. in grado abrogare leggi/sentenze/disposizioni interne. Inoltre, non sono immediatamente esecutive, necessitano sempre che lo Stato dia esecuzione.  Nel tempo, poi, è stata sviluppata la sentenza pilota, possibilità di affrontare una grande quantità di casi vertenti su una medesima problematica. In tal caso può selezionare uno di questi casi e risolverlo, sospendendo la considerazione degli altri casi appartenenti alla medesima famiglia. La Corte, nel decidere il caso concreto, avrà cura su cosa lo Stato debba fare in genere per risolvere il nodo che ha creato tutti i casi simili. Se lo Stato risponde a quanto la sentenza pilota ha stabilito, la conseguenza naturale di ciò dovrebbe essere che si risolvano tutti gli altri casi. La Corte si riserva la possibilità di riprendere in mano la situazione se gli Stati non si comportano rispettando la sentenza pilota.  Con l’adozione del Protocollo 16 è stata anche data possibilità di richiedere alla Grande Camera circa applicazione della Convenzione quando serve a risolvere il caso che le singole corti hanno di fronte a sé.  La Corte può anche adottare misure cautelari prima di intervenire in maniera esecutiva (es. in tema di estradizioni).  È permessa soluzione amichevole extragiudiziale. Il Consiglio dei ministri vigila esecuzione sulle sentenze, può citare uno Stato davanti alla Corte se non rispetta le sentenze stesse, può attivare competenza consultiva. Non può arrivare a delle vere sanzioni, ma a diciture in cui ad esempio si dichiara che lo Stato non sta rispettando determinati obblighi. Esso può espellere uno Stato. I CRIMINI INTERNAZIONALI DELL’INDIVIDUO Se guardiamo all’affermarsi di tali crimini, possiamo notare un parallelismo con quanto avvenuto nei diritti umani: essi sono il rovescio della stessa medaglia. Il concetto di crimini internazionali dell’individuo si è affermato in fase recenti.  In passato, sul piano sostanziale, l’atto criminoso dell’individuo era considerata solo sul piano del diritto interno e perseguiti dai giudici di ciascuno Stato secondo regole interne. Se poi l’individuo era un organo dello Stato, l’atto in sé era un atto dello Stato e se fosse stato illecito sarebbe stato preso in considerazione solo ed esclusivamente sul piano dello Stato in quanto tale (l’atto dell’organo si confondeva con l’atto dello Stato e l’organo non ne rispondeva). Ciò è andato cambiando con l’affermazione dei crimini internazionali dell’individuo. Oggi si ritiene vi sia responsabilità personale dell’individuo anche se è un organo, e tali sono dati proprio dal diritto internazionale. Si sono affermati degli standard universali in materia di diritti umani e anche nell’ambito dei crimini. Se l’individuo è un organo dello Stato, questa qualifica non lo protegge più. Essi sono standard universali per cui vale il principio che non è rilevante se il comportamento è lecito sul piano internazionale (possiamo avere crimine internazionale anche nel caso in cui quel fatto sia lecito nel diritto umano). Se ho degli standard in materia di diritti umani possono essere violati anche se il comportamento è conforme al diritto interno dello stesso (è la stessa logica).  Grande innovazione si ha anche sul piano processuale, in quanto con l’affermarsi dei crimini internazionali dell’individuo accanto all’affermazione sostanziale si afferma anche lo sviluppo a livello procedurale, ossia lo sviluppo di meccanismi per giudicare crimini internazionali di vario tipo o tribunali  È una Corte con giurisdizione complementare rispetto alle giurisdizioni nazionali. È chiamata a decidere solo e le corti nazionali sono unwilling e unable (non vogliono giudicare o non sono in grado di giudicare). Nei tribunali penali ad hoc, invece, vi è una prevalenza dei tribunali rispetto alle Corti interni. b) Essa è un’organizzazione internazionale, con personalità giuridica, collegata alle NU ma non dipendente dalle medesime. La Corte ha giurisdizione sui crimini più gravi del diritto internazionale previsti dallo Statuto (previsti dall’art. 5, mentre artt. 6 ss. disciplinano i crimini specifici). Tale elenco riflette il diritto consuetudinario. Uno degli elementi che costituiscono un’innovazione importante rispetto ai sistemi precedenti è la giurisdizione ratione temporis. Essa nasce per essere generale, ma nell’avere questo ruolo non significa che la Corte abbia giurisdizione illimitata. Infatti, nascendo da un Trattato essa gioca sull’irretroattività quindi potrà esprimersi solo su ciò che avviene post la sua nascita con entrata in vigore dello Statuto. Se lo Stato aderisce post entrata in vigore, si potrà agire solo sui crimini commessi post adesione. La Corte si fonda su alcuni principi di diritto penale: nullum crimen sine lege (una persona è responsabile solo se la condotta costituisce crimine se considerato tale nel momento in cui si verifica) e nulla poena sine lege (una persona non è colpevole se quando ha compiuto il fatto non era crimine). Nel dettaglio: o Genocidio (art. 6), distruzione totale o parziale di un gruppo etico – religioso. Essa riprende la definizione contenuta nell’apposita Convenzione. È un crimine che riflette una norma consuetudinaria ed esso costituisce uno di una serie di atti tassativamente elencati come ad es. causare gravi danni fisici o mentali nel gruppo, uccidere parte del gruppo e tali atti siano commessi con l’intento di distruggere in tutto o in parte il gruppo. È uno di quei casi non frequenti del diritto internazionale in cui viene richiesto il dolo, infatti nell’art. 6 viene richiesto l’intento di distruggere; o Crimini contro l’umanità (art. 7), parla di uno qualsiasi degli atti elencati (es. omicidio, sterminio, schiavitù) all’art. 7 commessi intenzionalmente nell’ambito di un attacco a vasto raggio sistematico diretto verso una popolazione civile. Si parte dal fatto che non possa essere un caso isolato, bensì ne parliamo nell’ambito di vasto raggio sistematico. Il singolo caso, nella tutela dei diritti umani, è rilevante in quanto violazione dei diritti umani e questo vale per tutti i trattati. In altri contesti, invece, il caso è rilevante quando è elemento di una violazione a vasto raggio (violazione diffusa/sistematica). Quando scatta tale differenza? Nell’ambito dei meccanismi di controllo con i Charter – based lì il singolo caso veniva preso in considerazione solo in quanto elemento di tale violazione diffusa e sistematica. Stessa cosa avviene nei