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Appunti lezioni corso Estetica e linguaggi dell'arte 6 CFU, Sbobinature di Estetica

Appunti e sbobinature lezioni corso Estetica e linguaggi dell'arte a.a. 2022/23

Tipologia: Sbobinature

2022/2023

Caricato il 14/02/2023

M.alle
M.alle 🇮🇹

4.6

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Scarica Appunti lezioni corso Estetica e linguaggi dell'arte 6 CFU e più Sbobinature in PDF di Estetica solo su Docsity! 1 ESTETICA E LINGUAGGI DELL'ARTE VERITÀ DELL'ARTE Arte e idea estetica Il rapporto tra arte e idea estetica ha al centro il pensiero di Kant. Kant ha scritto tre Critiche: la Critica della Ragion pura, la Critica della Ragion pratica e la Critica del giudizio. Il problema dell'estetica e dell'arte è affrontato nella Critica del giudizio. Kant si occupa in particolare del bello di natura e soltanto verso la conclusione della Critica del giudizio estetico si occupa della questione dell'arte e cerca di definire il senso, la verità, la finalità dell'opera d'arte, secondo una formula che avrà grandissimo successo nell'epoca romantica. L'idea estetica è definita da Kant come una rappresentazione dell'immaginazione, quindi un prodotto dell'immaginazione sensibile, che però ha la particolarità di far pensare molto, per cui non è riconducibile a una definizione, ad un concetto definito o formule definitorie, ma ha lo scopo di far pensare. Parte dalla sensibilità e dall'immaginazione come facoltà dei sensi, ma deve portare al di là di essi, oltre i sensi. Un'opera d'arte, in particolare le opere dell'arte figurativa, non si esaurisce in ciò che rappresenta, nella dimensione sensibile e immediata, ma è sempre qualcosa di più, che conduce al di là della rappresentazione, verso le dimensioni del sovrasensibile. Una posizione di contrapposizione a quella kantiana, ma che in realtà prende come base la posizione di Kant, è quella che circa trent'anni dopo viene rappresentata da Hegel, che nella sua Estetica critica Kant perché avrebbe dato troppa importanza alla dimensione estetica, cioè la dimensione sensibile, al potere dell'immaginazione. Hegel accetta il fatto che l'arte sia un prodotto del genio e che abbia in sé la capacita di far pensare e che sia una questione che ha la ragione al suo centro, ma a Kant rimprovera di aver fissato troppo l'opera d'arte in un quadro di sensibilità; l'arte, per Hegel, è qualcosa che non si limita soltanto all'immaginazione sensibile e che ci porta verso la dimensione dello spirito; anzi, l'arte è connessa allo spirito assoluto, uno spirito che si definisce soltanto in se stesso e che ha una forza di plasmare la storia, la storicità dell'opera d'arte, che quindi non è solo un prodotto dell'immaginazione, un elemento sensibile che fa pensare, è anche un prodotto storico che ha in sé tutta la storicità dello spirito, della spiritualità. L'imitazione artistica A partire da questi due parametri, l'arte come pensiero sensibile e arte come prodotto storico che ha in sé tutta la spiritualità della storia ci si può chiedere dove l'arte trovi la sua radice nella filosofia e nei discorsi veritativi della filosofia. Il tema centrale intorno al quale si definisce il tema della verità dell'arte è il problema dell'imitazione artistica. Imitazione deriva dal greco mimesis; sarebbe sbagliato tradurre il termine "imitazione" in modo pedissequo, come se imitare significasse semplicemente riprodurre la realtà; il termine mimesis, in greco, ha in sé una radice del mimo, della rappresentazione scenica, non significa riprodurre in modo passivo la realtà, ma modificare la realtà attraverso una rappresentazione. Nell'antichità classica, le posizioni riferite all'arte come imitazione della natura sono essenzialmente due, quelle di Platone e Aristotele. Il primo pone la bellezza in un ambito metafisico e assoluto; il secondo la riconduce verso il basso, verso la sensibilità. Per Platone, di conseguenza, la bellezza è qualcosa di slegato dal sensibile e dalla materialità, dunque l'imitazione artistica sarà una copia minore della verità delle idee, della verità della bellezza, della verità della metafisica e dunque allontana dalla verità, che è nella pura spiritualità dell'idea, e l'opera d'arte è soltanto un simulacro di una realtà superiore, al limite può farci ricordare la bellezza dell'idea ma non potrà mai restituircela in tutta la sua forza e potere di conoscenza. Al contrario, per Aristotele (allievo di Platone), l'imitazione artistica ha un ruolo filosofico, teorico, conoscitivo assolutamente essenziale perché ci permette di cogliere, con una visione molto moderna, che Kant stesso riprenderà, tutte le potenzialità del reale; l'arte è filosofica, l'imitazione 2 artistica è filosofica proprio perché è in grado di farci comprendere il possibile che è nella natura. Aristotele giunge a dire che l'arte è più filosofica della storia, perché coglie della realtà delle cose tutto il senso intrinseco di possibilità. Il problema della verità dell'arte, sin dalla contrapposizione tra Platone e Aristotele, ma forse anche in quella tra Kant e Hegel, è diviso essenzialmente in due posizioni che ripercorrono l'intera questione della verità dell'arte e della visione conoscitiva dell'artistico. Da un lato, abbiamo una dimensione che sottolinea della verità dell'arte il suo radicamento nella sensibilità, nell'immanenza del reale; dall'altro abbiamo una visione dell'arte come un prodotto metafisico, come qualcosa che deve superare il sensibile. Questa contrapposizione tra immanenza e trascendenza si ripropone continuamente nella storia dell'estetica. Nell'arte e tradizione cristiana, in particolare nei primi secoli della cristianità, fra VII e IX secolo, l'arte come immagine è considerata qualcosa che deve sempre avere a che fare col rapporto tra il visibile e l'invisibile; l'immagine artistica non si esaurisce in ciò che rappresenta, ma deve essere un mezzo per superare il visibile e condurre dal visibile verso un modello trascendente. L'esempio migliore di questo rapporto che definisce l'arte come incontro tra visibile e invisibile sono le immagini sacre che la tradizione ha chiamato icone, mezzi, porte che rappresentando volti della tradizione cristiana devono portarci al di là dei volti stessi, verso un senso profondo della sacralità intrinseco alle immagini sensibili, ma che non si riduce ad esse. La definizione di simbolo come riunificazione, capacità di mettere insieme attraverso l'immagine artistica la dimensione del sensibile e quella del sovrasensibile è radicata nella posizione dell'arte come incontro tra visibile e invisibile; l'arte è verità perché è incontro simbolico tra visibile e invisibile, per cui l'importanza della rappresentazione sensibile si pone nella sua capacità di andare al di là del sensibile. Arte e natura Vi sono anche manifestazioni della verità, del senso, dell'arte, una volta superato il grande travaglio dell'epoca del primo cristianesimo e dell'epoca medievale, più connesse alla sua naturalità, cioè a quelle che sono le sue funzioni immanenti. L'esempio è quello legato al volto di Leonardo da Vinci, che può essere considerato il paradigma, o uno dei paradigmi essenziali, dell'epoca rinascimentale e di un nuovo modo di rapportarsi alla natura, e quindi del rapporto tra arte e natura. È chiaro che una concezione esclusivamente metafisica del rapporto tra la verità dell'arte e la verità in senso assoluto è ormai alle spalle; siamo in un'epoca che vede più l'uomo al centro del discorso filosofico, l'uomo che vuole farsi il più possibile simile alla divinità e vuole, come Dio, plasmare la natura, cogliere della natura tutti i principi di grandezza, forza e bellezza che le sono propri e che l'artista deve mettere in evidenza. Nel trattato vinciano Della Pittura, opera che ebbe un successo enorme fino all'Ottocento, si trova una definizione dell'arte come interpretazione della natura; come interpretazione della verità della natura. L'arte non ha lo scopo di riprodurre la natura ed essere una mera imitazione dell'elemento naturale, ma deve far scaturire quella che Leonardo chiama la qualità della forma; il lavoro dell'artista deve cogliere tutte quelle dimensioni delle forme naturali che l'occhio non riesce a vedere senza l'aiuto dell'artista e del suo intervento interpretativo. Interpretare significa far esprimere alla natura, attraverso la mediazione dell'artista, tutte le infinite qualità che senza questo intervento non sarebbero visibili. Interpretare significa afferrare tutte le potenzialità della natura; afferrare le potenzialità della natura significa costruire delle forme, delle fattezze, delle dimensioni che l'arte è in grado di restituirci e farci vedere. Questa concezione di Leonardo, che con una definizione concettuale molto simile possiamo trovare in L. B. Alberti, Piero della Francesca, Brunelleschi, è sicuramente essenziale, perché pone in prima istanza l'aspetto di immanenza dell'arte e dell'artista; l'arte è qualcosa che permette di cogliere meglio il senso delle cose. Il punto essenziale è che l'arte ha a che fare con il mondo della natura; natura non è un concetto astratto, ma ci riporta a delle forme, che sono qualcosa che va interpretato e che dobbiamo riscoprire sempre di nuovo attraverso la mediazione dell'artista e l'intervento del genio. Queste dimensioni, radicate all'interno di una cultura profondamente laica e naturalistica, 5 delle cose, ma tende a unificarlo. La scultura classica costituisce un modello nel corso dei secoli; il bello è ciò che per le sue qualità armoniche, simmetriche e formali piace ai sensi, dunque in esso vi è un'unione profonda tra la dimensione oggettiva (come la forma è fatta e costituita) e la dimensione soggettiva, il piacere che le "belle forme" riescono a generare nell'osservatore. La bellezza classica ha in sé anche un'ulteriore dimensione, quella di ricordarci di essere un valore simbolico. Simbolo è capacità di mettere insieme le parti; la bellezza è la capacità di fondere in sé, nel suo dato formale, le dimensioni sensibili del soggetto e quelle oggettive della materia, per cui la bellezza è un valore di riunificazione tra sensibile e sovrasensibile, tra immanente e trascendente. Il bello classico è ciò che piace alla sensibilità, ma in questo piacere ai sensi ha in sé delle qualità misurate. Il bello non deve mai eccedere, ma trovare una giusta via di mezzo e riunificare il senso della natura e quello dello spirito in una realtà il più possibile omogenea e coordinata. La domanda che dobbiamo porci e che si pone l'estetica è se questo concetto di bellezza che ha dominato dalla grecità classica fino alla seconda metà dell'Ottocento, con varie modifiche nel corso della storia, ma sempre adeguandosi al concetto formale di misura e simmetria che sembra caratterizzare il senso essenziale della bellezza sia ancora attuale, ovvero se la bellezza sia ancora quel valore di sintesi che ha visto alla sua nascita questo dato formale come un dato di definizione essenziale del concetto. Qualche dubbio viene guardando alcune opere della stessa classicità, per esempio il Laocoonte, probabilmente del I secolo a.C., che non sembra del tutto rispondere ai valori classici e formali della bellezza, perché mostra dolore e sentimenti e si riferisce a un episodio di profonda violenza. I corpi, seppure aggraziati, pongono il dubbio sul fatto che la bellezza sia un dato formale immutabile e che non ha in sé la dimensione dell'eccedenza e del dolore, che una concezione classica del bello sembrerebbe espellere da sé. Queste immagini e questa domanda pongono di fronte a una conclusione, che forse il bello classico, seppure qualcosa di assolutamente essenziale nel corso della storia, forse è più che altro un mito, qualcosa che non è mai esistito neppure nella grecità classica, come un elemento che non viene attraversato da questioni eccedenti e dimensioni difficili da ricondurre in un quadro armonico e simmetrico: anche nell'antichità classica esisteva il problema del brutto e dell'eccedenza. Brutto e sublime Lo dimostra il fatto che accanto al bello, anche se la parola brutto non ha grande successo nell'antichità classica, sia un altro termine che attraversa la bellezza, il termine del sublime: termine retorico; il sublime nasce come uno stile retorico, uno stile di narrazione, che in certo qual modo ricorda dimensioni che vengono a spezzare l'unitarietà della bellezza, perché è uno stile eccedente e che fa dell'eccedenza la sua cifra espressiva, andando al di là delle forme regolate e della simmetria. Fin dall'antichità classica, accanto a uno stile che vive all'interno di una ragionevole e ragionata calma, si affianca qualcosa che eccede la calma della bellezza e che la tradizione retorica chiama sublime. Questo accostarsi del bello e del sublime ha, nella cultura settecentesca, una ridefinizione assoluta. Il Settecento vede il rapporto tra bello e sublime come un rapporto di contrapposizione: il sublime è una categoria che mette in crisi la formalizzazione del bello e il bello come misura assoluta. I nomi che vedono questo passaggio dal bello al sublime come una contrapposizione sono soprattutto due: Edmund Burke, che nel 1746 scrive L'inchiesta sulle nostre idee di bello e di sublime; poi Kant, che nella Critica del giudizio parla del sublime come della dimensione di eccedenza che ci permette di andare al di là del bello, se il bello è qualcosa in cui il giudizio soggettivo riesce a commisurarsi al fenomeno, il sublime è qualcosa dove l'elemento oggettivo va al di là del giudizio soggettivo, lo eccede. Burke, nella sua opera del 1746, definisce il bello come un elemento classico, qualcosa che ha nel formale, nella linea continua la sua caratteristica, mentre il sublime è l'infinitamente grande, quell'elemento di grandezza che non riesce a essere contenuto all'interno di una forma, solo che esistono elementi artistici che non possono essere ricondotti a un'idea di forma chiusa; il sublime è l'infinitamente grande che ci fa andare al di là della forma. Si comprende che nel momento in cui si 6 va al di là della forma, e non si considera più la bellezza come un valore formale assoluto, il concetto stesso di bellezza è messo in crisi. Burke, e Kant dopo di lui, ci dicono che esistono dei valori espressivi, delle qualità estetiche, che eccedono la forma della bellezza. In altri termini, si può esprimere un significato estetico anche non costruendo degli oggetti formalmente belli. La bellezza viene messa in crisi proprio perché l'espressione eccede la bellezza, dunque vi è un'espressione che, pur non rappresentando forme belle, forme con misura, armoniche, ha in sé un valore espressivo. Si potrebbero fare esempi infiniti di questo valore espressivo del sublime o del brutto; un elemento tra la fine del Settecento e i primi cinquant'anni dell'Ottocento appare come particolarmente rilevante come esempio, cioè il grande significato che viene assunto dalla caricatura, come la bellezza che viene frantumata in quanto forma chiusa e astratta e manifesta come il volto, per esprimere, possa essere brutto, cioè andare contro quella regolarità che per secoli aveva caratterizzato la bellezza. Il passo decisivo si ha nel 1853, Rosenkrantz, esponente della sinistra hegeliana, corrente di pensatori tedeschi che segue Hegel, scrive L'estetica del brutto, che cambierà la storia dell'estetica. Rosenkrantz afferma che sicuramente il brutto non è un valore, al contrario del bello, dunque non ha tutta la tradizione nobile che ha la bellezza e che il suo maestro Hegel aveva determinato nella sua Estetica poco più di vent'anni prima; tuttavia, il brutto, pur non avendo in sé tutti i valori della bellezza, ha una profonda dignità filosofica, perché permette di cogliere tutto il senso delle forme, per esempio afferrare tutte le dimensioni caricaturali, grottesche, ridicole, che caratterizzano il mondo dell'espressione e che non sembrano essere riconducibili a una nozione di bellezza. Il brutto, forse, rappresenta un valore negativo, ma questo valore negativo è carico di significato e storia, e di significati che vanno indagati per afferrare che la dimensione dell'espressività non può essere ricondotta e rinchiusa nel novero di una sola forma astratta. La frantumazione della bellezza A partire dall'estetica del brutto, dopo Rosenkrantz, abbiamo un frantumarsi della bellezza; non soltanto un frantumarsi delle forme che caratterizzano il bello, ma anche un nuovo modo di rapportare l'arte e il bello, che non è più la categoria chiave intorno alla quale si concentra la definizione dell'oggetto artistico. Si può parlare di una pluricategorialità del bello; il bello non è più una categoria chiusa in se stessa, ma diventa tante categorie; il concetto di bello è sostituito da una nozione di espressione e il bello come bello classico è soltanto uno dei modi di questa espressione, che in realtà sono plurimi e, per dare tutta l'efficacia dell'espressività artistica, devono moltiplicare i nomi con cui la bellezza si definisce. Il fine stesso dell'arte non è più quello di dirci il bello come un dato statico; la capacità, la forza, il senso dell'arte è far venire alla luce una serie di valori, d significati, che vanno al di là di un elemento formale astratto (L'urlo – Edvard Munch). L'arte deve promanare dal soggetto attraverso la manifestazione della corporeità e del senso estetico presente in ciascuno di noi, che in qualche modo ci ricorda l'urlo del Laocoonte ghermito dal serpente. Il primo elemento fondamentale che fa comprendere come il bello non sia più l'unico valore formale attraverso il quale si determina l'espressività dell'arte è dato dal Romanticismo e da quelle che sono chiamate aporie romantiche, che fanno comprendere che il senso della bellezza è un senso che se vuole andare alla verità profonda delle cose e dello spirito non può rinchiudersi in un dato astratto, privo di storia e dinamicità, ma cogliere la bellezza come un concetto aporetico, ovvero un concetto che accetta in sé anche la contraddizione, il contrario da sé, il negativo, la distruzione dei valori formali che l'avevano caratterizzata per interi secoli, per cui la bellezza viene frantumata all'interno delle sue aporie; accetta il contrario da sé non come un elemento dissonante, ma come un qualcosa che aumenta le sue potenzialità espressive. Aumentando le sue potenzialità espressive, riesce anche ad accrescere il proprio stesso senso, facendosi pluralità di significati, avvicinandosi alla verità manifestando tutte le variazioni espressive che sono all'interno del suo concetto; insomma a partire dal Romanticismo, il concetto di bellezza assume consapevolezze nuove, che fanno sì che il grottesco, il caricaturale, il ridicolo, il comico, il grazioso, diventino parte essenziale della bellezza stessa; siano modi con cui la bellezza espressiva dell'artistico si manifesta e si offre allo spettatore. 