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Appunti Letteratura Italiana di Mangini, Appunti di Letteratura Italiana

Appunti del corso di Letteratura italiana tenuto dal docente Mangini: corso monografico "relazione tra vivi e morti", Dante, Petrarca, Boccaccio, Macchiavelli, Ariosto, Tasso, Alfieri, Foscolo, Leopardi, Manzoni

Tipologia: Appunti

2019/2020

Caricato il 06/07/2020

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Scarica Appunti Letteratura Italiana di Mangini e più Appunti in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! Doc. Angelo Mangini Letteratura italiana Relazione tra i vivi e i morti La Commedia è un dialogo con i morti dell’oltretomba verso la salvezza. La questione riguarda la natura profonda del rapporto fra lettore e scrittore. È il filo conduttore fra gli autori che andremo a studiare. L’Umanesimo è il presente in ascolto del passato. L’esempio più eclatante è la Commedia di Dante; è un dialogo fra presente vivente e gli spiriti del passato, investito da una carica affettiva. Vico, “Scienza Nova” (1720-1744) Nell’introduzione spiega che il culto dei morti, la sepoltura, è una delle istituzioni originarie nella storia dell’umanità. In Latino “seppellire” è “humare”, legato a “humus” cioè terra ed è per questo che “humanitas” vuol dire umanità. Orazio, Carmina III.30 È una riflessione su quale sia lo scopo della scrittura e cioè rendere immortale colui che scrive, la scrittura diventa il doppio del poeta, cioè la parte che sopravvive. “Non omnis moriar” non morirò del tutto, una parte vi sfuggirà. Il doppio è la poesia e non l’anima, quindi una immortalità laica e terrena. Tutti gli scrittori si rivolgono ai contemporanei, quindi l’immortalità è garantita tramite i posteri. Orazio sostiene che sono dedicate anche alle future generazioni; lega la sopravvivenza della propria vita al mondo latino “il pontefice salirà al campidoglio con la sua vergine silenziosa” La poesia è il monumento funebre dei poeti, paragonato alla piramide e più duratura di essa. Ovidio, metamorfosi XV. 871-879 La sua parte migliore vivrà se i mortali lo leggeranno. Si scrive per creare un doppio che parlerà al futuro. La scrittura è un veicolo di dialogo fra vivi e morti. La sua parte migliore è la scrittura, che sopravvive alla sua morte. Catullo, Carme 131 L’io che si pone in relazione con un “tu” dell’oltretomba attraverso la poesia consente una forma di comunicazione tra vita e morte. Catullo Carme 101 La poesia non serve a far sopravvivere l’io ma serve a comunicare con la persona amata e perduta che si trova nell’oltretomba. Dialogo con un morto, il fratello, quindi non garanzia d’immortalità. Vernant, figurazione dell’invisibile e il Kolossòs Vernant è uno studioso dell’antropologia di storia antica e parla del Kolossòs. È la lastra di pietra, la lapide, che non è la rappresentazione del morto, ma la statua/pilastro che caratterizza la continuità della presenza del morto. Si trova: all’interno della tomba, quando il cadavere non è presente, per garantire un corretto rito funebre che ristabilisca l’equilibrio tra vivi e morti, diventa il doppio del morto e lo isola dai vivi; all’esterno della tomba con il compito di stabilire un contatto fra vivi e morti, colma il vuoto che il morto ha lasciato ma ricorda costantemente la sua assenza. Il gruppo sociale che subisce questa scomparsa entra in crisi: i rituali funebri hanno il compito di aiutare le società umane, bisogna superare il momento d’instabilità; i riti funebri servono per aiutare chi subisce un lutto e accompagnare l’anima nell’aldilà. Chi subisce il lutto è in una dimensione fra la vita e la morte, reintegra i vivi nell’aldiquà, nella vita. Bisogna concepire la propria scrittura come mezzo di comunicazione fra i vivi e i morti, come fa il Kolossòs. Vita Nova di Dante Alighieri L’edizione Gorni, di 31 capitoli, utilizza lo stesso titolo indicato da Dante “Vita Nova”; l’edizione Barbi utilizza, invece, Vita Nuova. Dante, per creare l’opera, trascrive ed interpreta selettivamente il suo libro della memoria; cerca di ricavare il significato più profondo. È un libro senza precedenti nella tradizione letteraria medievale, è innovativo ed originale, s’ispira ad altre opere ma non ha un vero precedente. È il primo testo che viene concepito come libro della tradizione italiana; è un testo autobiografico del giovane Dante, che racconta la storia dell’amore non corrisposto per Beatrice, con commento e spiegazione del contesto biografico. Mescola la narrazione in prosa ed in versi, la prosa è composta a posteriori con revisione retrospettiva. L’opera è composta da Dante a partire dalla morte di Beatrice, è un’opera di elaborazione del lutto e cerca di conferire un senso alla sua morte; i singoli componimenti sono composti, per la maggior parte, quando lei era ancora in vita, ma il libro in quanto tale segue la sua morte e non sarebbe concepibile prima. Capitolo I Parla del primo incontro con Beatrice, l’inizio della sua nuova vita (che coincide con tutta la sua vita dato che l’incontro avviene a nove anni), fase così lontana che può sembrare impossibile parlarne e ricostruire i ricordi. L’incontro avviene fra le strade di Firenze, i due si guardano e lui capisce che nei suoi occhi c’è qualcosa che lo sconvolge. Rievocare gli eventi d’infanzia può essere inaffidabile, quindi è meglio spostarsi in paragrafi successivi, quando lui è già un uomo adulto. Nove anni dopo i due s’incontrano nuovamente e Beatrice lo saluta (il nove è il numero simbolico di Beatrice perché miracolo divino ed espressione diretta della trinità). Nelle interazioni con lei, lui viene sempre sopraffatto ed inebriato dalla dolcezza di questa esperienza e sconvolto deve ritirarsi in un luogo solitario: la sua camera, qui elabora questa esperienza e pensa a lei. Decide di scrivere un sonetto per descrivere l’esperienza di un sogno che ha fatto e chiede ai poeti più famosi del tempo di spiegare il suo sogno, vuole quindi essere ammesso alla comunità dei fedeli d’amore ed è il suo esordio. A ciascun'alma presa e gentil core nel cui cospetto ven lo dir presente, in ciò che mi rescrivan suo parvente, salute in lor segnor, cioè Amore. Già eran quasi che atterzate l'ore del tempo che onne stella n'è lucente, quando m'apparve Amor subitamente, cui essenza membrar mi dà orrore. Allegro mi sembrava Amor tenendo meo core in mano, e ne le braccia avea madonna involta in un drappo dormendo. Poi la svegliava, e d'esto core ardendo lei paventosa umilmente pascea: appresso gir lo ne vedea piangendo. Capitolo II Il sonetto riceve molte risposte con diverse opinioni: Cavalcanti, che è il più caro dei suoi amici e la loro amicizia nasce proprio in questa occasione, non riesce ad indovinare, il vero significato della visione non venne compreso da nessuno, ma ora è chiarissimo: è la Originale: è il testo trascritto e stampato sotto il diretto controllo dell’autore, ha il massimo grado di affidabilità. Molti testi in greco e in latino sono senza la copia Originale, come ad esempio Catullo. La Commedia di Dante non ha un originale. Metodo di Lachmann (filologo tedesco) È il metodo per ricostruire testi a partire dai manoscritti. Si utilizza lo Stemma Codicum. Bisogna confrontare le varie opere ed eliminare gli errori commessi. Mediamente uno scrivano commette un errore a pagina. Sono gli errori guida o significativi che permettono la ricostruzione dell’opera. La data non ha un valore rilevante. Gli errori vengono ricostruiti attraverso le relazioni. L’edizione critica continua ad evolversi nel tempo perché non c’è la certezza matematica che una data ricostruzione sia la più verosimile. 1. Recensio: censimento e descrizione dei testimoni. 2. Collatio: confronto fra i vari testimoni e registrazione delle differenze (integrale o selettiva per loci critici, cioè i punti significativi del manoscritto) 3. Eliminatio codicum descriptum: il filologo può mettere da parte i manoscritti che appaiono essere copie di altri manoscritti. 4. Ricostruzione dello stemma in base al collatio. Errori congiuntivi: secondo ogni probabilità essi non possono essere prodotti indipendentemente, quindi si stabilisce l’appartenenza di due o più manoscritti ad uno stesso ramo. Errori separativi: non può essere corretto dalla tradizione per congettura. Presenza in A e assenza in B stabilisce l’indipendenza dei due codici. Errore monogenetico: che proviene dallo stesso manoscritto. Errore poligenetico: che può essere prodotto in più manoscritti in maniera indipendente. Punti deboli: Presuppone che ogni testimone sia la copia di un unico manoscritto. Non viene contemplata la contaminazione fra i vari rami della tradizione, cioè B è copiato da A, ma è anche copiato da C. Ad esempio la Commedia è ampiamente contaminata. Nel 1928 il filologo francese Dédier nota che la maggior parte degli stemmi creati seguendo il metodo di Lachmann sono bipartiti, cioè seguono due rami della tradizione. Sorge, quindi, la domanda sull’attendibilità, dato che un simile evento non è statisticamente possibile. È purtroppo una tendenza inevitabile, e oggi, il metodo Lachmann è il più efficace ed è al centro della filologia moderna. Nella lectio dificilor si preferisce la lezione più difficile, rara e complessa. È più probabile, però, la lectio facilio, cioè che derivi dalla prima per banalizzazione. La Commedia secondo l’antica vulgata - Dante Alighieri Contestualizzazione storica La letteratura italiana si sta affermando in Europa per innovazione e forma. L’Italia partiva svantaggiata perché era in ritardo rispetto agli altri stati europei. Le prime opere in Inghilterra vengono pubblicate nell’VIII secolo, mentre in spagna nel XII. Nel nord della Francia abbiamo il ciclo bretone (romanzi cavallereschi con protagonisti Artù e la sua corte.); al Sud nasce la lingua cortese, che arriva anche in Italia. Nel resto d’Europa l’aristocrazia fa rielaborare in chiave laica le opere di carattere religioso e le trascrive in volgare; in Italia la Chiese aveva maggiore prestigio e anche a causa della frammentazione linguistica e politica, il latino si continua ad usare per le opere, inoltre gli intellettuali vivevano all’interno della Chiesa. Amor cortese Andrea Cappellano – De Amore 1185 È scritto in latino e diviso in tre libri: i primi due trattano una concezione di amore che viene criticato dalla Chiesa, quindi c’è una ritrattazione nel terzo. È importante il vassallaggio nel rapporto amoroso e la subordinazione alla donna amata/ padrona (riflesso del mondo feudale) dichiarandolo in poesia. L’amor cortese ha carattere extra coniugale perché il vero amore può esistere solo al difuori del matrimonio; è, quindi, un amore adulterino che è pericoloso per una società con concezione cristiana. L’amante deve: 1. Essere generoso e mai avaro. 2. Il suo amore deve essere totale e basarsi sulla castità. 3. Evitare le donne volgari, perché la sua deve avere pudore. 4. Rispettare l’amore degli altri. 5. Evitare le menzogne. 6. Agire con discrezione. 7. Rispettare la cavalleria d’amore. 8. Essere sempre pudico. 9. Non essere maldicente. 10. Non parlare mai male dell’amore altrui. 11. Usare sempre cortesia e civiltà. 12. Non imporsi mai ma concordare con la donna amata. Si sviluppa nelle corti della Provenza in lingua d’oc. L’esperienza amorosa deve affinare le qualità dell’amante e condurlo alla realizzazione delle virtù: lealtà, fedeltà, discrezione, liberalità e dedizione. Al perfezionamento etico deve corrispondere un perfezionamento della poesia. Il poeta cortese deve inventare tropi (= figure metaforiche), ossia trobar (= trovatore). Nei poeti cortesi è costante la ricerca accurata di tecniche espressive che esaltino l’artificio stilistico. Queste tecniche si muovono verso due opposte direzioni: 1. trobar clus (chiuso): stile fatto di virtuosismo oscuro ed enigmatico e caratterizzato da asprezze verbali. 2. trobar leu (lieve): ricerca di un modo di poetare chiaro, comprensibile e gradevole all’ascolto. La scuola siciliana Nel 1200 i cortesi fuggono dalla Provenza per motivi religiosi e si rifugiano in Italia settentrionale e continuano a scrivere in provenzale. Poi si spostano nella corte di Federico II (imperatore dal 1220 al 1250): sviluppo della poesia cortese in Italia, con influenza della poesia provenzale e della lirica tedesca. I poeti sono funzionari dell’impero: giuristi, notai, magistrati, burocrati. Poesia come momento di distacco dall’impegno amministrativo e giuridico. Viene rimossa ogni implicazione politica della poesia. L’amor cortese viene utilizzato come modello di decoro. Recupero delle convenzioni tematiche: - Omaggio dell’amante all’amata. - Subordinazione del poeta alla dama. - Segretezza dell’amore. - Presenza di ostacoli all’amore: lusingatori malevoli e malparlanti. Il centro dell’interesse non è più solo la donna in sé, ma i sentimenti e il desiderio che essa suscita nel poeta. Il rapporto amoroso viene descritto dall’interno, con un’attenzione predominante all’interiorità del poeta e alla fenomenologia amorosa. Per la prima volta la poesia «divorzia» dalla musica. La lingua è il siciliano illustre (depurato da provenzalismi e latinismi). I siculo-toscani Dopo la Morte di Federico II nel 1250 la poesia viene ripresa e toscanizzata, ogni traduzione apporta innovazioni e cambiamenti al testo. In toscana c’erano i comuni, non le corti, quindi i poeti sono i cittadini e gli impiegati pubblici e torna, quindi, il tema politico. Guittone d’Arezzo È un poeta coronato; la sua produzione è bipartita, per lui amare ha un aspetto pratico ed utilitaristico. Propone il manuale di seduzione della donna; ma nel 1265 si converte e la sua produzione cambia assumendo carattere morale. La sua poesia viene disprezzata perché aspra e oscura, manca la ricerca di un suono piacevole all’ascolto. Dolce stil novo Nasce a Bologna con Guido Guinizzelli, autore di «Al cor gentil rempaira sempre amore». Grande novità compositiva, rimproverata da Bonagiunta Orbicciana nel sonetto «Voi ch’avete mutata la mainera»: Accusa di tecnicismo; superamento delle regole dell’amor cortese; coinvolgimento diretto della personalità del poeta. Viene chiamato nuovo per la consapevolezza di essere all’avanguardia. Poetare diventa una interiorizzazione (la conoscenza d’amore è un fenomeno interiore che permette all’uomo l’elevazione morale e spirituale indicata dall’amata). Dolce per la reazione all’asprezza di Guittone e al municipalismo, la spiritualizzazione dell’amore (Non più socialmente superiore, ma creatura la cui bellezza ha valore etico. È portatrice di virtù: donna angelo che fa da mediazione tra uomo e Dio) ed i toni attenuati e delicati. Non più nobiltà di sangue ma virtù individuale, non ereditaria ma culturale; si sviluppa la società borghese. Non c’è democratizzazione, bensì chiusura verso il basso e selezione di una ristretta élite in base alla raffinatezza formale e alle virtù interiori (aristocrazia dello spirito). Guido Guinizzelli Fa corrispondere amore e cor gentile. Predilige la nobiltà del cuore invece che quella di sangue e la donna è la figura della divinità. L’assoluta interiorizzazione del sentimento d’amore comporta il motivo della luminosità dell’amata e il tema del saluto. Guido Cavalcanti Si accostano razionalmente alla problematica amorosa con Solipsimo esasperato, l’intensa pressione dell’esperienza individuale e la forte componente speculativa. Guido davvero una commedia. L’opera ha molteplici fini, ma se vogliamo guardare alla sostanza il fine è morale, sotto il senso dell’etica e non della speculazione, deve agire direttamente, cioè “allontanare quelli che vivono questa vita dallo stato di miseria e condurli a uno stato di felicità”. Dal peccato alla grazia divina. Dante si pone come poeta vate, diventando a sua volta guida come lo era stato Virgilio per lui. Il rapporto fra Dante e la Chiesa presenta delle tensioni; infatti la Monarchia di Dante era stata messa all’indice dalla Chiesa. Canto I Dante cerca di uscire da solo dalla selva ma incontra le tre fiere (il peccato) e viene salvato da Virgilio. Nasce qui la coppia (cultura cristiana e Medievale e cultura classica; autore e lettore). Dante quando concepisce questo percorso sceglie come guida un pagano in un percorso di salvezza. Virgilio nell’oltretomba è un dannato nel limbo (non si scontano i peccati commessi ma quello originale). Dante non è il primo a scrivere di un viaggio nell’aldilà, di solito la guida è un angelo o un santo. Il problema dell’affidabilità di Virgilio percorre tutta la Commedia. Inizialmente la sua fiducia si fonda solo sul legame autore/lettore. Le tre fiere rappresentano le inclinazioni peccaminose che ostacolano l’uomo sulla via del bene (lussuria la lonza, superbia il leone, avarizia la lupa). Canto II Dante riflette sul fatto che il motivo del viaggio di Enea e San Paolo era chiaro (per stabilire la posizione dell’impero e della chiesa), mentre il suo non lo è. Virgilio sollecitato da un’anima beata, Beatrice, raggiunto da lei nel limbo. Beatrice nel paradiso era troppo concentrata su Rachele, personificazione della contemplazione di Dio (personaggio biblico); questa contemplazione è in contrasto con il suo compito di vegliare su Dante. Viene riportata all’ordine da Lucia. Come viene rivelato negli ultimi Canti del Purgatorio, Beatrice tenta invano di aver più volte provato ad apparire in sogno a Dante per riportarlo sulla retta via. È quindi costretta ad agire per mezzo di un’anima dannata. Virgilio è l’anima più indicata grazie alla sua parola ornata, è l’unico che Dante potrebbe seguire. Il testo di Dante pone delle domande a cui non si riuscirà a trovare risposta nell’opera. Come dice Italo Calvino: “Un classico è quello che non ha mai finito di dire quello che ha da dire”. Provare pietà per le anime condannate da Dio vuol dire condannare la giustizia divina. Dante prova quindi pietà per gli uomini che considerano certe forme d’amore positive, ma che invece li condurranno al peccato, quindi Paolo e Francesca (guerra della pietà). Nel 6° libro delle Eneide, Enea va nell’aldilà guidato dalla Cumana. Incontreranno Cerbero, lo drogano e passano lo stesso. Ad Enea viene dato il merito della fondazione dell’Impero. È stato scelto da Dio come padre di Roma. Dante crede che Enea sia un reale personaggio storico. Nel XXVI canto del Paradiso, Adamo dice che sono stati cacciati, non per aver mangiato i frutti, ma per aver oltrepassato il segno. Dante personaggio ha paura, non vuole far gli stessi errori di Adamo ed Ulisse, vuole rimanere sulla stessa linea di Enea e San Paolo. Tutti i personaggi che Dante incontra sono voluti da Dio, il suo è un percorso designato. Amore divino / Amore per il prossimo Nella Commedia c’è una intricata rete di relazioni; Beatrice aiuta Dante in nome della relazione d’amore (amor mi mosse); un amore che deve essere necessariamente contraccambiato. Lei lo deve soccorrere perché lui l’ha amata tutta la vita. Beatrice, però, soccorrendo Dante, non si dimentica dell’amore divino, ma lo applica con l’amore per il prossimo. L’amore per Dio non è pienamente realizzato senza esso. La follia di Dante Dante si giudica “folle” per aver seguito Virgilio. L’aggettivo follia lo dobbiamo intendere come condizione di colui che trasgredisce i limiti, un atto di presunzione e superbia. Dante considera la tradizione inaugurata da Aristotele, cioè quella che considera la virtù un equilibrio che si contrappone fra due opposti. E Dante considera la follia uno di questi due poli opposti peccaminosi. L’altro estremo è la viltà, cioè la condizione di colui che non compie l’azione o l’impresa che sarebbe giusto compiere, dalla quale il vile si astiene per paura o indecisione. Al centro c’è la condizione dell’essere umano, che senza mai superare i limiti del lecito, sfrutta a pieno le proprie abilità e possibilità. Virgilio con Dante è magnanimo, quindi la sua impresa non è folle ma magnanima e, infatti, dice che non intraprendere questo cammino sarebbe un atto di viltà. Canto III Si apre con l’iscrizione posta sulla porta per l’Inferno, e rende ancora più chiaro che la funzione che Dante Autore attribuisce a Virgilio è una funzione che riflette una caratteristica dell’Inferno Dantesco: l’Inferno è un luogo di dannazione eterna e non c’è possibilità di redenzione o cambiamento, è il luogo della disperazione. Il viaggio di Dante trasgredisce alle regole dell’Inferno, è la prima tappa di un viaggio di speranza. Le storie dei dannati sono tragiche, ma la condizione di Dante è comica, perché s’incammina verso il lieto fine. Quando leggiamo l’Inferno come allegoria morale, lo scopo è di insegnare ai lettori come in questa vita si vada dalla miseria allo stato di felicità. E l’Inferno (lo stato di miseria da cui si può e deve uscire.) è solo un punto di partenza per Dante. Il percorso di Dante capovolge la lettura dell’Inferno. “La Commedia è una finzione che finge di non essere una finzione.” (Singleton) Nell’Antinferno o Vestibolo dell’Inferno, al di là del fiume, nella zona preliminare, Dante esprime il suo primo concetto di viltà: gli Ignavi, dal suo punto di vista sono coloro che hanno rinunciato ad esercitare una facoltà che per Dante designa l’integrità di una persona: scegliere fra il bene e il male. Questi individui non hanno mai vissuto una vita degna di questo nome, la loro condizione è peggio di quella dei dannati, loro, infatti, hanno almeno la responsabilità di aver scelto. Scegliere il male è meglio che non scegliere. La loro condizione è così infima che sono invidiosi dei dannati. Non sono nemmeno degni di stare all’Inferno. Questi personaggi non hanno lasciato nessun ricordo di sé. La fama terrena è vana ed effimera, ma fra le imprese umane che lasciano ricordi è la scrittura la migliore, regala l’immortalità. Canto IV Il primo cerchio dell’Inferno è il Limbo. Solitamente nel limbo venivano messi i bambini innocenti ma non battezzati e coloro che avevano creduto nella venuta del messia prima della sua venuta (popolo di Israele) che erano stati liberati da Cristo che era sceso personalmente nel limbo (versione inserita nella dottrina nel XIII secolo). Dante però da del limbo una sua descrizione innovativa; poteva scegliere di inserire gli adulti non cristiani nell’inferno e permettere di accedere alla salvezza a coloro che erano giusti e senza colpa. Ma Dante li colloca tutti nel limbo. Infatti, per l’uomo medievale a cui era dedicata l’opera è una assoluta novità trovare nel limbo degli adulti. Introduce anche personaggi di fede islamica che hanno conosciuto la fede cristiana, come ad esempio Saladino, che era considerato nell’epoca medievale, un principe cavaliere, oltre che come un nemico dei cristiani. Quando Dante e Virgilio oltrepassano le porte infernali c’è un forte impatto sonoro. Nell’antinferno è costituito da grida, lamenti e suoni di dolore. Mentre nel primo cerchio sono sospiri di infanti donne e bambini. Tema dalla pietà In questo canto si introduce il tema della pietà (ripreso nel canto V). Infatti, all’interno dell’Inferno si possono trovare persone di grande valore fra i dannati. Questo causa a Dante angoscia e dolore; non è un errore di prospettiva commesso da Dante, che dato che è solo all’inizio del suo viaggio non ha un adeguato metro di misura. Piuttosto l’Inferno dantesco è una visione complessa e problematica, non è solo il luogo dove c’ è il male, ma anche il bene. Alcune delle anime che si trovano qui sono virtuose ed eroiche, e nonostante la dannazione eterna non perdono queste loro caratteristiche. Dante constata che la virtù non sia sempre sufficiente per la salvezza. L’inferno è un luogo in cui il male prevale sul bene ma il bene c’è. Il valore di questi personaggi viene ribadito e non negato. Qui lui incontra i suoi eroi letterari (poeta classici) e Dante è emotivamente coinvolto nella loro sofferenza. Incontrandoli fa i conti con la sua esperienza e formazione, che sono importanti ma devono essere considerati sotto una nuova prospettiva, perché hanno anche degli aspetti negativi. Di questi grandi personaggi ne ricomprende la funzione, come Virgilio. Lo stesso vale per la cultura e il tipo dei pensieri dei Pagani; ne comprende il valore ma anche il limite. I personaggi che Dante incontra all’Inferno hanno onorata rinomanza, cioè lo hanno conquistato attraverso opere letterarie o azioni politiche; hanno lasciato una memoria in terra. Dante a questi personaggi del mondo classico si presenta come erede della loro tradizione, meritevole di essere accolto nella loro schiera e anche come un successore moderno (rivendica uno status molto alto). Dante pone sullo stesso piano personaggi storici e letterari; è vano cercare un confine fra i due. Canto V All’entrata del secondo cerchio c’è Minosse, che spedisce le anime nel loro cerchio. Le anime lussuriose sono trasportate dal vento; la schiera che si avvicina in lunga fila di coloro che a causa d’amor hanno subito morte violenta, si lamenta e il suono è paragonato al canto della gru. La pietà si confronta con i limiti e le contraddizioni della concezione dell’amore che si esprime nella tradizione lirica cortese, la stessa che Dante ha infoltito. Qui si incontra, non un personaggio spregevole, ma l’incarnazione del modello femminile al centro del mondo della lirica cortese, una donna nobile, aggraziata, formata sulle stesse letture di Dante e condotta al peccato proprio da quelle letture e da quelle virtù (Francesca). Dante diventa consapevole di questa contraddizione e la deve affrontare. La crisi per lui è tale che alla fine sviene. Anche perché l’amore fra Paolo e Francesca ha gli stessi riferimenti culturali e la stessa concezione dell’amore fra Dante e Beatrice, e ai primi questo amore ha portato alla dannazione. Dante presenta almeno un caso in cui una persona dell’inferno si è salvata: Traiano. Si salva, inoltre, Catone, il quale era nel limbo e Cristo lo porta con sé quando ivi discese. Lo rende il guardiano del Purgatorio. Esso è stato salvato grazie all’interpretazione figurale dei suoi atti. Si è ucciso per la libertà politica, per ribellarsi contro Cesare. Ma Dante vi si ritrova perché anche lui combatte per la libertà spirituale. Ma un gesto eroico come quello di Catone trascende il motivo per cui è stato commesso. Prefigura il viaggio commesso da Dante. Canto VI Cavalcanti è addolorato nel vedere Dante e non il figlio e lo sospetta morto, chiede di lui piangendo e alle prime parole di Dante è certo della sua morte; con un accorato grido ricade supino nella sua tomba. Le anime sono come i presbiti, possono vedere il futuro (lontano) ma non il presente (vicino). Probabilmente Guido, alla sua morte, non verrà salvato ma finirà con il Padre perché crede solo nel suo alto ingegno e non nella divinità. Canto XI Siamo nel settimo cerchio. Dalla balza del