casi dei crimini contro l’umanità. L’altro elemento che emerge è che ci debba essere l’intenzionalità; e poi, l’attacco deve essere posto in essere contro civili. Ciò non vuol dire che essi non possono essere commessi in tempo di guerra; o Crimini di guerra (art. 8), violazioni gravi delle norme sullo ius in bello. Innanzitutto, violazioni gravi delle norme pattizie in materie (Ginevra, 1989) (es. omicidio volontario, tortura etc.), ma anche violazioni gravi delle norme consuetudinarie che disciplinano la materia specifica. Sono rilevanti anche i casi isolati in quanto l’art. 8 ne parla in particolare quando siano commessi su vasta scala, non ampio raggio; o Aggressione (art. 8 bis), in principio era rimasto in sospeso in quanto si rimandava a un momento successivo l’esercizio di questa giurisdizione perché ne mancava la definizione. Quest’ultima è arrivata con una Conferenza. Si parla di aggressione come uso della forza per la violazione di disposizioni. Benchè tali norme siano dettagliate, comunque questi crimini sono poi da integrare con gli elementi costitutivi dei crimini disciplinati all’art. 9. L’Assemblea degli Stati parte infatti ha adottato gli elementi (ulteriori dettami su come vadano interpretati tali crimini). I crimini internazionali si vanno ad aggiungere a quella che è la violazione da parte di uno Stato di una norma di diritto internazionale. Qui abbiamo, ad esempio, il crimine di genocidio di fronte alla cui fattispecie posso avere sia il profilo della responsabilità dello Stato che ha violato la Convenzione o la norma consuetudinaria che vieta il genocidio e in aggiunta potrò avere responsabilità personale sul piano del diritto penale internazionale dell’individuo che ha commesso il crimine di genocidio. Ciò, ad esempio, anche nell’aggressione in quanto se lo Stato viola i principi della Carta che sono anche consuetudinari allora vi è responsabilità dello Stato per tale violazione, ma anche il soggetto che ha effettivamente posto in essere l’aggressione risponderà anch’esso per il crimine. La Corte ha una giurisdizione in principio generale, in quanto contrapposta a quella specificamente limitata ad ambiti precisi. In concreto la disposizione della Corte è limitata da diversi fattori prima di tutto perché sorta con Trattato. Abbiamo visto prima che ha potere solo nell’ambito di crimini previsti dallo Statuto ed è limitato dall’irretroattività. Inoltre, essa è limitata dal pacta tertiis in quanto lo Stato non può imporre diritti e obblighi verso Stati terzi. È qui che viene utile l’art. 12 (condizioni per l’esercizio della giurisdizione). Si ritiene che la giurisdizione possa essere esercitata solo se vi è il coinvolgimento di uno Stato parte. Uno Stato decide di accettare la giurisdizione della Corte sui crimini di cui all’art. 5 ed è divenuto parte. Oppure lo Stato può accettare la giurisdizione della Corte anche non essendo parte ma accettandola ad hoc con una dichiarazione. A questo punto viene superato l’ostacolo di imporre organi a Stati terzi e la Corte ha giurisdizione. Essa ha giurisdizione se si presentano una o più delle condizioni che seguono, ossia se uno o più degli Stati sono Stati parte o hanno compiuto accettazione quando si tratta di:  crimini commessi sul territorio di uno Stato parte, quindi la Corte può esercitare la giurisdizione nello Stato sul cui territorio o a bordo della cui nave o aereo è stato commesso il crimine;  crimini commessi da un cittadino parte dello Stato che ha fatto dichiarazione. (La Corte ha giurisdizione sui crimini commessi sul territorio o per i cittadini dello Stato). Sono criteri alternativi in quanto la Corte ha giurisdizione anche solo se uno degli Stati è parte. Ciò vuol dire che cittadini di Stati non parte possono essere comunque perseguiti se nel territorio o a bordo di navi e aerei di Stati parte. Ciò si è avuto in Palestina ove la Corte potrebbe essere chiamata a giudicare dei crimini commessi nei territori palestinesi occupati post 2014 da cittadini di Stato non parte ad esempio Israele. La Corte ha aperto una trattazione, anche, sui Rohingya portati dal Myanmar verso il Bangladesh. Quest’ultimo è parte, mentre il primo no. La giurisdizione della Corte (art. 13, exercise of jurisdiction) viene messa in moto (triggering mechanism) se: × una situazione viene sottoposta al Procuratore da uno Stato parte, qualunque esso sia e anche lo Stato stesso del cui territorio si sospetta ci possono essere stati crimini che ricadono sotto giurisdizione della Corte. È il caso del Venezuela per presunti crimini a partire dal 2017 quando si sono verificate dimostrazioni di piazza che hanno assunto carattere violento e tutte i casi di political arrest. La natura dell’interesse della comunità internazionale per seguire questi crimini è evidente nel fatto che chiunque stato parte possa agire; × il Procuratore ha iniziato la procedura. Essa può agire motu proprio; × una situazione viene sottoposta al Procuratore dal Consiglio di Sicurezza che agisce in funzione del capitolo VII della Carta delle NU. Ciò è dato anche dal fatto che il giudizio penale può essere considerato anche uno dei mezzi attraverso cui mantenere o sistemare pace e sicurezza. Per altro, non si tratta di un’imposizione dall’alto ma gli Stati che hanno negoziato avranno scelto di attribuire tale prerogativa al Consiglio.  Circa il ruolo del Consiglio (potere di referral), all’art. 12 si dice che la Corte può esercitare la propria giurisdizione se uno o più Stati sono parte o se si seguono determinate caratteristiche (territorio/cittadino). Quindi è esclusa l’ipotesi del paragrafo b dell’art. 13 ossia circa il Consiglio. Le condizioni per l’esercizio della giurisdizione si applicano quindi solo nel paragrafo a) e c), se è il Consiglio di sicurezza a riferire il caso non operano quei limiti quindi si potrà giudicare anche di limiti ad esempio commessi da cittadini di Stati non parte né sul territorio di uno Stato parte;  Segue il potere di deferral, ossia potere di sospendere/rinviare la giurisdizione della Corte per una situazione sulla quale la Corte avrebbe giurisdizione. Può avvenire per dodici mesi ed essere rinnovabile. Si è deciso di attribuire tale possibilità di sottrarre perché possono esserci casi in cui sottoporre alla Corte un caso potrebbe addirittura essere un problema per la pace e sicurezza internazionale. Tale prerogativa è stata utilizzata, es. Risoluzione 1422 (2002) che