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Appunti "Il Gattopardo", Appunti di Letteratura

Appunti presi durante le lezioni del prof. Pupo, riportando anche le parti del libro.

Tipologia: Appunti

2020/2021

In vendita dal 24/11/2022

eli.ss10
eli.ss10 🇮🇹

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Scarica Appunti "Il Gattopardo" e più Appunti in PDF di Letteratura solo su Docsity! TOMASI DI LAMPEDUSA- IL GATTOPARDO [LETTERATURA ITALIANA MODERNA E CONTEMPORANEA II] 03/12/2021 L’unico editore che pubblica il Gattopardo è Feltrinelli. Giuseppe Tomasi di Lampedusa ha scritto questo romanzo negli anni della vecchiaia, a partire dalla metà degli anni 50, pubblicato nel 58. STORIA DELLA STESURA La stesura occupa alcuni anni; abbiamo diverse stesure che si differenziano tra di loro non soltanto dal punto di vista cronologico (in quanto si collocano in anni diversi), ma anche dal punto di vista del supporto materiale.  C’è una prima stesura autografa, prevale la presenza di un manoscritto composto tra il 1954- 56 che contiene le prime quattro parti del romanzo. Il gattopardo si articola in testazioni o comunque parti: I-II- III e IV parte.  La seconda stesura viene dattiloscritta ed è più lunga dal punto di vista del contenuto perché alle quattro prime parti se ne aggiungono altre due, questa stesura è stata realizzata materialmente da Francesco Orlando, un ex allievo di Tomasi di Lampedusa. Alcune di queste copie furono inviate agli editori oltre che agli amici.  La terza stesura, manoscritta, ci permette di leggere il romanzo nella sua interezza con l’aggiunta delle ultime due parti in quanto in tutto sono otto. Il capitolo quinto è famoso in quanto presenta l’episodio secondario. Questo manoscritto completo è stato finito di scrivere nella primavera del 1957 ed era stato donato al figlio adottivo: Gioacchino Lanza Tomasi. Entrano in gioco nella vicenda redazionale sia il figlio adottivo che il figlio elettivo rispettivamente Gioacchino e Francesco. STORIA DELLA PUBBLICAZIONE Per quanto concerne la storia della pubblicazione del testo, è necessario parlare di una sfortuna iniziale poiché gli editori rifiutano il testo rimandandolo al mittente. Diverse importanti case editrici rifiutano il dattiloscritto e tra queste ricordiamo Mondadori ed Einaudi, importante fu il giudizio di Vittorini che respinge il libro di Tomasi di Lampedusa dal momento che non lo riteneva compatibile con l’orientamento della sua collana e tutt’altro che sperimentale. Il romanzo propone un ritorno al romanzo ottocentesco e per questo non in linea alla natura sperimentale che interessava a Vittorini. Il romanzo approda a Feltrinelli, grazie a Bassani, quest’ultimo riceve una copia dalla figlia di Croce egli mette a confronto il dattiloscritto con il manoscritto integrale da cui viene fuori la prima edizione di Feltrinelli. Il grande successo di pubblico fu amplificato grazie al film. La materia al centro dell’attenzione è sicuramente di natura storica, l’oggetto è proprio il tramonto o la decadenza o la rovina della classe nobiliare, in particolare di una famiglia aristocratica siciliana quella dei Salina, in una fase di transizione che vede il passaggio nel sud d’Italia ai vertici del potere dai Borbone alla dinastia dei Savoia, possiamo anche dire dal regno delle due Sicilie al Regno d’Italia. Durante questa fase di transizione istituzionale si assiste alla crisi della classe aristocratica di cui i Salina rappresentano un esempio lampante. Il Gattopardo potrebbe rientrare nel genere del romanzo storico, ma non tutti ne sono d’accordo, lo stesso Tomasi di Lampedusa in una lettera ad un amico si trova in disaccordo con ciò. Leggendo il romanzo, ci si rende conto che non vi era la presenza diretta della spedizione dei mille, ma i personaggi lo ricordano a distanza ravvicinata e a distanza di anni, seppur non si presenti in primo piano. In primo piano non vi sono infatti eventi storici, bensì le riflessioni del principe Salina. Alcuni lo ritengono un incrocio di più generi, a tal proposito c’è una categoria, di cui parlano i critici, che non coincide con la categoria del romanzo storico e cioè la categoria del romanzo anti- ora della nostra morte. Amen- viene enfatizzata la morte in questo incipit e quindi è un attacco funebre, il taglio potremmo dire che sia voluto e anticipa quello che è il filo rosso di tutto il romanzo ovvero la presenza della morte. Il fatto che la famiglia che appartiene all’aristocrazia reciti il rosario non è un qualcosa di strano in quanto l’aristocrazia e il clero erano due classi predominanti e alleate nell’Ancien Regime. All’interno della famiglia dei Tomasi vi era la presenza della Beata, quindi presente era sicuramente una rete fitta di rapporti tra le due classi, tra i 2 ceti. Un altro filo rosso che si dipana da questo primo capoverso è il salone rococò uno stile antico e lussuoso (sviluppato dopo il Barocco) e si cimenta sulla bellezza degli affreschi, sulla seta del parato sporgono due tipi di animali: pappagalli e le bertucce (scimmie-pag.32). Gli animali, il bestiame, sono un tassello importante nel romanzo in quanto costituiscono un secondo filo rosso. Un altro animale presente è l’alano Bendicò , cane preferito di Don Fabrizio. Le bertucce fanno degli sberleffi ai pappagalli, un atteggiamento irriverente delle scimmiette che sul piano simbolico potrebbe essere letto in una chiave profetica per cui una sorta di profezia della fine della casata. Prevale un’immagine della Maddalena, in una contaminazione tra il sacro e il profano, che sembrava una penitente. La Maddalena è la prostituta pentita legata all’eros, un tema importante e frequente nel romanzo, quindi in un certo senso questa cornice anticipa la semantica del testo. «Le donne si alzavano lentamente, e l’oscillante regredire delle loro sottane lasciava a poco a poco scoperte le nudità mitologiche che si disegnavano sul fondo latteo delle mattonelle.» Prevale un’esplosione di immagini all’interno del palazzo, prevalgono delle figure mitologiche sul pavimento e l’affresco di divinità nel soffitto. «Nell’affresco del soffitto si risvegliarono le divinità. Le schiere di Tritoni e di Driadi che dai monti e dai mari fra nuvole lampone e ciclamino si precipitavano verso una trasfigurata Conca d’Oro per esaltare la gloria di casa Salina, apparvero di subito colme di tanta esultanza da trascurare le più semplici regole prospettiche; e gli Dei maggiori, i Principi fra gli Dei, Giove folgorante, Marte accigliato, Venere languida, che avevano preceduto le turbe dei minori, sorreggevano di buon grado lo stemma azzurro col Gattopardo. Essi sapevano che per ventitré ore e mezza, adesso, avrebbero ripreso la signoria della villa. Sulle pareti le bertucce ripresero a far sberleffi ai cacatoés.» Le smorfie delle bertucce sono in riferimento al gioco dell’esercizio del potere, la signoria dei Salina viene sbeffeggiata dalle bertucce che prenderanno il loro posto nella Villa: la sostituzione dei ceti. Le divinità presenti nel soffitto sono Giove, Marte e Venere, le quali sono citate non casualmente poiché hanno dei riscontri all’interno delle tematiche del romanzo: Giove folgorante richiama il tema del potere; Marte il tema della guerra e Venere l’eros. Queste divinità reggono lo stemma azzurro con il Gattopardo, che è un animale che non esiste in natura, ma è un’invenzione dell’autore che fa diventare simbolo araldico un nome comune che è attestato nel dizionario ottocentesco Tommaseo Bellini, presenta la voce “gattopardo” come nome comune. “Nome comune” indica non un animale nuovo, ma caratterizza le dimensioni di animali che già conosciamo: un “grosso gatto” oppure un “felino di piccole dimensioni” (Sappiamo bene che il leopardo era il rappresentante della loro casata, dei Tomasi). Questo gattopardo non poteva vantare una tradizione araldica prima che lo eleggesse Tomasi di Lampedusa. Perché questa scelta di Tomasi di Lampedusa? Si tratta di una scelta quasi ironico-parodica, in quanto spinge l’autore a mettere in evidenza la crisi della nobiltà dell’epoca  felino di piccole dimensioni. Questo nome apparirà nel titolo, ma anche nel testo nella descrizione dello stemma e alla fine del romanzo nella pelliccia dell’alano Bendicò che viene defenestrata, il narratore riconosce la sagoma del gattopardo, defenestrazione di qualcosa che è diventato un rifiuto, uno scarto. LA FAMIGLIA- PAG.32 «Al di sotto di quell’Olimpo palermitano anche i mortali di casa Salina discendevano in fretta giù dalle sfere mistiche. Le ragazze raggiustavano le pieghe delle vesti, scambiavano occhiate azzurrine e parole in gergo di educandato; da più di un mese, dal giorno dei “moti” del Quattro aprile, le avevano per prudenza fatte rientrare dal convento, e rimpiangevano i dormitori a baldacchino e l’intimità collettiva del Salvatore.» La famiglia si bipartisce: i due coniugi Don Fabrizio Corbera, il suo feudo è Salina quindi è principe di Salina, e la moglie Maria Stella Malvica sono i due genitori dei sette figli. Una volta sola viene nominata una delle 4 figlie: Chiara sposata a Napoli, mentre Carolina, Concetta e Caterina sono le altre tre figlie più nominate. Concetta è la più importante delle quattro e ha una presenza tutt’altro che marginale nel romanzo. Le ragazze vengono ritirate dal convento perché ci sono dei disordini a Palermo, tra questi lo sbarco di Garibaldi in Sicilia. I liberali vogliono far cadere la monarchia dei Borbone. «I ragazzini si accapigliavano di già per il possesso di una immagine di S. Francesco di Paola; il primogenito, l’erede, il duca Paolo, aveva già voglia di fumare e timoroso di farlo in presenza dei genitori, andava palpando attraverso la tasca la paglia intrecciata del portasigari; nel volto emaciato si affacciava una malinconia metafisica: la giornata era stata cattiva: “Guiscardo,” il sauro irlandese, gli era sembrato giù di vena, e Fanny non aveva trovato il modo (o la voglia?) di fargli pervenire il solito bigliettino color di mammola. A che fare, allora, si era incarnato il Redentore?» In questo passo vi è un omaggio a San Francesco di Paola, che dimostra come il suo culto sia stato esportato dalla Calabria già nell’Ottocento. I figli maschi invece sono: Paolo, primogenito ed erede, Giovanni e il più piccolo Francesco Paolo. Il primogenito viene presentato avvolto da un’ironia perché si parla di “malinconia metafisica” giustificandosi alla luce di passioni, preoccupazioni e pensieri effimeri. Le passioni di Paolo sono Fanny, la cugina di primo grado che poi sposerà. L’altra passione di Paolo è Guiscardo, cavallo di razza irlandese, che nel romanzo assume il simbolo di stupidità. DESCRIZIONE: «Lui, il Principe, intanto si alzava: l’urto del suo peso da gigante faceva tremare l’impiantito e nei suoi occhi chiarissimi si riflesse, un attimo, l’orgoglio di questa effimera conferma del proprio signoreggiare su uomini e fabbricati. Adesso posava o smisurato Messale rosso sulla seggiola che gli era stata dinanzi durante la recita del Rosario, riponeva il fazzoletto sul quale aveva posato il ginocchio, e un po’ di malumore intorbidò il suo sguardo quando rivide la macchiolina di caffè che fin dal mattino aveva ardito interrompere la vasta bianchezza del panciotto. Non che fosse grasso: era soltanto immenso e fortissimo; la sua testa sfiorava (nelle case abitate dai comuni mortali) il rosone inferiore dei lampadari; le sue dita potevano accartocciare come carta velina le monete da un ducato; e fra villa Salina e la bottega di un orefice era un frequente andirivieni per la riparazione di forchette e cucchiai che la sua contenuta ira, a tavola, gli faceva spesso piegare in cerchio. Quelle dita, d’altronde, sapevano anche essere di tocco delicatissimo nel maneggiare e carezzare e di ciò si ricordava a proprio danno Maria Stella, la moglie; e le viti, le ghiere, i bottoni smerigliati dei telescopi, cannocchiali, e “cercatori di comete” che lassù, in cima alla villa, affollavano il suo osservatorio privato si mantenevano intatti sotto lo sfioramento leggero. I raggi del sole calante di quel pomeriggio di Maggio accendevano il colorito roseo, il pelame color di miele del Principe; denunziavano essi l’origine tedesca di sua madre, di quella principessa Carolina la cui alterigia aveva congelato, trent’anni prima, la corte sciattona delle Due Sicilie. Ma nel sangue di lui fermentavano altre essenze germaniche ben più incomode per quell’aristocratico siciliano nell’anno 1860, di quanto potessero essere attraenti la pelle bianchissima ed i capelli biondi nell’ambiente di olivastri e di corvini: un temperamento autoritario, una certa rigidità morale, una propensione alle idee astratte che nell’habitat molliccio della società palermitana si erano mutati in prepotenza capricciosa, perpetui scrupoli morali e disprezzo per i suoi parenti e amici che gli sembrava andassero alla deriva nel lento fiume pragmatistico siciliano.» C’è una riflessione sulla figura del principe (PAG.32) il quale era dalla corporatura piuttosto evidente, robusto, dal passo pesante tanto da far tremare il pavimento (l’impiantito). Ci viene mostrato il principe sotto un duplice ruolo:  nel ruolo di amante e  di appassionato di astronomia per cui non avrebbe mai con la forza, distrutto i suoi strumenti. Il principe Fabrizio si presenta come una figura “imponente”, un uomo alto tanto da sfiorare i lampadari e conseguentemente pieno di forza al punto da piegare le forchette. Il risultato della descrizione è riconducibile all’esercizio di autorità limitato alla famiglia e non più alla società in cui prevale la crisi del suo ceto. La descrizione fisica evidenzia la possibilità di esercitare il potere senza difficoltà poiché ha il fisico adatto all’esercizio del potere, ma si ritrova a fare i conti con la storia, con le condizioni storiche che lo costringono all’impotenza. I colori del principe costituiscono un’eccezione nell’ambiente meridionale perché i meridionali hanno la prevalenza di coloriti più scuri per via del ceppo arabo, contrapposizione con i colori del principe che presente una pelle bianchissima, capelli biondi, occhi chiari e colorito roseo tutt’altro che tipici della popolazione meridionale. Il carattere, invece, presenta dei tratti ereditati dalla madre, altri riconducibili al padre: i primi sono il temperamento autoritario che però a contatto con l’ambiente palermitano si è trasformato in prepotenza, in autorità capricciosa, la rigidità morale scaduta a scrupolo e in conclusione la passione per le idee astratte, matematica applicata all’astronomia. Dal padre, invece, ha ereditato (PAG.34) la sensualità