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Confronto politica regionale Emilia Romagna e Veneto: ruolo regioni nello sviluppo locale , Appunti di Sociologia dello Sviluppo Locale

Un'analisi dettagliata delle dinamiche che hanno caratterizzato la politica regionale in emilia romagna e veneto, con particolare attenzione al ruolo delle regioni nella regolazione dello sviluppo locale. L'analisi si concentra sulle differenze tra le due regioni, in particolare sulle loro strategie di programmazione, la loro interpretazione della normativa e il loro stile di governo. Il documento illustra come le regioni siano state influenzate dall'europeizzazione e come abbiano adattato le loro politiche di sviluppo regionale in risposta alle sfide della globalizzazione.

Tipologia: Appunti

2021/2022

Caricato il 13/03/2024

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luciaaaa666 🇮🇹

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Scarica Confronto politica regionale Emilia Romagna e Veneto: ruolo regioni nello sviluppo locale e più Appunti in PDF di Sociologia dello Sviluppo Locale solo su Docsity! Concetti base: Sistema politico locale, è un concetto non è un oggetto, un’idea, un modo di concepire il funzionamento dell’attività politica. Un sistema politico è un sistema di interazioni attraverso le quali si realizza l'assegnazione autoritativa di valori scarsi in una data società. L’approccio sistemico: bisogna immaginare che il sistema scambia relazioni continuamente con l’ambiente, secondo un meccanismo chiamato input-output: ci sono degli input che dall’ambiente entrano nel sistema (domande o sostegno), il sistema elabora gli input (informazioni), creando così gli output (decisioni). Questi output interagiscono con l’ambiente, modificano le condizioni di partenza e producono nuovi input. È un circuito continuo, questo è l’approccio sistemico. Il feedback è importante, perché è l’effetto di retroazione, cioè tutte le azioni che vengono svolte in relazione all’ambiente, poi ci tornano indietro. L’autore che ha utilizzato l’approccio sistemico è l’americano David Easton (1953), il quale definisce la politica come «quella parte dell’attività umana attraverso la quale in ogni società i valori vengono assegnati mediante provvedimenti forniti di autorità» Possiamo immaginare questo circuito come circuito del processo decisionale: la politica è l’attività con cui si prendono decisioni vincolanti per tutta la comunità. L’attore politico- istituzionale ha la responsabilità di decidere per tutta la comunità: le decisioni che sono gli output, entrano in contatto con l’ambiente, modificano le sue condizioni, creano feedback e creano nuovi input che faranno ripetere il circuito all’infinito. Il sistema politico si attiva se ci sono domande, cioè richieste di intervento perché in qualche modo interpreta i bisogni dell’ambiente e li traduce in decisioni. Elementi che caratterizzano il processo decisionale. Alla base c’è la scarsità di risorse necessarie per soddisfare alcuni bisogni, sono storicamente variabili e generano conflitti (ci sono dei conflitti che hanno bisogno dell’intervento dell’autorità pubblica, il conflitto è un elemento strutturale della società): in questo modo si stimola l’azione politica, l’autorità interviene per la gestione delle risorse. Esistenza del conflitto come elemento strutturale della società: La necessità dell’attività politica come mediatrice del conflitto: ci sono dei conflitti che non riescono ad essere mediati dalla società, dal mercato (dipende dal conflitto), Imperatività più o meno legittima (volendo anche la sua legittimità): l’autorità politica e gli attori politici intervengono e decidono per tutti, egli come strumento al fine di questo, utilizza nello stato di diritto la norma giuridica, al non rispetto della norma si viene sanzionati. L’autorità politica interviene “erga omnes” per tutti, e viene legittimata dagli attori, quindi: la generalità della sfera di applicazione delle decisioni politiche che valgono per tuta la comunità con valore di norma giuridica. Il processo decisionale avviene in un contesto multilivello nel nostro sistema politico. Termini importanti. Politics: politica intesa come regola del gioco. Policy/policies: le politiche pubbliche che riguardano specifici ambiti di intervento, come sanità. Polity: comunità politica che si da regole e legittima una autorità. Outcome: impatto degli output, cioè gli effetti delle decisioni che produce sull’ambiente. Analisi del sistema politico. Un cittadino si rivolge all’attore pubblico, cioè fa una domanda perché l’attore politico è in grado di rispondere in modo efficace al problema, se non è capace si rivolge ad altri soggetti (in altri contesti la mafia). Le domande devono essere regolate nell’accesso. Ogni domanda quindi porta con sé un dato livello di consenso. Sostegno specifico: rivolto ad una singola figura (un preciso ministro, un senatore), quando il sistema politico ha un alto livello di sostegno specifico, allora vi è un alto rischio di clientelismo; dunque, si parla di una sorta di scambi di favore; Sostegno diffuso invece possiamo intendere come legittimazione della polity, verso la politics, verso le regole del gioco, verso il sistema politico. Dimensione locale. Locale vuol dire sub-nazionale: ossia regionale, provinciale, o comunale. La scienza politica italiana la dimensione analitica e istituzionale del governo locale, nonostante ci fossero già le regioni, di questa dimensione si è occupata solo dagli anni 90. Dagli anni 80 si scopre che è importante per: le preferenze elettorali: Regioni che votavano in un modo nella zona rossa e in un altro nella bianca, al sud molti voti di scambio. Dunque, le preferenze elettorali erano in base all’appartenenza ad una data cultura politica, la quale è costruita territorialmente. Si sottovalutava la fase dell’output a livello locale, perché l’oggetto di studio è sempre stato incentrato nello stato. La dimensione locale era poco rilevante. L’idea era che le politiche importanti erano quelle dello stato, perché la politica era legata al contesto della macro-economia. La stessa policy in contesti culturali diversi produce effetti, ossia outcome diversi. In particolare modo andremo a studiare le sub-culture politiche territoriali, possono essere studiate con i modi di regolazione in questi due contesti. Andremo a vedere le dimensioni analitiche dell’input e output. Approcci di modi di regolazione. La regolazione è il processo con cui genera le regole di convivenza sociale, le norme giuridiche. Diviso in 3 forme idealtipiche: economica: affidato al mercato che cerca l’equilibrio tra domanda e offerta. sociale: basata sulla reciprocità, è legata all’idea di comunità. politica: affidata all’attore pubblico, lo stato, istituzioni create apposta per svolgere questa funzione di regolazione, in regime sia democratico che non. Vige l’ordine attraverso la legge. Sono idealtipiche, cioè nella realtà non c’è un contesto regolazione solo da mercato ad esempio. Queste forme coesistono e si intrecciano e caratterizzano la dinamica della regolazione in un contesto locale o nazionale. In alcuni contesti possono essere presenti in prevalenze diverse. Sempre presenti ma con equilibri e dosi differenti. Nessun sistema istituzionale è caratterizzato da un unico tipo di regolazione, in molti casi queste forme coesistono e si combinano fra loro dando origine a diversi modi di regolazione. Il modo di regolazione cambia nel tempo ed il modo di regolazione è un modo e non un modello. Modo: è legato a un contesto storico demografico ed è tipico di quel contesto, non si può esportare/trasferire, serve solo per quel caso, è collegato all’analisi del caso studio. Il modo si evolve, è dinamico. I modi sono figli della loro storia, non si possono trasferire. Modello: non dipende mai dal contesto, è un’astrazione de-contestualizzata, a-storica (non varia con il tempo, rimane quella) e di conseguenza non si evolve. Questo noi lo vediamo quando si parla del trasferimento delle buone pratiche. (due approcci). Ogni modo di regolazione è strettamente legato a un modo di sviluppo. A seconda del modo di sviluppo si agisce di conseguenza. C’è sempre una relazione molto forte, a volte esplicita e a volte latente, ma c’è sempre una relazione tra modo di regolazione e di sviluppo perché a seconda del tipo di regole oriento il territorio verso un tipo di sviluppo. Anni 50 Eredità della Sub cultura bianca nel Veneto: sentimento anti politico e localismo anti-statalista in Veneto, che affonda le radici nel passato. Su cui poggia la lega oggi, lega di Salvini diversa da quella di Zaia (lega molto democristiana). Il localismo anti-statalista si fonda sull’estraneità della comunità locale rispetto allo stato centrale, è un nodo non risolto della frattura centro-periferia. Centralità del privato (anche economico) sociale e della famiglia come unità di base della società locale e della produzione: dimensione legata alla regolazione sociale. Dimensione sociale del mercato, le imprese si auto regolano attraverso la rete famigliare e rete associativa. Devozione nei confronti della religione e del clero. Voto di appartenenza e per questo votavano dc, però prima sono cattolici e poi votano Dc, non è automatico. Centralità del privato economico, Pmi e lavoro autonomo. Deferenza verso l’ordine costituito, cultura politica che non mette in discussione famiglia e società locale: orientamento conservatore. Società chiusa, auto regolata e diffidente dell’attore pubblico. Tutto ciò che viene fuori è percepito come una minaccia. La Dc veneta è sempre stato un partito egemone e dominante, vi era una appartenenza indiretta alla Dc mediata dalla chiesa. Comunità è pre-politica, cioè si definisce nelle dimensione della parrocchia, della rete associativa che non usa l’attore è pubblico per regolare, auto regola. La Dc si presenta come il partito che garantisce le autonomie locali e che media il conflitto centro- periferia, oltre al fatto che porta molte risorse. La Dc sfrutta le reti sociali delle chiese, ma dagli anni 70 si registra un calo dei consensi, dovuto a laicizzazione culturale, aumenta l’alfabetizzazione. C’è una ridefinizione della rappresentanza politica, non più in termini di voto di appartenenza, ma su basi economico-categoriali e strumentali, collegata con industrializzazione. La piccola proprietà contadina che diventa di piccola impresa manifatturiera: questo allenta i legami della rete associativa cattolica con la parrocchia. Tra gli anni ’70 e ’80 si assiste quindi a una certa trasformazione che poi sfocerà, dopo la caduta del muro di Berlino 1992, in uno scioglimento della Democrazia Cristiana poiché perde le elezioni. Sub-cultura politica rossa: Prevale sentimento di fiducia verso le istituzioni pubbliche, perché correlato alle politiche del socialismo municipale, alla forte partecipazione politica e alla capacità di risposta attraverso output efficaci alla esigenze del territorio del sistema politico locale e regionale (politiche pubbliche). -Maggiore capacità istituzionale dell’attore pubblico, è abituato ad intervenire e spende soldi per erogare servizi. -Centralità dell’attore pubblico, cioè della dimensione pubblica della polity, la comunità locale è politica, non sociale. -Centralità del partito PCI come istituzione integrativa che ha garantito «buon governo» (regolazione politica); qui prevale una regolazione politica. -Fiducia verso la rete associativa «rossa» collaterale al partito di governo; -Orientamento progressista. Queste differenze tra area bianca e rossa sono dovute dai diversi modi di regolazione. Il PCI Emiliano come partito egemone e dominante. Qui c’è un’appartenenza politica diretta. Il Partito Comunista Italiana ha costituito quella istituzione integrativa forte che era in grado di mediare tra ambito locale e nazionale (era un partito di opposizione a livello nazionale, però mediava). Per 40 anni è stato considerato partito anti-sistema, non poteva andare al governo perché comunista. - Sistema politico locale bene integrato, anche se dopo il 1989 in fase di ridefinizione sul piano ideologico, ma non su quello amministrativo. - Religione civile (ci sono alcune feste come 25 aprile che sono come le feste religiose dei cattolici, feste in cui la comunità politica locale si riconosce) e forte cultura civica (scheda bianca), la partecipazione politica è un rito, un diritto fondamentale. Indicatore di crisi della area rossa è quindi l’astensionismo: voto di protesta Aspetti in comune e non delle due aree: Collateralismo: relazione di «parentela politica» tra gruppi di pressione e partito politico (La Palombara). Diverso da clientela, cioè un rapporto di scambio, diversa da parentela, rapporto di identificazione che porta al collateralismo. Le reti associative collaterali sono la base elettorale del partito di rifermento. - collateralismo bianco: reti associative cattoliche e volontariato, legate alla DC (ACLI, CISL, Confartigianato...) - collateralismo rosso: reti associative comuniste legate al PCI (ARCI, CGIL, CNA...) Dopo il 1989: crisi del collateralismo e mutamento nei sistemi di mediazione degli interessi – differenze regionali. La prima a crollare è stata la democrazia Cristiana perché chi non voleva votare PCI, votava come contrapposizione la Dc, e il mutamento nei sistemi di mediazione degli interessi. Il privato sociale (è matrice cattolica legata al terzo settore, cioè legato a servizi socio-sanitari, come banca etica, cooperative sociali), che ha rappresentato il cuore della subcultura bianca, confluisce nella Margherita (lista fatta in Trentino e che raccoglie buona parte di questa componente politica) e poi confluisce nel Partito Democratico. In Veneto, proprio per la contrapposizione bianco/rossa che continua a persistere, il privato sociale è diventato minoritario (non ha più una sua rappresentanza). Invece il privato economico (che vuol dire piccola impresa) confluisce prima in Forza Italia e poi nella Lega. Il privato economico è l’unico erede della vecchia cultura bianca capitanata dalla Dc. Oggi non si vede il privato sociale, ma una nuova visione del localismo incentrata sull’indipendenza territoriale e il sentimento anti-statista. Lezione del 7/03. La comparazione per contesti (es. tra Veneto ed Emilia Romagna) non ha l’obiettivo di individuare quale sia il modo di regolazione “migliore” e di esportarlo altrove, ma piuttosto di comprendere le specificità di un dato contesto regionale, per poter proporre politiche e strategie di sviluppo adeguate al contesto e al modo di regolazione entro cui esse verranno implementate. Modi di regolazione bianco e rosso. Azione dell’attore politico incide sul modo di regolazione tanto che esistono due modelli differenti. Isomorfismo strutturale e istituzionale: (stessa forma, struttura) in ognuna di queste due sub- culture politiche territoriali individuiamo la stessa struttura logica tra il modello organizzativo del partito egemone che è simile alle reti associative collaterali, che sono organizzate seguendo una forma che è abbastanza simile a quella dettata dal partito e, il modello istituzionale del governo locale dipende anch’esso molto dal modello organizzativo del partito. Per capire questa relazione si utilizza un concetto che è dato un approccio neo-istituzionalista di March e Olsen che distinguono tra MODELLO ISTITUZIONALE AGGREGATIVO e INTEGRATIVO. Modello istituzionale aggregativo e integrativo. Premessa? -Le istituzioni sono regole che poi vengono istituzionalizzate/formalizzate e quindi definiscono il contesto entro cui operano gli attori (sistema di regole che definiscono i ruoli degli attori: cosa vuol dire fare il sindaco, fare l’opposizione). Sono regole non scritte che fanno parte di questo contesto istituzionale. -l’azione politica è dominata più da regole che dal calcolo razionale e utilitaristico (e variabile) dell’attore politico. -le procedure e le prassi amministrative hanno una forza di condizionamento che dura nel tempo. Le prassi amministrative consolidate forgiano le istituzioni (il governo locale in questo caso). Le prassi sono modi di interpretare la norma, non sono norme. Stili Amministrativi Locali: interventista (fa i servizi) e non interventista. È modo di operare abituale del governo locale, vuol dire prassi amministrative consolidate. (interventista/non interventista), vuol dire istituzionalizzazione delle pratiche e del significato (questi modi di fare o prassi diventano in qualche modo norma dentro l’ente). Possiamo dire che il ruolo giocato dall’attore politico locale nelle reti di governance è particolarmente importante e cambia così come cambia la cultura di programmazione, se tu non fai il servizio è inutile fare programmazione, dimensione politica del modo di regolazione. L’intervento diretto genera fiducia, addirittura in Emilia Romagna si è disposti a pagare più tasse per avere servizi erogati dal comune, in Veneto questa cosa non esiste. Questo diverso stile amministrativo si vede poi nell’organizzazione degli ufficio, in qualche modo è l’effetto o la causa. Ci si abitua a fare o a non fare delle cose. Caratteri delle policies locali: Questo diverso stile amministrativo comporta che le pp, che vengono implementate sul territorio, sono diverse. Se si fa l’asilo si sta adottando una politica di tipo redistributivo, cioè le risorse pubbliche si mettono in campo per tutti quelli che abitano sul territorio, indipendentemente che siano ricchi o poveri, bianchi o neri. La politica distributiva invece vuol dire che ci si limita a dare finanziamenti al parroco che poi fa il servizio. Le politiche dello sviluppo sono politiche per la produzione di beni e servizi per lo sviluppo locale. Adottare quindi politiche distributive o redistributive vuol dire produrre tipi di beni e servizi completamente diversi, cioè contribuire alla produzione di beni collettivi in maniera completamente diversa: Nel caso di politica distributiva avremmo contributi a pioggia per progetti(ci si limita a dare finanziamenti, non si erogano servizi). Il carattere delle politiche pubbliche è strettamente legato anche all’uso o meno della programmazione, quindi la ricerca, la conoscenza del territorio si hanno se si fa programmazione cioè se si fanno politiche redistributive. Culture del dato come bene pubblico o meno. In ultimo si avvia un’idea di politica come scambio (politica distributiva: Io Comune ti do i contributi e tu mi fai il servizio) e