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appunti guerre d'italia, Appunti di Storia Moderna

appunti lezioni valeri storia moderna 2021 2022

Tipologia: Appunti

2021/2022

Caricato il 01/10/2022

guidarello
guidarello 🇮🇹

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Scarica appunti guerre d'italia e più Appunti in PDF di Storia Moderna solo su Docsity! 10/03/2022 Guicciardini nasce nel 1482 a Firenze in una delle più importanti famiglie di fede medicea. Fu amico di Niccolò Machiavelli, ed entrambi facevano parte di una generazione di politici ed intellettuali la cui vita è interamente attraversata dalle guerre d’Italia (alla morte di Guicciardini ese sono ancora in corso). Fu autore di diverse opere, fra cui i Ricordi, anche se la più importante rimane la Storia d’Italia, soprattutto in quanto fonte storiografica. Guicciardini inoltre fu un vero e proprio protagonista degli eventi, ricoprendo ruoli di potere e decisionali, cosa che gli permise di avere accesso a fonti istituzionali di prima mano ed altro materiale di difficile reperimento. Guicciardini ebbe la possibilità di leggere testi, cronache e diari che circolavano in forma manoscritta, le quali o furono pubblicate successivamente alla conclusione della sua opera, o che addirittura non lo furono mai. La prima edizione critica (curata da Porcacchi) della Storia d’Italia viene pubblicata per i tipi di Gabriele Giolito dei Ferrari fu uno dei principali tipografi veneziani (e dunque italiani ed europei), presso il quale si formarono alcuni fra i più famosi tipografi europei dei periodi successivi (Lione, Basilea, Salamanca). La prima pubblicazione dell’opera avviene circa venti anni dopo la morte di Guicciardini, per opera dei suoi eredi (i quali scelgono anche il titolo dell’opera). Guicciardini inizia a scrivere negli anni ’30 del cinquecento, in un periodo in cui egli si era già ritirato dalla politica. Questo passaggio “dalla politica alla storia” è significativo di tutta una generazione di uomini che affondavano le loro radici nel Quattrocento e che partecipano attivamente alla stagione delle guerre d’Italia. Resisi conto della incapacità e passività degli Stati italiani di fronte al nuovo corso storico decidono di lasciare (o vengono costretti a lasciare) i loro ruoli di uomini politici o comunque pubblici, per poi dedicare il proprio tempo a riflettere sulle dinamiche e sulle cause di questi eventi, trasformandosi sostanzialmente in storici/letterati di professione (pur nel loro otium continuano a riflettere sul negotium ormai abbandonato). Guicciardini comincia a scrivere nel 1535 decidendo di avviare il proprio racconto dalla battaglia di Pavia (1525), lo scontro epocale fra Francesi ed Imperiali che si conclude con la netta sconfitta dei francesi e la cattura di Re Francesco I, il quale rimarrà per circa un anno prigioniero. Si tratta fra l’altro della prima vera vittoria di Carlo V in Italia. Sono molte in realtà le opere storiografiche cinquecentesche che si dedicano allo studio della storia “contemporanea”, di eventi di cui autori e lettori sono stati testimoni, ma che di per sé costituisce una novità rispetto alla tradizione storiografica fino a quel momento. Guicciardini scegli la battaglia di Pavia in quanto è in seguito a questo evento che egli riceve l’incarico di comandante generale dell’esercito pontificio, incarico che ancora ricopriva quando Clemente VII stipula la Lega di Cognac (1526) con Francesco I e che porterà infine al Sacco di Roma (1527). Guicciardini dunque sente la necessità di raccontare questi eventi anche per giustificare, per ricostruire dettagliatamente le ragioni del suo comportamento e delle sue decisioni. Bisogna tenere in considerazione che la politica precedente a Clemente VII, in particolare Leone X, era stata di una certa equidistanza fra Francia e Spagna. Clemente VII si spinge invece fino a stipulare questa alleanza militare che di per sé costituisce uno spartiacque molto importante nelle guerre d’Italia, la cui reazione sarà proprio il sacco di Roma delle truppe di Carlo V. In tutta questa vicenda Guicciardini svolge un ruolo importante non solo da punto di vista militare, ma anche perché, all’interno della cerchia ristretta del pontefice, era uno di quelli che sosteneva l’alleanza con il re di Francia contro Carlo V. La Storia d’Italia nasce in origine come una storia degli eventi successivi alla battaglia di Pavia in funzione di autoassoluzione delle responsabilità che Guicciardini ebbe in quelle vicende. Successivamente, però, l’idea alla base dell’opera si allarga, prendendo corpo l’idea che per poter comprendere come si arriva a Pavia e al Sacco è necessario fare un passo indietro e partire dal 1494. Quindi si può dire che questo elemento faccia capire come la molla della stesura dell’opera per come la conosciamo nasce da