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Appunti letteratura italiana Professoressa Falardo, Appunti di Letteratura Italiana

Appunti del corso di Letteratura Italiana (2020-2021) GOLDONI, PARINI, ALFIERI, FOSCOLO, MANZONI, LEOPARDI, CARDUCCI, VERGA con relativo contesto storico e culturale

Tipologia: Appunti

2019/2020

Caricato il 21/09/2022

Vitagruosso
Vitagruosso 🇮🇹

4.6

(27)

12 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Appunti letteratura italiana Professoressa Falardo e più Appunti in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! 22/02/21 Il Settecento è un secolo di grandi cambiamenti, di portata epocale dal punto di vista politico economico sociale, dal punto di vista degli orientamenti del pensiero, di riforme, di rivoluzioni, francesi ed americana, si affermano i valori della tolleranza del progresso della libertà di pensiero. Abbiamo anche un’espansione dal punto di vista demografico ed economico. Demografico perché cominciano a chiudersi le grandi epidemie di peste, che avevano colpito duramente molte popolazioni, l’ultimo grande episodio è la peste a Marsiglia nel 1720, migliora l’alimentazione, le diete alimentari, perché comincia a crescere la produzione agricola perché aumentano le superficie coltivate, c’è più cibo a disposizione, non possiamo parlare di una vera e propria rivoluzione agricola ma comunque aumento delle superfici coltivate. L’agricoltura è ancora il motore dell’economia, abbiamo un’agricoltura di stampo capitalistico, si produce per vendere e per investire poi i profitti in attività produttive. Ovviamente questa agricoltura si intensificherà gradualmente. Riforme, rivoluzioni, espansioni, nuovi valori, nuovi ideali. Un’altra crescita è quella delle manifatture, del commercio, incremento della produzione manifatturiera anche se non abbiamo ancora un sistema di fabbrica perché ancora esiste il lavoro a domicilio che è molto diffuso, manifatture prodotte nelle botteghe artigiane. La rivoluzione industriale si basa almeno in tutta la prima fase sul settore tessile, questa rivoluzione che comincia in Inghilterra nella seconda metà del secolo si diffonde gradualmente altrove, negli altri paesi europei. In realtà in Europa abbiamo elementi di modernità ma anche grossi problemi legati a fattori di arretratezza, nelle campagne gestione di stampo feudale, privilegi riservati al clero, all’aristocrazia soprattutto per le tasse, c’è quindi un ritardo dal punto di vista dello sviluppo a causa di questi fattori. Nella politica interna fatta eccezione per la Inghilterra ed Olanda abbiamo l’assolutismo illuminato, abbiamo un potere assoluto, i sovrani controllano personalmente le funzioni di governo fondamentali senza il limite magari del Parlamento ma si aprono a riforme, sono disponibili a realizzare una politica di riforme proposte secondo i principi della cultura e della civiltà dei lumi, della cultura dei lumi, hanno il controllo delle funzioni di governo ma sono disposti ad attuare delle riforme perché ci sono seri problemi. Pensano a queste riforme anche con il supporto degli intellettuali, la figura dell’intellettuale cambia, non è più chiuso nel suo mondo, non si occupa solo di letteratura ma si interessa alla vita politica sociale, produzione impegnata dal punto di vista sociale e civile, rivolta ai problemi scottanti della realtà. Viene meno la figura dell’intellettuale chiuso nel suo mondo, preso dal culto della parola ed avulso dal contesto della realtà, ma l’intellettuale moderno, il philosophe, l’intellettuale che si pone il problema civile è impegnato. Viene menola figura dell’intellettuale cortigiano, al servizio di un signore, non libero, condizionato fortemente dai principi da cui era finanziato, nella sua produzione era al servizio della nobiltà. Il nuovo intellettuale è più libero, produce testi utili, molti sono addirittura funzionari o consiglieri, trovano un compromesso con i sovrani, non tutti riescono a vivere soltanto dei propri scritti, lavorano per migliorare la situazione politico economica. Si dedicano alle scienze naturali ma anche a quelle umane, si occupano del rinnovamento dei costumi e della società, Montesquieu Voltaire sono impegnati in battaglie culturali e civili, come anche Parini in Italia. Collabora per la pubblica utilità e per la felicità pubblica. Genovesi scriveva che l’impegno culturale non deve essere disgiunto da quello civile, l’intellettuale si deve far carico anche di questo, deve incedere sulla realtà per risolvere i problemi più scottanti. Le riforme erano necessarie perché c’erano problemi, alcuni sovrani cercavano di favorire lo sviluppo economico del paese razionalizzando il sistema del prelievo fiscale perché a volte il sistema fiscale non era adeguato, c’erano alcune caste che godevano di privilegi. In Austria in particolare Maria Teresa tra le azioni di riforma pensa di introdurre il censimento dei beni immobili, li registra, censimento funzionale alla razionalizzazione del sistema fiscale, si volevano evitare dei privilegi, delle riduzioni delle tasse concesse a certi ceti, pensa di cominciare a risolvere il problema fiscale. Riforma del sistema amministrativo, istituzione dell’istruzione pubblica primaria, rinnovare i codici penali, rinnovarli in senso umanitario. Questa collaborazione tra monarca e philosophe andò avanti fino all’ultima parte del 700, quando andò in crisi, perché entrò in crisi l’assolutismo. In Italia c’era la divisione politica, il dominio straniero ed una classe borghese non tanto forte diciamo, si sviluppa ma molto lentamente, l’aristocrazia era ancora dominante anche se viveva un periodo di crisi. Notevole differenza tra nord e sud e tra l’altro i latifondi erano gestiti ancora con sistemi di stampo feudale. Se in quegli stati dominati dalle nuove dinastie asburgiche qualcosa si stava muovendo, in altri stati era tutto fermo, non c’erano iniziative. La stagione illuminista si diffonde a partire dalla metà del 700, il termine deriva da lumière, illuminare il mondo contemporaneo con la ragione, con l’intelligenza, per creare abbattendo l’ignoranza ed i pregiudizi, la superstizione, l’oppressione, creare modi di vita felici e razionali, questo era il fine, illuminare il mondo contemporaneo alla luce della ragione e delle capacità di progresso dell’uomo, abbattere ingiustizie ed oppressioni. Per migliorare queste condizioni bisognava attuare riforme, riflettere, lavorare intensamente. Passo illuminante riposta di Kant a che cos’è l’illuminismo nel 1784. Uscita dell’uomo dallo stato di minorità che deve imputare a se stesso. L’uomo è responsabile di questo stato di minorità, cioè l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro, mancanza di decisione, coraggio, far uso del proprio intelletto senza essere guidato da un altro. Osa conoscere, essere saggio, abbi il coraggio di servirti della tua facoltà, la pigrizia e la viltà sono le cause per cui tanta parte degli uomini dopo che la natura li ha fatti liberi rimangono comunque minorenni e gli altri continuano ad essere loro tutori. E’ così comodo essere minorenni, se ho un medico che decide per me, un libro che decide per me, non ho bisogno di pensare, lo faranno altri per me. “Noiosa occupazione” definisce ironicamente il pensare con la propria testa. I tutori dopo averli stupiditi come fossero animali domestici, e di aver loro impedito di muovere un passo fuori dalla carrozzella da bambini, in un secondo tempo mostrano ad essi il pericolo che li minaccia camminando da soli, ma questo pericolo non è così grande, ma questo esempio li rende paurosi e li distoglie da ogni tentativo di camminare soli. Kant ridimensiona il pericolo che l’uscita dallo stato di minorità indica, si ha paura di uscire da questo stato di minorità cui si è assuefatti, certo questa uscita è rischiosa ma bisogna uscire da questa situazione perché poi si può riuscire a camminare da soli. L’uomo ama addirittura la propria minorità, perciò non sa servirsi del proprio intelletto. Con l’educazione del proprio spirito ci si può scogliere dalla minorità e camminare sicuri. In realtà dice che i tutori hanno assunto il compito con tanta benevolenza, però questi tutori strumentalizzano i minorenni. Ciascuno deve affrontare con coraggio l’esame critico della realtà, non deve accettare senza consapevolezza le indicazioni dei tutori che ha scelto. I maggiori centri di diffusione dell’Illuminismo in Italia sono Napoli e Milano, questi centri facevano gruppo, avevano necessità di riunirsi per scambiarsi idee e progettare, c’erano luoghi specifici come salotti, case private e caffè dove gli illuministi facevano gruppo in una società Casa Verri (1761). Nasce l’accademia dei Pugni di cui facevano parte i fratelli Verri e Beccaria. Qui nasce anche la rivista IL CAFFE. Periodico importante di carattere militante, politico, culturale, pubblicato dal 1764 al 1766, il foglio usciva ogni 10 giorni. Periodico polemico, militante, aveva una finalità pratica. Articolo di apertura quest’articolo di apertura ha un carattere programmatico, è un della vaccinazione, dei nuovi sistemi della vaccinazione. Ne La salubrità dell’aria Parini fa una differenza tra l’aria di Milano e l’impunità degli inquinatori e invece l’aria della compagna e sostiene l’importanza di provvedimenti che garantiscano alle città un’atmosfera più igienica. Ne La vita rustica mette in contrapposizione vita di campagna e vita di città, ma si tratta di una campagna in cui è necessario migliorare ed incrementare la produzione attraverso nuove tecniche di coltivazione. Si fa riferimento sì alla campagna come luogo piacevole ma anche come luogo in cui trovare soluzioni per migliorare la produzione. Nell’ultima strofa de La salubrità dell’aria, in cui parla delle condizioni igieniche di Milano in contrapposizione alle colline brianzole, Parini sostiene la necessità di una forma raffinata al servizio di temi di pubblica utilità. Tra l’altro si rivolge usando questa forma elegante a quella stessa aristocrazia che doveva rigenerarsi, doveva essere rieducata; invece gli illuministi del Caffè affrontavano esattamente questi temi ma si rivolgevano ad un pubblico borghese, che chiedeva una scrittura più semplice ed immediata. La borghesia è un riferimento importante per rinnovare la società. Su posizioni radicali e polemiche era invece la Società o Accademia dei pugni, fondata a Milano 1761, chiamata così forse perché le discussioni degli intellettuali erano piuttosto animate, essi erano convinti di dover riformare la gestione dello stato. Avevano una concezione utilitaristica della letteratura, rifiutavano il purismo linguistico, credevano in una letteratura di cose non di parole, a loro non interessava la forma classicheggiante e raffinata, proponevano una letteratura veicolo delle idee dei lumi, la lingua doveva essere uno strumento agile, in continua evoluzione, che doveva veicolare efficacemente i nuovi contenuti, perciò doveva servirsi anche di forestierismi, come i francesismi. In alcuni casi questi forestierismi secondo loro veicolavano meglio i nuovi contenuti, la lingua della tradizione poteva essere non adeguata a veicolarli, perché c’erano nuovi significati, ed era necessario trovare i relativi nuovi significanti. Essi sono contro l’arcaismo linguistico, contro il modello ideale di Lingua proposto dall’Accademia della Crusca, una lingua ferma basata sulle tre corone, Petrarca Dante e Boccaccio. Ma se si rinnova la società e ci sono nuove idee è necessario trovare nuovi significanti; questa lingua della tradizione è troppo legata ai modelli del passato, quindi si può aver bisogno di vocaboli tratti da altre lingue che aiutano ad esprimere meglio i contenuti nuovi, le idee dei lumi. Propongono uno svecchiamento della lingua. Parini non condivideva tutto questo perché non condivideva intanto la concezione utilitaristica della letteratura, o il rifiuto del classicismo, perché pensava che l’apertura eccessiva verso le altre lingue potesse snaturare i caratteri della cultura italiana ed intaccare la purezza della nostra lingua. Gli accademici dei Pugni ed il caffè sostengono l’importanza dell’utilità della letteratura, ma secondo Parini la letteratura non può essere asservita all’utile, per loro la lingua deve essere uno strumento agile ed efficace, e se essa è chiusa e non ricca di vocaboli adatti ad esprimere i nuovi contenuti, allora ben vengano apporti da altre lingue validi ad esprimerli. Ouverture dell’Ascanio in Alba: serenata teatrale di Mozart, realizzata sul libretto di Parini, eseguita per la prima volta nel 1771. Rinunzia avanti notaio al vocabolario della Crusca pubblicata nel 1764 ino dei primi numeri de Il Caffè, il cui autore e A. Verri, è una rinuncia fatta con ironia. Rinuncia al vocabolario dell’Accademia della Crusca, per veicolare nuovi contenuti con nuove parole, rivendicano agli autori coevi la possibilità di inserire neologismi, cosa che era già stata concessa in passato. E’ fondamentale uno svecchiamento della lingua perché essa deve essere veicolo del processo civile, se la società si rinnova deve rinnovarsi anche la lingua. Lotta all’arcaismo linguistico della Crusca, si fa riferimento ancora ad Orazio, si dice che bisogna lottare contro l’arcaismo per veicolare nuovi contenuti. 01/03/2021 RINUNZIA AVANTI NOTAIO AL VOCABOLARIO DELLA CRUSCA (A. Verri) Pubblicato nel 1764, in uno dei primi numeri de IL CAFFè, questo testo affronta il problema linguistico, si pone contro l’arcaismo linguistico della Crusca, Verri è contro i pedanti, contro l’arcaismo linguistico del vocabolario degli Accademia della Crusca, primo dizionario della lingua moderna e frutto del lavoro dell’Accademia, che propone una conservazione della lingua nazionale italiana. La prima edizione risale al 1612, il vocabolario propone un modello ideale di lingua, ma questo modello si basa sul lessico del 300, sul lessico utilizzato da Dante Petrarca e Boccaccio, le tre corone. E più avanti si fonderà anche su integrazioni di alcuni autori del ‘400 e ‘500. Si tratta di un modello ideale di lingua ma chiuso, la lingua non si rinnova ma è limitata a quel lessico. Intanto però passa il tempo, si ha un rinnovamento culturale e sociale, si ha bisogno quindi di nuove parole per nuovi contenuti, quel vocabolario fermo al 500 non è sufficiente. Gli illuministi hanno l’esigenza di dilatare questa lingua, c’è bisogno di nuovi significanti per nuovi significati. Se nel passato erano stati coniati nuovi vocaboli, quegli stessi autori nella loro epoca avevano coniato nuovi termini, anche questi illuministi rivendicano di veicolare nuovi termini per i nuovi contenuti. Rinnovamento a livello linguistico, la lingua non può essere asfittica e bloccata nel tempo, deve rinnovarsi così come si rinnova società. Bisogna aprirsi ai prestiti, ai francesismi, gli illuministi sono poi chiaramente aperti alla cultura francese. Rivendicano quindi un diritto che già Dante, Boccaccio Ariosto avevano avuto, cioè quello di rinnovare la lingua, dare un contributo. Il testo di Verri esprime queste riflessioni, la lingua deve essere un organismo vivo, deve evolversi assieme alla società, ci sono regole troppo anacronistiche ed astratte sulla lingua. Verri ricorre all’autorità di ORAZIO, affermando che egli nell’ARS POETICA si era posto lo stesso problema, anche Orazio chiede la possibilità di un rinnovamento a livello linguistico, visto che nel passato questo rinnovamento era stato consentito. L’articolo è di taglio divulgativo, una prosa aggressiva, ironica, si ricorre anche ad una cornice giuridica, utilizza formule solenni tipiche del linguaggio della giurisprudenza, ironico perché nasce dal contrasto tra la solennità di queste formule ed il rifiuto netto di norme linguistiche rigide. Congiuntivo, costrutto latino, espressioni giuridiche, ma NETTO RIFIUTO DI REGOLE E NORME LINGUISTICHE. Questo costrutto inziale è un costrutto latino; dal momento che gli autori del caffè preferiscono le idee alle parole, e essendo nemici di ogni limite che si voglia porre al loro pensiero, hanno deciso di fare nelle forme, cioè di realizzare secondo le dovute modalità, una solenne rinuncia alla pretesa purezza della lingua toscana e ciò per le seguenti ragioni se Petrarca, Dante Boccaccio e gli altri hanno avuto la facoltà di inventare parole nuove e buone (che rispondevano alle loro esigenze) così pretendono che tale libertà sia concessa anche a loro, poiché sono esattamente uomini come loro, se essi costituiscono un modello ed hanno rinnovato la lingua, ciò deve essere concesso anche ai contemporanei. Poi c’è un passo tratto dall’Ars Poetica di Orazio anche nel mondo classico agli scrittori della tradizione antica latina era stato concesso tutto ciò, perché secondo Orazio non doveva essere concesso anche ai suoi contemporanei? E si riferisce ad esempio a Virgilio. Verri ricorre per avere un supporto nel suo discorso all’autorità di un autore come Orazio pensando che le parole possano maggiormente colpire gli autori del vocabolario quindi i cruscanti. Finché una lingua sarà parlata nella quotidianità dovrà essere necessariamente arricchita di nuove parole, di nuovi significati, deve assecondare lo sviluppo del pensiero, finché c’è una comunità che parla una lingua quella lingua è un organismo vivo, finché la comunità cresce culturalmente e spiritualmente questa lingua parlata deve necessariamente crescere. Anche perché le parole del vocabolario non bastano, sono modelli assoluti, bisogna lottare contro questa pedanteria. La lingua maggiormente tenuta in considerazione per un’apertura è quella francese, se questa lingua ha parole che possono esprimere nuovi concetti, non si asterranno dall’utilizzarle, per timore del Caso, del Crescinbene o di altri autori. Questi autori ma anche altri, quando hanno scritto hanno coniato nuovi termini, hanno rinnovato la lingua ma un po’anche inconsapevolmente, i loro lessici sono entrati nel vocabolario e sono diventati modelli, ma non volevano necessariamente esserlo, non volevano essere tiranni in questo senso. Per curare la forma, per stare attenti alle regole rigidissime dei grammatici si rischia di sfruttare gli ingegni e di limitarli nelle loro capacità “sappiamo che carrozza va scritta con due R ma rischiamo di andare a piedi”: presi dalla stretta osservanza delle norme grammaticali, siamo limitati nelle ricerche, la nostra mente si chiude e siamo ostacolati nel progresso della civiltà, perché siamo presi da altro, dal rispetto delle regole. Il nostro impegno potrebbe essere concentrato su queste regole e potrebbe essere fagocitato, illimitato nella possibilità di riflettere su altro. Le parole servono alle idee, ma non le idee alle parole. Bisogna acquisire da altri paesi tutti i vocaboli che ci possono essere utili, dobbiamo prendere il buono anche se esso si trova ai confini dell’universo. Questa acquisizione deve essere realizzata con moderazione, intelligenza, buon gusto, criterio, se effettivamente ne abbiamo bisogno, con gusto, quindi quando è necessario, quando la nostra lingua non ci offre vocaboli adatti al concetto che dobbiamo esprimere. Questa acquisizione deve avere dunque una corretta utilità, quindi priorità sicuramente ai contenuti rispetto al sapere normativo, la stretta osservanza delle norme è messa in discussione quando è esagerata e può ostacolare il progresso della civiltà degli uomini. Altra citazione da Orazio è importante utilizzare nuovi vocaboli a patto che si usino con criterio, perché soltanto in questo caso questa operazione può avere credito. Non dobbiamo avere limiti, dichiariamo con forza che questa battaglia per la libertà di cultura è necessaria, andremo oltre i confini se troveremo vocaboli che possano essere utili alla nostra causa. Verri sostiene che sia importante attingere ad altre lingue, che non debbano esserci barriere tra le varie culture, sostenitore del cosmopolitismo. Noi siamo arrivati a questa conclusione perché siamo gelosi della poca libertà che l’uomo socievole ha, cioè l’uomo che vive in società, ha tanti doveri e tante catene, perciò vogliono scrivere e pensare liberamente senza ovviamente offendere nessuno, “rispetteremo delle regole ma pretendiamo anche una certa libertà di espressione”. Loro hanno notato che a volte vale più l’autorità che la ragione, perciò hanno fatto ricorso all’autorità di Orazio, i cruscanti li ascolteranno se essi fanno riferimento ad Orazio, mettono la novità dei loro pensieri sotto la protezione della veneranda autorità (Orazio). I cruscanti ascolteranno più Orazio che loro, anche se loro stanno dicendo esattamente ciò che diceva Orazio. IRONIA. Sono pronti ad accettare critiche di chiunque, tutti possono contestare ciò che stanno sostenendo, tutti possono censurare, sorridere di ciò che dicono, annoiarsi, trovarli ridicoli, accettano tutte le critiche. Premesso che siamo aperti a tutte le critiche, dispiacerebbe loro essere attaccati, giudicati negativamente da un philosophe, dagli intellettuali illuministi, che fondano la conoscenza sulla ragione, invece saranno contentissimi di ricevere critiche, attacchi da parte dei pedanti, degli studiosi contrari alle nuove idee, gli antiphilosophes, farà piacere se li attaccheranno le bocche inversioni che nobilitano la forma. Il precettore, che è un precettore che non trasmette contenuti culturali, dovrà semplicemente insegnare a questo giovin signore come riempire le vuote ore delle sue giornata. E’ precettore di un amabile stile di vita. (due forme di inversione: iperbato e anastrofe) Da verso 1 a verso 8 Giovane signore, sia che a te il sangue nobile divino discenda da una lunga serie di reni nobili, ossia da nobili progenitori, di antenati magnanimi (reni ossia progenitori) sia che gli onori acquistati e le ricchezze raccolte in terra e mare dal genitore frugale (avaro, accorto, attento) in pochi lustri (ogni lustro è cinque anni), in poco tempo correggano in te il difetto del sangue, ascolta me maestro di un amabile stile di vita. ContenutoAscolta me, sia che tu discenda da un’antica nobiltà, sia che questo titolo nobiliare tu lo abbia acquistato recentemente grazie a tuo padre che ha comprato il titolo nobiliare ed ha comprato per te antiche ricchezze. Nel primo caso parliamo di secoli, nell’altro di lustri, cioè di pochi anni in cui il genitore ha acquistato il titolo nobiliare. Il narratore, ossia