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Autobiografia e Infanzia: Vittorio Alfieri, Ippolito Nievo e Jean Jacques Rousseau, Appunti di Letteratura Italiana

La natura e la significanza dell'autobiografia attraverso l'analisi di opere di vittorio alfieri, ippolito nievo e jean jacques rousseau. Sulla differenza tra autobiografia e finta autobiografia, l'importanza della memoria e della vita privata nella scrittura autobiografica, e il ruolo dell'infanzia nella formazione della personalità. Il testo include anche un confronto tra rousseau e alfieri/nievo in merito all'infanzia e ai castighi ricevuti.

Tipologia: Appunti

2018/2019

Caricato il 18/07/2019

MaraB97
MaraB97 🇮🇹

4.3

(30)

78 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Autobiografia e Infanzia: Vittorio Alfieri, Ippolito Nievo e Jean Jacques Rousseau e più Appunti in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! Vittorio Alfieri: Asti, 1746 - 1803 Ippolito Nievo: Padova, 1831 - Mar Tirreno, 1861 AUTOBIOGRAFISMO: generica presenza del soggetto (autore, chi scrive) in qualsiasi genere letterario. Per esempio, in un romanzo può esserci una parte in cui l’autore inserisce una parte in cui l’autore parla di se stesso. E’ uno stato presente, tutti i giorni lo facciamo. L’intenzione dello stato autobiografico è quella di rendere conto alle persone che ci sono vicine di quello che facciamo. GENERI DI SCRITTURA DI SÉ’: l’autore sceglie di parlare di sé ed è il fine principale dell’opera: l'autore si propone di raccontare di se stesso. In questi generi la scrittura dell’Io in cui l’autore parla di sé è quantitativamente maggioritaria (occupa la maggior parte del libro). DEFINIZIONE DEL GENERE AUTOBIOGRAFICO DI PHILIPPE LEJEUNE E’ una definizione sia descrittiva cioè che descrive tutto ciò che esisteva in letteratura e che parlava di sé sia normativa cioè una definizione che vuole dare delle regole (se tu vuoi scrivere una autobiografia devi fare questo). • autobiografia: racconto retrospettivo in prosa che una persona reale fa della propria esistenza, quando mette l’accento sulla sua vita individuale, in particolare sulla storia della sua personalità. FORMA DEL LINGUAGGIO: per parlare di sé in una autobiografia si sceglie un racconto, una narrazione che viene condotta in prosa. Questo esclude altri generi come il poema autobiografico, il saggio e l’autoritratto (sonetto, impresa, ecc..). La scelta della prosa è una scelta a cui ci ha condotto la tradizione: tradizionalmente le maggiori autobiografie della letteratura mondiale sono scritte in prosa. SOGGETTO TRATTATO: secondo Lejeune nella nostra autobiografia si parla della nostra vita individuale (vita tale e non altra) e della storia della personalità di quell’individuo. L’ottica è centrata sull’io su una sola persona e racconta una sviluppo nel tempo che può essere un’evoluzione ma anche un’involuzione: in ogni caso è un percorso che attraversa il tempo in modo significativo che racconta una serie di cambiamenti compiuti dal soggetto. A questo genere non appartengono le memorie che hanno spesso la caratteristica di narrare una situazione collettiva. SITUAZIONE DELL’AUTORE: nell’autobiografia vera e propria c’è identità tra autore e narratore, il nome scritto sul frontespizio è lo stesso del personaggio di cui si parla; deve essere una persona realmente esistita, una persona determinata. Questi secondo Lejeune sono i presupposti del patto autobiografico: il nome sulla copertina sia lo stesso del narratore e del personaggio. La situazione dell’autore è la categoria che differenzia la vita di Alfieri dalla Confessioni di Ippolito Nievo in cui il patto autobiografico non c’è, il personaggio che scrive Io ha un altro nome rispetto all’autore Ippolito Nievo. PRIMA DISTINZIONE FRA IL LIBRO DI ALFIERI (VITA SCRITTA DA ESSO) E NIEVO ( LE CONFESSIONI DI UN ITALIANO): nella “vita scritta da esso” di Vittorio Alfieri, il personaggio principale si chiama Vittorio Alfieri, è un'autobiografia in cui l’autore parla di se stesso; all’interno delle “Confessioni di un italiano” di Ippolito Nievo, il protagonista che scrive in prima persona si chiama Carlo Altoviti (ha un nome diverso da quello dell’autore, finta autobiografia). 