settimo cerchio proviene un lezzo che li costringe a fermarsi. In questo Canto Virgilio spiega la ripartizione dell’Inferno immaginato da Dante. I fraudolenti sono nel cerchio più basso e sono più dolorosamente puniti perché la frode richiede l’uso della ragione e quindi mortifica la più grande qualità umana e offende maggiormente Dio. Poi spiega il settimo cerchio, quello dei violenti. La superbia non ha un cerchio a sé, non è quindi un vero peccato ma un atteggiamento da cui derivano molti peccati, infatti troviamo superbi sparsi per tutto l’Inferno. Alla fine del canto Dante pone una domanda specifica: perché l’usura sia punita tra i peccati contro Dio (ne parla per il grande rilievo che aveva questa pratica nella società del tempo e il grave danno pubblico che comportava). L’usuraio non si valeva né dei frutti della natura né del suo lavoro per vivere, disprezza, quindi, la natura in sé stessa e nella sua seguace, l’arte; ripone la sua fiducia non in Dio, ma negli interessi del denaro prestato e tale operazione appariva contronatura. Canto XII Siamo nel cerchio dei violenti, al quale sono dedicati cinque canti, nel primo girone, quello dei violenti verso il prossimo (tiranni e predoni). I dannati sono immersi in un fiume di sangue che forma un anello intorno agli altri due gironi, e rimangono senza volto e voce. I guardiani del cerchio sono i Centauri, pieni di dignità e con armonioso portamento, sono i soli custodi non diabolici dell’Inferno. Dante ha una avversione profonda verso i tiranni. All’inizio c’è un grande dirupo franato (causato dal grande terremoto che scosse la terra alla morte di Cristo) e la figura bestiale del Minotauro, entrambi simbolo della violenza. Nel Minotauro è rappresentata la bestialità umana, e Dante lo immagina con il corpo del toro e la testa d’uomo. Tre Centauri, Nesso (impulsivo e precipitoso, si innamorò di Deianira, la moglie di Ercole, mentre la portava sulla groppa per farle attraversare il fiume Eveno in piena, e tentò di fuggire con lei, ma Ercole lo raggiunse e lo uccise con una delle sue frecce avvelenate dal sangue dell’Idra di Lerna. Morendo il centauro dona la sua camicia insanguinata alla donna, dicendole che se il marito si fosse innamorato di un’altra donna indossando la camicia sarebbe tornato all’amore per lei. Così quando Ercole si infatua di Iole, Deianira gli fa indossare la camicia e lui viene avvelenato dal sangue del centauro, impazzisce e muore. Nesso attua così la sua vendetta.), Chirone (capo dei centauri, sapiente esperto di musica e medicina, atteggiamento riflessivo e pensieroso) e Folo (al matrimonio di Piritoo, furioso per l’ebrezza, tenta di rapire la sposa e le altre donne.), si avvicinano ai due pensando che siano dei dannati del girone. Scoperta la vitalità di Dante, Nesso lo porta oltre il fiume di sangue bollente per non fargli bruciare i piedi, come aveva chiesto Virgilio. Canto XIII Importanti vv 58-108 Siamo in una selva dove le anime sono gli alberi. È presente il fenomeno di mimesi fonetica del paesaggio: attraverso i suoni aspri si suggerisce l’asprezza del contesto (la selva); l’utilizzo di ossimori, litoti e chiasmi vuole suggerire la condizione di chi agisce contro sé stesso. Dante sotto ordine di Virgilio spezza un ramo e ferisce un’anima che è Pier delle Vigne. Questo era il segretario personale alla corte di Federigo II; infatti, era in grado di aprire e chiudere il cuore dell’Imperatore, insiste molto sulla sua fedeltà anche se è stato accusato di tradimento. In realtà, la vera colpevole è la meretrice invidia; essa colpisce tutti gli uomini ma è un vizio particolare delle corti e che danneggia attraverso la calunnia; gli eccessi di invidia alla fine raggiungono anche l’Imperatore che fa incarcerare Pier delle Vigne. Dopo essere stato accecato con una lama infuocata si uccide sbattendo la testa contro le pareti della prigione. Commette suicidio per disdegno (superbia, mancata consapevolezza dei propri limiti), si danneggia per ribadire la sua innocenza, crede di sfuggire all’alterigia di Federigo II, il quale era stato ingannato dall’invidia dei cortigiani. Pier delle Vigne, per convincere Dante della sua innocenza, in modo che una volta tornato nel mondo dei vivi possa raccontare la verità, fa un giuramento. Lui è un alter ego di Dante, subisce l’ingiustizia da Firenze e probabilmente anche lui è stato toccato dall’idea del suicidio, e, inoltre, sono entrambi degli scrittori. Le anime dei suicidi, arrivato il giorno del giudizio, non si ricongiungeranno con il loro corpo perché lo hanno rinnegato. Canto XIV Entriamo nel girone dei violenti contro Dio, dove rimarremo per 4 canti. Il paesaggio è costituito da un enorme sabbione. Qui, i vari gruppi di anime, divisi nella pena a seconda della diversa colpa commessa (contro Dio stesso, contro natura, contro l’arte) cercano di proteggersi con le mani vanamente dalla pioggia di fuoco: abbiamo i bestemmiatori, sdraiati al suolo, i sodomiti, in corsa sotto le fiamme, gli usurai, accovacciati. Nel canto regnano tristezza e desolazione L’incontro con un bestemmiatore (colui che spregia Dio con il cuore e che è superbo), Capaneo, è violento e drammatico. L’anima fu uno dei sette re che assalì Tebe, il mito greco è narrato nella Tebaide di Stazio; Capaneo dritto sulle mura di Tebe aveva sfidato con empie parole Giove, che adirato lo aveva colpito con una folgore. Adesso è sdraiato a terra e non sembra che si curi dell’Inferno in cui si trova, è sdegnoso e ostinato a non cedere alle punizioni divine, parla in modo ostile e violento e Virgilio gli risponde a tono. Dopo averlo lasciato giungono ad un piccolo fiume rosso e ribollente (il Flegetonte) che esce dalla selva e attraversa il sabbione, con il letto e gli argini in pietra; per spiegarne l’origine, che è la stessa degli altri quattro fiumi infernale (Acheronte, Stige, Flegetonte e Cocito) Virgilio narra il mito del Veglio di Creta: in mezzo al mare si trova un’isola andata in rovina, Creta, che era piena di ricchezze, sotto cui il genere umano visse nell’innocenza; c’era la montagna Ida, dove si narrava che fosse nato Giove, che ora è senza più vita. Cibele, la moglie di Saturno, nascose sul monte Giove per non farlo mangiare da Saturno, che divorava tutti i suoi figli perché temeva una profezia secondo la quale ne sarebbe stato spodestato, e fece coprire i suoi vagiti dalle grida e dai canti dei Coribanti, suoi fedeli. Sulla montagna c’è un vecchio che è rivolto verso occidente, perché il cammino dell’umanità si è mosso in quella direzione, e che guarda a Roma come il faro che guida l’umanità. È la grande statua allegorica che rappresenta la storia dell’umanità nel suo aspetto di corruzione e peccato, essa è appoggiata sul piede di terracotta e tristemente solcata da lacrime che scendono lungo il corpo, dalle ferite inflitte dall’umanità, e le sue lacrime forano il suolo raggiungendo il centro della terra. Canto XV Siamo nel settimo cerchio, quello dei violenti; è diviso in tre gironi: violenti con sé stessi con gli altri e con Dio. Qui incontriamo Brunetto da Latini, il maestro di retorica di Dante, che viene ritrovato tra i sodomiti; era andato in Spagna per cercare aiuto contro i Ghibellini, ma quando viene a sapere della sconfitta dei Guelfi decide di non rientrare a Firenze e ripara in Francia. Afferma che ci sono due tipi di arditi: i folli che fanno senza seguire la ragione (Ulisse) e i veri arditi, che invece la seguono (Dante). Brunetto da Latini consiglia a Dante di seguire la propria stella per non fallire e gli dice che se non fosse già morto lo avrebbe aiutato nella sua opera (o la stesura della Commedia, o nel suo cammino o nella politica). Gli consiglia di ripulirsi dai suoi vizi e lo avverte che sia i Bianchi che i Neri vogliono distruggerlo. Preannuncia a Dante il suo esilio e il suo glorioso destino; e Dante sceglie lui come profeta perché gli riconosce l’ispirazione e l’indirizzamento nella sua opera di letterato e studioso con un intento civile. Brunetto instaura un discorso articolato sullo spicco di Dante rispetto agli altri fiorentini, che vengono chiamati orbi per la loro cecità sui loro difetti e discordi, che sono avari, invidiosi e superbi. È costretto ad allontanarsi per non incontrarsi con un’altra schiera e Dante fa un paragone con la corsa che si fa Verona la prima domenica di quaresima, e non vuole ricordarlo come colui che perde ma come un vincitore. Esiste una leggenda sull’origine di Firenze: i Romani distruggono Fiesole che si era ribellata al loro dominio e fondano Fiorenza che viene abitata dalla più alta nobiltà romana e dai fiesolani rimasti senza città. Canto XVI Lo scenario è quello del canto precedente, con Dante che passeggia in mezzo al sabbione sull’altura, con i dannati sotto elevati. Si avvicinano tre fiorentini, tre nobili personaggi del buon tempo antico (fra quelli di cui aveva chiesto notizia a Ciacco) che riconoscono Dante dall’abito; viene subito dichiarato il contrasto tra la loro misera condizione attuale e la fama onorata che ebbero in vita. Per parlare con Dante si mettono in cerchio camminano, torcendo la testa per guardarlo, non possono fermarsi. Le tre figure sono: Guido Guerra Vi dei Conti Guidi, fu un condottiero e un capo Guelfo, fu un personaggio di grande spicco nella vita cittadina; Tegghio Aldobrandi degli Adimari, cittadino autorevole e podestà di Arezzo, consigliò ai suoi concittadini di non combattere i senesi e se lo avessero ascoltato avrebbe evitato una strage; Iacopo Rusticucci, onorato cavaliere fiorentino che compare in numerosi atti pubblici. La loro condizione provoca dolore, non disprezzo. Nasce una comunanza totale nel parlare di ciò che preme a tutti loro: la presente condizione di Firenze. Dante racconta di come la nuova gente che porta ricchezza infanghi l’etica della città, a lui non interessa l’economia o lo sviluppo del potere, ma la sorte interiore dell’uomo. Si contrappongono l’amarezza e il dolore per la città e la comunanza di sentimento fra i quattro. L’incontro si chiude con la richiesta di fama nel mondo e l’allontanamento delle tre figure. Si giunge al margine del sabbione, dove appare il burrato che lo divide dall’altro cerchio e il Flegetonte forma una cascata. Virgilio getta nel burrone la corda che Dante aveva cinta in vita. Si passa dai violenti, peccato insito nella natura umana, ai fraudolenti dove la natura umana viene distorta; è quindi necessario l’intervento di Gerione, da vv 121, prima di presentare il suo arrivo Dante avverte il lettore che sta per succedere qualcosa di importante che non può tacere, anche se di solito l’uomo dovrebbe evitare di dire quello che può apparire come menzogna, giura di aver visto una figura che è capace di spaventare anche chi non dovrebbe perché non ha colpa. Canto XVII Si apre in medias res, cioè in continuità con il canto precedente; per descrivere Gerione (che secondo la mitologia era un mostro con tre corpi enormi uniti nel ventre che vive in resistenza dei venti per il ritorno ed interpreta che bisogna sacrificare la vita di una fanciulla). Il secondo gruppo riguarda i famosi uomini moderni, di cui si lascia solo il nome (Michele Scoto, Guido Bonatti, Asdente). La presentazione dei personaggi è variata con un inserto sulla storia delle origini di Mantova, un omaggio all’autore dell’Eneide e una denuncia sulle diffuse credenze sulle origini mitiche della città, viene ampiamente descritto il paesaggio mantovano. Canto XXI Entriamo nella quinta bolgia, quella dei barattieri, coloro che fanno illecito commercio delle cose pubbliche, è una frode in quanto l’uomo inganna e beffa la sua patria. I peccatori sono immersi in un pantano di pece vischiosa e bollente, e quando escono fuori con la testa vengono ricacciati dentro da diavoli armati di uncini (i diavoli sono rappresentati seguendo la fantasia popolare, sono neri, con le ali di pipistrello, con forche e uncini). Questi cercano di impedire ai due il passaggio, ma avvertito il volere divino si offrono di scortarli al prossimo arco, Dante non è molto convinto dell’affidabilità della scorta. Infatti, Malacoda mente a Virgilio dato che tutti i ponti sono franati (a causa del terremoto avvenuto alla morte di Cristo), non solo quello più vicino. Dante è il protagonista del canto, è lui che i diavoli guardano e vogliono; Dante fu bandito da Firenze sotto l’accusa di baratteria, quindi i demoni vogliono attuffare il Dante personaggio fra i barattieri, proprio come il Dante storico stette inerme quando i fiorentini si accanirono su di lui. La bolgia è un’accusa politica nei confronti di Lucca, roccaforte dei Neri in toscana. Canto XXII Siamo ancora nella sesta bolgia. Questo canto narra il viaggio con i demoni dal momento in cui partono sull’argine fino a quando li abbandonano che cercano di trarre fuori dalla pece due di loro. La scena si svolge sull’argine e si vede il fossato di pece e i suoi abitanti, che vengono appellati con nomi di animali, perché l’uomo va a coincidere con gli animali bruti (delfino, ranocchio, lontra). Qui i diavoli vengono maggiormente tratteggiati, l’impaziente Libicocco, il furbo Cagnazzo, l’iracondo Calcabrina e l’orgoglioso Alichino; l’uguaglianza uomo-diavolo con i diavoli che subiscono la stessa pena dei peccatori. Emerge un peccatore, che viene pescato dai diavoli, che non ha rilevante realtà anagrafica, Ciampolo di Navarra, cortigiano del re, acquista la sua fiducia e dispensa cariche e favori per denaro. L’importante non è la storia che ha sulla terra ma la sua schermaglia con i diavoli, la sua paura, la sua raffinata malizia che batterà i rozzi avversali; è quasi uno sdoppiamento di Dante stesso. L’ultima parte del canto si chiude con una zuffa fra due diavoli, che irati per essersi lasciati sfuggire il peccatore gli corrono dietro in volo e cadono nella pece. Canto XXIII Dante e Virgilio, dopo aver lasciato i diavoli, si rendono conto che presto saranno inseguiti con più accanimento di prima, e quindi attuano una precipitosa fuga, calandosi in fretta per il pendio fino al fondo della bolgia, dove i diavoli non possono seguirli; Virgilio si comporta come una premurosa madre che porta in salvo il figlio. Siamo nella sesta bolgia, dove viene punita l’ipocrisia. I peccatori camminano in una lenta processione con il capo coperto da una cappa di piombo esternamente dorata, che abbaglia gli altri, sembrano dei monaci. Ai giudici di Cristo, il sommo sacerdote Caifa e il suocero Anna, è riservata una pena diversa: sono crocifissi in terra con tre pali e su di loro passa la processione dei peccatori, sembra quasi che tutto il peso dell’ipocrisia del mondo ricada su loro due. L’ipocrisia è corruttrice della comunità civile, e qui incontriamo i due frati gaudenti bolognesi, che venuti come pacieri a Firenze, l’avevano dato in mano ai guelfi, che parlano con reticenza e allusione, pieni di falsa dignità. Virgilio chiede poi la strada ad all’ipocrita e si rende conto dell’inganno di Malacoda, viene deriso dal peccatore per essersi fidato di quello che è il padre delle menzogne. Virgilio si allontana con malcelata irritazione e Dante lo segue premurosamente. Canto XXIV Dante sconvolto per il turbamento di Virgilio, ritrova conforto e speranza nel vederlo tornare dolce e sereno; poi, i due, salgono lungo la ripa, e Virgilio rimprovera Dante quando si ferma, dicendo che non è lecito indugiare e poltrire, ma bisogna vincere le difficoltà del cammino. Entriamo nella settima bolgia, quella dei ladri. Giunti all’inizio del primo ponte si vede un fitto intrico di serpenti, quanti non se ne troverebbero nei tre deserti africani messi insieme, tra i quali corrono nudi e spaventati i peccatori, da essi avvinghiati. Vengono citati i vari serpenti biblici descritti nella Pharsalia di Lucano. Da una parte il ladro è assimilabile al serpente per il suo agire furtivo e occulto, ma anche egli toglie agli altri ciò che loro apparteneva, quindi ora gli è tolto il suo corpo stesso. Dante vede un peccatore incenerirsi trafitto da un serpente e poi rinascere dalle proprie ceneri, come se si risvegliasse da un sogno epilettico; è Vanni Fucci, dei Neri di Pistoia, omicida, ladro, brigante, più volte bandito e condannato. È irato per essere stato colto da un suo nemico politico in una situazione così degradante, e con sfida ammette di aver rubato nel Duomo di Pistoia, predice la rovina dei Bianchi e la sventura di Dante. Canto XXV Il canto si apre ancora con Vanni Fucci, il quale sfida Dio con le fiche (gesto osceno di offesa, porre il pollice fra l’indice e il medio ripiegati e rivolgere la mano a pugno contro l’alto) e viene poi intrappolato dalle serpi. Dante risponde con una invettiva sulla città di Pistoia. Compare velocemente Caco, altro mito classico, Centauro separato dagli altri per la sua attività di ladro (ruba quattro tori e quattro giovenche a Ercole, viene poi da lui ucciso con la stretta delle sue braccia), cerca Vanni per punirlo. Nel resto del Canto Dante e Virgilio sono muti guardando due metamorfosi: un serpente si avvinghia intorno al corpo di un dannato e le loro membra si fondono insieme formando un essere ibrido e mostruoso, si perde ogni aspetto umano; la seconda viene annunciata dicendo che tale prodigio non è mai stato narrato da Ovidio, l’uomo e il serpente si scambiano la natura prendendo l’aspetto dell’altro. Qui i dannati non hanno una vera identità, vengono solo fatti tre nomi: Cianfa Bruneschelli, Agnel Donati, Buoso Cavalcanti. Qui l’uomo perde la sua fisionomia storica e la sua persona, è fuso alla natura ferina del serpente. Canto XXVI Entriamo nell’ottava bolgia destinata ai consiglieri fraudolenti. Il lettore viene avvertito su un argomento importante: bisogna tenere a freno l’ingegno per non essere causa della sua rovina. I peccatori sono racchiusi da fiammelle nascondendolo allo sguardo, come il fuoco del carro che lo rapì al cielo e nascose il profeta Elia agli occhi del discepolo Eliseo. La fiamma che arde in eterno i peccatori è figura della fiamma dell’ingegno di cui fecero cattivo uso. Appare poi una fiamma divisa in due corni, essi sono Ulisse e Diomede. E Virgilio gli chiede di raccontare la sua fine, Ulisse racconta il suo viaggio di ritorno verso le colonne d’Ercole, lasciata Circe e spintosi ai confini del Mediterraneo, allo stretto dove Ercole aveva posto il suo divieto all’uomo, egli esorta i compagni a tentare un’estrema avventura: esplorare il mondo sanza gente seguendo virtute e canoscenza. Avanzati per cinque mesi nell’ignoto mare e giunti in vista di una montagna altissima, vengono investiti da un turbine che travolge la nave e li seppellisce nell’oceano. La madre di Achille sa che se il figlio andrà a Troia a combattere, otterrà sicuramente la gloria ma troverà anche la morte. Lo fa quindi nascondere e travestire da fanciulla. Ulisse lo cerca e giunge sull’isola dove si trova Achille, il quale nel frattempo s’innamora di Deidamia. Ulisse prima di partire lascia dei regali alle fanciulle, e fra queste si trovano uno scudo ed alcune armi. Achille ovviamente sceglie quelli come regali e viene, così, smascherato. Dante sembra quasi ossessionato da Ulisse. Si pensa che il motivo sia che ha paura di essere come lui, cioè che Dio non voglia il suo viaggio e non vuole che torni per poterlo raccontare e farne un esempio di percorso. Canto XXVII Abbiamo appena lasciato Ulisse e Diomedo e le anime sono sempre racchiuse da una fiamma. Incontriamo Guido da Montefeltro che crede che Dante sia appena morto e vuole sapere cosa succede nel mondo dei vivi, ed in particolare in Emilia-Romagna. L’anima era un grande condottiero ghibellino che dedica tutta la sua vita al consolidamento del suo potere, era un grande stratega (azione politica volpina, non leonina, maestro nell’arte della simulazione e della dissimulazione). In età avanzata decide di convertirsi e per espiare i suoi peccati si unisce all’ordine dei francescani. Descrive il peccato da espiare invece che il suo coraggio. Viene però condannato all’inferno da Bonifacio VIII, quest’ultimo (che viene chiamato da Dante “principe dei farisei” perché i Farisei erano una setta di ebrei che dava una rigida interpretazione alla Torah e al tempo di Dante essi erano il simbolo del religioso ipocrita) stava affrontando una guerra interna alla cristianità: Bonifacio VIII era riuscito a far dimettere Celestino V con minacce e pressioni e la famiglia Colonna, quindi, non ritenevano la sua elezione onesta e lo consideravano l’antipapa. La famiglia Colonna si asserraglia in una roccaforte inespugnabile e Bonifacio VIII per sconfiggerli chiede un consiglio fraudolento a Guido da Montefeltro, ormai già Francescano. Guido da Montefeltro capisce subito che questo consiglio è fraudolento e che avrebbe solo acquietato la sete di potere del Papa e si rifiuta. Ma il Papa gli dice che se gli avesse dato il consiglio lo avrebbe assolto ancora prima di darglielo, quindi il suo peccato si sarebbe annullato e da morto avrebbe comunque raggiunto la gloria eterna. Quando Guido muore arriva San Francesco per portarlo direttamente in Paradiso, ma un angelo infernale, che gli era stato vicino da quando aveva dato il consiglio fraudolento, glielo impedisce e lo trascina all’Inferno. Questo per il principio della contraddizione: non si può assolvere chi non si pente e non si può assolvere se il peccato non è stato ancora commesso; la legge del cuore batte la legge formale. Canto XXVIII Siamo nella nona bolgia e qui sono puniti i provocatori di discordie che divisero le comunità umane, religiose, o civili o familiari, e ora sono divisi e lacerati nella loro stessa carne, straziati da un diavolo armato di spada. Questo peccato era tipicamente pubblico e le sue conseguenze erano le ferite più laceranti della città. In questo canto viene creata un’ampia prospettiva storica sulle fazioni comunali del suo tempo. Qui sono puniti gli scandali, o discordie civili, e gli scismi, o divisioni nel corpo della Chiesa. Appaiono due scismatici e quattro seminatori di discordie politiche: Maometto che è diviso a metà dalla spada con le interiora che fuori escono e manda un avvertimento ad un eretico ancora vivo (Fra Dolcino) perché non faccia la sua stessa fine; Pier da Medicina che vicenda, stretti l’uno all’altro per l’odio, che cozzano fra di loro, sono Napoleone e Alessandro degli Alberti, rispettivamente ghibellino e guelfo; uno senza orecchi per il freddo (Alberto detto Camicione dei Pazzi di Valdarno, che uccise il congiunto Ubertino perché avevano delle fortezze in comune) che con le sue parole esprimerà odio e fastidio e denuncerà altre quattro anime: Mordret, figlio di re Artù, che volle togliere il regno al padre e tentò di ucciderlo a tradimento ma venne trapassato dalla spada del padre; Vanni dei Cancellieri di Pistoia, detto Focaccia, di parte bianca e uccise il cugino che era di parte nera; Sassol Mascheroni che uccise il figlio di suo zio per ottenere l’eredità; Carlin dei Pazzi di Valdarno, che è ancora vivo, ma che ha venduto ai neri il castello di Piantravigne che teneva per conto dei Bianchi. Si entra nell’Antenora (colui che aprì lo sportello del cavallo di Troia), dove ci sono i traditori della patria, i peccatori non possono abbassare la testa come nella Caina ma devono tenerla eretta. Qui Dante urta la testa del fiorentino Bocca degli Abati, traditore di Montaperti, che farà altri cinque nomi: Tesauro dei Beccheria, ghibellino ma aiuta i guelfi ad entrare a Firenze; Gianni dei Soldanieri che tradì i ghibellini; Gano di Magonza, il traditore per cui Orlando fu preso nell’agguato di Roncisvalle; Tebaldello degli Zambrasi di Faenza, ghibellino che consegnò la città ai bolognesi Guelfi; fra i due c’è una profonda asprezza, e Dante con violenza lo afferra per la collottola per sapere il suo nome, è un’altra anima (Buoso da Duera, signore di Cremona, fu incaricato dai ghibellini di Lombardia di non lasciar passare Carlo I d’Angiò, ma si fece corrompere) a svelare il suo nome, richiamata dal trambusto. Alla fine del canto troviamo altre due anime nella stessa buca: una rode, come l’affamato addenta il pane, il cranio dell’altra. Canto XXXIII Il conte Ugolino della Gherardesca, signore di Pisa, accetta di raccontare la sua storia e rivivere il suo dolore solo per dare infamia al colpevole. La sua colpa è di aver ceduto dei castelli a dei fiorentini e a dei lucchesi per ottenere un accordo politico, ma il vero motivo per il quale si trova in questo girone è aver tradito Nino Visconti, accordandosi con l’arcivescovo. Fu condannato per tradimento a causa dell’arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini e di altre potenti famiglie pisane, venne chiuso nella torre dei Gualandi (chiamata anche torre della Muda perché vi si lasciavano le aquile a cambiare le penne e che oggi viene chiamata, invece, della fame) con quattro dei suoi figli e nipoti, dove furono lasciati morire di fame dopo alcuni mesi di prigionia. Dopo l’incontro con Ugolino si passa nella terza parte del Cocito, la Tolomea (personaggio biblico, governatore di Gerico, fa uccidere ad un banchetto il suocero e i suoi figli), dove sono i traditori degli ospiti. Essi hanno la testa rovesciata indietro cosicché le lacrime congelandosi fanno un duro schermo di ghiaccio agli occhi. Nonostante l’insensibilità del viso per il freddo Dante sente un vento soffiare. Incontriamo Alberigo dei Manfredi, capo dei guelfi di Faenza (chiede che gli tolgano la visiera di ghiaccio per poter dar sfogo al proprio pianto e avere un po’ di sollievo) che denuncia Branca d’Oria da Genova, e ambedue hanno fatto uccidere i loro ospiti durante un banchetto. Gli ospiti della Tolomea precipitano nell’inferno appena consumato il tradimento, quindi prima di morire, e il loro corpo resta vivo in terra abitato da un demonio; questa idea, che non dà possibilità di pentimento, è data dal passo evangelico in cui si dice che un demonio s’impossessò di Giuda appena lui ebbe mangiato il pane dell’ultima cena. Dante vuole sottolineare la disumanità del tradimento del proprio commensale, la mensa era la figura della comunità di amore fra gli uomini come Cristo la consacrò. L’atteggiamento di Dante continua ad esser spietato e duro nel rispetto dell’umanità che hanno tradito e avvilito. Il canto si chiude con una invettiva contro la città di Genova. Canto XXXIV Le anime qua sono completamente immerse nel ghiaccio. Qui si vede l’apparizione di Lucifero. Da lontano è immenso, sembra un mulino a vento nella nebbia della ghiacciaia. Una volta davanti a lui, esso sembra più una macchina disumana, senza parola e vita; sta confitto nel ghiaccio da cui emerge fino a metà petto e ha tre facce (espressione delle passioni opposte alla trinità), che piangono e le lacrime si mescolano alla sanguinosa bava, di diverso colore: una nera (ignoranza), una