precettore, si rivolge al narratario, ossia al giovin signore. Per una lunga serie di magnanimi antenati e NON per una lunga di magnanimi antenati serie iperbato, forma di inversione, ossia si inserisce un segmento di testo tra due elementi che compongono un sintagma. Quindi si dividono due parole che però sono strettamente connesse dal punto di vista sintattico (attributo e sostantivo) attraverso l’inserzione di un sintagma, di una opiù parole. In questo caso abbiamo PER LUNGO, poi l’inserimento di MAGNANIMI LOMBI e poi ORDINE. Dal verso 9 a verso a 16  altra inversione (c’è prima la secondaria e poi la principale). Ora io ti insegnerò come ingannare questi giorni di vita noiosi e lenti (perché questo aristocratico è un fannullone) che un così lungo tedio e un insopportabile fastidio accompagnano. Sera in maiuscolo perché c’era l’intenzione di scrivere anche questo terzo testo. Apprenderai da me quali debbano essere le tue occupazioni (tono ironico ed antifrastico, si dice l’opposto di ciò che si afferma perché sicuramente non si tratterà di occupazioni, di preoccupazioni lavorative) al mattino, quali dopo il mezzogiorno, quali la sera, seppure tra i tuoi ozi ti resta l’ozio necessario ( NON E’ L’OTIUM LATINO) per ascoltare i miei versi (io sono a tua disposizione, pronto a darti lezioni che ti servano a riempire le tue ore, se tu sarai disponibile ad ascoltarmi). Dal verso 17 al verso 30 Il precettore ora parla del Gran Tour fatto dal giovine signore. I giovani aristocratici benestanti si recavano nelle grandi capitali europee con l’intento di informarsi, di conoscere culture ed entravano in contatto con diverse di governo. Quando tornavano dopo questa esperienza formativa davano il proprio contributo sociale, politico nel proprio paese, svolgevano anche ruoli importanti, diventavano funzionari del governo a volte. Viaggio altamente formativo, visitavano monumenti, frequentavano la società dei paesi che visitavano. Questo giovin signore di cui ci parla Parini invece fa un Tour che non serve a nulla, anzi lo danneggia, lo porta a fare esperienze negative che lasciano anche dei segni in quest’uomo. Hai visitato gli altari sacri a Venere (dea dell’amore, ossia ha frequentato le donne) ed al giocatore Mercurio (ha giocato d’azzardo) sia in Francia sia in Gran Bretagna e porti i segni del tuo impegno (sempre ironicamente, forse ha contratto malattie e povertà?), ora è tempo di riposare. (Il precettore finge di condividere le scelte di questo giovin signore, in realtà dice l’opposto). Inutilmente a sé ti invita Marte (non si è impegnato nel campo militare), perché per te è folle colui che si guadagna l’onore rischiando la vita e tu hai il terrore del sangue (non è coraggioso, mentre nel passato molti aristocratici si erano battuti calorosamente mettendo a rischio la propria vita). Né i tristi studi della dea Pallade (della sapienza) ti sono meno odiosi (detesta lo studio e la cultura). Qui abbiamo un’altra inversione. Inizia una polemica perché Parini mette in evidenza quei metodi pedagogici coercitivi che aveva sperimentato personalmente e li paragona ai nuovi metodi illuministi. Ti resero troppo avverso ad essi, agli studi, le prigioni lamentose (ossia le aule) dove le arti e le scienze migliori trasformate in mostri ed in fantasmi orridi fanno sempre echeggiare gli ampi soffitti di lamenti di giovani. L’aula scolastica è un luogo di sofferenza, di paura, ci si disinteressa allo studio perché i metodi didattici del tempo riducono la cultura e le scienze a qualcosa di sgradevole, non appassionano. Il precettore abbandona il tono ironico perché deve denunciare la realtà che conosce benissimo, la pedagogia del momento non invogliava a studiare, ci sono metodi troppo rigidi. Dal verso 30 al verso 36  Torna il latinismo cura curae, usato in senso ironico ed antifrastico. Ora prima di tutto ascolta quali dolci occupazioni il mattino debba portare a te, con tocco gradevole (mattino personificato, il giovin signore non può annoiarsi, deve occupare il proprio tempo piacevolmente). Il poeta a questo punto parlando del mattino e del risveglio, parla delle classi sociali che si impegnano quotidianamente, che si svegliano presto, mentre l’aristocratico si dedica al gioco o al teatro, fa lunghe cene, non è una parca mensa. C’è una differenza sostanziale tra il risveglio delle classi sociali che producono ed il risveglio del giovin signore che si alza quando è molto tardi, ma non fa tardi per lavorare, perché deve divertirsi, dedicarsi alle attività piacevole, ha una tavola riccamente imbandita, mangia e va a letto quando gli altri si levano. Abbiamo una classe parassitaria ed una classe che produce e lavora anche per l’aristocrazia (il fabbro ad esempio costruisce i forzieri affinché l’aristocratico possa conservare i suoi gioielli), sulle energie della classe che produce si basa la vita dell’aristocratico che non fa nulla. Sorge il mattino in compagnia dell’alba (sempre personificati) prima del sole che poi appare grande sull’orizzonte più lontano a rendere lieti gli animali, le piante, i campi e le acque (enumerazione, elenco realizzato in questo caso per polisindeto, ossia attraverso la congiunzione e). Dal verso 37 al verso 52 Ci presenta la figura del contadino, in particolare il risveglio del contadino. Enjambement frequenti (il verso si conclude nel verso successivo). Allora il contadino laborioso si alza dal caro letto che la moglie ed i figli piccoli intepidirono la notte, portando sul collo i sacri attrezzi che Cerere e Pale (Dea dell’agricoltura e pastorizia) inventarono per prime, va al campo insieme al bue che gli cammina davanti lentamente e lungo il piccolo sentiero scuote dai rami curvi le gocce di rugiada che come gemme riflettono i nascenti raggi del sole. Mentre l’aristocratico vive nel lusso, il contadino ha un semplice giaciglio scomodo che deve poi condividere con più persone, eppure questa è una classe che produce, che fa gli interessi dell’aristocrazia che ancora dorme. Sempre a quell’ora si alza il fabbro e riapre l’officina rumorosa e torna ai lavori non portati a compimento il giorno precedente, sia che assicuri con una chiave difficile da riprodurre e degli ingegni in ferro i forzieri al ricco inquieto, sia che voglia incidere gioielli e vasi d’argento e d’oro per ornamento di spose nuove o di mense. Queste sono le attività a cui si dedica il fabbro. Prepara oggetti vari d’oro e d’argento che andranno ad adornare le tavole degli aristocratici o le novelle spose, ma non di certo per lui o per il contadino. L’immagine del fabbro rimanda al Dio Vulcano; uomini operosi, utili a livello sociale, con il loro lavoro consentono la vita degli altri Dal verso 53 al verso 64 Inorridisci ed hai i capelli dritti a sentir le mie parole. Tu non sedesti ad una povera mensa al tramonto del sole ed alla luce incerta del crepuscolo non andasti ieri a dormire su uno scomodo giaciglio come è condannato a fare l’umile popolo. Tutto questo spetta al popolo, che pur lavorando e producendo deve accontentarsi perché non ha a disposizione altro. A voi, figli degli dei, a voi concilio di semidei terreni, Giove ha concesso ben altro, e con altri accorgimenti e leggi mi conviene indirizzarvi per una strada nuova. Comincia la descrizione della vita dell’aristocratico, della notte e del suo risveglio che sono diversi da quelli del popolo. Al verso 58: al crepuscolo la luce è incerta ipallage: riferire a un termine qualcosa che bisognerebbe riferire ad un altro termine della frase. E’ riferito al crepuscolo un aspetto che dovrebbe essere riferito al lume (è la luce incerta, non il crepuscolo). 08/03/21 Dal verso 65 al verso 76 Il precettore sempre ricorrendo all’antifrasi e facendo ironia, facendo la differenza in cui vivono le classi sociali rappresentate dal contadino e dal fabbro. Il giovin signore va al teatro ecco perché scene canore. Tra le veglie e le scene canore (gli spettacoli al teatro) ed il gioco d’azzardo (patetico perché fa emozionare) prolungasti la notte decisamente oltre (quando il contadino ed il fabbro si svegliano per andare a lavorare). Ed alla fine stanco in una carrozza dorata con il fragore di calde e precipitose ruote ed il calpestio di cavalli volanti (velocissimi, precipitosi, perché sono così precipitosi i cavalli? In realtà il giovin signore non ha nulla da fare, deve andare a casa non perché lo attenda un lavoro produttivo, deve semplicemente terminare questa giornata vuota) turbasti in lontananza l’aria tranquilla della notte (le ruote delle carrozze producono un suono che può infastidire chi sta riposando) e rischiarasti il buio con fiaccole superbe, splendenti (simbolo della ricchezza, della situazione sociale di questo aristocratico, è superbo colui che è padrone della carrozza. Ovviamente le strade erano buie, l’illuminazione si diffuse alcuni decenni più tardi, per cui le carrozze vanno avanti con fiaccole sorrette dai valletti che illuminano la strada ed hanno la responsabilità di portare a casa il giovin signore) così come accadde quando Plutone fece rimbombare il territorio siciliano dal Tirreno allo Ionio con il carro a cui splendevano davanti le fiaccole delle Furie con i capelli di serpente. Si paragona il percorso che fa il giovin signore che deve andare semplicemente a casa, con il mito di Plutone che va a rapire Proserpina; ci sono fiaccole anche in questo caso che sono quelle che reggono le furie che fanno da lacchè. Dal verso 77 al verso 84 Così tornasti alla tua dimora ma qui ti attendeva per nuovi impegni (che non sono in realtà impegni visto che lui non ha fatto nulla, ancora IRONIA) la mensa che ricoprivano cibi stuzzicanti e vini gradevoli, inebrianti dei colli francesi o spagnoli o toscani oppure ti attendeva la bottiglia ungherese (tocai) a cui Bacco concesse la corona della verde edera e disse: siedi regina della mense (la bottiglia ungherese è incoronata da Bacco come regina delle mense, c’è una sorta di carta dei vini che l’aristocratico ha a disposizione, oltre a cibi stuzzicanti, vini gradevoli e di gran pregio, ovviamente il giovin signore può avere a disposizione prodotti raffinati che sulla sua mensa che non è decisamente una parca mensa. Non deve procurarsi nulla perché già è tutto pronto). Dal verso 85 al verso 100  Alla fine il sonno (personificato) stesso ti agitò il morbido letto (ti prepara i giacigli, addirittura il sonno si occupa di lui perchè deve riposare beatamente) con le sue stesse mani, dove una volta che ti ebbe accolto il servo fedele abbassò le tende di seta ed a te dolcemente (non ha fatto nulla di utile ma è addirittura servito e riverito) a te chiuse gli occhi nell’Inferno). La navigazione è molto difficile perché ci sono dei tavoloni di ghiaccio che possono colpire qualsiasi imbarcazione. Affascinato da questi paesaggi inquietanti, non c’è un vento eccessivo quindi questi blocchi colpiscono la barca relativamente. I blocchi però si incontravano e sembravano respingerlo, definisce insolenti questi blocchi di ghiaccio, allora prende un’ascia e cerca di liberarsene. Sfruttando l’impeto della nave che si era rimessa in moto, si scacciavano i pezzi di ghiaccio. Ha scelto di raccontare questo percorso perché le caratteristiche di questo paesaggio estremo non sono note agli italiani, che in questo modo possono farsi un’idea di questa realtà. Questo paesaggio genera vertigine e malinconia, ma lo ispira, durante questa esperienza gli è stato possibile fare esperienze particolari che vuole veicolare al lettore. Siamo nell’ambito dell’autobiografia quindi abbiamo un’idea dei percorsi che l’autore stesso ha fatto. RIME Composte da Alfieri durante l’intero arco della sua attività di scrittore, pubblicò una prima raccolta nel 1789, poi riprese a lavorare questi testi ma l’intera produzione, molto ampia, uscì in un’edizione postuma del 1804. Nell’ambito di questi componimenti prevalgono i Sonetti, in questi componimenti egli tende all’autobiografismo, propone una rappresentazione pubblica di sé, si presenta come un poeta eroe, in drammatico conflitto sia con sé stesso, sia con la realtà che lo circonda, a volte sembra trovarsi di fronte ad uno dei protagonisti delle sue tragedie, è molto presente la sua figura, fonte di ispirazione è il Canzoniere di Petrarca. Ma ci sono delle differenze: l’autore aveva un’edizione del Canzoniere e l’aveva annotata e commentata, da esso quindi trae alcuni aspetti che ritroviamo nella sua produzione, però è vero anche che mentre Petrarca tendeva all’armonia musicale, cioè ad un certo equilibrio, a forme limpide, perché Petrarca scriveva “cantando il duol si disacerba”, riteneva che la poesia dovesse attenuare la differenza, Alfieri invece fa scelte completamente diverse. Il suo linguaggio è piuttosto aspro, inversioni ardite e forti, linguaggio lapidario e conciso, per Petrarca la poesia deve placare il dolore, mentre per Alfieri deve “far sempre più viva la doglia”, cioè la poesia non placa ma tiene acceso il dolore. Deve far riflettere Temi: animo tormentato ed in conflitto con realtà e con sé stesso, tema amoroso, tema politico, paesaggi e rapporti con la natura, l’io del poeta vuole una natura simile, dove si possa rispecchiare, paesaggio che dà vertigini, che suscita malinconia, il paesaggio deve essere proiezione dell’animo. La natura rispecchia gli stati d’animo del poeta e sembra partecipare anche a quanto accade nel poeta, concetto romantico. L’autore delinea un profilo di sé, quello di un letterato eroe in atteggiamenti fieri, si presenta come un uomo dotato più di sentimento che di ragione, dotato di passionalità, di FORTE SENTIRE, contrapponendosi ad un secolo tanto ragionatore e niente poetico. Forte sentire e smania dell’andare: espressioni che gli appartengono. Tacito orror di solitaria selva (N 173) Sonetto costituito da due quartine e due terzine in endecasillabi. Versi endecasillabi piani perché la parola in clausola è piana (accentata sulla penultima). Schema rimico ben preciso: ABBA- ABBA- CDC-DCD. Molto spesso i titoli non sono dell’autore, ma sono semplicemente antologizzati. Conflitto che lo induce ad isolarsi e riflettere in solitudine. Composto nell’agosto nel 1786 durante un soggiorno in Alsazia. C’è prima la descrizione di un paesaggio boschivo, aspro, poi il rapporto del poeta con gli altri uomini, con il proprio tempo e con la realtà in cui vive. Ancora una volta l’autobiografismo è molto presente, siamo lontani dai luoghi dell’Arcadia, il luogo è specchio dell’animo del poeta. Silenzioso orrore generato da una selva solitaria, mi allieta il cuore di una così dolce malinconia al punto che in essa nessuna belva feroce ritrovati i suoi figli trova conforto quanto me. (Luogo ideale in cui io trovo conforto, luogo in cui altri non lo ritroverebbero, neanche una fiera selvaggia lo ritroverebbe, nonostante essa viva in quel luogo, lui trova ristoro più di una fiera che in quel luogo è nato e vive. Lui si riconosce in questo luogo, trova in questo luogo una condizione ideale). Quando più mi addentro in questa foresta, tanto più in me si producono calma e gioia (ad altri incuterebbe paura, perché buia e silenziosa) per cui ricordando come ero felice là, spesso la mia mente poi torna con la memoria ad addentrarsi nella foresta (torno a vivere quell’esperienza gradevole con la mente. Il poeta è contento anche quando prova a rinselvarsi, cioè entrare nella foresta anche solo col ricordo, anche il ricordo lo gratifica). Non che io disprezzi gli uomini e che non scorga difetti in me stesso e molto più che in altri (autoanalisi) né che io mi creda più vicino alla buona strada, ma non mi è mai piaciuto il mio secolo vile (poco coraggioso, schiacciato dall’assolutismo, da questo potere forte, poco coraggio, privo di eroismo, asservito ai despoti) schiacciato dal pesante giogo dei sovrani, solo nei luoghi deserti i miei conflitti tacciono. (solo et pensoso i più deserti campi, Petrarca). Isolamento fiero che il poeta cerca, che si adatta perfettamente alla sua forte personalità, un poeta eroe che lotta contro tutto questo, ricerca dell’isolamento dell’io lirico. Il rapporto io-natura è IMPORTANTE, il poeta eroe emerge, tema della natura NON amena ma estrema (non boschi ombrosi e tranquilli dell’Arcadia, ma selva intricata che incute quasi timore), conflitto anche con l’età del suo tempo e con l’assolutismo. Il poeta è contro il mecenatismo, contro la figura del letterato cortigiano asservito al signore, è contro il letterato al servizio dei potenti e dei sovrani e quindi non libero nell’espressione delle proprie idee. Vuole che la letteratura sia libera, non asservita al potere, perché questo lo condiziona nelle scelte; i letterati erano protetti da questi potenti ma non avevano libertà di espressione. La loro opera doveva essere invece libera ed autentica, poter esprimersi anche contro i potenti. Sublime specchio di veraci detti Achille rappresenta l’eroe valoroso e bello per eccellenza, Tersite l’antieroe (brutto, vile): figure antitetiche. La mente ed il cuore sono in perpetuo conflitto. Il poeta delinea un ritratto fisico e morale, nella prima parte ritratto fisico (capelli, statura, pelle, occhi), nella seconda si concentra su aspetti del suo carattere. Pallido in volto, più che un re sul trono nel mondo classico i tiranni non si facevano radere dai loro camerieri perché avevano paura che qualcuno potesse tradirli, chi gestisce un potere assoluto non sa se chi gli sta intorno è fedele, ha sempre paura che qualcuno esasperato da questo potere forte. Assimila il suo pallore al re che è pallido abitualmente perché è sempre in tensione, sempre preoccupato per cosa gli accadrà, potrebbe essere sempre vittima di una congiura. Emergono dopo i chiaroscuri alfieriani, autore in conflitto con se stesso ed emergono delle incertezze e dubbi, infatti il sonetto si chiude con il punto interrogativo e l’immagine della morte, c’è il dubbio circa il suo destino. 15/03/2021 Lo specchio è uno strumento di osservazione, è la rappresentazione della verità. Sublime rappresentazione della verità, mostrami quale sono nell’aspetto fisico e nello spirito, capelli, ora radi sulla fronte, rossi schietti (biondo rossiccio) notevole statura e capo chino, (in atteggiamento malinconico), persona magra su due gambe dritte, pelle bianca, occhi azzurri, aspetto buono. Naso regolare, bel labbro, denti regolari(bianchi), pallido in volto più di quanto lo è abitualmente un re (sovrano che è sempre incerto sulla fedeltà di chi gli sta intorno, di chi lo circonda). Ora duro, ora acerbo, ora arrendevole, mite (c’è il desiderio di delineare un ritratto di sé, di fornire un’identità univoca ma non riesce, ci sono molte incertezze), sempre adirato ma mai maligno, la mente ed il cuore sono in perpetua lite (le contraddizioni sono tali che il poeta non riesce a delineare un netto profilo di sé, non riesce a delineare nemmeno profilo del suo destino) Achille è l’eroe per eccellenza, invincibile, il più coraggioso degli eroi greci e poi Tersite, l’antieroe che non ha le qualità dell’eroe bello, senza paura. C’è un’interrogativa, c’è un disperato tentativo di definizione di sé, il tentativo di delineare un profilo chiaro ma finisce per prevalere il dubbio sul proprio presente e futuro, c’è qualcosa di irrisolto e conflittuale. Nell’affrontare la morte c’è la prova suprema di coraggio, nonostante l’ansia preromantica non riesce a fornire un profilo chiaro, netto, alternative che troviamo ed interrogativa incisiva. Si concretizza la sua incertezza anche attraverso i due personaggi greci. Chiasmo accostamento di due membri concettualmente paralleli, gli elementi costitutivi del secondo sintagma sono disposti in un ordine inverso rispetto al primo sintagma. (qui abbiamo infatti nel primo AGG e SOST, e nel secondo invece SOST e AGG). Chiaramente può riguardare tutte le parti del discorso. Il chiasmo è il contrario del parallelismo. Disposizione incrociata degli elementi costitutivi di due sintagmi o di due proposizioni. TESTI IMPORTANTI DI ALFIERI Ci sono numerosi trattati, tra cui Della Tirannide, un trattato scritto d’un sol fiato nel 1777, che poi rivede e stampa nel ’89 ma non vuole che il testo circoli, perché tema che possa essere considerato a favore della Rivoluzione francese, che l’autore non sostiene, perché in particolare nell’ultima fase della sua vita sarà proprio contro gli ideali egualitari della rivoluzione francese. Vede nella Rivoluzione francese “la sostituzione della tirannide plebea con la tirannide aristocratica”. A Parigi un libraio nel 1801 diffonde il testo. Questo testo è incentrato su un conflitto tra tiranno e un uomo libero. La figura del tiranno è circondata del terrore, ma talvolta provato dall’ostilità che ha intorno, non sa su chi può contare, non sa se il suo entourage gli sarà fedele, quindi da un lato c’è la figura forte del tiranno che semina terrore, ma che a sua volta è simbolo di tutto ciò che ostacola l’individuo, dall’altro c’è l’uomo eccezionale, che non accetta la schiavitù, caratterizzato dal forte sentire, un impulso istintivo che appartiene a pochi uomini eccezionali e superiori. Da un lato il tiranno con le sue caratteristiche rappresenta tutto ciò che ostacola l’individuo, dall’altro l’uomo dal forte sentire che incarna la libertà, ma che rappresenta anche un’idea eroica ed astratta di libertà. Le posizioni politiche di Alfieri non nascono tanto da una riflessione razionale su ipotesi reali e concrete di trasformazione della libertà, non ci sono ipotesi concrete di soluzione. L’opera è divisa in due libri, nel primo c’è la definizione del tiranno, colui che ha la facoltà illimitata di nuocere, la tirannide si fonda sulla paura di tutti. Il secondo libro tratta del modo in cui l’uomo libero ed eccezionale, antagonista del tiranno, uomo dal forte sentire che soltanto in tre modi può rapportarsi con la tirannide, o isolandosi, o ricorrendo al suicidio o tentando l’impresa estrema del tirannicidio. Queste sono le uniche strade proposte per affermare la libertà. Il poeta non ha fiducia delle politiche di riforma illuminate, per Alfieri la tirannide ricorre a volte a degli artifici, si maschera ed è pericolo perché a volte riesce ad ingannare i sditti, riesce a nascondere la violenza su cui si basa. Alfieri è pronto a svelare tutti questi artifici ed è assolutamente contro i sovrani illuminati, esclude ogni