9 Il primo testo è un’autobiografia vera e propria, il secondo un romanzo autobiografico in cui il personaggio racconta una storia come se fosse un'autobiografia. Da un lato c’è una persona vera, dall’altro c’è un autore che immagina un personaggio che racconta la sua autobiografia. PERCHÉ’ IPPOLITO NIEVO HA SCELTO DI FARE UNA FINTA AUTOBIOGRAFIA? Il primo motivo può essere quello di inserire una distanza: raccontare la propria esperienza autobiografica ma senza volersi coinvolgere in prima persona attribuendola a un'altra persona. Il secondo motivo può essere quello di creare nel lettore l’illusione che ill personaggio Carlo Altoviti sia realmente esistito: è un gioco tra verità e finzione. POSIZIONE DEL NARRATORE SUL PIANO CRONOLOGICO: altra importante categoria. La prima parte è l’identità tra narratore e personaggio principale (vedi sopra). Se io scrivo la biografia di un famoso attore decido di scrivere una vita che è diversa dalla mia. Una visione importante è quella sul piano cronologico: come diceva Lejeune ci deve essere una visione retrospettiva cioè il racconto deve essere fatto partendo da un punto e guardando indietro. L’autore si pone nel presente narrativo e gli eventi descritti appartengono al passato. Questa distanza temporale è spesso il motivo che adottano gli autori per scrivere la propria autobiografia: a volte gli autori inseriscono nel proemio una considerazione sul perché abbiano deciso di scrivere proprio in quel momento e non in un altro. Questa narrazione manca nel genere del diario (genere di narrazione di sé): scrivo a breve distanza dagli eventi, li fisso giorno per giorno. All’interno del diario si parla per fotogrammi: sono fotografie di giorni diversi che acquistano un senso cronologico solo quando sono scritti tutti, solo quando li rileggiamo ma non hanno quell’intento retrospettivo che ha un’autobiografia. Questa definizione di lejeune e i suoi parametri servono semplicemente come guida per riflettere sul genere letterario che appartengono “La vita scritta da esso” di Vittorio Alfieri e “Le confessioni di un italiano” di Ippolito Nievo. Nel 600 nasce una figura nuova di scienziato che racconta il suo percorso di ricerca: l’autobiografia diventa una testimonianza di un cammino di scienza e di ricerca che funge come funge da punto di partenza per una ricerca futura. L’autobiografia di uno scienziato permette di capire i presupposti del suo metodo e della sua ricerca e permette a chi verrà dopo di continuare questa ricerca. Presupposto dell’utilità. Tra il 600 e la prima metà del 700 il genere dell’autobiografia è un genere praticato soprattutto dagli intellettuali con taglio molto professionale: le autobiografie in questo periodo sono racconti di vocazione e carriera, biografie intellettuali che permettono alla collettività di capire l’importanza del loro metodo. In questi esempi si possono raccogliere i tempi per interpretare i due testi: il primo si collega direttamente a quella lunga censura letto in Dante. E’ una autobiografia in forma di lettera scritta da Ludovico Antonio Muratori uno dei principali intellettuali d’Italia in quel periodo. Lui scrive una lettera perché un intellettuale aveva deciso di raccogliere le autobiografie dei più importanti intellettuali italiani. Era un progetto a carattere nazione, uno dei primi segnali della consapevolezza della nazione italiana che poi si sarebbe formata soltanto nella metà dell’800. Muratori riprende le ragioni già viste in Dante e in Montaigne: narrare di sé non solo quando si loda se stessi ma anche quando si descrivono i propri difetti di sicuro fa capire ai lettori che noi siamo mossi da uno scaltro e finissimo amore di noi stessi. Vanità e amore di sé sono inevitabili persino parlando dei difetti ma facendo appello a chi si intende del cuore