una esigenza di comprensione delle cause di queste guerre. Il fallimento della politica di Guicciardini non si consuma soltanto a Roma ma anche a Firenze: quando nel 1527 giunge la notizia del Sacco i fiorentini avevano cacciato di nuovo i Medici ed instaurano la Repubblica, la quale resisterà fino al 1530. In quell’anno vi sarà l’accordo fra Clemente e Carlo sul ritorno dei Medici a Firenze, con la conseguente soppressione della repubblica (lo stesso Clemente VII era un Medici, figlio di Giuliano, ucciso durante la Congiura dei Pazzi). Guicciardini, che aveva sostenuto il regime repubblicano (per quanto oligarchico) deve vivere anche lo smacco della soppressione della Repubblica e della trasformazione in Granducato. All’intero dell’opera l’incipit con la Battaglia di Pavia, che doveva inizialmente aprire l’opera, costituisce il Libro XVI. Il 1494 costituisce l’anno di inizio delle spedizioni militari straniere in Italia: qui troviamo un altro elemento importante, che accomuna molte delle opere storiche del periodo, ovvero che il 1494 costituisca un anno periodizzante nella storia italiana. RECUPERARE LEZIONE SULLA FRANCIA 29/03/2022 La Spagna alla vigilia delle Guerre d’Italia Il ‘400 spagnolo vede una svolta importante nel 1469 (19 ottobre) con l’unione dinastica fra le corone di Castiglia ed Aragona. Ferdinando era figlio di Giovanni II d’Aragona, a sua volta fratello del re Alfonso il Magnanimo, colui che conquista il regno di Napoli. Questi lasciò le sue pretese sul regno di Aragona per cingere la corona di Napoli, e fu per questa decisione imprevista che poi iniziò la vicenda politica di Ferdinando il cattolico prima e di Carlo d’Asburgo poi. Quando viene deciso il matrimonio vi erano delle ragioni sia di urgenza che di ostilità: alla fine degli anni ’60, conclusasi la guerra del bene pubblico, la Francia dei Valois ha chiaramente manifestato un processo di rafforzamento del potere monarchico, la cui forza espansionistica viene percepita con preoccupazione in Spagna. Vi era dunque nel matrimonio una importante funzione antifrancese, e possiamo trovare qui quella lunga costante dell’età moderna che consiste nella lunga competizione fra le due nazioni. Oltre alla minaccia francese bisogna considerare che Luigi XI è contrario al matrimonio perché capisce che questa unione potrebbe a sua volta costituire una minaccia per la Francia. Inoltre, sono contrari anche molti nobili castigliani, intuendo che questa unione avrebbe rafforzato l’autorità della corona di Castiglia, con un accentramento ai danni della nobiltà. Una manifestazione di questa avversione è dimostrata anche dallo scoppio di una guerra civile a causa di una fazione nobiliare che sostiene le pretese al trono di una figlia illegittima di Enrico IV, Juana la Beltraneja. Ribellione che sarà ricomposta solo nel 1479, lo stesso anno in cui muore il padre di Ferdinando, Giovanni II, cosa che lo fa ascendere al trono d’Aragona. Fra l’altro anche i sovrani aragonesi provenivano da un ramo cadetto della dinastia castigliana dei Trastamara, e sia Ferdinando che Isabella erano esponenti entrambi di due rami della stessa dinastia castigliana. Questa particolarità aveva già da tempo alimentato l’auspicio che si sarebbe potuto compiere un matrimonio che permettesse di unire sotto un unico sovrano due dei tre regni cristiani della penisola iberica. Questa unione durerà fino al 1504, quando Isabella muore e di fatto, sebbene l’erede fosse sua figlia Juana, Ferdinando regna come reggente fino al 1516 (nel 1506 muore Filippo d’Asburgo, marito di Giovanna, la quale a causa della sua condizione mentale viene esautorata). Ferdinando si avvale in questo governo di reggenza di un cardinale, Francisco de Cisnero, arcivescovo di Toledo, tempo frammentavano il tessuto sociale e politico del meridione, costituendo altresì un elemento di difesa del territorio dagli assalti sia stranieri che corsari. La tesi di fondo dunque tende a smentire che alla monarchia spagnola sia imputabile sempre e comunque l’origine della decadenza italiana, svolgendo un ruolo anche positivo in questo senso. Queste prime crepe che Croce ravvisa in questa interpretazione monolitica della decadenza italiana produce poi alcuni frutti, il primo dei quali è l’opera di Vittorio Di Tocco (che muore prematuramente in Spagna) che si intitola Ideali di indipendenza in Italia durante la preponderanza spagnola (1927) in cui l’autore raccoglie una quantità notevole di testi storici, economici e politici, sia editi ed inediti, su questo tema degli aneliti e tentativi di mettere in discussione un assetto politico dell’Italia diverso da quello che si era costituito dopo la pace di Cateau-Cambresis. Della spedizione in cui muore Vitocco faceva parte anche Chabot, il quale si era recato a Simancas e che scriverà successivamente una serie di libri importantissimi sull’Italia spagnola settentrionale, imperniata sul Ducato di Milano. Nel corso degli anni ’20 questo tema si va a intrecciare con la questione posta dal nuovo recupero della storia italiana in chiave nazionalista voluta dal regime fascista, che pone l’accento sul periodo risorgimentale, motivo per cui il testo di Vitocco è stato visto come contaminato proprio da questa nuova tendenza nazionalistica. 