possibilità di alleanza con le masse popolari o con la borghesia, esclude un progetto collettivo. Composto fino al 1786 e pubblicato nell’89: Del principe e delle lettere  il poeta mette a confronto la politica e la poetica, troviamo giudizi negativi sul proprio tempo, sul secolo vile, c’è la 18/03/2021 GIOVANNI VERGA I Malavoglia è stato pubblicato nel 1881 ed è il primo romanzo del ciclo dei Vinti. Romanzo che all’inizio non avrà grande riscontro né di critica né di pubblico, perché era un romanzo diverso dal tradizionale romanzo ottocentesco, per l’impianto che aveva, per la lingua, per il ruolo del narratore… Per alcuni anni Verga fu più noto al grande pubblicato in quanto autore di altre storie (Storie di una capinera ad esempio), ma nel primo dopoguerra fu riconosciuta l’importanza di questo romanzo grazie all’interesse mostrato da autori come Tozzi, Pirandello, Borgese, poi ci fu una monografia critica di Luigi Russo, che fece riemergere il romanzo. Fu preso a modello negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale, nel decennio del neorealismo (1945-1955). Da questo romanzo fu tratto anche il film di Visconti, La Terra trema (in dialetto siciliano), in cui il regista sceglie non attori professionisti ma gente del luogo, rappresenta i luoghi barche e strade di Aci Trezza, non c’è sceneggiatura predisposta di volta in volta crea i dialoghi anche con la collaborazione di questi interpreti. Verga non scrive il romanzo in dialetto, ma in italiano particolare, “lingua di laboratorio”, anche se riproduce alcuni costrutti del parlato popolare, ma voleva che il romanzo avesse una diffusione nazionale, cosa che sarebbe stata difficile se avesse scelto il dialetto. Già nel settembre del 1875 Verga scrive all’editore Treves e gli comunica di aver intrapreso la stesura di un bozzetto marinaresco, dal titolo Padron Toni, il patriarca della famiglia, sull’onda evidentemente del successo che aveva avuto il bozzetto siciliano, cioè la novella Nedda. All’inizio del 1878 inizia ad aderire al Verismo, abbandona il modello del bozzetto, racconto campagnolo ispirato alla narrativa filantropico sociale, il bozzetto marinaresco è diventato un lavoro più consistente, infatti diventerà il primo romanzo di un ciclo che avrebbe voluto intitolare La Marea, ma che intitola Vinti. Quando viene pubblicato il romanzo Verga, che sa di aver fatto scelte particolari, di aver rinunciato al romanzo tradizionale ottocentesco, nei Promessi Sposi abbiamo ad esempio una descrizione profonda dei luoghi, il narratore è onnisciente, porta il lettore nei luoghi, mostra di conosce già i personaggi e li commenta e riflette sulle loro azioni, per fare ironia, si riserva degli spazi per intervenire, tutto è filtrato attraverso la sua sensibilità, ci fornisce un profilo dei personaggi, la presentazione dei personaggi talvolta è diretta talvolta indiretta, il narratore guida il lettore perché conosce già la fine della storia, sa quali saranno le vicende, le scelte dei personaggi ed orienta anche i nostri gusti di lettore, ci fa capire quali personaggi sono negativi o positivi anche attraverso indizi. Verga ci propone un narratore totalmente diverso, proietta i lettori in medias res, non ci presente i personaggi, non delinea un loro profilo, alla famiglia dei Malavoglia dedica pochissime parole, nulla di più, è il lettore che deve poi analizzando le reazioni e le scelte, i comportamenti dei personaggi, deve farsi un’idea dei personaggi stessi. L’autore è colui che materialmente scrive il testo, il narratore è la voce che racconta, può essere quindi un personaggio interno oppure esterno ai fatti. Verga non ci mette a disposizione un narratore pronto a seguirci, introdurci nei luoghi, ad esprimere giudizi, ma sembra scoprire i fatti man mano che si susseguono e li registra, assieme al lettore. Verga scrive a Luigi Capuano, che è un verista entusiasta dell’opera di Verga. Lui dice che c’è voluto coraggio a scegliere un impianto narrativo così diverso da quello tradizionale, a scardinarlo. Verga scrive a Capuano che non si è assistito nella lettura, si crea anche una frattura con il pubblico che non ha capito la sua scelta impopolare, ha cambiato la struttura del romanzo ma si assume la responsabilità di questa scelta ma se tornasse indietro lo rifarebbe, perché crede molto in questa sua scelta. Il narratore non si crea il problema di presentare i personaggi, il lettore deve preoccuparsi di conoscerli, di approfondire la loro conoscenza, perché non c’è da parte dell’autore un intervento a suo sostegno, alcuni hanno come soprannomi delle ingiurie, dei soprannomi antifrastici. Lo stesso titolo è una “’ngiuria”: I Malavoglia è un soprannome della famiglia Toscano, in realtà una famiglia abituata a lavorare, quindi antifrastico, Padron ‘Ntoni crede molto nell’importanza del lavoro. È come se il narratore avesse assunto l’ottica linguistica e culturale dell’ambiente che rappresenta, delle persone che rappresenta. Le famiglie vengono denominate con un soprannome, questo era un uso locale, paesano, che sicuramente non apparteneva a Verga, ma lui a partire dal titolo già si eclissa, regredisce a livello di un narratore basso, semplice, che ha il punto di vista dei personaggi rappresentati nel testo. Sembra che a raccontare i fatti siano più membri di questa collettività, si usavano in questo paese i soprannomi e dunque a partire dal titolo Verga utilizza un soprannome. In questa lettera dell’81 Verga scrive ancora che sapeva bene che stava andando incontro ad una serie di problemi, sicuramente creava confusione di fronte al lettore la presentazione di tutti questi personaggi, ma lui voleva mettere il lettore faccia a faccia con la realtà e poi comprenderne la logica e la personalità andando avanti con la lettura, attraverso le loro azioni e le loro scelte, che dovevano essere illuminanti per il lettore; il lettore doveva essere messo faccia a faccia con vicende e personaggi stessi, senza mediazione o guida da parte del narratore. Egli stravolge le strutture compositive del romanzo ottocentesco, poi ancora in un altro scritto risponde all’amico Cameroni dicendo di essersi in mezzo ai suoi personaggi. Scompare la voce narrante e questo è il modo migliore di dare l’illusione della realtà, il lettore si immerge in questa realtà, ecco perché ha evitato la descrizione del profilo dei personaggi. Certamente sapeva che inizialmente ci sarebbe stato confusione, ma poi i personaggi si sarebbero fatti conoscere come persone vive, attraverso le loro azioni. Se a parlare sono i fatti ed i personaggi stessi direttamente, abbiamo l’illusione che quel fatto stia avvenendo, “impronta di cosa avvenuta”. L’autore si nasconde dietro le quinte e lascia libero il processo di narrazione, lascia fare ai personaggi ed al lettore; non ci sono tanti punti di riferimento che normalmente tranquillizzavano il lettore (date, coordinate geografiche), non c’è il narratore che orienta il lettore. Rosso Malpelo lavora in una cava di sabbia rossa, vive in una condizione difficile, di indigenza, mal pagato per lunghe ore di lavoro in una condizione molto pericolosa. Malpelo secondo il narratore è cattivo perché ha i capelli rossi, un dato fisico può condizionare la personalità. Ma questo non è così, Verga, autore colto, non poteva pensarla in questa maniera, ma lo pensava il popolo, che si basava su un detto siciliano, su una superstizione. Qui non interviene nessuno a dire che questo assunto non ha alcun senso, che non c’è alcun riscontro nella realtà; l’autore si cala nei panni di un narratore popolare, regredisce a livello di un narratore basso, popolare, inattendibile, ha acquisito l’ottica culturale di quella collettività, la pensavano così i minatori che lavoravano con Malpelo che lo tenevano a distanza, tutto ciò che faceva era per loro frutto della sua malvagità; a raccontare i fatti è un narratore interno che ha quel punto di vista. Ottica sia linguistica che culturale della gente protagonista del testo. Questa riflessione non ha riscontro nella realtà, noi lettori dobbiamo capire poi quale sia la realtà; c’è un comportamento diverso da quello degli autori precedenti. In realtà Malpelo è l’unico in grado di provare la pietas filiale, è legato agli oggetti di suo padre, anche se non hanno alcun valore. Tutti i familiari man mano vanno via da casa, lui resta solo, tutti si disinteressa a lui, ma lui non va via da casa perché rappresenta con le sue scelte e le pochissime parole che proferisce il PESSIMISMO VERGHIANO, sa che non c’è possibilità di uscire dalla posizione sociale in cui il destino ci ha posti, pena essere ingoiati dal mondo. Malpelo per questo non esce dalla sua situazione, perché incarna perfettamente il pessimismo verghiano. Ntoni invece che ha visto la vita fuori e non vuole più fare il pescatore, ad un certo punto finisce anche in carcere, decide poi di andare via dal microcosmo a cui non appartiene più, non si accontenta della vita di quel luogo e della vita del pescatore. In una lettera molto importante che risale al 1878 (cui risale anche Rosso Malpelo) Verga per la prima volta espone il progetto di un ciclo di romanzi, come quello che in Francia aveva avviato Zola con le, scrive a Salvatore Paola Verdura, parla in generale del progetto ed intende mostrare tutte le fisionomie sociali, cioè tutte le classi sociali della nuova Italia. Vuole affrontare tutte queste classi sociali, dai pescatori che lottano per la sopravvivenza, arriverà poi al Mastro Don Gesualdo dove non abbiamo più la lotta per la sopravvivenza perché il personaggio riesce ad arricchirsi a diventare un ricco proprietario terriero, tenta anche la scalata sociale, vuole imparentarsi con i pezzi grossi per avere ulteriore accumulo capitalistico, avere una vita più facile dal punto di vista degli affari, sposa una nobile decaduta (Bianca Trao), ma sarà vinto nella dimensione degli affetti, questa aristocrazia lo disprezzerà e lo riterrà sempre inferiore, (matrimonio che certo non nasce sulla basa dell’amore) morirà solo senza nemmeno l’affetto di sua figlia. Gesualdo sacrifica anche i sentimenti autentici di Diodata, contadina dalla quale aveva avuto anche due figli, l’unica che l’abbia effettivamente amato, per sposare Bianca, perché fa prevalere la logica della roba, che per Gesualdo è un’ossessione. Anche Bianca ovviamente sposa Gesualdo per interessi, anche per nascondere una sua relazione; ma appartengono a due mondi diversi, non c’è possibilità di comprendersi; anche sua figlia verrà chiamata Isabella Trao e non Motta. Gesualdo morirà solo con le mani piene di calli. Anche quando diviene ricco non si accontenta, va sempre oltre, vuole sempre accrescere il suo patrimonio. Anche Ntoni non si accontenta più della vita da pescatore, a contatto con la fiumana del progresso ma sarà vinto anche lui. In questa lettera affronta la questione delle fisionomie sociali ed il problema della darwiniana lotta per la vita, che guida l’umanità attraverso la selezione naturale verso il processo. In natura riesce a sopravvivere il più forte, riesce a adeguarsi all’ambiente mentre il più debole soccombe. Secondo lo scienziato il numero degli esseri viventi è maggiore rispetto alle risorse disponibili, tra gli individui c’è quindi una lotta per la sopravvivenza, a prevalere sono i più resistenti che riescono ad adattarsi alle varie condizioni ambientali. La dottrina di Darwin influenza anche le scienze sociale, parliamo di darwinismo sociale per quanto riguarda Verga. I più deboli di fronte alla fiumana del progresso finiscono per soccombere. La lingua dovrà chiaramente essere adeguata all’ambiente ed ai personaggi rappresentati. Analizzerà tutte le classi sociali e la loro lotta verso il progresso, questi romanzi dovranno raccontare la verità incarnando i vari aspetti della vita moderna e della società industriale che andava pian piano sostituendo quella rurale. In tutto questo la mano dell’artista doveva restare invisibile, l’opera doveva sembrare essersi fatta da sé, “essere sorta spontanea come fatto naturale”, non deve avere punto di contatto con l’autore, “nessuna macchia del peccato d’origine”, il processo della creazione deve restare un mistero, la mano dell’artista deve restare invisibile. Verga narra secondo un’ottica dal basso. A raccontare è una comunità, un romanzo corale, una comunità arcaico rurale che dà per scontata la conoscenza da parte del lettore dei luoghi e dei personaggi. Anche la lingua riflette lo sforzo di acquisire una prospettiva diversa da quella dell’autore, Verga usa un italiano che presenta i ritmi del parlato popolare, strutture sintattiche tipiche del dialetto, si avverte nella sintassi l’eco del parlato. Spesso troviamo il che Quindi man mano che si sale la narrazione si complica. Lo scrittore ha perso la centralità, il ruolo ideologico che aveva avuto nell’età del romanticismo. Personaggi che dalla lotta per l’esistenza escono sconfitti, sconfitta che nasce da una molla economica, dall’irrequietudine del benessere, cioè chi non si accontenta e vuole andare oltre, chi cerca di uscire dalla posizione sociale in cui il destino lo ha posto rischia di essere travolto. Chi riesce a restare attaccato allo scoglio dove è nato (è il caso di Alessi) andrà incontro ad una sorte diversa. I MALAVOGLIA L’azione parte nel 1863, subito dopo l’unità. Evento importante nel primo capitolo è la partenza di Ntoni, evento nuovo, cioè la leva militare obbligatoria, evento che crea degli squilibri perché ad esempio nella famiglia dei Malavoglia Ntoni poteva dare una mano a lavoro, perdere questa forza era un fatto negativo nella logica di Padron Ntoni che non conosce la realtà della vita politica, non capisce le esigenze del nuovo governo e vive negativamente la partenza del nipote. In generale nel romanzo i punti di vista fondamentali sono due: da un lato l’ottica del villaggio, dei pescatori, dall’altro il punto di vista dei Malavoglia. Questi punti di vista finiscono per essere in netta contrapposizione. Da un lato c’è la comunità fredda, cinica, mossa dall’interesse, disumana. Dall’altra parte i Malavoglia sono diversi, perché sono fedeli a dei principi puri, nobili, principi di Padron Ntoni, egli crede nel lavoro, nell’altruismo, nella solidarietà, disinteresse, e cerca attraverso anche una serie di massime di trasmettere questi valori ai suoi nipoti. Anche qui assistiamo allo straniamento, perché il punto vi vista della collettività è in contrapposizione, questa collettività vede come strano il fatto che il vecchio patriarca sia tanto preoccupato per il figlio quando parte con la Provvidenza per andare a vendere il carico di lupini, la comunità pensa che lui sia più preoccupato per il carico dei lupini che per suo figlio, visto che il mare è il tempesta. Quindi è mosso solo da ragioni economiche e non affettive secondo loro. Quando l’affare dei lupini va male e Bastianazzo perde la vita, Padron Ntoni decide di onorare il debito, la collettività non comprende questo gesto nobile, perché non è un gesto fondato sulla logica dell’interesse. I loro nobili valori sfuggono completamente alla comunità che non li comprende. Questa collettività gretta, ottusa, chiusa giudica come strane le scelte della famiglia. Ovviamente l’autore si eclissa, cioè si cala in questa pluralità di voci, la narrazione si realizza attraverso la prospettiva dei personaggi, secondo il principio dell’impersonalità. Per rappresentare il mondo attraverso il punto di vista dei pescatori bisogna vedere la realtà attraverso i loro occhi, anche se l’autore non la condivide, ma se vuole rappresentare tale mondo deve filtrarlo attraverso il loro livello culturale e la loro immaginazione. Usa un lessico perciò povero, ripetitivo, assolutamente adeguato al mondo rappresentato, ai personaggi rappresentati, per cui troviamo le ingiurie, o similitudini legate all’immaginario culturale di questi personaggi. La sintassi rispecchia i modi ed i ritmi del pensiero popolare, prevale la paratassi, quindi la coordinazione. Prefazione ai Malavoglia Verga elaborò due prefazioni, Treves accettò quella più scientifica, più impersonale. STUDIO, parola importante. Bisogna registrare ciò che accade in maniera scientifica, fotografarlo, documentare le prime inquietudini per il benessere, nel caso della famiglia dei pescatori. Ad esempio Ntoni va a Napoli e viene a contatto con una realtà diversa, rispetto al mondo chiuso e monoculturale di Aci Trezza. C’è un desiderio diverso, vuole di più, non è più disposto ad una vita di stenti, alla vita del pescatore. Ci fa capire quali sono le situazioni che poi saranno rappresentate dal narratore. La narrazione è un’azione intellettuale alla base della quale deve esserci uno studio scientifico, senza passione, condotto in modo oggettivo e scientifico, ci vuole l’oggettività, un metodo rigoroso alla base di una ricerca di tipo scientifico. Non deve aggiungere cose fantasiose, deve essere un lavoro sincero e fatto con freddezza,senza la partecipazione passionale, perciò spassionato, non deve esprimere né le proprie idee né i propri stati d’animo. Polemica contro i romantici che ponevano al primo posto la passione, chi rappresenta non ha il diritto di giudicare, ma deve fare un lavoro di tipo scientifico oggettivo, deve fornire documenti di realtà in modo neutrale. Comincia a parlare del ciclo, questa irrequietudine per il benessere sarà individuata nell’ambito delle varie classi sociali, ovviamente la situazione si complica salendo, perché i personaggi più appartengono a classi sociali elevate, più sono colti, più sono complessi, perché non hanno la spontaneità tipica che troviamo nei Malavoglia. Intende mostrare il condizionamento della lotta per la vita ad ogni classe sociale, come si presentano le classi sociali rispetto alla lotta per la vita. Si interessa alle vittime del progresso, anche gli autori sono travolti dalla fiumana del progresso, che impone dei modelli, delle regole. L’autore non ha il diritto di giudicare, ma deve riuscire a rispettare l’oggettività del metodo naturalistico, questi personaggi devono essere rappresentati tenendosi fuori, con un certo distacco, progetta la realizzazione di un ciclo di romanzi rifacendosi al ciclo di Zola. Il progresso è paragonato ad una fiumana che avanza inesorabilmente, va avanti attraverso la lotta per la vita e quindi attraverso una selezione naturale, miete vittime, ora tutta questa reazione rispetto alla fiumana del progresso nell’ambito delle varie classi del sociale non verrà portata interamente a termine, perché il ciclo come sappiamo non verrà completato. PRIME DUE PAGINE Sembra che Si faccia riferimento ad un tempo indefinito, fuori dalla storia. I “Malavoglia” ha un carattere antifrastico, perché è brava gente di buona volontà. Primo che polifunzionale, (che avevano sempre avuto delle barche sull’acqua), ha una funzione logica non ben determinata. Delle tegole al sole avere la casa di proprietà, espressione popolare, italianizzata. Zio: appellativo riferito alle persone di una certa età. Prima osservazione: c’è spesso il linguaggio della gente di mare, invece di guai, problemi si dice burrasche, spesso troviamo termini propri della gente di mare. Vengono usati i loro modi di dire, il loro lessico, tutto ciò ci avvicina a questi personaggi. Provvidenza ammarrata sotto il lavatoio: iterazione della stessa espressione. Verga avrebbe potuto trovare un sinonimo, una perifrasi, ma queste ripetizioni sono volute perché sono tipiche del parlato, espressioni spesso ripetute nel parlato. Si fa riferimento al passato dei Malavoglia ed alla contemporaneità, a chi sono i Malavoglia oggi, sono rappresentati da Padron Ntoni, che viene presentato con una serie di massime: per menare il remo bisogna che le cinque dita s’aiutinoognuno deve fare la propria parte nella famiglia, detto che appartiene alla cultura di Padron Ntoni, principi ispirati ai motti popolari. Ognuno deve svolgere il suo ruolo. La famigliola di Padron Ntoni, ossia famiglia patriarcale al cui capo c’è Padron Ntoni, il figlio maggiore ad esempio fa tutto ciò che gli consiglia il padre, nonostante sia già sposato. Lui comandava le feste e le quarant’ore (adorazione del santissimo sacramento per un periodo lungo di quarant’ore) cioè era lui che comandava tutto e gestiva le attività, si tratta di un’espressione che appartiene a quel mondo, è colui che decide cosa la famiglia deve fare, si improvvisa anche imprenditore ad un certo punto. Poi Bastianazzo,grande come…. similitudini legate sempre a qualche elemento della realtà locale. Questo San Cristoforo dipinto sotto l’arco della pescheria è nell’immaginario collettivo, elemento proprio di quella collettività, tutti conoscevano quel San Cristoforo. Era grande e grosso ma decideva comunque tutto suo padre. Suo padre decide anche le sue nozze, suo padre ha deciso che deve sposare La Longa e lui la sposa (donna bassina, minuta, esattamente il contrario di ciò che si potrebbe immaginare). Filare alla manovra comandata, ancora espressione tipica marinaresca: il pescatore obbedisce subito. Espressione soffiarsi il naso ripetuta, tipica del linguaggio del popolo. La Longa deve badare ai figli, preparare la Provvidenza ma non può fare assolutamente altro, quando sente che la Provvidenza andrà male ed ha un presentimento, non ha possibilità di esprimere il suo parere negli affari. Anche quando inizia ad aver paura di questo affare non può far altro che tacere e soffrire in silenzio perché a lei non è dato intervenire ed esprimere il suo parere. ‘Ntoni: viene definito un bighellone (espressione potremmo dire prolettica), è il maggiore ma non ha molta voglia di lavorare. Il nonno con intenzioni più affettuose che punitive gli dava qualche scappellotto, cerca di formarlo piuttosto che punirlo. Luca aveva più giudizio del grande, secondo il nonno; Mena, soprannominata Sant’Agata perché era la patrona delle tessitrici. Moccioso tutto suo nonno: funzione prolettica, sarà proprio Alessi a riscattare la casa del Nespolo, a portare avanti la famiglia, è esattamente come suo nonno perché suo nonno in effetti era un lavoratore, Lìa ancora né carne né pesce, espressione popolare per dire che è indefinibile, è talmente piccola che non si può dire come sia. Moltitudine di espressioni popolari. Il narratore non ci ha parlato dei singoli personaggi con una presentazione dettagliata, ma in pochissime parole ci ha presentato la famigliola, ma nulla di più, non c’è un profilo morale o fisico, sappiamo pochissimo, non c’è descrizioni dei luoghi. Sapere: tipico del linguaggio popolare, sta per conoscere. Padron Ntoni sapeva i motti degli antichi, che non sono di certo i classici, ma i vecchi del paese, i progenitori, c’è una tradizione orale di proverbi che rappresenta la saggezza popolare. Nella sintassi ritroviamo i ritmi del parlato. Padron Ntoni viene presentato quasi come un despota nella sua famiglia, un tiranno, codino marcio: reazionario, conservatore, perché secondo l’usanza settecentesca i conservatori portavano i capelli lunghi raccolti da un nastro dietro la nuca. C’è chi lo descrive come un conservatore che protegge i Borboni, che vuole il ritorno di Francesco II di Borbone; in realtà Padron Ntoni non sapeva nemmeno chi fosse Francesco II, le vicende politiche non erano note ai pescatori, quindi non è esattamente così, questo è quello che di lui dice una parte di questa collettività che lo circonda. A lui importa solo non far partire suo nipote, perché vuole che continui ad aiutare la famiglia. Padron Ntoni non lo conosceva neanche di vista Franceschello (siamo molto lontani dai costrutti dei Promessi sposi), il registro è sempre più vicino al parlato e troviamo passi di indiretto libero: il narratore riporta parole e riflessioni del personaggio in terza persona, senza la formula dichiarativa che solitamente introduce il discorso diretto, cioè senza il verbum dicendi. È come se entrassimo nella mente del personaggio nel momento in cui fa riflessioni, che non vengono rese con il discorso diretto. Mentre procede la narrazione il discorso diretto sfuma nell’indiretto libero, senza il che o il di che troviamo normalmente nel discorso diretto. Le frasi sono proprio quelle del personaggio, è un modo per metterci a diretto contatto col personaggio senza filtri. 