umano il problema si risolve con l’utilità pubblica. Il secondo testo appartiene alla vita di Giovan Battista Vico nel 1728, questa opera è da intendersi all’invito di Giovanni Artico di Porcia. Vico, come Muratori, era uno tra i più importanti intellettuali italiani. Vico decide di scrivere la propria autobiografia raccontando di sé in terza persona: era un uso molto frequente in quel periodo. Il motivo è quello di dare un’idea di oggettività. Vico è uno dei pochi casi in questi secoli in cui si parla di un episodio infantile. Lui a sette anni ha avuto un incidente per cui è stato a rischio di morte non ha avuto conseguenze se non che dopo la guarigione dopo l’incidente il bambino è vissuto con una visione malinconica tipica degli uomini profondi, acuti di ingegno. Vico ci sta dando una ragione del suo essere poi diventato filosofo, uomo di ingegno, intellettuale. Vico apparentemente si sta fermando sull’infanzia che era un periodo per nulla considerato a quell’epoca: racconta un incidente e attribuisce a quell’incidente il motivo del suo essere così come è, sta dando una ragione del suo carattere. Vico afferma che se non fosse caduto dalle scale a sette anni forse non sarebbe diventato un uomo di ingegno, lui deve a quell’incidente il fatto di essere diventato cosi come è. Caduto dalle scale = predisposizione alla filosofia (causa - effetto). In un altro passo della vita di Vico si parla di un’epoca posteriore, dei primi studi e in particolare del suo iniziale rifiuto di questi studi. Vico afferma che racconterà con naturalezza tutta sere di studi e la narrerà con veridicità: il fine è quello di far capire al lettore perchè Vico è tale e non altro, come mai vico è quello che è. Il racconto di tutti i suoi studi deve arrivare a un fine, Vico è predestinato a essere l’autore a una scienza nuova. Questa visione di se stesso condiziona tutta la visione dell’opera, tutta la vita privata di Vico viene omessa dall’autobiografia. Il terzo testo è quello di Pietro Giannone (1676 - 1748), la vita scritta da lui medesimo (1736). E’ autobiografia scritta in carcere in prima persona che nasce da uno di quei due motivi che secondo Dante autorizzavano la scrittura di sè: la necessità di difendersi, il motivo apologetico. Giannone cerca di dare un ritratto di se di uomo apparentemente normale: fa un esame della sua vita dal momento che è in carcere ed è in procinto (secondo lui) di morire. Questa autobiografia diventa una difesa: Giannone cerca di costruire un racconto in cui siano evidenti le ragioni per cui non doveva andare in carcere. Giannone racconta un episodio molto simile a quello di Vico: racconta di una malattia infantile e di un errore medico che si è risolto in modo positivo. “Nella mia adolescenza mancò poco che non tornassi in quello stato nel qual fui prima di nascere, poiché, infermato di febbre ancorché non gravemente, il medico, poco riflettendo al mio gracile temperamento, mi diede una purgazione preparata con antimonio superiore alle mie forze; sicché, di sopra con vomiti, e di sotto con profluvi continui, mancò poco che non esalassi l'anima fra le braccia della mia cara madre. Ma, siccome il pericolo fu grave, così, quelli cessati, in breve tempo tornai al pristino stato di perfetta salute.” Di questo episodio adolescenziale Giannone non parla più. Questo episodio rimane senza significato, non ha il valore finalistico che aveva in Vico, è un episodio che non lascia tracce. Quasi totale assenza del periodo infantile - adolescenziale: si tratta di una assenza dettata dal fatto che per l'antichità era un divieto parlare di periodi della propria vita che non avevano nessun rilievo. L’uomo nell’antichità e fino al Romanticismo è un uomo interamente pubblico: l’uomo ha rilevanza nella storia della cultura per la sua attività pubblica. In un passo successivo Giannone praticò un’apertura sulla sua vita privata: parla di una donna da cui ebbe due figli. Lui descrive la funzione che la donna aveva nei suoi confronti. Questo passo sulla donna