12/04/2022 Cardinale di Burgos, Juan Alvarez de Toledo, che negli anni ’50 del ‘500 scrive una relazione a Filippo II sulla condizione delle provincie italiane. “Gli italiani per natura sono nemici di tutti gli oltramontani, chiamati da loro barbari. Oltre a questo sono tutti per l’ordinario pieni di passioni, inquieti e insaziabili e volti solo allo interesse proprio di maniera che non si può pensare che un italiano che fusse persona di spirito e di qualche qualità o grado consigliasse mai ad un principe esterno cosa per la quale venisse ad affermar bene il dominio suo in Italia. Essi (i principi) per i loro interessi aderiscono bene chi a Francia e chi a Spagna ma vorriano che si mantenessero sempre così questi contrappesi, parendogli che a codesto modo possano vendere meglio la loro mercanzia e fare li fatti loro meglio che se uno di questi potentati fusse in tutto superiore, e ancor perché mentre stanno a questo modo sono tuttavia in speranza d’aver un giorno a liberarsi dalla servitù.” Si tratta di un giudizio molto lucido e sferzante sull’assetto degli stati italiani durante una guerra che ormai si stava avviando alla sua conclusione (1559) e dimostra come in questi decenni di guerre si fosse affermato un modo di rappresentare gli abitanti della penisola come uomini imbelli che non vogliono combattere e preferiscono fare i loro affari privati, pur sempre nella speranza di liberarsi dal giogo straniero. Atteggiamento strettamente funzionale al mantenimento dei rapporti di forza che si sono andati definendo e lo status quo, per come definitesi a Cateau-Cambrèsis. Questo odo di rappresentare gli italiani, negli studi storici, ha rappresentato una sorta di tappa che impedito, o perlomeno rallentato, l’interesse per andare a cercare tutti quei tentativi, episodi e figure che invece rappresentavano una realtà differente rispetto a questo stato di cose per come rappresentato dagli stranieri. Una realtà fatta anche di resistenze e tentativi di riforma a questi nuovi assetti della penisola, i quali, sebbene siano sostanzialmente falliti, hanno comunque rappresentato gli aneliti e le tendenze di una parte della popolazione. Fu la generazione di storici dell’immediato secondo dopoguerra, sulla scorta dei primi passi condotti da Benedetto Croce ed altri, a scavare su questo filone per infrangere il monolitismo di questa antica tradizione. Chabod rispetto a questa rappresentazione data da Sismondì (e da letterati come Manzoni) è di grande importanza in quanto comincia a scardinare una convinzione storiografica che nasceva proprio dal paradigma della decadenza italiana, cioè che il dominio spagnolo avesse avviato un periodo di regressione politica, economica e culturale tale da far sì che essa rimanesse indietro rispetto ai processi di state building che in Europa si stavano sviluppando in quegli anni, sostanzialmente impedendo all’Italia di accedere alla piena modernità. Uno scritto di Chabod intitolato “Esiste uno Stato del Rinascimento?” frutto di una conferenza alla Sorbona in cui egli individua degli elementi caratteristici degli Stati moderni (esercito permanente, burocrazia, diplomazia, propaganda intesa come progetto culturale comune) sostenendo che tutti questi elementi in realtà sono rinvenibili nello stesso periodo (e talvolta addirittura in anticipo) negli Stati italiani del ‘400 e del ‘500. Non è vero dunque che gli stati italiani non partecipino al processo di modernizzazione dell’Europa nella prima età moderna, anzi in alcuni casi come la diplomazia pontificia (nunzi) e veneziana (balivi) abbiamo delle anticipazioni importanti. Alcuni dei principali intellettuali italiani del ‘500 svolgono il ruolo di ambasciatori, ritenendo spesso che il letterato, inteso come colui che padroneggia la lingua, avesse anche la dote di persuadere gli interlocutori. Furono proprio le guerre d’Italia a fornire l’impulso importante per la professionalizzazione di queste figure, proprio a causa della necessità di mantenere sempre un contatto ed una mediazione nei momenti di crisi. 