25/03/2021 CONTINUAZIONE PRIMO CAPITOLO Partenza di Ntoni ma anche di Batianazzo, poi di Luca, ma anche di Alfio Mosca, poi ancora ci sarà un’ulteriore partenza di Ntoni. Il tema dell’allontanamento, del distacco della partenza è giornata Menico della Locca. Adesso che il ragazzo poteva aiutare in casa ed evitare l’assunzione del dipendente, il governo lo ha chiamato. Loro lo hanno allevato ed adesso che poteva essere utile il governo se l’è preso. La famiglia viene assimilata ad una barca da porte avanti; adesso c’è anche il problema di preparare la dote per Mena, perché la situazione della famiglia è molto difficile. Padron Ntoni compra dei lupini a credito per ripagarli con il ricavato della vendita. La Longa è contraria a questo affare dei lupini, è preoccupata, sente che l’affare andrà male, ma il narratore del posto dice che la donna ha il cuore piccolo, non può intervenire, non può dire la sua riguardo le decisioni sul lavoro. Bastianazzo non si esprime perché qui a prendere le decisioni è il capofamiglia. Dovevano essere fiduciosi perché la Barca si chiamava Provvidenza. La Longa non può dire niente perché non è affar suo (ma questo non è vero, è solo il punto di vista della gente popolare). Padron Ntoni è stato ingannato, la partita di lupini è avariata ma la provvidenza parte comunque. Si passa alla notte, ci sono oscuri presagi, ci sono immagini pieni di suggestioni visive. La partenza e la morte anche qui sono connesse, c’è una montana tutta nera di nubi, un presagio della brutta sorte che attende Bastianazzo, Menico. C’è un’affettuosa preoccupazione della donna che anche in questo caso non ha possibilità di intervenire. Padron Ntoni vuole sperare ed infatti ricorre ad una serie di motti. “Il mare si mangiò”senso della crudeltà del mare, che fagocita Bastianazzo e Menico. Il mare non consente più di ascoltare, ma si capisce solo che Medico chiede che la sua paga venga consegnata a sua madre che ne ha bisogno. Morte, partenza, ma anche tema della speranza rappresentato dal motto di Padron Ntoni, ma poi il mare sarà crudele. Parte finale Ntoni ha finito il servizio militare, è stato in carcere, ha deluso il nonno perché non si è accontentato più della vita del pescatore, nel frattempo la famiglia ha vissuto una serie di problemi ed il nonno è morto. Questo fratello prima era spavaldo, adesso è quasi un fantasma, ha un atteggiamento quasi inquietante per i fratelli, Mena, che non si è sposata ed ha deciso di restare a casa per aiutare il fratello e la moglie, ed Alessi, che ha riscattato la casa del Nespolo. Alessi chiede stupito dopo Ntoni andrà, perché non sa immaginarsi altro dalla casa del Nespolo, è colui che è rimasto attaccato allo scoglio, ha accettato i sacrifici della vita del pescatore. Si stupisce del fatto che il fratello voglia uscire da questa realtà, perché non c’è approdo più sicuro della casa del Nespolo. Ntoni si vergogna di mostrarsi ai compaesani, ormai appartiene ad un altro mondo, è uscito da quella realtà, mentre lì è tutto fermo. Il cortile è un luogo simboli, evoca la figura del nonno. Ntoni chiede del nonno ma nessuno risponde e capisce che non ci sia più, allora chiede di Lia. Ntoni intuisce la verità e comincia a ritenersi responsabile, ha segnato la famiglia con la sua scelta, ha tradito il nonno e la religione della famiglia, a contatto con la fiumana del progresso è uscito da questa realtà, da questo mondo chiuso. Vive un sentimento di esclusione, di estraneità. Quell’altra: Lia, di lei non si fa neanche il nome. Questa gente si è accontentata, Ntoni comincia a pensare al passato, ad i personaggi che appartengono al suo vissuto. Ntoni sa di aver fatto soffrire anche sua madre, rievoca momenti di serenità perduta, non si può tornare come un tempo. La scelta di Ntoni è lacerante, perché questa è una partenza definitiva, ed Alessi l’ha capito. Sempre che polifunzionale. Quella chiusura della casa del Nespolo è una chiusura definitiva, Ntoni ora ha scoperto i valori più autentici ma sa di non poter tornare più indietro. È andato incontro al mutamento del progresso, in contrapposizione con la vita di Aci Trezza e tutto questo Ntoni lo comprende nel momento in cui per l’ultima volta torna in paese. In questo momento in cui c’è la coscienza dell’autoesclusione, Ntoni sta andando via avendo scelto di farlo, ha come unica voce il mare. Quest’uomo è ormai solo, è andato via da casa in maniera definitiva, ha coscienza dell’autoesclusione e si trova solo, ma c’è un amico: il mare. C’è un momento di raccoglimento prima di andare via, sembra che nulla sia cambiato, sente le voci di coloro che si stanno alzando per andare a lavorare, c’è una fissità, un immobilismo che non appartiene al mondo del progresso che l’ha cambiato; è una vita immutabile. Ricorda il passato e tutti i rumori che gli sono familiari. Il primo a cominciare la giornata è Rocco Spatu: ironia, perché in realtà è un fannullone. Rocco Spauto nemmeno è cambiato e può continuare a vivere in paese, non ha fatto scelte, non è andato via, ma ha accettato la situazione e perciò può continuare a vivere in quella realtà, cosa che non può fare Ntoni. Rocco Spatu tra l’altro è stato un modello negativo di Ntoni, ma non è andato via perciò ha diritto di stare in quella realtà, diritto che non ha Ntoni. 29/03/2021 La storia compositiva del romanzo inizia nel 1881, quando Verga inizia a preparare schede preparatorie sulle vicende e sui personaggi. Tracce di questi appunti si trovano nelle Novelle Rusticane. Nell’87 riprende a dedicarsi al romanzo che poi pubblica in puntante su una rivista (Nuova Antologia) nel 1888 e poi pubblica in volume presso l’editore Treves nel novembre 1889 a Milano, dopo aver apportato al testo dell’88 alcune modifiche dal punto di vista linguistico e strutturale. E’ il secondo romanzo del ciclo dei vinti, l’unico portato a compimento dopo i Malavoglia, lui aveva progettato cinque romanzi ma ne porta a completamento soltanto due. Nella prefazione ai Malavoglia si parlava della lotta per la sopravvivenza, Mastro Don Gesualdo lotta invece per l’affermazione economica e poi sociale. Nei Malavoglia c’è l’inquietudine per il benessere che porta la famiglia dei pescatori ad andare incontro alla rovina, nel Mastro Don Gesualdo l’attenzione è focalizzata su una classe sociale diversa che ha altre aspirazioni, altri desideri. Nei Malavoglia abbiamo un mondo monoculturale, arcaico, chiuso (pescatore che fanno una vita di stenti, lottano per la sopravvivenza, troviamo un paese intero che è protagonista, l’attenzione non è focalizzata su un personaggio in particolare, ma c’è una DIMENSIONE CORALE). In Mastro Don G. abbiamo un mondo vario ed aperto della modernità borghese, abbiamo più classi sociali a confronto e che si scontrano, abbiamo il popolo, la borghesia, l’aristocrazia, c’è una stratificazione sociale complessa, diverse classi sociali che si confrontano, non è la società arcaica dei Malavoglia. Lo stesso protagonista si scontra per esempio con l’aristocrazia, ma anche con il popolo, perché ad un certo punto sarà fuori sia dalla classe più alta sia da quella più bassa. Il titolo è significativo in questo senso, è una ngiuria che ha una caratteristica ironica, non sarà più conosciuto come membro dei mastri perché ormai si è arricchito ed è diventato un imprenditore, ma non sarà neanche don perché gli aristocratici non lo riconoscono come un componente della loro classe sociale, pur avendo sposato Bianca Trao. È fuori da entrambe le categorie, qui emerge il senso di solitudine, di isolamento, di incomunicabilità che troviamo nei vari capitoli del testo. Gesualdo si sente giudicato anche a tavola dalla moglie. Il romanzo è diviso in 4 parti, abbiamo un mondo più aperto, la modernità favorisce l’incontro tra le classi sociali, articolazione tipica della società moderna e presenza di un protagonista, emerge su tutti la figura tragica di Gesualdo, emergono i suoi conflitti, le sue contraddizioni, la sua solitudine tragica, una figura che finisce per dominare su tutte le altre, cosa che non accade nei Malavoglia (lì abbiamo una contrapposizione tra i Malavoglia e gli altri abitanti, ma non emerge un’unica figura dominante). Figura della sua tragica solitudine, nel suo isolamento. Nei Malavoglia la vicenda è ambientata nel periodo postunitario, invece nel Mastro nel periodo pre-unitario (tra 1820-1849), ambientato tra le province di Catania e di Palermo (perché quando si ammala si trasferisce nel palazzo del duca di Leyra, dove morirà). Nel mastro c’è una iscrizione dei varie ambienti e delle varie realtà sociali, popolare-borghese-aristocratica, del mondo aristocratico entrerà a far parte anche Isabella, la figlia(protagonista del terzo romanzo non portato a termine). Il pessimismo diventa qui radicale, nei Malavogliaè vero gli eventi drammatici non mancano, ma coloro che si accontentano e rimangono attaccati allo scoglio possono riscattarsi, recuperare un po’ di tranquillità e serenità (Alessi e Mena ad esempio che si accontentano della realtà di Aci Trezza e non si fanno coinvolgere dalla fiumana del progresso). In Mastro don gesualdo abbiamo il fallimento e la sconfitta del personaggio, che alla fine muore (Spannung, culmine della tragedia, Gesualdo morirà da solo, osservato e scrutato dai dipendenti del duca che lo disprezzano e sono infastiditi dalla sua presenza, dal doverlo assistere), morte terribile, nella vita ha trovato solo incomunicabilità, anche con i membri della famiglia d’origine (c’erano gelosie, ripicche, invidie, da lui si pretendeva), poi aveva dovuto difendersi anche dalla famiglia che era riuscito a costruire perché con Bianca non c’è dialogo, tantomeno con Isabella che viene educata alla maniera e gli aristocratici e quindi si vergogna da questo padre diverso da quelli delle sue amiche, che erano dei nobili, abituati a non lavorare, che avevano un’educazione diversa rispetto a quella di Mastro Don Gesualdo. Questa aspirazione al progresso si risolve inesorabilmente nel fallimento e qui non c’è possibilità di trovare una via d’uscita, Gesualdo muore da solo abbandonato, lo tengono nel palazzo di Palermo più per controllarlo, per controllare le sue mosse (potrebbe ad esempio cambiare il testamento) che per curarlo e proteggerlo. Qui si evidenzia proprio la tragedia dell’epoca moderna, il fallimento di questa corsa all’accumulo capitalistico. Gesualdo è sconfitto nella dimensione affettiva, sì costruisce una famiglia ma dalla quale non riceve affetto, è profondamente solo, fa anche dei tentativi per avvicinarsi a Bianca o alla figlia ma non ci riesce. La narrazione non è più affidata ad un coro popolare, ma abbiamo dei passaggi da un punto di vista all’altro, la realtà viene osservata per esempio dal punto di vista popolare, della borghesia, dell’aristocrazia, c’è un passaggio da un’ottica all’altra, e non manca il punto di vista dello stesso Gesualdo. Molto diffuso è l’uso del discorso indiretto libero, è un modo per mettere il lettore a diretto contatto col personaggio. Abbiamo il punto di vista di vari personaggi, quello di Gesualdo espresso prevalente meno attraverso l’indiretto libero. Voce narrante diversa che non è più quella del coro anonimo di paesani, ma è la voce di un narratore esterno e l’accostamento di più punti di vista, una polifonia del tessuto narrativo. Verga propone una visione negativa della realtà sociale. Gesualdo grazie alle proprie capacità, alle proprie qualità, all’intelligenza, al suo talento nell’accumulo (come Mazzarò, “che aveva la testa come un brillante”, che aveva grande capacità nell’accumulare la roba, inizia la sua attività di contadino da giovane e riesce poi ad accumulare ed arricchirsi, Mazzarò è una sorta di cantiere che ci prepara alla figura di Don Gesualdo. Ha una grande capacità e lucidità nell’accumulo capitalistico, riesce addirittura facendo enormi sacrifici ad acquistare tutti i beni che appartenevano al suo datore di lavoro, diventa ricchissimo ed un importante latifondista, ma continua a lavorare tutto il giorno, non cambi vita, ossessionato dal terrore che i contadini possano ingannarlo e rubarlo, va a controllare sempre i suoi poderi, mangia pochissimo in pochi minuti, consuma un pasto frugale perché non ha tempo, deve controllare i suoi beni e non può farsi ingannare dai suoi contadini. Tratta male i suoi dipendenti, è aggressivo così come lo era stato il suo datore di lavoro; cerca di uscire dalla miseria ma non fa niente per chi si trovare nella stessa condizione in cui si trovava lui, quando gli chiedono qualcosa non è mai disponibile, non pensa a costruirsi una famiglia, costruire una famiglia poi significa doverla sostenere, ci sarebbe un impegno finanziario da prendere. Si rammarica ancora dei dodici tarì spesi per seppellire sua madre. Mazzarò a differenza di Gesualdo non costruisce una famiglia, è animale, ragazza molto fedele che crede molto nel suo padrone, lavora per lui da tanto tempo e gli è assolutamente fedele (ma la religione della roba lo porta a sacrificare l’umanità, che poi però lo porterà all’isolamento. Il bisogno di provare sentimenti autentici è sempre soffocato dalla necessità di accumulo della roba). Persona curva e capo chino: la figura di Diodata è descritta attraverso la sensibilità e lo sguardo di Diodata, conosce molto bene le sue sofferenze ed ammira il suo aspetto, i suoi capelli, sul suo corpo ci sono i segni del sacrificio e delle fatiche, il suo aspetto risente di tali sacrifici). Gli occhi sono timidi e dolci, occhi di cane pazienti: descritta attraverso gli occhi di Gesualdo, occhi di cane carezzevoli e pazienti che si ostinavano a farsi voler bene. Dedizione assoluta di Diodata, Gesualdo poi gli troverà anche una sistemazione perché si sentirà in colpa. Climax: limandolo, solcandolo, rodendolo. Tutti gli sforzi hanno lasciato i segni sul corpo. Gesualdo ha un moto di tenerezza nei suoi confronti, c’è un’affettuosa sollecitudine nei suoi confronti: “mangia, mangia” (geminazione allocutiva, in cui è resala sollecitudine affettuosa di Gesualdo nei confronti di questa donna). Non c’è rapporto di parità tra i due, lei ha gli occhi bassi, lei fa di tutto per lui. Diodata è ovviamente pronta a rinunciare a tutto questo senza opporsi, soffrirà ma in silenzio. Ad un certo punto Gesualdo si rivolge a Diodata ed ha con lei modi rudi, che però celano comunque tenerezza. Gesualdo rievoca il passato, le tappe della sua vita (frasi nominali, esclamazioni, ripetizioni tipiche dell’indiretto libero troviamo in questo passo). Punto esclamativo: siamo a contatto col personaggio, è Gesualdo che sta facendo riflessioni e sta pensando, anche i periodi sono strutturati con sintassi e lessico propri del personaggio, siamo entrati nella mente di Gesualdo, frasi riportate in terza persona e non c’è il verbum dicendi introduttivo, sono esattamente i pensieri di Don Gesualdo riportati in terza persona con le caratteristiche proprie del linguaggio del personaggio, senza il che o il di, senza verbi introduttivi. Molti sono i passi dell’indiretto libero perché i veristi vogliono metterci a contatto col personaggio, in questo caso Don Gesualdo è il protagonista, domina, quindi è importante farcelo conoscere con l’indiretto libero. Sono esattamente le sue riflessioni rese in terza persona senza il verbo introduttivo. Mastro Nunzio quando un asino moriva frustava il figlio con la fune che serviva per legare il carico (“suonava il De profundis sulla schiena del figliuolo), poiché era preoccupato ed arrabbiato per la morte dell’asino frustava il figlio. Santo, il fratello, lo faceva disperare perché era un fannullone, Speranza che cominciava a voler marito, la madre gravemente ammalata, più punizioni che cibo. Poi Gesualdo decide ad un certo punto di intraprendere una sua attività anche desideroso di uscire da questa condizione di miseria. 08/04/2021 Le forme che appartengono al personaggio, il lessico, che appartiene al personaggio stesso, la sua sintassi, i pensieri che usa di solito. È come se parlasse lui, ma manca il verbo introduttivo, però vengono riportati esattamente i pensieri del personaggio. L’indiretto libero è frequentissimo perché c’è un protagonista, che si eleva rispetto agli altri, non è un romanzo corale, ma emerge Don Gesualdo, il protagonista, perciò l’autore ha l’esigenza di mettere a contatto il lettore con il personaggio, consente di capire come si esprime il personaggio e come la pensa, quali sono le sue riflessioni. Pensieri concepiti dal personaggio che non li controlla, non sorveglia in maniera accurata la sintassi. E’ come se entrassimo nella mente del personaggio nel momento in cui struttura le idee, bisogna mettere a diretto contatto il lettore col fatto nudo e schietto e con i personaggi, il lettore non deve essere guidato e condotto nei luoghi, ma deve farsi un’idea in base ai comportamenti, alle azioni, alle parole dei personaggi. L’indiretto libero è uno degli artifici ai quali l’autore ricorre per mettere davanti il lettore senza filtri, ci facciamo un’idea di cosa pensa in base alle sue parole, il narratore non fa alcuna trasformazione né commento, non c’è la sua mediazione perché siamo direttamente di fronte ai pensieri di Gesualdo. Gesualdo è orgoglioso per ciò che è riuscito a realizzare, ha fatto enormi sacrifici, lo stesso Mastro Nunzio non voleva che facesse il muratore e si erano creato dei conflitti anche in famiglia. Anche Santo, il fratello, gli dà problemi, perché non vuole fare niente ma comunque pretende da Gesualdo. Tredici mesi dell’anno iperbole, per dire che la mamma era sempre malata. Il narratore riemerge, quando dice “Gesualdo arrivò a pigliare il primo appalto”. Pag 95Gesualdo si è sempre sacrificato, mentre lui lavorava e rinunciava a tante cose, lavorava anche nei giorni di festa, il fratello stava all’osteria, Gesualdo nonostante le pressioni subite dalla famiglia continua a lavorare e ad accumulare. In paese cominciano ad ostacolarlo quando si arricchisce, queste riflessioni mettono in evidenza gli enormi sacrifici e le rinunce fatte. Non condivideva nulla, aveva la faccia chiusa, non comunicava, è un uomo che tiene per sé dolori e gioie, non li condivide in casa e nemmeno con i compaesani. Gesualdo forse ha condiviso solo con Diodata sacrifici e riflessioni, ma lei parla poco, è mite e sottomessa, è in una condizione di dipendenza. Gesualdo avrebbe anche bisogno di relazioni umane ed affetto, ma tutto viene soffocato dall’interesse per la roba. Tintinnio, calpestio, brusio, parole che riproducono dei suoni, queste parole onomatopeiche fanno avvertire quasi i rumori che sente Gesualdo. Nelle descrizioni, in queste enumerazioni, troviamo frasi nominali. Il padrone dà uno scapaccione affettuoso, sono modi rudi, ma le vuole bene. Prende un po’ in giro questa ragazza ma sa che c’è amarezza perché dovrà lasciarla ma vuole permetterle di vivere in condizioni dignitose. Ancora una volta Diodata assimilata ad un cane, fedele, in attesa del padrone. Gesualdo a pag 97 inizia il discorso sul dover prender moglie, hanno deciso di organizzare il matrimonio, lo ha proposto il canonico Lupi e lui accetta per imparentarsi con gli aristocratici, che gli hanno promesso che lo agevoleranno in un affare. Dice che non può andare avanti nel suo accumulo se non fa questo, cerca quasi la complicità di questa ragazza, che invece soffre. Andò a rimescolargli il sangue, a luiiterazione del complemento di termine, pleonasmo. Diodata soffre ma in silenzio, perché lui è il padrone. Dichiarazione che fa soffrire Diodata: dice che non ha figli, ma in realtà ha quelli che ha avuto da Diodata, dei quali non si è occupato, e lei soffre per questi figli definitivamente abbandonati. Il suo viso è pallido e cerca di reprimere il pianto perché non vuole mettere a disagio Gesualdo, dedizione al padrone. Gesualdo sa benissimo a costa stia pensando Diodata, ma fa vincere l’interesse, fa prevalere la roba e quindi a quel punto, fa una domanda ma per disagio, è segno del suo conflitto interiore ma deve per forza sacrificarsi per la roba. Diodata non ostacolerà il padrone assolutamente, accetterà anche le decisioni che poi per lei Gesualdo dovrà prendere. Parte Terza, Capitolo 1 Bianca accetta di sposare Gesualdo, si celebrano le nozze, ma non è sostenuta dai fratelli che sono assolutamente contrari. Gesualdo ad un certo punto decide di far allevare Isabella alla maniera degli aristocratici, vuole che frequenti uno dei