da cui Giannone ebbe due figli ci consente di fare un’altra riflessione sulla struttura delle autobiografie perché nel passo successivo Giannone racconta come è andata a finire la storia con questa donna: “ Ebbi da questa onesta e castissima donna due figliuoli: un maschio ed una femmina. E ben si conobbe quanto ella fosse savia e dotata di somma pietà e virtú; perché, costretto io a partir da Napoli per l'imperial corte di Vienna, ella volle chiudersi in monastero con la bambina che avea seco, dove, menando una vita santissima, non ne volle uscir mai, lasciando il figliuol maschio alla cura di mio fratello. “ Giannone è costretto a partire per recarsi alla corte di Vienna quindi abbandona la donna e i figli, la donna è piena di virtù che decide di chiudersi in convento con la figlia che diventa a sua volta monaca. Questo fatto ci dà l'occasione per fare una riflessione sulla gestione del tempo narrativo da parte di chi scrive di sé. Gestione del tempo narrativo significa che qui Giannone decide di fare una proiezione in avanti, decide di raccontare al lettore come va a finire: non è un racconto filato ma ha degli strappi e delle aperture che permettono allo scrittore di dilatare il tempo, di fermarlo o di accelerarlo. L’io presente che decide di scrivere l'autobiografia in un certo momento della sua vita domina tutto il racconto dell’io passato. Nel saggio di Battistini una distinzione viene coagulata da due metafore, l'immagine che Battistini e gli autori hanno applicato prima di lui è quella dello specchio: il soggetto si riflette nella sua autobiografia e riflette le caratteristiche della società civile che gli sta intorno. Ne in Alfieri ne in Nievo si trova una fortissima unitarietà dei testi: i testi risultano molto compatti narrati in modo circolare in cui tutti gli episodi sono uniti da un filo logico che li attraversa dall’inizio alla fine. In questi tempi si trascura la prima parte della vita, l’infanzia, il cui racconto è ritenuto inutile; si trascura la parte passionale dell’esistenza. Problema di collocazione sociale di chi scrive la propria autobiografia: lo stesso Giannone racconta nella sua vita un aspetto che può avere un aspetto sociale, racconta la sua ascesa alla professione giurista pur non avendo quella estrazione sociale che di solito era alla base. In questi anni non c’è mai l’autobiografia di un uomo qualunque: questo aspetto condiziona molto l’ingresso nell’autobiografia della vita privata, la vita privata non entra perché il narratore ha un importanza che deriva dalla sua professione pubblica non dalla vita privata. Verrà confrontato il testo di Rousseau con il testo di Vittorio Alfieri “vita scritta da esso” e il testo di Ippolito Nievo “Le confessioni di un italiano nel prologo e nel periodo infantile con la rilevanza data dagli autori ai castighi ricevuti da bambini. Nel caso di Nievo, il saggio di Emilio Russo fa il confronto tra Nievo e Rousseau focalizzandosi sul periodo infantile. L’infanzia all’interno delle Confessioni di Rousseau assume un ruolo modernizzante per l’uomo adulto: l’uomo adulto si trova già nelle esperienze infantili ed è la parte infantile della vita che da una piega precisa al carattere dell’uomo. Jean Jacques Rousseau, avvio delle Confessioni: prologo: “Ecco il solo ritratto d’uomo, dipinto esattamente al naturale e assolutamente fedele al vero, che esiste e che mai probabilmente esisterà. Chiunque voi siate, che la mia sorte o la mia fiducia hanno reso arbitro di queste pagine, io vi scongiuro, per le mie sventure, per le vostre viscere, e a nome dell'intera specie umana, di non annientare un’opera utile e unica, un’opera che può servire come prima pietra di paragone per quello studio degli uomini che è ancora certamente da cominciare e di non privare l’onore della mia memoria dell’unico sicuro documento sul mio carattere che non sia stato sfigurato dai miei avversari.” In questo passo Rousseau è convinto che stia facendo qualcosa per la prima volta, per la prima considera la sua