di politica come perseguimento del bene comune o interesse generale, ma non è bene pubblico! (politica redistributiva: erogo il servizio direttamente). Subcultura bianca (Veneto): tendenzialmente prevalse le policy distributive, c’è un’idea di politica come scambio-mediazione (io ti do il finanziamento e tu mi sostieni, mi voti) in questo caso aumentano i voti di preferenza individuale, potrebbe portare al clientelismo, cambia quindi la relazione tra partito e gruppo di pressione. Subcultura rossa (Emilia Romagna): prevalse le policy redistributive (molto importante la programmazione). Vi è un’idea di politica come perseguimento dell’interesse comune (questo non riguarda il singolo politico, bensì riguarda il regime complessivo dell’organizzazione stessa della policy, è presente un consenso/sostegno diffuso che va a tutto il sistema politico locale è quindi all’istituzione che si rafforza. Lezione del 8/03. Concezione della polity, comunità politica:. cioè della comunità politica e quindi del modello istituzionale. Diverse concezioni, una sociale o pre-politica (subcultura bianca perché la comunità è la parrocchia che è comunità sociale) e una politica (subcultura rossa, la comunità è politica perché il riferimento è il partito). Anche il modello istituzionale che ne deriva è diverso poiché: -nella subcultura bianca abbiamo un modello aggregativo (è un sistema debole fatto da tante parti che sostengono in modo specifico, come consenso specifico, i diversi soggetti): sostegno specifico. Altra caratteristica, nel contesto bianco prevale antistatalismo, la società si contrappone allo stato, all’attore pubblico (per questo è una regolazione sociale dello stato). Pratica di governance di negoziazione: gli attori fra loro trovano un punto in comune. -nella subcultura rossa abbiamo un modello integrativo (sistema coeso e forte con un’identità più forte, con un legame degli attori più saldo). Idea di perseguimento interesse comune, maggiora capacita di integrare, sistema coeso con identità più forte e con legame più forte fra gli attori. Il socialismo municipale (Emilia-Romagna), ci dice che la risorsa pubblica l’attore pubblico, il Comune e l’ente locale fa parte integrante della comunità locale, è il riferimento per la comunità locale, è un’istituzione comunitaria molto forte. Ecco qua Isoformismo tra modello di partito egemone nel governo locale e modello istituzionale. Pratica di governance di concentrazione: non c’è una contro parte, ognuno deve fare la propria parte e avere un suo ruolo, ecco perché il sistema è più forte e coeso. Abbiamo due tipi di reti di governance: Multi-attore: o multi-stakeholder va a guardare i tavoli di governance pubblico o privato. (ES: si fanno dei tavoli in cui l’amministrazione comunale o il sindaco o l’assessore incontra le “parti sociali” cioè imprese, esercenti, università, associazioni culturali/ambientali per ragionare sul tema) Multi-livello: UE, Stato, Regioni, Enti locali. Struttura delle reti locali: sono reti sociali, di impresa e di governance. (stato, mercato e comunità si possono quindi trovare anche nella dimensione della rete). Sono diverse nei due contesti. In Veneto prevalgono reti informali (relazione faccia a faccia ES: al bar) che sono per definizione corte, chiuse e particolaristiche (tipicamente legate a problemi specifici), tipicamente quelle della parrocchia. Funzionano, tipo il volontariato. In Emilia Romagna ci sono sempre reti informali ma troviamo anche reti preordinate dall’intervento pubblico (ES: reti istituzionali, reti tra Comuni, Provincie e Regioni) lunghe e tendenzialmente aperte (l’attore pubblico molte volte fa parte di questa rete e tende a includere più soggetti). L’invenzione della rete sociale ha a che fare con Il capitale sociale, cioè quel sistema di relazioni, più o meno informale, che caratterizza un dato contesto (reti di fiducia, relazioni di fiducia) e può essere bonding (chiuso, logica locale) in Veneto e bridging (aperto, costruisce dei punti più aperti e ampi e anche sovra-locali) in Emilia Romagna. Quando c’è una rete associativa forte, c’è un buon capitale sociale. Le reti di governance: Le reti di governance nei due contesti (bianco e rosso) si differenziano per la diversa capacità dell’attore pubblico di coordinamento istituzionale, di coordinare queste reti. Dipende molto dalle persone, dal sindaco. Nel contesto rosso attore pubblico ha sempre governato con la logica integrativa, della rete sul territorio. Territorio come costruzione sociale: risultato di sedimentazione del territorio di pratiche sociali, politiche ed economiche di politiche pubbliche consolidate nel lungo periodo che sono espressione della cultura locale, territorio che ha una cultura tipica di quel contesto, di solito dipende dalla popolazione e dalla storia vissuta. Il territorio è antropizzato, abitato, è il luogo in cui si trovano le comunità che si studiano ed ha una storia. Cosa si va a guardare nell’analisi del territorio come costruzione sociale: Diversa relazione fra città/campagna urbanizzata e industrializzata, come voler dimostrare un riscatto nei di confronti della città, nelle aree bianche è una frattura. C’è una distanza che si fa fatica a colmare, lo sviluppo della piccola media impresa avviene in campagna in veneto, non in città. In questo contesto abbiamo l’industrializzazione della campagna e la sua urbanizzazione, in contrapposizione alla città (la campagna nasce in contrapposizione alla città). Non c’è più una grande campagna, ma nell’immaginario collettivo rimane campagna. C’è un cambiamento profondo nella struttura economico-sociale, ma non in quella culturale. La frattura c’è ancora soprattutto nell’alta padovana. La frattura è tanto più ampia, quanto la campagna si sente superiore alla città. La campagna si urbanizza, ma c’è anche un problema di trasformazione, fa fatica ad evolversi, a fare rete tra i comuni, comuni frammentati che non riescono a creare e ad aver un modello di sviluppo coeso e unitario. localismo antistatalista, reti chiuse, la regionalità è debole e quindi la regione ha meno capacità, ma ha anche una classe politica che non ha interesse a creare una rete di comuni, perché il suo senso politico/la sua origine deriva proprio dalla frammentazione (la Lega non contribuirà mai alle reti di comuni). Oggi siamo arrivati ad un punto di svolta grazie anche al COVID, i sindaci si rendono conto che questo modo di regolazione non è funzionale allo sviluppo, soprattutto nei piccoli comuni. Diversa capacità di costruzione e governo di aree vaste con il coordinamento dell'attore pubblico (reti intercomunali). Diverso ruolo della Regione come attore di coordinamento, programmazione e governo del territorio. Regioni istituite nel 70, quando sono nate le sub-culture non c’erano, c’erano solo i comuni. Modo di regolazione del Veneto: - prevale la autoregolazione comunitaria, reti informali e corti - ruolo intermediario delle associazioni (negoziazione), volontariato, sono dei intermediari tra pubblico e privato. - antistatalismo diffuso: tipico del contesto bianco - marginalità dell'attore politico locale: lasciar fare agli attori locali - politiche distributive (finanziamenti): quando l’attore interviene non eroga servivi, ma prevale la distribuzione dei finanziamenti, si limita a finanziare - frattura città-campagna industrializzata: l’uni è in città. - frammentazione amministrativa (localismo) “tanti sono i campanili tante sono le comunità” - localismi forti, regionalità debole (aggregativa): il sistema regionale è caratterizzato da modello organizzativo di tipo aggregativo. Modo di regolazione dell'Emilia Romagna: -regolazione politica - co-progettazione con le associazioni (concertazione) - socialismo municipale: servizi erogati a tutta la comunità che è politica capacità di coordinamento dell'attore politico locale - forte senso civico (di matrice rossa): fiducia nell’attore pubblica, cultura civica. - politiche redistributive "per servizi": si erogano direttamente servizi, le politiche che danno finanziamenti non sono politiche di sviluppo, perché se poi il servizio non c’è che me ne faccio dei soldi? Il territorio non si sviluppa, i finanziamenti accontentano tutti nel breve periodo e sono fatte per i consensi. dialogo tra città-campagna industrializzata: perché i mezzadri che producono un bene agricolo hanno bisogno del mercato per venderlo, la campagna non è abitata e il mezzadro abita in paese, ha bisogno del mercato per la vendita, non vive in contrapposizione alla città, ma in relazione continua con la città stessa. - reti intercomunali come strategia di sviluppo: unione fa la forza, far sistema migliora la qualità dei servizi pubblici. Veneto ed Emilia-Romagna sono due regioni confinanti, entrambe della terza Italia, economicamente simili, ma con una regolazione profondamente diversa. Questa differenza può diventare un vantaggio o uno svantaggio competitivo: le sfide che arrivano dall’esterno richiedono dei cambiamenti di sistema. Adattamento del sistema per avere capacità di risposta, ma questa differenza sta aumentando ultimamente. Spiegazione tabella: Egemonia: (le subculture nascono dalla frattura centro-periferia’’ la fonte dell’identità culturale che egemonizza la frattura centro-periferia e la base sociale nelle regioni, da cui nascono le subculture e le differenze’’). Egemonia: forma di esercizio del potere attraverso la cultura, io non ti impongo con la forza un modo di pensare, un’ideologia, ma è una forma di esercizio del potere soft. Il partito egemone: Gramsci conia il concetto di’’ egemonia’’, dice che l’egemonia consiste quando l’ideologa del partito dominante/della chiesa o di un gruppo diventa senso comune, allora è il massimo di potere che si può esercitare, perché no c‘è bisogno neanche più di usare la forza. Ecco perché controllare i mezzi di comunicazione è importate: significa impedire che si abbiano delle narrazioni in contrapposizione con quella dominante. L’egemonia è più forte quanto più autoritario è il regime. Gramsci che studia il partito fascista e la sua ‘’egemonia’’ (perché la gente non si ribella? Come fa il fascismo a governare?) crea un’egemonia tramite il controllo dell’informazione e dell’educazione, l’indottrinamento, il controllo dell’informazione e dei mass media. * Rapporto con partito di riferimento bianca: delega strumentale alla DC: voto DC non perché sono democristiano, ma perché sono cattolico e la DC rappresenta la chiesa. C’è rappresentanza politica indiretta tramite la DC. La chiesa è l’istituzione integrativa. rossa: il partito è l’istituzione integrativa. La delega politica: qual è la risorsa che consente la rielezione, la riproduzione della delega, del consenso della subcultura? bianca: politiche non interventiste: la comunità locale chiede di essere non disturbata, la comunità locale non vuole i servizi, perché se li fa da sé. La DC riconosce l’egemonia della chiesa e del mondo cattolico in cambio di consenso elettorale: io ti lascio fare e ti faccio pagare anche meno tasse, ma tu mi voti, così si riproduce la delega. area rossa: la delega si riproduce, perché ci sono politiche interventiste, c’è fiducia verso attore pubblico che produce servizi efficaci che aiutano la popolazione. Garantisco i servizi a tutta la comunità. *anticlericalismo: non accettare la chiesa cattolica come regolatore* Modalità di protesta bianca: anticomunismo, antistatalismo, astensionismo (se non sono d’accordo con la DC non vado a votare, non voto per un altro partito di opposizione, soprattutto per PC, ma non vado a votare). rossa: anticlericalismo, antifascismo (radicato durante la resistenza), scheda bianca (se non sono d’accordo voto con scheda bianca). Componenti di integrazione subculturale -bianca: integrazione sociale attorno ai valori della piccola proprietà; il privato prevale sul pubblico (se il pubblico vuol dire ‘’sociale’’ c’è grande consenso, se vuol dire ‘’statale’’ allora no); mancanza religione civica; volontariato diffuso. -rossa: valori politici, non religiosi. Il politico come pubblico predomina sul privato: regolato con logica del perseguimento del bene comune; logica di partecipazione: la partecipazione è un rito (comunque si vota); forte religione civica. Lezione del 5. Per un’analisi del Modo di regolazione nazionale. Se teniamo conto della frattura centro/periferia, della pluralità di modi di regolazione regionali e della storia politica italiana (la DC al governo del Paese per oltre 40 anni) possiamo sostenere che il caso italiano, con i dovuti distinguo, è caratterizzato da un modello istituzionale aggregativo ed è quindi più simile al caso del VE che a quello ER, che risulta essere piuttosto una eccezione. Rilevanza del Modo di regolazione. La capacità/modalità di azione di un modo di regolazione si può analizzare nella sua «normalità», ma soprattutto nelle situazioni di crisi o di emergenza, poiché in tali casi occorre attivare le «dotazioni contestuali» disponibili sul campo. - Crisi agraria 1880 e subculture politiche territoriali. - Crisi della fine degli anni Settanta e distretti industriali. - Catastrofi naturali (es. terremoti, alluvioni, tempesta Vaia). - Sfide al cambiamento (europeizzazione, globalizzazione...). regolative (da regole per organizzare la gestione dei servizi) oltre che redistributive. Spontaneismo regolato dall’attore, che diventa capace di coordinare la rete di governance. Relazioni con l’esterno: Veneto, maggior traffico di perfezionamento passivo, le merci vengono delocalizzate, si misura questo traffico di merci che vengono prodotte in un altro paese, ma considerate e vendute come Made in Italy. Maggior dipendenza da esportazioni. Emilia-Romagna: maggior dipendenza dal circuito economico internazionale, perché siamo in una curva di perifericità più centrale. Delocalizzano di meno, minor traffico di perfezionamento passivo, all’estero. C’è un maggiore senso di solidarietà che ha portato a delocalizzare al sud. Propensione alla spesa pubblica dei comuni in Veneto e in Emilia-Romagna. Riduzione dei trasferimenti dallo Stato, superando il vincolo della spesa storica. Confrontando la spesa pubblica dei comuni in Veneto ed in Emilia-Romagna si può notare come la propensione agli investimenti comunali è decisamente più marcata in Emilia, su tutti i fronti: spesa corrente, spesa per istruzione e cultura, intervento in campo economico, intervento in campo sociale e spesa per l’amministrazione etc. Questa differenza tra la quantità di spesa pubblica delle due regioni era inizialmente causata sia da una subcultura politica di riferimento sia dai fondi statali destinati alle Regioni ed ai comuni. Inizialmente i finanziamenti statali erano distribuiti sulla base della spesa pubblica, questo favoriva maggiormente le zone “rosse”, ma per la nostra analisi conta particolarmente poco, siccome questo criterio di distribuzione non fa altro che confermarci ulteriormente che i comuni e le Regioni con subcultura politica “rossa” siano più propensi alla spesa pubblica rispetto alle zone con subcultura “bianca”. Questa differenza di spesa pubblica rimane marcata anche dopo i forti tagli ai finanziamenti statali; ovviamente l’Emilia-Romagna ed i suoi comuni sono stati maggiormente colpiti da questa misura, in quanto erano soliti a investire maggiori risorse rispetto al Veneto, che pure è stato toccato dal taglio ma in minore entità, dato che anche prima le risorse utilizzate erano scarse. Dopo alcune riforme, si danno alle regioni lo stesso numero di finanziamenti. Ma comunque alcune regioni rosse sono quelle che spendono di più lo stesso, Emilia-Romagna, toscana, Molise, Liguria. L’Emilia Romagna prende i soldi dalle tasse. In Veneto non succede c’è una visione anti-statalista. Parliamo delle spese pubbliche delle due Regioni dopo il taglio dei finanziamenti statali per evidenziare un tratto fondamentale che ci permette di comprendere ancor meglio quanto le due regioni abbiano due modi di regolazione differenti: l’Emilia-Romagna rimane ancora oggi la regione, a parità di finanziamenti, che investe maggiormente nella spesa pubblica. Questo è possibile perché i cittadini Emiliani e romagnoli preferiscono pagare più tasse per poter ricevere i servizi a livello comunale e regionale. Questo in Veneto è impossibile, infatti la spesa pubblica rimane moderata, come prima del taglio ai finanziamenti statali. Impatto sulla costruzione sociale del territorio, cioè risultato della sedimentazione nel lungo periodo di pratiche sociali e politiche economiche come espressione della cultura locale. Relazione di Frattura/saldatura tra città e campagna urbanizzata e industrializzata. - Sfide della globalizzazione ed «Economia in cerca di città»: diversa capacità di costruzione e governo di aree vaste con il coordinamento dell’attore pubblico (reti intercomunali). - Ruolo delle Regioni come attore di coordinamento e programmazione. Eredità nella costruzione sociale del territorio “antistatalista” e “municipalista” Relazione tra città e campagna: - Zone rosse: saldatura tra città e campagna, garantita dalla mediazione dell’associazionismo rosso, prevalentemente urbano e dal socialismo municipale con la strutturazione, a partire dagli anni Ottanta, di una rete articolata ed efficiente tra gli enti locali della regione per l’erogazione di servizi - Zone bianche: frattura fra il modello di città-centralizzata e la campagna, che trae origine dall’insediamento prevalentemente rurale dell’associazionismo cattolico e della Chiesa e dal localismo antistatalista. Questa frattura è stata rimessa in discussione, a partire dagli anni Settanta, con l’accerchiamento della città da parte della campagna industrializzata, la quale ha cercato di forzare le piccole città ad inserirsi entro il tessuto urbanizzato di un modello aperto di città, senza però riuscirci. Due diversi modi di sviluppo locale e di urbanizzazione/industrializzazione della campagna Tabella riassuntiva dei modi di regolazione delle due Regioni: governance locale e sviluppo urbano per le city region. EREDITA NELLA COSTRUZIONE SOCIALE DEL TERRITORIO ‘’ANTISTATLISTA’’ E ‘’MUNICIPALISTA’’ Relazione tra città e campagna: - zone rosse: municipalismo, «saldatura» tra città e campagna, garantita dalla mediazione dell’associazionismo rosso, prevalentemente urbano e dal socialismo municipale con la strutturazione, a partire dagli anni Ottanta, di una rete articolata ed efficiente tra gli enti locali della regione per l’erogazione di servizi.