migliori collegi, vuole impartirle un’educazione aristocratica. Bianca all’inizio si oppone perché è malata di tisi e non vuole separarsi da sua figlia ma Gesualdo si prenderà questa responsabilità. Isabella avrà molti problemi perché qui comincerà ad essere invidiata dalle compagne perché riceve doni preziosi da parte di suo padre che non le fa mancare nulla, è attento a lei, ma lo tiene a distanza perché lo considera diverso da lei per i suoi modi, per il suo aspetto, lo rifiuta quasi, non si confida mai con lui, c’è mancanza di comunicazione come tra Bianca e Gesualdo. Avere pietre al sole: avere delle proprietà. Bianca da quando aveva partorito non si era mai più ripresa e quindi si sapeva che non avrebbe più avuto figli. Per Gesualdo il suo matrimonio è un AFFARE, un affare sbagliato, non qualcosa basato sui sentimenti, e non si lamenta nemmeno con Lupi, che glielo aveva proposto, ma cerca solo di mandare avanti questo matrimonio e di dare tutto a Bianca ed Isabella. Questo matrimonio non gli ha fruttato nulla, né la dote, né il figlio maschio, né l’aiuto dei pezzi grossi che avrebbero dovuto dargli una mano negli affari e non ha nemmeno intimità e dialogo con la moglie, ma Bianca non ne ha colpa. È un innesto impossibile perché c’è una differenza a livello genetico quasi, sembra quasi che i due sposandosi abbiano violato una legge di natura e quindi devono pagare per questo, tra loro c’è incompatibilità di fondo le pesche non si innestano sull’ulivo. C’è incompatibilità, non c’è possibilità di creare un rapporto autentico. Vivono insieme ma in realtà appartengono a due mondi totalmente diversi, Gesualdo a tavola addirittura si sente scrutato, giudicato in tutto quello che fa da Bianca, anche quando condividono la tavola c’è imbarazzo; almeno a casa sua “voleva comandar le feste”, cioè voleva prendere le decisioni da solo. Gesualdo si comporta come se questa donna abbia portato una dote, in genere si dovrebbe essere disponibile a prescindere dalla situazione economica della propria moglie, comunque non le fa mancare nulla nonostante non gli abbia dato né dote né un figlio maschio. Bianca chiaramente è contenta della situazione in cui si trova perché la sua famiglia era decaduta ed erano in una situazione economica disperata, mentre Gesualdo è benestante. I fratelli sono infatti in una miseria incredibile, li aiutavano i parenti ma sempre con discrezione. “Il signore che la puniva” ad un certo punto Bianca pensa che il signore voglia punirla perché si parla di una povera innocente in casa di suo marito, cioè si evince che questa ragazza non sia figlia di suo marito, ci sono dei passaggi in cui questo segreto emerge. Bianca si sente in colpa per questo, pensa di dover espiare i suoi peccati. Lagrime e piagnistei: dittologia sinonimica. Gesualdo porta alla figlia in collegio di tutto, questi doni chiaramente generano invidia nelle sue compagne, che pure venivano da famiglie aristocratiche ma non così ricche. L’ostentazione della ricchezza finisce per rompere gli equilibri all’interno del convento, lo stesso Gesualdo era una figura inquietante nel paese, che destava invidie e gelosie. Gesualdo è un parvenu e non gli perdonano questa cosa, le donne che servivano a tavola erano infastidite dal fatto di servire la figlia di un uomo che non era aristocratico, questa cosa infastidisce molto, la figlia di uno venuto su dal nulla. Ci sono tutta una serie di ripicche nei confronti di Isabella anche da parte delle stesse monache. Isabella sente tutte queste voci in convento, le critiche su suo padre, e quando suo padre va a farle visita lei è sempre dispiaciuta, ha il petto pieno di singhiozzi e nei suoi confronti nutre una sorta di diffidenza, tende a ritrarsi quando il padre cerca un contatto, esattamente come la madre. Gesualdo soffre e continua ad ingoiare bocconi amari, nella vita familiare ha mille difficoltà e pure se questo affare del matrimonio non è andato bene, continua a sopportare. Ad un certo punto ha un cancro allo stomaco, è come se avesse somatizzato tutte queste amarezze. Tutto ciò che aveva fatto e faceva per sua figlia lo allontanava da lui, ma per non darla vinta ai nemici, chiaramente nasconde il malcontento. Non si fa chiamare mai Motta la figlia, ma Trao, ecco la sconfitta di Gesualdo, ha fatto di tutto, ha sposato anche un’aristocratica, ma in ogni caso Isabella non instaura alcun tipo di dialogo, c’è quasi una differenza genetica, un’incompatibilità, questo innesto è impossibile. È come se avessero violato una legge di natura sposandosi. non c’è amore, Gesualdo si accorge di tutto ciò, sa che i loro rapporti sono fondati sull’ipocrisia; la figlia per rassicurarlo le mostra oggetti preziosi che il duca le regala. La figlia non si confida con lui, non gli dice mai la verità, nei confronti del padre c’è comunque rancore perché lui le ha ordinato questo matrimonio. Il duca ha il sorriso freddo; sintagma significativo. Isabella è gentile, ha modi cortesi che le sono stati insegnati in collegio, ma non è felice, in realtà non va d’accordo con il marito. Tutto sembra ovattato, c’è un’atmosfera ovattata che sembra assorbire i malumori e gli scontri. Tutta quella struttura si regge grazie ai suoi beni, il duca in realtà non ha nulla, questa baracca va avanti grazie ai suoi beni ed al suo lavoro. Fatto fisico ma anche psicologico, spirituale, sta male perciò soffre, qualsiasi cosa lo fa soffrire indipendentemente dal male che continua a tormentarlo. Cerca di apprendere notizie rivolgendosi a chiunque nel palazzo, ma nessuno gli dice la verità. Capisce perché si è ammalato, sono stati i dispiaceri, sofferenze che hanno causato questa malattia. Volevano levarselo di torno per impadronirsi del fatto tuo, cioè dei suoi beni. Lui è pronto a pagare per farsi curare, a fare di tutto. Ad un certo punto il duca decide di mandare dal duca il suo amministratore, tutto gentile proprio come il duca quando voleva ottenere qualcosa, cerca di condizionarlo, gli dice che è malato e non può occuparsi in questa parte della sua vita dei suoi beni, non può occuparsene direttamente (mentre prima lavorava ogni istante), l’amministratore cerca di farlo preoccupare dicendogli che c’è bisogno che qualcuno se ne occupi al suo posto. Frantumazione sintattica, frasi spezzate, perché sta cercando di ingannarlo. Don Gesualdo cerca di trovare una risposta valida, cerca di uscire da questa situazione urlando e chiedendo di sua figlia, non accontenta affatto l’amministratore. Il denaro per Don Gesualdo è il sangue delle vene. Capisce che lo tengono lì non perché gli vogliano bene, ma per controllare il suo denaro. Periodi lunghi, si riproducono i pensieri, le considerazioni, le riflessioni dei personaggi. Ad un certo punto non sono nemmeno più interessati a fargli firmare la delega, perché ormai hanno capito che a breve morirà, lui capisce che se sono indifferenti e non gli chiedono più nulla allora sta morendo. Fa riferimento ai figli che ha avuto da Diodata, in questa fase della sua vita inizia ad avere rimpianti per non aver fatto nulla per questi ragazzi, pensa di lasciare qualcosa ora a questi figli dei quali aveva deciso di non occuparsi. Pensa addirittura che non chiamino più i medici affinché muoia prima; in paese avevano detto che forse un’operazione avrebbe potuto salvarlo, ma nessuno gliel’aveva proposta. Vuole fare il testamento per lasciare qualcosa anche ai figli di Diodata, ma non lo accontentano e non chiamano il notaio, perché hanno capito che vuole lasciare i suoi beni anche alle altre persone. Ad un certo punto chiude le comunicazioni, comprende che non c’è niente da faregesto emblematico, polemico, di rifiuto verso chi gli sta intorno, incomunicabilità (come aveva fatto suo padre). Gesualdo vuole resistere, andare avanti, si abitua al dolore per non lasciarla vinta al duca. Pelle dura: espressione che gli appartiene e che viene ripetuta. Livello di solitudine, di desolazione, vinto nella dimensione affettiva, talmente solo che ha per compagni i suoi dolori. L’affetto è un pretesto, non ci sono sentimenti autentici, dicono che lo tengono lì perché gli sono affezionati, ma in realtà vogliono solo tenerlo sotto controllo. Qui Gesualdo viene assimilato ad una bestia come era stata assimilata anche Diodata. Pietas filiale non autentica, questa donna esibisce il dolore ma tutto sommato ha rancore nei confronti di questo padre, non vuole neanche raccogliere le sue confidenze, è una pietas non autentica. Enumerazione asindetica. E’ stato un padre particolare, ma ripensando al passato può dire di aver fatto tutto il possibile per questa figlia. Anche la ripetizione è indice di una forte emozione e riproduce la situazione, la cadenza della voce del malato, ha difficoltà a parlare ed è anche a disagio per ciò che deve dire. Ad un certo punto l’abbraccia con la sua barba ispida, che la infastidiva quando era piccola, gli vengono in mente anche alcuni sospetti probabilmente sulla paternità, sospetti odiosi che dei bricconi gli avevano messo in testa. Il duca preparava dei documenti, li portava alla moglie e li faceva firmare, perché voleva spendere continuamente, spesso Isabella firmava e lo appoggiava non dando importanza a quella firma, mentre magari con quella firma le faceva ipotecare dei beni. Le dice di stare attenta, l’aristocratico non sa affatto cosa significhi il sacrificio, la rinuncia per accumulare i beni, il lavoro, perciò sperpera in maniera indifferente. MOMENTO DI SPANNUNG Ad un certo punto le chiede un attimo di generosità minimo, di lasciare qualcosa ai suoi fratelli, le fa intendere che gli preme troppo, spera che ci sia disponibilità da parte sua, il discorso riproduce forme tipiche del dialetto. Momento di massima tensione: Spannung, da tempo Gesualdo inizia a sentirsi in colpa per questi figli e questo è un momento importante, di massima tensione, proprio perché chiede ad Isabella di fare qualcosa per loro. Isabella è totalmente chiusa nei confronti del padre, ha la ruga dei Trao, indicativa per Gesualdo, c’è una differenza che esiste a livello genetico e che determina questa incomunicabilità, freddezza che va avanti anche nell’ultima fase della vita di Gesualdo. Egli allora rinuncia, sa che non c’è niente da fare e fa chiamare un prete. Prevale l’orgoglio, i due sono incapaci di condividere la sofferenza, perché sono entrambi sconfitti, anche Isabella è sola e la famiglia che ha costruito non le dà felicità ed anche una volta preferiscono la solitudine, l’estraneità alla comunicazione. Punto di vista è cambiato, ora abbiamo quello del domestico che gli fa da infermiere, ed assimila il lamento di Gesualdo ad una cantilena che non finisce più, non c’è umanità nei confronti di quest’uomo che sta morendo, gli secca doverlo accudire. Da una parte Gesualdo è in fin di vita, dall’altra il servitore è intollerante, infastidito di servire un uomo che ha le sue stesse origini, quelle origini non gliele perdona nemmeno il domestico. Secondo lui Gesualdo deve sopportare il dolore e non deve dar fastidio, ad un certo punto è addirittura furibondo nei confronti di un malato terminale, pronuncia bestemmie contro un uomo in fin di vita. Realismo nella descrizione di questa patologia e sofferenza, Gesualdo è addirittura colpevole agli occhi dei domestici anche perché ha osato cambiare classe sociale. C’è un’estraneità totale da parte dei domestici nei confronti della morte di Don Gesualdo, è qualcosa di noioso perché la morte in un palazzo aristocratico implica una serie di liti per cui i domestici dovranno lavorare. “MI è toccato a me” cioè ha dovuto prendere lui parte alla morte di Gesualdo. Adesso che Gesualdo non può far nulla ed il suo corpo è abbandonato, è in balia di questi domestici che lo giudicano negativamente, questo esercito di sfaccendati è lì ad osservarlo, Gesualdo è il soggetto del discorso. Un uomo morto in balia di gente che lo ha disprezzato e giudicato, che non lo ha rispettato, e tra l’altro questa gente non va subito a chiamare sua figlia perché bisogna prima parlare con la sua cameriera. Don Leopoldo non perde occasione per dire che finalmente si è liberato di questo problema, la sua malattia costituiva un problema per lui. Gesualdo è un uomo che ha mani piene di calli, che ha impastato la calce, che ha lavorato però muore in un palazzo aristocratico tra lenzuola lussuose; osservano quelle mani inquietanti, sono mani di un operaio perché di fatto Gesualdo ha lavorato sempre, ha continuato a darsi da fare anche quando è diventato ricco. Sono mani che i domestici non sono abituati a vedere tra biancheria di lusso. Parte tutto l’iter cerimoniale, il funerale richiede impegno da parte di tutta la servitù, in segno di lutto nei palazzi nobili bisogna chiudere mezzo battente del portone. Muore quest’uomo in totale solitudine, adesso questi dipendenti decidono di chiamare la figlia: ecco la sconfitta di Gesualdo, un uomo solo di cui si giudicano anche i lamenti e la sofferenza dal domestico; nella roba non c’è la salvezza, aveva cercato di farsi curare investendo qualsiasi cifra ma non ci è riuscito. Tra l’altro lascerà questa roba a chi non ne avrà cura (Isabella Trao è di un’altra pasta, non sa cosa significhi accumulare beni). Gesualdo viene tradito come Mazzarò dalla logica della roba per la quale aveva sacrificato la sua esistenza. (La Roba fu pubblicata prima nell’80 in una rivista, poi nell’83 nelle Novelle rusticane. Malpelo prima nel 1778 poi nella raccolta Vita dei campi nell’80.) GOLDONI Goldoni ha rivoluzionato il teatro comico italiano, in quanto lo ha sottratto alla recita a soggetto ed all’uso delle maschere della commedia dell’arte, dove l’autore elaborava un semplice a canovaccio, un intreccio generale ossia non scriveva un copione intero che poi gli attori imparavano a memoria. Stava poi agli attori improvvisare sulla base di quella traccia, molto era affidato all’estro momentaneo degli attori, che tra l’altro fino a tutto il 1500 erano dei dilettanti. Si utilizzavano inoltre le maschere, si impersonavano dei caratteri fissi, lo spettatore sapeva già chi avesse di fronte, cioè quale carattere. Stava all’estro degli attori la recitazione. Veniva sacrificato ovviamente il realismo e ad un certo punto queste compagnie di comici si affidano a dei moduli ripetitivi, ripetono sempre le stesse scene ed a volte le banalizzano addirittura. La commedia dell’arte attraversava una fase di involuzione e decadenza, bisognava ridare al teatro la dignità dei contenuti. Goldoni comincia ad operare gradualmente una riforma, che si basa sull’utilizzo di un testo scritto, sull’eliminazione delle maschere e dei tipi fissi, il personaggio avrà uno spessore psicologico e sociale che aveva completamente perso (ad esempio il servo ed il padrone erano astorici, non erano inseriti in un contesto sociale e storico). Si guarda alle esigenze ed ai gusti del pubblico, secondo Goldoni le rappresentazioni teatrali dovevano aere anche una funzione educativa, quindi rappresentare vizi e virtù, ma chiaramente far divertire. Il pubblico è vario, comprende anche il popolo, al quale è rivolto uno spettacolo che deve essere allo stesso tempo istruttivo e piacevole. 15/04/2021 La commedia dell’arte si basava su un canovaccio su cui improvvisare e su maschere che rappresentavano personaggi fissi, tipi umani che non subivano evoluzioni nel corso del testo. Improvvisavano battute, dialoghi, scene, questo modo di operare aveva però causato dei problemi ad un certo punto: da tempo si ripetevano ormai gli stessi schemi, gli stessi moduli, si involgarivano le situazioni sceniche pur di attirare l’attenzione del pubblico. Non c’era realismo e spesso questi personaggi incarnavano la figura del servo o padrone ma non adeguati al contesto storico, non c’era verosimiglianza. Nel momento in cui decide di intervenire e di realizzare la sua riforma cercherà di inserire i suoi personaggi che non saranno più tipi fissi in una realtà, in un contesto storico sociale e tende ad attualizzare il contenuto delle sue opere, cerca di fare in modo che le sue commedie abbiamo una funzione morale, che descrivano vizi e virtù del tempo. Le classi sociali si incontrano e si scontrano, tendenza alla verosimiglianza ed al realismo. I personaggi sono approfonditi sul piano psicologico e sociale, non sono più astorici, hanno connotati precisi della realtà sociale presente, contemporanea, connotati precisi e importanti per farsi anche un’idea della situazione dell’epoca. Il problema era ridare al teatro la dignità dei contenuti, il copione deve essere interamente scritto, gli attori non dovranno improvvisare ma perciò vuole umiliare il suo avversario. Anche in caso di matrimonio pensano a contendersi questa donna. Scena seconda Il marchese non vuole essere chiamato signore perché è un titolo che si dà alle persone del popolo, arroganza. Illustrissimo anche era un titolo riservato ai borghesi, non agli aristocratici, perciò ancora una volta non lo accetta. Fabrizio pensa ai soldi, si accorge che tra i due c’è differenza, gli interessa la loro posizione economica perché sono clienti, e sa che uno spende molto l’altro poco. Fabrizio fa anche un po’ di ironia, chiede se eccellenza vada bene anche per fare ironia. Il conte dà uno zecchino a Fabrizio per dimostrare che sono diversi ed invita il conte a fare lo stesso. Non servono i titoli per farsi stimare, dice Fabrizio, ma servono i quattrini, perché ad esempio in uno stato estero come il granducato di Toscana, non servono titoli ma soldi. Scena terza Il conte continua a voler umiliare il marchese. Il conte è concreto, legato ai beni, lui non apprezza il valore astratto, ma solo ciò che si può spendere. Il marchese però dice che nonostante ciò lei non lo stimerà mai. Per il marchese è importante la protezione, l’aiuto, essere in grado in un’occasione di farle un favore; per il conte significa essere in grado di prestare cento doppie, ossia il denaro. Scena quarta Il cavaliere è avverso alle donne, non ha intenzione nemmeno di far famiglia. Il cavaliere sente questi scontri tra i due ed interviene. Ci sono didascalie perché l’attore deve sapere anche in che modo deve proferire le parole (il marchese è ironico, perché in realtà il conte che ha comprato la nobiltà non può saperne l’importanza). Il marchese non ha argomenti per difendere la sua tesi e cerca di cambiare argomenti. Il cavaliere chiede perché siano arrivati a questa discussione. Il conte dice che il marchese pretende di essere ricambiato semplicemente per il fatto di essere nobile, mentre il conte spera di essere ricambiato per i suoi favori. Il cavaliere non si capacita sul fatto che discutano per una donna, lui non litigherà mai con nessuna per una donna, lui la ritiene una malattia insopportabile per un uomo. Il cavaliere chiede cosa mai questa donna possa avere di tanto interessante. Abbiamo punti di vista diversi, classi sociali diverse. Non sono tipi fissi, siamo scoprendo il loro carattere attraverso le parole che proferiscono, sono personaggi che si evolvono, anche questo cavaliere cambierà poi atteggiamento. Il conte invita il cavaliere a prestare attenzione alla locandiera, anche se per il cavaliere è come tutte le altre. Il marchese è orgoglioso e parla delle dame aristocratiche che ha frequentato, ma nessuna ha il decoro di Mirandolina. Il conte dice invece che ha tentato di conquistare alcune donne con del denaro. Il cavaliere invece continua a resistere alla figura femminile, hanno anche provato di tutto per farlo sposare ma non ha mai accettato. Il cavaliere dice anche che le donne mangiano i quattrini. Scena quinta A questo punto entra in scena Mirandolina, donna astuta e vivace, approfitta delle debolezze di questi uomini. Il conte mostra gli orecchini a Mirandolina in maniera plateale, vuole mostrare la sua ricchezza e mettere in difficoltà il marchese che non può fare questi regali. Per il cavaliere è assurdo fare un regalo di tale importanza ad una donna. Il cavaliere capisce quanto sia furba la donna. Il marchese dice invece di essere elegante, non si comporta come il conte che fa proposte e regali pubblicamente. Mirandolina commenta l’operato del marchese, lo ritiene avaro. Il cavaliere disprezza la donna ed anche la biancheria che ha preparato, è duro nei suoi confronti e non è per niente gentile. Lui non vuole affatto parlare con Mirandolina, non vuole che lei gli dia confidenza. C’è un confronto tra classi, ci sono note di realismo, personaggi verosimili, c’è una realtà, cioè una vera locanda che si trova a Firenze. 