21/04/2022 Secondo Chabot non vi è nulla di realmente moderno nell’umanesimo, in quanto esso continua ad essere caratterizzato da un approccio cristiano e religioso: sia fra i movimenti religiosi ortodossi che eretici vi è un continuo desiderio di tornare ad un tempo precedente, originario, così da poter riscoprire l’aspetto originario ed autentico della fede. L’umanesimo rinascimentale non farebbe altro che riproporre lo stesso modello sul piano “mondano”, cercando di ricostruire la grandezza dei maestri classici, i quali però vengono a priori pensati come portatori di una perfezione al massimo imitabile ma non superabile. Secondo Chabot la mentalità moderna è invece fondata su un approccio diverso, il quale intende l’attualità più interessante del passato, guardando più al miglioramento futuro piuttosto che alla ricreazione di un passato mitico ed aureo. In questa ottica la storia assume un ruolo centrale, in quanto anche la riforma luterana (dal punto di vista dei protestanti) corrisponde ad un ritorno alla forma primitiva ed originaria della fede cristiana, facendo sì che già i primi seguaci delle teorie luterane si cimentino con la ricostruzione della storia in senso anti-cattolico ed anti-romano, trasformando sostanzialmente la storia un teatro di lotta religiosa. Un esempio importante sono le cosiddette Centurie di Magdeburgo, che affrontano la storia della chiesa divisa per secoli fino alla fine del XIII secolo, opera che viene peraltro dedicata a Federico, figlio del fratello di Carlo V, Ferdinando. Quando l’opera inizia a diffondersi, a Roma si inizia a pensare alla possibilità di creare una risposta cattolica a questa revisione della storia in chiave luterana. Dopo alcuni tentativi falliti, con la creazione di una commissione pontificia incaricata di trovare autori adatti all’impresa, alla fine si decide per volere del cardinale Sirleto di scegliere Cesare Baronio come colui in grado di portare a compimento questo compito molto gravoso (Sirleto fa tra l’altro in modo di evitare che l’incarico fosse assegnato a Sigonio, il quale viene emarginato a causa della sua visione del ruolo della Chiesa nella storia d’Italia). Baronio, generale degli oratoriani (fondati da San Filippo Neri) e poi cardinale, produrrà la sua opera sotto il nome di “Annale Ecclesiastici”, che verrà terminata e pubblicata nei primissimi anni del ‘600. 28/04/2022 Disfida di Barletta La biografia di Gonzalo de Cordoba di Giovio nasce a Roman negli anni ’20 del ‘500, commissionata dal duca di Sessa, che aveva sposato appunto la figlia di Gonzalo, e che era stato ambasciatore presso il Papa. Il testo tuttavia sarà pubblicato solo nel 1539, quando ormai i nuovi rapporti di forza nella penisola si erano consolidati e soprattutto la Spagna faceva pesare a propria egemonia. Quando l’opera viene pubblicata infatti si era ormai chiuso il periodo di resistenza all’affermazione di questa nuova egemonia. Il ungo intervallo fra la stesura e la pubblicazione è dovuto al contenuto del testo, e soprattutto a come vengono dipinti gli spagnoli, cosa che potrebbe rendere ancora più tesi i rapporti fra la Spagna e la curia romana. Negli stesi mesi in cui Giovio lavora alla sua opera lo stesso Carlo V commissiona una biografia sempre di Gonzalo ad un autore spagnolo che aveva militato sotto di lui. 02/05/2022 Disfida di Barletta Le “Historiae de bellis italicis” non vennero mai stampate ma questa fonte manoscritta circolava negli ambienti colti di tutta la penisola, in quanto Borgia visse tra Napoli, Venezia e Roma e sia Guicciardini che Giovio poterono entrare in possesso di una copia manoscritta, cosa che si può notare dalle risultanze testuali: una spia importante è data dall’elenco dei nomi dei cavalieri italiani, che è identico sia nella Storia d’Italia che nel manoscritto di Borgia. Anche Giovio fornisce un elenco che in parte si sovrappone ed in parte non con quello borgiano, vediamo che i cavalieri provengono quasi da ogni parte della penisola e Giovio sembra voler appunto pescare da ogni provincia d’Italia questi eroi (“senza che alcuno si potesse dolere, da ogni parte si spargesse il frutto della vittoria”). La disfida di Barletta diventa quindi già all’epoca un momento di importante riscatto del nome italiano. Con la figura di Consalvo Giovio vuole lodare il grande personaggio spagnolo (scrive l’opera su commissione, ed è bene nota la sua costante linea filoimperiale) e mostrare attraverso di lui ed il supporto e la magnanimità con cui tratta i cavalieri italiani il grande legame fra Spagna ed Italia, in qualche modo legittimando la dominazione spagnola sul regno di Napoli. Molto più amaro è invece il commento finale di Guicciardini, il quale anche lui utilizza questo episodio per celebrare le virtù italiane, ma il quale commento finale non va verso una armonia e collaborazione con gli spagnoli nella penisola, gettando invece una luce più sinistra che del resto rispecchia le sue posizioni anti-imperiali. Giovio da un lato riteneva che l’Imperatore potesse essere per la penisola una garanzia di pace, soprattutto a partire dagli anni ’20 del cinquecento, mentre proprio in quegli anni Guicciardini si oppone strenuamente a questa stabilizzazione del potere spagnolo