 - zone bianche: antistatalismo, «frattura» fra il modello di città-centralizzata e la campagna (i contadini si autoregolano), che trae origine dall’insediamento prevalentemente rurale dell’associazionismo cattolico e della Chiesa e dal localismo antistatalista. Questa frattura è stata rimessa in discussione, a partire dagli anni Settanta, con l’accerchiamento della città da parte della campagna industrializzata, la quale ha cercato di forzare le piccole città ad inserirsi entro il tessuto urbanizzato di un modello aperto di città, senza però riuscirci. → Due diversi modi di sviluppo locale e di urbanizzazione/industrializzazione della campagna: -Emilia: latifondo, campagna vuota. -Veneto: campagna abitata, molto caotica e quindi difficile da coordinare, non è risultato di una pianificazione urbanistica, c’è tutto dappertutto, non c’è distinzione netta. Crea anche problemi di impatto ambientale, soprattutto per il consumo di suolo. Questo oggi non è più sostenibile (sfida della sostenibilità). Differenza in continuità con una tradizione di governo locale e che oggi produce ulteriori differenze nella capacità di governare da livello comunale l’interland: in Veneto non ci sono reti comunali, Padova e ‘’la grande Padova città’’ sono staccate, in Emilia invece è più facile che Modena collabori con gli altri comuni attorno più vicini. In Veneto la regione non sostiene le realtà di aggregazione intercomunali. AMPIEZZA DEMOGRAFICA DEI COMUNI In Emilia i comuni sono più abitati, in Veneto meno: in Emilia i comuni sono mediamente più grandi (38 comuni con più di 100 000 abitanti). Dove abitano le persone? In Emilia più nell’area urbana, in Veneto più nell’area quasi-urbana. - C’è una differenza tra centro-nord e sud. Al sud rendimento istituzionale più basso. Ma c’è questa differenza empirica che meraviglia Putnam. Per capire viene fatta un’analisi fattoriale multivariata, due spiegazioni possibili: 1. La modernità socio-economica: frutto della rivoluzione industriale: l’analisi non mostra un correlazione. 2. La comunità civica: ossia il tessuto sociale in cui si intrecciano impegno socio-politico e solidarietà, c’è una correlazione. Indicatori per misurarla: - la partecipazione ad associazioni (non datoriali) - la lettura dei giornali, - la partecipazione elettorale ai referendum - voto di preferenza all’interno delle liste (indicatore di un uso clientelare del diritto di voto). - Dalla misurazione della cultura civica e del rendimento istituzionale all’interno delle regioni notiamo che le Regioni con più alta cultura civica sono anche le Regioni con più alto rendimento istituzionale. Cultura civica. R: rendimento istituzionale che va da 0 a 1. «La cultura civica negli anni 70 è correlata nella misura di r=0,91 con la forza dei partiti di massa del periodo prefascista (1919-21) e di r=0,84 con la presenza del mutualismo di circa mezzo secolo prima» «La solidità della connessione tra il rendimento istituzionale e queste caratteristiche storiche è sorprendente (...). Volendo semplificare si può dire che la storia è più importante dell’economia nello spiegare il successo istituzionale» (Putnam, 1992) Per spiegare questa stretta relazione tra rendimento istituzionale e radici storiche della “comunità civica” Putnam fa ricorso alla teoria del capitale sociale di Coleman: Capitale sociale: riserva di fiducia che regola e facilita la convivenza sociale (reti cooperative e regolazione sociale). Secondo questa teoria elaborata da Coleman Nelle regioni civiche la cooperazione sarebbe favorita dalla presenza di un forte capitale sociale di antiche tradizioni, in grado di riprodursi attraverso esperienze positive di cooperazione, generando così un circolo virtuoso per cui il capitale sociale cresce sostanzialmente su se stesso. Putnam ha elaborato anche una Spiegazione culturalista: Putnam (1993) ha orientato la sua analisi andando alla ricerca delle “radici della comunità civile”, risalendo fino all’epoca storica del Comuni e delle Signorie, e ipotizzando una relazione diretta tra le tradizioni di autogoverno dell’Italia del 1300 con il rendimento istituzionale di oggi, interpretando in senso piuttosto deterministico la relazione tra cultura civica e rendimento delle istituzioni, al punto da poter affermare: «Le Regioni comuniste hanno ottenuto risultati ottimi (...) non perché hanno saputo arare meglio, ma perché hanno dissodato un terreno più fertile. Il loro successo non dipende da loro ma da dove loro hanno operato» La cultura civica porta ad un maggiore rendimento istituzionale. Un altro tipo di spiegazioneSpiegazione neo-istituzionalista va in contrapposizione a quanto sostenuto da Putnam, arrivando ad affermare che «Non è solo importante dove si governa – con vantaggi o meno derivanti dal contesto locale e dal suo sviluppo – ma anche chi governa le istituzioni politiche regionali e con quale stile amministrativo.l L’approccio neo-istituzionalista capovolge i termini della correlazione (Cartocci 1994) individuando nel miglior rendimento delle istituzioni democratiche la causa di una maggiore cultura civica. In particolare Tarrow (1996) ha sostenuto che gli indicatori di capacità civiche utilizzati da Putnam sono tutt’altro che indipendenti dall’azione svolta dai partiti politici e che, piuttosto, è proprio la politica progressista a produrre civismo. I dati delle ricerche di Putnam possono essere letti più efficacemente in senso inverso: sono insomma i governi locali a stimolare solidarietà, piuttosto che viceversa; allo stesso modo, la fiducia nel governo può derivare dal rendimento istituzionale, invece che viceversa. Il rendimento porta ad una maggiore cultura civica. Spiegazione del modo di regolazione. La correlazione indica una relazione stretta tra due variabili (cultura & istituzioni), ma non ci dice quale sia la causa (variabile indipendente). Superando la logica mono-causale e deterministica, possiamo ricondurre entrambe queste variabili a un terza dimensione che le spiega entrambe. (Base/Altezza: Volume) Questa terza variabile è data dal «Modo di regolazione» (nelle sue componenti economica, politica e sociale) che, adottando prospettiva storica di lungo periodo e il concetto di territorio come costruzione sociale, mette in luce come modi di regolazione diversi portino con sé anche diverse relazioni tra cultura e istituzioni. Occorre superare l’idea di un modello di rendimento istituzionale ottimale e decontestualizzato, e riconoscere piuttosto diversi modi di regolazione a cui corrispondono anche diversi tipi di rendimento istituzionale, che vanno letti e interpretati in relazione ai loro sistemi concreti di azione (La scelta degli indicatori non è neutra). In questa prospettiva, rispondere alla domanda sul perché il rendimento istituzionale della Regione Emilia Romagna sia risultato il più alto di tutte le altre Regioni italiane, significa analizzare le dinamiche che hanno caratterizzato la politica regionale cominciando con l’osservare gli attori politici (i partiti), la cultura di governo locale nel lungo periodo, lo stile amministrativo consolidato, il tipo di politiche pubbliche e, quindi, il livello di sostegno (diffuso/specifico) di cui gode il sistema politico regionale in una prospettiva dinamica. Differenza tra centro-nord e sud-Italia storia e tradizioni amministrative. Centro-nord: I Comuni nacquero a partire dal XI secolo nel Centro-Nord come associazioni volontarie di famiglie di un territorio, con l’obiettivo di una reciproca cooperazione nell’ambito della difesa e dello sviluppo locale. Si sviluppò Logica di autogoverno (politics): i Comuni non avevano alcun legame con il sistema feudale del potere imperiale. Questa autonomia diede l’opportunità alla società locale, per un lungo periodo (dal XII al XVI sec), di potersi evolvere e di raggiungere il massimo splendore nel rinascimento. I Comuni divennero veri e propri Stati autonomi, tanto che questo periodo storico viene spesso richiamato come “l’Italia dei Comuni” tra 1300 e 1500 (Hyde 1973). “Repubblicanesimo comunale”, sostenuto da un’alta partecipazione dei cittadini, ha lasciato come eredità nella cultura e nelle istituzioni locali, un modo di regolazione peculiare, con forti capacità organizzative, amministrative e cultura civica. Sud-Italia: Nell’Italia meridionale del Regno delle due Sicilie il Comune era, al contrario, un’istituzione debole, dominata da logiche clientelari. Nelle regioni meridionali il Comune raramente era sentito infatti come istituzione “amica”, espressione del corpo collettivo e difensore degli strati subalterni, ma piuttosto come rappresentante degli interessi di un ceto dominante molto ristretto (élite locale). Nelle regioni del Sud Italia «le ribellioni della ‘plebe’, quando esplodevano, erano rivolte contro i capi dei Comuni, più che all’autorità dello Stato e all’impero della legge. Le insurrezioni si facevano in nome del Re, contro i tirannelli locali» (Turiello, 1882). In questo contesto il potere centrale assumeva, più spesso, «il volto benefico del Re, al quale si contrapponeva piuttosto quello oppressivo dell’autorità locale». Eredità che deriva da questo modo di regolazione di oggi: scarsa capacità di autogoverno e scarsa capacità civica. Unificazione del regno d’Italia. Unificazione del Regno d'Italia centralizzato sul modello francese. Ai Comuni venne assegnato un ruolo molto limitato, con pochi poteri, scarse risorse e numerosi controlli dal centro. Tuttavia persistevano ancora forti differenze tra Comuni del centro-nord e del meridione: - in relazione al diverso modo di regolare i rapporti tra centro e periferia, mediati da una ristretta élite locale, - in relazione alla diversa capacità dei notabili locali di contrastare l'inerzia dello Stato per la promozione dello sviluppo economico locale: - nel centro-nord il ceto dominante era in grado di favorire l'economia locale, - nel meridione il potere dei notabili veniva usato invece, non per favorire lo sviluppo locale, ma per mantenere la società locale in posizione stagnante, favorendo 'arricchimento di pochi (Catanzaro 1974). Dopo costituzione repubblicana del 1948: con la Costituzione le autonomie locali e le Regioni, vennero formalmente riconosciute, in discontinuità con il regime fascista. Il rapporto tra centro e periferia si strutturò attorno alla capacità di mediazione esercitata dal sistema dei partiti, fortemente radicati sul territorio (DC, PCI e PSI), piuttosto che attraverso l'azione del prefetto, a differenza della Francia. Con questo assetto viene a costituirsi cosi una nuova forma di centralizzazione: - i partiti portano a Roma decisioni anche minute e cercano di imporre nei Comuni e nelle Province gli stessi accordi e governi di coalizione che si registrano nel governo centrale (Cassese 1986). Per questo insieme di ragioni, le istituzioni di governo locale furono lasciate di fatto senza poteri effettivi: le Regioni a statuto ordinario furono attivate infatti solo nel 1970; per il potenziamento delle competenze di comuni e province bisognerà aspettare la crisi del sistema di partiti della Prima Repubblica degli anni 90. Poi con la legge Bassanini si comincerà a parlare di federalismo. Persistenza e cambiamento. Secondo la spiegazione culturalista, poiché nelle regioni del Sud Italia non si è avuta l'esperienza dei liberi Comuni nel Medioevo, non si può avere oggi una cultura civica (e un buon governo). Vorrebbe dire che l'azione politica intercorsa dall'Unità d'Italia ad oggi non ha avuto peso? Che i partito politici di governo non hanno avuto alcuna responsabilità? Che il Sud è destinato a rimanere «svantaggiato» per il resto della sua storia? Cosa si può fare per avviare un cambiamento di rotta? Quali politiche servono per favorire innovazione e cambiamento? È necessario cambiare il modo di regolazione dello sviluppo. Si potrebbe cambiare modo di regolazione o sviluppo, dare fiducia alla popolazione locale per attivare processi disviluppo dal basso, dare più autonomia. Con l'approccio di regolazione si mettono insieme politica, economia e società > si possono creare strategie di sviluppo che riguardano questi tre aspetti > il buon governo può migliorare la qualità della vita e la cultura civica (anche a partire dalla scuola). Perché la comunità locale dice di non intervenire? Nelle aree bianche? -> si guarda il modo di regolazione differente. Lo stile amministrativo è molto legato alla rete informale (società) > per forza interventi saranno minori e quindi anche rendimento istituzionale è basso. Il sud invece non ha rete associativa informale. Riformuliamo da domanda di ricerca secondo l’approccio del «Modo di regolazione» Nelle regioni «bianche» antistataliste e «rosse» municipaliste - forte capitale sociale (reti informali), - ma anche da un diverso rendimento istituzionale, la domanda diventa: - Perché il governo locale rosso è in grado di intervenire senza alterare le reti del capitale sociale, mentre il governo locale bianco tende a scegliere il non intervento per non alterare le reti comunitarie informali? → Stile amministrativo e Reti informali → Relazione pubblico/privato. Come favorire il cambiamento ? che cosa si può fare per favorire il cambiamento, anche se la storia non aiuta? Servono politiche di sviluppo adeguate al contesto. Devo conoscere molto bene il contesto 1) Capacità dell'attore politico di interagire con le reti informali: ci sono delle reti che se si formalizzano si alterano (es: reti di volontariato). È un fattore culturale. In Emilia-Romagna invece l'attore politico è parte della stessa rete informale, che non è informale ma piuttosto preordinata, è abituata all'intervento dell'attore politico. 2) Capacità di attivare le risorse endogene al territorio, generando beni relazionali: creare pratiche partecipativa, si crea fiducia del privato verso pubblico e viceversa, non con la logica clientelare. Le reti infornali condizionano lo stile amministrativo: esprimono la domanda di regolazione > ti dicono "lasciami fare" oppure intervieni. Quindi: -Non possiamo trasferire le buone pratiche da un contesto all'altro. intervento mirato alla creazione di “un ambiente per lo sviluppo” attraverso la creazione di servizi reali di cui, si ritiene, la Regione debba farsi carico, per favorire lo sviluppo del terziario, ancora in ritardo rispetto ad altre regioni (Lombardia) e alle esigenze di un sistema produttivo post- industriale. Nel 1988 la Regione ER disporrà di 10 Centri di servizi reali funzionanti sul territorio e il settore terziario dei servizi ai SPL si è notevolmente accresciuto. -Le imprese piccole non possono avere del personale specializzato in ricerca, deve esser fatto da soggetti esterni, l’Emilia capisce questo problema. Allora crea, insieme alle UNI, i centri di servizi reali per le imprese. la ricerca deve essere tipica di quel settore produttivo. Questo è il risultato di un confronto con le associazioni di categoria che rappresentavano i distretti, allora si è arrivati alla ideazione di questo strumento di policy. Questa formula è adatta al territorio, invenzione dell’Emilia-Romagna possibile grazie al fatto che la programmazione era di tipo concentrato, coinvolgendo appunto la comunità. Programmazione ed Europeizzazione. Per adeguarsi alle politiche UE di sviluppo regionale, entrambe le Regioni hanno modificato l’iter di programmazione, ma in modo diverso: - VE: riprende l’attività di programmazione con la presidenza Galan e segretario generale Rasi Caldogno (L.r. 35/2001). Con la presidenza Zaia la programmazione torna ad essere per settore di policy. I diversi POR per ogni FS (FESR – FSE) dialogano con fatica (adempimento amministrativo: richiede un cambiamento del modo di regolazione che non si vuole fare) - - ER: Le linee guida europee entrano nella programmazione regionale, semplificando e unificando in un unico documento programmatico focalizzato sullo sviluppo territoriale (aree urbane funzionali): apprendimento istituzionale; filiera istituzionale multilivello :Riforme Bassanini e Nuovi Statuti regionali. Pratiche di programmazione e Modi di regolazione. Coerenza tra modo di regolazione, cultura di governo e di programmazione. VE: stile amministrativo non interventista e rifiuto della programmazione (metodo non adeguato al modo di regolazione), realizzata più come forma di adempimento amministrativo, anche quella richiesta dall’UE. ER: stile amministrativo interventista, forte cultura di governo e di programmazione come scelta di metodo, processo aperto di concertazione pubblico-privato, capacità di apprendimento istituzionale e alta europeizzazione; capacità di coordinamento della filiera istituzionale multilivello. Lezione 8. Politiche regionali per i servizi reali alle PMI. - Centri servizi reali alle imprese ER - L.317/1991, art. 36 e sue applicazioni regionali - La risposta del Veneto - La risposta dell’Emilia Romagna - Bene pubblico e bene di club - SPL: Sistemi produttivi locali Vi è una profonda differenza fra regioni nella cultura di programmazione. Comunque la programmazione rimane una caratteristica importante delle regione, essendo enti di coordinamento. In ER la programmazione è sempre stata fatta, al contrario del Veneto. Distretto industriale: Sistema produttivo locale: Anni Ottanta: comincia una crisi dovuta a internazionalizzazione dei SPL di PMI, che richiede innovazione organizzativa supportata da informazioni pertinenti, aggiornate e tempestive. Vuol dire che bisogna confrontarsi con prezzi più bassi e qualità buona, bisogna passare da un mercato chiuso all’oceano (mercato aperto). Competere in un mercato internazionale per una piccole impresa artigianale è difficile, è un passaggio che deve essere accompagnato e sostenuto. Visto il radicamento delle PMI sul territorio, è necessaria una ridefinizione in senso territoriale della politica industriale (da una visione settoriale (nazionale) ad una territoriale, perché le PMI non sono su tutto il territorio nazionale, ma solo in lacune aree) e delle iniziative volte a fornire servizi di supporto allo sviluppo delle PMI locali. Servono politiche industriali specifiche, orientate a sostenere le PMI nel mercato internazionale, il cui coordinamento spetta alle Regioni, anche se le regioni non hanno competenze in termini industriali. PMI diffuse sul territorio: fenomeno italiano ed europeo. nel 2013, l’UE a 27 contava circa 20 milioni di imprese non finanziarie attive, di cui il 92% micro imprese (con mendo di 10 occupati), il 6,8% piccole imprese (tra 10 e 49 dipendenti) e solo lo 0,9% imprese medie (dai 50 ai 249 occupati). Il 99,8% delle imprese, quindi, sono micro, piccole o medie imprese e questa percentuale varia solo marginalmente tra gli Stati membri. Molte difficoltà sia in Italia che a livello europeo: Le PMI hanno una difficoltà strutturale nel reperire adeguate conoscenze sui mercati internazionali. Alti costi di accesso alle informazioni, gestite dalle grandi imprese, che non le rendono accessibili per poter essere più competitive. Tanto più le informazioni e i servizi messi a disposizione delle imprese sono ad elevato contenuto di innovazione, tanto meno è facile il formarsi di un mercato auto-regolato, servono politiche mirate (Corò 1995). Le informazioni e conoscenze legate all’innovazione non possono essere più lasciate, quindi, alla regolazione delle sole forze di mercato poiché si tratta di un vero e proprio “bene pubblico” che ha bisogno per essere prodotto e diffuso tra gli attori economici, di un intervento politico di regolazione. Che tipo di servizi servono alle imprese? Servono servizi reali, diversi da quelli finanziari perché non sono sostegni finanziari, ma sono sostegni reali, formazioni, ricerche di innovazione, formazione, controllo della qualità, certificazioni di qualità, infrastrutture come i trasporti, le poste, le telecomunicazioni. Una serie di attività del terziario di cui le imprese hanno bisogno, questi servizi devono essere disponibili sul territorio, ma forniti non dalle imprese, ma da altri soggetti. Servizio deve essere mirato e specifico per quel particolare ambito produttivo (calzatura). Definizione servizi reali: I servizi reali sono identificabili come quelle attività di servizio il cui utilizzo comporta modifiche strutturali e non transitorie nell’organizzazione della produzione di un’impresa. L’adozione di tali servizi da parte di un’impresa agevola un cambiamento strutturale quale la ristrutturazione del processo, la differenziazione dei prodotti o un mutamento nell’estensione del mercato. Una politica industriale efficace non può prescindere dal sostegno dell’attività di ricerca e di formazione delle risorse umane, così da elevare le competenze disponibili a livello locale. Per questo è necessario l’intervento di un attore che goda del consenso e della fiducia della comunità imprenditoriale locale. Per il sistema locale diventa fondamentale individuare un adeguato assetto istituzionale in grado di generare efficacemente tale bene collettivo. Per i nostri distretti industriali, questo “sostituto funzionale” si ritiene che non possa che essere rappresentato dall’azione “pubblica”, anche attraverso un’azione di governance «a rete» con attori privati. Differente concetto di pubblico: Ma nei due contesti culturali “antistatalista” e “municipalista” ciò che è profondamente diverso è proprio il concetto di “pubblico”. Nel contesto ER il ruolo di regolatore pubblico è affidato all’attore politico regionale, in grado di accordarsi con le associazioni di categoria. Nel contesto VE lo stesso ruolo è affidato alle associazioni di categoria (confartiginato, Confindustria ), mentre l’attore politico risulta essere marginale, anzi, nell’accezione di pubblico=politico=statale qui lo stesso termine è connotato in termini fortemente negativi. Se il bene pubblico è fatto da attore pubblico, non viene accettato dalle imprese, se vien erogato da rete associativa lo accetto e lo utilizza. Due modi di regolazione diversi del medesimo problema. Questo spiega perché il ruolo che la Regione è in grado di giocare nei due contesti, in termini di regolazione politica, è del tutto diverso, tanto più se rapportato al modello istituzionale proposto dal “federalismo amministrativo” (Bassanini) che affida alla Regione il compito di regolatore politico dello sviluppo locale, attraverso la programmazione negoziata/concertata, in ER questo avviene. Concezione di bene pubblico: in ER i servizi reali nascono perché vi è una richiesta da parte delle imprese, c’è una domanda politica da parte di imprese e associazioni di categoria. Questi servizi reali o beni collettivi per lo sviluppo, dal momento che la regione se ne fa carico diventano bene pubblico. Basta essere un’impresa situata nella regione. Concezione per Veneto: Le imprese non vanno in regione, ma in associazioni di categoria, e chiedono finanziamenti che le associazioni ricevono dalla regione. Sono le associazioni che erogano il servizio alle imprese, la regione lascia fare. In questo