per cui si dimostra un donnaiolo. Contrapposizione tra intellettualismo- orgoglio autoritario e la sensualità del padre. «Sollecitato da una parte dall’orgoglio e dall’intellettualismo materno, dall’altra dalla sensualità e faciloneria del padre, il povero Principe Fabrizio viveva in perpetuo scontento pur sotto il cipiglio zeusiano e stava a contemplare la rovina del proprio ceto e del proprio patrimonio senza avere nessuna attività ed ancora minor voglia di porvi riparo.» Interessanti sono i pensieri di Fabrizio grazie a cui recuperiamo una buona parte della memoria della famiglia. Costui è incupito dal pensiero che da casa manchi da due anni il secondogenito Giovanni, figlio nel quale si rispecchiava. Vive il distacco del figlio come un tradimento contro di lui e il suo ceto e ciò calca questa sua sofferenza. «S’incupì tanto che la Principessa seduta accanto a lui tese la mano infantile e carezzò la potente zampaccia che riposava sulla tovaglia.» (PAG. 41) La principessa Mariastella lo vede incupito e triste e gli accarezza la mano definita “potente zampaccia” abbiamo un ritorno al gattopardo. Il principe si animalizza, il gattopardo incarna la figura del principe, in questo caso abbiamo un nesso tra il rappresentante della categoria animale e il principe rappresentante della casata nobiliare. Il gesto di Mariastella infastidisce il principe che decide di recarsi da una prostituta, Mariannina, che esercita tale professione a Palermo dove intraprende con il principe un’avventura di basso rango. Durante il viaggio, egli porta con sé, seppur controvoglia, padre Pirrone, un ecclesiastico al servizio dei Salina. Questa parentesi erotica comincia con un senso di colpa in quanto lussurioso come il padre, ma in possesso di una rigidità morale ereditata dalla madre. Egli nutre senso di colpa verso Dio e verso la moglie Mariastella. «Stella! si fa presto a dire! il Signore sa se la ho amata: ci siamo sposati a vent’anni. Ma lei adesso è troppo prepotente, troppo anziana anche.” Il senso di debolezza gli era passato. “Sono un uomo vigoroso ancora; e come fo ad accontentarmi di una donna che, a letto, si fa il segno della croce prima di ogni abbraccio e che, dopo, nei momenti di maggiore emozione non sa dire che: ‘Gesummaria!’. Quando ci siamo sposati tutto ciò mi esaltava; ma adesso... sette figli ho avuto con lei, sette; e non ho mai visto il suo ombelico. È giusto questo?” Gridava quasi, eccitato dalla sua eccentrica angoscia. “È giusto? Lo chiedo a voi tutti!” E si rivolgeva al portico della Catena. “La vera peccatrice è lei!” La rassicurante scoperta lo confortò e bussò deciso alla porta di Mariannina.» (PAG.46) Tipico atteggiamento maschilista quello di Fabrizio che si autoassolve presentando Mariastella come una suora pudica. Mariannina, però, viene descritta come una donna umile e sottomessa dal punto di vista caratteriale è visibile in Mariastella per cui prevale il cliché di donna sottomessa. «Mariannina lo aveva guardato con gli occhi opachi di contadina, non si era rifiutata a niente, si era mostrata umile e servizievole. Una specie di Bendicò in sottanino di seta.» (p. 47): la sottomissione di Mariannina è paragonabile a quella di Deodata nel Mastro Don Gesualdo di Verga. Per questo, il principe nota come la moglie e la prostituta siano caratterialmente simili. Vengono poi messi in contrasto i loro occhi: quelli di Maria Stella sono vitrei, simbolo di uno sguardo temporaneo; quelli di Mariannina sono opachi, simbolo invece di uno sguardo permanente. «Appena usciti dalla proprietà Salina si scorgeva a sinistra la villa semidiruta dei Falconeri appartenente a Tancredi, suo nipote e pupillo. Un padre scialacquatore, marito della sorella del Principe, aveva dissipato tutta la sostanza ed era poi morto. Era stata una di quelle rovine totali durante le quali si fanno fondere financo i fili d’argento dei galloni delle livree; ed alla morte della madre il Re aveva affidato la tutela dell’orfano allora quattordicenne allo zio Salina. Il ragazzo, prima quasi ignoto, era divenuto carissimo all’irritabile Principe che scorgeva in lui un’allegria riottosa, un temperamento frivolo a tratti contradetto da improvvise crisi di serietà. Senza confessarlo a sé stesso, avrebbe preferito aver lui come primogenito anziché quel buon babbeo di Paolo. Adesso a vent’anni Tancredi si dava bel tempo con i quattrini che il tutore non gli lesinava rimettendoci anche di tasca propria. “Quel ragazzaccio chissà cosa sta combinando per ora” pensava il Principe mentre si rasentava villa Falconeri cui l’enorme bougainvillea che faceva straripare oltre il cancello le proprie cascate di seta episcopale conferiva nell’oscurità un aspetto abusivo di fasto.» (PAG.43) Siamo informati della storia di Tancredi. Villa Falconeri è un ramo della famiglia messa peggio rispetto ai Salina perché il padre aveva dissipato tutto il patrimonio lasciando in miseria la vedova e il figlio. Alla morte della madre il re aveva pensato bene di affidare il nipote alla tutela dello zio Fabrizio. Tancredi aveva solo 14 anni quando aveva avuto inizio il tutorato e quest’ultimo aveva sempre esercitato del potere su Fabrizio in quanto vi è una simpatia evidente e questa sintonia è dovuta al fatto che Tancredi ha delle caratteristiche caratteriali che al principe mancano. Tancredi ha un senso pratico della vita e reagisce alla crisi familiare e generale del ceto aristocratico, un senso pratico che Fabrizio ammira per cui antepone Tancredi a Paolo (l’altro fratello) nella gerarchia delle sue preferenze. Scena principale di questo primo capitolo, l’episodio più importante di tutto il romanzo: c’è una conversazione che avviene tra Don Fabrizio e Tancredi l’indomani mattina, il giorno successivo. All’interno di questo episodio Don Fabrizio ascolta dalla bocca del nipote la famosa frase “ Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi ” luogo comune di associare al romanzo come la quinta essenza del suo significato. Le parole di Tancredi sono considerate enigmatiche. Don Fabrizio sta facendo la barba e gli compare l’immagine del nipote, si discute su ciò che entrambi hanno fatto la sera prima e Tancredi lo prende in giro tanto che le sue battute possono apparire offensive dal punto di vista del principe. « “Buon giorno, zio. Cosa ho combinato? Niente di niente: sono stato con gli amici. Una notte santa. Non come certe conoscenze mie che sono state a divertirsi a Palermo.” Don Fabrizio si applicò a radere bene quel tratto di pelle difficoltoso fra labbro e mento. La voce leggermente nasale del ragazzo portava una tale carica di brio giovanile che era impossibile arrabbiarsi; sorprendersi, però, poteva forse esser lecito. Si voltò e con l’asciugamano sotto il mento guardò il nipote. Questi era in tenuta da caccia, giubba attillata e gambaletti alti. “E chi erano queste conoscenze, si può sapere?” “Tu, zione, tu. Ti ho visto con questi occhi, al posto di blocco di Villa Airoldi mentre parlavi col sergente. Belle cose, alla tua età! e in compagnia di un Reverendissimo! I ruderi libertini!” » (PAG. 49) Frecciata a don Fabrizio che si è recato da Mariannina ad intraprendere una fuga amorosa. “I ruderi libertini” coloro che si concedono piaceri illegali, tipici del libertinaggio. Il sentimento di simpatia verso Tancredi si mescola con un senso di inferiorità e un’invidia sensuale per via anche dell’età per cui Tancredi ha maggiore fascino e facilità di impresa sul sesso femminile. Termina la prima parte di battutine scherzose e si arriva al punto in cui confessa lo scopo per cui è venuto dallo zio. «“Ma perché sei vestito così? Cosa c’è? Un ballo in maschera di mattina?” Il ragazzo divenne serio: il suo volto triangolare assunse una inaspettata espressione virile. “Parto, zione, parto fra mezz’ora. Sono venuto a salutarti.” Il povero Salina si senti stringere il cuore. “Un duello?” “Un grande duello, zio. Contro Franceschiello Dio Guardi. Vado nelle montagne, a Corleone; non lo dire a nessuno, soprattutto non a Paolo. Si preparano grandi cose, zione, ed io non voglio restarmene a casa, dove, del resto, mi acchiapperebbero subito, se vi restassi.” Il Principe ebbe una delle sue visioni improvvise: una crudele scena di guerriglia, schioppettate nei boschi, ed il suo Tancredi per terra, sbudellato come quel disgraziato soldato. “Sei pazzo, figlio mio! Andare a mettersi con quella gente! Sono tutti mafiosi e imbroglioni. Un Falconeri dev’essere con noi, per il Re.” Gli occhi ripresero a sorridere. “Per il Re, certo, ma per quale Re?” Il ragazzo ebbe una delle sue crisi di serietà che lo rendevano impenetrabile e caro. “Se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la repubblica. Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. Mi sono spiegato?”» (PAG. 49) Lui dice chiaramente che è in procinto di partire per unirsi ai ribelli, ai liberali, coloro che vogliono detronizzare il re Borbone. Il principe si dispiace sia perché Tancredi tradisce la nobiltà, sia perché teme il destino del nipote poiché immagina che la sua sorte potrebbe essere analoga a quella del soldato trovato morto nel giardino. C’è la convenienza di schierarsi non dalla parte del Borbone, ma dalla parte di Vittorio Emanuele, una mossa che torna utile alla causa nobiliare. Focalizziamo l’attenzione sulle parole di Tancredi per cui è interesse della nobiltà stare dalla parte della rivoluzione perché se la nobiltà stesse fuori dalla rivoluzione, i liberali andrebbero ad instaurare la repubblica e ciò comporterebbe la perdita dei privilegi e quindi la fine della monarchia rappresenta uno spauracchio per i nobili. Tancredi avvia una via per addomesticare la rivoluzione in modo tale che non abbia delle conseguenze gravi capaci di intaccare i privilegi della classe aristocratica, atteggiamento di trasformismo immobilistico illudersi di poter cavalcare il cambiamento e una capacità di ambientamento ai tempi nuovi. Questo progetto si rivelerà illusorio e fallace, tutto il romanzo si incaricherà di dimostrare il fatto che Tancredi abbia torto dimostrando che la rivoluzione non può essere addomesticata dalla nobiltà. Si dimostrerà che la storia ha portato un’estromissione della nobiltà dal potere. Quando si parla di gattopardismo bisogna stare attenti in quanto si intende la filosofia di conservazione e sarà qualcosa destinata ad essere smentito dai fatti  la frase di Tancredi diventa fonte di equivoci quando la si attribuisce a Tomasi, come se avesse una concezione immobilistica della storia, ma in realtà Tomasi sa che la storia muta e quindi non procede in maniera ciclica. La frase di Tancredi si fa portavoce di una filosofia che non è sposata dal suo autore. L’illusione di una Sicilia immobile appartiene in primis a Tancredi che poi influenza anche il principe, il quale però successivamente, in punto di morte, si ricrede capendo che Tancredi aveva torto. “Quel Garibaldi, quel barbuto Vulcano aveva dopo tutto vinto.” «“Se vogliamo che tutto rimanga com’è... “Tancredi era un grand’uomo: lo aveva sempre pensato.» (PAG. 51): a partire da questo momento, Don Fabrizio comincia a sposare il punto di vista di Tancredi. Ammira di Tancredi il pragmatismo e la capacità di adattamento. [Abbiamo una conferma di questo a pagina 55.] «Molte cose sarebbero avvenute, ma tutto sarebbe stato una commedia, una rumorosa, romantica commedia con qualche macchia di sangue sulla veste buffonesca.» (p. 55) tale passo mette in risalto l’inutilità, secondo il principe, della rivoluzione: essa avrebbe infatti cambiato le cose, ma soltanto apparentemente. Pensiero indiretto libero del principe: “la rivoluzione sviene assimilata ad una commedia con qualche macchia di sangue sulla veste” in questa recita nessuno si fa del male e ognuno fa la sua parte ma in fin dei conti tutto rimane com’è, figurerà solo qualche macchia di sangue la nobiltà riuscirà a mantenere i suoi privilegi, solo all’apparenza le cose cambieranno. segue i pensieri di Fabrizio e lui si ricorda delle manifestazioni plateali di esultanza per le novità storiche. Per le vie di Palermo veniva portato a spasso il tricolore e Fabrizio fa un’osservazione tra il tricolore della bandiera, qualcosa che abbiamo scimmiottato dai francesi, in contrapposizione all’orgoglio dello stemma aristocratico che invece è autentico. Definisce queste manifestazioni come delle “carnevalate”. La sua insofferenza che calza a pennello pensando al personaggio di Fabrizio, si unisce al disprezzo di Malvica e di Paolo che si erano dimostrati paurosi. Si presentarono a Villa Salina, un giorno, due rappresentanti dell’esercito di Garibaldi, due continentali (non siciliani), una coppia di ufficiali (un generale toscano e un ufficiale di ordinanza - contino milanese) i quali volevano ammirare gli affreschi. I Salina ottengono dei benefici da questa visita uno di questi è la mancata espulsione di padre Pirrone dal convento (il nuovo ordine politico era ostile alla chiesa e costringeva gli uomini di Chiesa ad allontanarsi dalla casa degli aristocratici) un altro vantaggio era quello di ottenere il “lasciapassare” per recarsi nelle case di villeggiature. Il lato sentimentale della visita riguarda Concetta, lei non è disposta a ricambiare l’infatuazione del contino milanese in quanto concentrata su Tancredi. Gli amori di Tancredi sono definiti “amori ragionati” ossia degli amori che fruttano e sono convenienti. Il Contino spera di ricevere, al momento del congedo, il saluto di Concetta che però non ricambia e quindi prevale la frustrazione dell’uomo. La narrazione riprende con l’arrivo dei Salina a Donnafugata dove sono accolti da Don Calogero Sedara, un campagnolo che ha fatto fortuna, ed è diventato sindaco. Don Calogero accoglie i Salina insieme ai notabili, termine con cui si indicano le persone autorevoli, tra questi vi è anche Don Ciccio Tumeo nonché amico e compagno di caccia di Don Fabrizio. L’atteggiamento di colore che accolgono è di reverenza, di assoluta sottomissione, in quanto il principe rappresenta la figura di massima autorità che per Fabrizio è gratificante in quanto si sente superiore a capo del suo feudo. Don Fabrizio, davanti a questa accoglienza, si mostra fin troppo cordiale riducendo la distanza tra lui e la popolazione di Donnafugata arrivando ad accogliere amici. «Il Principe che aveva trovato il paese immutato venne invece trovato molto mutato lui che mai prima avrebbe adoperato parole tanto cordiali; e da quel momento, invisibile, cominciò il, declino del suo prestigio.» (P.79) Il narratore commenta l’atteggiamento di Fabrizio sostenendo che sia cambiato in quanto meno sicuro di sé questo perché si chiede se siano