rossa (impotenza) e una gialla (odio). In ogni bocca mastica un peccatore: Giuda Iscariota al centro (che viene anche graffiato dal demone), Marco Giunio Bruto e Caio Cassio Longino ai lati (traditori di Cesare; Cesare rappresenta l’impero, cioè la suprema autorità storica da Dio stabilita in terra). Le sue sei grandi ali da serafino sono ora di pipistrello che con l’eterno agitarsi producono il vento che raggela il girone. I due pellegrini escono dall’inferno arrampicandosi sul corpo di Lucifero; Virgilio spiega a Dante che a metà discesa hanno dovuto capovolgersi, mettendo la testa nella direzione delle gambe del demone, perché passavano il centro di gravità del mondo e si trovano quindi ora in piedi sul disco di roccia che forma l’altra faccia della Giudecca, con sulla testa l’emisfero celeste opposto a quello che ricopre le terre abitate; da questa parte cadde Lucifero quando fu precipitato dal cielo e la terra che prima emergeva dal mare fuggì davanti a lui inabissandosi e venne a sporgere nel nostro emisfero e nello stesso momento si formò la montagna del Purgatorio. Risalgono nelle viscere della terra fino all’arrivo in vista del cielo e delle stelle. La figura di Auerbach La figura è qualcosa di reale o storico che rappresenta e preannuncia qualcosa di reale e storico. Il rapporto tra i due è reso possibile attraverso una somiglianza o una concordanza; spesso basta una somiglianza appena accennata, per trovarla, però, occorre una volontà esergetica. Esso è stato creato da Tertulliano, e mirava a vedere nelle persone e nei fatti dell’antico testamento profezie o figure reali nella redenzione del Nuovo. Dal IV secolo in poi la figura si è sviluppata in quasi tutti gli scrittori ecclesiastici latini. E talvolta anche la comune allegoria viene definita “figura”. Così il termine compare spesso nel senso di “significato più profondo”. Agostino lo rende invece un termine comune che si può usare con la natura e gli oggetti in generale, che delinea una certa staticità. Si oppone all’interpretazione puramente allegorica delle Sacre scritture e l’opinione che l’Antico Testamento si possa interpretare esclusivamente escludendo il senso storico-letterale. Decameron - Giovanni Boccaccio Aspetti di Boccaccio Tutta la sua produzione artistica ha alla base il concetto di letteratura come strumento di comunicazione, e la parola svolge un ruolo primario, il quale viene sviluppato in due direzioni: quello della fantasia e dell’esotismo (tradizione bretone) e quello del realismo (sguardo s’un mondo diverso da quello di Dante e Petrarca). La letteratura è una realtà con ripercussioni nel mondo che racconta, offre al lettore due nuovi occhi, offre piacere e gratificazione, oltre all’educazione morale. Il suo realismo ci offre un’enciclopedia della letteratura europea, anche il Medioevo Latino. Si rende conto di quanto per l’individuo sia importante il racconto perché attraverso esso si conosce il proprio io e il mondo. Il Filoloco 1336, recupera la tradizione dei Cantari dalla Francia, la riporta in lingua toscana ed amplia le trame utilizzando le tecniche del romanzo Alessandrino (esso segna il punto di partenza della narrativa moderna). Il Filostrato è un poemetto in ottave (strofa in otto versi con rima AB AB CC CC) utilizzata da Ariosto e Tasso, è la struttura più facile per scrivere le narrazioni. È diviso in 9 libri e riprende i materiali dai Cantari e dal ciclo Troiano. Inserisce forti elementi comici e realistici (anche nella Teseide, intreccia tema bellico e amoroso). Commedia delle ninfee fiorentine 1342 A Firenze cerca di legare la tradizione cortese con quella fiorentina. Temi pastorali in ottica mondana; impone un nuovo canone di bellezza femminile, una bellezza fisica, non angelica come quella stilnovistica, che produce una forte fascinazione erotica. Ninfe fiesolane 1346 Tema rusticale, rappresentazione della realtà contadina oggettiva e diretta, ingenua. Elegia di Madonna Fiammetta 1345 Madonna Fiammetta scrive direttamente alle donne innamorate per consolarle per le loro pene amorose, l’amore è carnale e concreto. Confronto con Petrarca Petrarca si spinge verso la sua interiorità, la narrazione è con sé stesso. Boccaccio, invece, si rivolge verso l’esterno, a parte in determinati momenti, predomina la fabulazione. Petrarca si rende conto che la realtà in cui vive fa parte di un mondo più ampio, e mette le due a confronto con l’aiuto della letteratura antica. Anche Boccaccio lo fa ma ha una visione più municipale. Hamilton 90 Di esso possediamo più originali, si privilegia quindi il manoscritto più tardo quello che presumibilmente raccoglie l’ultima volontà dell’autore; esso è stato scritto intorno al 1370 autografo. Viene chiamato Hamilton 90, perché prende il nome dal Duca di Hamilton, il quale faceva parte della sua collezione privata. Ora si trova nella biblioteca di stato a Berlino. Gli altri manoscritti originali sono stati utilizzati per correggere i suoi errori e colmare le sue lacune, dato che era stato scritto su una pergamena di qualità scadente, e si era deteriorato in alcuni punti, così i suoi possessori, nel tempo, hanno cercato di riempire quei buchi. È stato riconosciuto come autografo solo dal 1930, dal 1800 si considerava solo una copia autorevole. Alberto Chiari, allievo del Filologo dantesco Michele Barbi, studia i manoscritti del Decameron e si fa spedire l’Hamilton 90 direttamente da Berlino. Comprende che è autografo e condivide la scoperta con il suo maestro, ma entrambi tacciono in attesa di poter fornire prove più probanti. Nel 1948 Chiari lo rivela con un articolo su un settimanale letterario. Ma tutti gli studiosi di Boccaccio lo dichiarano impossibile; si accanisce contro di lui specialmente Vittorio Branca, il quale afferma che il manoscritto era eccessivamente pieno di errori banali e fraintendimenti gravissimi per poter essere autografo. Agli inizi degli anni ’70, Branca con Piergiorgio Ricci, un paleografo massimo esperto della calligrafia di Boccaccio, riesaminano il manoscritto e lo sottopongono ad una perizia calligrafa, accorgendosi che è autografo lo datano precisamente. Lo stesso editore Branca produce la sua edizione critica del testo, la quale viene usata ancora oggi. Viene usato per correggere un manoscritto parigino di edizione precedente. Dato È presente una ampia introduzione in cui si descrive la peste, che è il punto di partenza e il contesto che determina la creazione della brigata. È stato sicuramente scritto dopo la peste del 1348, a cui si riferisce l’opera; probabilmente negli anni ’50 del 1300. È scritto per i sopravvissuti che devono ricostruire la società, rifondare i valori, come accade nell’opera. Il Decameron si delinea, quindi, come modello della ricostruzione. Non sappiamo se la brigata alla fine sia sopravvissuta alla peste e quale sia stato il suo destino. La peste è il punto di partenza tragico, essa viene descritta in maniera cruda e dura. Boccaccio giustifica questo registro dicendo che è un evento drammatico, necessario per arrivare alla gioia del racconto (esattamente come con la Commedia, come indicato nella lettera a Cangrande). Regna ormai una totale anarchia, collassa ogni legge e valore, viene meno il rispetto per i morti, decade l’usanza dei riti funebri. La brigata si riunisce per caso davanti alla chiesa di Santa Maria Novella, e l’onnipresenza dei morti schiaccia i vivi. L’onestà è la caratteristica che contraddistingue la brigata in quanto tale. Essi vogliono fuggire i “disonesti esempi”, cioè la decadenza dei valori, e la morte; vogliono conservare e ricostruire la propria onestà. Creano, quindi, una dimensione del piacere e dell’onestà fondata sulla ragione (locus amenus) contro il luogo del male e della disonestà (Firenze). Al centro della loro vita c’è la narrazione delle novelle; è lo strumento che usano per sfuggire alla morte e alla miseria. Il loro nuovo mondo è multiforme, abbraccia classi sociali e personaggi diversi; è un affresco della società che la peste ha spazzato via; rappresenta anche i suoi aspetti più degradati, da cui prende il via il percorso narrativo del Decameron. 1^ Novella Il protagonista è il più spregevole di tutta l’opera: ser (notaio) Cappelletto. Vittorio Branca sostiene che bisogna leggere l’opera come un percorso ascensionale: si parte dal punto più degradato per giungere ai più alti momenti di virtù con Griselda; la primissima e l’ultimissima novella sono le più significative. (Griselda è un esempio quasi irreale di mansuetudine e umiltà). Viene introdotta come parabola per dimostrare quanto sia vano per gli uomini cercare di penetrare il giudizio divino, perché esso è imperscrutabile. Panfilo, il narratore della novella, ci dice che contare solo sui propri meriti non è sufficiente per salvarsi, ma è necessaria la Grazia Divina e le anime beate dei defunti devono intercedere per noi. Questa dinamica di cooperazione salvifica è tipica della religione cristiana. Sir Capparello è un personaggio reale o storico ed è la sintesi di tutti i vizi ed i mali. Esso era un notaio che compilava solo documenti falsi, e si sarebbe vergognato se uno dei suoi documenti fosse risultato veritiero. Si ritrova, molto malato, in casa di due usurai lombardi che sono preoccupati che la morte di un personaggio così scellerato in casa loro possa danneggiare la loro posizione in società. Sir Cappelletto, allora, si confessa falsamente ad un prete e lo convince di esser un uomo pio, mite, umile e virtuosissimo, e afferma che il suo peccato più grave è stato aver insultato una volta sua madre quando era ancora un bambino. Il prete si convince che sia un santo e, dopo la sua morte, lo addita alla venerazione facendolo diventare santo ed oggetto di culto. Il giudizio di questi fedeli è, quindi, profondamente erroneo; non bisogna penetrare il giudizio divino. 3^ Giornata La giornata inizia con lo spostamento dalla villa ad un bellissimo palazzo con un ampio giardino, che viene paragonato al paradiso terrestre. La regina è Neifile e il tema è chi riesce a conquistare con industria quello che a lungo desiderava. C’è una maggioranza di novelle con protagoniste un triangolo extra-coniugale, quindi si può parlare di un sotto tema di amore adulterino. Si sottolinea la perseveranza dell’amante e la pochezza del marito. Il protagonismo femminile è decisivo, e l’eros è trattato anche come forma di vendetta matrimoniale. L’industria più raffinata è attribuita ai personaggi di rango più elevato. 10^ Giornata Il viaggio della brigata dura 14 giorni, però non tutti i giorni vengono dedicati alla narrazione. Il periodo di due settimane fa si che il viaggio si concluda nel giorno stesso in cui è iniziato, cioè martedì: è un percorso circolare. Inoltre, gli uomini e le donne, nella conclusione, si accomiateranno davanti alla chiesa di Santa Maria Novella, la stessa in cui si sono incontrati. Il re è Panfilo e, come Pampinea, che era stata la prima regina, sottolinea il concetto di onestà. È lui a proporre di tornare a Firenze, dicendo che tutti hanno avuto l’onore di governare il regno e vuole evitare che la lunga consuetudine possa trasformarsi in fastidio, e il prolungarsi della lontananza dalla città potrebbe far nascere pettegolezzi o indurre alcuni a voler far parte della brigata. Essendo il tema della giornata le azioni liberali o magnifiche, tutte le novelle rappresentano il rapporto tra almeno due personaggi di colui che esercita la magnificenza e colui che ne viene gratificato. La logica è quella del dono asimmetrico, dove il donatore è superiore al donatario, ed il dono è obbligatorio perché deve corrispondere al valore del donatario. S’instaura una gara di eccellenza tra le imprese che i narratori raccontano. In questa giornata, al termine delle novelle i narratori si soffermano a giudicare il comportamento dei personaggi e a valutare il significato della vicenda narrata. 100^ Novella Questa novella ha avuto, nella storia, un successo enorme anche al di fuori del Decameron, è stata tradotta in latino da Petrarca. Il più basso esempio di virtù è un uomo, ed il più alto è una donna. È un testo ambiguo dal punto di vista morale; le possibilità interpretative sono diverse. È allo stesso tempo una storia virtuosa ed una storia terribile. La figura femminile, Griselda, sopporta i soprusi del marito, il quale è un esempio negativo. Petrarca interpreta la novella in maniera più semplice, per lui Griselda è un esempio di virtù senza chiaro scuri. Il Marchese di Sanluzzo è esortato dai suoi vassalli a prendere moglie, e alla fine cede alle loro richieste. Però decide di prendere in moglie non una aristocratica od una donna che gli avrebbe permesso di stringere alleanze ed aumentare il proprio potere, ma sceglie una moglie apparentemente virtuosa ma di bassissimo rango sociale. Il Matrimonio risulta felice, perché Griselda è dotata di ogni qualità che un marito possa desiderare. Ma il Marchese decide lo stesso di metterla alla prova: le sottrae i due figli e la madre facendole credere di averli uccisi (in realtà li fa andare a Bologna), poi la ripudia e la scaccia da casa facendole indossare solo la camicia da notte rispedendola nella sua vecchia casa in campagna. Lei sottostà ogni volta alla volontà del marito. Lui poi le comunica che sta per prendere una nuova moglie e le ordina di sistemare la casa in vista del suo arrivo, lei ubbidisce ancora una volta. Alle fine arrivano i suoi figli e lei può tornare ad essere la legittima moglie del Marchese, quindi si riforma la famiglia. Ed è questo il premio per la sua virtù. Il lieto fine è oscuro. Il Marchese crudele viene criticato apertamente dai suoi vassalli, e lui stesso è consapevole della sua posizione. Dioneo, il narratore, lo presenta non come modello di altissima virtù, ma come ante exemplum. Quella del Marchese è una matta bestialità, anche lui viene, però, premiato nonostante non sia un modello positivo: solo Griselda merita il lieto fine. La virtù, quindi, non corrisponde alla bontà di sangue. Motolese Boccaccio Nel Decameron sono inseriti molti momenti di agnizione: un personaggio per molto tempo creduto diverso, rivela la sua identità all’improvviso e capovolge la storia. Canzoniere - Francesco Petrarca Aspetti di Petrarca 1. Bilinguismo: netta scissione tra latino e volgare Entrambe testimoniano il «valore» dello scrittore, ed hanno bisogno di estrema cura (niente può essere lasciato a caso). Latino: è la lingua usata per la propria immagine ufficiale, la propria fama di uomo di cultura. Petrarca lo utilizza sia in versi che in prosa. Cerca di ricondurlo a una limpida forma classica; di imporre un latino equilibrato e armonico come lingua internazionale dei dotti. Il latino vuole trasmettere anche l’idea della superiorità dell’Italia e di Roma su tutta l’Europa (il latino è considerato spontaneamente più importante, più nobile; Petrarca si riferisce spesso della sua produzione in italiano come a delle nugae, sciocchezze, inezie di poco conto). Volgare: adozione del volgare toscano della recente tradizione lirica amoroso, ma lo allontana dall’orizzonte municipale e comunale e dunque dalle forme borghesi e popolari. Come per il latino, il volgare deve diventare una lingua pura e assoluta, per essere in grado di elevarsi al di sopra delle contingenze del quotidiano e capace di cogliere anche le più piccole sfumature dell’anima. 2. Filologia e Umanesimo Scrivere significa comunicare con gli «uomini» del glorioso passato classico, imitarne forme, modi linguistici e stilistici. Dei grandi scrittori latini, Petrarca predilige Cicerone per la prosa e Virgilio per la poesia. Tuttavia, lo scrittore moderno non deve seguire lo stile particolare di un singolo scrittore, ma trarre frutto dall’insegnamento di tutti quegli antichi che hanno qualità, misura ed equilibro (per esprimere questo aspetto Petrarca utilizza la metafora dell’ape che ricava il miele da diversi fiori mescolandone i profumi). 3. Il cosmopolitismo La figura del Petrarca è rivoluzionaria rispetto a quella degli intellettuali del suo tempo, rifiuta ogni dimensione municipale e comunale ed abbraccia un orizzonte cosmopolita; Il mondo dei dotti non conosce confini e si identifica con l’intera Europa. Tuttavia, si tratta di un cosmopolitismo carico di irrequietezze e contraddizioni: Petrarca viaggia in tutta Europa ma esprime nostalgia per una “patria”, che identifica con l’Italia, madre della latinità linguistica, letteraria e civile (virtus romana); L’Italia e Roma (ideale di romanitas) diventano in lui portavoce degli ideali di giustizia, virtù e civiltà. Ma il poeta, alla ricerca di gloria poetica e sicurezza, finisce per accettare la protezione di regimi “tirannici”, ricevendo sicurezza economica e riconoscimenti pubblici. 4. L’umanesimo cristiano Petrarca rifiuta i sistemi filosofici, e per questo è ostile alla cultura scolastica; si parla di filosofia morale. Essa si basa sulla necessità di rispondere a questa domanda: è possibile conciliare culto della classicità e cristianesimo? Petrarca ci riesce, scoprendo la continuità tra pensiero antico e pensiero cristiano attraverso: Sonetto 1 Ha funzione di prologo ed emergono i seguenti aspetti:  Presenta il senso complessivo dell’esperienza amorosa dell’opera.  Scritto quando il progetto di costituzione dell’opera era già avanzato.  È sia prologo che epilogo.  Espone il carattere retrospettivo dell’opera, riflessione del passato. Le rime sparse sono i frammenti che raccoglie. L’opera è dominata da due Francesco: quello che parla adesso (uomo maturo) e quello del passato (giovane innamorato); l’esperienza passata (l’amore per Laura) è erronea e vana, ne fa una cronaca e raccoglie i testi che furono testimonianza del giovenil errore. La seconda parte riflette sui suoi errori e cerca di distaccarsene per poterli correggere ma spesso ci ricade. Per Dante sarebbe stato impossibile non amare Beatrice, al massimo avrebbe potuto essere sbagliato il modo e l’intensità, per lui l’amore era la forza motrice della salvezza. Per questo errore, Petrarca, invoca la pietà dei lettori che abbiano esperienza dell’amore (vanità della speranza e del dolore). La seconda parte del sonetto riprende la seconda parte dell’opera. La vergogna deriva dalla consapevolezza dell’errore compiuto. Petrarca parla dell’accidia e della tristezza che l’amore comporta, amore che impedisce di realizzare ciò che vorrebbe e dovrebbe un uomo. Il dolore del presente si basa sul pentimento ed è un dolore potenzialmente salvifico. È un dialogo fra l’autore e i lettori, non si parla in nessun modo dell’amata donna, la protagonista del racconto; la presenza di Laura, le sue doti e qualità sono riassorbite da “ciò che è vano”. Sonetto 3 Rievoca il fatale primo incontro con Laura, il 6 aprile 1327; è il giorno del venerdì santo: è eclatante la manipolazione delle date, non era venerdì santo e quasi sicuramente neanche venerdì. Qui Petrarca si rivolge direttamente a Laura. Il testo è ambiguo a causa del rapporto instituito fra l’amore terreno e il dolore per la morte del Redentore. Il dolore individuale s’inserisce in quello comune, ma in realtà c’è un grande contrasto fra il suo dolore e quello della comunità dei Cristiani: lo pone in una situazione di isolazione, dovrebbe provare dolore salvifico e invece pensa a quello peccaminoso e carnale (lo stesso punto di vista torna nel sonetto 16). A Petrarca, quel giorno non sembrava un’occasione in cui doversi riparare dall’Amore, ma esso trova facile via attraverso i suoi occhi, viene rapito dagli occhi di Laura, lo imprigionano. Laura ne esce indenne, ma solo disonorata per l’attacco sleale. L’ardita miscela di sacro e profano comincia qui e sarà presente per tutta l’opera. Lirica 5 Questo sonetto intona la laudes sanctae Laureae, e per la prima volta Laura è celebrata con l suo nome, prodigioso di significazione e di allusività. Secondo le regole dell’amor cortese esso non viene pronunciato apertamente ma svelato al lettore attraverso la doppia sciarada, con le sillabe inziali delle tre parole che configurano la donna: la lode, la regalità e il tacere di fronte all’ineguagliabile essenza di lei. Solo pronunciare il suo nome scatena lode e reverenza e lei è degna di venerazione e gloria. Apollo, dio della poesia e del sole, si adira se una lingua mortal osa glorificare la sua prediletta; Laura rappresenta l’alloro e la corona poetica. Ballata monostrofica 11 Questa poesia è leggera e sinuosa come un velo (parola che ricorre tre volte), il motivo del velo, reale e metaforico, diventa quasi una chiave d’accesso, che coinvolge tanto il racconto quanto i suoi criptati modi espressivi. Parla di una donna che cela con il velo i propri capelli biondi e la luce dei suoi occhi all’amante, appena ne conosce i dolci pensieri. In un primo momento Laura sembra capace di pietà e corrispondere i sentimenti dell’amante, ma poi diventa silenziosa e piena di riserbo coprendosi con il velo e lo sguardo che induceva ad amare viene sottratto all’amante. Sonetto 16 Petrarca ci propone l’immagine di un anziano pellegrino che lascia la propria famiglia per mettersi in cammino verso Roma per vedere la Veronica, o “vera icona” di Cristo, con cui la Madonna avrebbe asciugato il volto di Cristo e in questo telo si possono scorgere i tratti del suo volto. Andare a vederla concedeva al pellegrino una visione della beatitudine che avrebbe goduto in cielo. Nell’ultima terzina si concentra sull’io del poeta e paragona la sua situazione d’innamorato che cerca nei tratti delle altre donne di ricostruire quella dell’amata a quella del pellegrino. Entrambi sono lontani dall’oggetto del loro desiderio ed entrambi sperano in una visione più perfetta. Alla donna amata viene attribuito il valore di Cristo; l’ossessione amorosa è equiparata a quella del pellegrino. Le altre donne, come la Veronica, rimandano ad una forma vera. Il sonetto si chiude con l’immagine assente della donna amata. L’esaltazione e la trasvalutazione teologica dell’esperienza amorosa. Non è presente un suo giudizio, vengono accostati due ambiti, non si prende in considerazione l’ipotesi che l’ultima terzina descriva un’esperienza erronea e condannata. Una è un modello positivo, l’altra una da censurare. Ad oggetto divino se ne contrappone uno mortale. (Dante personaggio è in pellegrinaggio sia verso la visione di Beatrice che verso quella di Dio, e la visione di Beatrice permette e conduce a quella di Dio), esperienza tipica della tradizione lirica cortese. Non può contemplare direttamente il suo volto perché è assente e quindi ricorre a questo stratagemma; l’assenza di Laura è la condizione che definisce il rapporto fra i due, ella è assente già prima della sua morte. Sonetto 35 È una rappresentazione dell’amante inselvatichito, in fuga dai propri simili, solo e pensoso, che manifesta una concentrazione amorosa e dolente, percorrendo ossessivamente i campi con passi lenti e accidiosi. Vuole scappare dalla gente per proteggere il proprio riserbo, dato che sente che gli altri possono leggere come dentro lui avvampa al pensiero di Laura. Viene introdotto il tema della malinconia, angosciato da un tedio che solo Amore può alimentare e condividere, in un rimbalzo di pensieri ossessivi (spleen romantico), e Amore diventa quasi un doppio di Petrarca. Nell’ultima terzina manifesta un chiaro riferimento ad una terzina dantesca (inferno XIII) Madrigale 52 È il primo madrigale dell’opera ed è il più antico madrigale della letteratura italiana. Viene applicata la fabula mitologica di Diana e Atteone (l’ignaro cacciatore venne trasformato in cervo dalla dea dopo averla contemplata nuda nell’acqua di una fonte, e poi lui viene dilaniato dai propri cani) all’umano incontro del protagonista con Laura, intenta a bagnare in un fiume il velo (ritorna il tema del velo, simbolo del doppio senso, letterale e allegorico) che le protegge i capelli dalla brezza. La chiama pastorella (che è anche una forma poetica medievale in cui un cavaliere conquista il cuore di una pastora) per l’atto umile che sta compiendo. Sonetto 61 C’è una anaforica benedizione, alla maniera dei Salmi biblici, di ogni istante, modo, luogo dell’amore, è quasi un augurio di eternità che l’Io lirico formula anche per sé e per le proprie rime. Probabilmente il componimento segue la morte dell’amata per le allusioni alla data sacra del 06.04.1327, potrebbe anche essere un sonetto di anniversario. Sonetto 90 Si apre una visione del passato con una Laura-dea con i capelli d’oro mossi dalla brezza che li avvolgeva in morbide volute (si ricalca l’immagine di Venere cacciatrice che incontra Enea) e con un certo lume negli occhi che era presente al loro primo incontro ma che ora non c’è più (forse un componimento di anniversario). Non camminava come creatura umana ma come spirito angelico e le sue parole avevano un suono diverso dalla sola voce umana. Anche se lei non è più la stessa, la ferita di freccia non guarisce se pure l’arco, dopo averla scoccata, torna ad allentarsi. Viene contrapposto l’amore incontrollabile alla forza corrosiva del tempo, si segna la continuità fra un passato divino e un presente immutabile e venato di rimpianto. Canzone 126 Canzone divisa in 5 stanze, composte da settenari ed endecasillabi, più un breve congedo. L’immagine oscilla fra l’immaginazione del futuro e il ricordo del passato, esse vengono descritti con la nettezza della realtà (niente è più o ancora possibile, ma è solo illusoria compensazione della solitudine del presente). Laura, donna e dea, è ritratta nella sua carnalità che si dissolve in natura ed è, allo stesso tempo, proiettata in una dimensione paradisiaca. È una ricerca del tempo perduto che ritrae in un medesimo quadro l’innamorato e l’amata, eternati in una visione che, anche se filtrata dai sacri bagni mitologici di Diana e Aretusa, forse significò qualcosa anche per l’empirica vita di Francesco e Laura; quel ricordo appartiene per sempre soltanto a loro e a noi giunge solo un’altissima e velata rievocazione. Immagina il momento del suo trapasso, in cui Laura trova la sua tomba e venga ispirata d’Amore e con i suoi sospiri dolci ottenga per lui la Grazia del cielo per le sue colpe. Da una parte abbiamo, quindi il ricordo lontano di una visione di Laura che è immersa nelle acque della Sorgue in una divina nudità, dall’altra il presagio della morte del protagonista pianto da Laura, che è umile, nonostante il trionfo quasi paradisiaco che i fiori creano intorno a lei, con i capelli cosparsi di fiori bianchi tanto che i suoi capelli sembravano composti di oro fino e perle. Canzone 128 È un solenne testo politico, che viene citato sia da Leopardi che da Macchiavelli. Pur consapevole della portata retorica del suo messaggio ai Signori italiani, ha in mente oltre al riscatto in armi della penisola anche l’invito alla pace e alla pietà dei magnanimi; l’invocazione all’Italia è ispirata a Dante (Purgatorio VI). All’appello alla concordia rispondono il lamento per le sfortune del presente e la deprecazione delle guerre fratricide; contempla tono d’invettiva contro il furore e la gente ritrosa che alimentano con il proprio sangue le discordie degli italiani, ma tocca anche momenti di meditazione quasi religiosa, con l’esortazione ai potenti, superbi del proprio stato. L’occasione contingente della poesia è la guerra combattuta fra il marchese Obizzo d’Este e i Gonzaga, per il possesso di Parma, con ampio concorso di milizie mercenarie (cerca di convincere i signori italiani a non farne uso). Inaugura la metafora dell’Italia, con ferite insanabili, come bel corpo femminile; invoca Dio chiedendogli di diffondere le parole di Petrarca per far conoscere il Suo vero, in modo da addolcire la guerra, che si combatte per futili motivi, che inasprisce e chiude il dialogo. Alla fine, ci rimette sempre il più buono, e tutto questo è colpa dei discendenti di quei barbari, i quali il condottiero romano Caio Mario sgominò, tanto che il ricordo di quella sanguinosa vittoria non si è ancora estinto. Si domanda quale volontà divina voglia che si abbia in odio il vicino povero, di accanirsi contro le sue fortune devastate e assoldare un esercito straniero della sua vita, ciò che brucia di più a Petrarca è aver usato male il tempo che gli è stato concesso, amando una creatura mortale e non facendo fruttificare i propri talenti. Infatti, l’amore esclusivo per Laura l’ha incatenato a terra, impedendogli di spiccare il volo verso le cose di Dio, quelle per cui, secondo Agostino, l’uomo è stato creato e senza le quali è condannato ad una perpetua inquietudine. Si rivolge a Dio, che vede i suoi peccati non degni di un uomo e offensivi verso di Lui, e lo invoca in soccorso, conforto e salvezza, gli chiede di soccorrere quest’anima smarrita nei meandri del peccato e incapace di uscirne per la sua fragilità. Supera le vane speranze, affermando che il suo dimorare in questa vita è stato priva di senso e ripone le sue speranze in Dio, perché renda l’ultimo periodo della sua vita o almeno la sua morte dignitosa. Canzone 366 Si rivolge alla Vergine Maria, invocandola, la chiama “vera Beatrice”, la contrappone alle false beatrici della tradizione stilnovistica; riduce Laura ad una cosa mortale, la descrive come una Medusa che l’ha pietrificato. Avrebbe dovuto amare la Vergine Maria che è degna di questo amore. Parla della consapevolezza della morte amata; è un epitaffio a Laura e scandisce la futura memoria data alla sua morte. Esprime l’illusione della presenza e la consapevolezza della morte. Un testo profano termina con una canzone religiosa, la Vergine viene invocata come mediatrice di grazie; essa è esaltata con parole venerabili, è la vergine saggia che può proteggere le afflitte gente contro le offese della morte e della fortuna, è la stella del mare in grado di condurre in porto i naviganti attraverso le acque pericolose della vita. Il suo nome è invocato 21 volte, come il numero di anni in cui Petrarca è stato schiavo d’amore. Lui si ritrova in sofferenza per aver dedicato il suo amore solo a Laura; è determinato ad un radicale cambiamento di vita e spera che almeno il suo ultimo pianto sia animato da devozione sincera e non da follia amorosa e promette di consacrarle tutto sé stesso e le proprie opere. Maria offre un nuovo modello di femminilità: accogliente, protettiva, dispensatrice di vita e di speranza. Il libro si era aperto nel segno di una vergogna malinconica e irredenta e si chiude ora con l’aspirazione alla vera pace. Il Principe - Niccolò Macchiavelli Le guerre d’Italia In Europa si formano le monarchie nazionali. In Italia sussiste una frammentazione politica:  1492: morte di Lorenzo de’ Medici e fine della politica dell’equilibrio.  