modo i beni collettivi non sono bene pubblico, perché non erogato dalla regione, ma sono beni di club. Se sei iscritto a Confartigianato il bene lo ottieni. Bisogna far parte di una associazione. Ricerca e programmazione. Veneto: Non è stata fatta in questi termini. Episodicità e frammentarietà della programmazione perché la cultura politica della DC dorotea era estranea a ogni idea di regolazione attraverso la programmazione. La ricerca è ritenuta inutile e dispendiosa: chiusura dell’IRSEV nel 1993. ER: Forte cultura della programmazione come strumento di coordinamento e di policy making. Da dirigista a concertata. Grande importanza data alla ricerca per lo sviluppo: forte suolo dell’ERVET – divenuto spa – aperto alle Parti Sociali. Politiche regionali dell’Emilia Romagna dedicate: PSR 1982-1985 e1986-1988. È stata una delle prime regioni ad attrezzarsi già negli anni 80, attivando policy regionali rivolte alle PMI. Nacquero così i centri di servizi reali alle imprese: ossia enti prevalentemente di tipo consortile, che costituiscono il primo esempio di policy per lo sviluppo locale nei sistemi locali di PMI attraverso la produzione di servizi alle imprese, intesi come bene pubblico per la La Regione Veneto riconosce distretti industriali in tutto il territorio regionale, perché interpreta la policy in senso distributivo a pioggia (stile non interventista) La Regione Emilia Romagna si rifiuta di applicare la normativa, nonostante i suoi centri servizi alle imprese siano presi come esempio nazionale, perché la normativa arriva in ritardo e i criteri di identificazione dei distretti non vengono riconosciuti come validi (stile interventista) Distretti industriali storici del Veneto. L'interpretazione della legge in senso estensivo da parte della Regione Veneto risulta essere funzionale alla sua logica di non regolazione politica dello sviluppo locale. Questa interpretazione riesce infatti ad evitare un intervento diretto e programmato da parte della regione sulle reti comunitarie distrettuali che, di fatto, non richiedono l'intervento da parte dell'autorità pubblica. Più che la predisposizione di uno strumento per le politiche territoriali rivolte ai sistemi locali distrettuali, l'applicazione della legge In Veneto ha prodotto un altro strumento potenziale di politiche distributive, attivabili su tutto il territorio regionale e da usare di volta in volta per rispondere alle domande di contributi che sarebbero potuto provenire dei vari sistemi locali, anche quelli più deboli. Sistemi di produzione locale in Emilia-Romagna. In Emilia-Romagna piuttosto che parlare di distretto, dal momento che non può essere definito con un algoritmo rigoroso, è più appropriato parlare di sistema produttivo locale, inteso come insieme di imprese concentrate in un territorio delimitato che producono, direttamente o indirettamente, per uno stesso mercato finale. Nel caso del modello emiliano il ruolo della regione risulta essere fin dall'inizio particolarmente importante per le politiche industriali che hanno caratterizzato lo sviluppo locale, questo grazie ad una graduale trasformazione della cultura di governo locale, da una forma dirigistica di intervento a forme di programmazione negoziata e concertata, che tendono a coinvolgere le parti sociali nel processo decisionale. Il coinvolgimento delle organizzazioni degli interessi imprenditoriali regionali è stato infatti cruciale per l'efficacia dei servizi forniti complessivamente dai centri di servizi. Ed è partendo dalla politica dei centri di servizi alle imprese, considerata una delle esperienze più singolari e importanti di politica industriale per le piccole e medie imprese in Italia, che si è arrivati alla terziarizzazione dei sistemi produttivi locali e alla legge 317/1991, con la quale lo stato attribuiva nuove competenze alle regioni in materia di politica industriale, incentivando, di fatto, l'attivazione dei centri di servizi reali alle imprese. La Regione Emilia-Romagna, tuttavia, a causa della rigidità che viene data alla definizione di distretto industriale ed al ritardo con cui lo stato centrale si concentra sul favorimento delle PMI, rifiuta l'applicazione della norma. La L. 140 /1999 modifica la L. 317/1991 sostituendo «distretto industriale» con «sistema produttivo locale» Distretto industriale: manifatturiero, artigianale, Pmi capitale sociale, competenze contestuali, storicamente sedimentate, genius loci Sistema produttivo locale – Cluster: categoria generale, che comprende tutti i sistemi produttivi, non solo manifatturieri (es. distretto termale, agroalimentare, beni culturali, ecc.). Negli anni più recenti le politiche regionali puntano a traghettare i distretti industriali verso SPL dell’innovazione: Veneto: L.r. 8/2003 distretti produttivi come Patti di sviluppo, ora sostituita con la L.r. 13/2014 «Disciplina dei distretti industriali, delle reti innovative regionali e delle aggregazioni di imprese». A parte POR FESR 2014-2020 smart specialization e collegamento con le Università. Emilia Romagna: dai distretti produttivi ai distretti tecnologici POR FESR 2007-2013 Evoluzione in filiera produttiva; POR 2014-2020 smart specialization e collegamento con le Università; Programma regionale per la ricerca industriale integrata. Quando parliamo di globalizzazione dei SPL, la competizione non è più tra singole imprese ma tra territori, cioè tra SPL. Perché è così? Quello che conta è la mobilità, le imprese si postano dove ci sono servizi migliori. Ecco perché lo sviluppo delle politiche locali è importante. I sistemi produttivi locali, hanno bisogno di servizi che li rendano capaci di competere a livello locale, ecco perché hanno bisogno di servizi Territoriali. Il turista esce dall’albergo e vuole servizi. Dagli anni 80 si inizia a capire che i servizi sono fondamentali per le imprese e per mantenerle nel territorio, sennò se ne vanno. Devono essere sostenute le imprese, sopratutto quelle artigiane attraverso delle politiche specifiche. Lezione del 9. POLITICHE SOCIALI E SERVIZI ALLA PERSONA. Si fa riferimento al welfare.  Metà anni ‘70: crisi fiscale dello Stato e crisi del welfare: -regionalizzazione del sistema sanitario; create le regioni e le regioni hanno a carico il servizio sanitario regionale. Mentre le politiche sociali sono di competenze comunale (asili, servizi per anziani): se i comuni sono troppo piccoli non riescono ad erogare servizi sociali di sanità. -politiche sociali di competenza comunale (vedi asili). A livello nazionale ci sono forti differenze tra nord e sud, ma concentrandoci su VE ed ER vediamo delle differenze.  Secondo diverse ricerche (Dente; Fargion) l’attribuzione di competenze alle Regioni su questa materia, in mancanza di una legge quadro nazionale (del 2000), ha dato luogo a forti differenze locali dell’intervento pubblico nei confronti delle fasce più deboli della popolazione, rendendo possibile una discriminazione sostanziale per la garanzia del diritto di cittadinanza sociale, es. tra i cittadini del Nord e del Sud del paese, che ancora persistono. I servizi sociali non sono la sanità: -sanità: è l’ospedale; -sociale: sono i servizi di assistenza alla persona che hanno come obiettivo la coesione e l’integrazione sociale. Differenze tra regioni bianche e rosse. Destinatari: che hanno beneficiato (almeno fino agli anni ‘80) dell’intervento pubblico-regionale: ER e nelle zone rosse: prevalentemente i Comuni e i loro consorzi (filiera istituzionale, pubblica); la regione ha sostenuto i comuni, anche prima della regione i comuni si sono fatti carico dei servizi sociali, sostiene i comuni perché le competenze sono comunali. VE: le risorse sono invece equamente distribuite tra gli enti locali, le Ipab, le istituzioni private, come le associazioni non-profit e le associazioni cattoliche e persino i singoli individui (privato sociale). Due periodi nella gestione dei servizi sociali della Regione. Dal 1973 al 1978 e dagli anni ‘80 fino alla fine degli anni ‘90. Con le riforme Bassanini (normative che puntavano al federalismo amministrativo a costituzione invariata) di fine anni Novanta, avviene una devoluzione di competenze ai livelli di governo comunale. Con la legge quadro 328/2000 di riordino dei servizi sociali, le Regioni hanno competenze in materia socio-sanitaria (integrazione socio sanitaria). Da anni 2000: riforma della sanità del 2016 cambia il sistema sociosanitario. Dal 2000 l’analisi comparata dei bilanci regionali diventa più problematica, perché per le politiche sociali le Regioni italiane hanno fatto scelte diverse e andrebbe verificato anche cosa viene fatto a livello comunale. A fronte di una spesa pro capite di poco superiore per l’ER si riscontrano notevoli differenze nelle componenti della spesa sociale per funzioni tradizionali e innovative. funzioni tradizionali : interventi caritativi, si configurano come interventi caritativi “discrezionali, selettivi, emarginanti e tesi a soddisfare solo i bisogni primari di sussistenza”; funzioni innovative : sono centrate “sui diritti sociali e volte a realizzare un sistema di prestazioni e di servizi aperto alla generalità dei cittadini, volto a soddisfare anche bisogni di natura non materiale, attinenti alla sfera del benessere psicofisico, e improntato ad una strategia di inserimento sociale” (Fargion 1997). Sono un diritto e prescindono dallo status economico. Si tratta di una dimensione fondamentale dove ci sono dei cambiamenti nel contesto che richiedono un intervento sociale più attivo a prescindere dal reddito.  Veneto mostra di essere nettamente più tradizionale: partendo dallo stesso livello del Sud, tende gradualmente a modernizzarsi, senza però superare mai la media nazionale; Emilia Romagna invece presenta i livelli di innovazione più elevati, tanto rispetto al Nord e alla media nazionale, quanto rispetto al Centro, dove si trovano le altre regioni rosse, come la Toscana. Innovatività ed efficienza nel settore socio-assistenziale per le 15 Regioni a statuto ordinario (valori al 1978). L’Emilia Romagna mostra livelli di efficienza superiori a tutte le altre Regioni. Il Veneto, al contrario, insieme a Lombardia, presenta livelli di inefficienza superiori a tutte le altre Regioni, anche alle Regioni del Sud, questo perché in Veneto ci sono servizi, ma non sono pubblici. VE e ER rappresentano due situazioni-tipo diametralmente opposte, a parità di condizioni di sviluppo locale (PMI). Anni Ottanta (dopo il d.p.r. 616/1977): crisi fiscale dello Stato sociale. Fino a L. 328/2000, che organizza a i servizi sociali a livello nazionale, le Regioni hanno provveduto al riordino del Sociale:  ER (grazie a eredità “rossa”) si distingue per avere una rete diffusa di asili e scuole materne tra i più attrezzati e moderni a livello europeo (Reggio Emilia, anche se l’asilo nido nasce per la prima Sul territorio c’è: 1- welfare pubblico come bene pubblico. 2- welfare privato-sociale: bene comune. 3- welfare come bene di club. Chi è che mette in rete e fa sintesi tra questi 3 diversi beni collettivi per lo sviluppo e metterli insieme con una logica territoriale integrata? L’obiettivo è quello di farli dialogare tra di loro per farli funzionare bene e sviluppare il territorio. A volte ci sono problemi di coordinamento di tempo (ad esempio l’asilo parrocchiale apre alle 9, ma io devo essere a lavoro alle 8); secondo il regolamento comunale tu puoi portare i figli all’asilo nel comune di residenza, ma se sei pendolare? Ti viene più facile portare il figlio vicino a dove lavori, ma non lo puoi fare perché è fuori dal posto in cui sei residente, perché questi servizi sono ancora pensati con la logica della stanzialità e non della mobilità che oggi è diventato mobilità (questo vale per gli asili comunali, non per quelli parrocchiali). Questi limiti dovrebbero essere incrociati e usati per compensare, per coordinare insieme tutto. Ma allora sono servizi del comune o nel comune? Se il comune si occupa solo dei suoi servizi, ma se si deve occupare anche degli altri come quelli parrocchiali fa il lavoro del manager di rete, cioè messa in rete dei servizi sul territorio. Per gli utenti è importante che ci siano i servizi e che funzionino, non importa se sono privati o meno. Allora bisogna uscire da una visione solo gestionale e amministrativa, e crearne una manageriale, che guarda alla rete, al collegamento di ciò che è presente nel territorio. Ancora i comuni in Veneto sono concentrati al confine amministrativo, pensano ai servizi del comune e non nel comune, non pensano alla rete, visione limitata al singolo ente. L’ER è l’opposto, vuole le reti di comuni e le unioni perché sanno che i comuni da soli non riescono ad erogare i servizi. Crisi dell’approccio Neo-liberista: L’aumento della complessità sociale rende insostenibile la burocratizzazione delle prestazioni. Questo approccio mette in evidenza burocratizzazione dell’intervento pubblico, l’efficienza e i costi collettivi delle politiche di welfare. Concepisce tuttavia i beni collettivi (istruzione, salute, qualità dell’abitare) come beni privati, organizzabili con un mercato puro, per contenere la spesa pubblica a parità di prestazioni, e delegare l’erogazione di parte dei servizi a specialisti privati o associazioni non- profit. Tuttavia, l’approccio liberista radicale perde qualsiasi connotazione di “integrazione sociale”, l’universalità dei diritti di cittadinanza sociale, la visione strategica delle risorse collettive, del capitale sociale che caratterizza il contesto locale e costituisce un fattore latente di competitività. Risposte diverse delle due regioni. Emilia Romagna. La Regione ER tende a conciliare i due principi dell’equità e del mercato ridefinendo il ruolo della PA, senza ricorrere ad una visione aziendalistica, ma salvaguardando «gli elementi di valorizzazione di costi e benefici che sfuggono alla sola logica settoriale e che sono propri dell’azione politica-programmatica» .
 I perni su cui la Regione dichiara di voler puntare sono: - il lavoro come fattore di sviluppo economico e sociale; - la riproduzione e la valorizzazione del capitale cognitivo; - nuove opportunità e nuove regole nel mercato del lavoro per consentire un recupero di elasticità - e mobilità nel lavoro; - un nuovo posizionamento della PA che accresca l’efficienza e definisca il rapporto PPP (partenariato pubblico e privato) (mercato e volontariato). Veneto. La Regione VE, dagli anni Novanta, sembrerebbe orientata verso una logica liberista piuttosto radicale, in cui la regolazione del mercato prevale nettamente su quella dell’intervento pubblico a discapito dell’universalità dei diritti di cittadinanza sociale, ma anche della riproduzione del capitale sociale come fattore latente di competitività. In realtà, la presenza massiccia delle organizzazioni non-profit provenienti dal mondo cattolico e del volontariato, cui è devoluta buona parte dell’erogazione dei servizi sociali regionali, continua ad attribuire un ruolo fondamentale alla rete comunitaria, la quale opera di fatto entro un circuito reticolare autonomo e distinto tanto da quello del mercato quanto da quello pubblico. Regolazione sociale del mercato (Bagnasco) Interventismo e non interventismo hanno prodotto quindi, nei due contesti, due modi di regolazione contrapposti, neo-corporativista nell’area rossa e neo-liberista nell’area bianca. In entrambi i casi ci troviamo di fronte a due forme miste di regolazione in cui i diversi ruoli giocati dall’ente locale in ER e dalla rete comunitaria in VE hanno un’importanza fondamentale. I servizi sociali sono concepiti infatti: come bene pubblico nel contesto dell’Emilia-Romagna come bene comune nel contesto del Veneto. In VE la regolazione della rete comunitaria costituisce un importante correttivo alla regolazione del puro mercato, tanto da qualificare la natura stessa del “bene” prodotto.
 In ER l’attività di programmazione negoziata-concertata ha gradualmente trasformato la regolazione dirigista, centrata sull’ente locale, aprendola verso forme di governance più flessibili e partecipative «a rete». Due diverse composizione di welfare mix. La dislocazione delle regioni sugli assi della titolarità del servizio erogato. - più orientato verso un welfare mix strutturato, in cui prevale il privato sociale, il gruppo che comprende VE, LO, PI (bene comune). - più orientato verso un welfare mix integrato e universalistico, il gruppo comprendente i casi di TO, FVG, ER, UM (bene pubblico). Lezione 10. POLITICHE DI SVILUPPO LOCALE. È un terzo tipo di politiche pubbliche che nascono solo negli anni ‘90. Il concetto di sviluppo locale nasce alla fine degli anni ‘70 con gli studi sulla “Terza Italia” e sui distretti industriali (manifatturieri) che sono locali (poi diventati PMI non solo manifatturieri). Alla fine degli anni 90 anche l’Ue, con i fondi strutturali, introduce il concetto di “sviluppo locale” e dà dei fondi alle regioni per ragionare in questi termini.  Politiche di sviluppo locale, anni 90. Non si tratta di denaro distribuito a pioggia, ma di servizi quindi di produzione di beni collettivi per lo sviluppo. Bisogna distinguere le politiche di erogazione di contributi da quelle di erogazione di servizi. Avviene così un cambiamento di paradigma: Dai settori ai territori - approccio place based: l’approccio basato sul territorio mette a fuoco la dimensione territoriale dello sviluppo che è importante, perché nel contesto territoriale si deve cambiare la classica visione dello sviluppo settoriale, perché il territorio non si può tagliare a fettine. Si passa da una logica settoriale ad una integrata e intersettoriale dello sviluppo. Dai top-down a bottom-up: non si ragiona più a partire dall’alto (da Roma dove si decidono le politiche di tutto il paese), si passa ad una dal basso verso l’alto. Cambia il modo di fare le politiche per lo sviluppo locale, perché bisogna coinvolgere gli attori locali. Da sviluppo esogeno a sviluppo endogeno: lo sviluppo viene portato dall’esterno, può essere assistenzialista (Cassa per il mezzogiorno che ha creato una dipendenza dalla risorsa pubblica, ha tolto la cultura d’impresa, favorendo il clientelismo e la criminalità organizzata) oppure paternalista (portare lo sviluppo aprendo grandi imprese, ciò ha caratterizzato il sud Italia tra gli anni 50 e 60 quando si voleva potenziare il nord ovest e si potenziava anche il sud che aveva perso risorse umane, tramite cassa del mezzogiorno. Questa cassa viene chiusa e si passa ad uno sviluppo endogeno). Si comincia a guardare ai territori e alle loro risorse con il fine di emanciparli. Pari opportunità dei territori e genius loci: tutti i territori devono avere le stesse opportunità. Rimettendo al centro dell’attenzione le vocazioni territoriali di un territorio e della sua popolazione e bloccando l'emorragia causata dallo spopolamento si possono cambiare le cose dal punto di vista dello sviluppo. Capitale sociale territoriale. Sistema locale come “rete di relazioni” cooperative che sostengano i territori svantaggiati. Sviluppo integrato urbano-rurale sostenibile: si tratta di un una chiave di svolta per lo sviluppo. Il problema è mettere in rete le aree urbane e rurali, perché hanno bisogno le une delle altre. Con le aree montane per esempio, la soluzione non è l’urbanizzazione di queste, ma la costruzione di reti che le mettano in relazione con i contesti urbani. Questo elemento è fondamentale per garantire l’inclusione dei territori con una logica di complementarietà. Così facendo si evitano anche le emorragie di risorse umane e soprattutto di giovani. Patti territoriali, ossia strumenti per investire le risorse Ue. In generale questi patti nascono per le aree svantaggiate del Sud Italia dopo la chiusura della cassa del mezzogiorno, per attivare reti sociali e capitale sociale (bottom up). In questi anni cominciano le riforme istituzionali che mettono al centro i governi locali (es. elezione diretta del sindaco, del presidente di provincia e regione). Con questi patti si voleva: Valorizzazione delle classe dirigente locale: si voleva dare ai sindaci eletti dalla popolazione la possibilità di fare gli “imprenditori” territoriali. Attivare reti di partenariato pubblico-privato (PPP): si parla di “patti” che sono degli accordi tra soggetti pubblici (comune/i, provincia) e privati (privato economico, privato sociale, singoli cittadini). Patto: si tratta di un metodo di concertazione - che poi si traduce nel protocollo di intesa dove si scrive l’accordo che si è preso e si sottoscrive - territoriale: perché riguarda un ambito di sperimentazione locale: si fa un programma impiegando delle risorse in un certo territorio; sono inseriti nel quadro comunitario di sostegno per le aree obiettivo (le aree del sud rientrano tra quelle svantaggiate). Politiche europee di sviluppo regionale:  Le regioni in rosso hanno un PIL del 75% più basso rispetto alla media europee (le più povere dell’Ue: Sicilia e isole, Grecia, Spagna, Irlanda, Germania est). I fondi europei hanno un ciclo settennale: la programmazione europea si fa ogni 7 anni, si decidono strategie, obiettivi ed indirizzi e si erogano finanziamenti per raggiungere quegli obiettivi. Nel 2007, a differenza del 1989, non ci sono più differenze di colore in Veneto: sono presenti solo due colori, perché la commissione smette di decidere gli obiettivi, ma parla di obiettivi strategici che sono 3: Convergenza: le regioni più povere devono convergere con quelle più ricche. Competitività e occupazione (aree blu): la regione, attraverso il POR, deve stabilire, in base anche alle linee guida dell’Ue, come utilizzare i fondi. Le regioni o continuano a fare redistribuzione alle aree più svantaggiate, oppure destinano tutto alle città e ai distretti industriali per diventare più competitive. Si tratta di una scelta politica delle regioni. Ciò inciderà sulle politiche di sviluppo locale del paese e delle regioni. Cooperazione transfrontaliera. Tre generazioni di patti territoriali. 