esperienza passionale dal punto di vista dell’unicità: si sente un essere umano unico, anche in termini di scrittura, per cui decide di raccontare la propria esperienza. Lui prega il lettore, a nome dell’intera collettività, di non trascurare quest’opera che definisce unica: torna il concetto dell’utilità (uno dei due fini di Dante). In questo caso l’utilità servirà come pietra di paragone per lo studio degli uomini, creare un termine di confronto per studiare la vita dell’uomo in generale, la specie umana in quanto tale. Infine, c’è il problema dell’autodifesa (seconda motivazione di Dante): Rousseau vuole offrire un racconto sicuro e veridico che sarà l’unico documento del suo carattere che non sia stato alterato dai suoi avversari. Questo preambolo ha avuto una diversa redazioni che è rimasto conservato nel manoscritto di Neuchâtel in cui Rousseau ha scritto: “ Che non si obietti che, essendo soltanto un uomo del popolo, io non abbia nulla da dire che meriti l’attenzione dei lettori. Ciò può esser vero degli avvenimenti della mia vita: ma io scrivo meno la storia di quegli avvenimenti che quella dello stato della mia anima nel momento in cui sono accaduti. E le anime non sono più o meno illustri che quando hanno sentimenti più o meno grandi e otteneva il suo scopo, dichiarò di rinunciarvi e che la affaticava troppo. Avevamo dormito fino a quel momento nella sua camera, e, d’inverno, qualche volta, perfino nel suo stesso letto. Due giorni dopo ci sistemarono in un’altra stanza; e da quel momento godetti il privilegio, al quale avrei volentieri rinunciato, d’essere trattato da lei come un ragazzo maturo. La frase finale segna il momento in cui Jean Jacques inizia a essere trattato come un ragazzo maturo: passaggio tra infanzia e maturità. L’infanzia diventa la stagione più rivelatrice perché è la più spontanea, senza schemi, senza un progetto definito e senza le maschere proposte dalla società. Nell’infanzia si annidano le radici del carattere dell’uomo. Rousseau rompe il tempo narrativo e commenta la rilevanza di questo episodio e proietta questa esperienza infantile sulla sua immagine di uomo adulto cercando di comprendere quel carattere informativo. “Chi crederebbe che quel castigo da bambino, ricevuto a otto anni per mano d’una donna di trenta, abbia potuto determinare i miei gusti, i miei desideri, le mie passioni, la mia personalità per il resto della vita, e precisamente nel senso opposto a quello che sarebbe dovuto derivarne naturalmente? Nel momento stesso in cui i miei sensi si accesero, i miei desideri cedettero a un tale inganno che, limitati a quanto avevano provato, non si indirizzarono alla ricerca di altre motivazioni. “ Rousseau solennizza il momento e fa pensare al lettore che il castigo lo ha segnato per tutta la vita: il castigo determina le l carattere, i desideri, le sue passioni. Per Rousseau raccontare dell’infanzia è il modo per studiare l’origine delle passioni dell’uomo. Il castigo ha un rilievo così ampio perché è il primo momento in cui i suoi sensi si sono accesi, in cui si manifesta la parte sensuale della personalità del bambino. Si accendono nella direzione opposta: il castigo fisico è stimolo di quell’apertura della zona sensuale. “Non solo, dunque, fu così che con un temperamento ardentissimo, assai lascivo e precoce, trascorsi la pubertà senza desiderare né conoscere altri piaceri dei sensi all’infuori di quelli dei quali la signorina Lambercier m’aveva molto innocentemente dato l’idea […]. Perciò ho trascorso la vita ad agognare e a tacermi presso le creature che più ho amato; e, non osando mai dichiarare la mia inclinazione, la trastullavo perlomeno con rapporti che me ne conservassero l’idea. “ Rousseau ci sta spiegando qual è la direzione di quel condizionamento che ha ricevuto dal castigo della signorina Lambercier: è la descrizione di un blocco, il temperamento del bambino che è bloccato in quell’esperienza di piacere masochistico è stato indenne in altri aspetti. Questo suo temperamento incline alla sensualità è rimasto bloccato in quell’episodio in modo tale che il bambino non ha cercato altri modi per provare piacere. Questo gli ha consentito un'esistenza pura: essendo rimasto chiuso all’interno di quell’esperienza del castigo che non poteva dichiarare ha fatto sì che lui non abbia cercato altre direzioni. Lui ha trascorso la vita a desiderare qualcosa tacendo verso le persone che più ha amato. ha cominciato a vivere questa sua vita sensuale nella pura immaginazione. 