7 La definizione essenziale di questo processo, dopo la nascita del sublime e le aporie romantiche, viene data da Baudelaire, con L'eterno e il transitorio. Baudelaire scrive dei commenti ai Salons, manifestazioni artistiche parigine dei primi quarant'anni dell'Ottocento, dando una definizione di cosa sia diventata la bellezza dopo che ha spezzato i paradigmi della classicità. Baudelaire parte dal presupposto che la società non è statica, ma è una realtà storica, dunque se mutano i parametri sociali di riferimento, la bellezza deve seguire questi ultimi, scendere nelle strade e comprendere che non può rimanere immodificata all'interno di un mondo che cambia. La nascita stessa delle città moderne, abitate da tipi umani differenti e incomparabili tra loro, ha modificato il concetto di bellezza, facendo sì che il bello debba affrontare il dissonante, l'eccedente. Baudelaire sostiene che la bellezza ha sempre in sé qualcosa di eterno; ha una dimensione di valore che sicuramente ci ricorda dei dati formali, estetici, di base, che sono essenziali per il nostro modo di vedere il mondo e vedere le cose, ma accanto all'eternità del bello e a un bello come valore eterno e assoluto, che attraversa i secoli, deve determinarsi un principio nuovo: la bellezza ha in sé anche un elemento di contingenza, di transitorietà e non può essere considerata come un valore assoluto, ma come un valore che affronta le contraddizioni della storia, il brutto e tutti gli elementi non belli presenti nella società, nella cultura, nella civiltà dei giorni nostri. La bellezza deve affrontare la capacità moderna di truccarsi; la natura non è più un dato formale uguale a se stesso, ma qualcosa che si trasforma e che non possiamo determinare in modo assoluto e astratto. Sicuramente, il problema della socializzazione del bello subisce una serie di degenerazione nel corso del tempo; non possiamo non considerare tutti gli elementi dell'arte contemporanea, dalla seconda metà dell'Ottocento fino ai giorni nostri, che vedono frantumarsi il valore formale del bello. La bellezza non è qualcosa che rimane immutato, ma è un valore soggetto a modificazione e anche a degenerazione; è legata ai gusti soggettivi, ai gusti delle epoche, ai gusti di carattere sociale. La bellezza è un valore storico in movimento e qualcosa che subisce tutti gli insulti, o gli insegnamenti, del tempo. Un esempio di come la bellezza possa degenerare è il fenomeno del Kitsch, che ha suscitato anche molte riflessioni di carattere teorico e viene visto come il simbolo della degenerazione della bellezza come valore. Il termine non è un termine di facile definizione; non sappiamo nemmeno con precisione da cosa derivi, ma al di là dell'etimologia, il Kitsch è l'oggetto artistico che degenera nel suo valore; una bellezza che si fa popolare, banale, e che nella banalizzazione perde i suoi connotati. L'arte cosiddetta contemporanea ha molto usato lo strumento del Kitsch, ovvero della banalità, della ripetitività (per esempio Warhol, oppure l'arte concettuale, Duchamp). Dunque, la relazione tra arte e bellezza è conclusa? La definizione di Baudelaire ha ucciso il rapporto tra arte e bellezza? No; il rapporto tra arte e bellezza non è chiuso, né qualcosa che le arti contemporanee o il Kitsch hanno definitivamente cancellato; è una relazione che va risemantizzata: vanno trovati nuovi significati al rapporto tra arte e bellezza, significati che restituiscano a questa relazione il senso ormai perduto che era nell'antichità classica. Possiamo chiederci come questo rapporto vada risemantizzato; esistono molte strade non sempre facilmente percorribili; una di queste è interrogarsi sul valore storico del significato della bellezza. Il significato del bello è mutato nel corso del tempo, dunque quello che noi chiamiamo "bello" è qualcosa che nella storia ha avuto diversi significati, per esempio nell'antichità classica la bellezza veniva associata al "buono", dunque con un'unità profonda tra la dimensione etica e la dimensione estetica, che però si è evidentemente spezzata, per lasciare spazio al bello come valore assoluto, come valore romantico, ma il Romanticismo stesso ha notato che questo bello assoluto era attraversato da aporie, dal sublime, dal brutto e dalla contraddizione, dunque il concetto di bello non è un concetto astratto, e il modo migliore per risignificare il concetto di bellezza è quello di vedere le sue modificazioni attraverso la storia e comprendere nella storia come questo concetto abbia avuto in sé talmente tanti significati, che solo cercando di spiegarli e comprenderne tutte le modificazioni possiamo comprendere il valore del bello come valore non astratto, ma valore antropologico. Se il rapporto tra arte è bellezza è una relazione che trova nella storia il suo senso e il suo 10 Il caso del ritratto Immaginiamo un pittore alle prese con un ritratto. Saremmo abituati a pensare che, in questo caso, l'oggetto rappresentato determina in toto la rappresentazione artistica, cioè che almeno in questo caso vada mantenuta una forte connessione tra la rappresentazione e l'oggetto di riferimento, dunque la rappresentazione artistica non può mai essere totalmente autonoma dall'oggetto di riferimento. Esempio: Van Eyck, Ritratto di Nicolò Albergati (1435). Questo ritratto sembra esemplificare bene quanto appena detto, realistico com'è, da sembrare addirittura un'immagine. Poi, però, ci sono casi di ritratti ben diversi. Per esempio, Picasso, Ritratto di Françoise Gilot (1946), in cui la donna è trasfigurata in un fiore irrealistico, con la rappresentazione artistica astratta, che sembra autonomizzarsi totalmente dal suo oggetto di riferimento, sembra in realtà che la rappresentazione non sia comunque totalmente autonoma dal suo oggetto di riferimento, perché Picasso, quando aveva scelto di passare da una modalità più realistica, che stracciò (testimonianza di Françoise Gilot stessa), a una scelta astratta, in realtà mostra un intento di scelta di astrazione, di apparente autonomizzazione artistica dal suo oggetto di riferimento, per continuare a parlare con più precisione e verità di qualcosa che ha a che fare col suo oggetto di riferimento, ma che non ha una forma esterna. Secondo la testimonianza di Françoise Gilot, Picasso era interessato a dare spazio non soltanto alla sua visione soggettiva dell'oggetto di riferimento, ma a una dimensione complicata e non visibile dell'oggetto, che in questo caso era la dimensione morale della donna ritratta. La scelta di autonomizzare la rappresentazione artistica dalla forma della donna non serve a "fuggire" dall'oggetto di riferimento, ma a dire meglio la verità su di lei. Nel caso dell'autoritratto in generale, come tipologia di rappresentazione artistica: "autodipingendosi", non si ha ovviamente la visione diretta dell'oggetto di riferimento, ma si ha sempre bisogno di un medium: uno specchio, una macchina fotografica, ecc. Questa assenza di visione diretta dell'oggetto di riferimento aumenta la soggettività e l'autonomia della rappresentazione; non a caso la tradizione dell'autoritratto si assesta soltanto a partire dal 1600. Il simbolo Un caso molto complicato, che si può analizzare attraverso l'icona La Trinità di A. Rublev: in questo caso, la rappresentazione artistica si pone un obiettivo così ambizioso da essere il congegno potentissimo di cui si parlava all'inizio, cioè una rappresentazione artistica, un oggetto materiale anche molto semplice, ma che ha il potere di fare riferimento a uno tra gli oggetti più astratti possibile, come la Trinità. È interessante analizzare come l'artista, già nel Quattrocento, risolve questo problema: per rappresentare Dio si usano le scritture sacre; Rublev si appoggia alla descrizione biblica della Trinità, ma soprattutto si usa il simbolo. Ogni elemento di Trinità è simbolico, dalla scelta dei colori alla scelta degli oggetti presenti, alla scelta compositiva. Un simbolo può essere trattato come una sorta di iper-rappresentazione artistica, cioè una rappresentazione artistica molto potente, che ha la capacità di parlarci di un oggetto estremamente eterogeneo rispetto a se stessa. Etimologicamente, la parola simbolo deriva da un verbo greco, composito, che significa gettare insieme. Già questa etimologia indica che, quando abbiamo un simbolo, abbiamo una rappresentazione artistica che getta un filo che va verso una meta molto distante da sé, tanto che serve il gesto del gettare. In questo senso, il simbolo è una rappresentazione molto potente; non solo non è un'immagine, ma tra le rappresentazioni quelle simboliche sono rappresentazioni artistiche dotate di particolare potenza, e ha il potere di essere un oggetto estetico, ovvero sensibile (percepibile con i sensi), che ci fa pensare a un oggetto eterogeneo. La distanza tra la rappresentazione artistica e il proprio oggetto di rappresentazione, che nel Novecento è così estremizzata, può suggerire due cose molto diverse: la prima è l'autonomizzazione della rappresentazione artistica, che contiene il proprio significato nel suo linguaggio e non "parla" di nulla che sia al di là, al di fuori, di sé; dall'altro lato, però, c'è la potenza di poter parlare di qualcosa di molto difficile da tenere a portata di sguardo. Questo introduce il concetto di astrazione, cioè la capacità che le rappresentazioni artistiche, 11 soprattutto quando sono simboli, hanno di astrarre. Da un lato, possiamo pensare che astrarre, anche come stile artistico novecentesco, possa voler dire sperimentare la fuga dalla realtà e dai tipici, ordinari, oggetti di riferimento. Dall'altro lato, possiamo pensare che astrarre possa significare sperimentare un altro tipo di focalizzazione privilegiata sugli oggetti della realtà. L'astrazione, in questo senso, ci distanzia dai nostri oggetti, dei quali vediamo meno bene i dettagli, ma riusciamo a vedere meglio altre cose, ad esempio che relazione c'è tra l'oggetto a cui siamo interessati e gli altri oggetti che lo circondano; possiamo dunque pensare che l'astrazione sia un modo per scegliere una focalizzazione nuova, speciale, ancora una volta a servizio della visione dell'oggetto di riferimento, che non sparisce dalla nostra attenzione. Quindi, la rappresentazione non può essere autonoma in toto: per funzionare deve essere eteronoma, anche nell'astrattismo di Picasso: se autonomia significa etimologicamente capacità di darsi leggi da sé, autodeterminarsi, eteronomia significa continuare a pensare che le leggi che regolano lo statuto stesso di rappresentazione artistica siano date almeno in parte da altro dalla rappresentazione, dal mondo e dagli oggetti. In questo caso, può accadere che l'astrazione possa non significare affatto una fuga dal mondo, una recisione del cordone ombelicale col mondo, ma viceversa uno studio di una strategia migliore per parlare di cose più complicate, estremamente astratte, ma che fanno parte della nostra esperienza del mondo. LEZIONE 4 – LA RAPPRESENTAZIONE ARTISTICA CONTEMPORANEA L'autonomizzazione della rappresentazione in Goodman L'arte contemporanea ha la tendenza ad autonomizzare le rappresentazioni artistiche dagli oggetti "mondani" di riferimento, e questo accade un po' ovunque nelle rappresentazioni artistiche. La rappresentazione artistica, nella contemporaneità, guadagna una libertà per cui sembra bastare a se stessa, autonomizzandosi dall'oggetto di riferimento, ma questa tendenza suscita ovviamente punti di vista diversi. L'autonomia della rappresentazione caratterizza l'arte contemporanea ed è argomentata soprattutto dalla filosofia analitica. La filosofia analitica è una corrente filosofica con caratteristiche particolari, soprattutto nell'argomentazione e nella scelta di oggetti d'indagine particolari, diffusa soprattutto nel mondo anglofono e che ha dato contributi importanti al dibattito filosofico contemporaneo. Nelson Goodman, autore simbolo di Harvard, ha caratterizzato significativamente il Novecento. Goodman commenta un'opera di Hokusai, un disegno del Monte Fujiyama, paragonandolo a un elettrocardiogramma momentaneo: le linee nere segmentate su fondo bianco, dice, possono essere esattamente le stesse in entrambi i casi, ma uno è un diagramma, mentre l'altro è una figura. La differenza, per Goodman, non sta in ciò che è simbolizzato. Non è facile capire a quale disegno si riferisse Goodman; per far funzionare il suo ragionamento, bisogna immaginare una rappresentazione del monte Fujiyama molto stilizzata, composta da due segmenti che formano un angolo acuto. In questo caso, si può immaginare che una rappresentazione artistica dipinta da Hokusai, per esempio nel 1830 circa, possa coincidere perfettamente con una piccola parte di un ipotetico cardiogramma. La tesi di Goodman è: se due oggetti diversissimi sono rappresentati da due rappresentazioni identiche, allora la rappresentazione è autonoma dall'oggetto di riferimento. È difficile immaginare due oggetti di riferimento così eterogenei tra loro come un cardiogramma e una montagna; secondo Goodman, se possiamo pensare che due oggetti di riferimento tanto estranee l'una all'altra quanto le due dell'esempio, sono tuttavia rappresentabili, e di fatto rappresentate, da una rappresentazione (artistica in un caso, tecnica nell'altro) che può essere identica, o quasi, allora non possiamo pensare che siano i due oggetti di riferimento a determinare lo statuto della rappresentazione; se una rappresentazione identica è riferibile a due oggetti di riferimento tanto estranei l'uno all'altro, bisogna pensare a qualcosa di diverso dal paradigma classico che ha funzionato per secoli nel pensiero occidentale e secondo il quale eravamo abituati a pensare che ci sia una sorta di influenza molto diretta che va dall'oggetto alla sua rappresentazione grafica. 