Ambizioni di egemonia dei singoli stati italiani;  1494: Carlo VIII re di Francia, chiamato da Ludovico il Moro, scende in Italia; i Medici si oppongono e vengono cacciati da Firenze; dopo la parentesi teocratica di Savonarola, si forma la Repubblica di Firenze guidata da Soderini.  Luigi XII re di Francia avanza pretese sul ducato di Milano.  Papa Giulio II interviene nella guerra per: Consolidare il potere temporale; Contrastare l’egemonia della Repubblica di Venezia (Lega di Cambrai, 1508).  1512: per volontà di Giulio II e della Lega Santa, cade la Repubblica fiorentina e i Medici rientrano a Firenze. Macchiavelli uomo politico Conoscenze dirette delle dinamiche politiche del suo tempo: • 14 luglio 1498: viene eletto segretario della magistratura dei Dieci di libertà e pace (funzione di grande responsabilità che gli garantiva il controllo di gran parte della vita politica della Firenze repubblicana); • Svolge numerose missioni diplomatiche in Italia e in Europa: questi viaggi gli consentono di acquisire una profonda conoscenza delle strutture statali e militari del tempo. Tra queste importanti missioni si ricordino: dicembre 1500 (in Francia presso Luigi XII); gennaio 1502 (presso Cesare Borgia, il duca Valentino); nel 1503 si trova a Senigallia quando il Valentino stermina a tradimento i suoi rivali: episodio di spregiudicatezza politica che desta in lui grande impressione. • 1512, cade la repubblica e Machiavelli viene licenziato da tutti gli incarichi pubblici. • L’anno seguente, sospettato di complicità in una congiura antimedicea, viene arrestato, torturato e tenuto prigioniero per quindici giorni. Dopo di che si ritira a vita privata, nell’attesa che i Medici lo chiamino almeno a «voltolare un sasso». Scrive in questo periodo le sue opere più importanti: • - Il principe (dal 1513); • - Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (1513-1516); • - Mandragola (1518); • - Dell’arte della guerra (1521); • - Istorie fiorentine; Clizia (1525). De Principatibus È un testo rivoluzionario in ambito politico: si pone in contrasto alla tradizione del pensiero politico; si propone di esaminare la sua realtà descrivendola per ciò che realmente è e non ciò che dovrebbe essere. Propone di dare pragmaticamente ai principi, cioè i governanti, la consapevolezza degli strumenti per governare e mantenere il proprio potere. Considera la politica l’espressione dei desideri, pulsioni e ambizioni umane; la sua è una prospettiva disincantata e un’antropologia pessimistica. Lettera a Francesco Vettore È la sua prima testimonianza di scrittura datata 10/12/1513. È un documento importante riguardo la composizione del Principe (il vero titolo è De Principatibus), dichiara di averlo già concluso, anche se è improbabile, e qui delinea una scaletta dell’opera. Francesco Vettore era l’ambasciatore fiorentino presso il Pontefice, e Macchiavelli era in esilio da Firenze perché erano rientrati i De’ Medici, e quindi risiede nella sua tenuta di campagna presso San Cascione, quindi non lontanissimo da Firenze. Sia la lettera che l’opera hanno l’intento di riconquistare la grazia dei De’ Medici per porre fine all’esilio. Nella tenuta di Campagna si dedica a varie attività dato che non aveva più l’impegno della vita politica; ed è proprio qui che scrive l’opera. Nella lettera descrive la propria giornata che si divide in due momenti contrapposti:  Gli ingaglioffamenti in cui s’intrattiene in osteria con compagni vili e disprezzabili in attività vili e disprezzabili (giocando d’azzardo). Questo mostra come una vita senza occupazioni degne si degradi.  Con un cambiamento totale di registro, descrive la sua entrata nello scrittoio, luogo di occupazioni degne, in cui può essere sé stesso e attuare il rito di purificazione rivestendosi di panni curiale ed entrare nel consorzio dei grandi spiriti dell’umanità. Qui conversa con i grandi spiriti del passato, cioè riflette sui grandi testi. E l’opera è il risultato della trascrizione di questo dialogo. Nel protagonista avviene una metamorfosi e si libera dei limiti della propria esperienza reale. Problemi dell’edizione critica Essa è stata redatta da Giorgio Inglese. Lo stemma dei codici non può essere completato con certezza, sono possibili diversi soluzioni. Si presuppone che ci siano tre tradizioni D, G e Y. Y è un archetipo che non possediamo ma che possiamo ricostruire e alla sua famiglia appartengono la maggior parte dei manoscritti rilevanti. Però potrebbe esserci un ramo tripartito come potrebbe essercene uno bipartito, l’unica cosa di cui siamo certi è che D e G non dipendono da Y. Potrebbe non esistere solo un originale; Inglese ipotizza che ce ne siano due: dal primo discende la tradizione Y; invece, dal secondo, che è quello più recente, discendono D e G. Si tende quindi a privilegiare questi ultimi due e soprattutto la loro concordanza. L’Edizione Critica proposta da Inglese, è un’edizione provvisoria, non incontrovertibile e sono possibili versioni differenti. Inoltre, alcuni manoscritti sono stati contaminati dall’edizioni stampate e sussiste anche il problema della poligenesi di errori. La dedica Il dedicatario dell’opera è diverso rispetto a quello annunciato nella lettera a Francesco Vettori; quindi non a Giuliano De’ Medici ma a suo nipote Lorenzo (zio, non nonno). Non sappiamo con esattezza quando viene donato il libro, forse nel 1516-17; nel suo epistolario non c’è nessuna indicazione in merito. La sua strategia per essere reintegrato nella vita politica fallisce. In questa dedica l’autore rivendica lo stile in cui l’opera è scritto: non vuole essere un esercizio di retorica ampollosa con una piacevolezza estetica, ma è efficace, asciutto e rapido. Condensa la sua esperienza come funzionario e uomo politicamente attivo e come persona che ha vissuto e studiato dai libri antichi le azioni degli uomini grandi; non descrive le caratteristiche del principe con presunzione, ma proprio perché essendo un impotente può essere più oggettivo: per descrivere un soggetto c’è bisogno di una certa distanza, non bisogna impersonificarsi. Capitolo I – XI Vengono classificati i vari principati in:  Ereditari – Capitolo II, nei quali la stirpe del signore è stata a lungo dominatrice. Essi sono facili da mantenere perché basta non cambiare gli ordinamenti dei suoi predecessori e temporeggiare con gli accadimenti occasionali per non prendere decisioni precipitose, a meno che non si verifichi un evento eccezionale che lo privi del suo dominio. Il principe sarà benvoluto perché non dovrà vessare i suoi sudditi. Grazie al perdurare del dominio vengono dimenticate le ragioni della rivoluzione, perché esse lasciano un margine di scontento che poi alimenta la rivoluzione seguente.  Nuovi - Capitoli VI VII VIII & IX, si insiste su questi ultimi: come un principe può instaurare il proprio potere. O sono tutti nuovi come il Ducato di Milano per Francesco Sforza o sono nuove conquiste che si aggiungono al principato ereditario come il Regno di Napoli per il re di Spagna. a) I principati che si ottengono con le proprie forze. Il sistema feudale è pericoloso perché i sudditi si affezionano al signore più che al re; inoltre, i feudatari sono pronti a sostenere i colpi di stato. I principi vi risiederanno senza difficoltà e integreranno nuovi ordini e modi per garantire la loro sicurezza; se agiscono da soli hanno più facilità nell’introdurre nuovi ordinamenti piuttosto che debbano ricevere l’approvazione di altri. Un principe nuovo deve scegliersi una milizia fedele e degli alleati potenti. b) I principati che si ottengono con la fortuna si mantengono difficilmente; la loro instabilità dipende dalla volubilità della fortuna e dalla volontà di chi ha • Qualità necessarie per dominare un universo politico che è sempre mutevole: il principe deve prendere atto, con realismo, di tutti quei mezzi che gli permettono di far fronte alle insidie che si nascondono nei rapporti tra gli uomini. • Tema della reputazione: per ottenere il consenso dei sudditi è necessario imporre la propria reputazione; gli uomini infatti credono spontaneamente a ciò che si vede esteriormente: l’apparenza e l’illusione acquistano valore di forza politica per mantenere il consenso. • Definizione del principe savio: non deve limitarsi ad essere dotato di tutte le qualità moralmente positive; infatti, se le circostanze lo richiedono, deve sapere assumere anche comportamenti moralmente negativi. Saper essere dunque, al tempo, pietoso e crudele. Capitolo XV I contenuti rivoluzionari dell’opera si ripropongono di ribaltare lo sguardo sulla politica che viene idealizzata. In questo capitolo si interroga sui motivi per i quali i principi vengono lodati o biasimati; un principe deve capire quando può essere non buono e quando no. Bisogna andare dietro alla verità e non all’immaginazione di essa. È implicita la polemica contro l’Umanesimo e i grandi classici con cui dialoga nel suo scrittoio; ribalta le conclusioni dei grandi autori e utilizza gli stessi argomenti e metafore che hanno usato loro. È necessario parlare di come si vive e non di come si dovrebbe vivere, la maggiorparte degli uomini non è buona e il principe non può agire seguendo precetti che presuppongono la bontà degli uomini; il principe potrà abbandonarsi ai vizi che non compromettono l’integrità dello stato, e i vizi ammissibili per un privato cittadino sono diversi da quelli per il principe. Capitolo XVI La liberalità, se dosata correttamente, non sarà troppo manifesta e non varrà al principe la nomina di avaro; il principe troppo liberale, alla fine impoverito, dovrà ridurre le proprie suntuosità e vessare il popolo inimicandoselo. Deve avere cura dei propri beni ed ignorare di essere considerato misero da quei pochi che avrebbe dovuto premiare con elargizioni; essere avaro è uno di quei vizi che gli permettono di regnare. Elargire il bottino di guerra per premiare aggiunge reputazione, dissipare il proprio denaro è dannoso. Capitolo XVII È meglio essere considerati pietosi piuttosto che crudeli, ma questa pietà non va usata male. Il principe non deve, per eccesso di timore, prestare fede ad ogni voce di complotto e reprimere avventatamente dove non c’è niente da reprimere; deve agire con prudenza e umanità. Ma gli uomini hanno meno rispetto ad offendere uno che si faccia amare piuttosto che uno che si faccia temere; gli uomini manifestano amore a proprio piacimento, mentre provano paura se il principe si mostra temibile, quindi sta tutto all’abilità del principe, l’importante è non essere odiato. Capitolo XVIII In questo capitolo, attraverso le metafore del centauro, della volpe e del leone, Macchiavelli fa emergere le caratteristiche che il principe deve avere; queste emergono analizzando una specifica questione, cioè di come i principi debbano rispettare i patti e mantenere la parola data: essa va rispettata solo se è vantaggiosa per il principe o non gli reca danno. L’autore spiega che esistono due modi di agire politicamente: le leggi e la forza di diritto (che sono fondati sulla ragione che è strumento proprio dell’uomo) e la forza bruta (che agisce a prescindere del diritto ed è propria delle bestie); entrambi sono necessari perché si reggono a vicenda. L’uomo è, quindi, un ibrido come il centauro, in lui si mescola il ferino all’uomo. Con la metafora del centauro emerge che la parte bestiale si divide in due: l’aspetto ferino e l’astuzia (frode inganno); è la frode il tema centrale del discorso, perché il fine del capitolo è di legittimarla. Nel corso del ragionamento la parte umana scompare, ma la frode è un aspetto tipicamente umano, anche se rappresentato dalla volpe, quindi l’aspetto umano riemerge degradato. Diventa quindi essenziale sapere ingannare e viene preso come esempio positivo Papa Alessandro VI Borgia perché è abile nell’inganno. La conclusione del capitolo risulta quindi palesemente in contrasto con la morale della sua epoca. In questo capitolo cita e stravolge completamente due testi: 1. De officis I, Cicerone. Cicerone si pone lo stessa problema di Macchiavelli “pacta sunt servanda” ma la sua risposta è opposta, nemmeno nella situazione più estrema si può legittimare la mancata osservanza della parola data. Macchiavelli riprende le stesse parole e i ragionamenti, infatti all’inizio sembra che anche Cicerone legittimi l’uso della forza, ma solo nel caso di eccezione alla regola: la forza bruta è legittima quando non ci si può avvalere della ragione, quando è l’unica soluzione. Macchiavelli lo rende invece la regola, quindi di uso frequente. Secondo Cicerone la frode è più odiosa ed indegna della violenza e l’ingiustizia più detestabile è quella di chi più ti inganna più cerca di apparire un galantuomo. 2. Canto XXVII Inferno, Dante Alighieri. Qui Guido da Montefeltro ha dato al papa Bonifacio VIII lo stesso consiglio che da Macchiavelli nell’opera: ai tuoi nemici devi promettere patti che non manterrai. Capitolo XIX Il principe deve fuggire quelle cose che lo rendono odioso, come essere usurpatore della roba e delle donne dei sudditi. Il principe apprezzato e stimato dei sudditi è magnanimo, coraggioso, serio, d’animo fermo e che prende decisioni irrevocabili. Se le truppe sono ben organizzate sarà facile trovare degli alleati, i rapporti esterni si riflettono sulla situazione interna, ad eccezione della congiura; se si è amati dal popolo non ci saranno congiure perché essi vogliono soddisfare il popolo, non fargli torto. Macchiavelli sostiene che il parlamento avrebbe una funzione di equilibrio tra le forze sociali in campo, perché eviterebbe che il principe diventi oggetto d’odio del popolo. È impossibile governare senza suscitare qualche sentimento d’odio, quindi bisogna scegliere da chi è più sicuro farsi odiare, meglio una classe disarmata. Il principe troppo permissivo con le proprie truppe e incapace di tutelare la propria dignità perde il rispetto di esse, i militari diventano incontrollabili e il popolo oppresso gli si inimica. Capitolo XX – XXIII Castelli fortificati e strategie difensive; Grandi imprese e neutralità; Segretari, Ministri e Adulatori. Capitolo XX Macchiavelli come soluzione al problema di stabilità istituzionale dei territori conquistati suggerisce di costituire un esercito con una parte del popolo conquistato, in modo che essi ottengano dei vantaggi e siano fedeli al principe. Ma se si aggiunge un territorio nuovo ad uno vecchio, bisogna disarmare quello nuovo. Per quanto riguarda la questione se è bene alimentare o meno le fazioni popolari in lotta nella città, è meglio, soprattutto in caso di guerra, che esse mettano da parte le divergenze poiché se divise, non potrebbero mai reggere agli attacchi dei nemici. È necessario avere un rifugio sicuro per difendersi da un aspetto interno, rivolta, e da uno esterno, attacco improvviso. Però più della fortezza, è più sicuro non avere il popolo come nemico. Dunque, è lodevole sia l’edificare fortezze che il non farlo, basta che non si riponga fiducia solamente nel loro impiego, ma anche nel proprio popolo. Capitolo XXI Un Principe è stimato anche quando si presenta come vero amico e vero nemico, cioè quando si rivela in favore di qualcuno contro un altro. Infatti, restando neutrali si è sempre preda di chi vince con piacere di colui che è stato sconfitto. E sempre succederà che chi non ti è amico ti chiederà di essere neutrale e colui che ti è amico ti chiederà di unirti a lui con le armi. Perciò se un Principe si schiera da una parte che si rivela quella vincente, anche se il suo alleato è potente si creerà un legame di natura affettiva. Mentre se si schiera da una parte che si rivela quella perdente, egli verrà accolto come compagno di una fortuna che può risorgere. In più se entrambe le fazioni non sono temibili, il Principe deve a maggior ragione schierarsi così da poter tenere sotto controllo il vincitore (che senza di lui probabilmente non avrebbe vinto) e determinare la rovina dell’altro. Quindi, un Principe non deve mai allearsi con uno più potente di lui, tranne se necessità lo costringe. Un Principe deve mostrarsi anche amante delle arti e dei mestieri, ospitandone a corte i maggiori esponenti. Inoltre, deve fare in modo che i propri sudditi non debbano preoccuparsi di guadagnare denaro col proprio lavoro, per poi vederselo sottrarre con le tasse, anzi deve incentivarli a intraprendere nuove attività. In più deve far divertire i suoi sudditi con spettacoli e talvolta partecipare alle riunioni delle loro associazioni mantenendo intatta la propria dignità, perché questa non deve mai mancare. Capitolo XXII La scelta dei propri ministri è importante, se il principe è savio essi saranno idonei e fedeli; essi devono esaltare le opere buone e correggere quelle tristi. Il cattivo ministro di cui non ci si può fidare è quello che pensa sempre prima a sé e che ottiene il suo tornaconto, deve, invece, pensare sempre prima al principe. Il principe, per tenersi il ministro buono, deve onorificarlo e arricchirlo, ma anche renderlo partecipe alle triste decisioni, in modo che s’inimichi il popolo e abbia bisogno della protezione del principe. Capitolo XXIII Gli adulatori sono in tutte le corti, e gli uomini si compiacciono delle proprie cose e quindi difficilmente si difendono da loro. Bisogna circondarsi di uomini savi e chiedergli di parlare liberamente; il principe deve ascoltare le loro opinioni ma poi prendere le decisioni da sé. Capitolo XXIV Tratta dei motivi per i quali i principi italiani persero i loro stati; essi non devono accusare la fortuna ma la loro ignavia. Non avevano pensato che sarebbero potuti arrivare dei tempi avversi, e quando sono arrivati sono fuggiti invece che difendersi e speravano di essere poi richiamati dai popoli che avevano perduto. Nell’analizzare le cause del crollo dei principati in Italia, Machiavelli ne individua due: Ignavia e Incapacità di prevedere i mutamenti. Capitolo XXV Si affronta il tema del rapporto tra virtù e fortuna. Il libero arbitrio governa metà della nostra vita, e la fortuna la parte restante. Le guerre inaugurate dalla discesa in Italia di Carlo VIII mostrano che per l’uomo è estremamente difficile arginare il fiume rovinoso della fortuna, ma è sicuramente meglio se attua delle azioni preventive. La mancanza di prudenza politica ha reso l’Italia una campagna senza argini devastata dalla violenza delle truppe in armi. Avrà dunque successo chi «riscontra el modo del procedere suo con le qualità de’ tempi»; al contrario avrà insuccesso chi non sa «mutare natura coi i tempi e con le cose». La condotta del principe deve adeguarsi al variare della fortuna: è questa la sua massima virtù. In questo senso cambia anche il significato di «prudenza»: non sempre l’uomo prudente ha la meglio sull’impetuoso; anzi, il principe deve adottare entrambe i comportamenti, sapendo all’occorrenza mutare carattere, la sua stessa natura. Tuttavia, il pessimismo di Machiavelli risiede anche e innanzitutto nella convinzione che gli uomini siano incapaci per natura di mutare carattere. Capitolo XXVI Si pone il problema della liberazione dell’Italia dagli stranieri. Invita i Medici a prendere le armi e a mettersi alla guida dei principi italiani. Programma irrealizzabile, che rivela, accanto al “realismo” politico, il carattere provocatorio e critico di tutto il libello. Come il cammino di Mosè fu segnato da eventi miracolosi, così una serie di eccezionali contingenze favorevoli concorre alla grandezza di Casa Medici. I principi italiani sono superiori con la forza e con l’ingegno, ma questo non appare attraverso le loro truppe, ma fra i condottieri non è emerso ancora nessuno sopra gli altri. L’Italia è un paese senza stato e senza valore militare; invita i Medici a prendere le armi e a mettersi alla guida dei principi italiani. Programma irrealizzabile, che rivela, accanto al “realismo” politico, il carattere provocatorio e critico di tutto il libello. Il libro si conclude con la Ariosto: stampato in Ferrara per i Giovani Battista de la ligna Milanese. A di XII de Febraro M.D.XXI. C. ORLANDO FVRIOSO DI MESSER LVDOVICO ARIOSTO NOBILE FERRARESE NVOVAMENTE DA LVI PROPRIO CORRETTO E DA ALTRI CANTI NVOVI AMPLIATO CON GRATIE ET PRIVILEGIE. Impresso in Ferrara per mastro Francesco rosso da Valenza a 1° Ottobre M.D.XXXII. c. si divide in 2 tipi: a seconda che per il foglio di stampa corrispondente I,18 – II,14 contengono certi refusi o lezioni respinte da Ariosto (1° tipo) od abbiano la forma voluta dal poeta (2° tipo). Differiscono per una serie di lezioni mutate quando la stampa era già in corso; Negre ha accolto le varianti del 2° tipo per le sezioni I,18-II,14 attenendosi per le varianti sporadiche alla nota debenedettiana. A & B usa la ristampa diplomatica Ernini (1516-1521) della quale Debenedetti aveva indicato il numero elevato di difetti ma che ha potuto eliminare. Criteri usati da Debenedetti: interpunzione e accentazione modernizzate, sciolte abbreviazioni, usato ch’el. Il testo posto a base dell’edizione critica è C, già pubblicato da Debenedetti, di cui aveva eliminato gli errori di stampa, Segre ha però mutato il testo laterziano in pochissimi luoghi, sono scelte già presentatesi a Debenedetti o ripensamenti che avrebbe fatto: unificazione di ch’il / chi ‘l e ma ‘l/ ma’l; Gotia invece di Gozia; Oliviero invece di Olivero e Ettorre invece di Ettor. È necessaria l’eliminazione di scempiamenti e raddoppiamenti ipercorretti di consonanti di tipo settentrionale (uno dei problemi maggiori), è arduo determinare i limiti tra le responsabilità del poeta e quello dei suoi stampatori. Oltre al Furioso laterziano ha utilizzato anche i Frammenti autografi dell’Orlando Furioso 1973 Debenedetti. Scarse possibilità di miglioramento di Debenedetti per le singole lezioni. Prima eliminazioni a C (eliminate perché non necessarie) sulla base di A, poi nuova serie di eliminazioni a C sulla base di B. Vengono raccolte nella tavola I tutte le lezioni di C ritenute erronee, refusi e lezioni non ariosteschi e distrazioni dell’autore. La prima colonna contiene gli errori seguiti da B quando essi provengono dalla stampa precedente. La seconda colonna contiene le lezioni della presente edizione ma con la grafia che Ariosto avrebbe presumibilmente adottato. Quelle con 2 * sono innovazioni rispetto alla laterziana; 1* sono quelle già introdotte ma senza avvertimento nella laterziana. Vengono attuate correzioni per evitare le imperfezioni in rima, le ipometrie e ipermetrie e sono seguite da (:), (-), (+). Non segnalate le lettere capovolte, ripetute o difettose, errori nella separazione delle parole. L’apparato dell’edizione deve registrare le sole varianti d’autore fra le tre stampe; vengono esclusi: refusi, trivializzazioni e ipercorrezioni tipografiche e lezioni erronee sfuggite ad Ariosto. Tavola II (A) – III (B) indicano i refusi e le lezioni erronee: nella prima colonna ci sono le lezioni della stampa e nella seconda quelle volute da Ariosto. Quando la seconda colonna