1994-1996: (L.662/1996) regia CNEL: definire uno strumento utile per lo sviluppo solo del Sud, mobilitando le risorse locali, in particolare i Sindaci (L.142/1990 e L. 81/1993) = Patti del sud; 1996-2000: regia CIPE: L. 662/1996 trasforma il PT in strumento di programmazione negoziata, valido per tutto il territorio nazionale (non solo per il sud), finanziati con Fondi europei (FESR). La fase transitoria ha creato diversi problemi e incertezze; Dal 2001: regionalizzazione delle politiche europee dei patti Territoriali: finiscono i soldi, l’Ue cambia la politica e non dice più dove e come spendere, lo stato lascia alla regione la decisione di come usare i fondi. Obiettivi della policy per le aree svantaggiate. produzione di beni relazionali: reti di relazioni per generare capitale sociale locale. diffondere la cultura della responsabilità dello sviluppo locale tra gli attori locali. incentivare un cambiamento dal “chiedere” al “fare” per superare la visione assistenziale dello sviluppo. -mancanza di interazione con i responsabili dell’Ufficio, mediato da società di consulenza: lascia fare a queste, ci interagisce ma non interagisce con attori locali. -la regionalizzazione è vista con diffidenza dagli attori e con favore dalla Regione, se potessero aumentare anche le risorse (policy distributiva): gli attori non sono convinti di tutto ciò. -ruolo delle società di consulenza problematico se consistono nel raccogliere dati pubblici trasformandoli in “beni privati” per fare un programma serve fare l’analisi del contesto, ma in Veneto l’IRSEV è stato chiuso perché non si faceva programmazione, quindi riuscire a trovare dati per fare il progetto è difficile. Le università non sono coinvolte, le società hanno raccolto i dati, fatto il programma e venduto come bene privato senza condividerlo con gli attori. Modifiche introdotte dopo la L.r. 35/2001 istituite le IPA. Patti regionali in Emilia-Romagna. In Emilia-Romagna sono stati attuati solo 3 Patti territoriali, più la partecipazione a un Patto europeo. La Regione non condivide la logica di implementazione della policy sul territorio e non la regionalizza (già successo con la l.317/91): la regione non è convinta dell’utilità dello strumento e si rifiuta di fare una legge regionale sui Patti.  I problemi rilevati dalla Regione Emilia Romagna (intervista dirigente della programmazione): -ambiguità dello strumento di programmazione negoziata: è nato per le aree svantaggiate del sud, poi per tutta Italia e poi è stato regionalizzato, quindi alimenta aspettative di regolazione dal basso (bottom up), ma rimandando al Ministero o alla UE, non fornisce alcuna certezza né sui tempi, né sulle risorse finanziarie disponibili. Insomma, è uno strumento poco affidabile. Per una programmazione efficace è necessario gestire i tempi e le risorse direttamente. -gli enti locali hanno sempre cercato di coinvolgere la Regione e non ci sono stati problemi di concorrenza: non ci sono mai stati problemi di relazione con i comuni. la regione ha scelto di non partecipare alla programmazione negoziata dei PT poiché contiene delle insidie che minano la credibilità del progetto e dell’istituzione che lo propone. Insomma, la regione è contraria alla regionalizzazione dei patti: “I Patti sono nati per far fuori le Regioni in un contesto, come quello del Sud, in cui le Regioni funzionano diversamente da qui. Nelle Regioni in cui non vi è una programmazione per lo sviluppo locale, lo strumento dei Patti riempie un vuoto, ma nelle Regioni come l’Emilia Romagna in cui la programmazione funziona e la programmazione negoziata è una realtà consolidata, lo strumento dei Patti territoriali non può essere accettato come uno strumento davvero efficace». Pertanto la decisione del Governo nazionale di «scaricare tutti i costi esterni di gestione alle Regioni, senza poter intervenire nel merito del progetto” viene considerata del tutto inaccettabile. La regione dunque non fa una legge regionale sui Patti. In alternativa però fa il progetto regionale nord/sud. Progetto regionale Nord/Sud: le PMI dell’Emilia Romagna hanno partecipato a numerosi Patti territoriali di regioni del Sud (Ob.1) -fanno un’analisi preliminare per individuare le opportunità per le PMI dei distretti produttivi emiliani (Ervet Centri servizi). -è un progetto inteso a modificare l’immagine negativa delle regioni del Sud per le PMI interessate a delocalizzare. -individuazione di “pacchetti localizzativi” per investimenti nel Sud. -predisposizione di strumenti di programmazione negoziata: contratti d’area, contratti di programma, intese istituzionali, volti a costruire reti lunghe con altre regioni italiane del sud. -in particolare la Lega delle cooperative attraverso ortofrutta, forestazione, latte, vino (filiera agroalimentare) parteciperà ai Patti territoriali delle regioni del sud. Un confronto tra le due regioni. VE: mancando di una programmazione regionale per lo SL ha interpretato i PT come un’occasione di politica distributiva (ancora una volta), senza considerare i disagi derivanti dalla mancanza di controllo della policy; ER: partendo da una forte cultura di programmazione per lo SL, più che un vantaggio per dubbi aumenti di risorse, vede gli svantaggi dei costi di gestione, di incongruenza con la programmazione regionale. La programmazione negoziata dell’ER non è bottom up, ma mediata dalle reti istituzionali a regia regionale: governance multilivello (tra la dimensione europea, nazionale e locale). La Regione VE invece si adatta alle iniziative locali, limitandosi a cofinanziarle: governance multi- attore, dove la regione non entra nella rete, ma lascia fare ai sistemi locali. L'analisi di questa policy mette ancora una volta in luce le differenze tra i modi di regolazione.  Programmazione negoziata e cultura di regolazione. VE: è un mezzo per mediare il conflitto centro/periferia e contrattare con lo Stato una maggiore autonomia attraverso intese istituzionali di programma, insieme a maggiori risorse finanziarie (l’unica contrattazione che la regione fa, ancora oggi, è con lo stato centrale); ER: è una metodologia consolidata di concertazione per la costruzione di reti locali (enti locali e le parti sociali) volte a raggiungere un accordo su un progetto condiviso di sviluppo del territorio unitario e partecipato, e reti interregionali multilivello con un robusto coordinamento regionale. → Regionalizzazione e strumenti di governance per lo sviluppo locale (entrambi strumenti regionali di programmazione negoziata): 1. Programmi Speciali d’Area (PSA) in Emilia Romagna; 2. Intese Programmatiche d’Area (IPA) in Veneto. *Quando la Romania entra a far parte dell’UE la delocalizzazione si ferma e va in altri paesi* A partire dal 2000 l’aumento delle competenze (2001 riforma del titolo 5 della costituzione e le regioni sono soggetti abilitati anche di fare politiche di sviluppo territoriale), nascono nuovi strumenti di policy, come i patti territoriali. PROGRAMMI SPECIALI D’ AREA (PSA) DELL EMILIA-ROMAGNA. La legge 30 del 19 agosto del 1996 istituisce i programmi speciali d’area: nasce per dimostrare che l’ER ha un’altra concezione di programmazione negoziata. L’obiettivo è: - promuovere una policy di governo del territorio in rapporto con le nuove sfide della globalizzazione, accrescendo l’integrazione tra gli enti locali: punta sulla filiera istituzionale comune-provincia-regione. -avviare programmi di intervento orientati allo sviluppo locale di aree con situazioni problematiche, attraverso la partecipazione della regione alla concertazione tra le parti sociali, con una logica di coordinamento (non vuole tanto controllare, ma piuttosto garantire che la policy funzioni come si vuole). -La regione fornisce alla pubblica amministrazione locale-comunale gli strumenti operativi integrati di intervento territoriale e di raccordo tra pubblico e privato per un uso più integrato e più razionale delle risorse pubbliche: si creano contratti pubblico-privati e la regolazione pattizia ha bisogno di un’assistenza tecnica, allora la regione fornisce strumenti operativi per attivare gli enti locali, che possono non avere queste competenze. -garantire pari opportunità di accesso ai territori: riguarda tutti i territori, non solo quelli svantaggiati. Fasi di attuazione dei PSA. 1. definizione di un accordo di programma preliminare che permette l’attivazione di una conferenza di servizi preliminare (riunione dove tutti i soggetti entrano a farne parte e discutono del programma che si vuole realizzare). 2. raggiungimento di un accordo nella fase del recepimento del programma: si formalizza il programma. 3. definizione di un vero e proprio accordo finale per l’attuazione del programma operativo. La questione ‘’tempo’’ è una variabile decisiva per la riuscita del PSA: rispettare i tempi è serietà e assunzione di responsabilità da parte degli attori. La regione vi partecipa per regolare i progetti, non vuole fare politiche simboliche, ma vuole realmente attuarle. Il tempo è una delle condizioni più importanti: bisogna fare dei progetti credibili e attuabili e tutti sono responsabili, coloro che firmano il protocollo. L’individuazione univoca dei compiti e delle responsabilità di ognuno rende possibile evitare rimpalli e sovrapposizioni, garantendo tempi certi e sensibilmente ridotti per gli interventi programmati. 3 generazione di PSA: cicli di programmazione UE. La regione crea il programma operativo tenendo conto della programmazione locale. I fase di sperimentazione, 1997-1999, in cui vennero attivate 9 iniziative mirate ad incrementare la dotazione di infrastrutture produttive e strutture di accompagnamento al turismo dei centri urbani medio-grandi. II fase, attivata nel 2002 (aree Obiettivo 2), ha dato vita a 7 PSA dedicati alla riqualificazione delle aree urbane e al potenziamento della capacità attrattiva delle risorse naturali come i parchi e i fiumi.
 III fase, programmazione 2007-13, focalizza l’attenzione sulla strategia delle reti di città a partire da Parma (potenziamento del turismo congressuale) e Ferrara (valorizzazione del centro storico, riconosciuto come patrimonio dell’Unesco). IV fase, programmazione 2014-2020: integrazione urbano-rurale. -2021-2027: potenziamento e concezione delle aree vaste, in particolare legata al tema dello sviluppo urbano. PSA in Emilia-Romagna. -19 PSA, molti nelle città -19 conferenze di programma -180 enti locai: comuni, province, CM -600 interventi per obiettivi strategici condivisi, cofinanziati da privati. -La Regione ha investito 224 ML €, con un effetto moltiplicativo di 1 a 7 e un investimento totale pari a circa 1.635 ML € Uno strumento di programmazione negoziata per sviluppo locale. L’istituto del PSA è uno strumento di regolazione dello sviluppo locale autonomo e flessibile, svincolato dal tipo di aree più o meno in ritardo di sviluppo.
 È in grado di intervenire in sistemi locali complessi con una prospettiva integrata. Attraverso il metodo della programmazione negoziata “all’emiliana”, che coinvolge in prima istanza gli Enti locali e la Regione, i PSA «costituiscono uno strumento di policy per lo SL capace di far convergere su un unico progetto attori locali con risorse finanziarie pubbliche e private, in grado di operare in modo integrato, entro un quadro di programmazione regionale che garantisca l’unitarietà̀ degli interventi (plurifondo) → PSA: Reti di governance preordinate con leadership regionale. INTESE PROGRAMMATICHE D’AREA IN VENETO (IPA) IN VENETO. La legge 35 del 2001 ‘’nuove norme sulla programmazione’’: istituisce le IPA come una forma di programmazione decentrata in relazione con il piano di attuazione della spesa (PAS). Con decreto della giunta regionale 2796/2006 la giunta regionale ha poi inserito lo strumento dell’IPA all’interno della programmazione regionale, defindendone le finalità, i soggetti che ne possono fare parte, l’ambito territoriale, le funzioni, le modalità di istituzione, i contenuti dei documenti programmatici. Con il decreto della giunta regionale 3517/2007 i patti territoriali, già operativi sulla base della legge 13/1999, sono stati trasformati in IPA. IPA E PROGRAMMAZIONE DECENTRATA DELLO SVILUPPO. La programmazione dei fondi strutturali 2007-2013 non prevede più la zonizzazione obiettivo 2 con aree obiettivo, ma dà la possibilità a tutto il territorio regionale di accedere ai fondi (FESR), con provvedimenti successivi (decreti della giunta regionale 3323/2008, 3698/2009, 2620/2010)) sono state riconosciute come IPA altre 2 nuove realtà territoriali e ridefinite le composizioni di IPA già costituite. Dal 2008 al 2015 sono state riconosciute altre IPA per un totale di 25 IPA. Legge 3 del 2020: le IPA sono state rilanciate per la programmazione decentrata di area omogenea, e da qui possono acquisire personalità giuridica ovvero si possono trasformare in fondazioni o associazioni e così possono gestire i fondi dei progetti. La regione non fa parte della IPA, la regione si limita a finanziarle con la legge 13 dei patti territoriali. Ci sono decreti regionali che in modo incrementale hanno modificato le IPA. 25 IPA DEL VENETO. Europeizzazione. Dalla programmazione 2014-2021 dato che i paesi dell’est Europa fanno fatica a regionalizzarsi, alla fine l’Ue ha scelto di puntare sulle città e non tanto sulle regioni come faceva prima. La città non è il comune. Il comune è un ente pubblico che ha confini amministrativi certi, la città invece è una rete di servizi che spesso esce fuori da confini amministrativi comunali. La città è fatta dalla rete urbana di servizi. La città generalmente è più grande dal comune: è fatta dalla popolazione residente nel comune, ma anche dalla popolazione presente (pendolari, turisti, eccetera). Puntare culla città è un cambiamento recente. Il cambiamento dell’Ue è fatto sui fondi strutturali rivolti alla coesione economica-sociale (si chiamano politiche di coesione), perché fino al 2013 erano rivolte alle regioni in ritardo di sviluppo (politiche redistributive che cercano di aiutare le regioni in ritardo di sviluppo ad allinearsi con la media europea, sono le regioni con obiettivo ‘’convergenza’’ verso la media europea). Ora emerge l’esigenza di regolare gli stili amministrativi ai modelli europei: l’Ue richiede alle regioni un documento di programmazione che si chiama POR per avere i contributi, oltre alle regole per poter accedere ai fondi (bisogna seguire un certo criterio predefinito per investire i fondi, non spenderli a pioggia, cioè rendicontazione dei fondi): questo cambia lo stile amministrativo di chi non faceva queste pratiche sul territorio. Il processo di europeizzazione è il processo di apprendimento di questi nuovi modi di fare. Definizione di europeizzazione: «processo di costruzione, diffusione e istituzionalizzazione di regole formali e informali, procedure, paradigmi di policy, stili, ‘modi di fare’, sistemi di credenze condivisi e norme che sono state definite e consolidate nel processo decisionale europeo e, poi, incorporate nelle narrative, nelle identità, nelle strutture politiche e nelle policies nazionali e locali». «è un processo adattivo incrementale che ri-orienta e dà forma alla politica al punto che le dinamiche politiche ed economiche della Comunità europea divengono parte della logica organizzativa della politica e del policy-making nazionale» . Fase storica della costruzione dello spazio comune europeo. Ue nasce come progetto di pace dopo le due guerre mondiali. La caratteristica dell’UE è che non c’è uno stato che domina sugli altri, avviene attraverso accordi e gradualmente nel tempo anche con grandi difficoltà. L’Ue è una rete strutturata, è fatta da accordi e trattati internazionali. Il processo è fatto da due dimensioni: 1. un processo dall’alto verso il basso di apprendimento istituzionale e dell’adattamento: a partire dalle istituzioni europee che danno delle indicazioni alle regioni e i cittadini devono apprendere e mettere in pratica. In seguito al mutamento delle policies introdotte dall’UE, si tende ad individuare e proporre una convergenza soft verso un «modello» comune e condiviso di governance europea “a rete”, che si configura come il risultato dell’interazione dei diversi sistemi locali, regionali e nazionali, della loro capacità di partecipare all’individuazione di modelli comuni e convergenti, entrando in relazione con le istituzioni comunitarie. 2. un processo dal basso di partecipazione dei cittadini e delle città e delle regioni alla costruzione dello spazio europeo. Ci sono dei luoghi come il comitato delle regioni che sono centrali per questo processo. Noi possiamo fare la nostra parte e anche le università lo possono fare. I comuni, gli stati e tutti possono orientare verso l’europeizzazione per formare sull’Ue. Ma tutte le aree hanno differenze e modi diversi di affrontarlo. Impatto dell’europeizzazione. Riguarda sia il livello nazionale sia i livelli regionale e locale, e sta provocando cambiamenti significativi nei processi di policy making, nella struttura interna delle istituzioni e nei loro reciproci rapporti funzionali. Questi cambiamenti ancora non sono stati codificati nel diritto comunitario, perché è una fase di transizione. Nel diritto europeo non ci sono le regioni, ci sono solo delle politiche dell’UE, ma non se ne parla nel diritto comunitario. Questi cambiamenti sono tuttavia di estrema rilevanza:
 -sistema di rappresentanza degli interessi e sistemi di partito 
 -capacità amministrativa della burocrazia nazionale e regionale e nuove capacità richieste per pianificazione, coordinamento, valutazione e accountability. Le spinte adattive saranno tanto maggiori, quanto maggiore sarà l’incongruenza cioè, la diversità della policy nazionale (o regionale) rispetto a quella europea: impatto sui modi di regolazione. Le politiche dell’Ue però indicano l’importanza dei territori, delle regioni e delle città europee: noi dobbiamo analizzare il sistema di rappresentanza degli interessi e dei sistemi di partito (famiglie di partito), ma ancora la campagna elettorale si fa su politiche nazionali anche a livello europeo. Non c’è un’europeizzazione dei partiti, perché l’arena politica prevalente è ancora quella nazionale (vincono patiti a livello europeo sulla base della campagna e delle politiche nazionali). I documenti di programmazione sono affidati alla pubblica amministrazione regionale e quindi servono nuove competenze a livello di pubblica amministrazione regionale. Studiare l’europeizzazione attraverso le politiche: studiamo il processo, come si diventa europei, come impariamo e ci adattiamo. Lo impariamo attraverso le politiche, perché le regioni e i governi si devono adattare a quello che l’UE chiede. Gli studi hanno messo in luce un fatto: le spinte adattive all’Ue (adattamento) sono tanto più forti quanto maggiore è l’incongruenza, la diversità della policy nazionale rispetto a quella europea: non si parte tutti dallo stesso livello, tutti hanno modalità diverse. È ovvio che l’ER si europeizzerà molto più velocemente, mentre il Veneto farà più fatica. La sfida dell’UE è più forte tanto più si è diversi. Questo spiega l’antieuropeismo della Lega: si crea perché l’europeizzazione è uno shock, l’UE costringe a cambiare il modo di regolazione in Veneto, se no non si prendono i soldi. L’euro è uno standard europeo mette in difficoltà le piccole imprese, che non erano abituare a innovare, erano abituate a guadagnare grazie al vantaggio competitivo della lira rispetto al marco (deriva dalla svalutazione della lira), con l’euro non si può fare più. Ma per l’Italia l’europeizzazione è un processo irreversibile. La Lega, cioè i sovranisti, sono contro l’Europa. Bisogna cambiare stile amministrativo e regolazione: è uno shock. Europeizzazione delle regioni italiane. Le regioni fanno un ruolo di intermediario tra livello locale e livello europeo facendo rilevare una inedita domanda politica di coordinamento regionale, insieme alla evidente difficoltà delle Regioni di assicurare un’efficace azione di coordinamento a sostegno dello sviluppo locale: i fondi di sviluppo locale arrivano alla regione dall’Ue se ha fato un buon Por, la regione decide come spendere i fondi sulla base di alcuni parametri dell’Ue. Il POR deve essere coproggettato: concordare con il territorio e con la rete sociale come spendere i fondi. Le regioni acquistano un ruolo importante in questo senso. Cresce una domanda politica di coordinamento regionale: i comuni chiedono alla regione come sta facendo il documento di programmazione perché deve essere deciso assieme, per alcuni contesti questa è una rivoluzione. La difficoltà è più alta, tanto più la regolazione della regione è estranea alla programmazione, come nel Veneto, hanno finora confidato sui meccanismi di regolazione comunitaria e del mercato. Al contrario, Regioni come l’Emilia-Romagna che invece hanno svolto una funzione di coordinamento politico dei processi di sviluppo, incontrano minori difficoltà. L’adattamento alla sfida europea incide, quindi, anche sul modo di regolazione dello sviluppo locale e sul diverso ruolo attribuito alle Regioni nei vari contesti produttivi. L’Ue è un fattore esterno di innovazione del modo di regolazione. EUROPEIZZAZIONE COME FATTORE ESTERNO DI INNOVAZIONE DEL MODO DI REGOLAZIONE REGIONALE. Analizzare le trasformazioni indotte dalla pressione dell’UE su: -struttura organizzativa dell’Ente Regione: sono stati creati nuovi uffici? -stile amministrativo o del policy making regionale -sistema politico regionale: euroscettico o no? Tutto è correlato al grado di attivismo regionale nel contesto europeo (partecipazione): capacità della regione di partecipare al processo di costruzione dello spazio europeo. Questo consente di cogliere efficacemente le diverse concezioni e i diversi stili di rappresentanza degli interessi regionali e la loro coerenza con i rispettivi modi di regolazione dello sviluppo locale EUROPEIZZAZIONE E REGIONALIZZAZIONE (centralità delle regioni). Nascono nuovi uffici. Politiche integrate: principio di partenariato, addizionalità (i fondi europei sono aggiunti come cofinanziamento ai fondi regionali), programmazione, valutazione e coordinamento (non lo fanno tutte le regioni). Regionalizzazione del sistema, delle piccole imprese, dei sindacati, di confindustria e delle altre associazioni di categoria (rappresentazione degli interessi a livello comunitario), vuol dire europeizzazione delle associazioni di rappresentanza (non solo dei politici). Quandosi attivano i tavoli la regione deve essere attiva ai tavoli di confronto. Rappresentare significa essere al corrente delle trattative che si stanno svolgendo a Bruxelles e portare i propri interessi sul tavolo, rappresentarli appunto. ATTIVISMO REGIONALE E LA RAPPRESENTANZA A LIVELLO UE DEGLI INTERESSI SUBNAZIONALI. Nel corso degli ultimi decenni le Regioni europee hanno sviluppato vere e proprie strategie di lobbying verso il livello politico europeo. Attivazione regionale: «L’insieme delle azioni, iniziative, strategie e scelte intraprese dalle élite politiche e amministrative di una Regione per essere presenti come soggetto attivo nelle arene comunitarie, per interagire direttamente con le istituzioni europee». La dimensione dell’attivazione regionale nell’UE come indicatore di europeizzazione: fino a che punto le élite, le strutture organizzative, le identità politiche regionali si siano modificate e adattate per utilizzare tali canali di accesso alle istituzioni UE e all’arena politica europea. Il lobbyng si fa con l’attivismo regionale: la regione deve fare rappresentanza come sistema regionale, andare in Ue con le imprese, non solo come ‘’presidente della regione’’ singolo. Deve ragionare in termini di sistema regionale. FORME DI ATTIVAZIONE REGIONALE VERSO L’UE. VENETO E EMILIA-ROMAGNA A CONFRONTO, ATTIVAZIONE SUI CANALI. Attraverso interviste è stato possibile capire che tipo di importanza viene data dalle regioni ai singoli canali di attivazione.