12 Ad avviso di Goodman, la rappresentazione, in generale, non è governata dall'oggetto al quale si riferisce, dallo statuto ontologico, dalle caratteristiche dell'oggetto al quale si riferisce, ma è governata da regole interne, che sono linguistiche, fanno parte della rappresentazione stessa, e non sono da cercarsi al di fuori della rappresentazione stessa. La rappresentazione è autonoma perché, etimologicamente, si dà leggi da sé; non ha un oggetto di riferimento esterno che le dia disposizioni su come deve funzionare e sulla sua forma, ma il suo statuto è un puro risultato di arbitrarietà e convenzioni a tavolino. L'oggetto di riferimento non ha più alcun potere determinante sulla rappresentazione artistica stessa. Sempre Goodman, riferendosi al Paesaggio con cacciatore di Rembrandt, sostiene che l'uomo che vi appare non è, presumibilmente, una persona reale, ma è precisamente l'uomo che appare nell'incisione di Rembrandt, che quindi non rappresenta alcun uomo, ma è semplicemente una figura- di-uomo, e più esattamente una figura-di-uomo-nel-Paesaggio con cacciatore-di-Rembrandt. Goodman suggerisce che probabilmente noi siamo abituati a pensare che probabilmente ciascuno, o almeno qualcuno, degli uomini che appaiono in un dipinto siano dei ritratti, cioè abbiano effettivi oggetti di riferimento esterni, ovvero uomini precisi, vissuti nella stessa epoca di Rembrandt, e che quindi la sua rappresentazione artistica sia eteronoma, cioè determinata da leggi date da qualcosa di esterno, per esempio la forma di un viso dipinto sarà stata determinata dalla forma effettiva del viso di un uomo reale, che Rembrandt ha ritratto. Secondo Goodman, anche nel passato, anche tenendo del tutto fuori le sperimentazioni contemporanee, in realtà le rappresentazioni artistiche funzionavano con l'autonomia che ora è molto più accentuata. Goodman introduce la formula coi trattini, figura-di-uomo, per dire che non c'è un reale oggetto di riferimento concreto al di là dalla rappresentazione pittorica di Rembrandt, che non ha ritratto alcun uomo; quella è un'invenzione, un'immaginediuomo, prodotto di una convenzione, artificio linguistico, dato dal linguaggio della pittura. Dunque, non c'è un oggetto di riferimento autentico, la meta della nostra attenzione è la rappresentazione, e non altro: non dobbiamo tentare di uscire dal quadro per capire il significato del quadro. La rappresentazione artistica basta a se stessa per farci arrivare il suo significato. Sono gli artisti che scelgono quali aspetti della realtà (le "regole") sono rilevanti. Questa tesi di Goodman ha molto successo nella contemporaneità in generale. Picasso, a chi diceva che il suo ritratto di Gertrude Stein non le somigliava, rispose: "Non importa; lo sarà" (ovvero le somiglierà in futuro). Goodman, con questa citazione quasi aneddotica, sul modo di lavorare di Picasso, esprime l'idea che qui Picasso abbia voluto dire qualcosa del genere: la rappresentazione artistica non solo non è determinata da un oggetto, ma bisogna addirittura pensare che i rapporti si invertano: se mai si arriva a ipotizzare che ci sia un rapporto tra una rappresentazione artistica e un oggetto di riferimento, bisogna pensare che sia la rappresentazione artistica a determinare l'oggetto di riferimento, e non viceversa. Per Goodman, quando ci sono rappresentazioni artistiche molto ben fatte e potenti, ad esempio perché usano in modo molto coerente e sofisticato, con qualche punta di originalità, un determinato linguaggio, che è il loro linguaggio specifico, in questi casi è la rappresentazione artistica a qualificare l'oggetto che ritrae, o in ogni caso il suo oggetto di riferimento. Di fatto, qualificare significa dotare l'oggetto di uno statuto ontologico, di uno statuto di esistenza: quell'oggetto, da quel momento in poi, è e sarà per tutti coloro che ne avranno esperienza ciò che è stato determinato dalla rappresentazione artistica. In questa concezione, è come se la rappresentazione artistica, qualificando il suo oggetto di riferimento, desse il via alla sua rappresentazione autentica. L'idea di Goodman si può sintetizzare così: le rappresentazioni artistiche (e scientifiche) del mondo costituiscono il mondo, perché qualificano il suo statuto ontologico, quindi il suo statuto di esistenza. I linguaggi, i sistemi rappresentativi, le opere d'arte, qualificano ontologicamente la realtà; ci dicono che tipo di cosa una cosa sia. L'autonomizzazione della rappresentazione in Gombrich Ernst Gombrich, grande storico dell'arte che intreccia il suo lavoro con quello di molti filosofi, 15 di una ragazza americana contemporanea, ma questa "spremuta" di significato viene ottenuta attraverso la relazione, e non attraverso l'autonomizzazione tra rappresentazione e oggetto rappresentato. Nel secondo caso, sembra funzionare la stessa cosa, perché il Senza titolo sembra poter avere la forza di invitarci a immaginare con coraggio, cioè far agire il nostro esercizio immaginativo rispetto agli stimoli che la tela dipinta gli dà. Dunque il solo fatto che una rappresentazione artistica riesca a farci immaginare così coraggiosamente è un punto a suo favore. Ancora una volta, questo risultato è ottenuto attraverso una relazione, e non attraverso la sua negazione. Nel terzo caso, potremmo dire che anche l'identità ci fa pensare, perché pensiamo che possa essere una provocazione, magari siamo di fronte alla figura retorica dell'ironia, per cui invece di limitarci a dire che la rappresentazione è autonoma e basta a se stessa possiamo pensare che qui sta giocando la figura retorica dell'ironia e che i significati visibili vanno ben al di là di una semplice tesi dell'autonomia della rappresentazione. Più in generale, possiamo dire che la relazione, che in effetti sta nell'etimologia stessa della rappresentazione (readpresentare), sia la condizione della significatività della rappresentazione, che non è autonoma, ma eteronoma. Sembra quasi che ci sia una relazione di proporzionalità diretta tra la significatività che una rappresentazione artistica può avere per noi e la sua eteronomia: tanto più è eteronoma, tanto più non fa a meno del criterio di relazione, tanto più ha da dirci cose importanti. Il simulacro Dittico Marilyn – Andy Warhol (1962): l'ossessiva iterazione dell'immagine dell'attrice americana, che sembra avere la potenza di una tesi a favore della nozione autonoma di rappresentazione, perché la ripetizione ossessiva dell'oggetto di riferimento sembra svuotarla di senso: replicando all'infinito il volto di Marilyn, non se ne sta facendo il ritratto accurato, non si vuole parlare di lei, si vuole solo costruire un'immagine, che finisce lì, finisce in se stessa. La chiave dei campi – Magritte (1936): una finestra si apre su un tipico paesaggio di campagna, ma è rotta e sui pezzi di vetro che cadono a terra si vede il dipinto stesso di ciò che c'è fuori. Sembra essere il dipinto a cui le parole di Goodman possono fare da didascalia: non esiste un mondo al di là della rappresentazione. Qui l'idea di rappresentazione è simboleggiata dalla finestra; il mondo di cui noi effettivamente facciamo esperienza non sta al di là delle nostre rappresentazioni, ma è tutto già contenuto in esse, al punto da essere dato dalle nostre rappresentazioni. Qui l'esterno è già dato da ciò che c'è sul vetro: il mondo che c'è è il mondo rappresentato. Questa è la rappresentazione in quadro della filosofia (costruzionalismo) di Goodman: Possiamo avere parole senza un mondo, ma non mondi senza parole. Le nostre rappresentazioni mentali del mondo sono cioè autonome, possono esistere anche senza oggetti di riferimento, perché sono le parole stesse a fare i nostri oggetti di riferimento; non si possono avere mondi senza parole, perché sono le parole e nient'altro a fare i nostri mondi. Uno degli autori fondamentali per capire come si sviluppa il processo di cui si sta parlando è Wittgenstein, secondo il quale la rappresentazione artistica non vuole trasmettere qualcosa d'altro, ma se stessa. Un'ulteriore radicalizzazione del concetto di autonomia della rappresentazione può essere esemplificato da Magritte – La condizione umana (1933): pensando di dilatare ciò che è stato detto finora alla condizione umana generale, si può pensare che la condizione di un essere umano sia quella che lo stesso Magritte dipinge in questo quadro, quella dello spettatore di una tela che si rende conto che il mondo di cui fa esperienza non è altro se non il mondo stesso che si autorappresenta: le rappresentazioni mentali che ha del mondo sono ciò che il mondo è per lui. Possiamo quindi dire che la condizione umana è la condizione di un individuo di fronte ai suoi oggetti quotidiani, che capisce che i suoi oggetti quotidiani sono le estensioni delle sue rappresentazioni, e non altro, perché non esiste altro. Quindi, possiamo dire che la rappresentazione autonoma è un simulacro: un oggetto che simula un oggetto di riferimento che non esiste, perché l'oggetto di 16 riferimento, se mai c'è, è quella porzione di mondo che è fatta dalla rappresentazione stessa, quindi è un oggetto di riferimento non reale, ma conseguente la rappresentazione stessa. Il difetto possibile della rappresentazione autonoma (Cioè il difetto possibile del superamento della nozione di rappresentazione). Il difetto possibile della rappresentazione autonoma può essere sintetizzato così: credere che la realtà, determinata dalla nostra rappresentazione, sia la realtà che vogliamo che ci sia. Quando si parla di rappresentazioni quotidiane del mondo, in fondo si pensa esattamente questo: ciò che la mente si rappresenta che il mondo sia, poi di fatto il mondo è, e questo succede soprattutto ad artisti e scienziati. Può succedere di arrivare a credere che, allora, sia sufficiente un codice di regole stabilito arbitrariamente tra sé e se stessi, in base al quale fabbricare le proprie rappresentazioni del mondo in sé coerenti, per ottenere ciò che è il mondo per sé, con il rischio di arrivare a credere di poter togliere al mondo la capacità di fare attrito alle nostre rappresentazioni mentali del mondo, cioè confutarle. Un'altra conseguenza, più deleteria, può essere sintetizzata in questo modo: costruiamo rappresentazioni a volontà, incomparabili tra loro, e la loro incommensurabilità può causare il loro abbassamento qualitativo: quando si pensa che le proprie rappresentazioni sono autonome e che la loro autonomia è anche data dal fatto che possiamo scegliere noi stessi le regole da seguire per produrre una porzione di mondo che stia in piedi, possiamo pensare che se gli oggetti del mondo sono il risultato finale delle nostre rappresentazioni, abbiamo superato completamente il problema di avere una situazione nella quale noi e altri rappresentatori del mondo dobbiamo invece rappresentare nel modo più corretto possibile un oggetto di riferimento che continui a essere un oggetto comune. Se non si toglie allo statuto della rappresentazione la sua radice eteronoma, si conserva la possibilità del confronto con altri rappresentatori, e in questo confronto si possono notare errori, nella propria rappresentazione, e dunque giungere a una rappresentazione migliore. Un'autonomizzazione radicale dello statuto della rappresentazione porta alla conseguenza che la diversità tra la propria rappresentazione, in questo caso artistica, e le altre che esistono del mondo, non pone alcun problema, perché si pensa che la propria rappresentazione del mondo produrrà in automatico ciò che è il mondo per sé e si penserà che lo stesso accade per gli altri rappresentatori. Di conseguenza, le differenze tra le varie rappresentazioni non sono commensurabili, comparabili, tra loro, dunque si marginalizza in partenza la volontà di confrontare il proprio risultato con i risultati altrui, negando la possibilità di utilizzare la diversità tra il proprio lavoro e quello degli altri come strumento attraverso il quale vedere meglio i propri errori e correggerli. In questo senso, l'incommensurabilità può causare l'abbassamento qualitativo delle rappresentazioni, perché si traduce in un'autoreferenzialità incapace di utilizzare la diversità delle rappresentazioni come strumento per un confronto sano tra risultati diversi, che riescano attraverso la diversità stessa ad autocorreggersi e a lavorare da incentivo l'uno per l'altro per un miglioramento. In conclusione, anche se non vogliamo aderire all'oggetto di riferimento concreto, le nostre rappresentazioni funzionano a condizione di fare riferimento a qualcosa, per esempio l'idea dell'eternità. LEZIONE 6 – LA NOZIONE CONTEMPORANEA DI STILE Che cos'è lo stile Premessa: la nozione di stile, nei linguaggi artistici, è fondamentale e densa di significati e sfumature diversi che cambiano molto a seconda delle epoche storiche e delle culture, ma anche all'interno della stessa epoca storica e della stessa cultura. La definizione di stile non sarà esaustiva, ma di tipo ragionativo. C'è almeno una macro- divisione generale, non definitoria ma utile per precisare l'argomento, ovvero bisogna almeno precisare che quando si parla di stile legato a temi che hanno a che fare con estetica e filosofia dell'arte ci sono almeno due nozioni di stile, una più tipicamente filosofica dell'altra, che sarà quella 17 privilegiata. Possiamo parlare di stile tassonomico, ovvero classificatorio, e di stile individuale, ovvero di stile individuale, di un artista dato. Quando si parla di stile tassonomico, si parla in realtà della nozione di stile che perlopiù viene usata dagli storici dell'arte e che serve per classificare da un punto di vista storico i diversi stili che hanno caratterizzato le opere d'arte nei loro vari generi, dalla letteratura alla pittura, alla scultura, al cinema. Per esempio, parlando di "stile barocco" o "stile neoclassico", questi sono termini molto generali e sempre molto imprecisi da riferire a un singolo artista per specificare le categorie del suo lavoro, ma sono invece molto utili per intenderci sui macro- movimenti che da un punto di vista storico ha senso fare per precisare meglio che tipo di andamento la storia dell'arte ha avuto e continua ad avere. Parlando invece di stile individuale, questa nozione è molto più centrale nelle riflessioni dei filosofi che si occupano di arte, ma non solo. Per stile individuale si intende lo stile che appartiene a un determinato artista, un essere umano registrato all'anagrafe, e che quindi non può essere inquadrato soltanto attraverso una definizione tassonomica di stile: parlando di barocco o neoclassico, in queste due grandi categorie di stili classificatori andrò a indicare il lavoro di più artisti, che sono molto diversi tra loro, anche se simili e storicamente ricondotti a un'unica tipologia stilistica. Allora, la domanda è: che cosa mi permette di identificare la specificità che distingue all'interno di uno stesso stile tassonomico due stili individuali diversi? Molto filosofi nel Novecento e negli anni successivi si sono interessati e continuano a interessarsi a questo tipo di problema. Noi proveremo a partire dal ragionamento del filosofo americano Arthur Danto, che appartiene alla filosofia analitica e che ha lavorato molto come critico d'arte. La visione soggettivistica Danto inizia la sua visione di stile individuale partendo dall'etimologia della parola "stile". La posizione che Danto argomenta a proposito di stile individuale è molto diffusa tra gli autori della filosofia contemporanea e sembra essere la posizione rispetto allo stile individuale che va per la maggiore nella contemporaneità. Danto dice: Lo stilus è un oggetto del nostro interesse in quanto è uno strumento di rappresentazione e, oltre a questo, in quanto possiede la significativa proprietà di lasciare qualcosa del proprio carattere sulla superficie che segna [...]: la qualità dentellata della matita sulla carta, la qualità granulare del pastello sulla pietra, la linea incrostata della puntasecca che lascia una scia di trucioli metallici, le linee variegate lasciate dalle pennellate, le linee agitate prodotte da bastoncini con un pigmento viscoso, le linee irregolari ottenute da una vernice fatta sgocciolare con forza dalla punta di un altro bastoncino [...]. Attraverso le qualità che costituiscono lo stile, l'artista, oltre a rappresentare il mondo, esprime se stesso. [...] Se lo stile è l'uomo, la grandezza dello stile è la grandezza della persona, La struttura di uno stile è analoga alla struttura di una personalità. È utile partire dall'etimologia della parola "stile" stessa, che è la parola latina "stilus", perché lo stesso strumento del mondo latino, che è uno strumento concreto, è indicativo di cosa è lo stile a prescindere da quell'oggetto concreto. Nel mondo latino, "stilus" è qualsiasi sorta di bastoncino capace di lasciare una parte di se stesso e della materia di cui è fatto, quindi della propria sostanza materiale, sulla superficie che segna. L'analogia che secondo Danto è significativa tra lo stilus come strumento concreto nel mondo latino e lo stile come nozione che ha che fare con la storia dell'arte e il mondo dell'arte è che anche lo stile come lo intendiamo noi come stile individuale è quella cosa che consente a un artista di lasciare una sorta di traccia di sé sulla superficie che segna. La parte dell'artista che segna la superficie che lavora è l'uomo stesso, la struttura della sua personalità, dunque una sorta di espressione dell'artista, della sua realtà psicologica, parola che Danto non usa per ora, ma usa l'espressione "struttura della personalità". Possiamo pensare di sdoppiare il processo di costruzione di un'opera d'arte in due momenti, quello che va dall'artista all'opera d'arte stessa, quindi il processo di produzione, e poi il processo di fruizione, che va dall'arte al fruitore; possiamo dire, partendo dal fondo, che mentre la seconda parte ha a che fare con la decodificazione del processo di rappresentazione, che ha inizio a opera dell'artista, 20 soltanto e del tutto esito fatale del tipo di personalità che possediamo; in parte lo possiamo controllare, manovrare a servizio dell'opera, come fa Kant. Il lavoro che sembra fare Picasso può essere spiegato anche attraverso una nozione oggettivistica dello stile (Ritratto di M.me Gilot); la stessa cosa può dirsi attraverso la filosofia della composizione di E. A. Poe, nel saggetto ad introduzione della poesia The Raven, in cui ci informa che ogni singola scelta stilistica è razionalmente manovrata, quasi con la precisione di calcolo di un chirurgo. LEZIONE 7: IL PROBLEMA DELLA NASCITA DELL'ESTETICA (MODERNA) Estetica: un nome collettivo? La domanda allude al fatto che si possano considerare come pertinenti alla disciplina dell'estetica molti argomenti tutti pertinenti all'ambito della sensibilità. Di fatto, il nostro linguaggio quotidiano già annovera concezioni diverse dell'estetica, perché con estetica intendiamo dalle pratiche di abbellimento del corpo fino alla disciplina teorica e filosofica. La parola estetica è un neologismo, che deriva da aisthesis, ovvero sensazione, e viene coniata a metà Settecento da Baumgarten, dunque già l'etimologia sfata il luogo comune che l'estetica abbia principalmente a che fare con il bello e con l'arte: la sensazione riguarda un campo ben più ampio di quello della bellezza e di quello dell'arte. La domanda che possiamo porci fin dall'inizio è se l'estetica sia una filosofia della sensibilità o una filosofia dell'arte. Questa domanda è ancora presente nel dibattito. Dalla metafisica all'arte Il bello, considerato argomento per eccellenza dell'estetica, è invece trattato fin dall'antichità dalla storia della filosofia, ma non aveva a che fare con l'arte: nel pensiero greco antico, bellezza è una qualità che riguarda il cosmo e non necessariamente l'arte, anzi, bellezza e arte in qualche modo si contraddicono, per esempio per Platone. Come la bellezza dell'ordine dell'essere (cultura greca), superiore a ogni arte (techne) è divenuta, ma