coincide con C essa non viene accolta nell’apparato, ma se diversa è inserita con la parte corretta; ma se è diversa da C ma uguale alla prima colonna viene fusa con quest’ultima con l’accoppiamento della sigla. In B ci sono molti raddoppiamenti ipercorretti e scempiamenti. Nella tavola IV, rispetto ad A & C, i fenomeni rappresentati devono cercare una esatta definizione in un raffronto con il sistema consonantico. B è una fase involutiva, probabilmente rientra nel cumulo del dialettismo dei tipografi, ma a volte sono ariostesche, soprattutto quando passano in C. Probabilmente il tipografo ha apportato altri cambiamenti, come l’uso di articoli e pronomi proclitici. A & B presentano l’errata corrige, dove ci sono le correzioni degli errori dei singoli luoghi del furioso. Segre non accoglie le trascrizioni parziali ed imprecise di Pigna e Ruscelli (dubbi sull’autenticità); da spazio a Lisio Canto Primo e Canto Secondo dell’Orlando Furioso, 1909, che era stato respinto da Debenedetti. Debenedetti ha mutato più volte i criteri di trascrizione delle varianti. Solo A indica la fine e l’inizio dei canti; B & C solo “Canto II”. In C la perdita di alcuni particolari grafici è compensata dall’eliminazione delle consuetudini e forme appartenenti solo ai tipografi. Per l’interpunzione e l’ortografia gli stampatori imponevano le loro necessità. Numerosi problemi di trascrizione: trascurati & o et con valore di “è” o davanti a consonanti, trascura la presenza o assenza di “i” dopo palatali; parole in ex davanti a vocale in A & B sono sempre scritti con grafia latineggiante, in C l’esito più comune è es- o ess- (più rara). Probabilmente Ariosto decise di abbandonare la doppia s mentre preparava C. Linee evolutive di stile e lingua Nel 1500 il dibattito sulla questione della lingua ha una centralità e una importanza innegabile. L’esito del dibattito è stato fondamentale per il suo processo di correzione della lingua. Il paese era politicamente e linguisticamente frammentato; il primo testo che affronta la questione è il Cantico delle Creature del 1220, dove nasce la tradizione dell’italiano volgare. Per Dante finché non si raggiungerà l’unità politica sarà impossibile quella linguistica e spiega il suo punto di vista in De Vulgari Eloquentia, che è il primo trattato scientifico dedicato alla lingua moderna. La lingua romanza esprime la necessità d’individuare uno strumento linguistico unitario: il volgare illustre. L’unità politica deve essere costruita dagli scrittori e intellettuali attraverso l’unità linguistica. La proposta decisiva viene avanzata da Pietro Bembo nel 1525 con Prose della Volgare Lingua, la sua proposta è radicale: adottare come lingua letteraria (che per lui è l’unico problema su cui doversi concentrare) una che sia il più lontana possibile da quella di uso comune e che debba conformarsi a quella di Boccaccio per la prosa e a quella di Petrarca per la poesia (nuovi modelli al posto di Cicerone e Virgilio). Per lui il volgare due secoli prima aveva raggiunto l’apice delle sue possibilità espressive, sono modelli insuperabili. La sua proposta suscita opposizioni e perplessità dagli eredi della loro tradizione letteraria (toscani e fiorenti) che insistono sul guardare alla lingua viva attualmente in uso (tra essi è presente Macchiavelli che scrive Discorso sopra la nostra lingua, che però viene pubblicato tardi, qui rivendica la centralità del fiorentino contemporaneo e inserisce una polemica implicita verso gli autori che dicono di parlare la lingua vera), ma secondo Bembo essa si è degradata. Gli autori Cortigiani rivendicano la maggiore continuità fra lingua letteraria e quella d’uso contemporaneo, però loro non innalzavano il fiorentino ma la comune lingua cortigiana che s’andava formando all’interno delle tante corti come strumento di comunicazione; svaluta il fiorentino e il toscano essendo le corti dislocate in diverse regioni, però tutti i cortigiani appartengono all’élite culturale e sociale. Alla fine, la proposta di Bembo vince perché in Prosa della Volgar Lingua fornisce delle norme linguistiche dettagliate a cui conformarsi in forma di dialogo vivo fra vari personaggi che difendono idee diverse; inoltre forniva già modelli di riferimento che potevano essere letti da tutti ed erano già diffusi, soprattutto grazie alla stampa a caratteri mobili. All’interno dell’opera Carlo, il fratello di Bembo afferma che tutti i non toscani e non fiorentini sono avvantaggiati perché possono formarsi sulle grandi opere senza essere contaminati dal fiorentino e dal toscano contemporaneo. La lingua cortigiana non forniva né certezza normativa né modelli di riferimento consolidati. Canto I È sottolineato l’intreccio amoroso che si ricollega all’impresa di sconfiggere gli infedeli; i cavalieri s’impegnano nella guerra solo per conquistare il cuore della loro amata, Angelica, che non li ricambia e coglie la prima occasione per fuggire. Si sottolinea il fatto che gli uomini, infedeli o non, di fronte all’amore siano tutti uguali quando Rinaldo e Orlando interrompono il loro duello solo per seguire Angelica (la loro bontà interrompe la rivalità di fede). Il meccanismo che muove la macchina narrativa si basa sulle peregrinazioni tratte dal desiderio, ad inseguirsi e a compiere avventure straordinarie; i personaggi s’incrociano e prendono strada diverse. La conclusione che non arriva mai porta il lettore a continuare nella sua lettura. Il canto si apre con la dichiarazione degli argomenti dell’opera: le donne, i cavalieri, le armi, gli amori, le audaci imprese all’epoca della guerra fra Agramante (re pagano, figlio di Troiano e discendente di Alessandro Magno) e Carlo Magno, e di come Orlando divenne furioso per amore. Invoca alla sua donna amata, Alessandra Benucci, di non farlo impazzire prima di aver compiuto l’opera. Viene messo in evidenzia l’elogio a casa d’Este per ripagare il suo protettore Ippolito d’Este. Viene presentato Ruggiero, che come Orlando, è uno dei personaggi principali e che viene nominato progenitore degli Estensi con Bradamante. Orlando si era innamorato di Angelica (Boiardo metteva in rilievo la sua sessualità e malizia, Ariosto abbandona questi aspetti e diventa il simbolo dell’irrazionalità del sentimento amoroso, essendo l’oggetto amato sfuggente ed innamorandosi poi lei stessa) e l’aveva seguita in Oriente; ma tornato nella sua terra, gli viene tolta, Namo (duca di Baviera) la prende e promette che verrà assegnata al miglior guerriero in battaglia, Orlando si pente di averla consegnata. Angelica, presagendo la sconfitta dei Cristiani, fugge e s’inoltra nel bosco dove incontra Rinaldo, cugino di Orlando, anche lui innamorato di lei, non a cavallo di Baiardo (Boiardo narra che avendo incontrato Ruggiero, che era appiedato, Rinaldo, per non combatterlo in situazione di vantaggio, smonta da cavallo, ma, interrotto il duello, Baiardo si rifiuta di far risalire il cavaliere e scappa nel bosco). Angelica scappa e arriva al fiume, dove trova Ferraù, innamorato di Angelica, a cui cade in acqua l’elmo del fratello di Angelica (Argalia) che aveva ucciso a duello. Arriva Rinaldo e i due si mettono a combattere, lei scappa, Rinaldo se ne accorge e propone una tregua per cercarla, i due partono e trovano un bivio e si dividono; Ferraù si perde, e senza speranza di ritrovare l’amate torna al fiume per cercare l’elmo, ma dal fiume esce il fantasma di Argalia, che lo rimprovera per non aver mantenuto la promessa, che gli consiglia di prendersi l’elmo di Orlando, appartenuto ad Almonte, o quello di Rinaldo. Ferraù opta per quello di Orlando e parte alla ricerca. Rinaldo ritrova il cavallo che gli continua a scappare. Angelica fugge fino a metà del giorno dopo, quando arriva in un boschetto, e sentendosi al sicuro e lontana da Rinaldo, decide di riposarsi e si addormenta sotto un cespuglio; viene svegliata da un suon di passi di un cavaliere, Sacripante (Re di Circassia), di cui, non vista, ascolta il lamento per il suo amore non corrisposto (Angelica) e la fortuna avversa. Lei, sentendo il suo discorso, pensa che non potrebbe trovare una scorta più fidata, quindi gli si scopre e gli racconta le sue vicende rassicurandolo sulla propria verginità; Sacripante le crede e decide di approfittare di lei. Arriva all’improvviso un altro cavaliere, Sacripante adirato per l’interruzione duella con l’altro; quest’ultimo vince e scappa. Angelica consola Sacripante per la sconfitta quando arriva un messaggero su un ronzino che cerca Bradamante (sorellastra di Ruggiero, con cui si sposerà, bellissima guerriera), il cavaliere misterioso. Vergognoso, Sacripante rimanda la conquista e i due riprendono il cammino, quando incontrano Baiardo, che si lascia avvicinare solo da Angelica; arriva Rinaldo, Canto XXXIV Questo proemio è inteso come un documento di patriottico sdegno verso gli stranieri invasori, la pace è rovinata e ora c’è solo guerra, miseria e fame. Paragona gli eserciti stranieri alle arpie, e proprio come Calai e Zete liberarono Fineo dalle arpie, arriverà un paladino a liberare l’Italia e riportare pace e abbondanza. Così Astolfo, come aveva richiesto il Senapo, aveva cacciato le arpie fino alla bocca dell’inferno e decide di entrarci anche lui. Sta scendendo quando un’ombra gli parla, è la giovane Lidia, figlia del re di Lidia, ed è condannata per essere stata spiacevole ed ingrata con l’uomo che l’amava. Dice che insieme a lei ci sono molte anime che hanno una pena simile, come Anassarete, figlia del re di Cipro che disdegnò l’amore di un plebeo, che s’impiccò, e lei non commuovendosi venne trasformata in sasso; o come Diana, che si rifiutò di ricambiare l’amore di Apollo e preferì essere trasformata in lauro. Ma ci sono molti più uomini che ingannarono delle fanciulle, e per questo stanno più in basso, come Teseo che abbandonò Arianna, Iasone che abbandonò Isifile e Medea, Enea che abbandonò Didone, Ammone che violentò e poi respinse la sorella di Thamar. Poi racconta la sua storia: era arrivato in Tracia un cavaliere, Alceste, che era considerato il migliore al mondo, e volle donarle il suo amore e per meritarselo dimostrò il suo valore compiendo numerose prodezze, fece conquistare al padre numerose regioni dell’Asia e chiese come premio di poter sposare Lidia; il re sdegnosamente rifiuta e il cavaliere minacciando che se ne sarebbe pentito va dal re d’Armenia, nemico del padre di Lidia, e lo stimolò a fargli la guerra. Dopo aver conquistato numerose terre, assediano il castello, Lidia viene mandata a far da paciere, con l’intenzione di pregarlo di tramutare la sua ira in pace e scendere alle sue condizioni, ma una volta davanti ad Alceste, pallido e tremante, decide di rimproverarlo per tutti i danni che le aveva arrecato, e lo convinse che avrebbe potuto guadagnarsi il suo amore se avesse reso le terre sottratte al padre. Alceste va dal re d’Armenia e cerca di convincerlo a rendere le sue conquiste, alla fine duellano e il re muore; in meno di un mese vengono riconquistati tutti i territori e tornati dalla spedizione Lidia finge di amare Alceste e di prometterglisi, e lo spedisce in mille imprese pericolose poco armato, ma lui vince sempre, lei allora allontana tutti i suoi amici e alla fine gli dice con quanta crudeltà lo ha sempre trattato, e lui per il dolore muore. Astolfo si deve allontanare per il troppo fumo e torna in superficie chiudendone l’entrata e cerca dell’acqua con cui lavarsi. Vola fino al Paradiso terrestre e si ritrova in una pianura con fiori di mille colori, laghi cristallini e uccelli canterini con al centro un palazzo di fiamma viva, verso cui s’incammina e viene accolto da San Giovanni evangelista che gli dice che non è grazie alle sue virtù e ai suoi strumenti che è giunto quassù, ma solo per volontà divina. Lo invita a rifocillarsi e riposarsi; trova Enoch ed Elia, che non sono morti ma sono qui a godersi la primavera eterna fino al giudizio universale. Viene informato che in Francia Orlando è stato punito da Dio per aver abbandonato la missione di massimo difensore della Chiesa e si è lasciato distrarre dalle sue pene amorose, che lo stesso Dio che gli aveva donato l’invulnerabilità ora gli ha donato la follia; ad Astolfo è stato permesso di arrivare al Paradiso Terrestre perché possa salire alla luna per prendere la medicina di Orlando. Arrivata la notte, Astolfo sale sul carro trainato da cavalli di fuoco e con l’apostolo raggiunge la luna, dopo aver superato la sfera di fuoco; Qui Astolfo si meraviglia per il fatto che la Luna da vicino è tanto grande, mentre ricorda una piccola palla a noi che lo osserviamo dalla Terra; e per il fatto che deve aguzzare la vista se vuole distinguere da lì la Terra e il mare, perché il nostro pianeta non è luminoso. Sulla luna ci sono altre pianure, montagne, castelli e selve dove cacciano le ninfe; dopo aver attraversato uno stretto fra due montagne si ritrovano in un vallone dove si trovano le lacrime e i sospiri degli amanti, il tempo perso con il gioco e l’ozio, i disegni e desideri vani, tutte le cose perse dall’uomo. Vede: un monte di vesciche gonfie, che sembravano contenere tumulti e grida, ovvero gli antichi regni degli Assiri e della terra di Lidia, e dei Persiani e dei Greci, che un tempo furono potenti e il cui nome ora è quasi sconosciuto; ami d'oro e d'argento ammassati, che erano quei doni che si fanno ai re, ai principi avari e ai protettori potenti con la speranza di una ricompensa; lacci nascosti dentro delle ghirlande, sono tutte adulazioni mentre i versi che si scrivono in lode dei signori hanno l'immagine di cicale scoppiate; gli amori infelici hanno forma di ceppi d'oro e di gemme; sottosopra rovine di città e castelli, insieme a grandi tesori; sono i trattati politici; serpi col volto di fanciulla, ovvero l'opera di falsari di monete e di ladroni; ampolle rotte, la servitù delle misere corti; una gran massa di minestre versate, sono l'elemosina che qualcuno lascia perché sia fatta dopo la sua morte; una montagna di fiori variopinti che una volta avevano un buon profumo, mentre adesso puzzano fortemente, sono il dono che Costantino fece al buon papa Silvestro. Solo di pazzia ce n’è poca perché non si allontana mai dalla terra. Arrivano alla montagna del senno, che è la più grande di tutte, e ci sono numerose ampolle contenenti un liquido rapido da esalare, prende la più grande di tutti, che è quella di Orlando, e vede anche la sua, che esala, (Astolfo visse lungo e saggio ma fece un grande errore: rapì una dama di cui si era innamorato, ma il tentativo venne sventato dal marito, gettato in mare viene inghiottito da una balena inviata da Alcina) e quella di alcune persone che non avrebbe mai pensato. Vien condotto da San Giovanni in un castello dove incontra due Parche, la prima con il compito di determinare la lunghezza degli uomini, la seconda di distinguere le vite virtuose da quelle peccaminose. Il Tempo, intanto, correva veloce e portava via un po’ di matasse ogni volta. Gerusalemme Liberata – Torquato Tasso Durante il ‘500 il modello cavalleresco e il poema eroico diventano impraticabili; Tasso deve cercare di elaborare un modello alternativo rispetto a quello aristotelico per:  Motivi religiosi: cambia il contesto culturale quando nel 1540 si riunisce il concilio di Trento, si discute della controriforma (protestantesimo), la chiesa cattolica reagisce allo scisma con un irrigidimento dottrinale, l’opera poetica deve corrispondere a canoni più restringenti di ortodossia dottrinale e deve avere un fine indottrinante ma le opere di Boiardo e Aristotele avevano lo scopo principale di intrattenere il lettore.  Motivi non religiosi: derivano dalla politica assunta da Aristotele, alla quale viene dato potere normativo; per lui il poema eroico doveva corrispondere a due criteri: la verosimiglianza (il più possibile vicino alla realtà storica) ed avere uno svolgimento lineare e unitario. Boiardo e Ariosto presentavano l’unità ma i percorsi non erano lineari, però la struttura era perfetta per incastrare il lettore. Aristotele era un anticlassico, chi prova a scrivere un poema eroico seguendo il suo modello fallisce, non si riesce ad appassionare il lettore. Il titolo dell’opera non è mai stato avallato dall’autore, è stato dato dai curatori dell’opera. Tasso si arrovella a lungo sulla questione, deve seguire il modello aristotelico ed essere edificante, teologicamente corretto ma che appassioni e abbia lo stesso successo delle opere di Boiardo e Ariosto. Tasso deve scegliere un argomento che esalti la fede cristiana contro gli infedeli; sceglie, quindi, la prima crociata, che è in un passato vicino e storicamente definito, e che rappresenta una situazione attuale. I cristiani appaiono come vincitori e l’impresa (riconquistare la terra santa e liberarla dagli infedeli) viene compiuta con il supporto della provvidenza divina. Si pone, però, il problema della struttura: si crea un compromesso felice perché il soprannaturale viene giustificato come conseguenza fra lo scontro delle forze celesti (la liberazione della terra santa, i cavalieri sono supportati dalla provvidenza) e delle forze infernali (agiscono all’opposto cercando di frammentare l’esercito e trascinare i cavalieri su strade che li allontanano dal loro dovere); si distingue fra forze centripete (le forze celesti che mantengono unito l’esercito cristiano e incanalano le forze dei cavalieri nella liberazione di Gerusalemme) e forze centrifughe (portano i cavalieri a incanalare le loro energie in altro); in questo modo vengono giustificate le corse amorose e le distrazioni dalla missione. I manoscritti Non esiste l’edizione critica; l’edizione di riferimento è a cura di Lanfranco Caretti, Mondadori, Milano 1957, usa l’edizione del Luglio 1581, ma non era la migliore apparsa a Ferrara in quel periodo. Le stampe vengono prodotte senza il controllo dell’autore a partire da testi e testimonianze manoscritte, spesso abusive come la prima edizione stampata completa e con il titolo in vigore ancora oggi del marzo 1581, è ampiamente scorretta e non rappresenta lo stadio più avanzato di elaborazione dell’opera. L’edizione ufficiale viene stampata a Ferrara per iniziativa del duca, è solo formalmente autorizzata perché Tasso non controlla la stampa, che viene fatta in Giugno e in Luglio a cura di Bonnà. L’edizione di Giugno è la più corretta fra le due perché studi successivi hanno individuato che quella di Luglio contiene delle lezioni riconducibili a fasi meno recenti dell’elaborazione del testo rispetto a quella di Giugno. Il curatore, probabilmente, era venuto in possesso di un manoscritto autografo da cui avrebbe tratto le lezioni diverse rispetto a quelle di Giugno credendo che il manoscritto rispecchiasse una fase più matura. Sono tutte edizioni profondamente contaminate, perché costruite usando diversi testimoni; in questo caso il testo, invece di essere il più possibile vicino alla volontà dell’autore, è il più possibile vicino al testo vulgato (cioè il testo che è stato per secoli in circolazione). Canto I Nell’incipit si percepisce un eco all’Eneide di Virgilio; Tasso pone l’accento sul carattere religioso dell’impresa che narra ed è compiuta da un personaggio presentato come il protagonista: Goffredo di Buglione, capitano che ha guidato la prima crociata (identificato storicamente) e sulla guerra fra le forze celesti e quelle infernali (che cercano di trasformare i cavalieri in erranti). Nella seconda ottava si dà la giustificazione morale e dottrinale, si rivolge alla musa cristiana, non pagana, dotata d’intelligenza angelica. La deviazione dal vero ha lo scopo di far arrivare il messaggio edificante, il lettore viene paragonato ad un bambino che viene ingannato con del liquore dolce sul bordo del bicchiere per fargli prendere una medicina amara. Il poema viene dedicato ad Alfonso II d’Este, che è la guida per il poeta che si è perso, spera che legga l’opera e che gli dia il permesso di scrivere un’opera dedicata esclusivamente a lui. Spera in una nuova crociata. La narrazione vera e propria inizia nella sesta ottava: iniziava il sesto anno da quando le truppe cristiane erano in viaggio per giungere alle porte di Gerusalemme (in realtà 3), avevano conquistato Antioca e Tortosa e aspettavano la fine dell’inverno per attaccare. Nella settima ottava abbiamo l’immagine di Dio che guarda verso la terra e legge l’animo dei principi cristiani per individuare il più adatto a guidare la prima crociata: Goffredo è caratterizzato dalla determinazione nella sua missione, non si lascia distrarre dagli altri desideri. Vengono presentati anche gli altri cavalieri: Baldovi che ha un’indole avida ed è teso solo alle cose terrene, Tancredi e Boemondo, che governò Antioca disinteressandosi degli esiti della crociata; essi sono presi da altri sentimenti ed L’edizione critica è basata sui manoscritti alfieriani, e per la prima parte si prende a riferimento il 24, mentre per il resto il 13. È stata redatta da Luigi Fassò nel 1951 ad Asti. Introduzione È un amore narcisistico, dice che scrivere la propria vita è l’argomento più interessante per chi ama sé stesso. È consapevole del valore della propria opera che lascia una traccia di sé e vuole che i lettori conoscano anche l’individualità dell’autore, lascia un ritratto di sé stesso in beneficio dei posteri, è un monumento. La vera sfida è sopravvivere nel tempo, ed ottiene un importante successo contemporaneo, ma è per i posteri che lui scrive. La dialettica tra l’amore di sé stesso e la necessità che il ritratto sia sincero, quindi deve disappassionarsi. Le peregrinazioni avventurose di un individuo attraverso le strade europee; il romanzesco è molto forte, le vicende non sono sempre lineari. Descrive il definirsi dell’identità di un individuo, una crescita costante di consapevolezza, è presente un’aperta confessione delle mancanze e dei vizi, vengono narrati anche gli aspetti encomiabili. Scrive di sé stesso per soddisfare la curiosità dei lettori, per fare in modo che si possa avere un resoconto completo, veritiero ed imparziale, piuttosto che qualcuno la scriva raccogliendo fonti incomplete e di parte. Dice che nelle prime parti scriverà con la sua solita concisione, e si scusa in anticipo per la quinta che potrebbe risultare troppo lunga e tediosa. Non si dilungherà sui particolari degli altri, perché è qui per scrivere la sua storia; scriverà con naturalezza dato che l’opera gli è dettata dal cuore. Nella prima parte dell’opera (che viene scritta vicino ai tempi narrati e poi viene riveduta) il distacco è molto forte, una sorta di alter ego; nella seconda la vicinanza fra autore e lettore rende difficile disappassionarsi. Epoca 1^ Puerizia  Capitolo I Afferma di essere nato il 17 Gennaio 1749, in realtà era il 16, il giorno dopo era stato battezzato; nasce nobile (in modo da poter dispregiare la nobiltà senza essere chiamato vile), agiato (lo fece libero e puro) e onesto (non deve vergognarsi del suo stato). Nasce da Antonio Alfieri e dalla giovane savoiarda Monica Maillard di Tournon, ha una sorella Giulia, di due anni più grande. Il padre muore di pleurite a settant’anni per la testardaggine di andarlo a trovare a piedi mentre stava in un borghetto vicino per farsi allattare; la madre si risposa con l’agiatissimo Cavalier Giacinto, e stanno ancora insieme. Muoiono i suoi fratellastri e lui rimane l’unico figlio maschio della famiglia.  Capitolo II 1752 ha solo il ricordo di uno zio che lo accarezzava e gli dava dei confetti, indossava degli scarponi con la punta quadrata, quando li vede ripensa a quelle sensazioni. 1754 gli viene la dissenteria e si ricorda di aver sperato la morte come fine del dolore, sapendo che sarebbe diventato angioletto. Con Giulia vanno a vivere dal palazzo del padre a quello del patrigno e lei viene mandata in collegio, fra le lagrime di Vittorio che voleva andare a trovarla tutti i giorni. 1755 rimasto l’unico figlio nella casa viene educato da Don Ivaldi fino ai nove anni, il quale è ignorante, come i suoi parenti che ripetevano la massima che un Signore non è costretto a diventare Dottore.  Capitolo III Non gli viene sempre concesso di andare a trovare la sorella, deve dedicarsi allo studio, può essere però portato alla chiesa del Carmine, dove ascolta la musica e guarda i frati officiare e per lui diventa un diletto anche perché qui vedeva gli unici visi giovani, i fraticelli novizi, che gli ricordavano quello della sorella e delle femmine, più in la si è accorto che quello che provava era amore carnale; per dargli maggiore rispetto aveva cancellato la voce Frate sul suo dizionari per sostituirla con quella di Padre. 1756 a causa della malinconia che s’impadroniva di lui, un giorno, sentendo dire che l’erba cicuta era velenosa e uccideva, preso dall’istinto animale va in giardino ed inizia a mangiare l’erba fino a stare male, la vomita, viene scoperto e rinchiuso in camera per castigo.  Capitolo IV Sviluppa un’indole taciturna e placida a volte, loquace e vivace, sempre agli estremi, ostinato e restio contro la forza, pieghevole all’affetto, non vuole essere sgridato e teme di vergognarsi fino all’eccesso. La punizione che più lo addolorava, e gli fu data solo due volte, è quella di farlo andare in chiesa con la reticella che copre tutti i suoi capelli, pensava di essere mostruoso e che tutti lo fissassero e lo considerassero un malfattore, temeva soprattutto lo sguardo dei novizi. Da quel giorno venne sempre minacciato con questa punizione, ma un giorno disse una bugia e gli fu rimessa per andare in una chiesa affollatissima in città, dopo essersi fatto spingere e tirare, cerca di passare inosservato. Si ammala per il dolore e da quel giorno la reticella non fu più nominata. Neanche quando venne la nonna materna, e lui si ostinò a risponderle niente quando lei gli chiese cosa volesse come regalo, e neanche quando le rubò il ventaglio, essere un ladro è un difetto facile a sradicarsi quando si ha dei propri beni. 1757 arriva il tempo della sua prima confessione con Padre Angelo, carmelitano, confessore anche della madre. Come penitenza deve all’ora di pranzo prostrarsi ai piedi della madre e chiedere perdono per tutte le sue mancanze, per l’eccessivo imbarazzo Vittorio non lo fa e la madre gli domanda minacciosamente se ha assolto i suoi doveri, ma Vittorio, anche se impaurito, non confessa.  Capitolo V Viene a casa dal Collegio il fratello uterino maggiore, il Marchese di Cacherano, che era più grande ed aveva più cose, Vittorio prova l’invidia, ma non quella che si trasforma in odio, che vuole togliere all’altro le sue cose, ma quella che si trasforma in gara ed emulazione, di avere tutte le cose dell’altro se non in misura maggiore. Un giorno mentre marciavano alla prussiana, lui cade e si ferisce sopra l’occhio, la ferita ci mette settimane a rimarginarsi e la cicatrice rimarrà fino alla morte, e la fasciatura non lo vergognava ma inorgogliva. 