in Italia, soprattutto temendo lo strapotere imperiale dopo la battaglia di Pavia. Infatti, dopo avere anche lui sottolineato il valore dei cavalieri italiani ed aver ricordato le sventure e le rovine causate alla penisola durante gli anni di guerre, Guicciardini ribalta la visione armoniosa di Giovio scrivendo un severo giudizio: “è cosa incredibile quanto animo togliesse questo abbattimento all’esercito francese, e quanto ne accrescesse all’esercito spagnolo, facendo ciascheduno presagio da questa esperienza di pochi del fine universale di tutta la guerra” (cioè presagendo la vittoria degli spagnoli). Francia. È interessante notare come ritorni continuamente l’espressione Italia, la presenza di una percezione di appartenere non solo ad una cittadina o ad uno Stato regionale ma di appartenere anche a qualcosa di più ampio. Qualcosa di coerente e di congruo radicalmente diverso dalla Francia e dalla Spagna, e si tratta di qualcosa che ritroviamo non solo nei testi letterari ma a anche nei carteggi diplomatici e nel discorso politico del tempo. Questi differenti piani di senso di appartenenza possono coesistere, ma poi è durante i momenti di conflitto che si rivela quale di questi differenti sensi di appartenenza prevale. 05/05/2022 Paolo Giovio, che conosceva molto bene Clemente VII, scriveva anche lui a Federico Gonzaga dicendo che secondo lui il nuovo papa voleva impegnarsi per far tornare i francesi a Milano e che chi pensava che il papa parteggiasse per una fazione o per l’altra si sbagliava grossolanamente. Ormai in questo periodo le “cose d’Italia” incominciano ad intendere la ricostruzione di un sistema di Stati prima delle dominazioni straniere. Se in un primo momento però questo progetto viene articolato contro i francesi (e quindi con l’alleanza spagnola), a partire dalla battaglia di Pavia questa strategia si ribalta. Naturalmente all’interno della curia si scontrano due partiti avversi: da un lato vi è chi ritiene che l’indipendenza dall’imperatore significava libertà sia per l’Italia che per il papato (libertas Italiae = libertas eccleasiae), quelli quindi che spingeranno Clemente VII fra le braccia dei francesi, fra cui lo stesso Guicciardini ma anche il datario pontificio Gian Matteo Giberti; dall’altro vi è il partito che riteneva che l’associarsi con la Francia fosse estremamente dannoso per il pontefice sia dannoso sia per la Chiesa che per il papato, fra questi anche Castiglione. La battaglia di Pavia scompagina i rapporti di forza nella curia, spingendo verso la radicalizzazione delle opinioni e costringendo ad una accelerazione le scelte del Papa. In questo quadro di sbilanciamento dei rapporti di forza matura l’episodio della congiura di Girolamo Morone, che già Chabod aveva indicato come un evento estremamente significativo per il raggiungimento della libertà d’Italia. Questo evento vede coinvolti una serie di personaggi, primo fra tutti questo importante politico milanese e vicino al duca Francesco Sforza, che è stato nei secoli (grazie al Guicciardini, autore di tanti giudizi/miti storiografici) indicato come l’ideatore della congiura, che infatti porta il suo nome (“Cap. VIII Occulte proposte del Morone contro Cesare marchese di Pescara”). In realtà la regia non è a Milano ma piuttosto a Roma. Poco dopo la battaglia di Pavia, sull’onda di questo timore che Carlo V voglia impadronirsi di tutta Italia, Girolamo Morone, consigliere del Duca di Milano, avrebbe contattato Ferdinando d’Avalos – comandante delle truppe imperiali a Pavia – per porsi a capo di una lega anti-imperiale con anche il sostegno della Francia, promettendo inoltre la corona del Regno di Napoli. In un primo momento d’Avalos sembra acconsentire per poi rivelare all’ultimo momento le trame a Carlo V, cui seguiranno gli arresti e la repressione. Machiavelli, nel dicembre del 1525, quando ormai la congiura è stata scoperta, scrive una lettera a Guicciardini in cui parla della congiura: “… il Morone è stato catturato ed il ducato di Milano è spacciato. E come costui ha aspettato il cappello, tutti gli altri principi l’aspetteranno né c’è più rimedio, sic datum desuper”. Gaetano Lettieri ha dimostrato recentemente un certo grado di coinvolgimento in questa vicenda della congiura. Anche Giovio nella sua biografia del Marchese di Pescara, nelle ultime pagine dato che il marchese morirà nel dicembre del ’25, ricostruisce dettagliatamente la congiura, ma ovviamente anche lui sia per scagionare lui che Clemente VII assegna tutta la responsabilità a Morone. Una fonte che non ha trovato spazio nella storiografia successiva ma che fornisce una visione diversa dell’evento è l’autobiografia di Sauli, pubblicata nell’800, dove appunto l’iniziativa di una iniziativa così complessa e rischiosa viene ricondotta alla mente del datario Giberti. Non è credibile pensare che Morone