13 Successivamente descrive le esperienze che ha avuto da adulto, dichiara questo modo di tacere e di avere rapporti legati alla sua prima esperienza infantile. Da quel momento in poi lui cerca rapporti che somigliano a quel rapporto di dolore-piacere e conflitto piacevole con l’autorità anche nell’età adulta. “ Starmene ai ginocchi di un’amante imperiosa, obbedire ai suoi ordini, implorarne il perdono erano per me dolcissimi godimenti, e la più viva delle immaginazioni mi infiammava il sangue quando più avevo l’aria di un amante timidissimo. Si immagina facilmente come questo modo di far l’amore conceda solo lenti progressi, e quanto poco sia pericoloso per la virtù di quelle che ne sono l’oggetto. Dunque ho posseduto ben poco, ma non ho tralasciato di godere molto a modo mio, vale a dire con l’immaginazione.” Descrizione molto diretta di una deviazione della sua sensualità che paradossalmente lo salva dai rischi di una sensualità comune: da un lato Rousseau dice che il godimento era dato dalla sua posizione di inferiorità (obbedire agli ordini della donna), il godimento si incarna in una situazione del tutto immaginaria ma all’esterno lui è una persona timidissima. I rapporti che Rousseau riesce ad avere dopo questa esperienza sono rapporti basati sull’autorità, sulla superiorità della donna amata; rapporti che si basano sul contrasto tra una fiamma fortissima interna al soggetto e la sua timidezza esteriore. Questo contrasto viene risolto vivendo il rapporto nella pura immaginazione: scarso successo che viene compensato da un grande godimento immaginario. A questo punto Rousseau si prende una pausa e commenta quello che ha appena scritto: “ Ho compiuto il primo e più penoso passo nel labirinto oscuro e fangoso delle mie confessioni. La cosa più difficile a dirsi non è la più colpevole, ma piuttosto la più ridicola e vergognosa. Da questo momento son sicuro di me. […] “ Questo episodio infantile è così determinante per lo sviluppo della sua personalità e della sua vita sensuale che diventa determinante anche sul piano narrativo: il primo scoglio che Rousseau ha superato, è riuscito ad aprirsi di fronte al lettore compiendo uno scavo nel labirinto fangoso delle confessioni. Da quel momento in poi si sente tranquillo perché la cosa più difficile da dire non è la colpa ma ciò che crea vergogna, una volta superata quella vergogna finalmente il narratore è sicuro di se e può proseguire nella più totale apertura con le sue confessioni. Rousseau attribuisce a questo primo episodio la funzione di aver inaugurato quel sentiero tortuoso nel labirinto oscuro e fangoso della sua personalità. Il labirinto oscuro e fangoso è una metafora che descrive l’approccio che ha con gli autori dal secondo settecento in poi verso la scrittura di sé. “ Chi crederebbe, per esempio, che una delle basi più solide dell’animo mio venne temprata nella medesima sorgente da cui mi colarono nel sangue lussuria ed effeminatezza? “ Rousseau prosegue raccontando come in un certo senso quel famoso episodio del castigo che ha provocato il primo risveglio dei suoi sensi è stato poi una delle fasi più solide perché gli ha consentito di trattenere tutta la sensualità nell’immaginazione. Dalla nascita della lussuria del bambino viene fuori la solidità del carattere. Successivamente Rousseau inizia a raccontare un secondo episodio infantile utile per confrontarlo con ciò che viene raccontato da Alfieri e da Nievo: il cosiddetto episodio del pettine rotto. “ Un giorno stavo studiando la lezione, solo nella