1758 il fratello muore di Tisi e Vittorio, spostato nella villa paterna, viene visitato dal tutore dei suoi beni, il Cavalier Pellegrino Alfieri, che convince la madre ad iscriverlo all’accademia di Torino. È emozionato per la partenza ma anche nostalgico, presa la posta e giunti alla prima tappa, essendo assetato, non chiede dell’acqua ma beve dall’abbeveratoio dei cavalli convinto che un uomo di mondo debba abituarsi a certe bassezze. Alfieri chiude dicendo a chi trova inutile questo squarcio sulla sua infanzia, che l’uomo è la continuazione del bambino. Epoca 2^ Adolescenza  Capitolo I 1758 il viaggio con la posta è piacevole anche per la velocità sostenuta e l’entrata a Torino lo stupisce, ma arrivato dallo zio viene preso dalla tristezza per la mancanza di visi amici; dopo qualche giorno essendosi abituato alle novità lo prende un’allegria esuberante e viene ingabbiato in Accademia prematuramente. Nel palazzo alloggiano anche gli studenti universitari, i paggi di corte, che godevano di maggiore libertà ed era una villania aver sotto gli occhi coloro che non doveva rispettare le regole dure della galera.  Capitolo II 1759 Viene tiranneggiato da Andrea, il suo servitore fisso, e dall’Assistente, dopo tre mesi di studio inteso riesce ad entrare in Terza. Ma lo studio è noioso e superficiale, Alfieri primeggiava ma si sentiva un perditempo. Nel Novembre successivo passa di classe e va nell’Umanità, qui ha un insegnante più competente, e, sempre studiando Virgilio, riesce ad imbastire meglio il suo latino. È in competizione con un altro ragazzo, con cui alla fine è quasi amico, non riesce a odiarlo per la sua bellezza, perché Alfieri è sempre stato un ammiratore di essa in qualunque cosa. Ricorda di aver incominciato a leggere Ariosto, ottenuto scambiandolo con la propria porzione di pollo domenicale, lo leggeva senza intendere metà di quello che era scritto, ma alla fine tutti i tomi gli vennero confiscati dall’Assistente.  Capitolo III Durante i due anni passati in Accademia, impara poco e la salute peggiora; lo zio Cavalier Pellegrino Alfieri diventa Governatore di Cuneo, gli rimane solo un cugino del padre il Conte Benedetto Alfieri, che era il Primo Architetto del Re. Egli era un uomo degno ed affettuoso e gli parlava spesso, con riverenza, di Michelangelo Buonarotti. Ora lo ringrazia per questo, ma all’epoca lo trovava noioso e non sopportava il suo parlare toscano; quando se n’andò da Torino molta gente lo prese in giro, ma quando venne fuori che parlava italiano tutti tentarono di imitarlo balbettando il loro toscano. Scoprì che aveva fatto un viaggio con il padre due anni prima che questi si accasasse, e seppe molte cose del padre fra cui che si era voluto far calare dentro il Vesuvio. Quando Alfieri andò a Napoli trovò le cose cambiate.  Capitolo IV 1760 la sua debole salute gli vale la nomea di fradicia carogna fra i suoi compagni e in lui s’instilla la solitudine. Passa in Rettorica, ma essendo l’insegnante poco abile gli sembra d’indietreggiare nello studio del latino; riesce però a rubare dall’ufficio del Sottopriore i quattro tomi di Ariosto, che legge pochissimo sia per le sue condizioni di salute, sia per il fatto che gli sembra più complicato e per i continui intreccio delle storie che non si chiudono mai, gli si sarebbe adattato meglio Tasso ma non lo conosceva. Si appassiona e rilegge più volte la traduzione dell’Eneide di Annibale, e fra gli scrittori contemporanei riesce a leggere Metastasio e Goldoni; il suo amore per il teatro muore sul nascere perché non riesce a coltivare questa passione. Viene costretto da un suo compagno asino a fargli i compiti, durante i giorni di malattia, all’inizio gli fa bene, ma poi stanco di non prendersi i meriti e per la fatica, inizia a peggiorarli sempre di più fino a fargli fare degli errori ridicoli, viene tolto dall’incarico senza nessuna vendetta. 1761 passa l’esame di Rettorica ed entra in Filosofia, un corso di filosofia (insipida) e Geometria (che gli era incomprensibile), entrambe insegnate con una noiosa ed inutile pedanteria, ma fuori dall’Accademia e poter uscire due volte al giorno lo rallegrava. Gli viene permesso, per condizione di salute, di svegliarsi alle 7:30 invece che alle 5:45 e saltare le orazioni mattutine.  Capitolo V 1762 torna il Cavalier Pellegrino Alfieri e vedendolo deperito da ordine di farlo mangiare più sanamente, rimettendolo in sesto e facendolo crescere. Fa spostare la sorella Giulia nel monastero di Santa Croce, a Torino, per toglierla ai suoi primi amori; i due si vedono due volte a settimana e questo rende più lieto Vittorio. Viene portato a teatro una sera dallo zio, a vedere un’opera buffa di Goldoni, la musica sentita gli lascia per alcuni tempi una malinconia non dispiacevole, che gli fa provare una svogliatezza per i suoi studi; riconosce nel teatro il più efficace modo per agitare il suo animo. Finito il primo anno all’Università gli viene concesso di andare a trovare lo zio a Cuneo per quindici giorni ad Agosto, ma invece che andarci con la velocità della posta ci va a passo d’asino e questa lentezza lo umilia, sintomo del suo amore per la gloria e la lode. Durante il soggiorno scrive il suo primo sonetto in italiano, con versi presi da Ariosto e Metastasio, era un disastro, lo dedica alla signora che corteggiava lo zio e piaceva anche a lui, riceve molti complimenti dagli ignoranti, e lo zio, che era un uomo militare disapprova, e soffoca la sua passione fino ai 25 anni. 1763 studia fisica ed etica, la fisica, a causa delle sue mal conoscenze latine e geometriche, gli rimane astrusa, ma grazie alla sua buona memoria lo zio gli annuncia un premio, dopo mesi gli viene mostrato ed è una spada, ma Vittorio non la riceve mai perché avrebbe dovuta domandarla allo zio, ma come con la nonna non lo fece. tutto il carnevale, Vittorio è amareggiato per la posizione della loro casa in una viuzza centrale, ma durante il carnevale passano di casa in casa, e l’attività più piacevole per lui rimane la musica burlesca del Teatro Nuovo, anche se gli scatena malinconia e pensieri funesti. Conosce molti signori napoletani ma non fa amicizia con nessuno: la sua natura ritrosa lo porta a non cercare e gli lascia un segno in viso che allontana gli altri; non conosce nessuna donna perché a lui piacciono le modeste ma gli si avvicinano le sfacciate. Percorre il carnevale ma non per curiosità ma per amore della strada. Conosce il re giovanissimo, e constata che i sovrani hanno tutti la stessa faccia; attraverso il Ministro di Sardegna riceve il permesso di viaggiare senza l’ajo, il quale lo prende a bene e gli consiglia di tornare sui libri per studiare politica e diventare aringo diplomatico, Vittorio ci fa un pensiero considerandola la servitù men serva, ma non lo farà mai. Non sapeva cosa desiderasse, seguiva solo il suo istinto, scoprì che per essere felice aveva bisogno di un nobile lavoro e un amore nel cuore, e quando uno dei due mancava era incapace dell’altro. Riparte per Roma senza i suoi compagni, freme dalla voglia di viaggiare da solo.  Capitolo III Arrivato a Roma vaga con malinconia, ignorando tutte le sue bellezze, va a trovare il Ministro di Sardegna, che gli da degli utilissimi consigli, e un giorno gli recita un passo dell’Eneide, e nonostante le numerose traduzioni e letture, Vittorio non riesce a comprenderlo e si vergogna per giorni della sua ignoranza, ma passeranno anni prima che apra di nuovo un libro. Conosce il Papa Clemente XIII, e gli riesce il terzo raggiro della corte paterna di Torino, sempre attraverso il Ministro di Sardegna, gli è concesso un altro anno di viaggi per visitare Inghilterra, Olanda e Francia. Ma il curatore, che non era mai stato chiaro sulle sue entrate, gli dice che gli darà una lettera di credito di soli millecinquecento zecchini; Vittorio non si osa a protestare per paura di essere richiamato in patria e nomato come scialacquatore. Quindi in lui si manifesta un’avarizia volta a risparmiare il più possibile per il viaggio all’estero tanto che non va più da nessuna parte per non dare mance e tenta di non pagare il proprio cameriere. Decide così di andare a Venezia con la mula, invece che con la posta, ma a Loreta non resiste più per quel passo cencioso e prende la posta ridimensionando l’avarizia. Venezia gli piace e anche il dialetto, al quale si era abituato grazie a Goldoni, vi si tenne fino a metà Giugno, ma non era divertito. Passa molti giorni da solo senza uscire di casa, dormicchiando, ruminando, stando alla finestra e piangendo, senza trovare pace; la identificherà come un accesso periodico che gli viene in primavera. La sua materialità annulla l’orgoglio che prova per le suo opere buone e la vergogna per quelle cattive, convincendosi che non era in sé il potere in quei dati tempi di fare altrimenti.  Capitolo IV Preso dalla malinconia e dalla voglia di andare all’estero, non visita le meraviglie della città e non apprende niente su quel governo diverso dagli altri. Va a Padova, ma non conosce nessuno dei rinomati professori, rabbrividisce solo a sentir nominare l’università e ignora la vicinanza della tomba di Petrarca. Va a Genova, la cui visita anni prima aveva lasciato un certo desiderio, e un giorno gli fa visita il suo banchiere, che vedendolo tediato ed inselvatichito ha compassione di lui e lo porta dal Cavalier Carlo Negroni, suo amico, che aveva vissuto a Parigi e gliene parla schiettamente, ma Vittorio non lo ascolta, viene introdotto in numerose case ed era sul punto d’innamorarsi di una dama, ma la voglia di viaggiare lo salva. S’imbarca per Antibo, ma è costretto a ripararsi a Savona per due giorni aspettando buon tempo. Arrivato in Francia, pur essendo tutto diverso in peggio, è deliziato dalla varietà. Si ferma a Marsiglia, che gli era piaciuta per il suo ridente aspetto, e decide di fermarsi per un mese, per sfuggire al caldo di Luglio, che non era adatto a viaggiare. Non fa amicizia con nessuno e alla tavola comune si limita ad ascoltare, anche i discorsi più sciocchi insegnano cosa non dire. Una delle cose che lo aveva attirato in Francia era la continuità del loro teatro, si limitava ad ascoltare senza nessuna indole creativa, preferiva la commedia anche se era più incline al pianto. La tragedia non gli piace per al tipologia di versi utilizzati e per il fatto che interrompevano l’azione inserendo scene intere dedicate a personaggi secondari. Un altro divertimento era bagnarsi tutte le sere nel mare, in un posticino che lo toglieva alla vista e dove avrebbe potuto comporre. La foga di arrivare a Parigi lo fa ripartire ad Agosto.  Capitolo V in un giorno nebbioso arriva a Parigi ed una cosa così piccola gli provoca una dolorosa impressione, in quindici giorni di permanenza il sole non spunta mai ed unito alla sporcizia e pessima architettura di Parigi gliela fanno dispiacere. Fino a Novembre, all’arrivo dell’ambasciatore, si intrattiene con le passeggiate, le ragazze e il teatro, poi viene introdotto in varie case, ma il tedio lo segue e si ripromette di ripartire in Gennaio per Londra. Tutto quello che vede è inferiore a quello che c’è in Italia, e questo gliela fa apprezzare. Gli viene proposto di essere presentato alla corte di Versailles a Capodanno, e accetta per curiosità di vedere una corte più grande, non gli importa dell’indifferenza con cui lo guarda il Re  Capitolo VI Parte per Londra con un cavaliere di una decina d’anni più anziano, dotato di un naturale ingegno e ignorante quanto Vittorio, cugino dell’ambasciatore in Parigi e nipote dell’ambasciatore spagnolo a Londra, presso cui i due avrebbero alloggiato. Esso gli raccontava i suoi trionfi amorosi, che Alfieri ascoltava con diletto. In barca il freddo era eccessivo e ghiacciava tutto, ma a Vittorio non piacciono le cose a metà; sbarcati a Dover il freddo si dimezza. L’Inghilterra e Londra gli piacciono subito, e questa opinione non cambia nel tempo. Per i primi tre mesi si lascia trascinare nella vita mondana, poi decide di smettere e di fare da nocchiere al suo amico, lasciando a lui i trionfi amorosi. Visita l’intero paese e gli piace la sua modestia, i bei paesaggi e l’equità del governo. Approda poi in Olanda, che in estate è un ridente paese e gli sarebbe piaciuta di più se l’avesse visitata prima dell’Inghilterra. S’innamora di una signorina da poco sposata, bella, ingenua, modesta, non vuole più lasciare l’Olanda, e l’amore addolcisce il suo cuore e fa amicizia con il Ministro del Portogallo in Olanda, uomo ingegnoso e originale, colto e con un carattere ferreo, magnanimo. Esso gli da numerosi consigli e, soprattutto, gli fa aprire gli occhi sulla sua ignoranza, soprattutto del proprio paese pieno di pensatori degni, fra cui Macchiavelli, di cui gliene regala un libro. Segue l’amata e il marito in una città del Belgio, Spa, ma deve separarsene quando lei va in villeggiatura dalla madre, riesce a raggiungerlo e a stare alcuni giorni con lui ma poi deve raggiungere il marito in Svizzera e gli lascia una lettera. Vuole morire, ci prova, ma viene fermato da Elia, e lui e l’amico non lo lasciano più solo. Ripresa la ragione, decide di abbandonare quei luoghi e ritornare in Italia, facendo riparo a Cumiana, dalla sorella.  Capitolo VII dopo sei settimane va in città, e in molti non lo riconoscono, sente il bisogno di darsi allo studio, ma dopo una pausa di sei anni è incapace.1769 passa l’inverno dalla sorella a leggere libri francesi e passeggiare, il libro preferito è Plutarco, le vite dei veri grandi; studia il sistema planetario. Il cognato lo istigava a prendere moglie e seppur portato per la vita famigliare, le sue esperienze lo inibivano. Alla fine, il cognato intercede per lui con una bella ereditiera, e Alfieri desidera più i suoi soldi che la sua bellezza. Ma la zia della ragazza la invitò a preferire un altro giovane che era in favore presso la corte dell’erede al trono; inoltre, lui aveva la fama di essere un uomo straordinario in senso negativo e di non servire il proprio paese. Ma è stato meglio così per entrambi, anche perché così il segreto desiderio di Alfieri di diventare ambasciatore sfuma. Decide quindi d’intraprendere un viaggio di tre anni e poi decidere cosa fare; aveva intanto aggiustato i conti con il curatore e scoperto di essere più ricco di quel che pensava, ma grazie all’inganno fu sempre giusto nello spendere.  Capitolo VIII 1769, ottenuto il permesso del re, parte per Vienna; durante il viaggio, invece di una malinconia fastidiosa ed oziosa, ne prova una dolce e riflessiva, gli sono di aiuto i Saggi di Montaigne, lo dilettavano e istruivano, gli dava fastidio però non comprendere le citazioni in latino e dover ricorrere alle note. Vienna ha molte piccolezze di Torino, senza averne la bellezza della località, non impara niente ed ozia, ben difeso contro Amore; avrebbe potuto essere introdotto a casa del poeta Metastasio, dove, la sera, si leggeva classici, latini e greci, e opere italiane, ma lui disprezzava l’italiano ed era preso dal francese. Prosegue verso Praga e Dresda e poi Berlino, dove sta un mese; entrando nei territori di Federico II, prova ribrezzo per il mestiere di soldato, a vederne così tanti, e conoscendo il re prova indignazione e rabbia a vedere tutte quelle cose che stanno come non dovrebbero stare. Va ad Amburgo e poi Copenaghen che gli piace perché assomiglia all’Olanda, e v’era una certa attività che di solito non si trova nei governi monarchici. 1770 parla un po’ di italiano con il ministro di Napoli, lo dilettava il suo accento toscano da pisano, lo incita a non trascurare l’italiano e gli fa leggere alcuni libri, oltre a leggere si diverte ad andare in slitta. Va a Stoccolma, in Svezia, dove l’inverno è ancora più rigido; essa con i suoi abitanti di ogni classe gli piaceva, s’incuriosisce della sua forma di governo. Allo sciogliersi della neve, comprare la vegetazione, spettacolo bizzarro che sarebbe stato bello fare in versi.  Capitolo IX decide di partire per la Svezia, alla volta di Pietroburgo (Leningrado), ma il mare è ghiacciato in gran parte e deve attendere tre giorni. Le isolette di ghiaccio rendevano il mare simile ad una terra disciolta piuttosto che ad una massa fluida: grazie al vento gli urti con esse erano carezze, ma erano talmente tanti che si ammassavano ed impedivano il passaggio, toccava quindi spezzarli con un’ascia. Quando poi arriva a Pietroburgo non sa se sia giorno o notte a causa dell’annullamento delle tenebre della notte in quella stagione, e la stanchezza dovuta al non riuscire a dormire in carrozza. Aveva grandi aspettative, avendo letto da Voltaire di Pietro il Grande, avendo dei compagni moscoviti in Accademia ed essendo dotato di grande fantasia, ma rimane deluso essendo un accampamento di allineati baraccamenti, non vuole quindi vedere nessuno durante la sua permanenza, né i suoi compagni, né la regina Caterina II, gli ricorda l’impero di Federico II. Invece che andare a Mosca, si dirige verso Danzica, che stava iniziando ad essere molestata dalla Prussia, maledicendo i vili che si fanno guidare dai tiranni, giunge a Berlino dopo un mese di viaggio, viaggio più spiacevole della discesa all’inferno. Passa per Zorendorff, dove c’era stata una battaglia fra Prussiani e russi durata più di undici ore, e vedendo le grandi fosse comuni vicino al bel grano, pensa che li schiavi sono nati per essere concime. Entra poi in Gottinga, dove gioisce di vedere un asinello, dato che non li vedeva da un anno, e avrebbe scritto una poesia sull’incontro di un asino italiano e uno tedesco in una importante Università, ma all’epoca ne era incapace. Torna a Spa, che gli aveva lasciato il desiderio di rivederlo non innamorato, qui si può stare ignoto fra veglie e festini, unisce solitudine e rumore; torna in Olanda per rivedere il suo amico, certo di non trovare l’amata che si era insediata a Parigi. Giunge a Liegi, dove viene introdotto alla corte dei principi vescovili. Arriva all’Haja dove ritrova l’amico, ci rimane due mesi, ma desideroso di veder l’Inghilterra riparte, a Londra trova tutti gli amici che aveva lasciato, dove rimane sette mesi  Capitolo X 1771 Narra del secondo fierissimo intoppo amoroso a Londra. Viene sottolineata l’arretratezza della cultura italiana e piemontese rispetto alle grandi città europee ed in particolare a Londra, nettamente privilegiata rispetto al si accorda con lei nel tornare in quattro o cinque settimane e riparte per Milano, vergognoso per la propria debolezza. Alla fine, non arriva a Roma, e dopo diciotto giorni torna a Torino da quello che avrebbe dovuto essere il viaggio di un anno. Torna avvilito e malinconico e nel Gennaio del ’75 la sua rabbia soppressa scoppia.  Capitolo XV 1775 una sera, tornato dall’opera, decide di chiudere i legami con lei: decide di rimanere in casa a guardarla dalle sue finestre e di non accettare nessuna ambasceria. Manda un biglietto ad un suo caro amico in cui gli spiega l’intento e gli chiede sostegno, allega una treccia dei suoi capelli come impedimento di farsi vedere in tale maniera da altri. Passano due mesi in questa solitudine quando gli viene l’idea di poetare, e scrive un primo sonetto che manda a padre Paciaudi, egli lo aveva in affetto e gli aveva sempre consigliato letture italiane, finge di trovare il sonetto buono, e in questo modo s’appassiona agli studi dei nostri poeti, lo incoraggiò a cercare lodi vere. Prima della lettura aveva recuperato la Cleopatra, che aveva fatto vedere a Paciaudi e che aveva apportato delle correzioni, e gli sembra che la sua situazione sia simile a quella di Antonio; decide di proseguirla e di farla recitare in primavera; riscrive e consulta alcuni amici che non avevano trascurato la poesia italiana; non ottiene grandi risultati ed annoia tutti, ma allontana quella indegna fiamma e risveglia il suo intelletto. A volte si faceva legare da Elia alla seggiola, per evitare di cedere ed uscire di casa; si svergogna in pubblico per non ricadere nella passione, alla fine del Carnevale si veste d’Apollo e con la cetra va cantando dei versi scritti da lui. Si infiamma dell’amore per la gloria. Finita di scrivere la Cleopatra Tragedia la invia a Paciaudi che aggiunge note e corregge, viene recitata a Torino. Scrive una farsetta intitolata I Poeti, dove introduce sé stesso sotto il nome di Zeusippo e deride la sua Cleopatra, confrontandola con altre tragedie, opera di una maturata incapacità erudita, mentre la sua era l’affrettatezza di un’ignoranza capace. Vennero recitate con applauso per due sere di fila e gli nasce la voglia di scrivere una vera opera teatrale. Epoca 4^ Virilità  Capitolo I 1775 La Cleopatra gli aveva aperto gli occhi e che per scrivere correttamente e con arte, deve rimettersi a studiare la Grammatica. Era convinto di aver fatto male fino a quel punto e sapeva che col tempo avrebbe fatto meglio tenendosi come prova il Filippo e il Policine, scritti in lingua francese, con la quale riusciva a spiegarsi un po’ meglio, e che avevano suscitato sinceri complimenti; non riusciva a riscriverli in italiano e legge i testi in lingua per abituarsi ai modi di dire toscani. Si rifiuta di parlare, ascoltare o leggere il francese, si era messo in testa d’italianizzarsi; cerca di trascrivere ogni pensiero in poesia, e in una rimeria, che venne acclamata, sbagliò la regola delle terzine per le prime 12. Credendo di far vita troppo dissipata in città e non riuscire a studiare, si rifugia a Cesana, borgo natio dell’abate del viaggio verso Roma, che poi non è avvenuto, esso aveva sempre cercato di ispirargli l’amore per le lettere; Vittorio si dimentica che qui avrebbe udito francese. Deve ringraziare Dio, padre Paciaudi e il Conte Tana per averlo fatto avvicinare alle lettere. Dopo aver malamente tradotto in italiano le due tragedie, passa a leggere e studiare i più grandi autori italiani; inizialmente fa fatica a leggerli, ma poi ci prende l’occhio e li finisce in un anno. Paciaudi gli consiglia di non eliminare la prosa, che è la nutrice del verso.  Capitolo II 1776 sente la vergogna nel non riuscire più a comprendere il latino, avendo abbandonato il francese non può più leggere letture teatrali; assume un pedagogo per reimpararlo, questo gli permise di riprendere la grammatica senza uscire dalla poesia. Per la poesia ha uno stile fiacco ed eccessivamente lungo; decide di andare in Toscana per avvezzarsi alla lingua. Grazie a Paciaudi riesce a conoscere, durante il suo viaggio, tutti quei letterati che prima aveva ignorato. Non ha mai tentato alcun genere di composizione per cui non sentisse un impulso naturale. A Pisa conosce molti professori, e li interroga tentando di non far trasparire la sua ignoranza. Per comporre le tragedie doveva solo imparare a far sentire agli altri quello che sentiva lui. Lavorando sul Policine, gli vengono fatte delle correzioni dai professori, ma è ancora languido e Triviale; vuole imparare da loro cosa non fare, e dall’esercizio cosa fare. Gli italiani, avendo solo l’endecasillabo per il poema eroico, devono creare una giacitura di parole; con le sue convinzioni non ascolta, quindi, i professori per lo stile da usare per l’arte drammatica. In realtà le sue tragedie sono tratte da altre, perché ne aveva lette troppe prima di comporre, e ha perso di originalità. A Firenze apprende il fiorentino parlato. Studia a memoria la poesia italiana, convinto di impararla e riuscire a padroneggiarla.  Capitolo III Torna a Torino anche se non si era abbastanza toscanizzato, continua gli studi e si svaga; decide di tradurre Sallustio lavorandoci lungamene e limando. Tana loda un suo sonetto, a cui fa pochissime osservazioni; ne scrive subito altri due simili, e li serba ancora oggi. Ne fece molti altri, per lo più amorosi, non dettati da amore, ma fatti per mero esercizio di lingua. 1777 il suo scopo è ancora scrivere una tragedia; verseggia l’Antigone, ideato un anno prima a Pisa; ma leggendolo in una società letteraria, nonostante i complimenti, si rende conto che manca ancora di stile. Decide di tornare da solo in toscana per concentrarsi sulla sua arte ed allontanarsi dal dialetto piemontese.  Capitolo IV Vittorio idea, stende e verseggia, questi tre respiri gli danno il beneficio del tempo, necessario a ponderare una tragedia, che se mai nasce male difficilmente poi si raddrizza. Le sue tragedie, con tutte i loro difetti, sono create di getto, e quindi gli atti sono tutti collegati; se chi verrà dopo di lui giudicherà il suo metodo brillante, questa digressione potrà servire a qualche giovane che si destreggia in quest’arte. Decide di rimanere poco a Pisa perché ci sono troppi stranieri e c’è una giovane e nobile donna di cui si era invaghito e che i suoi parenti gli avrebbero dato volentieri in moglie. Arriva a Siena, dove trova un crocchietto di persone colte, fra cui Francesco Gori Gandellini, di cui ha parlato in vari scritti e con cui si lega per una profonda amicizia. Ha avuto pochi amici, ma tutti più stimabili di lui; cerca, nell’amicizia, il reciproco sfogo delle umane debolezze. Desidera meritare la sua stima, e cerca di creare un’opera degna di lui; gli consiglia di scrivere della Congiura dei Pazzi, contro i De’ Medici, e di ricercare il fatto in Macchiavelli, di cui legge molto e si invasa nel duo originale e sugoso modo di dire e trascrive la vicenda.  Capitolo V Riprende la stesura di Agamennone, Oreste e Virginia; Un giorno apre un volume delle tragedie di Voltaire, dove vede che anche lui aveva trascritto Oreste, e si trova indispettito; vuole prenderlo in prestito a Siena per dargli una sfogliata e poi stendere la sua versione, ma Gori gli consiglia di non farlo, in questo modo la tragedia sarà solo sua; ha adottato questo metodo anche per le opere successive. Parte per Firenze, non essendo Siena un bel luogo dove passare l’inverno, ma ci si fermerà poi molti anni; qui incontra una bella signora, Luisa di Stolberg-Gedern, belga e spostata con il duca d’Albany, pretendente al trono d’Inghilterra. Era più giovane di poco, molto bella, piaceva a tutti gli uomini, interessata alle arti e alle lettere, nel primo viaggio non si era fatto introdurre nella sua casa, troppo concentrato sullo studio, ma l’aveva vista spesso a teatro. Questa quarta, e ultima, febbre d’amore, si manifesta con sintomi diversi, è un sentimento più profondo, sentito e durevole; invece che considerarla un ostacolo alla sua arte, è uno sprone, un conforto, un esempio di bell’opera. Ancora dopo dodici anni, in lei si innalza e addolcisce il suo animo.  