sottraeva giurisdizione nell’ambito di peacekeeping. Costituisce un esempio interessante di quanto suddetto, la questione del Darfur (Sudan). Il conflitto in Darfur è interno e molto aspro e ha sollevato l’attenzione della comunità internazionale in quanto minaccia alla pace e sicurezza internazionale. Nel 2004 si è chiesto al Segretario generale dell’ONU di creare una Commissione d’inchiesta per valutare circa l’eventuale violazione di diritto umanitario, di diritti umani e commissione di crimini internazionali. La Commissione nel proprio rapporto raccomanda al Consiglio di Sicurezza di sottoporre il caso del Darfur alla Corte penale internazionale proprio in forza del potere di referral. Non è obbligato il Consiglio, ma è chiaro che la Commissione di Inchiesta sia funzionale a ricostruire i fatti e quindi tale raccomandazione viene presa in seria considerazione dal Consiglio di sicurezza. La Commissione ricostruisce anche la fattispecie da un punto di vista giuridico sostenendo che ci siano premesse per considerare violazioni e commissioni di crimini e che il giudizio da parte della Corte potrebbe essere funzionale a ristabilire la pace nella regione. A questo punto si porterà alla Risoluzione 1593 del 2005 nella quale:  In primis si prende nota di quanto riportato dalla Commissione di Inchiesta, agendo in forza del capitolo VII della Carta agisce per refer;  Poi in un altro passaggio si dice che “decide che il Governo del Sudan e tutte le parti devono cooperare con la Corte”. Nascendo da un trattato poteva chiedere cooperazione solo degli Stati parte, ma quando la situazione nasce da un refer allora si potrà attivare tale cooperazione. Se la giurisdizione della Corte nasce dal referral del Consiglio, l’obbligo di cooperare è in capo a tutti gli Stati dell’ONU;  Infine, al paragrafo 6 vediamo anche il deferral. ALTRI LIMITI ALLA LIBERTA’ DEGLI STATI E ALLA SOVRANITA’ TERRITORIALE Ciò riguarda i limiti alla libertà di sfruttamento delle risorse naturali e obblighi di prevenire l’inquinamento: la protezione dell’ambiente. Tale corpus normativo si sviluppa a partire dagli anni ’70. Dal punto di vista dell’evoluzione storica: 1. Prima della creazione delle NU non viene fatto molto. Tutto ruota attorno al principio di sovranità, per cui ciascuno Stato può fare ciò che vuole dell’ambiente e soprattutto ha libertà di gestione delle risorse. Il principio di sovranità ha l’obbligo come corollario di rispettare gli altri Stati. Un esempio importante è la controversia tra USA e Canada relativa alla fonderia di Trail (sentenza del tribunale arbitrale 11 marzo 1941) e il problema nasce da fumi canadesi che passano sugli USA. Il tribunale arbitrale dirà solo che “nessuno Stato ha diritto di utilizzare o permettere che sia utilizzato il proprio territorio in modo da danneggiare coi fumi il territorio di altri Stati”. Non c’è l’attenzione verso l’ambiente in sé e vengono quindi fatti tentativi per regolare la gestione di parti che non sono sotto la giurisdizione degli Stati (es. alto mare). Qualcosa si muove a livello pattizio, ma si tratta essenzialmente di accordi tra pochi Stati per gestire insieme una risorsa condivisa o in reazione a disastri eclatanti (affondamento di una petroliera che porterà alla conclusione di un accordo sulla responsabilità per i danni che derivano dall’immersione in mare di idrocarburi);  Obbligo di predisporre un sistema di autorizzazione preventiva per attività pericolose. Il progetto parla dell’obbligo dello Stato di predisporre un sistema di autorizzazioni per attività pericolose. Nell’ambito delle attività di controllo dei privati, si stabilisce un meccanismo per cui chi voglia compiere particolari operazioni rischiose debba ricevere un’autorizzazione;  Segue un obbligo di Valutazione di Impatto Ambientale (VIA), se lo Stato svolge un progetto che potrebbe avere grande effetto sull’ambiente è tenuto ad effettuare tale Valutazione per denotarne l’impatto sull’ambiente. Esso è stato espressamente definito come un obbligo consuetudinario;  Obbligo di informare e consultare altri Stati potenzialmente interessati dall’attività pericolosa. Ciò per entrare in consultazione con essi. Non si ha, però, diritto di veto in quanto lo Stato intenzionato al progetto potrà comunque compierlo. La consultazione serve allo Stato anche per poter formulare piani e prospetti e su come prevenire un’eventuale danno. B. Obbligo di cooperazione fra Stati in campo ambientale. In particolare:  Nella gestione delle risorse condivise (es. area forestale al confine tra Stati). Si deve avere gestione equa. In questi contesti equità è tenere gli interessi di tutti gli Stati coinvolti e non agire unilateralmente;  Nella gestione di risorse comuni (es. pesca in alto mare). Le risorse dell’alto mare era risorse comuni e come tali potevano essere sfruttate senza limiti da tutti gli Stati; oggi la situazione è cambiata. Nessuno Stato ha particolare giurisdizione, ma si è affermato l’obbligo di cooperare nella gestione di queste risorse in quanto queste nel tempo si sono depauperate in maniera significativa. Es. nelle risorse ittiche dell’alto mar il riferimento è Montego Bay perché si gestisce in maniera specifica il tutto;  Nella gestione di interessi o preoccupazioni comuni dell’umanità (common concern o common interest) (es. atmosfera, biodiversità). Ciascuno Stato deve fare il proprio nell’interesse collettivo di tutta l’umanità. Circa la biodiversità, il fatto che sia qualificata come interesse comune dell’umanità ciò non significa sia sottratta alla sovranità del singolo Stato. Qualificarla come interesse comune significa che quello Stato deve conservare la biodiversità nell’interesse di tutti gli altri Stati. Parliamo, quindi, di obblighi erga omnes. Ogni Stato può includere certi ecosistemi nella lista internazionale UNESCO (es. Dolomiti in quanto l’Italia ha proposto di includere le Dolomiti nella lista di beni naturali). Ciò non viene sottratto alla sovranità italiana, tuttavia vista tale scrittura l’Italia si è assunta l’obbligo di proteggerle nell’interesse di tutti gli altri;  Nella gestione del patrimonio comune dell’umanità (es. Area internazionale dei fondi marini ossia la porzione di fondi marini aldilà della giurisdizione degli Stati). In questo caso le risorse dell’area possono essere sfruttate solo in un quadro gestito da una apposita organizzazione, in questo caso Autorità internazionale dei fondi