19/04/2021 Goldoni cerca di basarsi sulla vita reale ma tiene comunque presente la tradizione teatrale, cerca di trovare un equilibrio tra conservazione e rinnovamento. Nei Mémoires dice che il suo stile inizialmente non era elegante, non tendeva al sublime, ma era necessario per smuovere un pubblico abituato alle iperboli ed al romanzesco, all’esagerazione, al ridicolo. Lui rispetta il pubblico perché gli presenta le verità nuda, realismo psicologico e sociale, ad un pubblico abituato alle commedie a soggetto che ormai erano arrivate al livello delle farse. Non rinuncia a tutti gli espedienti scenici che potevano essere utili, tecniche recitative, dinamismo, ma tiene presente anche e soprattutto la vita reale, alla base della sua riforma. Rifacendosi ai principi dell’illuminismo, Goldoni vuole coltivare il gusto del pubblico, formarlo, educarlo attraverso i suoi testi. La società del tempo viene presa in considerazione, le varie classi sociali, i valori del tempo, i vizi, i problemi, c’è un’osservazione acuta della realtà sociale, la repubblica di Venezia diventa centrale, vuole riprodurre la vita quotidiana di tutta la sua gente. I personaggi rispetto alle maschere acquisiscono spessore, acquisiscono un’autonomia espressiva, le situazioni in cui vivono sono credibili, rappresenta ambienti popolari, dove i sentimenti gli stati d’animo gli affetti vengono fuori con maggiore immediatezza. Anche la lingua deve essere adeguata, deve essere una lingua comunicativa prima che letteraria, privilegia uno stile medio e colloquiale, perché ha bisogno di una lingua che arrivi facilmente al pubblico, a volte usa anche il dialetto veneziano, anche il francese nell’ultima fase. Alterna al dialetto un italiano lontano dalla lingua letteraria complessa, un italiano della borghesia settentrionale, soprattutto veneta, quindi parlato e non astrattamente letterario, dialettizzato in qualche modo. Non usa una lingua stereotipata, ma una lingua più agile, della conversazione dei borghesi, colloquiale, una lingua che risponde ai suoi bisogni, ai bisogni della produzione letteraria, costituisce una creazione originale nella quale ritroviamo modi di dire, vocaboli di varia provenienza. In sintesi usa anche il dialetto, che acquista dignità di lingua parlata, poi quando usa l’italiano invece usa uno stile medio, colloquiale. Si mette in polemica quindi anche con la Crusca, non usa quella lingua codificata, proprio della tradizione letteraria, non c’è la complessità sintattica propria della lingua letteraria, all’ipotassi si sostituisce la paratassi. Troviamo nei suoi testi l’aristocratico, il borghese, il popolano, se abbiamo tutte queste figure appartenenti a classi sociali diverse, c’è bisogno di un linguaggio diverso e di volta in volta specifico, adeguato alle classi sociali rappresentate anche perché il teatro di Goldoni deve essere realistico. Tutto ciò risponde all’esigenza di realismo che l’autore manifesta. Si può parlare più di riforma che di rivoluzione. Il testo deve istruire il pubblico, metterlo a contatto con la realtà, del resto questo pubblico borghese chiede un riscontro con la realtà contemporanea. Altro aspetto importante è il rapporto con questo pubblico nel primo periodo della produzione goldoniana il mercante veneziano era considerato portatore positivo dei valori borghesi in contrapposizione alla decadenza della nobiltà. Poi però la figura del mercante entra in crisi, questa borghesia mercantile veneziana delude anche l’autore, perché è una classe che non riesce poi di fatto a realizzare i suoi progetti, non riesce a realizzare quel rinnovamento civile e culturale della repubblica di Venezia che in qualche modo aveva promesso. Il pubblico borghese sostituiva il pubblico aristocratico, però questo nuovo pubblico che era piuttosto attivo, consapevole, non chiedeva soltanto il divertimento ma voleva anche trovare nelle rappresentazioni la propria esperienza, la propria mentalità, la realtà del tempo, voleva vedere rispecchiate le esperienze contemporanee. Goldoni per farlo si serve quindi dei libri del mondo e del teatro. Mentre il teatro popolare si faceva nelle piazze pubbliche su due tavole, le strutture venivano allestite in maniera rudimentale, palchi improvvisati, nel 1700 invece si diffonde un nuovo modello, un nuovo tipo di struttura teatrale, nasce il teatro stabile, viene fuori anche un nuovo tipo di pubblico, non era più quello fruibile che si trovava quasi per caso in piazza, ma era un pubblico pagante, borghese. Il teatro diventa anche un’impresa commerciale, ci sono dei patrizi che diventano imprenditori del teatro, investono dei fondi. Anche la struttura del teatro cambia, abbiamo la scena da una parte e poi dall’altra la parte dove si trova il pubblico, la platea, la galleria… riflesso anche della gerarchia sociale che si basa sulla ricchezza, infatti in base a quanto si pagava il posto variava. OPERE E FASI DI GOLDONI I testi che Goldoni produce sono tantissimi, non sono solo commedia ma anche tragicommedie, drammi, testi di carattere e d’ambiente, commedie incentrate su un personaggio, commedie corali, commedie in cui abbiamo la satira sociale. Per raggrupparle e capire quali sono le caratteristiche fondamentali si potrebbe ad esempio fare una distinzione tra quelle in italiano o in dialetto o in francese, ma forse il modo più semplice per catalogarle è seguire la struttura dei testi in modo cronologico. Varie fasi della sua attività Goldoni nato a Venezia nel 1707, figlio di un medico che avrebbe voluto che suo figlio esercitasse la stessa professione, lui studia invece giurisprudenza, esercita la carriera d’avvocato ma poi si dedica alla scrittura teatrale. Prima Fase Fino al 1738 si forma come autore teatrale, è un periodo di apprendistato teatrale in cui ancora è legato alle strutture tradizionali ma comincia a fare riflessioni che lo porteranno alla riforma. Nel 1734 opera già una scelta, scrive dei testi per un teatro veneziano, il San Samuele, dove farà quindi delle prime esperienza. Seconda fase (dal 38 al 48) viene rappresentata al San Samuele una sua commedia molto importante, IL MOMOLO CONTESAN, primo passo verso la riforma. Presenta ancora la struttura della commedia dell’arte ma la parte del protagonista è interamente scritta. L’autore controlla quella parte, è un primo tentativo di dare forma stabile al testo teatrale, è un compromesso tra commedia dell’arte e commedia d’autore. LA DONNA DI GARBO (42-43), commedia interamente scritta, il lavoro diventa sempre più impegnativo e tra 47 e 48 anche dietro il suggerimento di un altro capocomico (Medebach) Goldoni decide di abbandonare l’avvocatura e si lega con un contratto al teatro veneziano di Sant’Angelo. Nel 48 viene rappresentata LA VEDOVA SCALTRA, primo esempio di commedia di carattere in cui la definizione dei caratteri è molto curata e l’intreccio complesso. Chiaramente il pubblico era già preparato, così come gli attori, all’opera interamente scritta, grazie alle opere precedenti. LA BUONA MOGLIE, in cui abbiamo un ambiente popolare ritratto realisticamente, ritrae la vita quotidiana di questa classe e la Venezia del tempo. Terza fase Tra il 48 ed il 53 scrive per questo teatro Sant’Angelo, tutte commedie incentrate sulla poetica della riforma. Scrive ancora tanti testi, IL CAVALIERE E LA DAMA, dove attacca la nobiltà arrogante e mette a confronto un mercante operoso ed attivo con un nobile arrogante, pieno di boria. Nel 1750 con IL PADRE DI FAMIGLIA, pone al centro la famiglia ed i rapporti, la laboriosità borghese. Fa uno sforzo di analisi critica di questa realtà sociale. L’opera teatrale della storia del sonetto italiano, pubblicata nel 1816, nella quale Foscolo inserisce In morte del fratello Giovanni come testo conclusivo di una serie di 24 sonetti esemplari della lirica italiana. Il motivo occasionale è la morte del fratello, il fratello era morto però nel 1801, mentre il sonetto viene scritto circa un anno e mezzo dopo, quindi nel testo c’è sicuramente questo motivo ma anche tanto altro, il motivo della morte del fratello (Giovanni Dionigi che era stato ufficiale a Bologna ed aveva contratto un debito di gioco, per cui aveva probabilmente sottratto una somma dalla cassa militare, forse per questo era caduto in uno stato di profonda depressione che lo aveva portato alla morte). A proposito di questa vicenda lui scrive una lettera a Monti teme che stanco della vita si sia avvelenato e sua sorella lo conferma. A parte questo motivo occasionale ci sono il tema dell’esilio, della lontananza dagli affetti familiari, lontananza in terra straniera, tomba attorno alla quale la famiglia si riunisce, figura maestosa e tragica della madre, tutti questi motivi sono contemplati. L’autore si rifà al carme 101 di Catullo, che aveva dedicato un’elegia alla visita presso la tomba di suo fratello, nella Troade, in Asia minore. Incipit di questo testo di Catullo: “multas per gentes et multa per aequo ravectus… “ C’è una reminiscenza, c’è l’immagine catulliana che lo ispira, però trasforma i versi catulliani, sostituisce all’idea del viaggio per portare i doni alla tomba quella del suo peregrinare, vagare senza pace in qualità di esule che non potrà tornare in patria e recarsi presso questa tomba. Ci sono molti punti in comune sicuramente. IN MORTE DEL FRATELLO GIOVANNI Abbiamo uno schema rimico, numerosi enjambements, chiamati anche inarcature. C’è coincidenza tra misura sintattica e misura delle quartine e terzine, le quartine terminano come le terzine con un punto. I periodi sono costituiti da frasi ampie. L’io lirico emerge subito nel testo; dì apertura al latino. Troviamo il tema del fatale peregrinare, dello sradicamento, uomo preso sa un incessante vagabondare e c’è subito il tema dell’esilio, motivazione per cui si sposta da un luogo all’altro. Questo suo vagabondare è in contrasto con la staticità della tomba. Pietra: metonimia, materia di cui è fatta al posto dell’oggetto stesso. Si richiama un atto rituale antico, visita alla tomba. Gemendo usato in senso transitivo, giovane vita ancora in fiore (metafora) spezzata c’è un riferimento alla morte di Eurialo rappresentato come un fiore reciso, tutta una tradizione classica, che troviamo ad esempio in Virgilio. La madre, figura maestosa e tragica, scritta con la lettera maiuscola. La madre dell’autore non era così avanti negli anni in realtà, è solo una donna segnata dal dolore, si trascina perché è provata dalle esperienze di vita, ha perso un figlio, l’altro è in esilio. Ispirazione petrarchesca nel 16 componimento di Petrarca nei versi 5 e 6 c’è qualcosa di simile, lui scrive “indi traendo poi l’antiquo fianco per le extreme giornate di sua vita”. Extreme giornate diventa dì tardo in Foscolo. Il verso si apre con parla e si chiude con muto: il motivo di questo tacito e ideale colloquio tra i vivi e morti è importante, la madre trova conforto istaurando un ideale dialogo con i resti del figlio e parla di Foscolo con i resti del fratello. In questo ideale colloquio c’è il segno della corrispondenza d’amorosi sensi che attraverso la tomba unisce i vivi e i morti, tomba vista come luogo di affetti e di incontro ideale, il figlio è l’argomento di questo muto colloquio. Ma io deluso tendo a voi le braccia: ipallage, ossia non sono le braccia deluse, ma il poeta, e questa delusione viene attribuita anche alle palme. Sineddoche: tendere le palme verso il cielo è il gesto del supplice. Ma il poeta dice che lui non può far ritorno perché è esule, tende le braccia a loro, il gesto di tendere le braccia è un topos della poesia classica e accompagna l’incontro dei vivi e morti, Enea quando cerca di abbracciare l’ombra di Anchise nell’Ade fa questo, ma il padre è un’ombra, non ha fisicità, è vano il suo tentativo di abbracciare il padre. Anche Ulisse cerca di fare la stessa cosa con l’ombra della madre, “tre volte tentai di abbracciarla spinto dal mio animo e tra volte mi sfuggi tra le mani come un’ombra”. Nel caso del poeta questo abbraccio è impossibile perché il poeta è lontano in esilio. Mondo classico che Foscolo conosce benissimo, aveva anche tradotto testi classici, ci sono sintagmi ed espressioni del mondo classico nella sua poesia. Saluta da lontano i suoi tetti (sineddoche), cioè saluta da lontano la sua patria, gli affetti familiari, mondo che non rivedrà. C’è un verso di Petrarca “al fior degli anni suoi” (componimento 268- verso 39). Atro riferimento all’Eneide, Enea durante la tempesta che distrugge l’imbarcazione (primo libro) “geme alzando alle stelle ambo le palme”, quando è preoccupato perché la sua nave è duramente colpita. Impianto fortemente soggettivo, discorso personale sulle impressioni dell’autore. Cure: latinismo. Il poeta sente l’avversità del fato, questo ineluttabile destino di morte e le preoccupazioni segrete che tormentarono la vita del fratello, c’è una sorta di fusione sentimentale con il fratello. Prima ha parlato di sè, qui invece si sente vicino al fratello che non c’è più e prega anche lui di trovare la quiete nel porto dove il fratello è approdato, la morte è vista come liberazione dagli affanni, dispensatrice di pace. Il poeta vive in una condizione di sradicamento dell’eroe che lotta contro la sorte avversa, così come Ulisse fu costretto a peregrinare, c’è il motivo della nostalgia struggente. Forte intensa esclamativa, la prima dell’ultima terzina. Anche in un altro componimento Petrarca dice “questo m’avanza di cotanta speme” ( componimento 268). Non dice genti straniere ma straniere genti, morirà in una terra straniera, invoca il popolo presso il quale morirà di restituire i suoi resti alla madre, consente l’illusione di un ritorno al petto della madre, di un ritorno anche in patria, nella sua terra, in questo modo vede la possibilità di riunire il nucleo familiare, potrà essere compianto come il fratello dalla madre. La restituzione delle sue spoglie alla madre è una sorta di atto consolatorio, di risarcimento, ricostituzione del nucleo familiare. Immagine positiva della morte come illusione di sopravvivenza, sulla tomba si potrà ricostruire idealmente questo nucleo familiare, quando le sue spoglie saranno restituite alla madre. Straniere genti: inversione. AUTORITRATTO- SONETTO Enumerazione realizzata per asindeto. E’ il settimo sonetto, collocato al centro della raccolta, rappresenta quasi il cuore, centro vitale delle poesie. Chiaramente ha tenuto presente l’archetipo alfieriano, descrizione che va dall’esteriorità all’interiorità. I due testi sono testimonianza di un’inquietudine esistenziale che porta i due poeti alla ricerca di una definizione di sé. Entrambi cercano di definire se stessi, il proprio io. Sono vicini anche a livello strutturale, lessicale, tematico. Nell’explicit del testo c’è anche il riferimento alla morte. Alfieri in particolare però dà la parola alla poesia che è rappresentata dall’immagine dello specchio, che non può che riflettere un’immagine oggettiva della realtà. Non c’è nel testo di Foscolo l’apostrofe allo specchio, si avvia subito l’analisi dell’aspetto fisico. In Alfieri alla fine l’autore mostra la sua natura contraddittoria. Foscolo dice che ha la fronte solcata da rughe, occhi attenti (intensità dello sguardo), i capelli sono fulvi, guance scarne, aspetto coraggioso, labbra carnose e di colore vivo, denti tersi, capo chino, bel collo e torace ampio. Passiamo dalla descrizione del viso al resto del corpo, giuste membra, proporzionate, abbigliamento scelto ma sobrio. Temperamento impulsivo, vivace: sobrio, umano, generoso, schietto, in contrasto con il mondo, gli eventi sono sempre in conflitto con lui. È qualcosa di reciproco. Un uomo in conflitto con l’epoca in cui vive. Valoroso nell’uso della parola, come spesso nell’azione, per lo più mesto e solo, c’è un’inclinazione egocentrica del dialogo dell’autore con se stesso. E’ sempre concentrato su di sé, sull’analisi dei suoi pensieri, iracondo, inquieto tenace. Anastrofe: di vizi ricco. Contrasti che non mancano. Mentre Alfieri diceva che mente e cuore erano in conflitto, qui abbiamo pure un conflitto tra ragione e sentimento. Si tratta di autori che sono a cavallo tra due epoche, ma Foscolo risolve questo conflitto e prevale la passione. Mentre in Alfieri questo conflitto non è risolto. Nel testo di Alfieri c’era l’espressione “ora considerandomi Achille, ora ‘antieroe”. Invece qui c’è il superamento delle incertezze e Foscolo sceglie per sé la figura dell’eroe. Per sapere se sei grande o vile devi confrontarsi con la morte secondo Alfieri, mentre in Foscolo la morte è dispensatrice di fama e di riposo, nella morte troverà la gloria, la morte è invocata, concederà gloria e riposo, non dovrebbe segnare la fine dell’uomo se questo è stato realmente grande, perché c’è la fede nell’immortalità storica, un uomo importante continuerà a vivere attraverso i suoi scritti. Se in Alfieri la morte è invocata come unico giudice possibile del suo percorso e del suo essere, qui porterà fama futura e cessazione degli affanni. Abbiamo superamento del dubbio, non un punto interrogativo che abbiamo invece nel testo di Alfieri. Affrontando la morte con timore si svelerà il suo essere, secondo Alfieri. 26/04/2021 Fasi di stesura- Le ultime lettere di Jacopo Ortis Foscolo elabora un piano di studi Laura lettere, nel 1796 per piano di studi si intende un elenco di elementi da affrontare, approfondire e poi un bilancio del lavoro già fatto. Il romanzo epistolare aveva avuto già grande fortuna nel 700, Eloise di Rousseau, Pamela di Richardson ed il Werther di Goethe. Nel 1796 tra l’altro l’autore soggiorna a Venezia e sui colli Euganei, luogo molto importante perché qui si rifugia il protagonista del romanzo. Siamo a sud ovest della provincia di Padova e Foscolo stesso aveva soggiornato a Venezia in quella data. C’è ancora un altro motivo che possiamo tener presente, sempre in quell’anno si era suicidato uno studente padovano di nome Girolamo Ortis. Alla fine del 1798 lui si era ormai dedicato alla stesura di questo romanzo epistolare, l’editore Marsigli di Bologna cominciò l’edizione del romanzo che Foscolo aveva elaborato, ma c’è un’interruzione brusca perché arrivano gli austro russi, lui si deve allontanare ma l’editore ha necessità di chiudere l’operazione, ed affida la conclusione di quest’operazione ad un bolognese Angelo Sassoli, che porta avanti il lavoro. Intanto Foscolo torna e sconfessa questa operazione, si rimette a lavorare sul testo e personalmente lo pubblica con l’editore Mainardi a Milano, nel 1801, ma finisce male perché è un’edizione incompleta e ci sono screzi con l’editore per cui l’intera tiratura finisce al macero, si salvano alcune copie, una delle quali sembra sia stata inviata a Goethe. Nel 1802 vede la luce la prima edizione completa presso il Genio Tipografico, ci sarà anche un’edizione a Zurigo nel 1816, dove troviamo anche un testo importante sul piano critico, che è la notizia bibliografica, e poi quella di Londra nel 1817, ovviamente in queste edizioni lui interviene sul testo. Jacopo è un giovane patriota appassionato, intellettuale di origine veneziana, che viene da una buona famiglia, è di ideale giacobino ed è in conflitto con il contesto sociale e politico in cui vive. Vede tradite le sue speranze patriottiche per cui alla fine del romanzo la morte diventa un’unica via d’uscita da una situazione intollerabile. I suoi principi non sono compatibili con la sua situazione politica e sociale. Grande influenza del modello alfieriano, come gli eroi di Alfieri è incapace di compromessi e mediazioni, è votato a valori assoluti ed è destinato a scontrarsi con la realtà quotidiana. Lo fa recedere per un po’ da certe posizioni e dal suicidio il sentimento riferimento alla poesia che è sacra e che deve spronare le altre imprese eroiche ed importanti, la pietas è una delle virtù più alte in contrapposizione agli istinti bassi, aggressivi, feroci. Sempre grazie all’amore esiste l’impulso alla propagazione della vita, l’amore ha una forza enorme. Senza l’amore la terra diventerebbe inabitabile, senza l’amore ci sarebbero pianto, terrore e distruzione. A questo punto rievoca il mondo classico, concepito come un paradiso di armonia, anche grazie alla capacità degli antichi di crearsi delle illusioni, quindi abbiamo uno scenario idillico, parla delle Naiadi, divinità delle acque, nel mondo classico le illusioni aiutavano a vivere. Ma subito dopo attraverso Jacopo Foscolo mostra insoddisfazioni nei confronti della cultura illuminista, il filosofo è l’illuminista che mediante la ragione risolve tutte le creazioni fantastiche della mente umana, cioè le abbatte sulla base della ragione. Da parte del filosofo c’è dunque un commento negativo a tutto questo (attacco alla cultura settecentesca ed insoddisfazione verso questa cultura). Beati gli antichi, che erano capaci di concepire questo e di alimentare queste illusioni, che si credevano anche degni dei baci delle dee. L’uomo era idealizzato e reso simile ad un Dio, il mito prevedeva relazioni tra uomini e divinità, c’è la rievocazione ai valori del mondo classico. Attualmente solo le illusioni possono fargli avere un rapporto attivo con la realtà, lo possono strappare all’inerzia, alla passività, senza di esse proverebbe solo dolore o rigida indolenza. Se questo cuore non vorrà più alimentare queste illusioni allora lui se lo strapperà il petto dal cuore, sembra quasi un eroe tragico, minaccia un gesto disperato. Lettera 4 dicembre Qui vengono fuori le ragioni politiche del suicidio di Jacopo analizzate nelle radici più profonde. Combattuto tra l’esigenza di un’azione libertaria, fare il possibile per recuperare la libertà e le reali condizioni che sembrano impedire le attuazioni di questa sua azione, perché ci sono condizioni in cui è difficile dare un contributo, è tormentato perché vorrebbe rendersi utile, c’è anche la presenza di un interlocutore speciale che è Parini, che rappresenta la guida di Jacopo, lui dispensa consigli mentre Jacopo vorrebbe agire subito per la sua patria. Parini aveva creduto in un progetto politico diverso, nelle riforme, appartiene ad una generazione diversa, è interessato alle riforme proposte dai sovrani illuminati, il suo atteggiamento nei confronti della realtà è diverso. Dietro tutto il discorso di Jacopo ci sono ovviamente le riflessioni di Foscolo, deluso dal trattato di Campoformio, fiducioso no nelle avventure di Napoleone ma poi deluso. Jacopo si rivolge a Lorenzo che evidentemente gli aveva dato dei consigli, cioè cercare qualche amicizia o protezione presso le alte cariche della repubblica cisalpina, fondata da Napoleone nel 97 con la campagna di Italia. Non ci diamo da fare per ottenere degli incarichi servendoci di protezioni o di aiuti, non si piegherà mai a chiedere un incarico a questa gente. Jacopo non è disposto a chiedere protezioni ed aiuti, potrebbe farlo se facesse il letterato di corte, reprimendo le sue idee (letteratura cortigiana asservita ai potenti). Non può reprimere quello che ha dentro, il suo nobile coraggio, non può essere asservati ai potenti, non può fare a meno di giudicarli per la loro ignoranza o prepotenza. Se dovesse occuparsi di tutto questo, preferirebbe morire. Gli uomini balzati dai trivi intende gli uomini che vengono da una condizione bassa e che poi sono arrivati al potere, hanno avuto spesso il bisogno di faziosi, di sostenitori, di uomini che li hanno aiutati ma che poi non possono controllare, perché essi poi pretendono qualcosa in cambio e non è facile controllare queste pretese. Queste persone si sono servite di adulatori dai quali anche se spesso sono traditi e derisi non sanno più liberarsi, si è creata una perpetua ruota di servitù, anarchia e tirannide. I potenti quindi non sono liberi nelle loro azioni perché sono condizionati dalle richieste e pretese di coloro che li hanno sostenuti. L’adulazione è necessaria per diventare potenti, rinunciando all’espressione libera delle proprie idee. Non scenderà mai a compromessi, crede solo a valori assoluti, se non crede in un principio non lo sostiene. E’ certo di essere calpestato, ma almeno preferisce esserlo tra la turba immensa dei suoi conservi, cioè tra tutti gli altri che come lui sopportano l’oppressione e la mancanza di libertà. I tiranni non potranno godere del suo abbattimento, preferisce non realizzare il suo progetto piuttosto che chiedere la protezione di potenti che non stima. Preferisce non dare il suo contributo, quindi morire ignoto tra tutti coloro che sono nella sua situazione; costretto a scegliere si schiererebbe tra le vittime compiante e non tra gli adulatori potenti, anche nel caso di scelta tenderà a mantenere il suo rigore etico e morale. 