Capitolo VI 1778 decide di non spostarsi da Firenze senza la sua amata; non gli è mai piaciuto la sua catena di servitù, essere un feudatario, che lo obbliga sempre a chiedere il permesso al Re per uscire dallo stato; inoltre era quasi obbligato a stampare le opere nel suo stato. Inoltre, Vittorio non poteva essere contemporaneamente feudatario ed autore, decide di essere solo autore e dona tutti i suoi beni alla sorella Giulia. Il processo fu lento, a causa della burocrazia, e il Re dette il suo benestare perché era contento di perderlo a causa delle sue idee politiche. Nonostante tutto continua a vestirsi con l’assetto del Re di Sardegna, anche se era da più di quattro anni che non prestava servizio, solo perché lo rendeva più snello e avvenente. All’amata lo comunica solo a contratto perfezionato, lei lo perdona di averglielo taciuto. Aveva ordinato ad Elia di vendere tutti i mobili e mandargli i soldi a mezzo cambiale, non vedendoli arrivare teme che essi abbiano preso il volo con l’ottima opinione che aveva di Elia e teme per la sua sussistenza; ma alla fine arrivano. Vista la nuova condizione abbandona gli sfarzi e vive solo del necessario, e sarà così fino alla sua morte. Purtroppo, l’amata non parla italiano, e Vittorio è costretto a ricadere nel francese; anche quando lei imparerà perfettamente l’italiano, la sua casa sarà sempre piena di stranieri; bisogna lodarlo per aver imparato a scrivere in un perfetto toscano, soprattutto visti i suoi ostacoli.  Capitolo VII ha una forte malattia infiammatoria, viene quasi dissanguato dal medico, ne segue una lunga convalescenza; inizia a scrivere un poemetto in ottave sull’uccisione del Duca Alessandro da Lorenzino De’ Medici; scrive anche versi amorosi per lodare la sua donna, oltre alla tragedia De’ Pazzi, Don Garzia e Del Principe e delle Lettere. 1779 soffre per le pene domestiche della sua amata; il marito di lei non esce mai senza di lei e viceversa, quando lei riceve Alfieri, lui rimane sempre nella stanza contigua. Viene visitato dal Gori e dall’Abate di Caluso, che passa un anno a Firenze, e vedendosi tutti i giorni, gli insegna molto. Il suo stile si sta ancora formando, dovranno ancora passare degli anni. 1780 Riverseggia il Filippo, e continua con la produzione delle altre sue opere.  Capitolo VIII le vessazioni del marito terminano la notte di Sant’Andrea con una scenata dove il marito cerca di strangolarla, convinto della corrispondenza amorosa fra lei e Vittorio; lui la aiuta a divorziare, senza aver leso la di lei onestà. Lei si ritira per alcuni giorni in un convento, le ragioni della rottura furono tante e così manifeste che essa venne universalmente approvata; parte per un convento di Roma e lui capisce che senza di lei è inerme, incapace di ogni applicazione. 1781 Passa tutto il Gennaio dell’81 da solo e poi decide di andare a Napoli, perché si passa per Roma. Gli piange il cuore a vederla prigioniera dietro una grata; pratica infinite pieghevolezze e destrezze per dimostrare il suo amore e rimetterla in libertà. Parte per Napoli e questa separazione è ancora più dolorosa; i bellissimi luoghi napoletani non gli danno alcun sollievo, passa il tempo cavalcando piangendo e non ha neppure l’impeto di sfogarsi in rime. Facendosi forza ogni tanto lavora alle sue carte e rilegge la loro corrispondenza. Lei ottiene il permesso del Papa di uscire dal monastero e di alloggiare a casa del cognato; lui vuole tornare a Roma ma sente che non è ancora giunto il momento; ma a metà Maggio si ritrova a Roma senza volerlo e fa di tutto per abitarvi e vedere l’amata.  Capitolo IX riprende i suoi studi. 1782 gli capita fra le mani la Merope del Mafferi, e s’indigna nel vedere come la cieca Italia la considera come l’ottima e sola delle tragedie; decide di riscriverla lui stesso nettamente migliore. Si da alla lettura della Bibbia, ma non regolarmente con ordine, e rielabora il Saul. Decide di non continuarle fino a che non avrà completato tutte le altre che aveva iniziato, essendo si numerose; le completa tutte entro la fine dell’anno e si sente l’uomo migliore del mondo. Dopo un paio di mesi di svagatezze a Terni, le riprende tutte amore. 1786 lavora anche all’Abele, tramelogedia (tragedia con caratteri di melodramma); la donna loda il Bruto di Voltaire, e lui per ripicca ne fa due, arrivando a diciannove tragedie e giura di non farne più e questo giuramento dura ancora. Ad Aprile si ammala di podagra, che lo tiene a letto per quindici giorni. A Maggio riprende pienamente salute, ma la lontananza della donna lo fanno cadere in un turbamento di spirito che gli offusca la mente, lavora poco e malamente per tre mesi, fino all’arrivo dell’amata.  Capitolo XVII 1787 parte con l’amata per Parigi, luogo che da spiacevolissimo diventa paradisiaco; dai francesi non ha nulla da imparare dato che non parlano italiano, impara l’arte del tacere. Il soggiorno gli giova alla salute; legge Sofonisba ad un amico di Torino ma durante la lettura si sente assalire da una certa freddezza, nonostante l’amico lo ascoltasse rapito, e la getta nel fuoco all’improvviso. Decide che un tale soggetto è sgradito e traditore e che non è il caso di trattarlo, ma qualche mese dopo vedendo la prosa e leggendola riprende a verseggiarla trovandovi qualcosa di buono. Decide di ristampare le sue tragedie in una bella edizione curata, la stampa sarebbe durata a lungo, quindi sarebbe dovuto tornare a Parigi dall’Alsazia anche in inverno per correggere, credeva che le sue opere fossero limate, ma leggendole stampate si rende conto dell’inganno. Va a trovarlo in Alsazia l’Abate di Caluso, unico amico rimasto, che porta la richiesta della madre di sposarsi con la figlia di un caro amico del padre, Vittorio ridendo rifiuta senza aver mai saputo chi ella fosse. Preferisce scrivere in una lingua quasi morta e per un popolo morto e di vedersi sepolto ancora prima di morire piuttosto che scrivere in inglese o francese, che sono lingue sorde e mute applaudite ed ammirate da tutti. Caluso si storce il pugno cavalcando e Vittorio viene assalito da una dissenteria ferocissima, lo lascia quasi senza vita, ma dopo sei settimane smette; era preoccupato all’idea di lasciare l’amata e le sue opere, che sentiva ancora incompiute, ma almeno sarebbe morto libero fra due persone care. Era talmente convinto di morire che lascia anche le disposizioni; la malattia lo lascia talmente spossato da non permettergli di fare le dovute correzioni alle sue opere, lasciandolo insoddisfatto, e due anni più tardi, dopo averle stampate tutte, inizia a ristamparle.  Capitolo XVIII I tre partono per Strasburgo e visitano la tipografia di Kehl, qui fa stampare il manoscritto America Libera che ne esce talmente bene che per i due anni successivi commissionerà tutte le altre stampe. La coppia si stabilisce a Parigi. 1788 muore il marito dell’amata e lei prova del reale dolore. 1789 continuano le stampe e Vittorio scrive un parere su tutte le sue tragedie da inserire alla fine dell’opera; finisce di stampare tutte le sue opere tranne la traduzione di Sallustio e Abele.  Capitolo XIX Alfieri era preoccupato per i tumulti che si svolgevano a Parigi dopo la convocazione degli Stati Generali, non voleva che interrompessero la sua opera di stampa quando era quasi arrivato alla fine. Finite le opere da stampare Alfieri prova contentezza, ma essa non può durare perché la situazione va peggiorando. 1790 tacitamente osserva tutti gli effetti di quella dotta imperizia, la Libertà viene tradita; vorrebbe essere già fuori dallo stato ma non lo fa perché l’amata non vuole perdere la sua pensione erogata dallo stato francese. Gli arrivano notizia che le sue stampe non dispiacciono e decide di non accettare biasimo o complimento senza una luminosa spiegazione. Fa una somma e pensa che negli ultimi quattordici anni è riuscito a fare qualcosa, inizia a scrivere Vita, e decide che non lo riguarderà fino ai sessant’anni, quando scriverà l’epoca della sua vecchiaia. Se dovesse morire prima, chi troverà il manoscritto potrà farne l’uso che più crede o stamparlo e aggiungere solo il luogo e il tempo della sua morte. Se vuole potrà arderlo o accorciarlo prima di stamparlo, modificarne lo stile, ma non i fatti narrati. Lui stesso avrebbe potuto essere più breve, ma in quel caso avrebbe preferito ostentare il suo ingegno piuttosto che aprire il suo cuore. Continuazione della 4^ Epoca  Proemietto Dopo tredici anni, a cinquantuno, a Firenze rilegge lo scritto e lo ricopia, ripulendolo e la seconda parte, che si appresta a scrivere, sarà molto più corta, dato che si appresta ad entrare nell’età della vecchiaia.  Capitolo XX 1790 comincia a tradurre squarci dell’Eneide, vedendo che lo dilettava la traduce da capo, ma lavorare ogni giorno sulla stessa cosa gli dà tedio e quindi inizia anche a tradurre Terenzio con lo scopo di crearsi una vena comica per scrivere lui stesso delle commedie. Legge anche i grandi classici e non riesce a completare le sei tramelogedie, non ha mai aggiunto niente alla prima, Abele, perché aveva perso il bollore necessario. Scrive solo più alcuni sonetti per sfogare la sua rabbia contro i padroni, prova a scrive un Conte Ugolino, ma lo idea solo.  Capitolo XXI 1791 la coppia parte per l’Inghilterra, che un po’ piace e un po’ no alla sua donna, mentre lui la ammira ancora, anche se di meno ma gli spiace per gli effetti morali del governo. Ma con la fuga del re di Francia, che venne ripreso a Varennes e fu riportato a Parigi, gli affari in Francia si abbuiano e i due sono costretti a tornarci per tutelare i loro interessi. Nel viaggio di ritorno Alfieri incontra quella donna che lo aveva fatto tribolare nel suo secondo viaggio, Penelope Pitt, che non era cambiata dopo vent’anni (l’ex marito era morto e si diceva che lei si fosse risposata), lui non le dice niente ma le scrive una lettera per sfogarsi dei suoi sentimenti, esprime la sua commozione nel vederla condurre una vita non degna del suo nome e prova dolore essendone stata la causa o il pretesto. Lei gli risponde ringraziandolo per il suo interesse e dicendogli che non lo considera la causa della sua sventura ma che le ha permesso di vedere il mondo; le farebbe piacere chiacchierare con lui e ha letto tutti i suoi scritti e gli augura il bene.  Capitolo XXII 1792 decidono di stabilirsi a Parigi; Vittorio disprezza tutti gli intellettuali che proclamano la rivoluzione. Riceve l’ultima lettera dalla madre; intanto la rivoluzione continua, ci sono i due assalti alla Tuileries e s’insedia un Comune Rivoluzionario. Lui e la donna partono in fretta, riescono ad ottenere dei passaporti come forestieri, alla barriera però dei cittadini, credendoli nobili francesi, gli sbarrano il passaggio, con fatica e grida e l’aiuto delle guardie riescono a passare: sono i primi forestieri a fuggire dalla Francia dopo il 10 Agosto con la speranza di non tornarci più. Arrivati a Bruxelles si fermano dalla di lei sorella per rimettersi dalle paure sofferte e arriva una lettera dalla gente lasciata in Francia, che il giorno in cui all’inizio era destinata la partenza, erano venuti per mettere in prigione la signora, ma non trovandoli avevano sequestrato tutti i loro averi. Giungono in Italia e si stabiliscono a Firenze e Vittorio ritrova il tesoro della lingua e gli si riapre la vena delle rime.  Capitolo XXIII scrive, dopo quasi tre anni di silenzio, l’Apologia del re Luigi XVI, termina le traduzioni e scrive una prosa satirica sugli affari in Francia, che diventa poi la prefazione al Misogallo. 1793 si danno alla ristrettezza economica, l’amore del sapere gli ribolle nelle vene più che mai, ma gli mancano i libri che ha dovuto abbandonare in Francia; non potendo continuare Abele si dà alle satire con Misogallo. Si da alla recitazione con una piccola compagnia con Saul. 1794 gli sembra di fare dei progressi in quell’arte e anche la compagnia, se avesse avuto tempo e soldi da sprecare l’avrebbe resa una ottima compagnia di tragici. 1795 continua con la recitazione, nel mentre aveva ricomprato tutti i suoi libri e accresciuto i classici latini e greci, tanto per averli e saperne i nomi.  Capitolo XXIV a quarantasei anni, non avendo mai letto i tragici greci, lo assale la vergogna e una lodevole curiosità, quindi per sfuggire l’ozio si accinge all’impresa di leggerle in latino. 1796 le satire continuano a crescere ed arrivano a sette; la Francia invade il Piemonte e Vittorio vede ridursi le sue ricchezze, si ostina allo studio come diversivo; pone tutta la sua vendetta nel Misogallo.  Capitolo XXV nel 1778 si era fatto scrivere da Caluso l’alfabeto greco ed aveva imparato a leggerlo, e ora avendo sott’occhio il testo greco, e non riuscendo a leggerlo e anche a causa della sua avversità nell’imparare le lingue e non avendo mai saputo nessuna grammatica, neanche quella italiana, nel quale non errava solo per abitudine di leggerla, decide di imparare il greco in segreto. 1797 si impegna con anima e corpo nel progetto e ci riesce e fa risorgere il suo intelletto dal letargo degli anni precedenti. Termina altre dieci satire e comincia a tradurre opere dal greco, continua le letture in latino e le traduce.  Capitolo XXVI 1798 nel ’96 leggendo l’Alceste di Euripide, viene preso dal moto di riscriverla, stende quindi una sceneggiatura e l’accantona per la sua promessa di non creare più tragedie; nel ’98 traducendola viene preso dal moto di farla sua e la butta giù d’un fiato, senza l’intento di verseggiarla e completarla. Però, continuando lo studio del greco va a rileggerla ed inizia a verseggiarla, un giorno la legge ad alcuni signori spacciandola come traduzione, ma l’inganno è scoperto e piace e viene svelato anche il segreto del latino; la moglie ormai lo sapeva e anche l’amico Caluso, che era stato mandato a chiamare dalla sorella per tradurre un’iscrizione greca dietro un ritratto di lui mandatole da Vittorio, e invia anche una lettera a Caluso interamente scritta in greco, anche se stentato, però buono per le sue condizioni di studente. Nel tempo la Lombardia era stata invasa dai francesi, il Piemonte vacillava, il papa traballava e la sua Roma era stata invasa e l’ambasciatore in Francia di Torino scrive ad Alfieri per dirgli che gli rimetterebbe volentieri in mano un suo deposito prezioso; Alfieri per mezzo di Caluso rifiuta la sua proposta, voleva restituirgli circa 150 dei suoi libri lasciati a Parigi, ma di quei 1500 realmente lasciati, essi erano quelli di poco conto.  Capitolo XXVII 1799 i francesi avevano già conquistato Lucca e sembrava imminente l’invasione di Firenze, Vittorio fa preparare i suoi bagagli in caso in cui debba scappare, dato che vuole vivere libero e non ha mai nascosto il suo disprezzo per i francesi e la loro rivoluzione, fa fare dieci copie del Misogallo, in modo che non venga distrutto, e scrive la sua lapide sepolcrale, nel caso in cui muoia. Finisce di limare le sue opere e chiude bottega; bisogna finire una volta e finire in tempo e spontaneamente, non costretto. Idea un sistema di studio settimanale, che mantiene tutt’ora, e aspetta gli avvenimenti. Firenze viene invasa il 25 Marzo, ma la coppia aveva già svuotato la casa di tutti i loro averi e si erano rifugiati in una villa presso Montughi.  Capitolo XXVIII Vivere da solo, con la sua amata, dedicandosi entrambi alle lettere non potrebbe essergli più lieto. Corrono però numerosi pericoli, molti giovani di Firenze erano stati presi di notte. Il 5 luglio i francesi si ritirano avendo perso la Lombardia. Dopo un mese, la coppia torna a Firenze. Dopo la battaglia di Novi gli scrive il marito di una figlia della sorella, che non gli era noto di persona, ma di fama essendo un ottimo ufficiale; gli scrive dopo essere stato fatto prigioniero e ferito gravemente essendo passato sotto i francesi e gli apre il cuore dicendogli che rimpiange di non poterlo conoscere e che si sente un uomo di un altro secolo, Vittorio gli dice che sarebbe saggio tornare in Piemonte lasciare i francesi e soprattutto non abbandonare la moglie. Prima dell’invasione dei francesi a Firenze, vi era passato il re di Sardegna e Vittorio per la prima volta prova l’impulso di servirlo, ma avrebbe potuto fare ben poco e si rammarica di questo. Gli arriva il manifesto del libraio Molini Italiano di Parigi in cui dice che aveva intrapreso di stampare tutte le sue opere, anche quelle che non aveva pubblicato stampate a Kehl: un fulmine a ciel sereno, pensa di fare un contromanifesto, ma abitando in delle parole e volute simmetrie; vi domina un gusto declamatorio e una vis polemico. Testimonia l’impegno politico e l’intenzione civile della poesia. Il poeta è amareggiato e non vuole che l'Italia, che una volta era chiamata "Nutrice delle Muse" (l’Italia prima accolse l’arte greca, ospite, poi coltivandola e imitandola, nudrice, la condusse all’eccellenza rendendola regina delle arti, dea), nomina che i popoli barbari conquistatori avevano sempre riconosciuto. Questo riconoscimento aveva reso possibile sopportare il peso (soma) della dominazione di popoli diversi (varia) protratta a lungo nel tempo (antiqua) e infame. Le colpe, gli anni e il destino avverso hanno ucciso la saggezza di Roma, ma sopravvive ancora il prestigio della lingua latina, corona regale sull’umile chioma di schiava. Apostrofe sarcastica: incita l’Italia a sacrificare ciò che la fa madre delle Muse per imbarbarire il suo divino toscano con la lingua francese in modo che il vincitore possa vantarsi di averla privata della sua lingua madre più delle spartizioni territoriali a cui l’ha costretta. 4. Perché taccia il rumor di mia catena Introduce il tema amoroso, in origine al centro della raccolta, sottolineando la condizione negativa della lontananza, dell’incomunicabilità e dell’isolamento. Nelle terzine spiccano mescidazioni e dissonanze (odorati capelli e rosea bocca). In questo sonetto Foscolo identifica la sua pena d'amore con la metafora della catena spiegando che soffre anche solo pensando alla sua amata. Nella seconda strofa è evidente il richiamo a Petrarca, quando il poeta affida le sue sofferenze e i suoi pensieri al fiume, l’unico che lo ascolta, affinché renda il suo dolore più sopportabile. Il poeta sottolinea inoltre quanto sia pesante il silenzio, il non poter esprimere ciò che sente nel suo cuore tormentato. Nelle ultime terzine, infine, si placa alla visione della donna e la descrive, ricordando i suoi occhi ridenti, profumati e splendenti capelli, la rosea bocca e la bianca pelle dell'amata. Le parole gli insegnano a piangere d’amore. 5. Così gl’interi giorni in lungo incerto il sonetto è un rifacimento del giovanile Quando la Terra è d’ombra ricoverta. L’incipit ricalca Alfieri e il doppio enjambement dà alla quartina un andamento mosso e frantumato. Il tono è tragico e si percepisce un senso di solitudine. Nell’ultima terzina il languore del tema amoroso è sostituito da una intonazione più accesa e risoluta e dalla consapevolezza di un destino individuale dominato dalla sventura. Passa i giorni lamentandosi e senza dormire, quando arriva la notte e spuntano gli astri celesti e la luna e l’aria fredda è coperta da ombre, lui vaga nei luoghi più selvaggi e deserti, si risveglia in lui la tristezza, l'angoscia e le ferite che la vita gli ha inferto e soprattutto la lontananza dalla donna che ama; ma il pensiero di lei distoglie la sua attenzione da tutto il resto. Si chiude con la domanda alla donna amata: chi ti nasconde da me? Foscolo fa diventare la notte la parte della giornata in cui siamo portati a riflettere sulla nostra vita, ripercorrendo tutti gli eventi importanti ma soprattutto quelli più dolorosi. 6. Meritamente riferimento al soggiorno a Genova, si allude alle Alpi liguri (le onde che batton l’Alpi), ai venti del tirreno, ai francesi (spergiuri genti), all’Italia (bel paese), probabilmente composto quando si mosse dalla città verso Nizza per via delle Alpi. La passione infelice sfocia nel cerchio chiuso di una situazione esistenziale senza via d’uscita. Il commiato dall’amata è scandito da versi spaccati da forti inarcature e da anafore a distanza, come sull’eco di un grido prolungato (monologhi alfieriani). Nel titolo è presente un evidente richiamo al poeta latino Properzio, simboleggia il grande amore di Ugo Foscolo per i grandi autori del passato, con la disperata autocondanna oraziana (vv 1-4) e la severa sentenza finale che ribadisce l’ineluttabile fatalità dell’amore, presa dall’Antologia Palatina. Giustamente, poiché ebbi il coraggio di lasciarti, ora grido la mia disperazione alle onde che s’infrangono sulle rupi alpestri, e i venti sperdono i miei pianti. Sperai, poiché la volontà degli uomini e degli dei mi ha costretto ad un lungo esilio fra la gente traditrice, i francesi colpevoli di non aver tenuto fede alle promesse indipendentistiche, lontano dal bel paese, Italia, dove tu ora piangente conduci tristi i giorni della tua giovinezza. Sperai che il tempo e le tristi vicende accadutimi, le rupi che valico sospirando e le selve buie in cui dormo come un animale selvatico fossero di conforto al mio cuore sanguinante. Si chiude con l’augurio che l’amore onnipotente e immortale lo segua tra le ombre dei trapassati. 7. Solcata ho fronte Foscolo ricalcala propria immagine su quella alfieriana. Nella prima quartina, prima viene descritta la parte alta del volto da cui appare il temperamento dell’uomo, poi si sposta scendendo lentamente fino ad arrivare all’ampio petto. Ai tratti fisici si sottiene una rappresentazione interiore. Il giudizio morale su di sé resta sottointeso dall’identificazione con Achille. Il dubbio circa il proprio destino è cancellato da una chiara premonizione di gloria futura. Questo sonetto vuole essere l'autoritratto letterario dell'autore che vuole presentarsi per quello che è e per quello che vorrebbe essere. Nella descrizione compaiono le caratteristiche di uomo serio, intelligente, riflessivo, pensoso ma soprattutto fiero. Nelle terzine vengono sviluppati i temi romantici del sonetto: la tristezza e la solitudine, spicca inoltre l'importanza delle emozioni. Il sonetto si conclude con l'esaltazione della morte che finalmente darà la meritata fama al poeta. La fronte è solcata, gli occhi sono incavati, guance emunte, aspetto eroico, labbra grosse e di colorito vivo, denti bianchi, capo chino, bel collo e largo petto, proporzionato, giusto abbigliamento. Veloce di passi, pensieri, atti e parole; sobrio, umano, leale, prodigo e schietto, al mondo è avverso e viceversa. A volte è ardimentoso a parole e spesso nelle azioni, passa la maggior parte delle giornate triste e solo, pensieroso, irascibile, inquieto e testardo; ricco di vizi e di virtù, elogia la ragione ed insegue il sentimento, soltanto la morte gli darà fama e riposo. 8. E tu ne’ carmi avrai perenne vita conosciuto anche con il titolo "A Firenze" è ispirato all'amore sfortunato per Isabella Roncioni (che andò sposa al marchese Bartolommei). La celebrazione del Lungarno di Firenze, che occupa tutto il componimento, non nasce da un valore storico ma dalla gioiosa scoperta di un perenne ricordo. Quel luogo è infatti lo scenario collegato alla figura dell’amata: le immagini della fanciulla riaffiorano al poeta come immerse in un’atmosfera incantata e dotate di una virtù consolatrice inesauribile. Foscolo opera, quindi, una divinizzazione della donna e della bellezza. Le celebrazioni dei poeti hanno reso immortale questo paesaggio, aleggia il fantasma della passata gloria latina (di essa, all’epoca di Foscolo, rimaneva solo un’ombra, che sembrava perduta, ma era stata raccolta da Firenze e conservata durante il Rinascimento. Foscolo considera Firenze una patria ideale delle Grazie), si addensano le immagini delle antiche lotte e del sangue delle due fazioni, guelfi e ghibellini, incombe la solitudine del fero vate (Alfieri) rinchiuso nella sua fortezza, vi è per sempre rinchiuso il ricordo della sfortunata passione amorosa. Il climax (dal cupo orrore alla chiusa solitudine, alla palpitante evocazione della fanciulla) rende ancora più sensibile il transfert operato dalla poesia, che illumina e rischiara ciò che tocca, salva il passato e il suo patrimonio di passioni e d’ideali libertari, ma difende e custodisce, anche, una suprema illusione d’amore che la realtà ha sempre smentito. 9. A Zacinto Il tema del sonetto verte sulla precarietà della condizione di esule e sul sentimento nostalgico nei confronti della sua patria, una piccola isola del mar Ionio, molto amata dal poeta. La triplice negazione iniziale esprime per l'appunto la convinzione del poeta di non poter farvi più ritorno. Ripensando alla fanciullezza il poeta ricorda le bellezze del clima e della vegetazione dell'isola, creata dalla dea Venere, nata dalle acque del mare, che lei rese fertile con il suo primo sorriso; Omero non poté tacerne la bellezza ed il diverso destino di Ulisse il quale, esule anch'egli, riuscì a ritornare ad Itaca. Ricordi e Evocazioni vengono relegati nella dimensione del sogno, preservato dal conflitto con la realtà. Zacinto viene dipinta slegata dalla propria posizione geografica, ma è paesaggio mediato dalla poesia. Foscolo sviluppa il motivo della disperazione e dell'esule che lancia il suo grido di dolore contro il fato avverso, in un crescendo di confronti tra sé e Omero e tra sé e Ulisse. Ma come la poesia di Omero ha reso immortale Ulisse e Itaca, così la poesia di Foscolo ha una possibilità di perpetuare la fama di Zacinto e il ricordo del poeta che la canta. Nell’ultima terzina viene ribadita la condanna dell’esilio e rivendica l’impronta di una consapevole accettazione. 10. In morte del fratello Giovanni introdotto nell’edizione del 1803 delle Poesie; impronta di un modello classico (carme di Catullo) come esempio di dialogo tra un vivo e un morto. La voce del poeta che sopravvive e continua a parlare a noi “vivi”, ai posteri (visione laica dell’anima, doppio di sé, trasmette la voce dell’Io ai posteri); questo rifarsi al modello classico non è un “gioco” limitato all’intertestualità: Foscolo affronta la morte del fratello Giovanni, probabilmente morto suicida, e usa la poesia classica per affrontare questo dolore; la poesia è elaborazione della perdita, del dolore, del lutto. Riflessione sulla tomba, sul sepolcro del fratello amato e perduto: la pietra è, così come per Catullo e Petrarca, simbolo dell’assenza. Indirizza le parole al fratello: dopo un lungo viaggio il poeta riesce a rendere omaggio al fratello morto (Foscolo non riesce: è lontano dalla pietra, dalla patria. Doppia assenza, del fratello amato nell’aldilà ma anche assenza dell’Io, in quanto Foscolo non è dove vorrebbe trovarsi, perché in esilio). È presente l’augurio di potersi trovare un giorno accanto alla tomba del fratello, cosa che ora non può fare. Relazione tra due fratelli che coinvolge anche la madre (mediatrice, relazione triangolare). La parola del poeta ha un destinatario (fratello) ma non può indirizzare la parola al morto: la indirizza alla madre, che parla al fratello: garante della comunicazione tra vivi e morti, trasmettendo il messaggio nell’aldilà. Questo è un messaggio che non può più avere una risposta, in quanto il destinatario è un morto: non c’è dialogo, “cenere muto”. Elemento molto importante presente anche nei sepolcri (modificato). Madre + fratello insieme; il poeta è invece lontano. Nelle terzine conclusive c’è l’emergere della disillusione: quel desiderio dichiarato nei primi versi non verrà soddisfatto. Si parte con l’augurio di trovarsi un giorno accanto alla tomba del fratello (come Catullo) “mi vedrai seduto su la tua pietra”: alla fine si dichiara l’infondatezza di questo desiderio, di questa illusione, in quanto l’unico modo per raggiungere il fratello sarà nell’oltretomba (il corpo della madre, il petto, sembra essere già proiettato nell’oltretomba, tramite); abbraccio materno unica dimensione in cui i due fratelli possono ricongiungersi. Questa idea della morte come momento di consolazione della vita viene espresso anche nel sonetto “alla sera”. Sera momento preferito della giornata perché concepita come “la sera della vita”, momento di quiete nella giornata. 