 Canali indiretti: l’Emilia-Romagna è molto attiva sul fronte delle conferenze istituzionali (il presidente Vasco Errani è stato a capo della Conferenza dei Presidenti delle Regioni). L’ER mostra un maggiore interesse per il monitoraggio degli atti comunitari in via di approvazione, utilizzando i canali ad accesso mediato. Il Veneto mostra invece meno interesse per la fase ascendente del finanziamenti. La sede si dimostra molto dinamica per tutto ciò che riguarda i finanziamenti comunitari e la promozione della partecipazione ai bandi. È molto attiva nella promozione della partecipazione regionale ai programmi comunitari, in collaborazione con Unioncamere Veneto. La sua competenza si basa anche su conoscenze e capacità tecniche di consulenti esterni, che però lavorano per l’ente regionale solo in forma provvisoria: dispersione delle competenze e scarso apprendimento istituzionale. RETE DI PARTETARIATO E PROMOZIONE DELL’UE. Rete di partenariato prevalente: il VE privilegia le associazioni di categoria, ha “delegato” a Unioncamere la gestione di alcune attività prioritarie legate all’UE, mentre le categorie economiche hanno un ruolo fondamentale nella promozione e nell’informazione sui finanziamenti UE. ER i principali partner sono costituiti dagli enti pubblici territoriali, Province, città e piccoli comuni, ERVET: una filiera di istituzioni pubbliche multilivello che collega capillarmente il territorio regionale con le istituzioni europee sia nella fase ascendente che in quella discendente. Consiglio regionale: in ER l’assemblea legislativa ha assunto un ruolo di riferimento presso gli Enti locali emiliani in tema di promozione dei valori europei e partecipazione dei cittadini al processo di integrazione europea. in VE invece il Consiglio regionale si limita ad esercitare le sue prerogative nella fase ascendente e discendente del diritto comunitario. STILI DI RAPPRESENTANZA E CAPACITÀ DI NETWORKING: VENETO. Il VE da precedenza ai canali informali, singoli, diretti e spesso basati sulle reti di conoscenza personali. L’attività di lobbying è finalizzata a stabilire contatti che mirano ad aumentare l’introito regionale dall’UE. Questo sistema ha permesso al VE di essere una delle Regioni italiane più capaci di accedere a finanziamenti UE. Scarso è però l’investimento della Regione nella comunicazione della propria attività istituzionale in UE; informazione e promozione dell’UE: i tanti progetti europei mancando di un effettivo coordinamento regionale, rischiano così di non produrre alcun apprendimento istituzionale duraturo. Assenza di una banca dati regionale sui progetti europei; debole e discontinuo input politico che non garantisce risorse per la valutazione. La Regione VE rinuncia così ad un ruolo di “governo della governance”, come coordinatore delle reti di governance regionale verso l’UE. STILI DI RAPPRESENTANZA E CAPACITÀ DI NETWORKING: EMILIA-ROMAGNA. La Regione ER ha realizzato modello organizzativo opposto: l’ufficio a Bruxelles rappresenta un mezzo di collegamento tra gli attori della governance regionale (comuni, città, enti territoriali) e l’arena politica comunitaria. Il modo di fare lobbying ER non si concentra soltanto su obiettivi finanziari immediati, ma tende a fondarsi su una strategia regionale più di lungo raggio, tramite diverse modalità (canali singoli, collettivi, diretti e indiretti). Si conferma così il ruolo dell’ente pubblico regionale come punto di riferimento, in un’ottica politica interventista, tipica del modo di regolazione delle amministrazioni rosse. MODI DI REGOLAZIONE E BENI COLLETTIVI PER LO SVILUPPO. Nel modo di regolazione ER il concetto di «servizio pubblico» rimanda infatti al ruolo delle istituzioni e alla fornitura di servizi collettivi di cui può usufruire l’intera comunità regionale. Si tratta cioè di risorse collettive, pensate per rispondere ad un interesse generale del territorio e della ‘comunità politica’. Nel modo di regolazione VE, al contrario, i beni collettivi sono concepiti piuttosto come dei ‘beni comuni’, o in certi casi come “beni di club”, rivolti all’interesse di una parte della comunità, quella socio-economica, considerata come rappresentativa della totalità degli interessi regionali e territoriali: gli altri soggetti (es. Università), non vengono altrettanto valorizzati, se non per gli aspetti di innovazione tecnologica richiesti da alcuni specifici progetti, in funzione economica. Grado di attivismo di VE ed ER e utilizzo dei canali di attivazione. La consultazione stato-regioni è usata poco dal Veneto (usa poco i canali istituzionali), mentre privilegia gli europarlamentari e la sede a Bruxelles, ma l’obiettivo del Veneto è sempre portare a casa soldi per distribuirli. Non c’è logica dell’apprendimento e della partecipazione e integrazione, ma è vista come una possibilità di aumentare i finanziamenti. Modo di intendere l’europeizzazione molto strumentale. In Veneto c’è sempre un unico documento, ma si continua a ragionare per settori di policy, distinti, ad esempio lo sviluppo urbano e rurale. In Veneto ci sono forze antieuropeiste che danno la colpa all’Ue. Si pensa che la politica arriva sempre dopo l’economia. l’ER fa il contrario: anche lei ha bisogno dei fondi europei, ma con un altro spirito, vuole costruire e consolidare la rete. Lo stile amministrativo rosso dell’ER presenta una maggiore coerenza con la struttura di policy comunitaria: rendendo più facile l’europeizzazione. In ER si fa un solo documento di programmazione dove c’è dentro tutto, tutti i settori, ogni sette anni. EUROPEIZZAZIONE E MODI DI REGOLAZIONE. Lo stile amministrativo “rosso” dell’ER (programmazione, modello istituzionale integrativo), presenta una maggiore coerenza (goodness of fit) con le strutture di policy comunitarie, rendendo più facile l’adattamento istituzionale e il grado di europeizzazione della Regione. Al contrario, nel caso del VE «bianco» lo stile amministrativo non interventista e il prevalere di un modello istituzionale aggregativo non risultano essere coerenti con lo stile di policy europeo, e possono costituire anche un elemento di freno all’europeizzazione.
 Tuttavia l’europeizzazione non costituisce uno standard che tutte le Regioni devono raggiungere allo stesso modo: è un percorso non univoco di mutamento istituzionale. Proprio per questo, la comparazione per contesti e l’approccio dei modi di regolazione possono fornire importanti elementi di analisi. La logica degli interventi europei, incentrata su programmazione, integrazione, concertazione e valutazione – stenta a farsi strada in quei contesti regionali che presentano modi di regolazione non coerenti (misfit) con lo stile di governance europeo. Non può meravigliare, quindi, il fatto che le due Regioni presentino capacità di risposta diverse alle medesime sfide dell’europeizzazione:
 - VE: un contesto caratterizzato da un basso attivismo dell’attore politico regionale nella regolazione dello sviluppo locale; “sviluppo non guidato”, affidato all’autoregolazione comunitaria;
 - ER: un elevato attivismo regionale nei processi di sviluppo locale; “sviluppo guidato”, sostenuto dalla capacità dell’attore politico locale e regionale di regolare i processi di sviluppo . EUROPEIZZAZIONE E MODI DI REGOLAZIONE: VENETO. Nel caso del VE il processo di europeizzazione sta scuotendo dalle fondamenta il modo di regolazione che ha caratterizzato il modo di sviluppo regionale: l’attività di programmazione, ridotta ad una pura politica simbolica, oggi è stata riavviata sulla spinta delle politiche europee (L.r. 35/2001), gli unici documenti operanti nell’ambito dello sviluppo locale siano costituiti dai documenti richiesti dall’UE, a cui devono raccordarsi anche le IPA. Proprio le attività di programmazione, di valutazione e monitoraggio delle policies regionali multilivello costituiscono, nel caso VE, uno dei principali terreni su cui l’impatto dell’europeizzazione si può rilevare in modo più chiaro. EUROPEIZZAZIONE E MODI DI REGOLAZIONE: EMILIA-ROMAGNA Nel caso ER la programmazione regionale si è evoluta adattandosi quasi “naturalmente” alle direttive europee, senza per questo perdere continuità con la forte tradizione di programmazione consolidata a livello regionale. L’attività di programmazione regionale è stata raccordata con le direttive europee, al punto che oggi viene prodotto dalla Regione un unico documento di programmazione, che sostituisce il PRS e il POR unificandoli, con esplicito riferimento alla rete governance europea multilivello di cui la Regione costituisce un nodo strategico rilevante per lo sviluppo del territorio. Questo anche grazie a quanto previsto dal nuovo Statuto regionale, approvato nel 2005, e al raccordo con la riforma del sistema amministrativo regionale e locale (L.r. 6/2004, evoluta nella l.r. 10/2008). UE COME FATTORE ESTERNO DI INNOVAZIONE. Il processo di europeizzazione può essere analizzato, in entrambi i casi, come fattore esterno di innovazione istituzionale: un processo che sta incidendo (lentamente ma inesorabilmente) sulla prassi amministrativa regionale, inducendo cambiamenti che: - rafforzano il modo di regolazione dell’ER,
 - risultano inediti per lo stile amministrativo del VE che, dalla seconda metà degli anni Novanta, è stato sottoposto a notevoli spinte per il cambiamento, recepite solo in parte nel nuovo Statuto regionale, varato con L.r. statutaria 17 aprile 2012, n.1. UE NELLO STATUTO REGIONALE DEL VENETO. Art.1 il riferimento all’UE:
 1. Il Veneto è Regione autonoma, secondo il presente Statuto, in armonia con la Costituzione della Repubblica e con i principi dell’ordinamento dell’UE. 2. Il Veneto è costituito dal popolo veneto e dai territori delle province di Belluno, Padova, Rovigo, Treviso, Venezia , Verona e Vicenza. [...] (art. 1, com 1, 2). Art. 4 La Regione del Veneto opera per la piena affermazione istituzionale, politica e sociale dell’Unione europea. Art. 5 La Regione opera per garantire e rendere effettivi i diritti inviolabili, i doveri e le libertà fondamentali dell’uomo, riconosciuti dalla Costituzione e dalle fonti del diritto europeo e internazionale [... ] (art.5, comma 1). L’art. 18, comma 1, fa esplicito riferimento alla partecipazione della Regione alla fase ascendente e discendente della formazione degli atti normativi comunitari. UE NELLO STATUTO REGIONALE DELL’EMILIA-ROMAGNA. Art.1 Elementi costitutivi della Regione:
 1. L’ER, Regione autonoma entro l’unità della Repubblica, secondo le norme della Costituzione, dell’Unione Europea e del presente Statuto, persegue l’autogoverno e promuove lo sviluppo della comunità regionale, concorrendo al rinnovamento della società e dello Stato.
 2. La Regione ER comprende le comunità locali, le istituzioni e i territori delle province di Bologna, Ferrara, Forlì-Cesena, Modena, Parma, Piacenza, Ravenna, Reggio nell’Emilia, Rimini. [...]. (art. 1, com 1;2). Ma sono soprattutto gli art.11 e 12 che dedicano ampio spazio alla “partecipazione della Regione Emilia Romagna alla formazione e all’attuazione del diritto comunitario” (anticipate già dalla L.r. 6/2004), che prevede annualmente la formulazione di una legge regionale comunitaria per favorire la tempestiva attuazione delle disposizioni europee. CONFRONTO DEGLI STATUTI REGIONALI. Una profonda differenza nel modo di definire l’autonomia regionale:
 ER: si dichiara parte integrante del sistema politico nazionale ed europeo, e quindi parte attiva del processo di costruzione dell’UE; Veneto: la Lega di Salvini (non più Lega Nord, si trasforma in partito nazionale) mantiene la sua forza nell’area della campagna urbanizzata, ma non nell’area metropolitana di PD e VE, e si estende anche al Sud (a differenza della Lega di Bossi). La Lega di Zaia mantiene un’anima “democristiana” antistatalista (centro/periferia, rappresenta ancora l’autonomia regionale del Veneto) e non sovranista; Emilia-Romagna: il PD mantiene le sue posizioni nelle aree urbane- metropolitane lungo la Via Emilia, ma perde posizioni in periferia (in ER non c’è frammentazione amministrativa come in VE, perché i comuni sono più grandi e questi sono del PD). Si conferma come forza di “buon governo”. Nei piccoli comuni, dove la dimensione identitaria è più forte, è più probabile che vinca la Lega. Ciò è importante perché implica che i comuni centrino con l’eredità e la cultura di governo locale. Cambiare colore politico non significa cambiare modo di regolazione, perché ci sono delle inerzie al cambiamento causate anche dalla popolazione che è tendenzialmente molto conservatrice. La questione urbano-rurale diventa di importanza crescente: la fusione di comuni per esempio impatta sui modi di regolazione proprio perché i comuni o le aggregazioni di comuni producono servizi ovvero beni collettivi per lo sviluppo, quindi incidono sul modo di regolazione. Il governo locale non è secondario come si è pensato per molti anni! Governance locale e sviluppo urbano per le city regions in Veneto e Emilia-Romagna. In Veneto c’è sempre stata una forte frattura tra città e campagna.  Eredità sul piano politico-amministrativo. L’eredità più forte riguarda lo stile amministrativo interventista/non interventista e il modello istituzionale integrativo/aggregativo. Lo stile amministrativo è una eredità path dependent, perché appunto dipende dal contesto e dalla storia passata.   Le riforme istituzionali (Bassanini, Titolo V Cost., Legge Delrio) e le politiche dell’UE che hanno potenziato i governi locali e regionali, hanno avuto impatti diversi nelle regioni e confermano la diversa capacità di risposta dei due modi di regolazione dello sviluppo regionale, rilevabile: -nei documenti di programmazione dei Fondi strutturali (POR FESR e POR FSE): capacità di europeizzazione delle due regioni; -nella concezione di federalismo, riscontrabile anche nelle recenti richieste di regionalismo differenziato. Queste differenze si possono spiegare solo con l’eredità e le prassi amministrative consolidate.  Eredità nel modo di regolazione dello sviluppo. -tipi di “beni collettivi” per lo sviluppo erogati (tipologia): beni di club in VE, bene pubblico in ER. -cultura amministrativa e di governo locale. -città/campagna e nuovo spazio urbano. -idea di federalismo e rapporto centro/periferia. -diversa capacità di risposta dei modi di regolazione alle sfide: europeizzazione, globalizzazione, sostenibilità. Lezione 13. MODI DI REGOLAZIONE E POLITICHE PER LA PRODUZIONE DI BENI COLLETTIVI PER LO SVILUPPO LOCALE. Andiamo oltre la comparazione di due casi regionali.  Qual è il contributo che l’approccio dei Modi di regolazione può dare all’analisi delle politiche di sviluppo locale? Facendo un ragionamento più generale (dall’analisi di caso a una tipologia più generale) rispetto a ciò che è stato ricavato dalla comparazione di questi due casi studio (con i casi studio non si possono mai costruire teorie generali, perché c’è una grande variabilità da contesto a contesto), si può ragionare per costruzioni idealtipiche: l’analisi del contesto è la nostra variabile indipendente. Dalla comparazione, in termini di apprendimento, abbiamo capito che la diversità tra i modi di regolazione si può studiare attraverso il diverso modo di produrre beni collettivi per lo sviluppo.  Modi di regolazione: modi diversi di produrre beni collettivi per lo sviluppo: tipi diversi di beni collettivi. Beni collettivi per la competitività e sviluppo locale. • la letteratura sullo sviluppo locale concorda nel sottolineare la stretta relazione esistente tra la produzione di beni collettivi per la competitività (beni e servizi) e la qualità dello sviluppo di un territorio: la qualità dello sviluppo dipende dunque dalla qualità di beni e servizi presenti nel territorio; • si tratta di beni e servizi riguardanti la qualità sociale dei contesti entro cui le aziende operano e delle relazioni umane che servono a riprodurre una risorsa essenziale per lo sviluppo locale: il capitale sociale (risorse di fiducia, lealtà e valori condivisi). Dunque se ci sono servizi e beni di qualità, aumenta anche il capitale sociale, perché c’è una relazione stretta tra questo e la cultura civica.  Quale relazione tra la produzione di beni collettivi per lo sviluppo locale, le politiche di sviluppo territoriale, gli stili amministrativi e i contesti istituzionali in cui vengono prodotti? Il nostro obiettivo è quello di proporre una tipologia utile per l’analisi e la valutazione dell’impatto di queste politiche sulle dinamiche di sviluppo territoriale, attraverso la produzione di BCS (beni collettivi per lo sviluppo).  La letteratura sul concetto di bene collettivo. Di questi tema si sono occupati soprattutto gli economisti (tutti premi Nobel): • Samuelson (1954): bene pubblico (inclusivo) – bene privato (esclusivo); • Buchanan (1965): bene di club; • V. Ostrom, E. Ostrom (1977): sottraibilità o rivalità. Bene pubblico • assenza di rivalità nel consumo, che non implica l'impossibilità per un altro di consumarlo: c’è molto di quel bene e non c’è rivalità per usarlo perché appartiene a tutta la collettività;  • non escludibilità nel consumo: una volta che il bene pubblico è prodotto, è impossibile impedirne la fruizione ai soggetti che non hanno pagato per averlo; • accessibile erga omnes e pari opportunità; • diritto di cittadinanza sociale; • non produce profitto privato, ma un aumento di capitale sociale (aumento di fiducia verso l’attore pubblico che lo ha prodotto).  Beni di club Il concetto di bene di club trova applicazione per esempio nell’ambito degli studi sulla produzione di servizi reali alle imprese localizzate in dati SPL (nel caso del Veneto le imprese per accedere ai servizi devono accedere alle associazioni di categoria che sono dei club). È una categoria di beni collettivi, condivisi da una cerchia ristretta di individui, o di imprese, e quindi da una rete chiusa di soggetti (club, non erga omnes). La condizione di successo dei beni di club è quella di trovare una dimensione ottimale del club per ottimizzare la distribuzione dei costi di gestione, evitando per esempio il sovraffollamento che genera rivalità. Il modo in cui vengono definite le regole che consentono l’accesso o meno al club sono però di rilevanza decisiva (serve sempre un certo bilanciamento tra la qualità del servizio e i criteri di accesso). Bene comune. Al contrario dei beni di club, i beni comuni (commons) sono altamente disponibili (non escludibili), ma il consumo da parte di un attore ne preclude il consumo da parte di altri rivali a differenza del bene pubblico che non è escludente (es. sistemi di irrigazione: c’è un tot. di acqua che è un bene comune il cui uso però va regolato). Le ricerche di E. Ostrom (2006) sottolineano in particolare la rilevanza delle reti di governance nella produzione e riproduzione dei beni comuni, in cui la capacità di autoregolazione comunitaria può diventare decisiva (es. regole alpine per la gestione dei boschi: si tratta di una forma di autoregolazione comunitaria per regolare un bene comune). Problemi aperti: bene pubblico - bene privato. Questa classificazione non considera chi e come produce i beni collettivi. Tuttavia, il carattere di bene “pubblico” o “privato” non dipende da caratteristiche intrinseche del “bene” (o servizio) in sé (es. l’acqua può anche essere un bene privato), ma dall’insieme di norme e aspettative che ne regolano la sua produzione e il suo uso (il tema è sempre la regolazione!). La dimensione della regolazione nella produzione dei beni o servizi per lo sviluppo è quindi una dimensione di rilevanza cruciale, che però queste classificazioni non considerano.  