29/04/2021 Continuazione lettera 4 dicembre Parini è un cultore del valore educativo della poesia, che deve guidare verso la virtù, che si deve occupare del bene pubblico, dell’utile. Ci offre un esempio di letteratura ricco di temi etico-sociale, è un riformista moderato, impegnato dal punto di vista civile. In questo testo assume il ruolo di guida morale nei confronti del giovane Jacopo, Parini analizza la condizione politica dell’Italia e soprattutto la condizione dell’area lombarda sottomessa agli stranieri, prima agli spagnoli, poi agli austriaci ed infine ai francesi. Egli condanna la letteratura che esalta i potenti, i letterati che tendono ad adulare i tiranni, fa riferimento alla degenerazione di sentimenti nobili, alla mancanza di azioni coraggiose e di valori sacri. Jacopo con il suo idealismo crede che si debba lottare per la libertà, è pronto al sacrificio pur di recuperare la libertà, Parini ritiene che un’azione rivoluzionaria sia pericolosa, un giovane passionale come Jacopo essendo ignaro dei giochi del potere ritiene che possa essere strumentalizzato dai potenti, dai faziosi. Ogni sacrificio sarebbe inutile, è opportuno rivolgere il suo ardore verso altro, pensare alla scrittura ed alla poesia, non è un momento favorevole all’azione. Parini riflette rifacendosi anche a Machiavelli ed Hobbes, perché secondo Hobbes l’uomo non è un animale sociale e socievole, politico, per cui è animato dall’egoismo, le azioni umane sono determinate da un istinto di sopravvivenza, di sopraffazione, ripropone il concetto homo hominis lupo (espressione che si trova per la prima volta in una commedia di Plauto), oppure la guerra di tutti contro tutti., perché mette l’accento sull’egoismo alla base della natura umana. Ciascuno secondo questa visione vede nell’altro un proprio nemico. Jacopo nella lettera da Ventimiglia scrive “ciascun individuo è nemico nato della società, perché la società è necessaria nemica degli individui, la terra è una foresta di belve”. Qui abbiamo il tema politico, il conflitto tra l’individuo e la società, ma anche il legame con la madre, l’amore per Teresa che illumina la sua vita, la tomba, simbolo di continuità degli affetti, il giovane patriota è comunque animato dall’amore per Teresa e dalla speranza di poter lottare per restituire libertà alla patria. Parini invece lo sconsiglia, fa riflessioni che sono frutto della sua esperienza e lo invita a recedere dalle due posizioni. L’azione rivoluzionaria potrebbe anche trasformare Jacopo in un tiranno secondo Parini, Jacopo aspira chiaramente al bene dell’umanità, ma anche questo rischio c’è; il desiderio di libertà, l’ansia di fare qualcosa per la patria, il crollo di ogni illusione di eroismo e libertà provocano il suicidio. Parini è pessimista sulla possibilità di raggiungere qualche risultato attraverso la rivoluzione e la forza, lui è un uomo di riforme. Con le sue parole smonta l’entusiasmo di Jacopo servendosi di numerose argomentazioni, chi si pone a capo di un’azione rivoluzionaria poi dovrà fare delle scelte, rischia a sua volta di diventare un despota. “che se mi mancasse il pane e il fuoco” Se fosse l’unica possibilità per andare avanti, ossia sottomettersi ai potenti, non lo farebbe ma non giudica chi non può per proprie motivazioni fare la stessa scelta, c’è chi è disposto a tutto questo, perché ha delle esigenze che non consentono di fare altra scelta. Lui però preferirebbe la morte, la patria di tutti, emerge a questo punto il tema del suicidio, la morte unifica i destini di tutti, non ci sono delatori, conquistatori, principi. E’ pronto a morire piuttosto che a scendere a compromessi, vorrebbe lasciare un’eroica testimonianza di sé. Lui vede una gloria che dovrebbe derivare da un’azione politica, vuole ottenere un riconoscimento attraverso un’azione politica. C’è l’aspirazione alla gloria che comprende la virtù individuale e politica. Piante sta per piedi (sineddoche). Lui vorrebbe fare qualcosa per conquistare la gloria, anche attraverso il sacrificio. Ma non è questa l’unica sua passione, c’è anche l’amore che ad un certo punto ha preso il sopravvento sulla passione politica, che comunque è sempre lì. Jacopo teme nella sua impresa, teme una delusione perché intanto questa situazione politica va avanti e non si riesce in maniera concreta a realizzare un’azione libertaria. Quante volte vergognandosi di morire senza aver fatto niente per difendere la sua patria è arrivato a pensare al suicidio, di mettere fine alle angosce. Ha anche temuto di morire senza aver fatto nulla, quindi senza fama, anche il suo nome potrebbe essere seppellito non avendo fatto nulla per la sua patria. Quindi il tema del suicidio serpeggia. Per aggirare la censura Jacopo consegnava la lettera ad un messo del banchiere, ma la lettera non è conclusa. Anche qui Jacopo crede che non sarà possibile rivedere Lorenzo, è pessimista, condividendo con lui le sue sensazioni riesce ad andare avanti e la sua solitudine diventa meno spaventosa. Si limita anche nell’espressione del reale stato d’animo. Non cesserà di scrivergli, perché è l’unico conforto che ha. Ha il presentimento che un giorno a Lorenzo saranno necessarie queste lettere, quando non ci sarà più saranno con un contatto con Jacopo almeno ideale, sarebbero un patrimonio d’affetti. Giardino di porta orientale, a Milano, dove lui passeggia con Parini. L’incontro con Parini, che inizia il suo colloquio con un esame sulle condizioni dell’Italia napoleonica, l’analisi di Parini è estremamente lucida ma pessimista. Parini è eloquente, ha grande capacità argomentativa, anche Parini soffriva per la situazione politica e sociale, modello di intellettuale libero e non asservito al potere. Jacopo è molto più giovane e passionale e non ha l’esperienza di Parini. Egli parla a lungo della sua patria, cioè dell’area lombarda, e fa riferimento alle dominazioni, alla tirannide del passato (ora la dominazione è quella francese, le armate napoleoniche hanno fatto sperare nella libertà, ma adesso si assiste ad una serie di violazioni della libertà e di arbitri). Le lettere sono prostituite, cioè i letterati esaltano i potenti e si abbandonano all’adulazione. Non c’è più la forza di lottare secondo Parini, valori come la sacra ospitalità, il coraggio, la pietas filiale, la benevolenza non ci sono più. Adesso ci troviamo di fronte degli omiciattoli, degli uomini che non sono nemmeno degni di essere nominati, perché non hanno il coraggio ed il vigore d’animo di Silla o di Catalina, o di quei fuorilegge che anche realizzando azioni discutibili hanno coraggio e forza d’animo. Ora uomini del genere non ci sono più. Lucio Cornelio Silla (83 a. C.) marciò su Roma facendo scoppiare la guerra civile, ha avuto la forza di intraprendere un’azione o Catilina (64) organizzò una ribellione contro il senato di Roma, questa congiura fu poi raccontata da Cicerone. Sono personaggi crudeli ma ricordati anche dagli storici antichi perché avevano grande personalità e forza. Non sono come quei masnadieri che sono pronti anche a morire pur di realizzare i propri obiettivi. Questi invece sono uomini vili, pronti a sottomettersi per conservare il loro potere. Sono ladroncelli di nessun conto. Jacopo dice che non si può evitare di agire, probabilmente dal loro sacrificio verrà fuori un vendicatore, il nostro sacrificio sarà vendicato da qualcuno. Se gli uomini fossero sempre pronti a morire, disposti al sacrificio, sarebbero sempre così vilmente disposti ad obbedire al dominatore? Se altri uomini fossero come lui pronti al sacrificio non seguirebbero il la società. Altro concetto importante è la riforma della società, bisogna diffondere le idee, ma ci vuole una lingua adeguata a diffondere queste idee. Nelle condizioni presenti non c’è uno strumento di educazione, la lingua letteraria è compresa soltanto da una élite, è pressoché una lingua morta. Il problema linguistico si pone già allora, Manzoni farà i conti con tutto questo quando scriverà il romanzo. “Io credo che la meditazione di ciò che è e di ciò che dovrebbe essere, e l’acerbo sentimento che nasce da questo contrasto, siano le sorgenti delle sieno le sorgenti delle migliori opere si in verso che in prosa dei nostri tempi: e questi erano gli elementi di quel sommo poeta”. Parini si era posto il problema delle questioni civili, voleva incidere sulla realtà, cosa che deve fare la letteratura. “per nostra sventura lo stato dell’Italia divisa in frammenti, la pigrizia e l’ignoranza hanno posto tanta distanza tra lingua parlata e quella scritta che può dirsi quasi morta” c’è una sorta di incomunicabilità, perché c’è una lingua morta. Gli scrittori intenzionati a dare un proprio contributo al miglioramento della realtà, come fanno a veicolare i contenuti se non hanno una lingua valida, come fanno a diffondere il bello e l’utile? Parini, quanti l’hanno letto? Quanti hanno letto le Georgiche di Virgilio? Quanti sono stati in grado di leggere queste opere? Pochissimi. Il contributo che è stato dato non è sufficiente. Il popolo di Parigi comprende i testi di Molière, in Italia invece non comprendono Parini. Nell’immediato non si può fare molto, perché la lingua manca, Parini alla fine è arrivato a quei pochi che sono in grado di comprenderE i suoi testi perché comprendono la sua lingua. Ha trovato delle belle immagini, ha detto delle verità, comunque questi autori sono stati importanti ed è sempre dell’avviso di non disperare, è convinto che una verità pubblicata illumini comunque un po’ le menti, ma queste verità trasmesse non bastano, perché non veicolate in una lingua compresa da una moltitudine. L’autore è contro le tendenze aristocratiche del classicismo, la letteratura deve avere una funzione educatrice e riformatrice, perciò bisogna illuminare le menti. Comunque la letteratura è importante perché non sarà arrivata alla moltitudine ma avrà già illuminato alcune menti. Manzoni quando inizia a scrivere romanzi ha come esempio l’Ortis, che però è scritto in una lingua estremamente ricercata, non adatta ad un lettore medio, il suo romanzo aveva per protagonisti due giovani del popolo, semplici, semianalfabeti, il protagonista è un intellettuale, che ama Petrarca, figura totalmente diversa dai protagonisti dei Promessi Sposi. STESURA DE I PROMESSI SPOSI Manzoni, comunque, si appassiona al romanzo e decide di intraprendere la stesura dei Promessi sposi il 24 aprile del 1821, la data precisa viene vergata da Manzoni stesso nel primo foglio del manoscritto allestito per la stesura del romanzo. La prima stesura, il Fermo e Lucia, viene completata il 17 settembre del 1823, data sempre vergata dall’autore. In quegli anni Manzoni aveva appena finito di scrivere Marzo 1821 e stava scrivendo l’Adelchi, interrompe la stesura dell’Adelchi per dedicarsi al romanzo ed ai capitolI inziali, poi passerà a concludere l’Adelchi. Il genere romanzo secondo i classicisti era inferiore, indegno di entrare nel campo della letteratura, genere considerato di secondo piano. Manzoni influenzato dall’ambiente romantico milanese, dal gruppo che faceva capo al Conciliatore, acquisisce una visione della letteratura in senso moderno, democratico, antiretorico, ritiene che la letteratura debba essere linguisticamente vicina al popolo, ai lettori, che si debba rivolgere a una moltitudine. Non si doveva rivolgere esclusivamente a quei pochi letterati ai quali si rivolgeva di solito, doveva formare ed educare. Questo comporta scelte precise, nel romanzo l’oppressione spagnola nelle terre lombarde del Seicento poteva rinviare a quella austriaca nell’Italia dell’800. Letteratura in senso moderno, impegnata nella realtà contemporanea, impegno ideologico, in cui trattare anche temi vivi nella coscienza contemporanea. Sceglie di gettare un fascio di luce su una classe sociale ignorata dalla letteratura, due popolani della compagna lombarda che non si trovano in uno sfondo astratto, ma in una realtà concreta, subiscono la storia e fanno i conti con la realtà, proprio per i problemi a livello amministrativo, politico, anche a causa della cattiva amministrazione della giustizia incontrano molti problemi. Sono personaggi che hanno spessore piscologico, personalità complessa, non sono tipi fissi, impariamo a conoscerli leggendo il testo, hanno una propria individualità ed un proprio spessore, questo rispecchia la tendenza al concreto della cultura borghese moderna. Già Scott basava il suo lavoro su documenti storici precisi, il lavoro non era frutto solo della fantasia, Manzoni sarà più attento ancora nella ricerca, leggerà biografie, cronache del tempo, raccolte di leggi, cronache memoriali, ed inizierà il suo lavoro servendosi di opere storiche importanti, decreti legislativi riguardanti il frazionamento dei viveri. Ad esempio si occupa di documenti sull’epidemia di peste. Si avvale anche dell’ Historia patria di Giuseppe Ripamonti, poi di Economia e statistica di Melchiorre Gioia. Ci parlerà delle gride, cioè provvedimenti legislativi contro il fenomeno dei bravi che ormai dilagava. Manzoni avvia la stesura del romanzo ma si rende conto di aver bisogno di una lingua media di comunicazione, si trova di fronte una lingua povera che non gli fornisce gli strumenti adeguati. In una lettera a Fauriel del 21, quando il romanzo era già ad un certo punto, dice che ha grandi difficoltà nel trovare una lingua adatta alla rappresentazione di questi soggetti. Per i francesi il problema non si pone perché non c’è divario tra la lingua scritta e quella parlata, per gli italiani invece c’è una differenza enorme. Infatti dice che lo strumento comunicativo a disposizione è povero ed incerto, non consente di scrivere un romanzo in maniera adeguata, la lingua italiana non è mai stata una lingua d’uso. Vuole creare un’opera popolare, nazionale, anche se in effetti la nazione è ancora inesistente, è nelle speranze degli italiani, vuole creare un’opera nella quale gli italiani possano riconoscersi, trovare un’identità, un sentimento comune. Detto questo comincia ad occuparsi della lingua, intanto completa la stesura del Fermo e Lucia, (testo diviso in 4 parti e 37 capitoli), fa autocritica, dice di essersi trovato di fronte a un composto indigesto di frasi un po’ lombarde, un po’ toscane, un po’ francesi un po’ anche latine, è un pastiche linguistico che non soddisfa l’autore. Poi c’è un altro problema, ci sono digressioni troppo ampie, sia di carattere narrativo (romanzo nel romanzo, a proposito della storia di Gertrude. Chiaramente anche nel testo che conosciamo ci sono digressioni, ma non ampie come quella della prima stesura) ma anche digressioni in cui rifletteva sui tempi, sulla storia, o in cui affrontava problemi letterari, contemporanei, fatte con tono anche piuttosto polemico, acceso. Manzoni interviene limitando lo spazio dedicato alle digressioni e modificando la lingua. Torna sul testo e rinuncia a questa lingua composita anche facendo ricerche, consultando la Crusca, il vocabolario di Cherubini, lavora sulla lingua ed approda ad una base linguistica più omogenea di carattere toscano milanese nella cosiddetta VENTISETTANA. Anche questa lingua non lo soddisfa, l’autore che ha fatto questo progetto di un romanzo realistico nazionale popolare, deve trovare una lingua adeguata ai moderni bisogni comunicativi. Si mette subito al lavoro dopo la ventisettana, sarà importante un soggiorno fiorentino dove comincia a rivedere l’opera e grazie anche all’aiuto di correttori, di amici toscani, di Emilia Luti, conferisce all’opera un più uniforme colorito toscano, realizza la famosa riscialaquatura in Arno. Si reca sul posto, si ispira al toscano parlato dalla borghesia colta fiorentina, una lingua d’uso, viva, parlata ed attuale, non irrigidita dal peso retorico. Così approda alla QUARANTANA. Focalizza l’attenzione su personaggi umili, che diventano protagonisti del testo, sceglie qualcosa di nuovo, non eroi o personaggi storici. Accanto a questi personaggi verosimili troviamo poi personaggi realmente esistici, storici. La storia prende avvio dalla vicenda di questi due popolani, personaggi di fantasia ma verosimili, poi la narrazione si allarga, diventa un quadro della società del Seicento, abbiamo ad esempio la carestia tra il 1627 e 29, la sommossa di Milano del ’28, e poi la peste tra il 1629 e 1630. Molto importante è il principio morale di Giustizia, uguaglianza. C’è un primo riferimento ai contrasti sociali del seicento, incapacità delle leggi di difendere i più deboli dagli abusi e dalle prepotenze, i bravi costituiranno una sorta di esercito personale dei signorotti locali. Questa situazione permette di chiamare in causa quella dell’Italia dell’800, in cui il paese è percorso da moti rivoluzionari, c’è la dominazione austriaca. Primissima parte del testo Incipit descrittivo, precisi riferimenti geografici, è come se il narratore guidasse il lettore e lo conducesse all’interno del romanzo. Il paesaggio è caro e familiare all’autore quindi tutta la realtà è vista attraverso gli occhi e la sensibilità dell’autore. Straordinario affresco di un’epoca, dei suoi costumi, delle condizioni sociali e naturali. Abbiamo tanti elementi descrittivi, c’è un incipit maestoso, sembra quasi che ci sia un geografo impegnato a descrivere questi luoghi, c’è anche un discorso intensamente lirico, poetico. Il narratore è onnisciente, conosce i personaggi e tutte le vicende, farà ironia sui personaggi e si riserva cantucci per fare delle osservazioni, descrive quasi con una telecamera dall’alto i luoghi, guida il lettore, domina quasi la realtà perché la conosce profondamente. Ramo orientale volto verso Lecco, Alpi ad est e monti della Brianza ad ovest. L’Adda dopo aver formato il lago di Como ne diventa emissario. Parla poi dei rilievi, paesaggio molto noto, che Manzoni conosce, , questi rilievi e queste acque caratterizzano la realtà in cui opereranno i personaggi. Paesaggio riconoscibile dalla forma del Resegone, è costituito da tanti cocuzzoli in fila, da subito riconoscibile. Numerose dittologie ma anche forme ellittiche. La descrizione è minuziosa, nei Malavoglia il lettore è proiettato direttamente in Aci Trezza, il narratore non ci descrive affatto l’ambiente o i personaggi, l’incipit era totalmente diverso, eravamo in medias res, catapultati in una realtà che dobbiamo imparare a conoscere. Questo incipit invece è lento ed ampio, c’è una lenta presentazione, ci porta nei luoghi, ce li fa conoscere, ci parla della formazione del lago addirittura. Siamo passati da una descrizione dettagliata dei luoghi ad altro, un primo riferimento alla situazione storica. C’è un intervento ironico del narratore, che si stava riferendo alle guarnigioni spagnole e ne ricorda i soprusi perpetrati ai danni della popolazione locale, in senso ironico dice che questo luogo aveva l’onore di alloggiare un comandante (onore è ovviamente ironico) ed il vantaggio di possedere una stabile guarnigione di soldati spagnoli, insegnavano la modestia alle fanciulle (cioè molestavano le donne) e bastonavano i mariti ed i padri e nel periodo della vendemmia andavano nei campi e facevano razzia dell’uva, i contadini così non potevano più fare la vendemmia, venivano privati del loro raccolto. Primo riferimento, inciso storico in cui il narratore con poche battute ironiche ci dà un’idea della situazione sociale e politica del posto. Personificazione: le strade correvano e corrono. Il paesaggio è rappresentato in maniera dinamica, il narratore coglie il modificarsi delle forme del paesaggio in relazione ai diversi punti di vista, è come se ci facesse osservare la realtà dai vari punti di vista. La natura è antropomorfizzata, parla di andirivieni di montagne. A quel punto entra in scena Don Abbondio, al quale in narratore dedicherà uno spazio notevole per farsi apire anche le motivazioni alla base del suo trovavano sempre nuovi modi per aggirare le leggi, venivano solo colpiti e vessati i più deboli. Le leggi c’erano ma ovviamente i privilegi di alcune classi venivano ancora conservati e non c’era niente da fare. Questi delinquenti trovavano ospitalità fuori dalla giurisdizione civile, potevano assicurarsi l’impunità rifugiandosi in chiese, in conventi o in alcune residenze nobiliari, dove i birri non potevano entrare e restavano lì protetti senza timore. Chi lavorava per uno di questi signorotti era protetto, perché c’erano connivenza tra chi gestiva il potere e questi signorotti locali. Agli angoli delle strade si trovavano questi pezzi di carta, le leggi vengono ridotte a pezzi di carta. Nessuno si sarebbe messo contro un potente per amore del pezzo di carta. Tra quelli che infrangevano la legge e quelli che avrebbero dovuto farla rispettare c’erano legami di classe, di interesse, clientele, che stabilivano una complicità forte, importante, da rendere quelle leggi dei semplici pezzi di carta. Questi birri non erano pronti a mettersi contro i potenti, ma se anche fossero stati intraprendenti come eroi, si sarebbero trovati nell’impossibilità di operare, perché erano in numero inferiore rispetto ai bravi ed i loro capi li avrebbero oltretutto abbandonati, non sostenuti. Quindi si sarebbero trovati contro anche chi avrebbe dovuto imporre loro di operare. L’incarico dei birri era ritenuto di poco conto, considerata negativamente, delle persone spregevoli svolgevano questa attività. Impresa disperata: far applicare le leggi. I birri quindi invece di rischiare la vita, erano uomini vili e quindi attaccavano solo gli uomini pacifici, quelli che essendo inoffensivi venivano attaccati, se la prendevano con le persone oneste. I singoli si raggruppavano per classi, per categorie e così difendevano con maggior forza l’interesse comune, si formavano delle corporazioni, delle leghe; questa era un’altra maniera per affrontare la realtà, all’interno di queste associazioni il singolo chiaramente si sentiva più forte. Il narratore