esclusivamente in età moderna (dal Rinascimento in poi), una categoria dell'arte e solo in subordine della natura: la bellezza è il modo in cui l'essere si manifesta; per i greci bello è l'apparire sensibile, cioè che è valido e buono. La cultura greca, dunque, assegna alla bellezza una valenza ontologica, cioè la bellezza è una caratteristica dell'essere, quindi non è un prodotto dell'uomo, tantomeno della sua arte, che nel pensiero greco è individuata come techne, qualcosa che gli uomini fanno, ma che non ha la stessa importanza della bellezza. Platone condanna l'arte nel libro X della Repubblica, come un qualcosa che fa regredire l'uomo a un suo stadio infantile, in buona sostanza l'arte per Platone è un'imitazione di oggetti, i quali a loro volta sono copia delle idee. Per Platone le idee sono la cosa più importante dell'essere, dunque l'arte è molto lontana dall'essere ed è semplicemente una forma di manipolazione dei materiali da parte dell'uomo, ma non ambisce ad essere affatto rivelatrice di qualcosa, portatrice di verità, come invece accadrà nell'estetica moderna. Entro certi limiti, le cose vanno in questo modo circa fino all'età moderna, quando col Rinascimento l'artista comincia ad essere pensato come una sorta di piccolo dio, come qualcuno in grado di creare dal nulla qualcosa che ha in sé una verità che altre forme di sapere potrebbero non avere. Quando diciamo che l'estetica ha a che fare con la bellezza, quindi, diciamo qualcosa di moderno, che è legato soprattutto alla filosofia post-kantiana e, comunque, la bellezza, fino al Settecento, è una categoria considerata in subordine alla natura: bella è, innanzitutto, la natura. Ancora nel Settecento, l'arte, quando è bella, non è che un'imitazione della natura. La natura, dunque, è bella; l'arte lo è solo in seconda battuta, e anche l'arte lo è soltanto nell'età moderna. Interpretazioni diverse della nascita dell'estetica Esistono tante estetiche quante sono le definizioni di estetica, dunque in base a questo si 21 avranno anche concezioni diverse di quello che l'estetica deve o dovrebbe fare. La domanda è: perché l'estetica nasce nel Settecento?, naturalmente intendendo l'estetica come disciplina filosofica: del bello i filosofi si sono sempre occupati, dell'arte in un certo senso anche; quello che non si era mai fatto era unire bellezza e arte e concepire i temi dell'arte e della bellezza come qualcosa di degno di indagine filosofica. Prima tesi: scoperta dell'individuale. In sostanza, qualcuno sostiene che l'estetica nasce nel Settecento, perché in questo secolo c'è un'attenzione inedita per l'individuale. Nella storia della filosofia, l'individuale vive una vita difficile, perché quando Aristotele osserva che si può dare scienza solo dell'universale e considera, dunque, l'individuale argomento non trattabile scientificamente, apre una strada di esclusione dell'individualità dai saperi. L'estetica, invece, nasce forse anche per questo nuovo interesse all'individualità: è possibile avere scienza di ciò che è assolutamente individuale, o bisogna sempre riportarlo a delle leggi? Questa domanda trova nel Settecento una prima risposta positiva; è possibile interessarsi scientificamente dell'individuale, quindi l'estetica nasce alla ricerca di criteri scientifici per comprendere l'individualità, il che la fa somigliare molto da vicino alla storia, che nasce anch'essa nel Settecento. Seconda tesi: salvezza dell'irrazionale. L'estetica nascerebbe per preservare il valore scientifico di quello che si presume sia irrazionale. Il Settecento segue il secolo del razionalismo, il Seicento, quando Cartesio sostiene che la verità sia disposta in idee chiare e distinte, sostanzialmente idee geometrico-matematiche, e che tutto il resto sia fondamentalmente irrazionale; viceversa nel Settecento comincia a farsi strada l'idea che l'irrazionale sia tutt'altro che irrilevante e tutt'altro che da escludere dal sapere scientifico. La tesi che sostiene che l'estetica nasca come salvezza dell'irrazionale, dunque, vuole sottolineare come l'estetica cerchi di preservare tutta una serie di forme di vita e saperi che il razionalismo seicentesco aveva bandito. Terza tesi: compensazione e salvezza della theoria. Già le prime due tesi sostengono che l'estetica nasce in reazione a qualcosa (compensazione). La theoria, per i greci, era la contemplazione. Nel mondo moderno, dopo la rivoluzione scientifica, il divino, il cosmo, non sono più oggetti di indagine scientifica e anche l'attività di pura contemplazione della realtà è diventata qualcosa di superfluo, o comunque non scientifico, dunque l'estetica nascerebbe appunto per salvare la theoria, cioè per dire all'uomo moderno che esiste ancora una possibilità di contemplazione disinteressata dell'essere o della realtà, che avviene attraverso l'estetica, che compenserebbe così un mondo fondamentalmente privato del divino e di ogni mistero, ridotto alla sua quantità matematica, salvando la possibilità per l'uomo di contemplare. La theoria greca era il vertice delle attività cognitive dell'uomo, secondo i greci, quindi in qualche modo l'estetica moderna nasce con la stessa ambizione di incarnare l'atteggiamento più elevato che l'uomo può avere verso la realtà, quello della contemplazione disinteressata. Quarta tesi: riflessione sul sistema delle arti. Questa è una teoria molto più modesta, ma molto più verosimile, che vuole la nascita dell'estetica da una riflessione sul sistema delle arti. Il Settecento è il secolo in cui assistiamo al progressivo definirsi del sistema delle arti. Costruendo un sistema delle arti, comincia a diventare necessaria la riflessione su cosa le accomuni, e l'estetica si candida a essere una filosofia che riflette a partire dalle varie pratiche artistiche. Questa è una tesi molto verosimile, perché il Settecento è stato chiamato il secolo della metodizzazione dei saperi, cioè il secolo in cui vari saperi vengono dandosi un proprio metodo. Quinta tesi: valorizzazione anti-gnostica dell'esperienza sensibile. Il mondo settecentesco è fondamentalmente un mondo de-mitizzato, ridotto alla quantità matematica. Questo fa sì che l'esperienza sensibile che noi facciamo tutti i giorni della realtà venga in qualche modo considerata extra-scientifica, se non addirittura da bandire; in più, nella nostra cultura occidentale c'è da sempre una tendenza gnostica molto forte. La gnosi è una corrente religioso-filosofica del primo cristianesimo e del tardo platonismo che sottolinea come il mondo sia un mondo fatto da un dio malvagio che attende una sua liberazione. Se il mondo è malvagio, l'esperienza che noi facciamo nel e con il mondo è altrettanto malvagia, dunque da questo punto di vista nella nostra cultura c'è una 22 tendenza gnostica, che tende a sottovalutare i sensi, l'esperienza sensibile, e a considerarla qualcosa di superabile. I sensi, come diceva Cartesio, ingannano, e quando uno è stato ingannato una volta non può escludere di essere ingannato ogni volta dai sensi. Quindi, il Settecento presenta questo problema all'estetica: come recuperare il valore dell'esperienza sensibile, contro le tendenze gnostiche ben presenti nella nostra cultura. Sesta tesi: teoria della conoscenza sensibile e percettologia. È possibile fare teoria della conoscenza sensibile e filosofia della percezione, che il secolo del razionalismo aveva invece escluso, quindi l'estetica si presenta come una teoria della conoscenza sensibile, una percettologia. Precorrimenti Sarebbe sciocco pensare che l'estetica nasca dal nulla nel Settecento, è chiaro che ha dei precursori, come autori e come temi. Questi concetti, però, non erano riuniti in un'unica disciplina, e vengono tematizzati e raccolti per la prima volta in modo unitario dall'estetica. Primo concetto: la fantasia e i matrimoni illegali fra le cose. Il concetto di fantasia è trattato in varie forme dalla filosofia fin dall'antichità, quindi non è un concetto nuovo, e vive una vita complicata tra valorizzazione e svalutazione e solo nel Settecento cominciamo ad avere una piena valutazione della fantasia. La definizione in corsivo viene da Francis Bacon, che dice molto bene quello che si comincia a pensare con fantasia: la fantasia crea matrimoni illegali fra le cose, che normalmente sarebbero collegate in modo razionale; la fantasia è capace di generare collegamenti imprevisti. Altri concetti: arguzia, ingegno, gusto. Nel Seicento c'è una grande diffusione del concetto di arguzia: collegare fra loro cose non collegate, trovare analogie fra cose che normalmente non sembrano analoghe; l'ingegno come capacità di creare e stupire; il gusto come capacità anche educabile ad avere la giusta valutazione nelle singole cose; non a caso diciamo ancora "tatto" e "gusto" nel senso della capacità di stare in una determinata situazione, sapere come comportarsi. Altro concetto: la querelle tra antichi e moderni. Nel Seicento, il dibattito su chi sia meglio tra antichi e moderni infuria e non riguarda solo l'arte, ma anche i saperi scientifici. L'estetica fa tesoro di questa querelle, perché questo tema del contrasto fra antichi e moderni tornerà varie volte e innerverà molti punti dell'estetica moderna e poi ottocentesca. Altro concetto: entusiasmo e idea neoplatonica. Entusiasmo, etimologicamente, significa "essere pieni di", ed è un concetto che risale alla tradizione platonica e neoplatonica; l'idea che il poeta è creativo nella misura in cui è invasato ed entusiasta, cioè letteralmente pieno di dio. Nella rinascita settecentesca del platonismo c'è una rivalutazione enorme di quello che in Platone sono le idee: il fatto che l'artista realizzi qualcosa che si confà a idee perfette viene a far parte del dibattito sull'estetica. L'artista è qualcuno che è entusiasta e che è in grado di portare a realtà idee sovrasensibili. Altro concetto: il non so che e lo spirito di finezza. In varie discipline si sottolinea come spesso l'uomo sappia agire, ma non sappia spiegare perché agisce così. Il non so che indica proprio la sfera di un sapere non dogmatizzabile e che non si può spiegare attraverso leggi; lo spirito di finezza è il concetto di Pascal, che contrappone spirito di geometria a spirito di finezza, per indicare che una cosa è comprendere geometricamente il mondo e le cose, altra cosa è comprendere qualcosa che non si lascia ridurre a criteri e regole matematiche. L'estetica, dunque, si candida a essere un sapere filosofico che dà serietà a una serie di concetti che precorrono il dibattito dell'estetica moderna e contemporanea. Altri concetti: opinione pubblica, critica, imitazione. L'opinione pubblica si sviluppa, prima che in altri Paesi, in Inghilterra. Comincia a nascere la figura del critico, il problema della discussione pubblica del valore delle mostre o degli spettacoli teatrali; si forma l'idea della critica; l'estetica nasce anche come tematizzazione di qualcosa che si cominciava a fare a livello giornalistico, con le recensioni delle mostre e delle opere teatrali. Imitazione indica che non possiamo dimenticare che l'estetica è l'arte vista ancora principalmente come imitazione, in particolar modo imitazione della 25 Troviamo la trattazione che chiamiamo estetica nella terza Critica di Kant, la Critica del giudizio (1790). Kant distingue chiaramente due tipi di giudizio, il giudizio determinante e il giudizio riflettente e dice che quest'ultimo è quello che ha a che fare con l'estetica; in realtà il giudizio riflettente ha due varianti, il giudizio di gusto e il giudizio teleologico, che ha a che fare con i fini della natura. Il giudizio riflettente si distingue da quello determinante perché riflette sulla condizione del giudicante. Il giudizio determinante, secondo Kant, sta alla base della nostra conoscenza scientifica e quindi è quello su cui si fonda la sua prima critica, la Critica della ragion pura. Questo giudizio consiste in una sussunzione del particolare nell'universale: dato un certo particolare e una certa legge particolare, il giudizio determinante consiste nell'includere il particolare nell'universale corrispondente. Il giudizio riflettente è un giudizio molto diverso, perché è un giudizio in cui noi abbiamo un particolare, ma non abbiamo alcun universale sotto cui sussumerlo, quindi esprime qualcosa su un particolare, ma è alla ricerca di un universale, di un universale del sentimento: se io dico che una cosa è bella, esprimo un giudizio riflettente, ma il concetto di "bello" non c'è; non c'è una legge universale di bellezza, quindi io cerco di ricondurre il particolare a un universale di cui non sono in possesso. Questo universale è un universale non logico, ma sentimentale. Dopo l'oggettivismo razionalista (la bellezza è una qualità oggettiva delle cose) e il soggettivismo empirista (la bellezza è un sentimento del fruitore) viene l'estetica di Kant. L'aspetto rivoluzionario di questa critica di Kant è che fino a Kant, e ancora in Baumgarten entro certi limiti, la bellezza è considerata una qualità oggettiva delle cose, come le altre, quindi una cosa è alta, con un certo peso, ed è anche bella, quindi il bello va individuato e bisogna cercare di trovarne una legge oggettiva. Nel Settecento, invece, si sviluppa, sulla base della filosofia dell'empirismo, un soggettivismo estetico molto accentuato, quello secondo cui la bellezza non è una qualità delle cose, ma è un sentimento di chi giudica qualcosa. Kant viene dopo queste due correnti, in qualche modo cercando di coniugarle. Per Kant la bellezza è il sentimento suscitato da una cosa (facoltà di giudicare). La terza critica è la critica del giudizio, perché si concentra appunto sul giudizio, riflettente e non determinante, al centro del quale c'è la bellezza, che è il sentimento che qualcosa, anche una rappresentazione, suscita in noi e che Kant chiama facoltà di giudicare. Quindi, in effetti, anche per Kant, la bellezza non è una qualità delle cose, quando si dice che un cavallo è bello non si dice qualcosa che aggiunge al cavallo una qualità oggettiva; il bello è semplicemente una reazione prodottasi nel fruitore nel contemplare il cavallo (la cosa). Quindi, il giudizio di gusto non è cognitivo, non conosce alcunché (dire che una cosa è bella non è conoscerla). A differenza di Baumgarten, che considerava la bellezza una perfetta conoscenza sensibile, per Kant la conoscenza sensibile e la conoscenza intellettuale e logica sono due campi totalmente separati e non posti su una continuità. Valore non cognitivo del giudizio di gusto significa che quando io dico che una cosa è bella non aggiungo alcuna proprietà conoscibile a quelle propriamente conoscibili della cosa che dico bella. Kant, però, non è un filosofo soggettivista, ovvero che riduce il bello a un qualcosa che non si può spiegare o comunicare; Kant, sulla base del carattere non cognitivo del giudizio di gusto cerca di fondare una filosofia del bello che cerca di argomentare come si possa dire che una cosa è bella e come lo si possa comunicare. Il giudizio di gusto e i suoi momenti La Critica del giudizio inizia con un'analisi spietata di cosa sia il bello, che è stata fondamentale per molte riflessioni successive. Primo momento: il bello (che non è né il piacevole, né il buono) è un piacere disinteressato. Il bello è distinto da qualcos'altro: non tutto quello che nella vita quotidiana chiamiamo bello può dirsi bello per Kant. Intanto, distingue il piacevole e il buono. Il piacevole è ciò che ci piace attraverso i sensi (quindi il bello non ha a che fare strettamente 26 coi sensi); secondo Kant, il piacevole non è un piacere puro, libero, secondo Kant, perché non posso non trovare piacevole qualcosa che mi piace, dato che i miei sensi sono fatti in un certo modo. Il bello non è neanche il buono, perché il buono ha a che fare con la moralità: per dire che una cosa è buona, devo avere un concetto, e quindi il giudizio sarebbe un giudizio determinante, e non riflettente, mentre per Kant il giudizio di gusto, il giudizio sulla bellezza, è un giudizio riflettente, in cui si ha il particolare (l'oggetto che si percepisce), ma non l'universale (la bellezza che gli si attribuisce). Se fosse un giudizio determinante, non avremmo alcun dubbio su cosa è bello e cosa non lo è; non dovremmo far altro che applicare il concetto di buono ai singoli casi percepiti. La cosa più rilevante di questo primo momento è il carattere disinteressato: Kant dice che il piacere del bello, dunque il gusto, è un piacere disinteressato, che non significa che non produca interessi, ma che chi giudica una cosa bella non ha necessariamente con la cosa alcun legame di interesse, nemmeno la sua esistenza: posso trovare bella una rappresentazione, anche se non ha nulla di reale. Secondo momento: il bello è un piacere universale, ma senza concetto (universalità soggettiva o estetica). Dopo aver detto che il bello è oggetto di un piacere disinteressato, Kant si chiede se ciò che piace a una persona piace anche agli altri. La risposta è tremendamente ambiziosa: il bello è un piacere universale, piace a tutti, ma senza concetto. Noi siamo abituati dalla logica a pensare che una cosa valga per tutti quando c'è un concetto che tutti conoscono. Nel caso del bello, questo concetto non esiste, dunque noi siamo certi che una cosa è bella e che piacerà a tutti senza poter addurre alcun concetto di bellezza. Dal primo momento sappiamo che il bello è un piacere disinteressato. Se io giudico bello qualcosa, senza alcun interesse personale a quella cosa che dico bella, mi aspetto che tutti coloro che giudicheranno come me