marini. Inoltre, questo sfruttamento delle risorse porta alla redistribuzione dei vantaggi economici che derivano da tale sfruttamento. C. Principio precauzionale. Nasce per far fronte all’incertezza scientifica in quanto questa materia è legata alla scienza. La prevenzione succitata è l’obbligo richiesto sulla base della conoscenza certa delle dinamiche dal punto di vista scientifico. Il principio precauzionale si sviluppa proprio per far fronte a questa esigenza. La formula più nota è nel principio 15 della Dichiarazione di Rio su sviluppo e ambiente (1992) (essa è uno strumento di soft – law). Il principio 15 dice che per proteggere l’ambiente si deve adottare approccio precauzionale. La mancanza della piena certezza scientifica non può essere usata come scusa per posticipare adozione di misure per prevenire degrado ambientale. Esempio regolamentazione della lotta ai cambiamenti climatici. Si è sviluppato a partire dal 1992. All’epoca non c’era piena certezza scientifica circa le conseguenze sul clima ad esempio a seguito dell’emissione di gas sull’effetto serra. È stata conseguenza evidente del principio il fatto che gli Stati nonostante l’evidenza scientifica di tale pericolosità hanno scelto lo stesso di regolarli. Il principio è poi stato incorporato anche nell’art. 191 del TFUE ove si dice “la politica dell’unione dell’ambiente deve tendere”. Sempre rimanendo nell’ambito del diritto dell’UE, vi la direttiva Habitat con formula leggermente diversa rispetto al principio 15. Tale diversità si ha a livello testuale e concettuale in quanto la formula della Direttiva Habitat è un po’ più severa in quanto essa predispone una sorta di inversione dell’onere della prova. Si dice che devo valutare l’impatto ambientale delle attività che voglio portare avanti. Se dopo la valutazione rimane l’incertezza, posso permettere solo quelle attività per cui c’è certezza che non ci sarà un danno ambientale. Posso effettuare solo attività per cui ho certezza che non ci sarà danno ambientale. Un’altra manifestazione si può ravvisare nell’evoluzione del fenomeno di immersione in mare di sostanza dannose (dumping). In passato si poteva immergere tutto tranne quello specificamente indicato in una lista. La normativa si è evoluta in senso precauzionale di modo che nelle recenti evoluzioni è vietata l’immersione di qualunque sostanza tranne la lista di sostanze tassativamente elencata. Si è invertito onere della prova. A differenza degli altri principi succitati è difficile dire che tale principio si tratti di una norma consuetudinaria. Ci si può chiedere se lo sviluppo sostenibile implichi anche degli obblighi specifici per gli Stati. Alla luce degli strumenti normativi si può forse ricostruire una serie di sotto obblighi riconducibili a questo. Avremo:  Obbligo di utilizzo sostenibile delle risorse, cioè utilizzo in modo tale affinchè non si esauriscano. Es. la convenzione di Montego Bay prevede per alcuni posti di limitare la pesca entro un certo limite sotto il quale lo stock di pesce si esaurirebbe;  Principio di integrazione, ed è chiaro cosa intendiamo se guardiamo l’art. 11 TFUE “Le esigenze connesse con la tutela dell’ambiente devono essere integrate nella definizione e nell’attuazione delle politiche e azioni dell’Unione, in particolare nella prospettiva di promuovere lo sviluppo sostenibile”. Esso significa integrare le considerazioni ambientali nelle azioni di altri settori. Nel momento in cui mi appresto a prendere una decisione ad es. nel settore infrastrutturale, devo integrarle nel processo decisionale relativo allo sviluppo;  Sviluppo sostenibile significa anche equità: o Equità intra – generazionale (responsabilità comuni ma differenziate). Ciò è espresso nella Dichiarazione di Rio al Principio 7 “in vista dei differenti contributi alla degradazione dell’ambiente globale, gli Stati hanno comuni ma diverse responsabilità. I paesi sviluppati riconoscono la responsabilità che essi hanno nella ricerca internazionale di uno sviluppo sostenibile in considerazione delle pressioni che le loro società esercitano sull'ambiente globale e sulle tecnologie e risorse finanziarie che comandano”. Esso significa che gli Stati hanno sì responsabilità comuni in campo ambientale, ma esse sono differenziate in ragione del fatto che i paesi più sviluppati sono i massimi responsabili del degrado ambientale e allo stesso tempo sono quelli dotati di maggiori risorse per far fronte a tali problemi. Quindi, ad es., gli Stati possono sì essere tutti parte di un medesimo trattato, ma ne possono discendere obblighi diversi per gli Stati; o Equità intergenerazionale, tra diverse generazioni. Lo strumento che per primo ha dato una definizione di sviluppo sostenibile è il Rapporto della Commissione mondiale su ambiente e sviluppo (o detto Rapporto Brudtland) per cui “Lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfa le esigenze del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare le proprie esigenze”. Esso sancisce la possibilità di tenere in considerazione i diritti delle generazioni future. A cosa significa a livello giuridico? come faccio a farli valere in giudizio? Tutto ciò è ancora oscuro.  Lo sviluppo sostenibile può essere utilizzato da giudice/interprete del diritto internazionale come strumento interpretativo per coordinare norme di diversi settori del diritto internazionale (es. coordinamento fra norme sul commercio e sulla protezione dell’ambiente quando abbiamo parlato di interpretazione dei trattati). Dunque, se sviluppo sostenibile significa bilanciare sviluppo economico e ambiente, nell’ambito dell’interpretazione significa bilanciare il commercio internazionale da un lato e la protezione ambientale dall’altro. Seguono altri principi generali: D. Principio “chi inquina paga” (polluter pays), esso impone agli Stati di adottare le misure necessarie affinchè chi inquina sia costretto a pagarne il costo. I costi, quindi, vengono internalizzati ossia devono essere sopportati da chi si avvantaggia di un’attività economicamente redditizia, ma che determina rischi per l’umanità. Se non si ha internalizzazione, si avrebbe esternalizzazione e ciò verrebbe supportato dalla società. Il principio di divieto di inquinamento transfrontaliero è diverso in quanto qui si tratta di un obbligo dello Stato di disciplinare ciò che avviene al proprio interno e gestire l’attività di privati. Chi inquina paga, in che modo? Si può stabilire a livello