11. Alla Musa Vengono abbandonate le tinte drammatiche e aspre dei sonetti precedenti, il tono è elegiaco punteggiato da accenti recitativi; ad un passato quasi mitico si succede un presente senza speranza dove la fiducia nella parola e nella poesia si ritira di fronte ad una realtà fallimentare. Il poeta veneziano, che nella sua vita è sempre stato confortato dalla Poesia, che gli ha dato anche, forza di vivere e speranza di gloria; ora avverte che la Musa lo abbandona, perché sente che le poche rime faticosamente scritte non gli permettono di dimenticare il pianto del suo cuore, deluso per l’amore contrastato e per la patria vilipesa. In questo sonetto si esprime in forma pacata e, dopo il primo sfogo autobiografico, riesce a sollevarsi ad una visione più ampia del destino umano. Oh, Musa, un tempo solevi versare sulle mie labbra un’abbondanza d’ispirazione alimentatrice di poesia quando la mia adolescenza volgeva al termine, e dietro a lei sopraggiungeva questa età che mi accompagna dolorosamente verso la sponda del Lete (fiume infernale dell’oblio). Ora che non mi ascolti t’invoco, tu sei fuggita per sempre con poesia è la celebrazione della vittoria ma anche il riconoscimento della grandezza dei vinti. Giacomo Leopardi – I Canti & Le operette morali È stato un grandissimo poeta ma anche uno scrittore di prosa dell’800. I canti Edizioni:  1831 Firenze, Piatti (F31) è originale ed autorizzato dall’autore, ma una fase precedente.  1835 Napoli, Starita (N35), è l’ultima edizione autorizzata da Leopardi.  1845 Firenze, Le Monnier (F45), è postuma a cura di Antonio Ranieri, ha ereditato e gestito a lungo le sue carte, ha donato i manoscritti alla biblioteca nazionale di Napoli, in alcuni casi ha seguito fedelmente la volontà di Leopardi ed in altri no. Edizioni critiche (non ce n’è una definitiva):  Moroncini 1927  Peruzzi 1981  De Robertis 1984  Gavazzeni 2006-2009 è la più avanzata, sono stati usati dispositivi elettronici offrendo una variante più completa analizzando tutto il materiale disponibile (impresa monumentale), offre la possibilità di commentare l’iter compositivo. Un testimone importante che possediamo è N35C, è una copia dell’edizione Starita su cui lo stesso Leopardi introduce modifiche e correzioni in preparazione dell’edizione Parigina, che però non riesce a pubblicare perché muore. All’Italia Composto a Recanati nel settembre 1818, nelle prime due pubblicazioni è aperto da una lettera di dedica a Vincenzo Monti. È composto da 7 strofe di 20 versi endecasillabi e settenari, non è perfettamente simmetrica. Il canto si apre riferendosi ad una non precisa età storica, o romana o medievale. Per le prime tre strofe l’Italia viene personificata, tradizionale nella lirica di argomento civile: essa è piena di ferite e con la chioma non raccolta ed acconciata e senza velo (nella società romana il velo era simbolo della donna libera), quindi schiava, è abbandonata e disprezzata. Ma l’Italia è la più felice delle altre nazioni europee per la sua capacità di dominio in tempi storici di supremazia politica e per la sua capacità culturale in tempi di sudditanza anche se da padrona è diventata schiava. Si chiede quale opera fece decadere l’Italia e qui la responsabilità non viene attribuita né alla Natura né all’uomo, ma al cittadino. Leopardi dichiara che è pronto ad immolarsi per la patria in affanno, non in senso letterario ma militare, è pronto ad imbracciare un fucile per la libertà e l’indipendenza. Leopardi descrive una visione (riferimento ai Sepolcri) dei soldati che combattono nella Campagna di Russia voluta da Napoleone 1812, ma l’Italia non può gioire di un’azione militare a lei lontana ed inutile, che combattono a vantaggio della Francia. Si accenna all’eroismo antico, quando i popoli correvano a difendere la propria patria: ricorda la coraggiosa resistenza di Leonida e dei suoi spartani nel 480 a.C. nel valico delle Termopoli, quando rallentarono i Persiani, disposti al sacrificio per i propri connazionali; narrato da Simonide, poeta d’ambito civile 500/400 a.C., alter ego di Leopardi, inventa il suo discorso che dura fino alla fine del canto: dice che molti autori antichi avevano riportato che Leonida avesse detto ai suoi soldati che prima di sera avrebbero sontuosamente banchettato negli inferi, ma ciò non avvenne prima di aver procurato ai persiani patimento ed incubi, similitudine omerica tra spartani e leoni (il leone si lancia da solo in una mandria di tori semina strage azzannandogli la schiena dopo essergli balzato addosso o lungo il fianco o le zampe) (Gli spartani vincono moralmente), dovranno le stelle, strappate dalla loro orbita naturale, cadere in mare spegnendosi prima che ci si dimentichi del loro sacrificio, Simonide avrebbe voluto lui stesso compiere questo sacrificio ma ormai può solo narrarlo e fare in modo che si ricordi (alter ego di Leopardi). Ad Angelo Mai è strettamente legata ai Sepolcri di Foscolo. Scritta nel 1820; è una reazione alla notizia giunta pochi mesi prima, da parte di Mai, di aver trovato i primi libri di Cicerone “De Republica”, riporta in vita le grandi scoperte umanistiche. Mai era un importante ecclesiastico che aveva l’incarico di dirigere la biblioteca vaticana; era diventato molto noto per una serie di scoperte di testi classici attraverso innovazioni tecniche e che recupera da Palinsesti (manoscritti che sono stati raschiati per poter utilizzare la pergamena e scrivere un’opera più recente); questo implica il giudizio sull’importanza del testo che viene considerato sacrificabile. Si sovrappongono la civiltà medievale e cristiana a quella classica, viene sovrascritto con commento ai Salmi di Santagostino; con l’utilizzo di particolari agenti chimici è possibile recuperare il testo sovrascritto. È una canzone con 12 strofe da 15 versi e si rivolge direttamente a Mai; viene indicato come colui che è in grado di riportare in vita i morti, è un filologo con capacità negromantiche. I vivi sono i grandi del passato e parlano al presente, un secolo morto; essi ridiventano vivi ogni volta che leggiamo le loro opere. Questa è l’ultima occasione per ascoltare la loro voce, ci gridano per cercare di risvegliarci dalla condizione mortifera in cui siamo. L’eredità del nostro patrimonio culturale è molto grande, c’è l’obbligo di essere alla sua altezza, di preservare e sviluppare questa eredità. Vanno richiamati al loro dovere. Leonardo è pessimista sul fatto che gli italiani dell’Ottocento siano degni di questo patrimonio e sulla possibilità che ci sia un nuovo umanesimo. Evoca due figure: Dante Alighieri, immagina che le sue spoglie siano state bruciate su una pira, era un rito per gli eroi classici, dice che nell’aldilà aveva ricevuto più riconoscimenti e meriti che in terra; Francesco Petrarca, lo sfortunato amante, che diventa la figura emblematica della tradizione letteraria italiana, essa nasce dal dolore (duolocentrica) e dal lutto, che sono sempre preferiti al tedio, alla mediocrità morale e alla debolezza emotiva che caratterizza il presente. Con le scoperte di Colombo inizia una nuova era, ma ci si rende conto che la conoscenza toglie spazio all’immaginazione, e il mondo reale è meno bello di quello immaginario, distacco fra età antica e il presente. Ariosto ha un percorso di progressivo disincanto che permette di perdersi nel labirinto romanzesco; la poesia di Tasso è già disillusa, Leopardi stesso vorrebbe invocare il suo fantasma, ma è consapevole che aumenterebbe solo la sua angoscia. Alfieri viene citato per la qualità della sua opera e la tempra morale, può stare con i grandi del passato con Foscolo, forse. Nel finale incita Mai a continuare la sua opera per risvegliare i vivi. Ultimo Canto di Saffo Saffo è un personaggio storicamente rintracciabile, già “civilizzato”, sebbene antico ed ignaro del progresso scientifico, che viene dopo i patriarchi biblici, che sono fuori dalla storia. Il canto tocca tre temi: la sfortuna di chi è brutto o malato che viene meno amato dalla società ed osteggiato nella sua realizzazione; l’uomo storico uscito di natura è, prima ancora di nascere, segnato nell’animo da una colpa irrisarcibile, ereditata sul modello di quella adamitica dai suoi progenitori, che hanno preferito la ragione all’illusione, sebbene non venga ancora ritenuto responsabile per questa colpa (tutti i mali verranno imputati alla natura, creatrice della ragione e del suo meccanismo distruttivo, cagione del progresso e dell’uscita dallo stato primitivo, solo nella Storia del Genere Umano 1823); il dolore come unico dato certo dell’esistenza e la vita umana come stato di oscurità assoluta di fronte al trascendente in qualunque tempo storico (la misera Saffo è una poetessa greca vissuta tra il VII e VI a.C., appartiene ai lirici, poeti cantori che Leopardi aveva osannato come divulgatori delle favole mitiche, cioè il più poderoso antidoto contro i danni della ragione). L’attribuzione di bruttezza ad una sapiente è topica, ma la sua infelicità non collima con il fatto di essere brutta, riflettendo sul suo caso riesce a capire meccanismi Negativi più generali del vivere e della natura, così come è in grado di fare Leopardi; secondo lui chi è brutto è più agevolato degli altri a comprendere che l’umanità non ha compassione né interesse per la bruttezza, che essi sono esclusi dal piacere e dal successo fra gli uomini. È composta da 4 strofe di 18 versi, tutti sciolti a parte gli ultimi due a rima baciata. Verso l’alba, quando la luna sta cadendo con il suo candido raggio e già s’intravede Venere, il più brillante degli astri del firmamento in questi momenti di passaggio, con la selva silenziosa sulla rupe di Leucade; il paesaggio è indifferente alla situazione di Saffo, contrasto fra i due. Questa bellezza della natura era di consolazione per le sofferenze fisiche e spirituali di Saffo, ma ora non più, ora preferisce una natura sconvolta, come i paesaggi in tempesta che sono più solidali con la sua interiorità, anche se è una visione illusoria; gli Dei la puniscono con il dolore e la sventura, escludendola dalla vita autentica perché è rea di qualcosa che resta inspiegabile. Lei ha l’impressione che la corrente del fiume aumenti dove vuole bagnare il piede, come se provasse un sentimento ostile nei suoi confronti. Si chiede il motivo della sua condizione e quando finirà (Parche: Cloto traformava la matassa della vita in filo; Lachesi avvolgeva il filo della vita sul fuso assegnato a ciascun individuo un destino e una durata terrena, Atropo lo recideva decretando la morte della persona). Leopardi si concentra sulla seconda parca che presiedeva lo scorrere dell’età e sceglieva la sorte individuale. Saffo è convinta che simili domande siano destinate a cadere nel vuoto. Si rivolge a sé stessa, non avendo trovato interlocutori esterni, se anche fosse bella e corrisposta da Faone, soffrirebbe lo stesso per motivi diversi, in quanto essere umano. Nonostante le imprese eroiche, nonostante l’essere un dotto poeta, il valore non brilla in un corpo brutto. Una volta che il suo velo corporeo, indegno di aver coperto la sua bellissima anima, cadrà a terra, ricercherà riparo presso Dite, il dio dell’aldilà. La morte diventa risarcimento dei mali terreni, per Leopardi il suicidio non è peccato. Una volta che perirono le sognanti illusioni della fanciullezza Giove non aperse il vaso della felicità, di cui è avaro. Saffo si getta poi dalla rupe, pronta ad essere accolta da Prosperina, moglie di Dite e regina dell’aldilà, chiamata Tenaria, cioè infernale, perché i Greci credevano che la porta dell’Inferno fosse presso campo Tenaro. L’Infinito Composta a Recanati nel 1819, classificata come Idilio, cioè una visione che da conoscenza, legata solo per alcuni accenni al mondo agreste, per lui erano legati a particolari momenti interiori e dovevano seguire l’ispirazione più vera e sorgiva del cuore. La scena vista in una occasione di vita prorompe in un’effusione dell’io, che ambisce ad essere puro ed universale, seguito da una cogitazione volta a scoprire le verità più profonde dell’uomo e del cosmo; essi vengono tradotti in un dettato poetico colloquiale con parole che alludono alla quotidianità. Essi non devono essere immediate, ma a seguito di un processo rielaborativo. Il poeta stando seduto su un colle (Forse il Monte Tabor, altura nei pressi del Palazzo di Leopardi) solitario con davanti una siepe (forse non una siepe da giardino, ma una siepe rustica, disordinata e composta da piante o alberi a basso fusto, come si usava nell’Ottocento per delimitare i terreni) che gli impedisce una parte della vista del panorama, riesce a concepire dentro di sé l’infinito spaziale, e dopo aver sentito il vento concepisce anche quella temporale, e la sua mente, fondendo i due infiniti e toccando gli ultimi termini della capacità di concezione umana, perde il controllo razionale. È un concetto fisico, è lo spazio siderale, della materia, guardato dal poeta con l’occhio dell’esperto conoscitore di problemi cosmologici. Alla luna inizialmente il titolo era La Luna o La Ricordanza. Viene descritta la libido dolenti giovanile, il piacere sublime che si prova in gioventù ricordando un evento doloroso, quantunque il dolore da esso generato si protragga ancora nel presente. catastrofe può distruggere lasciandone a malapena il ricordo. Gli uomini ritengono che il male sociale, poiché commesso dagli uomini, dipenda dalla loro volontà (dipende dalla natura che ha fatto l’uomo cattivo) e che essi cercano sempre dei capri espiatori per scaricare i loro disagi, sperando di alleggerirlo o eliminarli. La natura per i mortali è madre perché li partorisce e matrigna per come li tratta; è persuaso che la società umana sia stata predisposta e stretta in alleanza contro la natura, considera tutti gli uomini fra sé confederati e li abbraccia senza distinzioni di sorta con un amore autentico porgendo loro e aspettandosi da loro in contraccambio, nei pericoli e nelle afflizioni che possono capitare in questa guerra comune, un soccorso efficace e tempestivo e ritiene che impugnare un’arma per colpire altri uomini e tendere trappole o porre innanzi ostacoli al proprio compagno di sventura sia folle come sarebbe in un campo di battaglia assediato dall’esercito avversario, proprio mentre gli attacchi si fanno più feroci, dimenticando quali sono i veri nemici, mettersi a duellare con i compagni. Ritorniamo sulle pendici del Vesuvio, e Leopardi ci passeggia anche di notte, ipotizza che la terra non sia l’unico pianeta abitato nella galassia e toglie valore anche alla illusioni bibliche o antiche. Leopardi fa un parallelo fra formiche e uomini, come il formicaio può essere distrutto da un frutto non ancora maturo che cade dall’albero in autunno, solo per colpa della natura, distruggendo tutto il duro lavoro fatto in previsione dell’inverno, così aveva fatto il Vesuvio nel 79 a.C., e ora il Vesuvio minaccia costantemente le nuove città sorte sulle ceneri di quelle antiche. Ci sono meno stragi di uomini piuttosto che di formiche solo perché gli uomini sono meno numerosi. Le rovine di Ercolano e Pompei sono simbolo dell’inferiorità dell’uomo alla natura e non della grandezza antica. Nella conclusione la ginestra assume tratti umani, anche essa sarebbe distrutta da una eruzione, anche se è più saggia e meno debole dell’uomo, non crede nell’immortalità, non avendo mente umana non cede a superstizioni ed ottimismi. Le operette morali Il titolo è problematico perché nasce come riferimento ad un genere, inventato da lui stesso, ed è molto moderno; genere di racconto e di dialogo che destruttura le forme tradizionali di narrazione. Sono frammenti che compongono alcuni nodi filosofici, con linguaggio complesso, studiato ed innovativo. La riflessione sulla lingua: linguaggio adatto alla riflessione filosofica, adeguato alle necessità del tempo. Si contrappone alla prosa manzoniana. È un modello che concilia ricercatezza stilistica e trasparenza, la possibilità di esprimere significati netti e definiti. “Prosette”, “Dialoghi satirici alla maniera di Luciano”, così Leopardi le definiva, non ‘operette morali’. Scritte negli anni ’20, probabilmente tra il 1824 e il ’26: non è una bozza, è un manoscritto definito sul quale l’autore lavora. Edizioni:  Milano, Stella, 1827  Firenze, Piatti 1834 (FC) con correzioni del Ranieri  Napoli, Starita, 1835 (prime 13 si interrompe per la censura borbonica) (NC) con correzioni di Leopardi. Per le operette restanti, edizione fiorentina corretta da Ranieri, dove Ranieri raccoglie una serie di indicazione d’autore provenienti da Leopardi o altri testimoni manoscritti che non sono a nostra disposizione, è però da considerarsi il testimone più importante delle ultime volontà di Leopardi (per quanto riguarda le Operette).  Firenze, Le Monnier, 1845. Si fa riferimento a questa edizione per colmare lacune presenti nel testimone Fc (curato da Ranieri). Il Moroncini ha prodotto l’edizione critica sia dei Canti che delle Operette; nell’edizione critica del 1979 il testo rimane praticamente invariato. Storia del genere umano (Pagina 77) Rappresenta il prologo del libro, si distingue sia per forma, favola cosmogonica, che per argomento, il destino dell’umanità. All’inizio gli uomini furono creati come bambini della stessa età, furono allevati dagli animali, come Giove era stato allevato da madre Rea e nutrito con miele e latte di capra, per sfuggire a Saturno. La terra era meno magnifica, ma gli uomini erano felici, perché essa non dipendeva da quello che avevano; ma le speranze non trovando la loro realizzazione, diminuivano la felicità progressivamente. La terra, che sembrava infinita, rivela i suoi limiti ed uniformità percorrendola; col tempo alcuni caddero nella disperazione e non sopportando più la vita si suicidarono. Gli Dei comprendono che se la natura non avesse creato condizioni di distrazione per l’uomo esso sarebbe già estinto. Gli uomini lamentandosi della loro miseria chiedono a Giove di ritornare fanciulli, quando erano felici; ma non potendo accontentarli decide di aumentare e variare la magnificenza del mondo, inserisce i mari per bloccare il cammino, distinguere le terre e rappresentare una similitudine dell’immensità, creò alture e confuse le generazioni degli uomini in modo che avessero diverse età, creò i sogni che illudessero gli uomini di essere felici. L’animo degli uomini venne risollevato e durò più di prima, presto però ritornano miseri, l’infelicità degli uomini non è causata dalle colpe commesse verso il cielo, non vengono negati i loro delitti e misfatti, ma sono riportati alle loro miserie e infelicità. Con il riferimento al Diluvio ovidiano con unici superstiti Deucalione e Pirra, intende che nulla gioverebbe più all’umanità che estinguersi. Giove, accettando la natura degli uomini, per intrattenerli decide di diffondere le malattie e le sventure per fargli apprezzare maggiormente il bene. Sapienza, onorata dagli antichi, aveva contribuito al progresso della società, aveva promesso e giurato ai seguaci di mostrargli Verità, che sedeva con gli dei, con il passare del tempo gli uomini si lamentano con Giove che essa non giri sulla terra; il Dio, irato, decide di punirli più duramente che in passato e dà a Verità domicilio eterno sulla terra, essa mostrerà la falsità dei beni mortali e la vanità di qualunque cosa all’infuori del dolore. Però gli uomini troveranno conforto nel fantasma Amore, che Giove gli concede; essendo lui eterno fanciullo rispecchia l’iniziale destino degli uomini ed incarna le loro speranze e immaginazioni, alcuni mortali lo disprezzano ma lui non se ne cura essendo di natura mansueta. Dialogo della Morte e della Moda (Pagina 125) Tratta un tema molto importante: la moda, tema molto attuale, caratteristica della modernità che Leopardi identifica con grande lucidità, e la morte. Dialogo all’interno del quale la moda cerca di convincere la morte del rapporto di consanguineità: caducità, elemento in comune, due aspetti della natura effimera, del divenire. Morte aspetto naturale della caducità, Natura che crea e distrugge tutti gli esseri viventi; moda aspetto culturale della caducità, cultura soggetta ad un movimento incessante di morte e rinascita. Concentrarsi sulla caducità, sulla vanità della natura, mette in crisi il paradigma umanistico dell’immortalità (dai Classici, Orazio e Ovidio); mortalità del corpo, immortalità del prodotto dell’anima, l’arte-poesia; contrapposizione binaria tra cultura e natura. Crisi quando la moda pone la cultura in una condizione caduca: la modernità è la dimensione in cui tutto è effimero. Cita Petrarca (Canzoniere) il trionfo della morte (vedi Canzone ad Angelo Mai, duolocentrismo). Morte e Moda sono sorelle (morte si definisce nemica capitale della memoria). Secolo della morte: rovesciamento della relazione tra vivi e morti, i vivi sono più morti dei morti stessi; la moda porta alla morte l’uomo. Questa immortalità che consiste nel sopravvivere della memoria è assolutamente vana, illusoria (parla di burla) secondo la Moda e la debella, fa che nessuno la cerchi e che nessuno la conceda. Leopardi mette in dubbio tutto attraverso la bocca della moda (a cui non dà un giudizio positivo). Dialogo di un folletto e di uno gnomo (Pagina 151) uno gnomo va a cercare gli uomini dato che non li vede più sottoterra, incontra un folletto che gli dice che sono tutti morti. (polemica del giornalismo emblema del progresso) I giornali non sono più necessari perché gli eventi che si scrivevano erano quelli storici generati dagli uomini, mentre quelli naturali sono immutabili ed indipendenti. Scomparsi dalla terra, la Fortuna, che era cieca e bendata, si è messa gli occhiali e si è messa a guardare la terra senza più intromettersi. A causa dell’amor proprio ogni specie si sente il primo ente della natura. Gli uomini, antropocentrici, credevano che tutto fosse stato creato in loro ragione. Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio famigliare (Pagina 249) Tasso colloquia familiarmente con una presenza interiore, Genio; si trova all’ospedale Sant’Anna di Ferrara dove era stato internato per aver insultato Alfonso d’Este. È innamorato di Eleonora d’Este e la tradizione vuole che questo amore segreto sia la causa delle sue disgrazie, quando erano vicini le sembrava una donna, ma ora che sono lontani una dea, viene insinuato che la donna immaginaria sia quella che non si trova, perché al momento della conoscenza esse risultano diverse. Fra il vero e il sognato non c’è molta differenza, solo che il sognato può essere molto più dolce, è una consolazione della miseria della vita; Tasso non può accettare che il falso sostituisca il vero. Il piacere viene conosciuto solo attraverso l’astrazione della mente, non è concreto, non è presente anche se l’unico intento della vita è la felicità, ma la vita mancandola è quindi imperfetta, il desiderio non raggiunge il proprio fine. La noia è come l’aria che riempie tutti gli intervalli fra gli oggetti; dal momento che il piacere non si può raggiungere, la vita umana resta in preda al dispiacere o, nei momenti d’intermittenza di esso, alla noia. I rimedi alla noia sono il sonno, l’oppio e il dolore, mentre l’uomo patisce non si annoia in nessuna maniera; Tasso sceglie di annoiarsi piuttosto, e propone come rimedio le occupazioni ed i sentimenti. La solitudine ricrea l’immaginazione propria della gioventù ed è un conforto all’uomo nello stato sociale al quale è ridotto. Il Genio è nato dall’ubriachezza di Tasso, il liquore generoso ha la stessa funzione del sogno o dell’oppio nel procurare uno stato di alterazione come sospensione dalla noia e dall’infelicità. Dialogo della Natura e di un Islandese (pagina 271) Un islandese che aveva molto viaggiato, un giorno giunge in Africa e scende sotto la linea equatoriale, in terre dove l’uomo non aveva mai messo piede. Vede da lontano un busto grandissimo e pensa sia qualcosa di simile a quelli dell’isola di Pasqua, si avvicina ed è una enorme donna viva, bella e terribile, con occhi e capelli nerissimi. Lui fuggiva dalla Natura e la trova infatti in un luogo inesplorato dove il suo dominio è assoluto; aveva capito fin da subito la vanità dei beni e la stoltezza degli uomini che inseguono illusioni. Si allontana degli uomini e gira il mondo cercando un luogo dove potesse non offendere e non essere offeso, e non godendo non patire; si era quindi chiesto se la Natura non avesse dedicato all’uomo un habitat in particolare e se quindi non ci fosse un luogo dove il vivere sarebbe per loro misero e dovrebbero dar la colpa di questo non alla Natura ma a loro stessi. Durante i suoi viaggi ha capito che essa non è nemica solo degli uomini ma di tutte le creature; critica alla Natura di averlo messo al mondo e poi averlo abbandonato, l’Islandese non ha chiesto di essere messo in questo universo. La natura gli risponde che questo universo è un continuo ciclo di creazione e distruzione, l’una serve all’altra e alla conservazione del mondo; è quello che dicono i filosofi, ma chi è distrutto patisce, e chi distrugge non gode quindi si distrugge da solo. La conclusione: arrivano due leoni che si mangiano l’islandese, ma alcuni narrano che arrivò un vento che lo stese atterra, lo rese una mummia e costruì sopra un mausoleo di sabbia. Venne poi ritrovato da alcuni viaggiatori e ora si trova in un museo in Europa. Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie (Pagina 351) Federico Ruysch era uno scienziato fiammingo (seconda metà ‘600-inizi del ‘700), anatomia, grande fama che giunge fine a Leopardi. Aveva escogitato una tecnica particolare per la conservazione dei preparati anatomici che sono poi giunti fino a noi; dava un aspetto vitale,
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