in maniera pura e disinteressata, troveranno bella quella cosa. Se ci fosse un concetto, tutti troverebbero bella le stesse cose perché sarebbe un giudizio determinante e scientifico e non estetico. L'universalità che il bello ambisce a realizzare è un'universalità soggettiva, o estetica: secondo Kant, se ho giudicato in maniera pura e disinteressata, io sono certo che una cosa è bella e anche che gli altri probabilmente troveranno bella la stessa cosa, quindi c'è un'universalità che non si basa su concetti, ma sul fatto che ciascun essere umano, portato dinnanzi alla stessa cosa, dovrebbe trovarla bella. Qui si apre una questione sottintesa nella domanda piace la sua (del bello) comunicabilità?. Secondo alcuni, per Kant non ci piacciono le cose, ma ci piace il fatto che possiamo comunicare il sentimento di piacere che si è determinato. Questo non è del tutto assurdo, perché Kant insiste molto sul fatto che non è che prima si percepisce un oggetto e ci piace e poi decido di comunicare il piacere agli altri, ma viceversa: io provo piacere per un oggetto bello, perché sento che è comunicabile il sentimento di piacere che ho in me; la comunicabilità del sentimento di piacere sembra venire prima della bellezza della cosa giudicata, e il bello coincide con questa sensazione della comunicabilità del piacere da me provato. Dunque, se il giudizio di gusto è disinteressato, esso provoca però interesse sociale. Terzo momento: il giudizio di gusto constata una finalità senza scopo: ciò che piace è solo la forma della finalità senza la rappresentazione di uno scopo. Se una cosa piacesse in base a uno scopo, lo scopo sarebbe un concetto, e si ricadrebbe nel giudizio determinante. Per Kant io giudico che una cosa è bella senza rappresentarmi lo scopo, ma constatando una finalità: io percepisco che quell'oggetto è finalizzato, cioè fatto per avere un senso, che però non posso individuare, cioè non posso individuare esattamente lo scopo per cui questa cosa esiste, dunque ciò che mi piace non è lo scopo, ma è che quella cosa appaia finalizzata, senza però che io possa mai indicare precisamente quale sia lo scopo, pena la ricaduta nel giudizio determinante. Quarto momento: il piacere estetico è necessario, si attende il consenso universale e si fonda su un "senso comune", ossia sulla possibilità di tener conto a priori del modo di giudicare altrui (libero gioco delle facoltà conoscitive). Kant ambisce a dire che quando io dico che una cosa è bella mi 27 attendo il consenso universale; il che non significa che tutti troveranno belle le stesse cose, ma che chiunque, quando dice che una cosa è bella, si aspetta che tutti la trovino bella, perché ha giudicato in maniera pura e disinteressata e si aspetta che tutti gli altri facciano lo stesso; è un'attesa che si fonda sul senso comune. Il senso comune per Kant è una possibilità che quando io giudico qualcosa possa tener conto a priori del modo di giudicare degli altri; è una capacità che Kant lega molto da vicino al pensiero illuministico, perché implica mettersi al posto degli altri, giudicare come se giudicassero gli altri. Tale capacità è il senso comune, ed è fondamentale anche nel giudizio sul bello: quando io giudico qualcosa è come se anticipassi il giudizio altrui, la comunicabilità di questo giudizio. Secondo Kant abbiamo in gioco intelletto e immaginazione: quando dico che una cosa è bella, intelletto e immaginazione si trovano in un libero gioco tra loro; non che quando giudico che quello su cui sto scrivendo è un computer non ci sia un gioco tra le facoltà conoscitive, intelletto e immaginazione, ma non è un libero gioco, nel senso che quando devo conoscere qualcosa l'immaginazione è in qualche modo controllata e subordinata dall'intelletto; viceversa, quando dico che una cosa è bella, intelletto e immaginazione si incitano a vicenda e questo produce un piacere che Kant chiama una promozione della vita, diventiamo più vitali grazie a questa sensazione. Kant introduce una distinzione tra bellezza libera (da concetti) e bellezza aderente (a concetti). La bellezza libera è la bellezza libera da concetti, che io giudico senza avere già in me il concetto a cui dovrei uniformare il particolare (giudizio riflettente e non determinante). Per questa concezione della bellezza, Kant è stato accusato dai suoi detrattori più feroci di formalismo, perché sembra presentare un caso limite, e anche difficile da verificare: chi può dire se stiamo giudicando in maniera pura e disinteressata? La bellezza aderente, invece, indica che Kant sa perfettamente che quando giudichiamo bello qualcosa in società abbiamo dei concetti: una casa deve essere funzionale, un paesaggio deve essere rasserenante, eccetera. Soprattutto per certi oggetti, e in particolar modo per quelli artistici, Kant sa perfettamente che noi possediamo dei concetti sociali, dei criteri sociali. Lui la chiama bellezza aderente, che considera molto subordinata alla bellezza libera. Qui si pone un rischio di intellettualismo, cioè che piaccia qualcosa che si rifà a un concetto, a un ideale, o a una norma statistica. Il sublime Prima di Kant, a metà Settecento è stato Burke a scrivere di sublime, ma ancora in modo totalmente rapsodico e non fondato su una filosofia come quella kantiana. In questo tema, Kant apre la strada a quella che sarà l'estetica successiva e a tutta la cultura romantica successiva. Per Kant, il sublime è un piacere negativo e indiretto: rivelazione della dignità morale della destinazione umana. Quindi, il sublime non è il bello, che è oggetto di un piacere tranquillo. Il sublime è invece qualcosa che non piace affatto, che urta, irrita, spaventa, quindi se è un piacere è un piacere più complicato, in particolare è un piacere indiretto. Secondo Kant ci sono due tipi di sublime. 1. Il sublime matematico: l'immensa grandezza della natura. L'esperienza di un oggetto della natura incalcolabile (per esempio il cielo stellato), che va al di là delle mie possibilità di controllo quantitativo. 2. Il sublime dinamico: l'immensa potenza della natura. La natura non è solo molto più grande di me, ma è anche molto più potente di me: vulcani, eruzioni, terremoti, mare in tempesta, tutte le immagini che diventeranno luoghi comuni della cultura romantica sono presenti in qualche modo in Kant. Quando la natura mi si presenta nella sua estrema potenza, provo un sentimento che Kant chiama sublime dinamico. È chiaro che Kant anticipa una cosa fondamentale: per poter provare il piacere del sublime, che sostanzialmente è indiretto perché "nasce" da qualcosa che in prima battuta mi spaventa, mi terrorizza, io devo essere in condizioni di sicurezza. Resta però il problema del perché mi piace qualcosa che potrebbe anche distruggermi? 30 soltanto sentimentale, cioè cerca la natura, una fusione con essa, di cui è costretta ad avere un sentimento nostalgico. Il sentimento di nostalgia verso la natura, che il Romanticismo svilupperà appieno trova qui uno dei suoi capitoli fondamentali; il ritorno alla natura sacralizzata, con cui ci si deve fondere, è già presente nei testi schilleriani. Romantizzazione del mondo Da Goethe, attraverso la continuità di arte e natura, in Schiller, attraverso l'idea di una società estetica, fondata sull'istinto del gioco, passiamo ai romantici. Romantizzazione del mondo significa che il mondo viene visto in una chiave poetica: l'unico senso possibile del mondo, per la filosofia romantica, è quello estetico-poetico. Nel Settecento, l'estetica è ancora concentrata sull'effetto dell'opera d'arte: per Kant il bello è una reazione, uno stato d'animo prodotto nel soggetto da una rappresentazione o dall'intuizione di qualcosa, quindi l'estetica punta a interrogarsi su quali siano gli effetti della bellezza sull'animo dello spettatore. Poi, avviene un cambiamento: dall'estetica dell'effetto si passa all'estetica della creazione geniale. Kant sdogana il genio, introducendo per la prima volta nel discorso filosofico il genio come colui che non sa spiegare quel che fa; i romantici svilupperanno pienamente questa concezione, attribuendo all'arte la funzione di creazione geniale. Il poeta viene insignito di una funzione quasi sacra (è un veggente), è colui che sa vedere più in là degli altri uomini; sa vedere il futuro, lo presagisce, è in grado di creare qualcosa dal nulla, e la poesia diventa anche riflessiva; poesia trascendentale è un concetto preciso di Schlegel, che con questa espressione intende che la poesia moderna, perché romantica, non può essere naturale, e quindi è sempre anche riflessiva; poesia trascendentale significa che è una poesia sulla poesia, una metapoesia. La poesia non è mai soltanto un'effusione lirica immediata e naturale, ma in età romantica è anche sempre una riflessione sui mezzi della poesia stessa. Un altro concetto chiave dell'epoca romantica è l'ironia (trascendimento della forma finita): dato che l'assoluto non può essere espresso compiutamente da nessuna forma finita, la forma finita (e l'opera d'arte è tale) è destinata a essere continuamente trascesa. Ironia vuole dunque dire che l'artista, il poeta, per quanto geniale, mantiene verso le sue opere un atteggiamento ironico; sa che sono frammentari e non possono esprimere tutto quello che egli vorrebbe esprimere. Di qui un atteggiamento verso l'intera realtà che è stato chiamato "ironico". Il tragico entra di diritto nel pensiero romantico, soprattutto con la riflessione di Hoelderlin, che in un suo scritto parla del tragico come di un segno = 0; che vuol dire la stessa cosa circa del concetto di ironia, ovvero la tragedia, il tragico, sta nel fatto che quello che noi creiamo è zero, ed è posto come zero, perché soltanto posta come zero questa nostra creazione può precisamente alludere alla dimensione della trascendenza. Dunque, qualunque creazione finita dell'uomo è tragica. Politeismo dell'immaginazione e nuova mitologia Siamo di fronte a pensatori certamente cristiani, ma che guardano con grande fascino e attenzione al politeismo antico, in particolare alla mitologia greca, che appare loro un correttivo di una tendenza troppo arida e troppo intellettualistica presente nel cristianesimo dominante nella civiltà occidentale in cui essi vivono. La totalità delle idee è un atto estetico (e politico). Questa considerazione deriva da un breve frammento, scoperto agli inizi del Novecento, che è stato intitolato Programma sistematico dell'idealismo tedesco. Non si sa con precisione chi l'abbia scritto, forse Hegel, ma comunque vi sono contenute idee che non appartenevano a Hegel, ma comunque sono idee presenti in molti giovani romantici che avevano a che fare con Hegel. Anche qui la distinzione, come già in Schiller, tra estetico e politico è molto forte: chiunque sia l'autore, pensa che soltanto attraverso l'estetico si abbia una riunificazione della società: è come se questi spiriti romantici cercassero una società di uguali, prodotta come tale dall'estetica anziché dalla politica. 31 Monoteismo della ragione e politeismo dell'immaginazione (e dell'arte). Gli autori romantici dicono che la ragione è monoteistica, ovvero trova un unico principio; siamo ormai a fine secolo e Fichte ha già costruito quello che sarà l'idealismo tedesco, una filosofia tutta costruita sull'assolutezza dell'io, quindi di un principio unico, quindi questi autori sanno bene che, filosoficamente, la verità è monoteistica: la ragione è una, ma questa ragione ha bisogno di un correttivo, di una complementarietà, che è fornito dall'arte, dall'immaginazione, che è per definizione politeistica, ovvero molteplice per definizione: l'immaginazione crea tante forme di vita, quindi perfettamente compendia il monoteismo della ragione, che lasciato a se stesso inaridirebbe l'uomo moderno. C'è dunque bisogno di una "nuova mitologia" al servizio delle idee: sempre nel frammento citato, si parla di nuova mitologia, e si dice che l'atto estetico, che è un atto politico e riassume in sé tutte le idee (pensate alla maniera di Platone), ha bisogno di una mitologia, ovvero il politeismo dell'immaginazione citato prima; solo che naturalmente questi pensatori non hanno in mente un puro regresso alla mitologia antica, ma hanno in mente una nuova mitologia, che sia al servizio delle idee: le idee della ragione filosofica non vengono dismesse, ma bisogna cercare un modo per esprimerle che sia adeguato all'immaginazione. Ciascuno di questi pensatori (Hoelderlin, Schelling, Novalis, ecc.) cercano una nuova mitologia, ovvero di concepire il modo in cui la ragione filosofica possa tradursi in idee mitologiche; questo significa per esempio che la scienza del periodo non può essere lasciata da sola, ma deve diventare lei stessa poesia, deve saper parlare a tutti e può farlo solo tramite l'arte. Il miracolo dell'arte: Schelling Per la prima volta nella storia del pensiero filosofico, Schelling sostiene che l'arte è il miracolo supremo dell'esistenza. In Sistema dell'idealismo trascendentale (1800) Schelling esalta l'arte. Schelling vede l'opera d'arte come conciliazione delle contraddizioni (natura vs storia, conscio-arte vs inconscio-poesia): la tragicità della contraddizione presente nella nostra vita (per esempio nel nostro agire storico, in cui noi agiamo per un fine, ma molto spesso il significato delle nostre azioni è determinato da altro, da qualcosa che ci trascende – eterogenesi dei fini) è superata dall'arte, quindi all'arte viene assegnato un ruolo miracoloso: la natura si contrappone normalmente alla storia: nella storia noi agiamo consapevolmente e il risultato è inconscio; la natura, invece, agisce inconsciamente e il risultato è la coscienza. Lo stesso dicasi dell'arte, in cui abbiamo una parte conscia, che Schelling chiama arte e che fondamentalmente sono le abilità tecniche, contrapposta alla poesia in senso stretto, che è l'attività inconscia. Quindi, l'artista, il genio, è una conciliazione di queste contraddizioni, in particolare di arte e poesia. L'opera d'arte è infinità inconscia, quindi infinitamente interpretabile: per Schelling l'opera d'arte ha un significato infinito. Questa infinità inconscia, cioè non pienamente pensata dal suo autore, proprio in quanto inconscia, la rende infinitamente interpretabile, cioè è destinata ad essere interpretata all'infinito. La chiusa del sistema dell'idealismo trascendentale di Schelling è il ritorno di tutti i saperi nella poesia. La poesia era all'origine, la poesia è alla fine dell'umanità: tutti i saperi si sono creati separandosi dalla poesia, e come tanti fiumi torneranno nell'unico alveo, che è la poesia. L'arte è l'unica ed eterna rivelazione dell'assoluto: rappresenta esternamente la certezza solo interiore della filosofia. L'assoluto è pensato qui da Schelling come identità, in cui tutto è uguale a tutto, tranne che noi non vediamo questa identità perché vediamo delle differenze quantitative. L'assoluto è rivelato miracolosamente dall'arte, perché la filosofia arriva altrettanto alla verità, ma soltanto interiormente, il filosofo arriva all'idea dell'assoluto, ma non può esprimerla esteriormente, non può farne partecipi gli altri individui, cosa che invece all'arte riesce benissimo: l'opera d'arte non solo rivela l'assoluto, ma lo esemplifica e lo mostra a tutti. Anche Schelling chiede all'arte di darsi una nuova mitologia, che abbia un senso infinito (che sappia esprimere qualunque idea) e abbia simboli per tutte le idee, che devono essere espresse in particolari molto efficaci e che bastano a se stessi e in questo senso sono simboli e non allegorie (cfr. Goethe). 