fedeli come un tempo i cittadini verso di lui e nel dubbio cerca di compensare con manifestazioni di calorosità. Questo comportamento rappresenta un passo falso poiché la popolazione lo vede più simile alla popolazione e da qui la considerazione secondo cui il prestigio di Don Fabrizio entra in crisi. Tomasi di Lampedusa è abile a mettere in evidenza non solo il cambiamento storico, ma anche le piccole incrinature dell’Ancien Regime. Il narratore presenta altri personaggi della storia importanti tra cui l’introduzione del personaggio di Angelica. Prima ancora di Angelica viene presentata la madre, cioè la moglie di Don Calogero, Bastiana. «era questa una specie di contadina, bellissima, ma giudicata dal marito stesso, per più d’un verso, impresentabile;» (p. 79) La moglie del sindaco è invece definita da lui stesso “impresentabile”, in quanto ignorante in materia di vita mondana. Le sue origini rozze sono oltretutto messe in evidenza dalla descrizione del padre, tale "Peppe ‘Mmerda" dipendente dei Salina. Bastiana stessa, dalle origini volgari, si presenta come donna impresentabile questo perché non si presenta come donna di vita mondana, non sa comportarsi a modo ed è molto rozza. Don Calogero inventa una scusa per non mettere in mezzo la moglie e si meravigliano però quando propone il nome della figlia Angelica che è cresciuta rispetto a come la ricordava Don Fabrizio. La ragazza ha un’aura letteraria che rimanda all’Orlando Furioso in quanto nome letterario. Don Fabrizio conversa con Don Onofrio Rotolo nella stanza dell’amministrazione del palazzo. Don Onofrio cura gli interessi della famiglia Salina a Donnafugata, una persona ligia e onesta. Con rancore, informa Don Fabrizio che Don Calogero si era molto arricchito negli ultimi tempi a tal punto di arrivare quasi allo stesso livello economico di Don Fabrizio a Donnafugata, notizia che dà la misura del cambiamento dei tempi. (Avanzamento economico e sociale di Don Calogero) Nell’episodio successivo prendiamo conoscenza dei sentimenti di Concetta, innamorata del cugino Tancredi. Ella non ha il coraggio di informare il principe, per cui si confida con padre Pirrone che di conseguenza riferisce tutto quanto al principe. «“Essa è innamorata.” Un uomo di quarantacinque anni può credersi ancora giovane fino al momento in cui si accorge di avere dei figli in età di amare. Il Principe si senti invecchiato di colpo; dimenticò le miglia che percorreva cacciando, i “Gesummaria” che sapeva provocare, la propria freschezza attuale al termine di un viaggio lungo e penoso; di colpo vide sé stesso come una persona canuta che accompagna uno stuolo di nipotini a cavallo alle capre di Villa Giulia.» (P.84) La reazione del principe è negativa poiché è un colpo basso dal momento che la figlia è cresciuta e sente addosso tutti i suoi 45 anni. Questa reazione riguarda il fatto che Concetta ha deciso di sposarsi e allontanarsi da casa, ma a questo dispiacere che investe la sfera esistenziale, si aggiunge il disappunto sul piano politico nel merito della scelta. Lo disturba il fatto che Concetta abbia scelto Tancredi e questo perché per Tancredi, lui che ne è il tutore, aveva altri progetti. «Tancredi, secondo lui, aveva dinanzi a sé un grande avvenire; egli avrebbe potuto essere l’alfiere di un contrattacco che la nobiltà, sotto mutate uniformi, poteva portare contro il nuovo ordine politico. Per far questo gli mancava soltanto una cosa: i soldi; di questi Tancredi non ne aveva, niente. E per farsi avanti in politica, adesso che il nome avrebbe contato di meno, di soldi ne occorrevano tanti: soldi per comperare i voti, soldi per far favori agli elettori, soldi per un treno di casa che abbagliasse. Treno di casa... e Concetta con tutte le sue virtù passive sarebbe stata capace di aiutare un marito ambizioso e brillante a salire le sdrucciolevoli scale della nuova società? Timida, riservata, ritrosa come era? Sarebbe rimasta sempre la bella educanda che era adesso, cioè una palla di piombo al piede del marito. “La vedete voi, Padre, Concetta ambasciatrice a Vienna o a Pietroburgo?” La testa di Padre Pirrone fu frastornata da questa domanda. “Ma che c’entra questo? Non capisco.” Don Fabrizio non si curò di spiegare e si ringolfò nei suoi pensieri. Soldi? Concetta avrebbe avuto una dote, certo. Ma la fortuna di casa Salina doveva essere divisa in otto parti, in parti non eguali, delle quali quella delle ragazze sarebbe stata la minima. Ed allora? Tancredi aveva bisogno di ben altro: di Maria Santa Pau, per esempio, con i quattro feudi già suoi e tutti quegli zii preti e risparmiatori; di una delle ragazze Sutèra, tanto bruttine ma tanto ricche. L’amore. Certo, l’amore. Fuoco e fiamme per un anno, cenere per trenta. Lo sapeva lui che cos’era l’amore... e Tancredi poi, davanti al quale le donne sarebbero cadute come pere cotte...» (pp. 85-86) Tancredi avrebbe avuto bisogno di una donna diversa rispetto a Concetta per raggiungere traguardi che sono alla sua portata; per Tancredi, il principe, sogna un futuro di successo al fine di risollevare la sua classe contro la rivoluzione. Tancredi necessitava una donna con determinate caratteristiche: dev’essere anch’ella brillante (Concetta non lo è) e soprattutto benestante (Concetta avrebbe usufruito solo una parte del patrimonio, quindi non può garantire un patrimonio a Tancredi e i soldi nel futuro conteranno moltissimo nella vita dei nobili Salina che hanno perduto credibilità). Tancredi nomina altre donne assimilabili per censo assimilabili ad Angelica (che però ancora non conosce). Don Fabrizio si cruccia soprattutto della seconda, poiché la figlia non può garantire un adeguato patrimonio a Tancredi. L’episodio si chiude con un rintocco funebre. «Dalla Madre Chiesa vicina giungevano tetri i rintocchi di un “mortorio.” Qualcuno era morto a Donnafugata, qualche corpo affaticato che non aveva resistito al grande lutto dell’estate siciliana, cui era bancata la forza di aspettare la pioggia. “Beato lui” pensò il Principe mentre si passava la lozione sulle basette. “Beato lui, se ne strafotte ora di figlie, doti e carriere politiche.” Questa effimera identificazione con un defunto ignoto fu sufficiente a calmarlo. “Finché c’è morte c’è speranza” pensò; poi si trovò ridicolo per essersi posto in un tale stato di depressione perché una sua figlia voleva sposarsi.» (pp. 86-87) Sente i rintocchi di un mortorio e questo lo allontana dai pensieri negativi da una parte, dall’altra lo porta ad identificarsi con il morto (corteggiamento della morte e aspirazione all’annullamento nichilismo). Un altro episodio importante ci fa capire, dietro un’immagine metaforica (pesche forestiere), cosa sta bollendo nella pentola di Tancredi. Siamo nel giardino del palazzo di Donnafugata e il Principe si sofferma a guardare una fontana di Anfitrite abbracciata da Nettuno, una scena di nudità e sopraggiunge il nipote. Rimprovera Don Fabrizio di questo momento di cedimento e invita a guardare nel giardino le pesche forestiere frutto di un innesto con piante tedesche (un innesto che si dà nell’ambito agricolo, ma soprattutto una metafora della relazione tra Tancredi e Angelica -due classi sociali diverse-). Il significato di questa metafora è implicito, ma si riferisce all’innesto della classe borghese sulla pianta della nobiltà decaduta . «Andarono a guardare le “pesche forestiere”. L’innesto dei gettoni tedeschi, fatto due anni prima, era riuscito perfettamente; le pesche erano poche, una dozzina sui due alberi innestati, ma erano grandi, vellutate e fragranti……. “eppure, Tancredi, anche queste pesche sono prodotte da amori, da congiungimenti.” “Certo, ma da amori legali, promossi da te, padrone e dal giardiniere, notaio; da amori meditati, fruttuosi.» (p.88) L’innesto, nella logica metaforica, è un amore meditato, in altre parole si potrebbe dire un matrimonio combinato costruito sugli interessi comuni della famiglia Salina, impoverita, e anche quelli della famiglia Sedara, la famiglia di Angelica punta ad acquisire il titolo nobiliare, quindi un matrimonio reciprocamente conveniente. «Tutto era placido e consueto, quando Francesco Paolo, il sedicenne figliolo, fece nel salotto una irruzione scandalosa: “Papà, don Calogero sta salendo le scale. È in frack!” Tancredi valutò l’importanza della notizia un secondo prima degli altri; era intento ad ammaliare la moglie di don Onofrio, ma quando udì la fatale parola non poté trattenersi e scoppiò in una risata convulsa. Non rise invece il Principe al quale, è lecito dirlo, la notizia fece un effetto maggiore del bollettino dello sbarco a Marsala. Quello era stato un avvenimento previsto, non solo, ma anche lontano e invisibile. Adesso, sensibile com’egli era, ai presagi e ai simboli, contemplava la Rivoluzione stessa in quel cravattino bianco e in quelle due code nere che salivano le scale di casa sua. Non soltanto lui, il Principe, non era più il massimo proprietario di Donnafugata, ma si vedeva anche costretto a ricevere, vestito da pomeriggio, un invitato che si presentava, a buon diritto, in abito da sera.» (pp. 89-90) C’è questo pranzo a cui Angelica e Don Calogero sono stati invitati. Don Calogero è annunciato e si presenta davanti alla nobiltà, qui Don Fabrizio non era vestito con l’abito da sera in quanto per mettere a suo agio i suoi ospiti indossa un abito più modesto e quando gli viene annunciato Calogero e lo vede avanzare nel salotto ben vestito (in frak), riceve una mazzata. Quel sindaco, rozzo campagnolo incolto, era più elegante di lui in in contrapposizione alla nuova realtà sociale che lo ha sconvolto. Queste 2 realtà messe a confronto si rivelano del tutto lontane. La Sicilia pastorale, questa campagna, diventa il luogo che permette al principe dimenticare Donnafugata, di puntare un cannocchiale rovesciato su Donnafugata e tutto ciò che gravita attorno a Donnafugata e sui problemi che la vita in quel luogo gli aveva suscitato, tormentandolo. L’immersione nella campagna in cui caccia ha la stessa funzione delle stelle che si compiace a contemplare, cioè permette l’esercizio del pathos della distanza, permette a Don Fabrizio di godere di questo piacere di pathos della distanza.  “Pathos della distanza” Calvino del barone rampante ne è un esempio (Cosimo che sale sugli alberi e raggiunge la posizione da cui guardare la realtà sottostante e quindi esercitare un dominio).  “Cannocchiale rovesciato”  è un’espressione che rimanda a Pirandello (Dott. Fileno ha inventato una terapia al dolore permettendo di guardare alle malattie con la lente che rimpicciolisce, dal lato opposto quindi. Un modo per esorcizzare ciò che ci fa soffrire). -Donnafugata costituita non dalle pietre e dalla carne, ma dalla stoffa di un sognato avvenire- si tratta di una citazione letteraria volontaria e intenzionale, Donnafugata appare come se fosse stata sognata, e si riferisce a Shakespeare [La Tempesta]. «Nel termine “campagna” è implicito un senso di terra trasformata dal lavoro: la boscaglia invece, aggrappata alle pendici di un colle, si trovava nell’identico stato d’intrico aromatico nel quale la avevano trovata Fenici, Dori e Ioni quando sbarcarono in Sicilia, quest’America dell’antichità. Don Fabrizio e Tumeo salivano, scendevano, sdrucciolavano erano graffiati dalle spine tale quale come un Archedamo o un Filostrato qualunque erano stati stancati e graffiati venticinque secoli prima; vedevano le stesse piante, un sudore altrettanto appiccicaticcio bagnava i loro abiti, lo stesso indifferente vento senza soste, marino, muoveva i mirti e le ginestre, spandeva l’odore del timo. Le improvvise soste pensose dei cani, la loro patetica tensione in attesa della preda era identica a quella dei giorni in cui per la caccia s’invocava” Aneroide. Ridotta a questi elementi essenziali, col volto lavato dal belletto delle preoccupazioni, la vita appariva sotto un aspetto tollerabile.» (P.114) La Sicilia pastorale è la stessa di quella che poteva essere sperimentata 25 secoli prima da popoli antichi: ciò si riferisce nuovamente al concetto di immobilismo della natura. Abbiamo una sospensione dell’azione già vista nel romanzo, abbiamo la scena del ricordo, in questo caso ci vien detto che la campagna non sortiva effetto benefico che solitamente produceva in Fabrizio, fino all’estate prima l’effetto benefico si era fatto sentire, ma ora non più. I pensieri di Fabrizio sono assimilati con natura animalesca, zoomorfa, le preoccupazioni e le angosce attanagliano l’animo di Fabrizio come formiche che si muovono per assaltare una lucertola morta metafora che poi si concretizza. Le formiche appariranno in seguito nel romanzo. «Bande, mortaretti, campane, “zingarelle” e Te Deum all’arrivo, va bene; ma dopo la rivoluzione borghese che saliva le sue scale nel frack di don Calogero, la bellezza di Angelica che poneva in ombra la grazia contegnosa della sua Concetta, Tancredi che precipitava i tempi dell’evoluzione prevista e cui anzi l’infatuazione sensuale dava modo d’infiorarne i motivi realistici; gli scrupoli e gli equivoci del Plebiscito; le mille astuzie alle quali doveva piegarsi lui, il Gattopardo, che per tanti anni aveva spazzato via le difficoltà con un rovescio della zampa.» (P.107) Fastidi che si riferiscono sia alla situazione politica (ascesa borghesia), ma anche fastidi legati alla situazione familiare (L’accelerazione del rapporto tra Tancredi e Angelica, la messa in ombra di Concetta. Angelica che oscura Concetta) e gli scrupoli del plebiscito. Il principe viene paragonato al Gattopardo stesso, che in precedenza era solito liberarsi dei propri problemi ricorrendo alla forza; ora, invece, questa dev’essere sostituita dall’astuzia, che si manifesta sia nell’accettazione del compromesso, sia nel linguaggio, come vedremo nella lettura della lettera di Tancredi. Ciò amareggia Don Fabrizio, che rimpiange i tempi in cui il compromesso non era necessario. “Le mille astuzie” sono il corrispettivo della logica del baratto, il compromesso che esige l’astuzia e modi diplomatici di affrontare i problemi; Don Fabrizio è combattuto tra la consapevolezza di doversi adattare e il rimpianto dei tempi in cui questa necessità non si presentava. Quest’astuzia si verifica anche sul piano del linguaggio, del piano dello scambio verbale. Ne abbiamo subito una prova: arrivano le lettere di Tancredi (Tancredi è partito, si trova lontano da Donnafugata, si trova a Caserta, lui manda delle lettere che il principe legge a tutta la famiglia raccolta). L’astuzia, in merito a ciò, si traduce in precauzione verbale: Don Fabrizio legge le lettere di Tancredi operando ed eliminando dalla lettera dei tratti -censurandoli- censura prudentemente «le spine e i boccioli prematuri» provvede a tagliare quello che può lasciar sperare troppo ad una ragazza come Angelica che è già presa dalla passione per Tancredi, e ciò che ferisce. [Le prime sono gli apprezzamenti fisici di Tancredi, i secondi sono invece le frasi che potrebbero anticipare di troppo la relazione fra lui e Angelica.] Vi è un primo riferimento all’arte: Tancredi ha visto un quadro della Madonna, nella camera del re, e la paragona alla bellezza di Angelica. LETTERA DI TANCREDI (la più importante): La lettera in cui Tancredi chiede a Don Fabrizio di poter sposare Angelica, delega quindi lo zio di chiedere a Don Calogero la mano di Angelica. Il tratto rivoluzionario costituisce un commento politico alla proposta matrimoniale per cui Tancredi generalizza il suo caso particolare andando a stipulare una riflessione sulla convenienza dei matrimoni combinati. «Tancredi si abbandonava a lunghe considerazioni sulla opportunità, anzi sulla necessità che unioni tra famiglie come quella dei Falconeri e quella dei Sedàra venissero incoraggiate per l’apporto di sangue nuovo che esse recavano ai vecchi casati, e per l’azione di livellamento, dei ceti che era uno degli scopi dell’attuale movimento politico, in Italia.» (p. 110): Tancredi sostiene che le unioni attraverso matrimoni, come quella Cedara-Salina, sono raccomandate poiché devono permettere alla classe nobiliare di non decadere e a quella borghese di ottenere un titolo nobiliare. Ciò fluisce in un livellamento dei due ceti, un matrimonio conveniente per entrambi. Questa può essere vista come una lezione politica impartita da Tancredi allo zio. Il modo in cui tali riflessioni si presentano fa inoltre comprendere la prudenza di Tancredi: esse sono infatti scritte su un foglio separato dalla lettera, in modo tale da poter essere facilmente fatto scomparire in caso di necessità. «Egli notò di nuovo la stupefacente accelerazione della storia; per esprimersi in termini moderni diremo che egli venne a trovarsi nello stato d’animo di una persona che credendo, oggi, di esser salito a bordo di uno degli aerei paciocconi che fanno il cabotaggio fra Palermo e Napoli si accorge invece di trovarsi rinchiuso in un apparecchio supersonico e comprenda che sarà alla meta prima di aver avuto il tempo di farsi il segno della croce.» (P.111) Tancredi indica la direzione che tutti dovrebbero imboccare, la via dell’alleanza.  Apparecchio supersonico è quell’aereo che garantisce l’attraversamento di grandi spazi, da un continente all’altro;  Aereo pacioccone potrebbe essere di piccolo calibro. Questa puntualizzazione rispetto alla storia è anacronistica perché il paragone mette in risalto l’accelerazione del mutamento della storia e Tancredi ne è l’incarnazione. Tale paragone è anacronistico poiché nel 1860 gli aerei non erano ancora stati inventati, e vi erano ancora le mongolfiere. Interessante è il riferimento agli aerei per cui c’è uno sfasamento anacronistico rispetto al tempo della storia raccontata, ma attuale rispetto al tempo della storia di Tomasi. Uno che crede di essere salito sull’aereo pacioccone si rende conto di essere proiettato alla velocità della luce su un aereo supersonico. Tancredi manzonianamente fa presente allo zio che questo matrimonio s’adda fa’ e quindi quella di Tancredi è una ragionata passione. C’è il ricordo della sera in cui Don Fabrizio aveva fatto presente a Mariastella tutto questo, e lei arrabbiata aveva imprecato contro Angelica e Tancredi perché avrebbe dovuto sposare Concetta. Angelica viene insultata e trattata come una sgualdrina, in questo caso Don Fabrizio prende le parti di Tancredi sostenendo che stia solo al passo con i tempi e quindi non sia un traditore. (pag.112) Il tempo dell’azione ci fa immergere nella campagna della Sicilia pastorale, ci viene raccontato di un coniglio selvatico che diventa bottino di caccia. Nei confronti di questo animale il narratore esprime sentimento di pietà che è definito come “pietà cosmica”, ma anche un sentimento leopardiano di commiserazione verso le creature che soffrono. Si arriva poi alla conversazione che ha come oggetto il plebiscito, il referendum circa l’annessione della Sicilia al Regno d’Italia, a cui erano chiamati a rispondere gli abitanti di Donnafugata, Don Fabrizio chiede a Don Ciccio Tumeo come aveva votato. “Scusate, Eccellenza, la vostra è una domanda inutile. Sapete già che a Donnafugata tutti hanno votato per il sì.” (pag.117) C’è stata un’apparente unanimità dell’espressione del voto e il risultato era il sì e quindi l’ammissione. Cosa non torna a Don Fabrizio? Il fatto che in quella giornata gli siano presentati per farsi consigliare, delle persone che erano rimasti affezionati all’antico regime e quindi mostravano di non essere disposte a votare per il sì e seguire il consiglio di Fabrizio (lui stesso, diplomatico, aveva votato per il sì). Aveva avuto quindi l’impressione che queste persone avrebbero votato per il no, ma nel conto finale, i conti non tornano in quanto prevale l’unanimità. Tenta di sciogliere questo enigma chiedendo a Don Ciccio Tumeo il quale gli fa capire che il suo no, insieme a quello di altre poche persone, era stato annullato perché le autorità liberali avevano deciso di annullare quei no e convertirli in sì, per far sì che la vittoria risultasse piena. Si tratta di un vero e proprio imbroglio elettorale. «Ove poi si voglia considerare che le persone venute da lui rappresentavano soltanto il fior fiore del paese e che qualche non convinto dovesse pur esserci fra quelle centinaia di elettori che non si erano neppur sognati di farsi vedere a palazzo, il Principe aveva calcolato che la compattezza affermativa di Donnafugata sarebbe stata variegata da una trentina di voti negativi.» (P.118) Queste sono le previsioni del Principe: tutto lasciava pensare (al principe) che ci sarebbero stati almeno una trentina di voti negativi, ipotesi smentite dalla proclamazione dei risultati quando il sindato Calogero Sedara legge i risultati del plebiscito risulta che tutti abbiano votato per il sì, ma la cosa è strana, cerca una spiegazione e poi la ottiene dalla confessione di Don Ciccio Tumeo e gli fa intendere che quei “no” erano stati fraudolentemente convertiti in “si”, compreso il suo “no” legittimista, borbonico, prova di fedeltà all’antico regime. Aveva sentito parlare in paese degli occhioni dolci che Tancredi faceva ad Angelica cioè Tumeo era venuto a sapere che quindi Tancredi aveva reale interesse nei confronti di Angelica e quindi si rende conto di doversi trattenere nel giudizio e non infierire su Don Calogero. «Questo è don Calogero, Eccellenza, l’uomo nuovo come dev’essere; è peccato però che debba essere così.”» (pag.127) Contenendosi, ammette che Don Calogero sia l’uomo nuovo, l’uomo che tra poco sarà più ricco di Don Fabrizio e quindi ammette che l’uomo nuovo dev’essere così, anche se è peccato che sia così prende le distanze in maniera contenuta. Il discorso tocca poi altre figure, in primo luogo la moglie di Don Calogero: Donna Bastiana. «E pare che donna Bastiana sia una specie di animale: non sa leggere, non sa scrivere, non conosce l’orologio, quasi non sa parlare: una bellissima giumenta, voluttuosa e rozza; è incapace anche di voler bene alla figlia; buona ad andare a letto e basta.”» (P.128) C’è una presentazione impietosa, qui è spietato, Donna Bastiana è un essere volgare e ignorante, buono a soddisfare solo certi istinti, rincara la dose chiamando il nonno materno di Angelica (Padre di Donna Bastiana). «“Del resto” continuava “non potrebbe essere altrimenti. Lo sapete, Eccellenza, di chi è figlia donna Bastiana?” Voltatesi, si alzò sulla punta dei piedi e con l’indice mostrava un lontano gruppetto di case che sembravano scivolare giù dal dirupo di un colle ed esservi a mala pena inchiodate da un campanile miserabile: un borgo crocifisso. “È figlia di un vostro affittuario di Runci, Peppe Giunta si chiamava e tanto sudicio, e torvo era che tutti lo chiamavano ‘Peppe ‘Mmerda’. Scusate la parola, Eccellenza.” E, sodisfatto, avvolgeva attorno a un suo dito un orecchio di Teresina. (Teresina=cane da caccia). “Due anni dopo la fuga di don Calogero con Bastiana lo hanno trovato morto sulla trazzera che va a Rampinzeri, con dodici ‘lupare’ nella schiena. Sempre fortunato don Calogero, perché quello stava diventando importuno e prepotente.”» (p. 128) La lupara in questi casi ha una matrice, è riconducibile ad un tipo di crimine organizzato, la morte per “lupara” configura un delitto di mafia. Le origini di Angelica sono origini molto umili difatti c’è un antenato nell’albero genealogico di Angelica, molto grottesco ovvero Peppe Merda (il nonno, padre di Bastiana) il quale aveva trovato la morte per mano di sconosciuti, ma si lascia intendere dal contesto fosse stato proprio il suocero a volerlo morto quindi Don Calogero acquista una connotazione mafiosa in quanto mandante dell’omicidio di Peppe Merda. La famiglia di Angelica si presenta con tratti di ignoranza, volgarità e violenza e ci porta a ritenere che il formicolio di Don Fabrizio fosse giustificato in quanto ha una conferma di quello che già sa. Il matrimonio che si prospetta tra Angelica e Tancredi non può che essere visto negativamente da Ciccio Tumeo. «il desiderio di malignare aveva mascherato la verità; tutti si erano costruiti il pupazzo di un Tancredi libertino che aveva fissato la propria lascivia su Angelica e che armeggiasse per sedurla, e basta. Il semplice pensiero di un matrimonio meditato fra un Principe di Falconeri e una nipote di Peppe ‘Mmerda non traversò neppure l’immaginazione di quei villici che rendevano così alle case feudali un omaggio equivalente a quello che il bestemmiatore rende a Dio. La partenza di Tancredi troncò poi queste fantasie e non se ne parlò più. Sotto questo riguardo Tumeo era stato alla pari con gli altri e perciò accolse la domanda del Principe con l’aria divertita di un uomo anziano che parli delle bricconate di un giovanotto.» (P.129) Agli occhi di Tumeo l’unione tra Tancredi e Angelica, rappresenta qualcosa di inaccettabile e questo lo porta ad indignarsi, infatti questo sentimento ci viene presentato a pagina 130 quando dice: «“Questa, Eccellenza, è una porcheria! Un nipote, quasi un figlio vostro non doveva sposare la figlia di quelli che sono i vostri nemici e che sempre vi hanno tirato i piedi. Cercare di sedurla, come credevo io, era un atto di conquista; così, è una resa senza condizioni. È la fine dei Falconeri, e anche dei Salina!”» è disposto ad ammettere un’azione seduttiva di Tancredi nei confronti di Angelica come accettabile, ma non l’unione matrimoniale. Ultimo episodio che chiude il capitolo Il colloquio nello studio del principe vede due interlocutori: il Principe e Don Calogero. L’animo del Principe viene descritto dal narratore che rievoca l’immagine del Gattopardo. «Traversando le due stanze che precedevano lo studio si illuse di essere un Gattopardo imponente dal pelo liscio e profumato che si preparasse a sbranare uno sciacalletto timoroso;» (P.132) Ci troviamo di fronte ad una similitudine zoomorfa del romanzo per cui si prendono in considerazione due animali:  Gattopardo che rappresenta la casata della vecchia generazione della nobiltà e  lo Sciacalletto e quindi la classe borghese in ascesa. L’assimilazione agli sciacalli non è a caso, questo perché gli sciacalli tendono ad approfittarsi delle ricchezze altrui per ascendere. Pensa di ricavare il massimo dei vantaggi nel colloquio con Don Calogero e di poter avere “la meglio” su di lui. Si tratta di stipulare il contratto matrimoniale nella maniera più vantaggiosa a Don Fabrizio. «ma per una di quelle involontarie associazioni di idee che sono la croce delle nature come la sua, davanti alla memoria gli passò l’immagine di uno di quei quadri storici francesi nei quali marescialli e generali austriaci, carichi di pennacchi e gale, sfilano, arrendendosi dinanzi a un ironico Napoleone; loro sono più eleganti, è indubbio, ma il vincitore è l’omiciattolo in cappottino grigio; e così, oltraggiato da questi inopportuni ricordi di Mantova e di Ulma, fu invece un Gattopardo irritato a entrare nello studio.» Il pensiero di Don Fabrizio funziona mediante una logica associatistica che lo porta a rimangiarsi l’ottimismo che aveva nutrito prima, realizza che realtà quella è un’illusione e che il vincitore in quel colloquio sarà Don Calogero, allora paragona una serie di quadri in cui figura Napoleone vestito in capottino grigio, quindi poco elegante che però ottiene di essere omaggiato dagli ufficiali austriaci ben vestiti, ma sconfitti situazione del colloqui tra i due: Sedara incarna Napoleone, mentre Don Fabrizio incarna gli ufficiali. Alla fine di questo colloquio lui dovrà ingoiare il rospo del matrimonio. Sedara in questa occasione si mostra in tutta la sua volgarità «“Ma io sono un uomo di mondo e voglio anch’io porre le mie carte in tavola. Sarebbe inutile parlare della dote di mia figlia; essa è il sangue del mio cuore, il fegato fra le mie viscere; non ho altra persona cui lasciare quello che posseggo, e quello che è mio è suo. Ma è giusto che i giovani conoscano quello su cui possono contare subito: nel contratto matrimoniale assegnerò a mia figlia il feudo di Settesoli, di salme 644, cioè ettari 1680, come vogliono chiamarli oggi, tutto a frumento; terre di prima qualità ventilate e fresche, e 180 salme di vigneto e uliveto a Gibildolce; e il giorno del matrimonio consegnerò allo sposo venti sacchetti di tela con mille ‘onze’ ognuno.» (P.138) mettendo in atto un discorso pieno di cifre, di esibizionismo, Don Calogero ostenta la sua ricchezza (la ricchezza della dote di Angelica) mostrando il suo poco tatto, poca eleganza sfiorando il grottesco quando attribuisce alla figlia un titolo nobiliare falso (quello di Baronessa Sedara del Biscotto). «e un giorno si saprà che vostro nipote ha sposato la baronessina Sedàra del Biscotto; titolo concesso da Sua Maestà Ferdinando IV sulle secrezie del porto di Mazzara. Debbo fare le pratiche: mi manca solo un attacco.”» (p. 139) QUARTA PARTE Parte IV unità di tempo non rispettata poiché si sfiorano le 24h. Sono gli ultimi giorni del soggiorno della famiglia Salina a Donnafugata. Siamo nel Novembre 1860 Importante è il famoso episodio del ciclone amoroso e dell’esplorazione del girovagare di Tancredi e Angelica negli appartamenti abbandonati di Donnafugata che è un palazzo immenso, ci sono appartamenti che non sono mai stati visitati dal principe. Questo palazzo di Donnafugata risente dell’esperienza personale dell’autore poiché