Rilevanza della regolazione comunitaria. Nel caso dei beni collettivi come beni comuni, gli studi di E. Ostrom (2006) dimostrano come le forme della regolazione acquistano una rilevanza cruciale: oltre allo Stato e al Mercato, va considerata anche la dimensione della Comunità, non più intesa in senso tradizionale (es. la famiglia o il tessuto associativo della subcultura politica), ma come capacità di definire un “senso in comune” (comunità di pratica, polity). Il concetto di bene comune, così ridefinito, mette al centro dell’attenzione la dimensione della governance, ovvero del come e del chi produce i beni collettivi per lo sviluppo (e come li regola).  Neo - istituzionalismo: bene relazionale. Il bene collettivo è un bene di tipo relazionale: rapporti sociali e istituzioni che consentono di stabilire i canali di riconoscimento, reciprocità, lealtà e trasparenza che permettono la diffusione della fiducia tra gli attori e la trasmissione delle informazioni e delle conoscenze necessarie ad orientare le scelte individuali e collettive, abbattendo sistematicamente i costi di transazione e di coordinamento. È un bene costituito in buona misura da risorse cognitive e normative che generano “comunità di pratica” e senso comune, come i linguaggi condivisi specializzati, la conoscenza tacita. Risultati sul piano teorico. È mancata finora una riflessione sistematica dal punto di vista politologico sulla relazione tra questi beni collettivi, i processi di policy making e i contesti istituzionali che li hanno prodotti e li producono. Con riferimento all’approccio dei modi di regolazione dello sviluppo locale, applicato all’analisi delle politiche pubbliche per lo sviluppo locale in chiave comparata, ho cercato di elaborare la costruzione di una tipologia empiricamente fondata, che permetta di distinguere diversi tipi di beni collettivi per la competitività in relazione ai diversi modi di regolazione che caratterizzano un dato contesto istituzionale. L’approccio dei modi di regolazione: idealtipi di regolazione.  governance dello sviluppo locale nel far fronte alle sfide evolutive sembra produrre l’effetto di incrementare la competizione tra sistemi regionali. Tesi: i modi di regolazione, attraverso cui i territori sono in grado di produrre beni collettivi locali per la competitività, sono destinati a diventare di importanza strategica decisiva, poiché questo costituirà, in futuro, un elemento cruciale di vantaggio competitivo per lo sviluppo di un territorio. Lezione 14. LA SFIDA DELLA GLOBALIZZAZIONE E DELLA SOSTENIBILITÀ AI MODI DI REGOLAZIONE DELLO SVILUPPO LOCALE. Come cambiano i modi di regolazione dello sviluppo?Partendo dai casi studio analizzati sappiamo che le forme istituzionali in cui si manifesta l’economia locale di VE e ER sono correlate a: -matrici culturali e organizzative delle due culture politiche locali b/r. -stile di governo locale dell’economia (non interventista/interventista). -tipi di politiche pubbliche prevalenti (distributive/redistributive). -evoluzione della struttura economica locale (reti più chiuse/lunghe aperte). -costruzione sociale del territorio (frattura-saldatura tra città/ campagna). -diversità del modello istituzionale aggregativo/integrativo. Le differenze incideranno nella diversa capacità delle due Regioni di far fronte alle sfide della globalizzazione economica e della sostenibilità dello sviluppo utilizzando la leva della regolazione politica. Le sfide della globalizzazione al governo dei territori: dal “locale” al “glocale”: una nuova cosmologia. Con le nuove tecnologie, un mondo organizzato su un asse temporale tendente a zero, con lo spazio vissuto come fosse un punto, è un mondo radicalmente diverso da quello del passato: cambiano le coordinate spazio-tempo: nuova cosmologia. La mobilità estrema riduce notevolmente il nostro tempo e spazio di fruizione e di percorrimento. In questa nuova logica anche il concetto del territorio cambia radicalmente: la prossimità non più (solo) in senso fisico ma in senso funzionale (relazioni, pratiche). In un mondo glocal ogni “locale” può comunicare e connettersi con ogni altro “locale” senza alcun pregiudizio di continuità o contiguità spaziale solo se è tecnologicamente connesso: nasce il bisogno/diritto di connessione alla “rete”. Effetti prodotti: nuovi conflitti e gap da governare:   stanzialità vs mobilità  luoghi vs flussi rigidità vs flessibilità residenti vs utenti non residenti Le nostre istituzioni politiche non sono adatte per governare “territori mobili” perché concepite per governare a stanzialità! Economie in cerca di città. In un contesto glocal la competizione è fra territori. I flussi cercano luoghi su cui atterrare: servono politiche per aumentare l’attrattività dei territori e valorizzare il sistema produttivo locale/ regionale, rivitalizzando le funzioni urbane. “In Italia non ci sono più città ma aree urbane in attesa di diventare città” (Calafati 2009): per un nuovo Rinascimento: serve costruire nuovi spazi urbani integrati, cioè ricomporre la frattura urbano/rurale. Globalizzazione e sviluppo g-locale. Prospettiva g-locale: apertura dei SPL verso le reti globali. Valorizzare la specificità locale integrandola nel sistema globale richiede: una riforma istituzionale in grado di aumentare la flessibilità necessaria in un sistema complesso (nuovo spazio urbano funzionale); la capacità del governo locale di intervenire implementando network policies, in grado di costruire/rafforzare reti a sostegno dello SL in una prospettiva globale, attraverso servizi fondamentali per un’area ad economia diffusa: trasporti, infrastrutture, formazione, banda ultra larga, reti informative, ma anche politiche di armonizzazione del sistema di credito, lavoratori, fornitori, clienti, distributori. enti locali: sistema locale integrato I governi locali sono chiamati a mediare con il governo centrale-UE. A questa sfida le due regioni possono rispondere in modo diverso: ER: può contare su una consolidata cultura di governo locale di tipo interventista (servizi reali), puntando anche sul nuovo welfare come risorsa di SL (immigrazione): bene pubblico; VE: si è lasciato spazio alle reti locali dell'associazionismo di categoria e del volontariato che hanno garantito il loro appoggio nell’ambito dei servizi (beni di club o beni comuni). I governi locali hanno giocato un ruolo marginale e devono ora acquisire un ruolo proattivo e legittimazione, partendo dallo svantaggio lasciato in eredità dalle gravi carenze di governabilità del “localismo antistatalista”. Manca una cultura di regolazione politica. Costruire nuovi spazi urbani “a rete”. La costruzione di nuovi spazi urbani integrati richiede un profondo cambiamento delle forme di regolazione politica, a partire da quelle istituzioni di governo, come i piccoli Comuni, che presentano una scarsa “capacità istituzione” rispetto ai nuovi obiettivi di sviluppo. Per rafforzare i “sistemi territoriali” che devono essere in grado di attrarre risorse (umane, finanziarie, culturali...) bisogna potenziare le funzioni (es. mobilità e della logistica) che consentono di governare i flussi di “area vasta” (stanzialità vs mobilità). Superare l’antistatalismo. Il processo di globalizzazione economica fa emergere l'esigenza di fornire alle imprese quei “beni pubblici” come le infrastrutture dei trasporti, i trasferimenti di tecnologia ecc., che solo l'intervento pubblico può garantire (Ponte di Genova). La strutturazione di un sistema flessibile ora non può essere più lasciata alla spontaneità del mercato o al volontariato, ma richiede l’articolazione di un progetto politico specifico di “sviluppo guidato” e di “governo della flessibilità”, con nuove regole del gioco e nuove istituzioni, tanto più se orientate ai principi della sostenibilità. Oltre il localismo politico. • individualismo amministrativo del singolo Comune (autarchia). • politica campanilistica in difesa dell’identità “locale” (chiusa). • mancanza di una strategia di lungo periodo e di una visione d’insieme. • riduzione della politica ad ordinaria amministrazione (breve periodo). innovazione istituzionale: cultura di rete Il Comune (ente locale) non è la città (rete di servizi). È la rete dei servizi che definisce lo spazio urbano non i confini amministrativi. Inadeguatezza istituzionale dei piccoli comuni. • necessità di superare il modello napoleonico di controllo gerarchico dal centro (Comuni, Province, Stato); • favorire il governo di area vasta “a rete” intercomunale e multilivello; • sostenere i piccoli Comuni nella ricerca di “alleanze strategiche per lo sviluppo”; • ideare un modo di regolazione “a mosaico” che tenga conto della dimensione comunale reinterpretandola. Le criticità da superare per il governo dello sviluppo:  frammentazione: non solo amministrativa, individualismo, localismo, competizione tra singole imprese locali…; ridotta capacità istituzionale: confini amministrativi obsoleti, procedure burocratiche lente, scarso coordinamento tra uffici/settori; resistenza al cambiamento di chi ha rendite di posizione da difendere (Schumpeter). Dalla “piramide” alla “rete”: il riposizionamento degli attori. La sfida della sostenibilità dello sviluppo. Rapporto Brundtland (1987): «Lo sviluppo sostenibile è un processo di cambiamento tale per cui lo sfruttamento delle risorse, la direzione degli investimenti, l'orientamento dello sviluppo tecnologico e i cambiamenti istituzionali siano resi coerenti con i bisogni futuri oltre che con gli attuali. [...]. Lo sviluppo sostenibile impone di soddisfare i bisogni fondamentali di tutti e di estendere a tutti la possibilità di attuare le proprie aspirazioni ad una vita migliore (...) Il soddisfacimento di bisogni essenziali esige non solo una nuova era di crescita economica per nazioni in cui la maggioranza degli abitanti siano poveri, ma anche la garanzia che tali poveri abbiano la loro giusta parte delle risorse necessarie a sostenere tale crescita. Una siffatta equità dovrebbe essere coadiuvata sia da sistemi politici che assicurino l'effettiva partecipazione dei cittadini nel processo decisionale, sia da una maggior democrazia a livello delle scelte internazionali» RS verso le generazioni future.  La sfida della sostenibilità. Questa può essere articolata in 5 dimensioni:  ambientale: inquinamento, consumo di suolo, esaurimento delle risorse naturali, cambiamenti climatici. Riconciliare l’uomo con la natura è fondamentale, perché le risorse naturali sono fondamentali. La dimensione ambientale è anche un fatto culturale. economica: bisogna ricalcolare il rapporto costi/benefici, usare una nuova metrica per misurare la ricchezza, c’è una forte critica al PIL (misura la crescita e non lo sviluppo!), bisogna ragionare in termini di economia circolare per cui i rifiuti possono diventare risorsa, nuove tecnologie “smart”. sociale: bisogna uscire dall’individualismo e dalla “società liquida” (atomismo individuale) che ha esaurito il capitale sociale. Come generare nuove comunità e nuovo capitale sociale? Senza beni comuni/collettivi non c’è capitale sociale. Lo sviluppo non è avere crescita individuale. Questo processo deve essere affiancato dalla politica;   politica: bisogna riscoprire l’idea di politica come progetto di sviluppo condiviso, bisogna reintrodurre le pratiche partecipative, la co-progettazione: RST (responsabilità sociale di territorio); istituzionale: lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo guidato, la politica deve guidare perché il mercato crea disuguaglianza. Le politiche si basano sulle istituzioni, ma c’è un problema di inadeguatezza istituzionale: queste sono state pensate in un momento in cui bisognava governare la stanzialità, mentre oggi il problema è governare i flussi (migratori, di informazioni) e i territori sono sguarniti delle modalità di governarli. Servono riforme istituzionali, ecco perché ragionare in termini di reti di comuni/città è importante.  La sfida della sostenibilità al modello di sviluppo capitalistico basato sulla mera crescita quantitativa va superato, soprattutto alla luce della crisi economica che stiamo attraversando, costringe a rivedere la logica di funzionamento del sistema complessivo e dei suoi automatismi (regolazione economica di mercato), i quali generano ormai squilibri destabilizzanti per la qualità delle vita e della produzione: sfida ai modi di sviluppo/regolazione regionali (la prof crede che la transizione ecologica in Veneto non sarà così facile = greenwashing come cambiamo tutto per non cambiare nulla).  Benessere Equo e Sostenibile - ISTAT. Misura la “qualità dello sviluppo” con il BES alternativo al PIL (ISTAT) su 12 dimensioni in collegamento con “Agenda 2030” dell’ONU e ASViS: 1. Salute; 2. Istruzione e formazione; 3. Lavoro e conciliazione dei tempi di vita; 4. Benessere economico; 5. Relazioni sociali; 6. Politica e istituzioni; 7. Sicurezza; 8. Benessere soggettivo; 9. Paesaggio e patrimonio culturale; 10. Ambiente; 11. Innovazione, ricerca e creatività; 12. Qualità dei servizi. Nuovi campi di ricerca. Si sono aperti dei nuovi nuovi campi di ricerca parlando di sviluppo sostenibile, ovvero ambiti in cui si potrà proseguire la ricerca comparata: 1. capacità di programmazione strategica secondo gli obiettivi dello sviluppo sostenibile – nuovo PSR e POR 2021-2027; 2. indice di Competitività regionale europeo (2022 post Covid 19); 3. sviluppo guidato e impatto sui modi di regolazione regionale; 4. impatto sulle riforme istituzionali e riordino territoriale; 5. misurare la qualità: “indici di qualità dello sviluppo” per contesti; 6. riforme istituzionali: “nuovo spazio urbano” e city region; 7. nuovi modelli cognitivi “integrati” con cui leggere i bisogni del territorio che stanno cambiando senza che le istituzioni se ne rendano conto.  Serve un cambiamento di prospettiva: la visione sistemica e integrata di un contesto cambia la prospettiva con cui leggiamo la realtà, ma cambia anche la realtà. Il sistema è diverso dalla somma delle sue parti.  Dall’Io al Noi. Dalla nostra capacità di “fare rete” dipende il nostro futuro: • costruire legami e reti per generare comunità sostenibili; • ogni soggetto è parte integrante del “suo-nostro” territorio; • responsabilità sociale del territorio = prendersi cura del “bene comune”; • obiettivo condiviso di sviluppo: idea della politica come progetto condiviso di sviluppo”. Se cambiano modo di sviluppo dobbiamo anche cambiare il modo di regolazione, perché le due cose sono strettamente legate.   Lezione 15. REGIONALISMO DIFFERENZIATO. Cosa cambierà per l’ordinamento locale? E per la competitività regionale? Veneto, Emilia-Romagna e Lombardia si sono attivate per avere un’autonomia regionale differenziata. Differenza nel fare la richiesta dell’autonomia nelle tre regioni. La costituzione: Il “regionalismo differenziato” fa riferimento all’art. 116, terzo comma, della Costituzione che recita: «Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia [...] possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei princìpi di cui all’articolo 119.
 La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata». Come si sono attivate le regioni. Giugno 2017: Emilia-Romagna ha attivato la richiesta di regionalismo differenziato in sede di Assemblea legislativa, dopo un confronto con città, territori, parti sociali, organizzazioni economiche, università e Terzo settore, senza ricorrere al referendum popolare, costituzionalmente non necessario. 22 ottobre 2017: Lombardia e Veneto hanno tenuto un referendum consultivo per una maggiore autonomia. Non fanno concertazione. Il 28 febbraio 2018 tutte e tre le Regioni hanno siglato con il Governo nazionale (Gentiloni) l’accordo preliminare in merito all’intesa prevista dall’art. 116, III comma. 2018-2019: Il negoziato è continuato con il Governo Conte 1 e il Ministro agli Affari regionali e autonomie locali Erika Stefani (Lega, Vicentina), con la negoziazione differenziata tra le diverse regioni, soprattutto Veneto e Lombardia. Ciò̀ ha alimentato il timore delle Regioni del Sud di una: «secessione dei ricchi» e un dibattito sul solco della frattura Nord/Sud; centro/periferia. Il ministero agli affari regionali della Lega e ci si aspettava che con la Lega ci fosse un’accelerazione dell’autonomia, invece non è stato così, perché in realtà la lega di Salvini non la vuole (è sovranista). Il ministro per le autonomie locali e affari generali continua la negoziazione con il Veneto e la Lombardia e lascia l’ER a parte. 2019-2020: Governo Conte 2 – Ministro agli Affari regionali Francesco Boccia (PD, Pugliese) lavora a una legge quadro nazionale di regolazione dei diversi accordi con le Regioni. L’emergenza Covid19 ha congelato il problema, mettendo sotto stress i sistemi sanitari regionali. Si discute di una ri-centralizzazione del SSN. FOCUS DI APPROFONDIMENTO. Obiettivo del referendum: eminentemente politico.
 Nel caso Veneto è un segnale politico di maggiore rivendicazione di autonomia (come exLega Nord e Lega Veneta). Nel caso Lombardia, invece, anche nel quesito referendario vi è un richiamo all’unità nazionale che non viene messa in discussione.
 L’esito diverso dei referendum nelle due Regioni ha inciso diversamente:
 - il Presidente Maroni, che ha ottenuto percentuali più basse (38% degli aventi diritto: il 95% SI; il 4% NO), ha chiesto all’Emilia-Romagna di lavorare per una comune trattativa col Governo.
 - il Presidente Zaia, forte dell’esito referendario (57% aventi diritto: 98% SI; 1,9% NO), ha scelto di non associarsi all’Emilia-Romagna e alla Lombardia, ma di percorrere una strada diversa per il riconoscimento di un’autonomia regionale che lambisce lo statuto speciale. LE RICHIESTE DELLE TRE REGIONI (perché chiedono l’autonomia regionale). - Quali richieste sono state avanzate dalle tre regioni?
 - Come sono state formulate le richieste di maggiori competenze in materia di ordinamento locale e di governance istituzionale da Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto? 1) Il regionalismo differenziato si presenta come un nuovo e importante processo di decentramento amministrativo verso:
 - un potenziamento del (solo) livello regionale di governo?