32 Tra 1801 e 1804, la concezione di Schelling cambia: l'arte era per lui un miracolo in quanto rivela l'assoluto; ora viceversa l'intero cosmo viene visto come una gigantesca opera d'arte, che dunque riesce a manifestare l'assoluto, quindi lo sguardo estetico passa dall'opera al cosmo. Nel sistema dell'identità è la vita universale ad essere una colossale opera d'arte: se tutto è identico, e se tutto è estetizzato, cioè da guardare come se fosse opera d'arte, tutta la vita è una colossale opera d'arte. L'arte è liberazione dalla volontà: Schopenhauer Nella sua opera Il mondo come volontà e rappresentazione (1818), Schopenhauer pone alla base una concezione pessimistica della realtà, secondo la quale tutta la realtà è il prodotto di una volontà di vivere che non ha nulla di buono, è cieca, irrazionale, ed è coperta dal velo di Maya, concetto che Schopenhauer riprende dalla tradizione orientale; la realtà tutta è dolore, perché subordinata alla volontà di vivere, ed è coperta dal velo di Maya. L'arte allude al mondo delle idee: intuisce nella natura non il prodotto, ma ciò che si sarebbe dovuto produrre: il mondo è volontà, che è il suo principio metafisico, ma noi ce lo rappresentiamo, e così facendo non ne cogliamo la verità. L'arte ci introduce nel mondo delle idee, concetto ripreso tipicamente da Platone. Proprio come in Platone, secondo Schopenhauer ci sono delle idee, cioè degli universali di tutto ciò che esiste, e l'arte, anziché esprimere dei particolari, esprimerebbe queste idee, gli universali. In particolare, quando l'arte esprime la natura, non esprime il prodotto della natura, ma esprime ciò che la natura avrebbe dovuto produrre, se avesse potuto produrre qualcosa di ideale: per esempio, se l'arte è riuscita, in un dipinto che raffigura un albero noi non vediamo quell'albero, ma vediamo L'albero, cioè l'albero ideale, quello che avrebbe dovuto essere ogni albero. In questo modo, l'arte ci porta fuori dal mondo della rappresentazione, perché se il mondo della rappresentazione, in quanto soggiogato dalla volontà di vivere, è dolore, l'arte, facendoci intuire le idee delle cose, è in grado di portarci fuori da questo mondo di dolore. Deindividualizzazione del soggetto e deindividualizzazione dell'oggetto: di fronte all'albero dipinto di prima, io spettatore sono soggetto, ma vengo deindividualizzato; non sono più io in quanto persona particolare a contemplare l'opera artistica, ma divento una specie di soggetto del mondo; al tempo stesso, l'oggetto non è più il singolo albero, ma è l'albero ideale. L'arte è opera del genio (analogia col folle): Schopenhauer, in piena età romantica, difende la concezione dell'opera d'arte come opera geniale. Il genio è colui che crea senza conoscere del tutto ciò che fa, perché la sua produzione è fondamentalmente inconscia; di qui l'analogia con la follia: Schopenhauer sviluppa questa analogia sostenendo che anche il folle non vede i particolari, ma vede le cose ideali, o comunque un'altra dimensione. L'arte è liberazione provvisoria dalla volontà di vivere (dolore): l'arte deindividualizza il soggetto e l'oggetto, in questo senso libera dalla volontà di vivere. Nel momento in cui l'artista crea, e soltanto in quel momento, così come per il contemplatore dell'arte, ma solo per il periodo in cui contempla l'opera d'arte, entrambi sono liberati (provvisoriamente) dalla volontà di vivere, cioè dal dolore, dunque si guadagna un momento di felicità attraverso l'introdursi in una dimensione ideale, che va al di là della rappresentazione. La liberazione definitiva dalla volontà, per Schopenhauer, non spetta all'arte, ma è da rintracciare nell'ascesi mistica, che però non si conclude nella vicinanza a un dio, che per Schopenhauer non c'è, ma nel Nirvana tipico del buddhismo. Arte o più che arte: musica (oggettità diretta della volontà). Schopenhauer, dopo aver detto cos'è l'arte, tratta le varie arti. Quasi sempre vengono proposte dai filosofi di questo periodo vere e proprie "graduatorie" delle varie arti. Schopenhauer ritiene la tragedia l'arte più elevata, in quanto è l'arte che raffigura meglio ciò che accade nel mondo. Schopenhauer attribuisce alla musica una funzione superiore all'arte; la musica è più che arte, è una forma di oggettivazione diretta della volontà: la volontà è cieca e irrazionale; è unica e si oggettiva nel mondo nelle varie idee, che sono i modelli platonicamente intesi di tutte le cose 35 Il caso del paesaggio: la presentificazione estetica della natura come compensazione dell'obiettivazione scientifica: uscire da sé per ricomporre la cosmicità antica. Il paesaggio è una categoria della storia dell'arte, ma anche della filosofia, totalmente moderna; la pittura di paesaggio nasce nel Seicento e si stabilisce tra Settecento e Ottocento. La natura può essere vista come paesaggio perché viene presentificata esteticamente, e questa è una novità: l'obiettivazione scientifica non considera la natura un oggetto di contemplazione; semmai un oggetto di indagine e intervento manipolatorio: la scienza interviene sulla natura, servendosene per i suoi scopi; il paesaggio no. Il paesaggio nel Settecento diventa un oggetto estetico per eccellenza, perché compensa l'obiettivazione scientifica: se la natura viene disincantata e perde il suo fascino, l'estetica si incarica di preservarlo. Il paesaggio non si incontra per caso: bisogna uscire da sé, ma anche dalla città, quindi è solo perché c'è la scissione che l'estetico prende questa importanza nella sua funzione compensativa, quindi anche il paesaggio esiste solo perché esiste la città che ha annullato il paesaggio, e proprio per questo annullamento noi sentiamo il bisogno del paesaggio come liberazione estetica, tornando a guardare la natura come un cosmo, e a guardarla in modo disinteressato ("cosmicità antica"). Il paesaggio come tale non è mai stato percepito esteticamente da chi ci ha vissuto e lavorato. L'arte è conservazione, oppure non è arte. L'arte conserva l'esperienza sensibile, il mondo incantato che altrimenti andrebbe perduto; se non fa questo non è arte (definizione di un allievo di Ritter). L'estetico come compensazione La compensazione è equilibrio tramite integrazione. L'uomo è, in quanto essere organicamente deficitario, essenzialmente compensatore (esoneri, Gehlen). Gehlen, antropologo filosofico di inizio Novecento, come già Herder e Nietzsche, sostiene che l'uomo è un essere deficitario; a differenza degli altri animali, che appena nati sono già pronti per la vita e sono dotati di una forza istintuale che garantisce la sopravvivenza, l'uomo ha una lunga gestazione e passa molti anni prima di diventare autonomo. Non ha strumenti naturali per difendersi, quindi è deficitario. L'idea di Gehlen è che l'uomo si esonera da questi deficit attraverso la cultura, dunque è compensatore anche attraverso l'estetica: l'estetico è una forma molto lampante di compensazione, o di esonero, dai deficit naturali. L'estetizzazione dell'arte compensa il disincanto del mondo moderno (quindi è un fenomeno del tutto moderno); il bello prima non era un prodotto dell'arte, ma una caratteristica della realtà. L'arte compensa la perdita escatologica (tribunalizia) del mondo (prima cristiana e poi rivoluzionaria): l'arte è uno stato di grazia in un mondo non più escatologico. Perlomeno in tutta l'epoca cristiana, e poi a maggior ragione nell'epoca post rivoluzionaria in un mondo in cui conta il fine ultimo (mondo escatologizzato); per il cristianesimo conta naturalmente il regno di Dio, per la filosofia politica degli ultimi 250 anni conta la rivoluzione, l'uguaglianza, tutti stati rimandati alla fine. Questo comporta che il mondo venga tribunalizzato, cioè che il mondo sia sempre condannabile: fondamentalmente, il mondo è sempre sbagliato, commette sempre errori, perché l'ideale è rimandato alla fine dei tempi. L'arte fa piazza pulita di questa escatologizzazione, perché ci porta all'attenzione l'importanza del mondo così com'è, mostra che la bellezza è presente già ora e non è necessario rimandarla alla fine dei tempi; l'arte presenta un mondo valido e dotato di valore già di per sé, senza essere rimandato alla fine. Risarcimento dei mali: il pensiero dell'estetico come compensazione è anche una forma di risarcimento di alcuni presunti mali. Elenco di mali: 1. Gnoseologico (utilità dell'errore): male conoscitivo, l'errore. Nell'età moderna, parallelamente allo sviluppo estetico, notiamo che questo errore non è più un male: spesso l'errore è utile, funzionale, si impara attraverso l'errore e anche attraverso la teoria della conoscenza si comincia a comprendere che l'errore non è un male, ma uno sviluppo positivo. 2. Fisico (stimolo per la creatività): la creatività dipende anche da uno stato fisico non perfetto; il genio viene spesso paragonato al folle. Lo stimolo è funzionale alla creatività, ma anche quando lo stimolo è eccessivo, come nel caso del folle, produce qualcosa che sarebbe un male 36 dal punto di vista della società e della salute, ma tuttavia un bene dal punto di vista della creatività. 3. Morale (sospetto nietzscheano): Nietzsche insegna a sospettare della morale; i valori morali che noi consideriamo elevati in realtà hanno origini molto diverse. Anche gli istinti non morali possono prendere una forma morale, sono mali che tuttavia, a volte, producono forme benefiche. 4. Metafisico (rivalutazione della finitudine e mutevolezza): nella filosofia tradizionale, come nella teologia, il mondo finito e mutevole è considerato deficitario; invece, anche da questo punto di vista, l'estetico ci insegna a rivalutare ciò che è finito: l'opera d'arte è un oggetto come altri, tuttavia, il suo peso, il suo valore è infinito. 5. Estetico (positivizzazione del non-bello): l'arte bella è una scoperta dell'età postrinascimentale; già nell'Ottocento assistiamo al fatto che l'arte non ha più a che fare soltanto con la bellezza. Si parla del brutto, del disgusto, del grottesco, della caricatura. Anche questo sarebbe un male, ma viene positivizzato: l'arte del Novecento ci porta di fronte a esempi non-belli, tuttavia di arte. Un'altra possibile spiegazione del perché l'estetica nasce nella modernità e in una certa parte d'Europa sta in un'articolazione del pensiero protestante che condanna le opere buone: nessuno può gloriarsi di aver fatto opere buone, perché così si insuperbisce e dunque pecca, dunque questo sembrerebbe un mondo in cui non è possibile fare opere buone e non è possibile essere certi di aver fatto opere buone; forse le opere belle prendono il posto delle opere buone. L'arte non più bella: anti-finzione L'arte non è una rivoluzione mancata ma una conservazione riuscita (prosecuzione della teoria metafisica con altri mezzi). La morte dell'arte (escatologismo cristiano) non è posteriore, ma anteriore alla "morte dell'arte" (Hegel). Secondo Hegel, l'arte non è più il modo supremo di rappresentare lo spirito, quindi è morta, perché non ha più la funzione suprema che aveva un tempo. Questa, a pensarci bene, non è una novità di Hegel, ma qualcosa di completamente inerente alla tradizione cristiana: il cristianesimo, in fondo, è una condanna del mondo in vista di un regno finale; il cristianesimo è escatologico, rimanda alla fine dei tempi, ma se è così, l'arte non ha avuto diritto di cittadinanza mai nel cristianesimo; l'arte valuta fortemente il sensibile, mentre il cristianesimo lo svaluta fortemente, quindi potremmo arrivare alla tesi paradossale che Hegel, nel 1820, non fa che ratificare qualcosa che è già presente nel mondo cristiano, cioè il fatto che l'assoluto non può essere rappresentato in forma materiale e sensibile. L'estetico come decelerazione: contro la perdita di esperienza (novità, delega dell'esperienza, scolarizzazione globale, super-attese). Il nostro è un mondo dell'accelerazione, che annulla l'esperienza: noi deleghiamo l'esperienza ad altri, siamo continuamente a scuola, ci facciamo dire da maestri cosa bisogna fare, pensare e credere, viviamo in un mondo di super-attese, tendiamo a esagerare nelle attese. Questa diagnosi su un mondo accelerato trova nell'estetico una compensazione: l'estetico è una forma di decelerazione rispetto a un mondo in cui l'esperienza va perduta, o fortemente ridimensionata. L'estetico oggi è antifinzione e pluralizzazione (contro il monomito): se l'estetico ha una funzione compensativa, compensa la realtà, che è diventata finzione: viviamo sulla base di statistiche, piani programmatici, in un mondo che è vincolato al "come se", dunque molto innervato da finzioni; non necessariamente qualcosa di negativo, ma nel senso che non abbiamo nessuna certezza e viviamo sulla base di forme finzionali senza base certa, delle quali non possiamo fare a meno. Se la nostra realtà è sempre più permeata di finzione, il ruolo compensativo che spetta all'estetico è quello di antifinzione. Fin dalle origini, l'arte è considerata una forma di finzione; l'arte deve poter diventare antifinzione per svolgere il suo ruolo compensativo, e l'arte contemporanea lo diventa nella misura in cui da un lato ci mette in contatto con la realtà materiale in un modo non finzionale; è come se l'opera d'arte si fosse incaricata, nell'epoca contemporanea, di metterci di fronte alla materia in un modo che 37 non ci è più abituale, dunque l'arte contemporanea è per definizione antifinzione. Dall'altro lato, l'arte è antifinzione anche nel senso che noi la apprezziamo soltanto in base alla teoria: se apprezziamo opere di arte contemporanea è perché sappiamo cos'è l'arte, cioè le esperiamo sulla base di teorie su cosa sia l'arte, quindi non apprezziamo direttamente l'arte, ma apprezziamo il fatto che ci siano opere il cui significato, il cui valore deve essere contestualizzato teoricamente. L'arte inoltre è pluralizzazione: mentre il mondo sembra ridotto alla ragione, essa ci presenta un mondo sempre più pluralizzato, il che è la logica conseguenza della divisione dei poteri. La razionalità è il monomito dell'epoca moderna; se la ragione è il grande principio coordinatore di tutta la realtà, l'arte ci mostra che non è soltanto così, che ci sono tante storie diverse di cui abbiamo bisogno. LEZIONE 11 – REINCANTAMENTO DEL MONDO: IL CASO DEL PAESAGGIO Paesaggio: un concetto solo moderno? Se l'estetica come disciplina filosofica è tipicamente moderna, il paesaggio è un caso di scuola, perché esso stesso è una nozione tipicamente moderna, ma ci sono opinioni contrapposte su questo. Alcuni autori sostengono che il paesaggio sia già presente nella cultura antica. Secondo il prof. Griffero, il concetto di paesaggio è invece tipicamente moderno. Il paesaggio è realtà, ma anche rappresentazione: con "paesaggio" noi intendiamo tanto la realtà esterna, una porzione di natura di un certo tipo, ma anche la sua rappresentazione, quindi c'è un'ambiguità costante, quando parliamo di paesaggio, per capire se parliamo di natura o della sua rappresentazione, perlopiù di tipo figurativo. Nell'antichità, il paesaggio è solo lo sfondo dell'azione umana e la tesi che il paesaggio sia una nozione tipicamente moderna si basa proprio su questo punto di partenza. Nell'antichità, non troviamo rappresentazioni del paesaggio disgiunte dall'azione umana, e ciò vale anche almeno fino al Sei- Settecento: anche nel paesaggismo pittorico settecentesco, il paesaggio è tendenzialmente visto come uno sfondo delle azioni, principalmente storiche, che gli uomini compiono in esso, ma il paesaggio non è un tema specifico della pittura, neanche nei grandi paesaggisti sei-settecenteschi si trova il paesaggio senza l'uomo, cosa che sarà tipica del paesaggismo romantico. Legittimazione settecentesca: il paesaggio presuppone il distacco dalla natura. Il paesaggio diventa nel Settecento un argomento autonomo, perché c'è bisogno di un distacco dalla natura: chi vive nella natura non la vede come paesaggio, come chi ci lavora e ne ha a che fare, che non ha modo di vederla come qualcosa di bello, tantomeno ha modo di vedere alcuni paesaggi come degni di essere contemplati. Nel Settecento assistiamo a una grande urbanizzazione e gli uomini della città cominciano a scoprire che fuori di essa, talvolta a pochi passi, c'è una natura degna di essere contemplata e apprezzata nella sua bellezza, che dunque è percepita come distacco dalla vita urbana del lavoro eccetera. Che il paesaggio sia un caso così emblematico è dimostrato dalla circostanza che, se l'estetica moderna nasce anche come forma di compensazione di un mondo ormai disincantato dalle scienze e dal lavoro degli uomini, la scoperta di una porzione di natura guardata senza interessi né finalità pratiche, in cui non bisogna coltivare e che non bisogna usare per la guerra, ma che può essere semplicemente contemplata, questa concezione della natura è qualcosa di completamente nuovo, che presuppone una vita urbana. Un primo esempio molto significativo di questo si verifica qualche secolo prima, con Petrarca, che nelle sue Familiares racconta l'ascesa al Monte Ventoso, nella quale è significativo che il poeta dica di voler fare questa escursione soltanto per ammirare il paesaggio. Mentre sale verso la vetta, nota che chi ci vive non si volta a guardare il paesaggio, e se ne stupisce. Quando arriva sulla sommità, Petrarca guarda e dice chiaramente guardavo per guardare, per ammirare il paesaggio così com'era. È un'idea molto sorprendente; siamo a cavallo tra Medioevo e Rinascimento, Petrarca è un uomo a metà strada, nelle epoche precedenti di sicuro la curiosità di guardare il mondo in maniera disinteressata, la curiositas era un peccato; viceversa Petrarca legittima questa curiosità: l'uomo 40 molto indicativa del fatto che il paesaggio assolve la funzione compensativa di cui si è detto solo se si sposta continuamente: prima poteva essere paesaggio il golfo di Napoli, ora diventa kitsch, e il paesaggio compensativo diventa la giungla, o comunque qualcosa che non sembra essere sotto il controllo dell'uomo. Di più; il paesaggio si interiorizza: estremizzando un po', potremmo dire che anche la pittura non figurativa novecentesca è paesaggistica, se con paesaggio intendiamo un paesaggio interiore. Problemi aperti 1. Valutazione eteronoma (non strettamente estetica?): quando si fa del paesaggio un concetto chiave dell'estetica moderna si rischia di farsi dire cosa sia bello o brutto da criteri non strettamente estetici: criteri climatici, geografici, economici, eccetera; è un rischio con cui ci si deve confrontare. Resta il fatto che è sempre possibile guardare a una porzione di natura senza sapere nulla di geografico e scientifico e apprezzandola per ciò che è, quindi esteticamente. 2. Aspetti conciliativi e consolatori del paesaggio come compensazione?: un rischio connesso alla teoria del paesaggio e dell'estetico come compensazione è che il paesaggio funga da consolazione, cioè che possiamo accettare dalla società, dalla storia, qualunque cosa a patto che possiamo poi consolarci con delle "gite fuori porta". Questo è accaduto (i weekend "fuori porta" a compensare la vita stressante che conduciamo in settimana), ed è un rischio che corriamo ma è tuttavia inevitabile: se non neghiamo il progresso e che la storia ha emancipato l'uomo da condizioni brutali di esistenza pregressa e non cerchiamo il regresso a condizioni idilliache precedenti, dobbiamo accettare il fatto che dobbiamo anche trovare consolazione da qualche parte. Questa consolazione non è poi totalmente negativa, è anche una forma di continuo pensiero critico, perché tornando dalla natura portiamo con noi anche uno spirito critico verso la vita urbana di tutti i giorni. 