vi si proietta il palazzo materno di Tomasi, Margherita in Belice: il Palazzo Cutò di Filangeri. Tomasi in “ricordi d’infanzia” (racconto scritto a ridosso del gattopardo) descrive gli anni dell’infanzia trascorsi in questo palazzo materno. Vengono a vistare Donnafugata Tancredi insieme a Cavriaghi (conte piemonetese) sono ora ufficiali dell’esercito di Sardegna. Grazie a questa visita si riaccende la scintilla dell’eros alla visita di questi giovani. «Il palazzo dei Salina era stato ottant’anni prima un ritrovo per quegli oscuri piaceri nei quali si era compiaciuto il Settecento agonizzante; ma la reggenza severa della principessa Carolina, la neoreligiosità della Restaurazione, il carattere soltanto bonariamente carnale dell’attuale Don Fabrizio avevano perfino fatto dimenticare i suoi bizzarri trascorsi;» (P.158) La stagione è novembre, una stagione che ha qualcosa di erotico poiché si parla dell’estate di San Martino il cui clima è carico di calore [l’estate di San Martino che è la vera stagione di voluttà in Sicilia. (pag.157)], il palazzo dei Salina era stato complice del ‘700 agonizzante nonché secolo dell’eros. Il fantasma di questi piaceri oscuri viene risvegliato dai ragazzi. Il ‘700 è definito il secolo dell’eros poiché è il secolo della letteratura libertina, in particolare si impone De Sade, soprannominato il divino marchese. «Una volta la sorpresa fu di colore diverso. In una stanza della foresteria vecchia si avvidero di una porta nascosta da un armadio; la serratura centenaria cedette presto a quelle dita che… sulle pareti grandi specchi attoniti, appesi troppo in giù» (P.162) Una di queste scorribande fanno irruzione in una stanza del palazzo. «Dentro vi era un fascio di piccole fruste, di scudisci in nervo di bue, alcuni con manici in argento, altri rivestiti sino a metà da una graziosa seta molto vecchia, bianca a righine azzurre, sulla quale si scorgevano tre file di macchie nerastre; …Tancredi ebbe paura, anche di se’ stesso, comprese di aver raggiunto il nucleo segreto centro d’irradiazione delle irrequietudini carnali del palazzo.» (P.163) Il significato è riassunto nel fatto che questo appartamento è il nucleo segreto come il luogo in cui si concentra l’energia erotica di tutto il palazzo, è un appartamento sadico una componente dell’erotismo sono sicuramente le fruste le quali devono rendere più piacevole l’eros in una visione di masochismo. Una tappa del viaggio sensuale in queste stanze che arriva a turbare lo stesso Tancredi come se avesse osato troppo “Andiamo via, cara, qui non c’è niente d’interessante”, ma ciò non toglie che “Lui si chinò e così genuflessa com’era le diede un aspro bacio che la fece gemere perché le ferì il labbro e le raschiò il palato”(P.164) quest’alone sadico che si irrigidirono nel disgusto; aveva già udito narrare il fatto ma adesso, vedere sotto questo bel sole, lo scalino sul quale era stato deposto il dono insolito era un’altra cosa. La sua anima di funzionario lo soccorse: “Che polizia inetta avevano quei Borboni. Fra poco quando verranno qui i nostri carabinieri, tutto questo cesserà.” “Senza dubbio, Chevalley, senza dubbio.”» (P.172) Il fenomeno del brigantaggio, ha come crimine terribile il sequestro di persona che poi finisce male ossia con l’uccisione della vittima. È un fenomeno molto noto soprattutto nel sud. L’altro figlio- di Pirandello, si registrano gli stessi particolari macabri. La reazione di Chevalley è ottimistica, costituisce un punto di vista ottimistico, speranzoso nei riguardi del nuovo governo piemontese a differenza di Fabrizio, pessimista. Esprime un giudizio negativo nei confronti della polizia borbonica, poco efficiente. Tancredi dal punto di vista del credo politico è convinto che le cose tenderanno a rimanere sempre le stesse per cui prevale uno scetticismo immobilista dal punto di vista di Tancredi. «Appena seduto Chevalley espose la missione della quale era stato incaricato: “Dopo la felice annessione, volevo dire dopo la fausta unione della Sicilia al Regno di Sardegna, è intenzione del governo di Torino di procedere alla nomina a Senatori del Regno di alcuni illustri siciliani; le autorità provinciali son state incaricate di redigere una lista di personalità da proporre all’esame del governo centrale ed eventualmente, poi, alla nomina regia e, come è ovvio, a Girgenti si è subito pensato al suo nome, Principe: un nome illustre per antichità, per il prestigio personale di chi lo porta, per i meriti scientifici, per l’attitudine dignitosa e liberale, anche, assunta durante i recenti avvenimenti.” Il discorsetto era stato preparato da tempo, anzi era stato oggetto di succinte note a matita sul calepino che adesso riposava nella tasca posteriore dei pantaloni di Chevalley. Don Fabrizio però non dava segno di vita, le palpebre pesanti lasciavano appena intravedere lo sguardo. Immobile la zampaccia dai peli biondastri ricopriva interamente una cupola di S. Pietro in alabastro che stava sul tavolo.» (P.175) Si tratta di nominare un senatore a vita dei nostri tempi, una carica onorifica che nelle intenzioni di chi la propone è un riconoscimento, nel caso del Principe c’era da riconoscere il prestigio del casato e i meriti personali di Don Fabrizio, l’attitudine e il contegno, ma anche il comportamento nei confronti dei Garibaldini a cui aveva concesso ospitalità dimostrandosi liberale dal punto di vista della tolleranza e apertura mentale. Don Fabrizio, dal modo in cui si atteggia, dimostra la sua riluttanza a questa proposta in quanto non dava segni di vita mostrando “palpebre pesanti” preludio del sonno e poi della morte: il sonno della morte e l’attesa del nulla sono due dei tasselli del discorso di Don Fabrizio, due immagini che portano ad estreme conseguenze del discorso sul carattere della natura statica dei siciliani che considerano addirittura un peccato il “fare” prediligendo l’aspettazione della morte. Un lapsus di Chevalley gli fa dire “dopo la felice annessione” correggendosi e ritrattando sostenendola “un’unione”. Si corregge perché se usiamo:  la parola “annessione” consideriamo il processo che ci porta al risultato con una valenza più formale che ci induce a pensare alla natura di questo processo: processo passivo, voluto da altri, eterodiretto.  Con il termine “unione” si pensa, invece, ad un processo voluto. Questo lapsus di Chevalley la dice lunga sulla sua malafede. Prima di rifiutare il principe vuole saperne di più. Una volta eletto il senatore il principe parteciperà in modo diretto alla vita del regno, discutendo insieme alla camera alta le leggi che il governo proporrà per il paese, si tratta di un’attività legislativa a cui è chiamato a partecipare. Chevalley, scettico sul fare. Viene inserita una nota polemica nei confronti del modo in cui il Risorgimento era stato realizzato, nota polemica contro monarchia sabauda. «Avevo detto ‘adesione’ non ‘partecipazione’. In questi sei ultimi mesi, da quando il vostro Garibaldi ha posto piede a Marsala, troppe cose sono state fatte senza consultarci perché adesso si possa chiedere a un membro della vecchia classe dirigente di svilupparle e portarle a compimento; adesso non voglio discutere se ciò che si è fatto è stato male o bene; per conto mio credo che parecchio sia stato male; ma voglio dirle subito ciò che Lei capirà da solo quando sarà stato un anno fra noi. In Sicilia non importa far male o far bene: il peccato che noi Siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di ‘fare’.» (P.177) Don Fabrizio accusa la monarchia Sabauda di aver fatto tutto senza coinvolgere la classe dirigente politica locale, di aver quindi fatto il Risorgimento senza aver tenuto conto alle esigenze del sud, un processo eterodiretto. Ad ogni modo, non è bene chiedere il sostegno di chi è stato negli eventi decisivi che hanno portato al Regno d’Italia, a quella classe che è stata estromessa. Si innesta il discorso scettico di Don Fabrizio di un reale cambiamento della situazione della Sicilia, comportamento immobilista. Prende in considerazione la storia di lunga durata e il carattere dei siciliani, conferma che le cose in Sicilia sono sempre state caratterizzate da un immobilismo di fondo congiurato da diverse ragioni: le prime sono di carattere storico determinate dalla dominazione straniera. La Sicilia per secoli è stata dominata da governi estranei alla Sicilia per civiltà, religione, cultura, addirittura per 15 secoli e la monarchia sabauda è l’ultima rappresentante della storia di dominazione straniera. Chevalley si fa portavoce della logica colonialista ed a queste ragioni storiche se ne aggiungono atre relative al clima e al paesaggio . In sostanza, I siciliani, abituati ad essere dominati, subiscono senza agire. Si sofferma sulle conseguenze della dominazione straniera anche dal punto di vista culturale. La conseguenza è il fatalismo, la rassegnazione fatalista che si traduce nel sonno. «“Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali; e, sia detto fra noi, ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagaglio. Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente: la nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte; desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di scorsonera o di cannella; il nostro aspetto meditativo è quello del nulla che voglia scrutare gli enigmi del nirvana.» (P.178) L’eccesso di sensualità può portare all’oblio. Questo carattere statico del siciliano si accompagna ad una presunzione, il siciliano si convince che questi aspetti caratteriali (che sono dei difetti) sono in realtà dei pregi credendosi “perfetti” e non accettando chi chiede loro di cambiare (P.180) «“Non nego che alcuni Siciliani trasportati fuori dall’isola possano riuscire a smagarsi: bisogna però farli partire quando sono molto, molto giovani: a vent’anni è già tardi; la crosta è già fatta, dopo: rimarranno convinti che il loro è un paese come tutti gli altri, scelleratamente calunniato; che la normalità civilizzata è qui, la stramberia fuori.». Prevale un discorso generazionale di Fabrizio in cui egli insiste di appartenere alla vecchia generazione: divario generazionale. (P.183) Racconta un aneddoto Don Fabrizio a Chevalley, sempre sullo sfondo di questa insurrezione garibaldina, uno di questi ufficiali gli chiede che cosa venissero a fare in Sicilia i garibaldini, i siciliani si sentono dei. «Noi della nostra generazione dobbiamo ritirarci in un cantuccio e stare a guardare i capitomboli e le capriole dei giovani attorno a quest’ornatissimo catafalco. Voi adesso avete bisogno di giovani, di giovani svelti, con la mente aperta al ‘come’ più che al ‘perché’ e che siano abili a mascherare, a contemperare volevo dire, il loro preciso interesse particolare con le vaghe idealità politiche.”» (P.181) C’è una simmetria tra la correzione che fa al proprio discorso Chevalley e la correzione che si impone anche Fabrizio nel suo discorso. -Particulare- vecchio difetto della pianta antropologica degli italiani come ci insegnava Guicciardini. L’ultima parte dell’episodio è un paesaggio quando Chevalley se ne parte sullo sfondo della campagna di Donnafugata. «Intravista nel chiarore livido delle cinque e mezzo del mattino, Donnafugata era deserta ed appariva disperata. Dinanzi a ogni abitazione i rifiuti delle mense miserabili si accumulavano lungo i muri lebbrosi; cani tremebondi li rimestavano con avidità sempre delusa. Qualche porta era già aperta ed il lezzo dei dormienti pigiati dilagava nella strada; al barlume dei lucignoli le madri scrutavano le palpebre tracomatose dei bambini; esse erano quasi tutte in lutto e parecchie erano state le mogli di quei fantocci sui quali s’incespica agli svolti delle “trazzere.” Gli uomini, abbrancato lo “zappone” uscivano per cercare chi, a Dio piacendo, desse loro lavoro; silenzio atono o stridori esasperati di voci isteriche; dalla parte di Santo Spirito l’alba di stagno cominciava a sbavare sulle nuvole plumbee.» (P.184) Prevale nella descrizione di Donnafugata un quadro di miseria, il miserabile paesaggio umano, tra cui la disoccupazione, la malattia e i rifiuti. Tutti questi concorrono a delineare l’estrema gravità della situazione siciliana. Viene messo in atto un pensiero silenzioso e il gioco del narratore di contrapporre i due punti di vista. “Irredimibile” parola chiave del romanzo che va interpretato in rapporto al discorso di Don Fabrizio, il paesaggio fisico non si può redimere per cui ribadisce il pessimismo di fondo. C’è una concezione della storia per cui le cose procedono verso il peggio in contrapposizione alla visione ottimistica di Chevalley. Nonostante ciò continueranno a credersi il “sale della terra”, dei veri e propri. PARTE V La parte V, nell’economia del romanzo, sembra di secondaria importanza rispetto alle altre, al punto che lo stesso Tomasi non era sicuro di inserirla nel romanzo. Riguarda in primo luogo Padre Pirrone e quindi Don Fabrizio non compare affatto, non è il protagonista. Si caratterizza per l’ambientazione rustica: non abbiamo più Donnafugata, bensì S. Cono, paesino rustico in cui vive la famiglia del religioso. Il focus è sulla famiglia di Don Gaetano che non appartiene alla nobiltà in quanto di ceto contadino. Lo stesso vale per l’interlocutore presente assente e un contadino, amico di famiglia. È una sorta di capitolo contadino-plebeo all’interno di un romanzo a protagonismo nobiliare. (I personaggi che appaiono non sono quindi più nobili, bensì plebei. Si tratta allora di un capitolo contadino, inserito in un romanzo nobiliare.) Abbiamo il viaggio di Padre Pirrone a San Cono, paesello natale, nei pressi di Palermo. In questi giorni di soggiorno, Padre Pirrone si deve dare da fare per risolvere un problema familiare. Prima di questo, però, fa il suo discorso apologetico sulla nobiltà a Don Pietrino l’erbuario. La prima parte è fatta di discordi, la seconda parte ha un approdo concreto. In questo discorso Padre Pirrone, pur non essendo un aristocratico, si schierò dalla parte del principe sempre per convenienza, quindi è solidale all’aristocrazia pur non essendolo in sostanza. Assistiamo al paradosso di Padre Pirrone che diviene l’alter ego di Fabrizio, del principe, difendendo l’ideologia nobile. È possibile definirlo tale poiché egli, non essendo un nobile, parla della nobiltà; Possiamo istituire una connessione: Don Fabrizio allo stesso modo, nel discorso a Chevalley, non è totalmente siciliano per via della madre tedesca, ma nonostante ciò gli tocca parlare della Sicilia e del carattere dei siciliani, al tempo stesso anche Padre Pirrone, pur non essendo aristocratico, tesse le lodi