avesse facoltà di promettere autonomamente così tanto potere e perfino il trono di Napoli, feudo pontificio. Anche lo stesso Morone redige in carcere un memoriale, pubblicato anch’esso nell’800, molto circostanziato circa la sua innocenza, il quale, incrociato criticamente con altre fonti, fornisce indicazioni del fatto che l’origine della trama fu ordita a Roma, direttamente da Clemente VII e da Giberti, li stessi che poco dopo avrebbero ideato la Lega di Cognac contro Carlo V. Dunque vi è una stessa esigenza che muove Guicciardini e Giovio, pur con delle differenze: allontanare da Roma e dal Papa la responsabilità di una congiura fallita miseramente, attirando l’attenzione su Girolamo Morone (Guicciardini lo definisce imprudente e poco accorto, sebbene fosse un diplomatico consumato) e dunque non farla apparire come il primo di tuta una serie di fallimenti politici di Clemente VII nel suo ostinato tentativo di avvicinarsi alla Francia in chiave antispagnola. Morone viene processato ed imprigionato ma dopo pochi anni di carcere viene liberato ed addirittura lo ritroviamo a fianco degli imperiali a Milano. Fra l’altro il figlio, il cardinale Giovanni Morone, sarà uno dei principali cardinali imperiali nell’Italia del ‘500. Diventerà uno dei principali consiglieri del Conestabile di Borbone, ed addirittura si troverà a Roma durante il sacco al seguito degli imperiali. Questo, al di là della stima e dell’ammirazione che egli godeva nell’ambiente imperale, questa rapida riabilitazione di Morone potrebbe essere considerata una prova del fatto che Carlo V sapesse bene che la regia di tutto non era di Morone ma piuttosto del pontefice e della curia romana, per il tramite di Francesco Sforza. Giovio nella biografia del d’Avalos racconta proprio che il marchese di Pescara, prima di morire, facendo testamento cerca di aiutare in qualche modo i familiari di Morone. 17/05/2022 Machiavelli e la milizia tra Umanesimo civile e prassi politica e militare L’esperienza biografica e politica di Machiavelli precedente alla produzione delle sue due opere maggiori sono state fondamentali per formare il suo pensiero politico e militare, pienamente espresso dopo l’uscita dalla politica attiva. Machiavelli viene considerato come l’ideatore di un nuovo modo di studiare la politica, molto più realista e pragmatico (se non cinico). Vi sono comunque dei legami importantissimi fra il suo pensiero politico e la teoria militare, che possono essere desunti da delle sue opere minori realizzate durante il lavoro svolto come Cancelliere della Repubblica fiorentina: i cosiddetti “scritti di governo”. Si tratta di opere della natura più varia: discorsi o documenti per membri del governo cittadino, relazioni e rapporti diplomatici, oppure semplici note ed appunti su argomenti vari. Il contributo che un Segretario della cancelleria poteva dare al governo cittadino estremamente importante, che addirittura potevano consistere in vere e proprie proposte politiche o progetti di riforma. Vi sono dunque anche scritti realizzati autonomamente da Machiavelli prodotti a fini di riforma (scritti d’ordinanza) che sicuramente rivestono l’importanza maggiore. Machiavelli fu costretto a confrontarsi con le concezioni precedenti e consolidate in tema di milizia e di dottrina militare, anche se poi lui se ne discorderà molto. In particolare il tema della necessità di creare una milizia cittadina che non dovesse contare sulla presenza di mercenari, le cosiddette “armi proprie”. L’umanesimo civile a Firenze aveva infatti fatto dell’antico ideale del cittadino-soldato una sorte di bandiera ideologico-culturale, riprendendo temi della dimensione greca e romana. Nella seconda metà del ‘400 da una parte la vecchia milizia tardomedievale era rimasta poco più che un ricordo, ed al contempo l’utilizzo di fanti di leva reclutati temporaneamente nel contado a aveva i tratti di un provvedimento di emergenza, non faceva dunque parte di una strategia coerente, e veniva utilizzato solo in mancanza di alternative. La pratica ormai affermata era quella di assumere mercenari, con il consenso della nobiltà cittadina, la quale aveva preferito il commercio al mestiere delle armi. La situazione di crisi causata dall’inizio delle guerre d’Italia ebbe l’effetto di suscitare a Firenze discussioni sulla possibilità di sfruttare la leva contadina per formare una forza militare più cospicua ed affidabile, discorsi che coinvolgeranno direttamente Machiavelli. Si trattava in realtà di temi che divennero primari anche in molte altre dimensioni cittadine della penisola, e tutte erano accomunate da caratteristiche che rendevano estremamente difficile questa attuazione: ad esempio, le città italiane prevedevano una popolazione dove non tutti gli abitanti godevano degli stessi diritti civili e politici. A Firenze questi temi venivano