normativo un criterio di responsabilità oggettiva, non solo a livello di diritto interno. Sono infatti stati adottati trattati ibridi sulla responsabilità civile delle imprese per danni ambientali. Con questi gli Stati dispongono, ad es., che sia responsabile un soggetto che è autore di un’attività e che si incarichi anche dei rischi che derivano dalla stessa (es. trasporto via mare degli idrocarburi ove l’armatore ne è responsabile). Altri metodi possono essere: adozione di meccanismi di tassazione per attività inquinanti. Non è più di moda in quanto il diritto internazionale si è spostato sulla prevenzione; E. Principio di partecipazione:  Il principio 10 della Dichiarazione di Rio su sviluppo e ambiente stabilisce “le questioni ambientali sono gestite al meglio con la partecipazione di tutti i cittadini interessati, al livello pertinente. A livello nazionale, ogni individuo ha un adeguato accesso alle informazioni riguardanti l'ambiente che le autorità pubbliche hanno e l'opportunità di partecipare ai processi decisionali. facilita noto e incoraggia la sensibilizzazione e la partecipazione dell'opinione pubblica rendendo le informazioni ampiamente disponibili. L'accesso effettivo ai procedimenti giudiziari e amministrativi, compresi i risarcimenti e i rimedi, è”. Questi possono essere considerati i tre elementi essenziali della partecipazione: accesso all’informazione, partecipazione alle decisioni, accesso alla giustizia. È ormai una costante in tutti questi trattati ambientali riscontrare questi principi.  C’è anche la Convenzione di Aarhus che si occupa precisamente di questi tre pilastri. Gli Stati, secondo questa, devono modificare il proprio assetto giudiziario e normativo esterno in modo tale da garantire alle persone sotto la loro giurisdizione i tre elementi.  Ultimo elemento è un caso della CEDU, Guerra et al. v. Italy (1998), e con esso la corte ha interpretato l’art. 8 della CEDU che parla di vita privata e familiare come ricomprendente anche il diritto a ricevere informazioni in campo ambientali. I ricorrenti abitavano a Manfredonia accanto a un impianto chimico molto pericoloso in cui si erano verificati incidenti con inquinamento da Arsenico e lamentavano che lo Stato non li aveva adeguatamente informati dei rischi, né aveva adottati misure idonee a prevenire. La Corte accoglie ricorso e dice che l’Italia ha violato l’art. 8 in quanto ha omesso l’informazione ai cittadini delle conseguenze. TRATTATI MULTILATERALI IN CAMPO AMBIENTALE Diverse tipologie: 1) La prima di cui possiamo parlare riguarda gli accordi su gestione di risorse comuni o condivise (es. laghi internazionali). Essi sono trattati che disciplinano nel dettaglio la gestione equa e ragionevole della risorsa condivisa ed esclude atti puramente unilaterali. In molti casi si crea attraverso tali trattati una vera e propria organizzazione internazionale col compito di gestire la risorsa. Di solito è detta o Redistribuzione in modo equo dei benefici derivanti dallo sfruttamento economico delle risorse. La Convenzione insieme a un Protocollo aggiuntivo crea un meccanismo per cui gli Stati detentori della biodiversità permettono accesso a queste risorse sul proprio territorio dall’esterno. Un esempio è accesso alle imprese che possono effettuare le proprie ricerche. Per evitare che vada solo a favore delle imprese, la Convenzione stabilisce che i paesi traggano benefici economici dallo sfruttamento della propria biodiversità (es. pagamento di forma forfettaria, percentuale derivante da un prodotto realizzato sfruttando la biodiversità). La Convenzione non considera solamente i rapporti interstatali in quanto in questo meccanismo vi sono anche popolazioni locali e indigene. In molti casi l’ottenimento del valore economico derivante dallo sfruttamento della biodiversità è basato su competenze indigene (es. impresa farmaceutica porta a un farmaco partendo dal veleno di una rana e l’impresa arriva a studiare ciò perché la popolazione indigena utilizza questo veleno per cacciare). La Convenzione, prendendo in valore tale contributo, predispone che parte dei benefici vadano anche a favore di queste popolazioni indigene. APPLICAZIONE DI ISTITUTI E CONCETTI DI DIRITTO INTERNAZIONALE NEL DIRITTO INTERNAZIONALE DELL’AMBIENTE Cominciando dai soggetti: 1) Stati, sono l’unità di misura della comunità internazionale anche nel campo ambientale. In questo settore:  Vi sono dinamiche peculiari a causa delle differenza tra Paesi in via di sviluppo e Paesi industrializzati. Ciò si declina con un’attribuzione diversa degli obblighi in capo ai singoli Stati. Sono stati introdotti i Paesi con economie in transizione sorti dallo smembramento dell’ex Unione Sovietica e sono in posizione intermedia sia come ricchezza che come obblighi;  Diventa fondamentale l’assistenza tecnica e finanziaria allo sviluppo in quanto il conformarsi a norme internazionali richiede un grande sforzo economico. 2) Organizzazioni internazionali:  Possono fornire assistenza tecnica e finanziamento;  Il loro ruolo fondamentale è dare impulso allo sviluppo del diritto (es. convocando conferenze diplomatiche o adottando strumenti di soft – law);  Diventano entità a cui gli stati delegano i compiti nell’ambito della gestione di risorse condivise. 3) Attori sub – statali: per esempio enti territoriali se parliamo dell’Italia. Essi sul piano generale del diritto internazionale cominciano ad avere sempre più prerogative che vanno al di là del ruolo interno. Iniziano a vedere fenomeni di cooperazione transfrontaliera di queste entità senza passare per il centro. Essi non sono soggetti autonomi, ma restano degli obblighi dello Stato in quanto c’è comunque un intervento dello Stato in una fase del procedimento (magari a posteriori). In ogni caso c’è sorveglianza dello Stato centrale. Tuttavia, in misura diversa, tali enti hanno sempre più prerogative di cooperazione diversa in ambito ambientale laddove vengono create, ad es. aree protette transfrontaliere che vengono gestite attraverso la cooperazione di tali entità sub-statali; 4) Attori non statali, partecipazione crescente della società civile in senso ampio:  Pressione politica, la società civile preme affinchè lo Stato adotti certe normative in un argomento pressante, ma può anche capitare che la pressione politica abbia fine opposto ossia frenare l’andamento. Un esempio è l’accordo sullo sfruttamento delle risorse minerarie dell’Antartide adottato e mai entrato in vigore;  Partecipazione sul piano internazionale ai negoziati, essa aumenta di anno in anno non solo numericamente ma anche qualitativamente. Chiaramente ancora non si è arrivati al fatto che la società civile partecipi a negoziati su base perfettamente paritaria rispetto agli Stati stessa. Le forme, le modalità sono sempre diverse e ci si avvicina sempre più a una partecipazione piena di questi attori al processo negoziale. Essa però partecipa a negoziati o facendo parte della delegazione degli Stati o perché possono far sentire la proprio voce in modi diversi;  Sviluppo di norme sulla partecipazione della società civile alla partecipazione (es. principio 10 Dichiarazione di Rio);  Partecipazione al monitoraggio del rispetto delle norme. 