dell’aristocrazia. «“Ma, Padre, tu che vivi in mezzo alla ‘nobbiltà’, che cosa ne dicono i ‘signori’ di tutto questo fuoco grande? Che cosa ne dice il principe di Salina, grande, rabbioso e orgoglioso come è?”» (P.194) Il punto di vista di Don Pietrino è provocatorio, si lamenta di essere costretto a pagare le tasse sulle erbe che “Irredimibile” è una delle parole chiave del romanzo, ed è un chiaro riferimento al pessimismo di fondo. Infatti, all’ottimismo di Chevalley si contrappone in maniera evidente il pessimismo del principe, secondo cui la storia prosegue inesorabilmente verso il peggio; ma, nonostante questo, i Gattopardi (i nobili), gli sciacalletti (i borghesi in ascesa) e le pecore (i plebei) continueranno a vivere nella presunzione di essere gli esseri perfetti. per esorcizzare la fine. C’è anche l’esigenza, da parte dei Salina, di presentare alla società aristocratica Angelica (Sedara) nonostante non fosse appartenente alla nobiltà, bensì alla borghesia. Maria Stella fa invitare i Sedara. «Erano soltanto le dieci e mezza, un po’ presto per presentarsi a un ballo quando si è il principe di Salina che è giusto giunga sempre quando la festa abbia sprigionato tutto il proprio calore; questa volta però non si poteva fare altrimenti se si voleva esser lì quando sarebbero entrati i Sedàra che (“non lo sanno ancora, poveretti”) era gente da prendere alla lettera l’indicazione di orario scritta sul cartoncino lucido dell’invito.» (Pag.212) I Sedara si presentano alle 22:30, non all’ora dei nobili e quindi non rispettando l’orario indicato, al contrario questi presero alla lettera l’indicazione dell’orario in modo tale da non sfigurare in quanto ancora non “familiari” all’ambiente. «Don Fabrizio pregustava l’effetto che la bellezza di Angelica avrebbe fatto su tutta quella gente che non la conosceva e quello che la fortuna di Tancredi avrebbe fatto su quelle stesse persone che lo conoscevano troppo. Un’ombra però oscurava la sua soddisfazione: come sarebbe stato il “frack” di don Calogero? Certo non come quello che aveva avuto addosso a Donnafugata» (pag. 213) Abbiamo il pensiero di Don Fabrizio che si preoccupa per il frac di don Calogero (Frac rappresenta l’ascesa della nuova classe dei borghesi), ma previene in quanto viene affidato all’aiuto di un sarto onde evitare di fare brutta figura. «Là dove la discesa dei Bambinai sbocca sull’abside di S. Domenico, la carrozza si fermò: si sentiva un gracile scampanellio e da uno svolto comparve un prete recante un calice col Santissimo; dietro un chierichetto gli reggeva sul capo un ombrello bianco ricamato in oro; davanti un altro teneva nella sinistra un grosso cero acceso, e con la destra agitava, divertendosi molto, un campanellino di argento. Segno che una di quelle case sbarrate racchiudeva un’agonia; era il Santo Viatico. Don Fabrizio scese, s’inginocchiò sul marciapiede, le signore fecero il segno della croce, lo scampanellare dileguò nei vicoli che precipitavano verso S. Giacomo, la calèche con i suoi occupanti gravati di un ammonimento salutare s’incamminò di nuovo verso la meta ormai vicina.» (p. 213) La carrozza si ferma perché passa accanto una piccola processione del Santo Viatico indirizzata verso questa abitazione in cui vanno portati alcuni simboli religiosi all’agonizzante: l’agonizzante si confessa e riceve la comunione; prevale qui l’introduzione del sacro. Il calice d’olio, portato dal sacerdote, è in particolare un riferimento all’estrema unzione che il principe riceverà nel prossimo capitolo. Tali simboli funebri fungono da memento mori. Tutto il capitolo inizia a riempirsi di segni mortuari fino alle ultime pagine del romanzo. Il testo mette in risalto diverse corrispondenze in quanto anche Don Fabrizio in punto di morte riceverà l’assunzione, quindi in un certo senso sembra una prefigurazione della morte di Fabrizio che sarà poi descritta. Lo scampanellio suona agli orecchi della famiglia Salina come un -memento mori- un “ricordati che devi morire”. Arrivati a palazzo, incontriamo i padroni di casa Don Diego e Margherita Ponteleone, due aristocratici anziani piuttosto brutti. (Pag. 214) Tancredi ha preceduto l’arrivo di Salina e c’è la battuta di Don Diego “Ed aspettiamo anche il colonnello Pallavicino, quello che si è condotto tanto bene ad Aspromonte” figura minore, ma importante in quanto legato al fattaccio di Aspromonte, infatti guidò lui i bersaglieri a “cacciare” la pallottola che arresta la marcia di Garibaldi. Questo colonnello è tra i personaggi continentali del romanzo che si contrappongono ai siciliani per collocazione geografica . I personaggi continentali che provengono dal nord sono: Chevalier (piemontese), Cavriaghi (contino milanese, amico di Tancredi) e Pallavicino, ma poi anche il Cardinale nell’ultimo capitolo. Questi continentali sono osservati e giudicati dal punto di vista dei siciliani e spesso il giudizio è piuttosto ironico. «Questa frase del principe di Ponteleone sembrava semplice ma non lo era. In superficie era una costatazione priva di senso politico tendente solo ad elogiare il tatto, la delicatezza, la commozione, la tenerezza quasi, con la quale una pallottola era stata cacciata nel piede del Generale; ed anche le scappellate, inginocchiamenti e baciamani che la avevano accompagnata, rivolti al ferito Eroe giacente sotto un castagno del monte calabrese e che sorrideva anche lui, di commozione e non già per ironia come gli sarebbe stato lecito (perché Garibaldi ahimè! era sprovvisto di umorismo). In uno strato intermedio della psiche principesca la frase aveva un significato tecnico e intendeva elogiare il Colonnello per aver ben preso le proprie disposizioni, schierato opportunamente i suoi battaglioni ed aver potuto compiere, contro lo stesso avversario ciò che a Calatafimi era tanto incomprensibilmente fallito a Landi. In fondo al cuore del Principe, poi, il Colonnello si era “condotto bene” perché era riuscito a fermare, sconfiggere, ferire e catturare Garibaldi e ciò facendo aveva salvato il compromesso faticosamente raggiunto fra vecchio e nuovo stato di cose.» (p. 214) Secondo le intenzioni di Diego Ponteleone la frase aveva un significato tecnico mirato ad elogiare il colonnello che aveva fermato Garibaldi in maniera elegante, ma in realtà quella frase aveva un significato tecnico militare in quanto voleva essere un elogio a Pallavicino in grado di aver fermato l’avanzata di Garibaldi, anche un giudizio politico poiché il colonnello era riuscito a salvare il compromesso tra vecchio e nuovo stato di cose (logica del baratto sul piano della Storia). Risorgimento come risultato di un compromesso. Fermare Garibaldi aveva significato soffocare delle speranze che inizialmente il Risorgimento aveva avventato tra i repubblicani e democratici, si era giunti al compromesso con le vecchie forze dell’antico regime, in questo caso con il papato che con l’arresto di Garibaldi si era voluto salvaguardare. Pallavicino è un grazioso vecchietto, la cui memoria è fissata a quell’avvenimento di grande soddisfazione personale, usa i suoi racconti anche per corteggiare le signore dell’alta nobiltà interessate. «Il fidanzato aveva di già insegnato ad Angelica l’impassibilità, questo fondamento della distinzione (“Tu puoi esser espansiva e chiassosa soltanto con me, cara; per tutti gli altri devi essere la futura principessa di Falconeri, superiore a molti, pari a chiunque”), e quindi il saluto di lei alla padrona di casa fu una non spontanea ma riuscitissima mescolanza di modestia verginale, alterigia neo-aristocratica e grazia giovanile.» (Pag.216) La raccomandazione di Tancredi ad Angelica di essere “impassibile” aveva significato di non dare troppa confidenza, di prendere piuttosto le distanze mostrandosi sempre una futura principessa di Falconeri consapevole del fatto che ormai facesse parte del mondo della nobiltà. Non mostrarsi troppo stupiti di ciò che si vede, dello sfarzo della nobiltà che ama ostentare, ma di fare riferimento a cose viste prima ancora più belle in modo tale da non risultare una provinciale. “Vedi, cara, noi (e quindi anche tu, adesso) teniamo alle nostre case ed al nostro mobilio più che a qualsiasi altra cosa; nulla ci offende più della noncuranza rispetto a questo; …… lodò una Madonna del Dolci, ma fece ricordare che quella del Granduca aveva una malinconia meglio espressa.” (Pag.217) Tancredi rivolge un discorso ad Angelica, per prevenire una possibile figuraccia. «ed essa cominciò già da quella sera ad acquistare la fama di cortese ma inflessibile intenditrice di arte che doveva, abusivamente, accompagnarla in tutta la sua lunga vita.» Il fatto che lei si acquisti una fama “abusivamente” ci porta a dire che lei fa capire che non sia l’ultima arrivata in quanto possiede conoscenza potremmo arrivare che se questa fama è acquistata abusivamente non meriterebbe di occupare un posto in quella società e che quindi simula una conoscenza che non ha, recitando una parte nella società dei nobili. Questa recitazione ci accompagna per tutto il romanzo, come la recitazione da parte del principe, del rosario. Angelica piace e riceve un’accoglienza calorosa, ma ad un certo punto («a qualche giovanotto, a dir vero, avrebbe potuto rincrescere di non aver dissepolto per sé una così bella anfora colma di monete;» Pag. 216) la si paragona ad un’anfora colma di monete. Quest’assimilazione è interessante poiché la ragione vera della presenza di Angelica in quel contesto era la ricchezza, quindi una ragione prettamente economica. Paragonare Angelica ad un’anfora ci fa capire anche la logica economica del baratto che è sottesa al matrimonio tra Tancredi e Angelica calcolata passione di Tancredi che ha soppesato quest’ancora colma di monete. Dopo queste premesse campeggia la scena Don Fabrizio e i suoi pensieri malinconici e il sentimento fortissimo della morte vicina. Questo cattivo umore di don Fabrizio si sfoga contro tutto e tutti, si inizia con la casa dei Ponteleone che non gli piace («Anzitutto, la casa non gli piaceva: i Ponteleone da settanta anni non avevano rinnovato l’arredamento ed esso era ancora quello del tempo della regina Maria-Carolina, e lui che credeva di avere dei gusti moderni s’indignava.» pag. 218), li fa passare per avari animati dalla tendenza alla conservazione non curandosi dei tempi che cambiano. Interessante è la critica che rivolge alle persone, che lo indispongono, se la prende con le donne che trova molto brutte e soprattutto sciatte nel modo di porsi, alcune di queste erano state sue amanti e si meraviglia di come sia andato con loro. («Non gli si poteva dar torto; in quegli anni la frequenza dei matrimoni fra cugini, dettati da pigrizia sessuale e da calcoli terrieri, la scarsezza di proteine nell’alimentazione aggravata dall’abbondanza di amidacei, la mancanza totale di aria fresca e di movimento, avevano riempito i salotti di una turba di ragazzine incredibilmente basse, inverosimilmente olivastre, insopportabilmente ciangottanti; esse passavano il tempo raggrumate tra loro, lanciando solo corali richiami ai giovanotti impauriti, destinate, sembrava, soltanto a far da sfondo alle tre o quattro belle creature che come la bionda Maria-Palma, la bellissima Eleonora Giardinelli passavano scivolando come cigni su uno stagno fitto di ranocchie. Più le vedeva e più s’irritava; la sua mente condizionata dalle lunghe solitudini e dai pensieri astratti, finì a un dato momento, mentre passava per una lunga galleria sul pouf centrale della quale si era riunita una numerosa colonia di quelle creature, col procurargli una specie di allucinazione: gli sembrava di essere il guardiano di un giardino zoologico posto a sorvegliare un centinaio di scimmiette: si aspettava di vederle a un tratto arrampicarsi sui lampadari e da li, sospese per le code, dondolarsi esibendo i deretani e lanciando gusci di nocciola, stridori e digrignamenti sui pacifici visitatori.» Pag.218) Abbiamo un ritratto spietato degli ospiti che stanno partecipando alla festa, il giudizio di Don Fabrizio si appunta sulle donne presenti paragonati ad animali ovvero alle ranocchie e poi alle scimmie. Lui come “Angelica e Tancredi passavano in quel momento davanti a loro, la destra inguantata di lui posata a taglio sulla vita di lei, le braccia tese e compenetrate, gli occhi di ciascuno fissi in quelli dell’altro. Il nero del “frack” di lui, il roseo della veste di lei, frammisti, formavano uno strano gioiello. Essi offrivano lo spettacolo più patetico di ogni altro, quello di due giovanissimi innamorati che ballano insieme, ciechi ai difetti reciproci, sordi agli ammonimenti del destino, illusi che tutto il cammino della vita sarà liscio come il pavimento del salone, attori ignari cui un regista fa recitare la parte di Giulietta e quella di Romeo nascondendo la cripta e il veleno, di già previsti nel copione. Né l’uno né l’altra erano buoni, ciascuno pieno di calcoli, gonfio di mire segrete; ma entrambi erano cari e commoventi mentre le loro non limpide ma ingenue ambizioni erano obliterate dalle parole di giocosa tenerezza che lui le mormorava all’orecchio, dal profumo dei capelli di lei, dalla reciproca stretta di quei loro corpi destinati a morire.” (P.221) Il primo elemento da sottolineare è relativo al fatto che don Fabrizio scopre il destino di morte che attende Tancredi e Angelica, prevale questa ossessione della morte che assilla Fabrizio facendogli vedere tutto lo spettacolo del ballo sotto la visione della morte. Ingenuamente, i giovani, sono fiduciosi che la loro vita sia liscia come il pavimento della sala, ignari del pericolo e della sofferenza. Angelica e Tancredi sono qui definiti ambiziosi in relazione al contratto matrimoniale precedentemente stipulato, non si parla di amore allo stato puro, ma principalmente si tratta di una logica d’interesse. Come si è detto precedentemente, inoltre, Don Fabrizio contemporaneamente ammira e invidia Tancredi: l’ammirazione scaturisce per la sua intelligenza e il suo spirito; l’invidia scaturisce invece dalla sua giovinezza e dalla sua sensualità, caratteristiche che gli permettono di ambire alla mano di una ragazza bella come Angelica. L’evidente riferimento letterario è “Giulietta e Romeo” di Shakespeare, coppia di innamorati ignara del destino crudele che li attende, il veleno è il pugnale, mentre la cripta è il luogo dove avvengono le morti. Lampedusa amava Shakespeare, un riferimento implicito, riguarda anche il riferimento alla materia dei sogni e alla tempesta. Il sentimento dominante è un sentimento barocco per il gusto del macabro, prevale il disgusto di fronte a questo spettacolo funebre poiché è come se lui facesse