stanza contigua alla cucina; la fantesca aveva posto ad asciugare sulla piastra del camino i pettini della signorina Lambercier. Quando venne a ritirarli, ne trovò uno in cui tutti i denti di lato erano rotti. Di chi la colpa del guasto? Nessuno all’infuori di me era entrato nella stanza. M’interrogano: nego d’aver toccato il pettine; il reverendo e la signorina si uniscono, mi esortano, mi urgono, mi minacciano; persisto con testardaggine; ma il convincimento era troppo forte ed ebbe partita vinta di tutte le mie proteste […] ma quella volta [il castigo] non mi venne inflitto dalla signorina Lambercier. Scrissero allo zio Bernard, che accorse. […]” Questo episodio racconta di una colpa di cui il piccolo Jean Jacques viene accusato per il solo fatto di trovarsi nella stessa stanza in cui è accaduto qualcosa che ha portato alla rottura del pettine (trovarsi nel luogo sbagliato al momento sbagliato). Il bambino testardamente tenta di dichiarare la propria innocenza ma non convince il reverendo e la sorella che non infliggono più il castigo a Jean Jacques ma chiamano il parente (lo zio, colui che aveva la responsabilità del bambino orfano). “Non riuscirono a strapparmi la confessione che esigevano; e, pur ripreso varie volte e posto nella più spaventosa situazione, fui irremovibile: avrei sofferto la morte, e mi ci ero risolto. […] Uscii dalla prova crudele letteralmente a pezzi, ma trionfante. Oggi sono trascorsi quasi cinquant’anni da quell’evento, e non ho paura ormai di venir punito daccapo per lo stesso fatto; ebbene, dichiaro alla luce del sole che ne ero innocente, che non avevo né rotto né toccato quel pettine. […] “ Da un lato c’è un ragazzo che insiste della sua innocenza che esce da una prova durissima di accusa trionfante, qui Rousseau rompe il filo narrativo della narrazione e dichiara che in quel fatto era del tutto innocente. E’ un evento che è importante per le conseguenze che lascia sul soggetto che Rousseau descrive subito dopo: “Figuratevi un carattere timido e docile nella vita ordinaria, ma ardente, fiero, indomabile nelle passioni, un bambino governato sempre dalla voce della ragione, sempre trattato con dolcezza, equità, condiscendenza, che non aveva nemmeno il sospetto dell’ingiustizia e che, per la prima volta, ne sperimenta una così tremenda proprio da parte di coloro che adora e rispetta sopra tutti: quale capovolgimento di idee, quale disordine di sentimenti, quale sconvolgimento nel cuore, nella mente, in tutto il piccolo essere intelligente e morale!” L’episodio del pettine rotto diventa un modo di descrivere al lettore il primo racconto del bambino con l’ingiustizia: un bambino che era stato trattato sempre con dolcezza e con condiscendenza che fino a quell’età non aveva nemmeno il sospetto che potesse darsi ingiustizia nel mondo. Improvvisamente viene sottoposto a una terribile ingiustizia dalle persone che ama di più: la signorina Lambercier, il reverendo e lo zio. Questo episodio provoca un capovolgimento, un improvviso disordine di sentimenti: il bambino che aveva camminato fino a quel punto su binari molto precisi improvvisamente si capovolge e non sa più dove sta il bene e il male. La sua identità morale di bambino già in parte formata viene improvvisamente sconvolta. “ Sento, scrivendo questo, che il polso ancora mi si accelera; quegli istanti mi saranno sempre presenti, campassi mille anni. Quel primo sentimento della violenza e dell’ingiustizia è rimasto così profondamente scavato nell’animo mio, che tutti i pensieri che mi ci conducono mi restituiscono la prima emozione, e quel sentimento, in origine relativo solo a me, ha preso una tale consistenza, si è talmente staccato da qualsiasi interesse personale, che il cuore mi si infiamma allo spettacolo o al racconto d’ogni azione ingiusta, qualunque ne sia l’oggetto e il luogo ove sia stata commessa, come se l’effetto ricadesse su di me. […] Là fu il termine della serenità della mia vita infantile. “
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