5) Comunità locali e popoli indigeni, sono a volte titolari dei diritti relativi alle risorse della biodiversità che vengono poi sfruttate e per questo motivo hanno diritto di partecipare all’equa partizione; 6) Imprese:  Ruolo negativo perché spesso responsabili del problema ambientale. Tale è la ragione della nascita di norme internazionali che attribuiscono direttamente la responsabilità per certe attività pericolose in campo ambientale;  Ruolo positivo: × assumono sempre più un ruolo li leadership nei negoziati in quanto gli Stati in molti casi sono più restii ad ascoltare le posizioni della società civile e finisce che le imprese spesso diventano punto di riferimento per la società civile per ascoltare le istanze di quest’ultima; × incentivazione del loro coinvolgimento. Es. meccanismi di flessibilità di Kyoto. Uno di questi è uno stato di coinvolgere le imprese che realizzano progetti che prevedono abbattimento dell’effetto serra all’estero. L’impresa dello Stato A realizza un progetto nello Stato B. Tale è un progetto che comporta abbattimento di emissioni nocive. Nel realizzare il progetto lo stato A può aumentare le proprie emissioni in proporzione a quanto ha ridotto all’estero. Circa le fonti: 1) Grande produzione normativa pattizia e meno norme consuetudinarie. Ciò poichè:  Si richiedono tecnicismi e quindi un trattato ad hoc è più idoneo rispetto alla formazione spontanea;  La grande massa dei trattati ambientali crea frammentarietà. Le questioni ambientali sono affrontate con una miriade di trattati per cui ognun affronta un aspetto. Questo anche perché scienza e conoscenza si evolve. Vengono ad esempio introdotte sostanze sostitutive di sostanze nocive che sono nocive da un punto di vista e poi si scopre che siano dannose da altri punti di vista. Alcuni gas, ad esempio, dannosi per alcuni lati sono produttivi per altri. Ciò determina problemi di coordinamento in quanto ciò non avviene a livello centralizzato. Ecco perché alcuni trattati stanno iniziando a creare collaborazioni stabili tra i vari segretariati quando almeno i campi di azione si sovrappongono. 2) Vi è peculiarità dei sistemi normativi: con conseguente adattamento all’evoluzione della scienza/conoscenza:  Vi è quindi un grande uso di soft – law in quanto gli Stati prima di tuffarsi a capofitto definendo uno strumento vincolante, inizia solamente a gettare le basi con strumenti non vincolanti (es. si è visto ciò anche nel movimento transfrontaliero di rifiuti pericolosi). Con gli strumenti di soft – law si testano i consensi degli Stati in merito o possono essere un impulso per l’adozione in sé di uno strumento di hard law. o A tale strumento di soft – law spesso segue una convenzione quadro (vincolante), è una convenzione che contiene magari i principi generali ma a differenza dello strumento di soft – law iniziano ad essere vincolanti (es. Convenzione quadro sui cambiamenti climatici prevede l’obbligo generale di ridurre i gas ad effetto serra) e poi serve anche a creare meccanismi che servono a sviluppare il diritto in una fase successiva. o Seguono i protocolli aggiuntivi specifici per obblighi accessori (ad es. in materia finanziaria, di cooperazione) di supporto al cuore del problema (es. Protocollo di Kyoto). Il quadro lo fa la Convenzione quadro e l’interno lo determinano i protocolli.  Vi è anche una maggiore flessibilità nell’evoluzione normativa rispetto a meccanismi tradizionali perché l’esigenza di adattarsi alla conoscenza non c’è solo all’inizio nel momento in cui gli Stati scelgono di adeguarsi la prima volta, ma è costante. Una volta che ho creato il meccanismo normativo flessibile, poi ho bisogno di mantenere la flessibilità e (come accade per la maggior parte dei trattati che per essere modificati necessitano di lunghe procedure) si trovano meccanismi alternativi (anche nei trattati ambientali è previsto, però, l’emendamento come meccanismo). Accanto alle modifiche importanti dei trattati che anche qui seguono la metodologia dell’emendamento, ci sono altri sistemi per dettagli tecnici meno importanti. Es. se ho un trattato che si occupa di sostanze pericolose di un certo tipo ne avrò una lista di queste che deve essere sempre aggiornata. Si adotta una equipe che fa questo. Per fare ciò si devono creare i “fenomeni di cooperazione istituzionalizzata” che secondo Fodella non sono organizzazioni, ma vi si avvicinano. Infatti, esse sono un insieme di organi che creano una struttura che serve a elaborare/sviluppare il diritto relativo a quel Trattato. essi sono costituiti da: COP, cioè riunioni degli Stati parte che si riuniscono una volta all’anno di solito e adottano in linea generale decisioni per sviluppare il diritto + Segretariato, organo indipendente che rappresenta il trattato con funzioni amministrative e fornisce anche assistenza tecnica e è permanente a differenza della COP + organi tecnico – scientifici che rispondono alla conferenza delle parti). 