la radiografia dei corpi vedendo ciò che è lo scheletro, il disgusto lascia spazio alla compassione che si riassume in una domanda. “Come era possibile infierire contro chi, se ne è sicuri, dovrà morire? Voleva dire esser vili come le pescivendole che sessant’anni fa oltraggiavano i condannati nella piazza del Mercato.” (pag. 222) È facile provare disgusto di fronte a questo spettacolo che è degno anche di commiserazione: riscatto della pietà. «Anche le scimmiette sui poufs, anche i vecchi babbei suoi amici erano miserevoli, insalvabili e cari come il bestiame che la notte mugola per le vie della città, condotto al macello» (pag. 222) C’è questa immagine del bestiame in attesa della macellazione, Tommasi si diverte ad anticipare quello che dirà dopo proprio perché il testo si sazia anche di queste corrispondenze. Disgustato preferisce isolarsi e si rifugia nella biblioteca di Don Diego Ponteleone, può evitare il contatto sgradevole che gli ricorda la morte, ma ad aspettarlo è qui un quadro che gli restituisce un’immagine di morte. «La biblioteca gli piaceva, ci si senti presto a suo agio; essa non si opponeva alla di lui presa di possesso perché era impersonale come lo sono le stanze poco abitate: Ponteleone non era tipo da perdere il suo tempo lì dentro. Si mise a guardare un quadro che gli stava di fronte: era una buona copia della “Morte del Giusto” di Greuze. Il vegliardo stava spirando nel suo letto, fra sbuffi di biancheria pulitissima, circondato dai nipoti afflitti e da nipotine che levavano le braccia verso il soffitto. Le ragazze erano carine, procaci, il disordine delle loro vesti suggeriva più il libertinaggio che il dolore; si capiva subito che erano loro il vero soggetto del quadro. Nondimeno un momento Don Fabrizio si sorprese che Diego tenesse ad aver sempre dinanzi agli occhi questa scena malinconica; poi si rassicurò pensando che egli doveva entrare in questa stanza sì e no una volta all’anno.» (p. 223) Abbiamo la descrizione del soggetto di questo quadro, qui Tommasi Lampedusa adotta l’ekphrasis, il procedimento dell’ekphrasis, per descrivere un quadro del pittore francese Greuze che presenta la morte di un uomo giusto. C’è un gruppo familiare che lo circonda e lo piange, si notano delle nipotine che assumono delle pose che le scopre “la carne” più del dovuto e quindi ciò ci fa capire che l’interesse del pittore sia più libertino che moralistico (è in linea alle scorribande del palazzo di Donnafugata dove tutto ci fa pensare al libertinaggio settecentesco). C’è un’anticipazione della morte del principe , è Don Fabrizio stesso che ce lo fa capire perché si chiese se la propria morte fosse stata simile a quella dell’uomo nel quadro. Il quadro, realmente esistente, si intitolava “Il figlio punito” poiché nell’angolo del quadro c’era raffigurato il primogenito del defunto, in atto di battersi il petto per una sorta di pentimento tardivo nei confronti del padre deceduto; bisogna tener conto di questo elemento che ha mutato il titolo omettendo un particolare importante. Il principe morirà tra 20 anni, ma si sente già morto. Nel manoscritto ogni capitolo ha una rubrica in cui c’è l’intitolazione di ogni paragrafo, la morte del principe compare nella parte VII quindi c’è una corrispondenza tra la “Morte del giusto” e la “morte del principe”; anche quella del figlio ribelle potrebbe essere una corrispondenza. C’è l’intervento di Tancredi e Angelica che irrompono nella biblioteca sorprendendo lo zione, prendendolo un poco in giro “corteggi la morte, zione?”. C’è l’invito di Angelica di ballare con lei la mazurca e lui che declina l’invito poiché non ha la stessa energia dei giovani, a lui è più congeniale il walzer per cui avremo la scena del ballo tra Angelica e il Principe il quale si sente ringiovanito come quando a 20anni ballava con la moglie in quella sala. Durante il ballo ha un pensiero nei confronti di Concetta, è felice, ma una fitta al pensiero di Concetta, un pensiero che gli trafigge il cuore. Nel quadro de “Il figlio punito” di Greuze potrebbe essere implicata Concetta (oltre a Giovanni, lontano dal padre), la quale viene attraversata da un senso di colpa tardivo sul punto di morte del padre. Ritorna il personaggio di Pallavicino (legato al fattaccio di Aspromonte e quindi al Risorgimento), un personaggio che ritorna sempre su quell’avvenimento. Don Fabrizio va a sedersi accanto a lui, non accettando l’invito di sedersi accanto ai due innamorati Tancredi e Angelica. Pallavicino comincia con il narrare il fattaccio di cui fu artefice («“Adesso la Sinistra vuol mettermi in croce perché, in Agosto, ho ordinato ai miei ragazzi di far fuoco addosso al Generale. Ma mi dica Lei, principe, cosa potevo fare d’altro con gli ordini scritti che avevo addosso?» Pag. 229). È chiaro questo senso di colpa, a distanza di anni, che lo fa soffrire perché Garibaldi era quell’eroe da tutti acclamato per cui si trattava di prendere una decisione non facile nel fermare un eroe del Risorgimento acclamato in Sicilia (Simbolo della spedizione dei Mille in cui aveva liberato dal regno Borbonico). «E glie lo dico in confidenza: la mia brevissima sparatoria ha giovato soprattutto a Garibaldi, lo ha liberato da quella congrega che gli si era attaccata addosso, da tutti quegli individui tipo Zambianchi che si servivano di lui per chissà quali fini, forse generosi benché inetti, forse però voluti dalle Tuileries e da palazzo Farnese;» (p. 229) Lui si attribuisce un merito ovvero quello di aver fermato Garibaldi ottenendo di liberare il generale dai suoi seguaci che fingevano di credere nei suoi ideali, ma in realtà perseguivano il loro fine. Se Garibaldi non fosse stato fermato, sarebbe intervenuta la Francia e sarebbe scoppiato un putiferio apertura alla politica europea. «Bevve il vino che gli avevano portato, ma ciò sembrò aumentare ancora la sua amarezza. “Lei non è stato sul continente dopo la fondazione del Regno? Fortunato lei. Non è un bello spettacolo. Mai siamo stati tanto divisi come da quando siamo uniti. Torino non vuoi cessare di essere capitale, Milano trova la nostra amministrazione inferiore a quella austriaca, Firenze ha paura che le portino via le opere d’arte, Napoli piange per le industrie che perde, e qui, in Sicilia sta covando qualche grosso, irrazionale guaio... Per il momento, per merito anche del vostro umile servo, delle camicie rosse non si parla più, ma se ne riparlerà. Quando saranno scomparse queste ne verranno altre di diverso colore; e poi di nuovo rosse. Forse un po’ Brillo profetava.» (Pag.230) Quando racconta le ragioni che l’hanno portato ad intervenire, al di là delle convenienze, registra anche l’inutilità della sua azione: aveva salvato il compromesso però non aveva ottenuto di unire l’Italia, ciascuna città del regno rivendica le ragioni di un’autonomia. Torino vorrebbe essere la capitale contro Roma, Firenze ha paura che le portino le opere d’arte, il sud viene impoverito particolarmente e in Sicilia sta covando un grosso guaio: Pallavicino ridimensiona il senso della sua vittoria e dell’impresa d’Aspromonte, vede lucidamente le cose. Questa resa, questa ammissione di sconfitta, è quella di un continentale (è un generale non siciliano) che non ha potuto cambiare le cose in Sicilia, bensì persistono le piaghe del sud nonostante l’apparente progresso. Questa sterilità dell’azione del continentale ricorda anche quella di altri come Cavriaghi che aveva richiesto inutilmente la mano di Concetta o come Chevalier che aveva incassato il no del principe. «Quando la famiglia si fu messa in carrozza (la guazza aveva reso umidi i cuscini) Don Fabrizio disse che sarebbe tornato a casa a piedi; un po’ di fresco gli avrebbe fatto bene, aveva un’ombra di mal di capo. La verità era che voleva attingere un po’ di conforto guardando le stelle. Ve n’era ancora qualcuna proprio su, allo zenith. Come sempre il vederle lo rianimò; erano lontane, onnipotenti e nello stesso tempo tanto docili ai suoi calcoli; proprio il contrario degli uomini, troppo vicini sempre, deboli e pur tanto riottosi. » (pag.232) La festa finisce alle 6 del mattino per cui segue il ritorno a casa caratterizzato da tanta stanchezza; mentre la famiglia Salina ritorna a casa in carrozza, Fabrizio torna a casa a piedi per contemplare le stelle in modo da evadere dalla vita. Abbiamo la definizione delle stelle “lontane e onnipotente e docili” e gli uomini “vicini-deboli e ribelli” il perfetto contraltare. Prevale un’anticipazione delle beatitudini mortuarie, il cielo diventa immagine del destino di morte richiamata subito dopo con l’immagine dei carretti dei macellai che trasportano i buoi uccisi poco prima al macello. Le ultime righe sono dedicate all’astro di Venere, astro del mattino, immagine ripresa nel capitolo successivo con il finale in quanto venere viene ad essere personificata assumendo le fattezze di una donna con la quale lui vorrebbe un appuntamento meno effimero come quello delle Albe di Donnafugata in cui vedeva l’astro di Venere come se la donna gli avesse concesso un appuntamento. Vorrebbe un appuntamento più profondo, più serio, questo astro si presenta come la morte quindi Fabrizio attende un appuntamento con la morte. PARTE VII [Penultimo capitolo: incentrato sulla morte del Principe.] andare a fare i bagni a Livorno. Lui stesso aveva detto che i Salina sarebbero sempre rimasti i Salina. Aveva avuto torto. L’ultimo era lui. Quel Garibaldi, quel barbuto Vulcano aveva dopo tutto vinto. » (p. 241) È il riconoscimento di una sconfitta e la consapevolezza della fine della dinastia dei Salina poiché Fabrizietto appartiene ad un’altra generazione, questa discontinuità è sottolineata dal fatto che Fabrizietto avrà ricordi borghesi perché vive una vita borghese e non nobile (come quella di Fabrizio). Fabrizietto, vivrà una vita nello stile borghese dei Sedara, e non nobiliare dei Salina come il nonno, con la morte di Don Fabrizio tramonta la casata dei Salina e la vittoria di Garibaldi con Vulcano. Il corteggiamento di Venere da parte di Don Fabrizio potrebbe avere valore polemico di sottile rivincita come per dire Garibaldi vecchio barbuto e cornuto vulcano aveva vinto, ma io continuo a sentirlo così (Venere era la sposa di Vulcano) era una tacita rivincita, silenziosa rivincita. 15/01/2022 «C’erano i figli, certo. I figli. Il solo che gli rassomigliasse, Giovanni, non era più qui. Ogni paio di anni inviava saluti da Londra; non aveva più nulla da fare con il carbone e commerciava in brillanti; dopo che Stella era morta era giunta all’indirizzo di lei una letterina e poco dopo un pacchettino con un braccialetto. Quello si. Anche lui aveva “corteggiato la morte,” anzi con l’abbandono di tutto aveva organizzato per sé quel tanto di morte che è possibile metter su continuando a vivere.» (pag. 241) C’è un pensiero rivolto al figlio al figlio Giovanni non presente in quanto commerciava brillanti a Londra, la sua però è una morte in vita, quindi aveva compiuto una scelta di protesta nei confronti della vita nobiliare, ma per condurre una vita che si tinge di morte, acquista il significato di un’esistenza non appagante. Fabrizietto non rappresenta affatto un erede della dinastia dei Salina, la dinastia muore con il principe Fabrizio. «Faceva il bilancio consuntivo della sua vita, voleva raggranellare fuori dall’immenso mucchio di cenere delle passività le pagliuzze d’oro dei momenti felici: eccoli. Due settimane prima del suo matrimonio, sei settimane dopo; mezz’ora in occasione della nascita di Paolo, quando senti l’orgoglio di aver prolungato di un rametto l’albero di casa Salina. (L’orgoglio era abusivo, lo sapeva adesso, ma la fierezza vi era stata davvero); alcune conversazioni con Giovanni prima che questi scomparisse, alcuni monologhi, per esser veritieri, durante i quali aveva creduto scoprire nel ragazzo un animo simile al suo; molte ore in osservatorio assolte nell’astrazione dei calcoli e nell’inseguimento dell’irraggiungibile; ma queste ore potevano davvero esser collocate nell’attivo della vita? Non erano forse un’elargizione anticipata delle beatitudini mortuarie? Non importava, c’erano state.» (Pag.243) Un bilancio piuttosto magro dei suoi ricordi, dei 73 anni di vita al massimo poteva considerarne 2\3 anni vissuti al massimo. Questi momenti che si salvano, in mezzo alla cenere della passività, (“Ho settantatré anni, all’ingrosso ne avrò vissuto, veramente vissuto, un totale di due…tre al massimo.” E i dolori, la noia, quanto erano stati? Inutile sforzarsi a contare: tutto il resto: settant’anni. Pag.245) questo mucchio di cenere rappresenta la vita spesa all’insegna della noia e del dolore, sentimenti che rinviano (nell’universo della cultura di Lampedusa) a Schopenahuer e Leopardi, filone filosofico-letterario. I pochi momenti felici riguardano, invece, le conversazioni con Giovanni (figlio preferito), la nascita di Paolo (si era illuso che potesse continuare la dinastia e quindi il suo erede) e poi le ore trascorse in osservatorio a osservare le stelle. Questi momenti felici anticipano le beatitudini mortuarie, la morte è la vera fonte suprema di consolazione e felicità, questo rappresenta il culmine di un pensiero pessimista. Ciò che rappresentava il tempo congelato di Donnafugata, cioè il senso di una continuità della storia del suo casato, in contrapposizione al senso angoscioso del tempo che fugge. (Pag.245) La donna che aveva recentemente incontrato era il fantasma della morte che aveva intravisto in mezzo alla folla alla stazione di Catania (una delle sue tappe del viaggio di ritorno da Napoli), munita di guanti, con la veletta questa donna che lo cerca, cerca il suo volto disfatto. Prepara la scena finale in quanto il principe ha un’altra sincope, i familiari gli stanno attorno e lo piangono, tutti tranne Concetta. «tutti, tranne Concetta, piangevano;» (p. 245) Concetta cova ancora un certo rancore nei confronti del padre, questo perché ha un carattere orgoglioso per cui non ha mai perdonato il padre per aver fatto sfumare il matrimonio con Tancredi; Concetta è destinata ad essere “punita” in quanto riottosa. «Era lei, la creatura bramata da sempre che veniva a prenderlo: strano che così giovane com’era si fosse arresa a lui; l’ora della partenza del treno doveva esser vicina. Giunta faccia a faccia con lui sollevò il velo e così, pudica ma pronta ad esser posseduta, gli apparve più bella di come mai l’avesse intravista negli spazi stellari. Il fragore del mare si placò del tutto.» (p. 246) Lui scorge questa donna che si fa largo in mezzo ai parenti, questa donna è una presenta nuova rispetto al quadro, una creatura che lui ha