3. Realismo o proiettivismo (il caso di Simmel)?: Simmel, sociologo e filosofo a cavallo tra Otto e Novecento, si era occupato di paesaggi in un breve saggio dedicato alla filosofia del paesaggio, indicativo del fatto che la grande questione del paesaggio come argomento estetico è che il paesaggio, porzione x di natura, è bello perché stimola in noi dei sentimenti, oppure perché noi vi proiettiamo il nostro stato d'animo? Prima di Simmel, questa domanda trovava risposte tendenzialmente soggettivistiche: Schelling sostiene che il paesaggio esiste solo nell'occhio dell'osservatore, data questa premessa tuttto può essere bello, tutto può essere paesaggio, perché tutto dipende dal grado in cui lo spettatore proietta sulla realtà esterna le sue aspettative, i suoi desideri, i suoi stati d'animo. Simmel prende una posizione fondamentalmente interlocutoria: la percezione del paesaggio come bella porzione di natura è anteriore a soggetto e oggetto: l'uomo è collocato in uno stato d'animo che solo in un secondo momento si scinde in un aspetto soggettivo e uno oggettivo; solo in un secondo tempo considera lo stato d'animo del soggetto separato da quello che ha trovato nella natura. Simmel parte da una constatazione ineludibile: noi non possiamo proiettare nella realtà quello che vogliamo; la porzione di natura che consideriamo deve in qualche misura stimolarci quel tipo di atteggiamento, quel tipo di stato d'animo, non può essere una sorta di tabula rasa su cui noi proiettiamo qualunque nostro desiderio e aspettativa. Simmel scalfisce il dualismo tra soggetto e oggetto: abituati a pensare che c'è un oggetto contemplato e un soggetto contemplatore, questa visione è banale e Simmel lo sottolinea molto precocemente, nei primi anni del Novecento. Il paesaggio, dunque, è un sentimento della natura nel suo complesso, che noi sentiamo; ci inquadriamo una singola porzione di natura, ma ne sentiamo l'intimo collegamento con tutto il resto, il che confermerebbe la tesi che nel paesaggio noi compensiamo una visione 41 contemplativa del cosmo, della natura come un tutto, che altrimenti sarebbe andata perduta. Simmel stesso fa notare che è vero che noi scegliamo una porzione di natura, ma è anche vero che questa scelta implica che quella parte di natura non è separata completamente dal resto, ma è in un'intima continuità con il resto della natura, quindi nel paesaggio, anche se attraverso una sua specifica porzione, noi contempliamo il cosmo naturale nel suo insieme. 4. Ha confini (materiali o simbolici)?: per Simmel, il paesaggio ha dei confini, ma in qualche modo noi non li consideriamo, vedendo una continuità, ma possiamo chiederci se questi confini sono precisabili e se sono materiali o simbolici. Il problema è aperto e dipende da quale teoria del paesaggio (e anche dei confini) possediamo. 5. Esige una diversa percezione, proprio-corporea (atmosferica) e non solo ottica, della presenza della natura?: il paesaggio visto soltanto come panorama, come nelle guide turistiche quando indicano un luogo da cui guardare, è un paesaggio la cui funzione estetica è molto usurata: le guide più banali sono quelle che indicano i paesaggi più abituali, più consueti. Per recuperare la validità filosofica della nozione di paesaggio dobbiamo pensare a una diversa forma di percezione, una dimensione che non si limita al corpo anatomico: noi percepiamo in maniera sinestetica, attraverso una collaborazione di tutti i sensi; solo così il paesaggio può essere di nuovo una categoria fondamentale dell'estetica contemporanea; solo, cioè, se introduciamo una concezione di percezione non soltanto ottica. Nella misura in cui guardiamo all'estetica come un campo d'indagine delle atmosfere con cui viviamo gli spazi, gli ambienti, anche il paesaggio diventa fondamentale: inizialmente ci siamo chiesti come segmentare lo spazio, ovvero se vi siano dei confini di qualche tipo nel paesaggio. L'ipotesi è che si possa segmentare lo spazio, stabilire ciò che per noi è paesaggio e ciò che non lo è, attraverso il sintomo atmosferico: dove termina una certa qualità che sentiamo nello spazio, lì termina probabilmente quello che oggi chiamiamo paesaggio (percezione proprio-corporea). Probabilmente, già i pittori del passato hanno dipinto paesaggi seguendo il concetto di atmosfera per decidere "cosa inquadrare". LEZIONE 12 – L'ESPERIENZA ESTETICA DAL BELLO ALL'ATMOSFERICO La percezione atmosferica Il contesto della riflessione è l'esigenza che l'estetica contemporanea non assegni più alla bellezza una funzione così centrale come ha avuto negli ultimi due secoli. La bellezza non è sempre stata al centro dell'estetica; in particolare nell'Antichità, non è affatto un concetto tipico dell'arte, lo è diventata nell'età moderna. Che l'estetica debba occuparsi quasi esclusivamente del bello è poi una deformazione dell'età romantica, che considera l'estetica soltanto come una filosofia dell'arte. Se invece pensiamo all'estetica come una teoria della conoscenza sensibile, dell'esperienza sensibile e della realtà, il bello non è che una delle possibili occasioni di esperienza, insieme a molte altre. La percezione atmosferica allude proprio a un ripensamento complessivo dell'estetica sulla base di questa nozione, non ancora tematizzata a livello filosofico, ma che può esserlo se la si delinea meglio. Fuoriuscire dall'arte: l'atmosfera come sentimento diffuso nello spazio. La tesi è che l'estetica possa anche non coincidere con la filosofia dell'arte, o col giudizio sull'arte, ma che debba per esempio occuparsi di sentimenti spaziali. L'atmosfera è definita esattamente così, l'idea è che l'atmosfera sia un sentimento effuso nello spazio, che non è lo spazio strettamente dimensionale, ma lo spazio come qualcosa che ci circonda non ha dei limiti precisi, o misurabili. Se l'estetica deve dedicarsi all'atmosfera anziché all'arte, l'arte diventa solo uno dei possibili campi dell'interesse estetico. Esperienza che coinvolge il corpo vivo (e non solo quello fisico): la percezione atmosferica è un'esperienza a largo spettro, che coinvolge il corpo in tutte le sue dimensioni. Nella tradizione 42 fenomenologica novecentesca, soprattutto di origine tedesca, si distinguono due termini, Leib e Koerper, che in italiano sono stati tradotti rispettivamente come corpo vivo e corpo fisico. L'esperienza atmosferica che noi facciamo della realtà è un'esperienza che coinvolge il corpo vivo, ovvero è un'esperienza affettiva, che coinvolge quegli aspetti del corpo vivo che non sono misurabili e riconducibili a componenti anatomicamente intese del corpo intero. Dall'estetica del "giudizio" all'estetico come coinvolgimento affettivo-corporeo: questa nuova impostazione di un'estetica che si rivolge all'atmosfera, anziché all'arte e alla bellezza, comporta un ripensamento dell'estetica moderna, che innanzitutto mette tra parentesi l'importanza del giudizio, perché almeno a partire da Kant in poi l'estetica è in qualche misura stata ridotta a giudizio, che sia sulla bellezza o sull'opera d'arte, in realtà l'estetico è un modo di descrivere e giudicare, appunto, un certo tipo di esperienze che hanno a che fare con l'arte e la bellezza, ma il giudizio non è la nostra occupazione primaria; la vita non è fatta principalmente di giudizi, ma di stati affettivi, coinvolgimenti affettivo-corporei, quindi un'estetica atmosferologica esige un ripensamento dell'estetica moderna che sposti il baricentro dell'estetica dall'arte, ma anche dal bello, alle atmosfere, ovvero ai sentimenti diffusi nello spazio e che incontriamo in larga parte involontariamente, ovvero senza che li possediamo già e senza volerli. L'atmosfera come prima impressione olistica e situazionale: se l'estetica si fonda sulle atmosfere, queste ultime vanno ridefinite. L'atmosfera è un sentimento diffuso nello spazio, ma è anche una prima impressione, cioè è quella prima impressione che nelle scienze e nel buon senso viene detto che non è affidabile, ma che qui è molto importante, perché è quella su cui non abbiamo potuto agire in nessun modo, quindi in questo tipo di estetica la prima impressione torna a essere fondamentale nella sua ingenuità. Questa prima impressione è complessiva, totale (olistica), cioè non è un'impressione legata a singoli aspetti della realtà, ma alla realtà spaziale nel suo complesso, ad una situazione (situazionale), che non ho ancora articolato nelle sue parti discrete, è una situazione affettiva, cioè una situazione in cui provo qualcosa. La domanda come ci si sente qui e ora?, quindi, è fondamentale ed è alla base di un'estetica atmosferologica. Sinestesia e affordances: sinestesia indica la percezione allargata richiesta dall'atmosfera: non solo ottica, ma che richiede tutti i nostri sensi. Affordances è un termine tecnico introdotto da uno psicologo della cosiddetta psicologia ecologica, James Gibson, che sostiene che anche a livello semplicemente ottico noi vediamo cose, ma soprattutto vediamo ciò che le cose ci offrono; affordance, fondamentalmente, vuol dire invito: ciò che le cose mi invitano a fare; l'affordance di una mela rossa, se sono affamato, è di mangiarla. Un certo spazio, in cui è diffuso un certo sentimento, richiede di parteciparvi, di condividerlo. Non sempre questo funziona, ma si sente questa esigenza, come un invito, un'offerta che potremmo chiamare di tipo affettivo. L'arte non è solo atmosfera e l'atmosfera non è solo arte L'arte è argomento ben più vasto delle atmosfere, non si può certo ridurre tutto il discorso fatto dalla filosofia sull'arte soltanto a una percezione atmosferica, ma è vero anche il viceversa, cioè l'atmosfera non si limita all'arte, dunque l'estetica atmosferologica ha l'ambizione di essere un'estetica che si apre a tutte le dimensioni della realtà, dal design all'arredamento, eccetera. Primo elemento: corresponsività. Noi possiamo incontrare atmosfere che condividiamo, o condividiamo molto rapidamente: entriamo in un ambiente in cui c'è molta tensione e molto rapidamente cogliamo questa tensione, la riconosciamo, la sentiamo, diventa parte del nostro stato d'animo. Secondo elemento: factual fact/actual fact. La distinzione viene dal pittore tedesco Josef Albers, secondo cui c'è differenza tra fatti fattuali e fatti attuali, cioè tra i fatti materiali e i fatti per come ci appaiono: in una tela noi non percepiamo la tela, il colore, la materia, ma percepiamo un fatto in atto, non un fatto fattuale, ovvero la realtà materiale. Anche per percepire l'atmosfera questo è fondamentale: non importa cosa abbia prodotto un'atmosfera di un certo tipo, mi importa che l'impressione sia quella, ciò che interessa all'estetica è ciò che mi appare, indipendentemente dalle 45 7. Inconsapevole irradiazione (il caso della vergogna vicaria). Le atmosfere sono sentimenti diffusi nello spazio; sono diffusi anche involontariamente, dunque l'atmosfera non è solo quella che le persone volontariamente creano, manipolano, suggeriscono, ma esiste anche l'irradiazione involontaria e inconsapevole. La vergogna che provo per me stesso è la vergogna primaria; tuttavia noi spesso ci vergogniamo per qualcuno che non si vergogna, quindi non è un'empatia, un'immedesimazione nel suo stato d'animo, ciò che proviamo è un'empatia nell'atmosfera che l'altro involontariamente suggerisce. Per un'estetica anti-introiezionistica L'impostazione fin qui illustrata parte da un punto di vista controverso: i sentimenti non sono essenzialmente interiori al soggetto; i sentimenti sono esterni, stati d'animo che "aleggiano" negli spazi intorno a noi. Prima del V secolo a.C., i sentimenti erano potenze demoniche sovrasoggettive (modello greco), ovvero qualcosa che da fuori afferra il soggetto e poi lo abbandona. Pur non teorizzando il ritorno alla Grecia arcaica, l'estetica atmosferologica parte da qui, ovvero dal pensiero che forse i sentimenti non sono quelle proprietà interiori che ci siamo abituati a pensare. Le conseguenze della fine del modello greco dei sentimenti visti come potenze sovrasoggettive sono state la vittoria dell'introiezionismo, in cui i sentimenti vengono rinchiusi nell'anima del soggetto umano; questa reclusione ha delle conseguenze letali sulla visione del mondo, non solo perché ci illude sul fatto che possiamo controllarli e manipolarli, ma perché ci induce a pensare che tutti i sentimenti che incontriamo fuori di noi nella realtà esterna sono nostre proiezioni (proiettivismo). L'atmosferologia potrebbe essere all'altezza dei nostri tempi, perché noi viviamo in un'epoca di economia estetica, dato che la maggior parte delle cose che incontriamo nell'Occidente evoluto sono messe-in-scena. Il valore d'uso e il valore di scambio di marxiana concezione sono ampiamente superati: la maggior parte degli oggetti di cui ci circondiamo non hanno né l'uno, né l'altro, o comunque questi due valori sono fortemente assoggettati al valore di messa-in-scena. L'atmosferologia potrebbe essere all'altezza dell'economia estetica perché ci insegna a guardare alla realtà cercando di capire come si producono e come si vivono queste atmosfere, i sentimenti che ci vengono offerti. In questo senso Boehme parla di lavoro estetico, cioè l'idea che l'estetica non sia solo una teoria dei filosofi, ma che sia una teoria e una disciplina certamente filosofica, ma di cui possono giovarsi anche quelli che compiono un lavoro estetico (scenografi, urbanisti, narratori, pubblicitari, ecc.), cioè sul tentativo di produrre le giuste atmosfere. Questo comporta che ci sia un inflazionismo ontologico: esistono anche quasi-cose come le atmosfere, oltre agli oggetti propriamente detti; ci sono molte altre cose che non sono cose in senso stretto, ma quasi- cose, e sono per esempio le atmosfere intese come sentimenti diffusi nello spazio. Questo comporta un rischio: reificazione dei sentimenti o deoggettivazione delle cose? Il primo è un rischio, la seconda è una proposta. Si può obiettare che, intendendo le atmosfere come quasi-cose, si reificano i sentimenti; la proposta è che accada esattamente il contrario, cioè che siano le cose a essere deoggettivate, perché paradossalmente attraverso le atmosfere vengo a scoprire che ci sono cose tradizionalmente intese molto meno circoscritte e facilmente descrivibili di quanto penseremmo. Noi non siamo padroni in casa nostra, in senso atmosferologico: normalmente pensiamo di poter controllare i nostri sentimenti, di poterli dominare, e ci stupiamo quando questo non accade; ci stupiremmo molto meno se pensassimo che i sentimenti sono esterni, e che non siamo noi a produrli ma li subiamo e che quindi non siamo completamente padroni dei nostri stati d'animo. Questo non significa renderci passivi, ma più attenti e critici nei confronti delle atmosfere prodotte dagli altri. LEZIONE 13 – HEGEL (1770-1831), LA SCIENZA DELL'ARTE È LA SUA STORIA? 46 Le lezioni di estetica di Hegel Hegel (1770-1831) è stato uno dei pensatori che più ha contribuito a plasmare l'idea che l'arte la conosciamo soprattutto attraverso la sua storia, le trasformazioni che ha subito nel tempo. Il testo in cui sono presentate le idee di Hegel sullo sviluppo delle arti sono le sue Lezioni di estetica. Non è un vero e proprio libro, ma sono trascrizioni delle sue lezioni fatte dagli allievi, che hanno creato un testo che contiene le sue idee. È un vantaggio, perché abbiamo potuto conoscere le idee maturate da Hegel nella sua maturità. Nella prima fase della sua vita, Hegel era stato fortemente influenzato dal Romanticismo, mentre nell'ultima parte della sua vita, quando tiene le Lezioni di estetica, è stato invece acerrimo nemico del Romanticismo stesso. L'arte, la religione, la filosofia Questi tre termini possono non sembrare immediatamente collegati, ma Hegel vede un rapporto molto stretto tra loro, perché l'arte per Hegel è essenzialmente l'espressione di una civiltà, ovvero l'espressione della cultura di un popolo. Per esempio dell'estrema antichità (Mesopotamia, Egitto) conosciamo quasi esclusivamente le opere d'arte, che sono strettamente correlate con la religione. Hegel non perde mai di vista il rapporto dell'arte con la religione: se pensiamo all'arte del passato, più o meno fino al Rinascimento, ci accorgiamo che la grandissima parte di ciò che ci è arrivato dell'arte è legata al culto religioso, alle grandi religioni del passato. L'arte ha anche un rapporto con la filosofia, perché anche la filosofia è una delle grandi forme in cui si esprime la cultura di un popolo, di un'epoca. Hegel diceva che la filosofia è il proprio tempo appreso nel pensiero. Se pensiamo a questo aspetto della filosofia capiamo come per Hegel arte, religione e filosofia possano essere delle attività che comunicano, rendono accessibile, lo stesso contenuto, la visione del mondo di un popolo e di un'epoca, ma in forma diversa. Per esprimere questa differenza, Hegel si serve della distinzione tra intuizione, rappresentazione, concetto. Intuizione è un termine filosofico da intendersi nel senso di rapporto diretto con l'oggetto che si ha soprattutto attraverso la sensibilità. La rappresentazione, invece, è un racconto, un mito, l'esposizione di qualcosa per esempio attraverso le parole. Il concetto è l'elaborazione intellettuale, razionale, di un contenuto. Secondo Hegel, l'arte è legata soprattutto all'intuizione; la religione soprattutto alla rappresentazione e la filosofia al concetto, ma se si tengono presenti queste tre forme, esse per Hegel non stanno sullo stesso piano; c'è un rapporto di crescente approfondimento fra arte, religione e filosofia e questo porterà al superamento dell'arte nella religione e soprattutto nella filosofia (morte dell'arte). L'arte come forma sensibile Se l'arte è intuizione, è una forma sensibile, viene presa dalla sensibilità. Se non c'è una mediazione sensibile, non c'è neanche arte. Intuizione, nel lessico filosofico, vuol dire proprio un rapporto immediato con l'oggetto; mentre il pensiero è discorsivo, ha bisogno di passare attraverso più esempi, l'intuizione ha bisogno del contatto diretto con l'oggetto e passa attraverso i sensi, la sensibilità. L'opera d'arte viene tratta dalla sfera sensibile, dalle materie, e quindi si offre a un senso. Può rivolgersi all'udito, alla vista, alla vista e al tatto insieme, ma l'essenziale è che passa attraverso una forma sensibile. L'arte è sensibile non solo nel senso che si dirige a una delle nostre forme di apprensione sensibile, ma anche nel senso che si rivolge alla materia che plasma con l'esigenza di trasformarla. Hegel a questo proposito fa un esempio: questa attitudine che abbiamo a non lasciare le cose come sono, modificarle, si manifesta in modo eminente per esempio nel tentativo di trasformare il proprio corpo che compiono le popolazioni primitive attraverso il tatuaggio. Per dire questo, Hegel conia una formula: l'arte è apparire sensibile dell'idea, cioè il contenuto culturale, ciò che un artista, ma anche un popolo, vuole esprimere, viene manifestato attraverso una forma sensibile. 