3) È anche importante ricordare l’obiettivo peculiare dei trattati ambientali e questo ha ricadute su alcuni aspetti del diritto dei trattati:  Capita che vi siano regole particolari sull’entrata in vigore. Di solito entrano in vigore col raggiungimento di una soglia minima di consenso. In questo caso parliamo di trattati con obiettivo tutela dell’ambiente e quindi vengono create regole particolari. Ad. nei cambiamenti climatici l’entrata in vigore avveniva con almeno 55 ratifiche/adesione/accettazione da parte degli Stati, ma l’art. 23 del Protocollo di Kyoto dice che devono essere almeno 55 ma che rappresentino almeno il 55% delle emissioni totali dei gas effetto serra al fine di includere chi realmente contribuisce a tale fenomeno;  Si privilegia l’integrità del trattato al punto tale che è raro che vi siano riserve (di solito vietate). Circa i meccanismi di controllo del rispetto del diritto e di soluzione delle controversie: 1) La risoluzione delle controversie segue in prima battuta i meccanismi tradizionali di soluzione delle controversie. E quindi posso rivolgermi ad organi come la Corte internazionale di giustizia o al Tribunale internazionale per il diritto del mare e così via. Quanto a tali meccanismi, vi è stata risposta eterogenea di fronte alle esigenze in quanto i tribunali hanno risposto con differenti gradi di sensibilità. Se guardiamo, ad esempio, alla giurisprudenza della Corte di giustizia capiamo come solo di recente ha iniziato ad occuparsi di questioni ambientali e complessivamente non ha mostrato marcata sensibilità verso il tema. Invece, il Tribunale internazionale per il diritto del mare si è mostrato molto più sensibile. Questo anche probabilmente perché la Corte internazionale di giustizia è generale e ha competenza molto ampia a differenza della giurisdizione limitata del Tribunale che si occupa essenzialmente della Convenzione di Montego Bay. Resta il fatto che i vari tribunali hanno dato risposta diversa. A un certo punto è stato proposto in dottrina di creare un tribunale internazionale ad hoc sull’ambiente (proposta che sino ad ora non ha avuto riscontro concreto). Gli Stati, complessivamente, non sono stati molti incentivati a porre tali temi di fronte a corti di tipo internazionali perché scatta il meccanismo che ci sia fondo e sottosuolo marino). Si intende sovranità con la stessa misura in cui lo Stato ha sovranità sulla terra ferma. Questa sovranità conosce due limiti (che la differenziano rispetto alla sovranità interna): 1) Diritto di passaggio inoffensivo per navi che battono bandiere di Stati terzi (art. 17 ss.):  All’art. 18 si spiega cosa si intende per “passaggio”, ossia la navigazione nel mare territoriale che deve essere continua e rapida;  All’art. 19 si spiega “passaggio inoffensivo”, ossia passaggio che non reca pregiudizio alla pace, al buon ordine e alla sicurezza di uno Stato costiero. Esso indica anche una serie tassativa di attività che sono invece pregiudizievoli. È considerato non inoffensivo il passaggio, ad es., quando la nave è impegnata in una minaccia nell’impiego della forza o un atto di inquinamento intenzionale e grave o è impegnata in attività di pesca. Il passaggio inoffensivo non può essere impedito (art. 24), mentre lo Stato può impedire il passaggio che non sia inoffensivo. Inoltre, può essere regolato secondo quanto stabilito (ad es. in materia di traffico marittimo o conservazione dell’ambiente) e le navi straniere devono rispettare queste norme (art. 21). Il passaggio non può essere impedito, ma può essere sospeso temporaneamente (es. per ragioni di sicurezza). Segue che tale passaggio non si estende al sorvolo e i veicoli subacquei (es. sottomarini) devono passare in superficie esibendo la bandiera. 2) Lo Stato costiero non dovrebbe esercitare la giurisdizione penale o civile sulla nave straniera che passa nel mare territoriale. Vi sono eccezioni, ossia casi in cui c’è un collegamento con lo Stato costiero o il passaggio nel mare territoriale avviene dopo il transito nella acque interne:  Giurisdizione penale che può essere esercitata (art. 27):  Per reati commessi a bordo durante il passaggio, se:  Le conseguenze del reato si estendono allo Stato costiero;  Il reato è di tale natura da disturbare la pace dello Stato o il buon ordine del mare territoriale;  Se le misure sono necessarie per combattere il traffico illecito di stupefacenti;  Se l’intervento delle autorità dello Stato costiero è richiesto dal comandante o da diplomatici dello Stato di bandiera.  Arresti o indagini sono possibili se la nave ha lasciato le acque interne o entra nelle acque interne (anche per fatti antecedenti all’entrata nel mare territoriale).  Giurisdizione civile può essere esercitata (art. 28):  Per obbligo o responsabilità sorti durante o in previsione del passaggio;  Se la nave lascia le acque interne. L’estensione operata dalla Convenzione di Montego Bay del mare territoriale sino a un massimo di dodici miglia portava a problemi in precedenza sugli stretti utilizzati per la navigazione internazionale. Quando anteriormente aveva una estensione molto ristretta rispetto a ora, molti stretti utilizzati dalla navigazione internazionale presentavano delle porzioni di alto mare ove si poteva navigare liberamente. Con l’estensione sino a dodici miglia nautiche, in molti degli stretti utilizzati per la navigazione internazionale avevamo la sovrapposizione del mare internazionale e teorico sottoposizione degli stretti al regime della navigazione previsto nei mari territoriali degli Stati. ciò aveva sollevato problemi soprattutto da parte degli Stati favorevoli ad ampia navigazione degli stretti che si contrapponevano a Stati degli stretti che rivendicavano controllo sui medesimi. Si è trovato un compromesso nel cd “regime del passaggio in transito”. Esso è applicabile agli stretti utilizzati per la navigazione internazionale tra una parte di alto mare o zona economica esclusiva e un’altra parte di alto mare o zona economica esclusiva. Il passaggio in transito è più favorevole agli Stati di bandiera rispetto al passaggio inoffensivo in quanto:  Non può essere sospeso;  Comprende il sorvolo;  Sottomarini possono passare sommersi. Sono previste delle eccezioni: o Stretti formati da un’isola di uno Stato e sua terraferma, ed esiste una rotta alternativa comparabile in alto mare o in zona economica esclusiva (ZEE); o Stretto che collega il mare territoriale di uno stato a ZEE o alto mare. Qui vige il passaggio inoffensivo (che però non può essere sospeso). Un elemento di assoluta novità introdotto da Montego Bay sono gli Stati – arcipelago (art. 46 ss.) ove per arcipelago si intende un gruppo di isole e altri elementi naturali così strettamente legati tra loro da formare un unico insieme geografico – economico – politico (es. Filippine). Si applicano le regole di estensione delle varie zone di mare, con alcune differenze: × Uno Stato – arcipelago può tracciare delle linee di base arcipelagiche che congiungono i punti estremi delle isole più esterne. Possono essere estremamente estese; × All’interno delle linee di base arcipelagiche vi sono le acque arcipelagiche che