discusse nella Cancelleria, che costituiva una sorta di nodo burocratico-amministrativo attraverso cui passava l’esercizio del potere esecutivo. Nel 1506 Machiavelli concepisce l’Ordinanza per la Milizia, un testo dove di progetta un esperimento inteso a risolvere i problemi militari della comunità cittadina sfruttando il potenziale delle milizie contadine, concependo dunque la città ed il contado come un soggetto politico unitario, senza quei diaframmi che dividevano queste due dimensioni nel panorama politico italiano del tardo medioevo. Un elemento in comune fra le tendenze militari precedenti e l’idea di Machiavelli era costituito dalla necessità di costituire compagni militari molto più grandi, necessarie per colmare la distanza numerica con le forze che potevano essere messe in campo dalle nuove monarchie nazionali. Fra il 1506 ed il 1512 Machiavelli concepisce una serie di scritti raccolti sotto la denominazione di “Scritti d’Ordinanza”: si tratta di un insieme di testi in parte di natura teorica ed in parte di natura maggiormente pratico-organizzativa. In questi scritti l’apparato ideologico dell’umanesimo civile appare evidente, ma finalizzate principalmente a far accettare i progetti di riforma alla comunità politica cittadina. In realtà un progetto di milizia era già stato avviato in via sperimentale durante il reggimento di Pier Soderini, il quale aveva affidato l’incarico proprio a Machiavelli. Il segretario si rifà ai topoi dell’avidità e della pericolosità dei mercenari per screditare questa figura di professionisti della guerra, contrapponendo i topoi positivi del cittadino-soldato. I testi di Machiavelli dunque appariva tradurre in pratica quelli che erano dei temi da tempo cari alle classi dirigenti cittadine. Vi erano sicuramente degli uomini di lettere che, prima di Machiavelli, avevano toccato questi temi, ma si trattava sempre di trattazioni di natura principalmente morale, che poi non si traduceva in un progetto pratico di riforma. Anche Machiavelli agganciava il problema della giustizia con quello militare: Machiavelli proponeva una soluzione pratica al degrado civile e morale dell’esercito di Firenze, che avrebbe previsto la creazione di una apposita magistratura – I Nove di Ordinanza e Milizia – che avrebbe condotto ad una riforma non solo dell’organizzazione militare, ma anche ad una riforma della giustizia proprio per i coscritti della milizia, i quali sarebbero stati sottoposti alla giurisdizione dei Nove. Si voleva così mettere in atto una riforma che permettesse di trovare l’assetto istituzionale più consono a garantire per i coscritti una amministrazione della giustizi più equa ed efficiente. Il punto di partenza di Machiavelli era dunque opposto rispetto a quello degli umanisti precedenti: questi ultimi avevano auspicato una riforma morale che potesse poi, in maniera molto vaga, avere effetto sull’amministrazione; Machiavelli invece parte da una già avviata riforma dell’organizzazione militare, la quale avrebbe poi portato a sua volta ad una riforma giurisdizionale che si sarebbe riverberato, infine, sulla condizione morale e civile dei coscritti. Questi coscritti però non sono i cittadini-soldato degli umanisti, i quali partono sempre dalla città nelle loro teorizzazioni, ma sono in primis i contadini del contado. fra tutti il cardinale Gian Pietro Carafa, futuro Papa Paolo IV). Sempre in questo stesso anno di assiste in Italia a tre eventi che, pur fallendo, testimoniano la non definitiva accettazione del potere spagnolo in Italia: il tumulto a Napoli contro l’introduzione dell’Inquisizione spagnola, la congiura dei Fieschi a Genova contro i Doria e infine l’assassinio di Pier Luigi Farnese a Piacenza su commissione di Ferrante Gonzaga. Circa venti anni dopo Camillo Porzio si dedica alla continuazione dell’opera di Giovio, rimasta incompleta ma che Porzio considerava il modello delle nuove storie, e che doveva costituire un testo di storia contemporanea, dal 1547 al 1551. Il primo libro viene dedicato proprio a questi tre eventi, che Porzio ricostruisce e ricollega fra loro come se fossero tre manifestazioni di uno stesso fenomeno. E’ un’opera che rimane incompiuta e non pubblicata, come anche molte altre opere cinquecentesche che avevano il merito ed allo stesso tempo il peccato di parlare della storia politica contemporanea: lo stesso Machiavelli nelle Istorie Fiorentine si ferma alla morte di Lorenzo de’ Medici, limitato dalla grande quantità di conflitti e di tensioni che lo storico ha nel narrare vicende di uomini ancora in vita (o i cui eredi lo sono ancora). Un altro testo molto significativo, scritto dal genovese Umberto Foglietta, autore di una storia universale europea, mette in relazione la vicenda del tumulto napoletano (dove l’opera viene fra l’altro pubblicata quando Porzio sta già scrivendo la sua Storia