interviene ancora, con il deittico “il nostro”. Il narratore si era reso conto di essere fragile, di appartenere ad una famiglia umile, perciò obbedisce ai genitori, entra nel mondo ecclesiastico per garantirsi una stabilità, una protezione che la sua famiglia non gli avrebbe potuto garantire. In realtà non aveva pensato ai nobili fini del ministero del prete, mettersi in una classe riverita e forte gli erano sembrate ragioni sufficienti per fare questa scelta, ma non è una scelta, è una vocazione. E’ come se lui avesse scelto una professione, per garantirsi una buona situazione economica, la protezione del clero, non per vocazione o per aiutare gli altri. Era entrato a far parte del clero ma in tutti le classi poi il singolo era costretto vista la situazione inquietante a trovare un sistema per andare avanti. Neutralità disarmata (linguaggio militaresco), ideologia della viltà, se si troverà a rischio sarà sempre neutrale nei contrasti, non interviene a mettere pace o ristabilire un equilibrio. Se si fosse trovato costretto a prender parte, sarebbe stato con i più forti, vuole far capire comunque all’altro che non gli è volontariamente nemico, semplicemente non può far altro che stare con il potente per non rischiare la vita, fa capire al debole di non poter far altro perché ha paura. Rispondeva sempre con obbedienza alle minacce, era riuscito a passare sessant’anni senza burrasche, quando incontrava i prepotenti faceva inchini, faceva capire ai prepotenti che non li avrebbe mai ostacolati, c’è anche un colorito umoristico. Chi si trova nel sacerdozio non deve essere neutrale, ma deve assumere la difesa dei più deboli. Criticava chi non faceva la sua stessa scelta, ma sempre in maniera nascosta, non si esponeva mai e non manifestava mai il suo pensiero, se era rivolto al comportamento di un potente. Il narratore si rivolge ai lettori e dice 25, quando in realtà il romanzo si rivolge ad un pubblico piuttosto ampio, l’autore è consapevole che il romanzo era un genere destinato a conquistare un vasto pubblico (detto con una certa ironia). Don Rodrigo non minacciava invano, era veramente pericoloso. Il narratore ha detto che Don Rodrigo è un signore noto per non minacciare invano, abbiamo una presentazione indiretta del personaggio, il narratore fornisce una serie di indizi per presentare il signorotto. Il curato inizia a pensare ad una giustificazione da dare a Renzo, Don Abbondio se la prende addirittura con questi ragazzacci che per non saper che fare si innamorano (linguaggio popolare). Si definisce addirittura galantuomo. Si scaglia contro le persone che sta per tradire, dice che lui non ha colpe. La curia è un po’ un suo nido, che chiude per bene. Perpetua è la sua governante, la voce giudicante del capitolo, ha una funzione complementare perché è una donna anche molto legata al curato, spesso discutono e vengono fuori gelosie e ripicche. Perpetua sapeva ubbidire e comandare, si sostengono un po’ a vicenda. Perpetua racconta in paese di aver deciso di non sposarsi, aveva 40 anni, età prescritta dal sinodo ecclesiastico per essere al servizio di un sacerdote, dice di non essersi sposata perché aveva rifiutato i partiti presentatisi, in realtà le donne del paese dicevano che nessuno l’avesse voluta. Perpetua è molto curiosa e pettegola, cerca di strappare la verità a Don Abbondio, è disposta a cedere il bicchiere di vino in cambio della confidenza. Lo minaccia, se non dirà la verità andrà in paese a chiedere cosa sia accaduto. Il colloquio comincia ad assumere un tono drammatico, si parla di vita; viene fuori dal colloquio anche il rapporto tra i due, fatto di affetto ma anche di ripicche a volte (spesso aveva raccontato in giro ciò che il curato le aveva confidato). 10/05/2021 “Il fatto sta che Don Abbondio aveva forse tanta voglia di scaricarsi del suo doloroso segreto...” ha un peso sul cuore, deve liberarsi di questo segreto e quindi decide di condividerlo ad un certo punto. Prima abbiamo visto neutralità disarmata, ora assalti: lessico militaresco. Sembra una scena teatrale, c’è uno scambio di battute rapido, Don Abbondio cede perché vuole liberarsi di questo segreto, fa il nome di Don Rodrigo e siccome ne ha troppa paura fa fare un ulteriore giuramento a Perpetua. Lei è chiaramente preoccupata perché conosce il signorotto, e lo fa preoccupare ancora di più, il curato vorrebbe un conforto ed un consiglio. Lei gli consiglia di rivolgersi al cardinale Borromeo, non è un personaggio frutto della fantasia dell’autore. Perpetua dice che questi bravi a volte minacciano ma non è detto che poi portino a termine sempre queste brutte imprese, dice che chi mostra i denti sa farsi rispettare, ma non è il caso di Don Abbondio, siccome lui non sa farsi valere, viene minacciato continuamente, approfittano di lui perché non sa difendersi. Lei conosce benissimo le debolezze di Don Abbondio e lo accusa di essere un vile. Don Abbondio si definisce di nuovo un galantuomo, ma è un uso improprio del termine. Invita ancora al silenzio questa donna pericolosissima perché curiosa e pettegola, sembra quasi che cada il sipario, sembra di assistere ad una rappresentazione teatrale, c’è la descrizione minuziosa dei dettagli che vengono fuori. GIACOMO LEOPARDI Nei disegni letterari del 1820 Leopardi abbiamo progetti per opere future. Qui scrive dialoghi satirici alla maniera di Luciano (scrittore greco, autore di dialoghi), piccole commedie o scene di commedie, le operette morali sono prose filosofiche di carattere satirico. Evidentemente c’è un primo riferimento proprio a questo progetto. Nel settembre del 1820 in una lettera a Giordani Leopardi parla ancora di questo progetto, dice che ha immaginato certe prosette satiriche (operette morali). Nello Zibaldone (diario intellettuale che Leopardi comincia ad elaborare nel ’17 ed è un laboratorio al quale affida una serie di riflessioni di carattere filosofico, letterario, linguistico, autobiografico. Queste riflessioni troveranno sviluppo negli altri scritti che realizza. E’ un patrimonio importantissimo) il 27 luglio 1821 Leopardi commentava: nei dialoghetti cercherà di portare nella commedia ciò che finora è stato della tragedia, i vizi dei grandi, gli assurdi della politica, le sconvenienze appartenenti alla morale universale ed alla filosofia, la somma delle cose della società, le disgrazie e le rivoluzioni, i vizi e le infamie dell’uomo, lo stato nelle nazioni, l’andamento e lo spirito generale del secolo… tutto questo troverà spazio in questi dialoghetti, le operette morali sono in massima parte in forma di dialogo. C’è amara ironia. In realtà non c’è ancora un disegno organico dell’opera. Nel 1824 comunque Leopardi scrive 20 operette che pubblica nel 1827 a Milano con l’editore Stella, sono anni di quasi completo silenzio poetico, aveva elaborato i piccoli idilli, poi c’è un periodo di quasi totale silenzio poetico, scriverà nel 26 l’epistola al conte Carlo Pepoli, dicendo di voler abbandonare la poesia e le sue illusioni. Riprenderà a scrivere versi nel 1828, tra il 1819 ed il 1823 scriverà poesie ed idilli, nel 28 abbiamo poi i canti pisano recanatesi. In questi anni si dedica invece alla prosa e quindi alle operette. L’editore Stella, con il quale aveva pubblicato la prima edizione delle operette (20 testi) gli aveva offerto la possibilità di pubblicarle alla spicciolata, cioè un po’ alla volta nella sua collana Biblioteca amena, ma Leopardi aveva rifiutato perché riteneva che l’opera dovesse essere giudicata nell’insieme, scrivendo questi testi aveva realizzato una sorta di indagine sulla condizione degli uomini, sul fine della vita e riteneva di essere arrivato ad una diagnosi della realtà, cioè di aver fatto un’indagine partendo dalla propria esperienza, sulla condizione esistenziale, sulle ragioni della presenza dell’uomo sulla terra, quindi l’opera doveva essere giudicata nella sua completezza perché all’interno dell’opera c’era un complesso sistematico. Sono tutte importanti a far comprendere le conclusioni alle quali è arrivato Leopardi in merito alle condizioni esistenziali dell’uomo. La Biblioteca amena viene definita biblioteca per dame, quest’opera non è adatta ad una collana di testi leggi, il fatto che c’è la satira non significa che questi testi non siano profondi, al contrario sono di grande spessore filosofico. Questa leggerezza che è solo apparente proviene dall’ironia, i drammi dell’esistenza umana rappresentati in questi testi sono osservati con un sorriso amaro, troviamo filosofia e poesia, pensiero e immaginazione, ha trovato una sorta di sistema. Temi Operette moraliInfelicità umana, impossibilità di raggiungere la felicità, il vano affannarsi alla ricerca della gloria e della ricchezza, la concezione dell’universo come un perpetuo succedersi di nascita e morte, creazione e distruzione, la morte come via di fuga dal male esistenziale inesorabilmente presente, il tema della natura e della civiltà, il mito del progresso, la critica dell’antropocentrismo, l’uomo al centro dell’universo. All’edizione milanese del 1827, segue una fiorentina per l’editore Piatti, nel 1834, dove compaiono altre due operette che Leopardi aveva scritto nel 1832 (Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere e Dialogo di Tristano e di un amico). Scompare il Dialogo di un lettore di umanità e di Sallustio. Siamo quindi a 21 operette. Leopardi poi si rimette a lavoro su questi testi, prepara una nuova edizione che avrebbe pubblicato a Napoli nel 1835, ma viene bloccata dalla censura per cui poi dopo la sua morte il suo amico Antonio Ranieri la pubblica nel 45 nell’ultima edizione delle Operette morali, dove rispetta assolutamente l’ultima volontà dell’autore, infatti pubblica 24 operette realizzando l’edizione definitiva che Leopardi non era riuscito a portare a compimento. La maggior parte delle operette si presenta in forma di dialogo (17 su 24), si rifà a dei modelli, ai dialoghi filosofici di Platone ed a quelli di Luciano. Le altre forme sono quella narrativa (Storia del genere umano, dove troviamo la sofferenza che continua a segnare l’esistenza della specie umana), la prosa lirica, il discorso che si rifà alla trattatistica classica. Dialogo di un islandese con la natura danni perpetrati dalla natura. Quando l’islandese è uscito dal consorzio sociale gli uomini lo hanno lasciato in pace, non l’hanno più attaccato, ma la natura invece no, non ha rispettato la sua scelta, perché ha continuato inesorabilmente a perseguitarlo. ODIOSA VECCHIAIA (tema che troviamo anche nel passero solitario), dal quinto lustro in poi comincia la decadenza secondo l’islandese. L’uomo ha anche questa condanna, la vecchiaia è inevitabile, la vecchiaia è considerata un male, una malattia inguaribile che attende tutti gli uomini. (senectus insatiabils morbus est). La natura non opera per il suo bene o per ferirlo, non lo prende neanche in considerazione, dichiara la sua totale indifferenza alla sorte dell’uomo, non è proprio consapevole di danneggiare l’uomo, potrebbe anche distruggere tutti gli uomini senza accorgersene. Se una persona ci ospita, ci invita per il piacere di tenerci a casa, di trascorrere del tempo, ci mette quindi a disposizione un ambiente gradevole, non ci fa maltrattare dai suoi familiari, offre all’ospite le cose migliori. Se tu ci consenti di vivere e ci ospiti perché poi ci metti a disagio e ci tormenti quotidianamente? Se una persona che ci ospita ci mette a disposizione una cella, una stanzetta fredda ed umida, inospitale, ci fa maltrattare dai familiari noi abbiamo tutto il diritto di chiedere perché ci abbia invitato. E’ chiaro che la casa non l’hai costruita per me, ma non sei nemmeno obbligato ad invitarmi. E’ lo stesso discorso dell’islandese nei confronti della natura, hai messo addirittura in pericolo la mia vita nella tua casa, la natura sottopone a tormenti che ci fanno ammalare: se hai permesso agli uomini di vivere, perché non risparmi loro la sofferenza? Chi ti ha chiesto di farci vivere sulla terra, non sono io ad essermi imposto sulla terra. Sarebbe tuo dovere non dico dare la gioia, ma almeno non farlo soffrire: il discorso ovviamente si estende, si passa dal discorso soggettivo (nell’islandese si maschera Leopardi stesso) per arrivare poi a coinvolgere l’intero universo. Questo percorso, cioè la morte e la sofferenza, fanno tutti parte di un ciclo, la morte è necessaria alla conservazione della vita. Quesito posto anche nel canto di un pastore errante dell’Asia a chi giova tutto questo, se c’è sofferenza? Sia nella parte iniziale sia in quella finale interviene un narratore, si tratta di una sorta di conclusione grottesca. I leoni sono a loro volta vittime di questo meccanismo, sono alla ricerca di qualcosa che consenta loro di sopravvivere, ma è comunque poca cosa, ferocia insensata e terribile perché i leoni sono riusciti a sopravvivere solo un giorno. “Bella mummia”sorriso amaro, la fine è grottesca. La natura nega all’uomo il conforto della conoscenza, all’ultima domanda infatti non viene data risposta. C’è anche il concetto dell’inutilità del suo essere nell’ipotesi della seconda morte, perché non avrebbe nemmeno alimentato questa catena. Nelle operette c’è questo sorriso amaro che dovrebbe rendere più leggeri dei testi profondi, vanno valutate nell’insieme, costituiscono nell’insieme l’esito di uno studio sull’uomo, sul suo percorso sulla terra. Ironia che serpeggia nei testi in realtà di grande spessore filosofico. Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere Molte riflessioni sono già presenti nello Zibaldone. Il dialogo di un venditore di almanacchi non fa parte della prima edizione, ma del ’34. Il primo luglio 1827 Leopardi scriveva che la vita è composta più di dolore che di piacere. Lui ha chiesto a parecchi se sarebbero stati contenti di tornare indietro e rivivere la vita passata con le medesime esperienze, lo chiede anche a se stesso. La risposta è affermativa, lui stesso sarebbe risposto a tornare indietro, ma non rivivendo esattamente le stesse esperienze, bensì avendo davanti l’ignoto, degli anni da vivere senza consapevolezza. Noi viviamo quotidianamente ma non sappiamo cosa ci accadrà, sarebbero disposti a tornare all’infanzia ma con l’ignoto esattamente come oggi, che non sappiamo ancora cosa accadrà. Questo vuol dire che nella vita che abbiamo vissuto e che conosciamo abbiamo vissuto più male che bene e se andiamo avanti è soltanto perché l’ignoranza del futuro ci consente di nutrire delle illusioni e di sperare, andiamo avanti perché non conoscendo esattamente cosa accadrà nutriamo delle illusioni che sono le uniche che ci fanno andare avanti. Tema dell’infelicità della condizione umana. Abbiamo un venditore di almanacchi che invita il passeggere ad acquistare la sua merce dicendo che l’anno nuovo sarà sicuramente felice. Ma il passeggere (portavoce di Leopardi) sa che l’anno nuovo non porterà felicità, inizia a confrontarsi con il suo interlocutore e lo porterà sulle sue stesse posizioni, il venditore è l’uomo comune, ingenuo, che ha un punto di vista ottimistico, non è un uomo disincantato come il passeggere, che invita anche i clienti ad essere ottimisti. Il passeggere sa che il futuro non sarà peggiore né migliore, alla fine per non togliere speranza al venditore ed all’uomo in generale comprerà la merce del venditore. Quest’uomo vende almanacchi, calendari con indicazioni astronomiche, astrologiche, previsioni metereologiche. I lunari erano libretti che contenevano il calendario delle fasi lunari ed anche predizioni, notizie. Il passeggere comincia a porre domande incalzanti, pone domande sull’anno nuovo, sulla vita passato, sulla felicità, metterà un po’ in crisi il venditore. Forma sovrabbondante, un po’ più popolare, che indica la differenza culturale tra il passeggere ed il venditore. A quale anno dovrebbe assomigliare quest’anno nuovo per essere felice? Chiede il passeggere. Il venditore comincia ad entrare in contraddizione, ogni anno ha detto che il prossimo sarebbe stato felice, ma poi non è stato così. Il venditore non sa rispondere perché non ricorda un anno particolarmente felice. Sono vent’anni che quest’uomo promette una felicità che non ha raggiunto neanche personalmente, negli anni vissuti c’è stata più infelicità che felicità. Le battute sono essenziali e scarne. Non ricorda nessun anno felice, sebbene abbia promesso ai suoi clienti la felicità ogni anno. Il passeggere ha tratto il venditore in contraddizione, come può essere bella la vita se non ricorda nemmeno un anno felice? C’è un’attenuazione dell’ottimismo che c’era nella prima parte, con meno entusiasmo dice che la vita è bella, sarebbe disposto quest’uomo a rivivere tutto il passato? Il passato gli ha portato più sofferenza che gioia. Non sta proponendo di tornare indietro e vivere una nuova vita, ma sta proponendo di rivivere tutto ciò che ha vissuto, e lui non sarebbe affatto disposto. Non è un problema di classe sociale, non è un problema individuale, tutti a questa domanda risponderebbero alla stessa maniera. Vorrebbe una vita come gliela manda Dio, senza sapere il futuro, una vita a caso, con la sua inconsapevolezza. Quindi il venditore conferma ed avalla le riflessioni del passeggere che abbiamo trovato nello Zibaldone. Leopardi non vuole privare l’umanità della possibilità di sperare, non nasconde la cognizione del dolore, la condizione del male, ma alla fine non vuole sottrare a tutti gli altri la possibilità di sperare, finché anche questo tempo non avrà dimostrato la verità e quindi anche la vanità dei sogni. L’operetta ha una struttura circolare, inizia con l’espressione almanacchi, lunari e si chiude nella stessa maniera. Comprare almanacchi è cosa gradita perché è legata alla speranza di un futuro migliore, non vuole privare il venditore della speranza e delle illusioni. 13/05/2021 A SILVIA La lirica è stata composta a Pisa tra il 19 ed il 20 aprile del 1828, fa parte quindi dei Canti pisano recanatesi o dei Grandi idilli. Il 2 maggio 1828 Leopardi scrive a sua sorella Paolina che “ha fatto versi all’antica, con quel suo cuore d’una volta”. Si era concluso proprio in quel momento il periodo di silenzio poetico, di quasi totale aridità interiore, dichiarava di voler rinunciare alla poesia ed alle sue illusioni al conte Pepoli, si era dedicato prevalentemente alle prose filosofiche, alle operette morali. Torna a commuoversi ed a illudersi, ma con la consapevolezza dell’arido vero. Questa epistola in endecasillabi sciolti testimonia proprio la volontà di staccarsi dalla poesia, di voler dedicarsi all’acerbo vero, di voler rinunciare alle illusioni. Il motivo del distacco: ci sono ragioni storiche, parla di impoeticità del moderno, ci sono ragioni legate alla natura, ad una crisi esistenziale. Poi riprende a scrivere testi in versi a partire dalla primavera del 28. Al di là delle possibili identificazioni con personaggi esistiti Silvia è un simbolo, il simbolo della giovinezza, con i suoi sogni e le speranze. Poi c’è anche un dato biografico, dietro la sua figura c’è quella di Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi, morta a causa della tisi il 30 settembre 1818. Il nome di Teresa diventa Silvia nel testo, nome della ninfa protagonista dell’Aminta di Tasso. Silvia è proiezione dell’autore, si riferisce alla giovane vita stroncata, all’impossibilità per Silvia di realizzare i suoi progetti perché la morte la strappa alla vita, stessa cosa che accade al poeta che in realtà sopravvive a Silvia ma in realtà non realizza i suoi sogni. Il poeta è sopravvissuto ma sa che i sogni sono destinati a tramontare nell’età adulta. I sogni del peta sono stati delusi al contatto con la verità della vita adulta, doloroso crollo delle illusioni, delle piacevoli aspettative per il futuro. C’è un rapporto di identificazione del poeta, diventa il simbolo della giovinezza e delle speranze, di un avvenire che sognava per sé questa giovane donna, cantava e lavorava al telaio, sognava di realizzare i suoi sogni, poi muore. Disinganno, speranze precocemente disilluse nel caso di Silvia. La poesia appare divisa in due parti, nella prima parte c’è l’immagine della vita, dei progetti, nella seconda parte c’è il freddo, il grigio, la disillusione. Nella prima parte c’è la primavera, il calore, la luminosità di questa stagione e si ricorda Teresa piena di fiducie nell’avvenire, nella seconda parte c’è il freddo e l’immagine della morte, l’autunno, la malattia che consuma questa giovane donna. Le illusioni giovanili di Silvia e quelle di Leopardi, questo condividono i due (parallelismo). Questo è ovviamente poi un destino generale, il destino dell’uomo, che parte da una vicenda personale per poi arrivare a coinvolgere tutti gli uomini. Leopardi canta le illusioni, gli slanci, le aspirazioni alla felicità, al tempo spesso la vanità di quei progetti inesorabilmente destinati al fallimento; Leopardi ha acquisito la consapevolezza del vero e questo ce lo dimostra nella seconda parte. Nei ricordi d’infanzia e di adolescenza l’autore rievoca il passato, parla della morte prematura, scrive di questa ragazza che cantava mentre lui leggeva, ma ad un certo punto si ammala. In un passo dello Zibaldone scritto a Firenze sempre nel 1828, a proposito del fascino delle giovanissime donne tra i 16 ed i 18 anni piene di sogni ed illusioni dice che il futuro porterà al crollo di esse, parla del patimento che le aspetta, genera tutto ciò un sentimento di compassione, perché si sogna senza avere la consapevolezza della vanità di quei sogni. Canzone libera, l’autore ha come modello la canzone canonica petrarchesca costituita da strofe della stessa dimensione (Che qui non abbiamo, perché le strofe sono di dimensioni diversi) ma la modifica, corrode il modello canonico, perciò canzone libera. C’è necessità di una maggiore libertà espressiva e quindi formale, le strofe sono dette stanze nella canzone, quindi STANZE di diversa misura. Libera anche l’alternanza di endecasillabi e settenari non seguendo uno schema preciso. Libera è anche la disposizione delle rime, il verso che chiude ogni strofa è un settenario che è in rima con uno dei versi precedenti. Non c’è uno schema rimico preciso, i versi sono liberamente rimati. Per i primi versi ne parla senza dire che Silvia non c’è più (salivi è l’anagramma di Silvia
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