 - oppure potenziamento delle comunità̀ degli enti territoriali e delle autonomie locali (soprattutto le città)? 2) Vi è una relazione tra autonomia regionale e aumento della capacità competitiva della regione? DA UN’ANALISI DEI DOCUMENTI DISPONIBILI. Allocazione delle funzioni amministrative Tutte e tre le Regioni (principi di sussidiarietà verticale, leale collaborazione e concertazione con le autonomie locali) si ripropongono di procedere ad una diversa allocazione delle funzioni amministrative: - attraverso il coinvolgimento diretto delle autonomie locali (ER e Lom) - attraverso il ricorso allo strumento della delega (Veneto). Tuttavia, solo l’Emilia-Romagna e la Lombardia avanzano una richiesta di riconoscimento di maggiore intervento anche sulla governance istituzionale degli Enti locali, puntando sul potenziamento delle competenze degli Enti locali e sull’innovazione del loro assetto istituzionale. Il Veneto è la sola regionale a non avanzare richieste di maggiori competenze legislative e amministrative su tali aspetti, rimarcando la propria specificità, fondata sull’istanza di conferimento di uno statuto speciale e sul tema delle risorse e dell’autonomia finanziaria. Emilia-Romagna e Lombardia coinvolgendo direttamente le autonomie locali e le città, mentre il Veneto usa la delega (fa tutto la regione). L’Emilia-Romagna e Lombardia vogliono più autonomia delle città metropolitane, come Milano ad esempio. Il Veneto non vuole potenziare la governance istituzionale delle città. Il Veneto vuole più soldi e interpreta l’autonomia come un maggiore avvicinamento ad una regione a statuto speciale. Le altre due vogliono l’autonomia per potenziare la governance istituzionale delle città. Riorganizzazione territoriale Le tre Regioni affrontano quindi in maniera complessivamente diversa il nodo della riorganizzazione territoriale conseguente al possibile trasferimento delle nuove funzioni: - in un’ottica esclusivamente funzionale il Veneto, - in una prospettiva di riordino e rinnovamento anche istituzionale l’Emilia-Romagna e la Lombardia. Per quanto riguarda il riordino funzionale, tutte e tre le Regioni sembrano avere di mira un riassetto complessivo delle funzioni che tenga conto di tutti gli enti territoriali, a cominciare dal livello comunale. Governance istituzionale di area vasta Diversa invece è l’attenzione data alla governance istituzionale di «area vasta» delle Province e Città metropolitana, più rilevante per Lombardia ed Emilia-Romagna. Governance istituzionale di area vasta (province e metropoli): ER e LO vogliono potenziare le funzioni di quest’area, mentre il veneto neanche lo considera. DIFFERENZE EVIDENTI TRA LE REGIONI. 1) Le due Regioni governate dalla Lega, Lombardia e Veneto, hanno scelto il referendum per rafforzare la richiesta di autonomia, mentre l’Emilia- Romagna ha scelto di avviare la negoziazione per via amministrativa, senza il referendum. Tuttavia, nel corso della prima fase della negoziazione, la Lombardia si è avvicinata più all’Emilia-Romagna, mentre il Veneto ha scelto di condurre la trattativa in modo distinto e separato. 2) L’impostazione delle richieste Venete è orientata ad un arretramento dello Stato e ad una sua dismissione di funzioni, apparati e risorse: un’occasione per rimarcare la frattura centro-periferia e rivendicare maggiore autonomia finanziaria e fiscale. All’opposto, quelle Emiliano- romagnole e Lombarde sembrano assumere un maggiore valore politico e strategico, cogliendo una possibilità per rilanciare le riforme amministrative e istituzionali dopo lo stallo referendario. GOVERNO DI AREA VASTA: LA CITTÀ METROPOLITANA O PROVINCE? È l’esigenza di assicurare maggiore funzionalità e capacità istituzionale al governo locale e alle due Città metropolitane di Bologna e Milano, concepite qui come motore dello sviluppo regionale in un contesto di globalizzazione dell’economia, a spingere l’Emilia-Romagna e la Lombardia a puntare, pur con accenti e forme diverse, sull’innovazione della governance istituzionale. Nel caso Veneto, il governo di area vasta invece viene ancora concepito come circoscritto alle vecchie Province, mentre la Città metropolitana di Venezia non riesce a intercettare le potenzialità dell’area metropolitana policentrica del Veneto centrale, centro propulsore dello sviluppo regionale, frammentato fra quattro Province e oltre duecento Comuni. La Lombardia si avvicina all’Emilia-Romagna, perché la città metropolitana è fondamentale per lo sviluppo regionale in termini di competitività regionale, è strategico, la regione non è in concorrenza con la città metropolitana. Il Veneto non vuole perdere la centralità rispetto alle metropoli (l’autonomia del Veneto è centralistica). Bologna e Milano sono importanti e quindi queste regioni puntano su di loro con un’innovazione intraregionale (dentro la regione): vogliono essere più libere di trasferire funzioni dal livello regionale a livello metropolitano. Per il Veneto il livello di area vasta coincide ancora con la provincia (diversa dai confini attuali delle città metropolitane). L’autonomia regionale selve per potenziare lo sviluppo regionale. AUTONOMIA REGIONALE E MODI DI REGOLAZIONE DELLO SVILUPPO. Emergono diverse visioni dello sviluppo regionale e strategie che servono per potenziarlo, correlate ai diversi modi di regolazione dello sviluppo regionale: - da un lato (Emilia-Romagna, ma anche Lombardia), si profila la visione di un regionalismo funzionale allo sviluppo, a cui la governance istituzionale “a rete” deve adeguarsi per fornire risposte coerenti per sostenere i territori nella competizione del mercato globale (flussi/luoghi). - Dall’altro (Veneto), permane la visione di un regionalismo amministrativo, in cui si ritiene che l’economia e la società non abbiano bisogno di regolazione politica (e quindi di istituzioni Governo locale vuol dire politiche di sviluppo del territorio e qualità dei servizi del territorio. CITY REGION IN EUROPA. Il riemergere dell’istanza regionalista in Italia può essere analizzato anche in relazione a quanto sta accadendo in altri Paesi europei, interessati ad attuare riforme istituzionali volte a favorire un riordino territoriale che sia in grado di ridurre la frammentazione amministrativa potenziando il livello di governo di area vasta. Nel contesto dell’economia globale, la crescente competizione tra sistemi locali e regionali fa sì che gli assetti istituzionali del governo del territorio assumano infatti una particolare rilevanza per l’attrattività regionale.
 In questo contesto, il regionalismo differenziato può costituire quindi uno strumento importante per aumentare la capacità competitiva dei sistemi regionali, ottimizzando l’efficacia delle reti di servizi e la capacità istituzionale di governo del territorio in senso strategico. L’autonomia regionale è un mezzo, non un fine in sé. Per dare forma compiuta all’autonomia regionale serve un progetto politico di sviluppo strategico. FEDERALISMO. Lombardia si collega con l’Emilia-Romagna, perché il modo di regolazione delle due regioni è incentrato sulle città e sui comuni: è una regolazione politica centrata sul governo locale e sulla filiera istituzionale: la regione è pensata come sistema metropolitano-policentrico: quindi alla base del governo regionale ci sono le città. Si chiede il potenziamento dei governi degli enti locali e delle città: concezione del federalismo concentrata sulle città. Veneto: federalismo antropologico, cioè puntato sull’individuo. La dimensione della regolazione sociale che è tipica del Veneto, formata da reti informali tra persone, si collega al federalismo antropologico: regolazione che vede l’attore politico-istituzionale ai margini della regolazione: c’è una regolazione sociale del mercato. Ad essere federato non è l’ente locale, ma le comunità locali di individui, soprattutto quelle economiche, come le associazioni di rappresentanza. Vuole l’autonomia regionale per rimarcare la spaccatura con il governo centrale. Il Veneto vuole centralizzare le funzioni di tutti gli enti locali sulla regione. L’autonomia regionale del Veneto serve per amministrare i fondi e i soldi che arrivano dallo stato. Lezione 16. GOVERNO DELLA FRAMMENTAZIONE E INNOVAZIONE ISITTUZIONALE. I CASI DI FRANCIA E ITALIA A CONFRONTO. Quesiti di partenza: C’è una relazione tra politiche di riordino territoriale e sviluppo regionale? La riduzione della frammentazione amministrativa (del numero di piccoli comuni) può costituire una strategia per favorire una maggiore efficienza delle istituzioni di governo, e quindi dello sviluppo regionale? Quanto gioca la riduzione del numero dei comuni, soprattutto piccoli, nelle politiche di sviluppo regionale? Lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo guidato che richiede istituzioni capaci: i comuni troppo piccoli sono inefficaci, non raggiungo gli obiettivi. Se semplifichiamo e riorganizzazione il governo del territorio in maniera più efficiente, questo migliora i servizi e la loro qualità? Le politiche di riordino territoriale sono politiche di sviluppo? CHIAVE DI LETTURA PROPOSTA. Nel contesto della globalizzazione, la crescente competizione tra i sistemi locali fa sì che gli assetti istituzionali di governo del territorio assumono particolare rilevanza. Le riforme istituzionali di riordino territoriale come risposta alla medesima sfida: quella del riposizionamento strategico dei territori in risposta alle trasformazioni prodotte dal processo di globalizzazione e alla necessità di rendere attrattivi i luoghi in relazione ai flussi che li attraversano: competitività tra i territori. Le politiche di attrattività rendono attrattivo un territorio: esempio il turismo, città universitarie, serve un legame forte tra università e città, fino ad un certo punto (esempio turismo di massa che snatura la città e diventa un problema, i flussi vanno regolati). C’è un problema di attrazione, ma anche di regolazione dei flussi poi. DAL DECENTRAMENTO AL NEOCENTRALISMO? La crisi globale dal 2007-2008 ha accelerato l’ondata dir riforme istituzionali dal 2006 in tutti i paesi europei, facendo rilevare un’inversione di rotta: dal decentramento al neocentralismo: le istituzioni che abbiamo ereditato in Italia sono vecchie, non sono state pensate per regolare territori mobili, con flussi, ma con una visione statica del territorio. I confini amministrativi sono tutti permeabili dai flussi. Il problema del riordino territoriale c’è in tutti i territori europei. Ma c’è forte differenza tra Europa del nord e Europa del sud. Tuttavia, interpretando le riforme istituzionali come risposta dei territori alla sfida della globalizzazione, con la necessità di rendere attrattivi i luoghi in relazione ai flussi che li attraversano, piuttosto che verso un ri- accentramento delle funzioni di governo, dalla periferia allo Stato centrale, le riforme istituzionali sembrano essere accomunate da una diversa tendenza: quella di (tentare di) definire ambiti territoriali di governo sub- statali più adeguati (fit) e istituzionalmente più capaci di rispondere alla nuova sfida delle «Economie in cerca di città». In Europa ci sono due tendenze con visioni politiche diverse per il futuro: -una tendenza sovranista che va verso il riaccentramento nazionale e la riduzione delle autonomie locali. -Una tendenza di decentramento: cambiare istituzioni per le nuove sfide che stanno arrivando per un’EUROPA INTESA COME UNIONE DI SISTEMI AMMINISTRATIVI E DI CITTÀ, NON DI SEMPLICI STATI. SERVE COSTRUIRE NUOV SPAZI URBANI. Bisogna costruire nuovo spazio urbano di rete mantenendo così i confini amministrativi: bisogna mettere in rete i comuni, ma ci vuole una cultura di rete. Bisogna ottimizzare la produzione di beni collettivi per lo sviluppo, intesi come rete di servizi: una funzione tipica delle città:
 a) contrastando la frammentazione amministrativa dei piccoli comuni attraverso la fusione o le reti intercomunali (unioni).
 b) ridefinendo ruolo e dimensioni delle regioni, delle città metropolitane e degli enti intermedi.
 La soluzione maggiormente in grado di garantire un riposizionamento competitivo dei territori (maggiore sostenibilità̀ istituzionale) non è né il neocentralismo, né il localismo, ma nuove istituzioni di governo del territorio in grado di intercettare i flussi, come le città o le city region in senso funzionale, dotate di maggiore «capacità istituzionale». CAPACITÀ ISTITUZIONALE. La capacità istituzionale è definibile a partire da una serie di «caratteristiche che le amministrazioni pubbliche devono detenere, o che è necessario rafforzare, per definire e attuare politiche efficaci», quali:
 - la qualità̀ delle risorse umane: competenze di chi lavora con una cultura di rete che si acquisisce con la formazione: lavorare per progetti, in squadra (diverso da lavorare per procedure puramente formali), problem solving. - le caratteristiche dell’organizzazione (adeguatezza istituzionale), - la solidità dei sistemi di performance e management,
 - il livello di digitalizzazione,
 - la gestione delle relazioni interistituzionali (reti multilivello) - la gestione di reti con gli stakeholder (reti multi-attore)
 (PON Governance e Capacità Istituzionale 2014-2020 e Misure per rafforzare la capacità istituzionale ed efficienza amministrativa) Come migliorare la capacità istituzionale del Governi locali? Le riforme del governo Monti sono partire dalla credenza che in automatico la riduzione dei comuni avrebbe portato ad un risparmio dei costi, ma in realtà non è stato così e tutte le unioni di comuni si sono sciolte presto. STRATEGIE EUROPEE PER LO SVILUPPO TERRITORIALE 2014-2020. 1.la città motore dello sviluppo: politiche di metropolizzazione, con il potenziamento delle reti di città come strategia di sviluppo territoriale di area vasta (≠ urbanizzazione) 2.politiche integrate per la messa in rete di aree urbane e rurali, anche grazie all’introduzione del plurifondo: mettere in rete i comuni senza toccare i confini amministrativi. 3.Politiche di smart governance: con il potenziamento di reti intercomunali di tipo funzionale, che orientano i piccoli Comuni ad attivare strategie di associazionismo intercomunale, su basi funzionali, per poter entrare in rete con le aree metropolitane più dinamiche e meglio servite, andando oltre i confini amministrativi: mettere in rete le aree periferiche e rurali attraverso la rete dei servizi con le aree più forti , anche se non necessariamente urbane, per una questione di equità e strategia di sviluppo del territorio e di complementarietà. Orientano i comuni a creare unioni e convenzioni su basi funzionali, cioè su alcuni ambiti specifici, come la raccolta differenziata dei rifiuti, la protezione civile eccetera… Questa serie di politiche nel suo insieme è volta a potenziare non più il livello di governo regionale in senso amministrativo, ma la dimensione della «regione funzionale» della City regions come motore dello sviluppo. COSA SUCCEDE IN EUROPA: DIFFERENZE PATH DEPENDENT DELLE RIFORME ISTITUZIONALI. Differenze path dependant (dipendente dalla storia). Differenza tra Paesi Mediterranei e del Nord Europa:
 - Nei paesi del Nord Europa i governi locali hanno ampi poteri amministrativi (erogazione di servizi), ma scarso potere politico. - Nei sistemi del Sud Europa (napoleonici) i servizi vengono affidati all’amministrazione centrale, mentre i governi locali hanno un maggiore radicamento sul territorio e/o potere politico:
 a) presenza di forti e radicate identità locali, a fondamento delle autonomie. b) prevalenza di pratiche negoziali nella politica locale, basata su rapporti personali, sconosciuti nei paesi del Nord regolati da meccanismi più universalistici. Questo può spiegare perché nei paesi del Nord Europa è stato possibile attuare riforme di drastica riduzione dei comuni, mente nei Paesi del Sud Europa questo non è stato possibile. EVOLUZIONE DEL NUMERO DI COMUNI IN ALCUNI PAESI DELL’UE 1950-2010. RCI - INDICE EUROPEO DI COMPETITIVITÀ REGIONALE (2013). La Competitività Regionale è l’abilità di una regione di offrire un ambiente attrattivo e sostenibile per le imprese e per i residenti per vivere e lavorare. Aumentano le ECPI di maggiori dimensioni e competenze. Luglio 2017: le Metropoli sono16+10 EPT della Metropoli della grande Parigi. Al 1° gennaio 2018 tutto il territorio francese risulta ormai integralmente coperto da enti intercomunali:
 4 soltanto risultano essere i Comuni “isolati”, non ancora parte di un EPCI, per un totale di soli 6.359 abitanti. Nel complesso si contano:
 VIOLA = 11 Communautés urbaines (numero di comuni associati: 523; popolazione totale:2.433.987 ab.) NERO= 222 Communautés d’agglomération (numero di comuni associati: 7443; popolazione totale: 23.660.357 ab.) GIALLO =1009 Communautés de communes (numero di comuni associati: 26.424; popolazione totale: 22.448.738 ab. Fusioni di Comuni: TRA IL 2015 E IL 2017 1.856 Comuni hanno avviato con successo la fusione, per un totale di 554 accorpamenti. Al 1° gennaio 2018 la Francia conta 35.228 comuni (-1.430 Comuni in tre anni). ITALIA - Sconta l’eredità di una unificazione tardiva dello Stato e diverse tradizioni amministrative: nel Centro-Nord il Comune era una istituzione forte (cultura civica) nel Sud era una istituzione debole. Il Regno d’Italia impose un sistema centralistico, sul modello francese, per unificare le diverse tradizioni amministrative. - Costituzione del 1948: autonomie locali, regioni, rafforzate con elezione diretta (1993) e riforma Costituzionale 2001. - Art. 3 TUEL: Comune come «ente naturale» preesistente allo Stato, ne costituisce il fondamento. - Debolezza dello Stato centrale, oscillazione delle riforme tra spinte centralistiche e autonomiste, realizzate con una logica incrementale, per ragioni di riduzione della spesa, senza una reale valutazione della coerenza del sistema istituzionale complessivo. - Frammentazione regionale nella fase di attuazione delle riforme. In Italia tutti i Comuni devono svolgere le medesime funzioni, non esiste un ordinamento differenziato per i piccoli/grandi comuni.
 La frammentazione amministrativa di 8.100 comuni (2013), di cui il 70% sotto i 5.000 ab., costituisce un problema di efficienza, capacità di governo, generando ineguaglianze delle opportunità per i cittadini e le imprese per presenza e costi dei servizi (tariffe, aliquote tributarie). Tre fasi distinte nella riforma istituzionale: 1) 142/1990 – fino al 1999: riduzione del numero di comuni tramite fusione obbligatoria. 2) L. 265/1999 – alla L.122/2010: forte rilancio e incentivazione delle unioni di comuni. 3) Dal 2010 alla L.56/2014: associazionismo obbligatorio per i piccoli comuni (5.000 ab.), istituzione delle Città metropolitane, depotenziamento delle province. Delega alle regioni della fase attuativa sul territorio. Italia. Fusioni di comuni per regioni dal 2013 al marzo 2017.
 Dal 1/01/2018 saranno operative altre 13 fusioni con -17 Comuni (Tot. 7.961). Sono concentrate solo in alcune regioni, dove si è scelto di incentivarle attraverso il piano di riordino territoriale. Unioni di comuni: Fenomeno concentrato nelle regioni del centro- Nord. Nel Marzo 2017 erano 535, il 38,9% comuni (con Unioni montane). COMPARAZIONE FRANCIA-ITALIA. 1. Diversa determinazione e volontà politica del governo centrale nel tempo: in Italia incertezza e debolezza politica del governo centrale che delega alle regioni. Attuazione molto differenziata sul territorio nazionale. Ciò rende ancora più complesso e frammentato l’ordinamento dello Stato. 2.Motivazioni della riforma che orientano gli incentivi selettivi: - le EPCI sono state pensate per favorire la competitività territoriale, oltre che per ridurre la spesa: sono state maggiormente incentivate quelle di maggiori dimensioni e competenze, come le Metropoli. - In Italia le ragioni di riduzione della spesa hanno prevalso su quelle dello sviluppo. Le città metropolitane sono state individuate, non su basi funzionali, ma amministrative (provinciali), in concorrenza con le regioni. Le politiche di riordino sembrano non riguardare le città metropolitane 3. Diverse competenze dei governi comunali nei due paesi: i comuni francesi sono poveri di funzioni e le EPCI svolgono le funzioni che in Italia vengono imputate all’ente comunale grande o piccolo. Le unioni di comuni in Francia si sono potute realizzare più facilmente perché i comuni sono incentivati ad aumentare le proprie competenze; in Italia si tratta di togliere funzioni ai comuni e trasferirle al livello sovralocale; in Francia di attribuirle ex-novo. Questa differenza comunque non ha impedito di opporre resistenza alla riforma Marcellin delle fusioni obbligatorie, come in Italia. 4. La numerosità dei Comuni per l’Italia non costituisce il principale problema per il potenziamento della capacità istituzionale del governo locale. Il problema sta piuttosto nei modi in cui i Comuni italiani erogano funzioni e servizi ai cittadini avendo tutti le medesime elevate competenze, ma non tutti le medesime capacità di governo. Poiché i Comuni italiani si muovono in ordine sparso, allora 8.000 comuni sono troppi, rispetto ai 36.000 comuni francesi. La soglia di 5000 ab è troppo bassa (convenzione come adempimento amministrativo). CITTÀ METROPOLITANA vs. REGIONE (passando dalle province). In Italia le Regioni non hanno un reale interesse a riconoscere le Città metropolitane per lo sviluppo strategico del territorio in senso funzionale.
 Le città metropolitane (come le province) sono enti di secondo livello su base provinciale e non sono in grado di intercettare i flussi e attivare le reti di servizi necessari per il potenziamento della competitività regionale.
 L’attivazione di City Regions richiederebbe un accorpamento in macroregioni. In Francia le Regioni sono state istituite di recente e subito accorpate nel 2015 (da 22 a 13) per rispondere a una logica di sviluppo regionale in senso funzionale che si sostituiranno alle Province.
 Le Métropol sono unioni di comuni con più di 500.000 ab. (reti di città) dotate di competenze appropriate per rispondere all’esigenza di uno sviluppo strategico del territorio regionale e non sono in concorrenza con le (macro)regioni La Francia: da 22 a 13 regioni.
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