rispetto alle acque interne prevedono un diritto di passaggio inoffensivo per Stati terzi. Esiste anche una zona di mare adiacente al mare territoriale che si estende per un max di ventiquattro miglia nautiche dalle linee di base che si chiama zona contigua. In questa zona lo Stato costiero ha poteri di vigilanza per prevenire e punire le violazioni delle proprie norme in materia fiscale, doganale, sanitaria o di immigrazione nel proprio territorio o mare territoriale (art. 33). Inoltre, una disposizione specifica stabilisce che in questa zona la rimozione dei reperti archeologici può avvenire solo dietro autorizzazione dello Stato costiero (art. 303). La zona successiva è la ZEE (zona economica esclusiva) che si estende per un massimo di duecento miglia nautiche dalle linee di base. Essa rappresenta in modo evidente del nuove tendenze del diritto del mare e di come questo si sia evoluto parallelamente all’evoluzione della comunità internazionale. Prima il principio era quello della libertà dei mari per la navigazione, sotto la spinta delle potenze coloniali che facevano della navigazione il frutto della loro capacità colonialistica. Si era formata una porzione ridotta di area adiacente alla costa che faceva d’eccezione e su cui vi era sovranità. Tale zona poi si è estesa così tanto da diventare mare territoriale a un massimo di dodici miglia nautiche. Col tempo erano aumentare le rivendicazioni degli stati costieri a proposito della estensione di diritto sovrano/giurisdizione su sempre più ampia zona. Da questo punto di vista, la ZEE rappresenta bene l’evoluzione delle dinamiche nella comunità internazionale in quanto tale dinamica si è proposta con l’affermazione dei Paesi in via di sviluppo. Essi si affermano post creazione delle NU e hanno progressivamente introdotto nuove priorità rispetto alle vecchie potenze coloniali fondate sul principio di libertà. I Paesi in via di sviluppo puntavano a lottare contro la povertà per cui è venuto da loro l’impulso di estendere i diritti sovrani su una zona sempre più ampia a partire dalla costa sino a giungere a duecento miglia nautiche in cui lo Stato poteva sfruttare le risorse. Le proposte venivano soprattutto dai paesi latino – americani non soddisfatti dalla Prima Conferenza del diritto del mare. Anche per questo le quattro Convenzioni non avevano ottenuto partecipazione. Secondo molti, quando si arriva a adottare la Convenzione di Montego Bay l’idea della ZEE è già consuetudinaria. Essa è quindi un esempio di consuetudine che era già andata a modificare un Trattato. inoltre, è anche un esempio di consuetudine che si forma in breve tempo grazie all’ampia prassi ed opinio iuris. C’è un rapporto di proporzionalità tra il tempo e la partecipazione. Se ho ampissima partecipazione al processo formativo della norma, posso avere formazione della consuetudine in poco tempo. Ciò è accaduto nella ZEE. E tale consuetudine è stata, poi, codificata nella Convenzione di Montego Bay. Il regime della ZEE è improntato al compromesso tra le istanze dei paesi che rivendicavano diritti oltre il mare territoriale e i diritti degli Stati terzi. Essa si articola: o Lo Stato costiero:  Ha diritti:  Relativi alla conservazione, gestione e sfruttamento delle risorse naturali (biologiche e non, delle acque, così come del suolo e sottosuolo marino);  Relativi ad altre attività connesse all’esplorazione e lo sfruttamento economico della zona (es. produzione di energia).  Ha giurisdizione:  In materia di isole artificiali e installazioni;  Ricerca scientifica;  Protezione dell’ambiente marino.  Esercita poteri, su navi straniere, connessi alla prevenzione e repressione delle violazioni delle regole nelle materie riportate (art. 73). o Gli altri Stati (art. 58) hanno diritti relativi a comunicazioni e trasporti, in particolare:  Libertà di navigazione e sorvolo;  Posa di cavi e condotte sottomarini. Dunque, nella ZEE non vi è la prevalenza della sovranità dello Stato costiero (come accade nel mare territoriale) ma vi è equilibrio dei diritti dei vari Stati: × Principio dei “reciprocal due regard”: in più disposizioni si vede come ciascuno Stato (costiero e Stato terzo), nell’esercizio dei propri diritti nella ZEE, tiene in considerazione (due regard) i diritti e doveri dell’altro Stato; × In caso di conflitto fra i vari diritti, questo si risolve sulla base dell’equità (art. 59); × Vi sono alcuni soluzioni specifiche di compromesso. Es. materia della conservazione e dello sfruttamento delle risorse biologiche:  Lo Stato costiero (basandosi su informazioni scientifiche attendibili e in cooperazione con le organizzazioni internazionali) determina il volume massimo di catture consentite affinché la conservazione delle risorse biologiche non sia messa in pericolo;  Promuove lo sfruttamento ottimale della risorsa, determinando la propria capacità di sfruttamento;  Se tale capacità è inferiore al volume massimo di catture consentite, autorizza altri Stati a sfruttare l’eccedenza. Cambiando prospettiva e guardando di profilo avremo varie aree:  Alto mare : aree marine non incluse nelle acque interne o arcipelagiche di uno Stato né nel mare territoriale né nella zona economica esclusiva. Sono, in pratica, le acque che vanno al di là della massima estensione della giurisdizione degli Stati che si estende al massimo a duecento miglia nautiche;  Fondi marini e sottosuolo marino : fino a una certa distanza dalla costa, il naturale prolungamento della terra ferma viene chiamata piattaforma continentale sulla quale lo Stato esercita diritti sovrani. Le zone al di là delle piattaforme continentale costituiscono l’Area internazionale dei fondi marini (che è patrimonio dell’Umanità). Nel diritto internazionale tradizionale, le possibilità di sfruttamento delle risorse marine erano limitate. Si parlava principalmente di sfruttamento delle risorse ittiche. Emerse a un certo punto la possibilità di sfruttare altre risorse, come risorse minerarie quindi la possibilità di sfruttare il sottosuolo. Iniziò il desiderio di alcuni Stati di estendere i propri diritti anche ai fondi marini. Nasce l’idea dell’estensione dei diritti di sfruttamento sul fondo e sottosuolo marino. Essa nasce con un “proclama” del Presidente Truman nel 1945 col quale si rivendica l’estensione dei diritti di sfruttamento sul fondo e sottosuolo marino che costituisce il naturale prolungamento
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