sempre bramato e che nello scompartimento del treno gli aveva dato un appuntamento, ora era lì per “prenderlo”. È una morte che si intriga di sensualità, cosi come la donna vista alla stazione di Catania richiama la “bella” di cui aveva parlato prima; i campi semantici di sensualità e morte interferiscono, questa immagine rende possibile anche l’unione di due campi semantici: viaggio e contemplazione stellare, si prolunga la metafora del viaggio perché l’ora della partenza del treno doveva essere vicina e si recupera anche la metafora delle stelle Venere che doveva dare un appuntamento meno effimero. Nel finale confluiscono questi 2 campi metaforici. PARTE VIIIUltimo capitolo- Maggio 1910 È stato detto che Tomasi di Lampedusa avrebbe potuto farne a meno di questo ultimo capitolo (come per il V capitolo) in quanto non funzionale, sebbene offra delle chiavi di lettura importanti e abbia dei forti legami semantici con il resto del romanzo tra cui riflessioni importanti anche del principe, per cui è senz’altro da rivalutare. Siamo nel maggio del 1910, salto temporale notevole in quanto siamo a 50 anni dall’inizio del romanzo (1860 inizio) e 27 anni dalla morte del principe (1883). Esso si ambienta tra il 14 e il 15 maggio 1910, contrariamente alla prima parte, che invece si ambienta tra il 12 e il 13 maggio 1860. Possiamo parlare a questo proposito di imperfetta circolarità della dimensione spaziale perché siamo nella stessa Villa Salina (“La riunione si svolgeva nel salone centrale della villa, quello delle bertucce e dei pappagalli” P.250) però la scena iniziale si svolge nella sala centrale quella delle bertucce e pappagalli (dove all’inizio si svolgeva la preghiera del principe e degli altri familiari), la chiusura non è perfetta perché mentre l’azione della I parte si svolge nel salone luogo in cui tutti si raccolgono, nella parte VIII l’azione si trasferisce (da questo salone) nella camera di Concetta, una camera solitaria. Non c’è perfetta chiusura neppure dal punto di vista spaziale. Recuperiamo la dimensione della religiosità, componente molto importante della famiglia particolarmente religiosa. Nella parte ottava, la religiosità si è involuta, quella delle sorelle Salina (le anziane signorine Salina, rimaste zitelle) infatti è una religiosità bigotta, superstiziosa, legata al culto esteriore delle immagini, in questo caso delle reliquie che raccolgono e collezionano. Tra le sorelle ce n’è una che amministra il patrimonio familiare impoverito ormai, questa è Concetta che ha assunto il ruolo di padrona di casa. L’ingresso a casa Salina è inondato da ecclesiastici perché c’è una disposizione del papa Pio X che prevede la verifica delle cappelle private delle case nobiliari allo scopo di verificare i meriti delle persone autorizzate ad ufficiare Messa in queste cappelle, ma anche revisione intesa a verificare l’autenticità delle reliquie che si veneravano in queste cappelle private. Ci sono due visite: la visita del Cardinale Arcivescovo chiamato ad effettuare il controllo che non esegue materialmente, ma lo fa eseguire al suo segretario, e c’è la visita che precede la prima, ovvero la visita del Vescovo Generale che predispone il successivo incontro con il Cardinale. Erano giunte delle voci incresciose alla Curia Arcivescovile, non in relazione ai meriti delle signorine (certamente virtuose, non si potevano avanzare dubbi), ma in merito all’autenticità delle reliquie, in particolare in relazione all’immagine del quadro sull’altare della cappella che era oggetto di culto da parte delle signorine Salina (Carolina, Caterina e Concetta). Caterina e Carolina sono molto insospettite e non accettano questa predisposizione del Papa, la considerano un affronto, un’offesa, una mancanza di fiducia. Carolina in particolare ce l’aveva con il Papa per le sue innovazioni. Abbiamo la visita da parte del Monsignor Vicario della cappella. La prima parte del capitolo è fondata sulla visita delle reliquie religiose, sacre e poi su quella delle reliquie profane. Il Vicario vuole accertarsi personalmente della veridicità delle reliquie.(«Quando Monsignore entrò la cappella era illuminata dal sole del pomeriggio calante; e al disopra dell’altare il quadro veneratissimo dalle signorine si trovava in piena luce: era un dipinto nello stile di Cremona e rappresentava una giovinetta esile, assai piacente, gli occhi rivolti al cielo, i molli capelli bruni sparsi in grazioso disordine sulle spalle seminude; nella destra essa stringeva una lettera spiegazzata; l’espressione sua era di trepida attesa non disgiunta da una certa letizia che le brillava nei candidissimi occhi; nel fondo verdeggiava un mite paesaggio lombardo. Niente Gesù Bambini, nè corone, nè serpenti, nè stelle, nessuno insomma di quei simboli che sogliono accompagnare l’immagine di Maria; il pittore doveva essersi fidato che l’espressione verginale fosse sufficiente a farla riconoscere.» Pag.253) La fanciulla viene scambiata per la Madonna della lettera. Abbiamo un’idea dell’immagine che si vede in questo quadro ovvero un soggetto laico, una donna che le sorelle Salina fanno passare per una Madonna che però in realtà una giovinetta che ha ricevuto una lettera dal suo amato che le ha dato un appuntamento; il soggetto è quindi profano e percorso da una vena di erotismo nello stile del pittore lombardo Cremona. «Rappresenta la madonna della lettera. La Vergine è sul punto di consegnare la Santa Missiva ed invoca dal Figlio Divino la protezione sul popolo messinese; quella protezione che è stata gloriosamente concessa, come si è visto dai molti miracoli avvenuti in occasione del terremoto di due anni fa.”» (pag. 254) La ragione per cui è citata la Madonna della Lettera, è inerente al terremoto di Messina (1908) che ha distrutto Reggio e Messina, per cui costruiscono una storia miracolosa che sostituisce la favola mitologica che era istoriata sul soffitto del salotto “una pittura sconvenientemente mitologica” poiché questa cappella era stata ricavata in uno dei salotti il cui soffitto presentava questa pittura sacra. «“Bella pittura, signorina; qualunque cosa rappresenti è un bel quadro e bisogna tenerlo da conto.”» (pag. 254) La battuta di Monsignore ci dimostra un giudizio di un’artista e non di uomo di fede quindi è scettico del fatto che l’identità della donna sia la Madonna. La verità, quello che realmente pensa di quel quadro, di quella ragazza, lo sappiamo quando ne parla, finita la visita, nella carrozza con Padre Titta, il cappellano che celebra ogni giorno la Messa in quella cappella. «“E così Lei, padre Titta, ha avuto il fegato di celebrare per anni il Santo Sacrificio dinanzi al quadro di quella ragazza? Di quella ragazza che ha ricevuto l’appuntamento ed aspetta l’innamorato. Non venga a dirmi che anche Lei credeva che fosse una immagine sacra.” “Monsignore, sono colpevole, lo so. Ma non è facile affrontare le signorine Salina, la signorina Carolina. Lei questo non può saperlo.” Monsignore rabbrividì al ricordo. “Figliolo, hai toccato la piaga col dito; e questo sarà preso in considerazione.”» (pag. 255) C’è una Lei, durante la conversazione, mostra di preferire al barocco di Donnafugata, l’architettura rinascimentale dei Castelli Francesi della Loira, altra frecciatina che lei consuma, lancia contro il principe ormai morto. C’è un’altra visita ovvero quella di Tassoni, compagno d’armi di Tancredi e amante di Angelica, (Tassoni si accompagna ad Angelica, è stato per una volta suo amante) il quale aveva animato la storiella garibaldina dell’intrusione nel monastero femminile con le novizie che aspettano di essere possedute, quel racconto salace che era tanto piaciuto ad Angelica e, invece, dispiaciuto Concetta e aveva segnato una svolta nella storia dei racconti sentimentali tra Concetta e Tancredi. A distanza di tempo Tancredi racconta a Tassoni che quella storiella era tutta un’invenzione e a questo racconto di Tassoni, reagisce sbalordita Concetta. («Certo sarebbe assurdo dire che Concetta amasse ancora Tancredi; là eternità amorosa dura pochi anni e non cinquanta; ma come una persona da cinquant’anni guarita dal vaiolo ne porta ancora le macchie sul volto benché possa aver dimenticato il tormento del male, essa recava nella propria oppressa vita attuale le cicatrici della propria delusione ormai quasi storica, storica a tal punto anzi che se ne celebrava ufficialmente il cinquantenario. Ma fino ad oggi quando essa, raramente, ripensava a quanto era avvenuto a Donnafugata in quell’estate lontana si sentiva sostenuta da un senso di martirio subito, di torto patito, dall’animosità contro il padre che la aveva sacrificata, da uno struggente sentimento riguardo a quell’altro morto; questi sentimenti derivati che avevano costituito lo scheletro di tutto il suo modo di pensare si disfacevano anch’essi; non vi erano stati nemici ma una sola avversaria, essa stessa; il suo avvenire era stato ucciso dalla propria imprudenza, dall’impeto rabbioso dei Salina; le veniva meno adesso, proprio nel momento in cui dopo decenni i ricordi ritornavano a farsi vivi, la consolazione di poter attribuire ad altri la propria infelicità, consolazione che è l’ultimo ingannevole filtro dei disperati. » Pag.263) La reazione è abbastanza forte cioè lei è portata a rivedere il suo passato e soprattutto questo momento di svolta per cui aveva identificato la causa della sua infelicità ora con Tancredi che si sarebbe comportato con lei molto male (già in quella circostanza, ma anche successivamente) e con il padre che le avrebbe negato questo matrimonio con Tancredi. A questo punto si rende conto, sulla base della rivelazione di Tassoni, che la sola unica avversaria di sé stessa era lei , che doveva al suo carattere impulsivo l’infelicità di quegli anni successivi, il suo avvenire era stato ucciso dal suo impeto rabbioso e le viene in mente il Monastero in cui Tancredi aveva cercato di ristabilire i rapporti con la cugina, ma lei offesa aveva risposto in modo impulsivo attribuisce a Tancredi e al padre la propria infelicità. Concetta è punita nel momento in cui si rende conto di aver incolpato ingiustamente il padre della sua infelicità per cui è colpita da questo gesto tardivo di presa di consapevolezza. La visita del cardinale che si ha il giorno successivo, la mattina dopo, (“Il prelato anziano che la mattina del 14 maggio si recò a villa Salina era un uomo buono, ma disilluso.” Pag.265 ) da parte di questo continentale che si era illuso di poter cambiare la Sicilia, ma che deve fare i conti con la religiosità bigotta delle sorelle Salina. La visita del Cardinale e lo smascheramento erano temute particolarmente da Concetta, queste reliquie vengono infatti giudicate false e destinate al cestino dei rifiuti. Dopo questa visita che ha confermato i timorosi, ci troviamo nell’ultimo paragrafo nella camera solitaria di Concetta. «Concetta si ritirò nella sua stanza; non provava assolutamente alcuna sensazione: le sembrava di vivere in un mondo noto ma estraneo che già avesse ceduto tutti gli impulsi che poteva dare e che consistesse ormai di pure forme. Il ritratto del padre non era che alcuni centimetri quadrati di tela, le casse verdi alcuni metri cubi di legno.» (pag. 268) Le sembrava di vivere in un mondo nuovo, ma estraneo, estraneazione di Concetta anche dalle reliquie che custodiva nella sua camera e quindi da ciò che le reliquie rappresentano, costituivano per lei. Una di queste reliquie è anche se vogliamo: il ritratto del padre, conservato, era come se fosse in castigo. Tutte le reliquie perdono significato agli occhi di Concetta, quando le reliquie diventano estranee e si polverizzano, tramontano i ricordi. La reliquia sacra e profana è una metafora perché rappresenta l’ultimo ricordo di quel mondo nobiliare, dal 1910 la casata nobiliare diventa un rifiuto destinato a finire nella spazzatura e tutta l’attività delle sorelle Salina volta a custodire le reliquie si configura come un ultimo tentativo di resistenza contro il tempo che ha ormai divorato le “povere, care cose” (simboleggiate dalle reliquie) che sono ormai insalvabili. Tutto ciò è confermato dall’immagine di Bendicò che vola dalla finestra. «Mentre la carcassa veniva trascinata via, gli occhi di vetro la fissarono con l’umile rimprovero delle cose che si scartano, che si vogliono annullare. Pochi minuti dopo quel che rimaneva di Bendicò venne buttato in un angolo del cortile che l’immondezzaio visitava ogni giorno: durante il volo giù dalla finestra la sua forma si ricompose un istante: si sarebbe potuto vedere danzare nell’aria un quadrupede dai lunghi baffi e l’anteriore destro alzato sembrava imprecare. Poi tutto trovò pace in un mucchietto di polvere livida.» (PAG. 268) Questa immagine dà il senso di tutto il romanzo ed è anche un’immagine crudele non solo nostagica di un mondo finito, prevale un’illustrazione spietata di quel mondo ridotto a scarto e lo scarto ha quel destino di finire nell’immondezzaio del cortile crudele rappresentazione della fine di un casato. Nel volo, Bendicò sembra aver un ultimo sussulto di vita, lo sguardo di umile rimprovero rivolto a Concetta che ha deciso di sbarazzarsene (ora anche la pelliccia le procura angoscia e vuole liberarsene) ed è lo stesso sguardo del coniglio selvatico colpito a morte nella battuta di caccia. Nel volo l’immagine sembra ricomporre il Gattopardo dei Salina che tiene sollevata una zampa quasi da voler rappresentare l’imprecazione del principe di Salina. Questa immagine può essere vista come lo stesso fantasma di Don Fabrizio e lo fa per maledire la generazione presente delle “iene” e degli “sciacalletti”, quindi abbiamo la chiusura de cerchio: la polvere della pelliccia di Bendicò rappresenta la fine di tutto un mondo [hanno decretato la fine della casata nobiliare dei Salina] -Memento Mori-. “Il rumore dei suoi passi vigorosi e rapidi lo preannunciava a dieci metri di distanza. Traversò la stanza di soggiorno delle ragazze: Carolina e Caterina arrotolavano un gomito di lana ed al suo passaggio si alzarono sorridenti; mademoiselle Dombreuil si tolse in fretta gli occhiali e rispose compunta al suo saluto; Concetta aveva le spalle voltate; ricamava al rombolo e, poiché non udì passare il padre, non si volse neppure.” (pag.140) Il principe ha deciso che Tancredi dovesse sposare un’altra, passa attraverso le stanze e Caterina e Carolina al suo passaggio si alzavano sorridenti, eccetto Concetta con le spalle voltate pur sapendo fosse lì, ancora una volta è sintomo di “astio” nei confronti del padre che la porta ad essere “ribelle” nei suoi riguardi.
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