d’Italia) con la vicenda della congiura contro Pier Luigi Farnese a Piacenza. Un elemento interessante che Porzio mette in evidenza circa il tumulto contro Don Pedro de Toledo a Napoli riguarda la continua lotta per l’autonomia che il baronaggio meridionale ingaggia ancora nel pieno cinquecento contro i tentativi di accentramento portati avanti dal viceré spagnolo. Porzio, così come per la congiura dei baroni, considera positivo il movimento accentratore del potere spagnolo, descrivendo con crudezza la repressione del de Toledo nei confronti degli insorti napoletani, ma considerando nel complesso favorevolmente questa capacità di repressione del potere spagnolo. Questo tema della lotta continua fra monarchia e baronaggio contraddistingue grandissima parte della storiografia meridionale di età moderna e costituisce di leggere in controluce tutte le opere di questi autori, i quali potevano schierarsi a favore o contro la Spagna. 30/05/2022 Cesare Baronio 1588 – 1607: pubblicazione degli Annales Ecclesiastici (ultimo volume pubblicato postumo, la storia si chiude nel 1198). Si sviluppano seguendo uno schema annalistico, con la successione di imperatori e pontefici. Nell’opera l’Italia torna spesso negli indici tematici ma sempre associata a momenti di criticità: guerre, epidemie, eresie ed altre sciagure. Questo dato fornisce già una prima chiave interpretativa, che ci riconduce al paradigma formatosi durante le Guerre d’Italia di una terra sempre agitata e tormentata dalle sciagure. Questa chiave di lettura, che ha una grande fortuna, giunge fino ai nostri giorni (uno degli ultimi libri di Arnaldi si intitolava proprio “L’Italia ed i suoi invasori”). Lo stesso modulo ricorre anche in molte opere storiche coeve ali Annales, come ad esempio l’Italia travagliata di Umberto Locati. Non c’è più ormai una attenzione alla storia contemporanea, o perlomeno alla sua valorizzazione, che invece era stata praticata diffusamente nel primo cinquecento. Baronio infatti nella sua opera recupera solo la storia antica e medievale. Non c’è più interesse nel ce4care di comprendere le dinamiche politiche dei recenti avvenimenti. La storiografia a cavallo fra il Quattrocento ed il Cinquecento è estremamente attenta allo studio ed all’utilizzo di fonti particolari, come ad esempio i carteggi diplomatici o comunque documenti ufficiali delle cancellerie. Non a caso molti di questi storiografi (Guicciardini, Machiavelli ed altri) sono stati uomini di governo e dunque hanno accesso libero a queste fonti. Questo approccio nella seconda metà del secolo ambia drasticamente. Si ritorna a consultare principalmente, se non esclusivamente, fonti classiche ed autorevoli, ma con una modalità molto spesso sterile ed autoreferenziale, senza interpretazioni originali. Come se ci si servisse quindi della fonte come auctoritas in sé piuttosto che come del materiale che può essere vagliato e messo in relazione con altre fonti. Inoltre, è fondamentale la presenza, anzi la preponderanza, dell’intervento divino nella storia: non che il tema della provvidenza non fosse già presente nella storiografia precedente, ma ora l’intervento divino diventa il fattore determinante, in funzione del quale si può spiegare il determinato evento. Un altro elemento presente in questa storiografia è l’importanza della tradizione orale, di cui Baronio talvolta fa uso, insieme con quella delle Scritture sacre e dei testi dei Padri della Chiesa, tutti elementi molto poco presenti nella storiografia di inizio secolo. Tutto ciò si sostanzia in un uso politico ed apologetico della storia, ad uso e consumo di una ideologia che nel caso della storiografia ecclesiastica vede il primato papale e la difesa dell’italianità del papato come due elementi imprescindibili. L’opera di un altro oratoriano, Bozio, anche essa tutta incentrata sui disastri umani e naturali che la penisola ha sofferto nel corso della sua storia, ed è un testo concepito come una confutazione della tesi machiavelliana che vedeva lo Stato della Chiesa come un impedimento all’unificazione della penisola. Si realizza nella seconda metà del secolo questa biforcazione fra la storiografia ecclesiastica e quella civile, una biforcazione che nella storiografia umanistica di poco precedente sarebbe stata impensabile: quando Giovio parla del Papa nel parla in quanto signore temporale, pur essendo lui stesso un vescovo, ma comunque di formazione umanistica. Tutto questo è il prodotto fra un nuovo equilibrio fra potere politico e religioso che si viene a creare proprio durante la cosiddetta “quiete d’Italia” e che rende possibile da un lato il consolidamento della presa spagnola sulla penisola ma allo stesso tempo vedrà la penisola esclusa dalle lotte di religione che di lì a poco avrebbero insanguinato l’Europa.
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