47 Le forme storiche dell'arte Hegel ha legato il suo nome soprattutto a una visione storica dello sviluppo artistico; è stato uno degli autori che ha fatto compiere al nostro pensiero sull'arte un grosso cambiamento. Prima di Hegel, l'idea era che ci fosse stata un'epoca artistica per eccellenza, l'Antichità classica, e che tutto il resto era una deviazione, o qualcosa da giudicare secondo il parametro dell'arte classica. Hegel, invece, ci convince del fatto che l'arte ha una propria dignità in tutto il suo percorso storico, anche se questo percorso non è omogeneo, o lineare. Hegel non fa soltanto una storia dell'arte, fa una storia filosofica dell'arte, ovvero lega lo sviluppo dell'arte a una concezione del rapporto che l'arte intrattiene con i propri contenuti, o meglio del rapporto che si crea nell'arte tra la forma sensibile e il contenuto culturale. Secondo Hegel, l'arte attraversa tre grandi fasi: arte simbolica, classica, romantica. Per Hegel, l'arte simbolica è essenzialmente l'arte dei popoli del vicino Oriente, che hanno elaborato le loro forme artistiche prima della Grecia. L'arte classica è ovviamente l'arte della Grecia antica, del V-IV secolo a.C. L'arte romantica, per Hegel, è tutta l'arte cristiana: i romantici, coloro che hanno elaborato la teoria del Romanticismo, si rivolgevano non più alla Grecia classica, ma all'arte del Medioevo cristiano e del Rinascimento italiano, che non aveva più a proprio oggetto la mitologia classica, ma la religione cristiana. Per Hegel, il rapporto con la religione è sempre essenziale: nell'arte simbolica abbiamo le religioni orientali; nell'arte classica gli Dei dell'Olimpo, e nell'arte romantica abbiamo a che fare con la rappresentazione artistica del cristianesimo. Arte simbolica: per Hegel in questa arte abbiamo un contenuto ancora imperfetto, oscuro, che quindi si esprime attraverso una forzatura dell'aspetto sensibile dell'arte. Tenendo conto dei riferimenti storici di Hegel, il discorso si chiarisce: caratteristica storica dell'arte simbolica è quella di essere correlata alle culture della Persia antica, dell'India antica e dell'Egitto antico. Pensando alle religioni di questi popoli, almeno all'immagine che ne aveva Hegel, la sua idea è che la concezione della religione di questi popoli era tale da dare un'interpretazione ancora impropria della divinità, e quindi da raffigurare la divinità essenzialmente distorcendo la figura umana, oppure, come accade spesso nella religione egizia, mescolando le forme animali e quelle umane. C'è un contenuto religioso ancora non progredito, che deforma l'immagine della divinità. Le opere d'arte caratteristiche sono le grandi opere architettoniche o architettonico-sculturali dell'arte egizia: le Piramidi, i colossi di Memnone, gli obelischi. Nell'immagine di Hegel, la piramide è un grande cristallo di pietra il cui significato sta all'interno e non è un sigificato vivente, ma è il corpo morto del faraone, quindi questa immagine simbolizza bene il rapporto fra forma e contenuto dell'arte simbolica. La leggenda dei colossi di Memnone, che si diceva emettessero un suono quando venivano colpiti dal primo raggio di sole, serve a Hegel per dire che queste sculture, tanto grandi da essere quasi architetture, non hanno il proprio significato in se stesse, ma lo ricevono dall'esterno. Lo stesso simbolismo si ritrova nell'obelisco, che secondo Hegel rappresenta una sorta di materializzazione del raggio del sole. L'opera d'arte che forse incarna maggiormente i caratteri del simbolo è la Sfinge, scultura così grande da assumere un valore architettonico, e che racchiude in sé la forma umana e la forma del leone. Arte classica: l'arte classica è caratterizzata dal fatto che il suo contenuto è perfettamente adeguato alla sua forma. Gli dei greci sono perfettamente rappresentati dalla scultura greca: quando un greco immagina i propri dei, li immagina in quella forma umana; una forma che finalmente ha trovato la propria consistenza: l'immagine della divinità non deve più appoggiarsi a quella dell'ibridazione fra uomo e animale. Questo significa che in qualche modo, ancora per Hegel, l'arte classica rappresenta l'apice dell'arte: le tre forme d'arte percorrono una parabola, c'è un'arte che aspira alla forma, una che raggiunge l'equilibrio e una che perde nuovamente l'equilibrio, ma a vantaggio di un contenuto religioso molto più approfondito. Il vertice dell'arte rappresentato dall'arte classica è legato al primato della figura umana: l'arte classica è quella che ha rappresentato il corpo umano nel modo più equilibrato, aggraziato, bello. 50 possederla, ci accontentiamo di contemplarla. Questa idea del disinteresse estetico non va impresa come se ciò che è rappresentato non ci importasse, significa, e in questo senso l'arte è disinteressata, che non proviamo l'impulso ad appropriarci di ciò che vediamo, ma ci limitiamo a conoscerlo. Il genio artistico, per Schopenhauer, è il trionfo del puro conoscere; il genio artistico è qualcuno che non ha essenzialmente l'impulso ad agire, ma quello a contemplare, non quello di trasformare il mondo, ma di conoscerlo. Questo aspetto della sua filosofia si accompagna a un particolare sistema delle arti che segna e sottolinea soprattutto il primato della musica: le arti non sono solo una liberazione dal volere, ma anche una liberazione progressiva dal peso della materia. L'architettura ha a che fare con la geometria delle masse, la pesantezza dei materiali, e questo avviene in qualche modo ancora per la scultura, che ha a che fare con materie solide; già con la pittura abbiamo a che fare con arti che non hanno più bisogno di qualcosa di afferrabile, la poesia e la musica sono arti in cui l'aspetto materiale è quasi evanescente. Questa sequenza è quella in cui le presenta Schopenhauer; al vertice della progressione c'è la musica, perché secondo lui le altre arti sono essenzialmente delle rappresentazioni delle idee: non riproducono l'individuo nella sua particolarità, nella sua presenza empirica, ma riproducono l'individuo nella purezza del suo tipo ideale. Viceversa, se le altre arti rappresentano le idee delle cose, la musica rappresenta la volontà stessa; riesce, unica fra le altri, a farci intuire l'essenza nascosta del mondo e di noi stessi rappresentata dalla volontà. Questo accade soprattutto perché Schopenhauer ascolta e ama soprattutto la musica pura, liberata dal rapporto col testo, quella che si chiama musica assoluta (sciolta dal testo), in opposizione alla musica del melodramma, che consideriamo musica vocale. Schopenhauer: l'arte come sedativo della volontà Riassumendo la posizione di Schopenhauer, possiamo dire che l'arte agisce come un sedativo della volontà, qualcosa che ci stacca dal volere. Questo ha a che fare in qualche modo col pessimismo di Schopenhauer: la volontà, essenza segreta del nostro mondo, è una volontà perversa, che porta alla sopraffazione, lotta, morte; l'uomo, preda della volontà, è preda dell'infelicità. L'arte, liberandoci dalla volontà, permette di lottare contro la visione pessimistica e di lottare contro il potere che tiene l'uomo in suo assoluto dominio; l'arte però è soltanto una sospensione temporanea del volere, un momento in cui ci concediamo la possibilità di non agire e ci limitiamo a vedere il mondo. Questo, se da un lato ci dà piacere, dall'altro rappresenta soltanto un'interruzione momentanea; non è improprio quindi dire che l'arte agisce come una sorta di calmante rispetto alla volontà. Nietzsche: l'arte come intensificazione della volontà Nietzsche si fa portatore dell'idea opposta rispetto a Schopenhauer: l'arte per lui è un'intensificazione della volontà, non un suo indebolimento o temporanea sospensione. I due rappresentano in un certo senso due vedute diametralmente opposte, ma a questa veduta dell'arte come intensificazione della volontà Nietzsche arriva attraverso un percorso piuttosto lungo e complesso. Nietzsche (1844-1900) parte da una distinzione che assume un forte rilievo nel suo pensiero, quella fra apollineo e dionisiaco. Nietzsche ha esordito come studioso di filologia, era uno studioso di letteratura greca e come tale si serve del nome e delle figure di due dei greci per indicare due tendenze opposte dell'arte. L'apollineo ha a che fare con l'immagine di Apollo, dio della bellezza, dell'equilibrio, che di solito è rappresentato con le fattezze di un bellissimo giovane; il dionisiaco ha a che fare con Dioniso, il dio dell'ebbrezza, del vino, che di solito viene rappresentato come un satiro, spesso anche preda dell'ebbrezza alcolica. Questi due termini convivono ne La nascita della tragedia, l'opera più famosa di Nietzsche, perché la tragedia nasce per lui dalla collaborazione di questi due termini. Nietzsche, dopo aver scritto quest'opera, si distaccherà dalle teorie che vi sono sostenute, in particolare criticherà l'idea del genio e abbraccerà l'idea dell'arte come volontà di potenza. 51 Nietzsche: apollineo e dionisiaco Apollineo e dionisiaco si ispirano ad Apollo e Dioniso. Dal punto di vista delle forme d'arte, significa che si può operare questa distinzione: Apollo Dioniso La forma (immagine con un contorno definito) L'energia (ciò che rompe l'equilibrio della forma) L'equilibrio La forza La bellezza L'ebbrezza La scultura La musica Da un lato, quindi, abbiamo le arti figurative, con quella più tradizionalmente legata a un'immagine di bellezza, cioè la scultura, e dall'altro abbiamo la musica. La musica si connette alle cose che sono inscritte nel lato di Dioniso, mentre la scultura e le arti figurative in genere si connettono alle cose legate all'immagine di Apollo. Nietzsche: la nascita della tragedia Questi due termini si ritrovano a collaborare insieme nell'opera con la quale Nietzsche segna il proprio passaggio dalla filologia classica alla filosofia, La nascita della tragedia (1872), in cui affronta un tema che apparentemente fa ancora parte degli argomenti di uno studioso di letteratura classica, ovvero la grande tragedia greca, ma lo affronta con uno spirito che è decisamente filosofico. Quello che Nietzsche vuol dire è che la grande tragedia greca del V-IV secolo a.C. Nasce dall'unione di due forze, tendenze contrastanti, il dionisiaco e l'apollineo. Il sottotitolo dell'opera, Dallo spirito della musica, indica che l'arte della tragedia nasce propriamente dallo spirito dionisiaco, dall'elemento di irrequietezza, ebbrezza, forza e si oppone all'elemento di tranquillità legato all'apollineo, ma riesce nella tragedia a trovare una convivenza di questi due termini: nella tragedia greca assistiamo a un bilanciarsi dei due elementi. Il quadro della visione che Nietzsche aveva della tragedia si completa se pensiamo che questo miracoloso equilibrio fra apollineo e dionisiaco si perde, secondo lui, con la riflessione filosofica e soprattutto con la figura di Socrate, che è colui che ha ucciso la tragedia. Socrate è colui che sostituisce allo spirito della tragedia, che ha a che fare con le grandi forze che muovono l'uomo e l'arte, l'interrogazione critica, la riflessione, e porta a esaurirsi quella forza che i greci hanno espresso attraverso la tragedia. Secondo Nietzsche, proprio la Germania del suo tempo può vedere una rinascita dello spirito tragico, in particolare con Richard Wagner (1813-1883) la musica può far rinascere la grande arte. Il quadro complessivo che Nietzsche ha in mente è quello di una forma che ha avuto un momento di splendore nell'antichità classica, poi distrutta da un eccesso di raziocinio e che finalmente può tornare a farsi grande, sempre attraverso lo spirito di Dioniso, cioè attraverso l'opera della grande musica. Nietzsche contro il genio Queste idee vengono poi sottoposte a una critica da parte di Nietzsche nel periodo successivo, che si esprime soprattutto nella presa di distanza dall'idea del genio. Inizialmente, Nietzsche presenta Wagner come un'incarnazione moderna del genio, ma in questa visione il genio si oppone all'erudito; una volta composta La nascita della tragedia, Nietzsche comincia a prendere distanza dalle proprie vedute ed entra in una fase che di solito viene definita periodo illuminista, nel senso che l'autore prende le distanze dall'idea del genio e le contrappone l'immagine dello scienziato, dell'uomo di intelletto e in antitesi con quanto aveva sostenuto a proposito del ruolo del genio nella creazione artistica insiste sul fatto che in fondo il genio è soltanto qualcuno che sa praticare un mestiere. 52 Nella fase che si compendia ne La nascita della tragedia, Nietzsche aveva una visione eroica dell'arte, che vede come una forza propulsiva, che può ridare slancio alla cultura tedesca attraverso una rinascita della forma tragica e la grande musica. In questa fase illuministica, invece, sembra ritornare verso una visione molto disincantata della produzione artistica, in cui l'arte è frutto non di ebbrezza ed energia, forza, impulso creativo, ma è una pratica come altre e anzi in un certo senso meno importante di altre, perché può essere sostituita da elementi di riflessione e indagine. Nietzsche: volontà di potenza e arte Tutto quanto appena detto, tuttavia, è solo una stazione nel percorso di Nietzsche, perché l'ultima parte della sua riflessione è di nuovo sotto il segno del carattere energetico dell'arte e in particolare della connessione tra arte e volontà di potenza. Torna in questo modo di esprimersi di Nietzsche il concetto di volontà che era stato centrale nella filosofia di Schopenhauer, qui però torna in connessione con la potenza ed è qualcosa di molto diverso dalla volontà di Schopenhauer, che era una forza negativa, pericolosa, che trascina l'uomo verso l'infelicità, mentre la volontà di potenza di Nietzsche è il riconoscimento del fatto che questa aspirazione alla forza è qualcosa di connaturato nell'uomo e di legato strettamente al modo di essere dell'uomo; quindi non si può opporre l'arte alla volontà, ma anzi bisogna vedere nell'arte un modo in cui si manifesta questa aspirazione dell'uomo verso il potere, la forza, che è appunto ciò che Nietzsche chiama volontà di potenza. Questa nozione di volontà di potenza è il concetto centrale intorno al quale Nietzsche organizza l'ultima fase della sua riflessione. Anche in questo termine torna il termine volontà, già centrale nella filosofia di Schopenhauer, ma torna in un'accezione completamente diversa, o meglio con un valore diverso: mentre per Schopenhauer la volontà era qualcosa di negativo, qualcosa da cui l'uomo doveva in tutti i modi staccarsi, per l'ultimo Nietzsche la volontà è una forza che va accettata, non solo accolta ma in un certo senso rafforzata e deve essere intesa senza infingimenti proprio come una volontà di affermazione, volontà di potenza. L'arte può partecipare di questa volontà di potenza dell'uomo rafforzando il rapporto dell'uomo con la vita, con le cose e soprattutto nel modo in cui la utilizza l'artista come creatore, che per Nietzsche è il vero protagonista dell'arte, il vero personaggio da cui si deve partire per comprendere l'arte. L'artista è qualcuno che sente più fortemente degli altri, con più intensità. Secondo Nietzsche, si è artisti perché si partecipa più intensamente alle esperienze della vita. L'arte quindi è connessa con la volontà di potenza perché è anche uno scatenamento dei sensi, del desiderio, di energia. Questo modo di guardare all'arte è all'opposto rispetto al modo che guarda all'arte come a un'esperienza disinteressata, distaccata, di pura contemplazione. È sempre la musica il tipo di espressione artistica in cui si manifesta con più chiarezza questo carattere "aggressivo", vitalistico, dell'arte rispetto al modo distaccato e contemplativo proprio della visione di Schopenhauer. Per esprimere questo atteggiamento dell'arte rispetto alla vita, Nietzsche usa l'espressione dire sì alla vita, l'arte è un modo di dire sì alla vita; la figura dell'artista, per Nietzsche, è tutt'altro che appartata, caratterizzata da una partecipazione distaccata agli eventi della vita; il personaggio che Nietzsche ha in mente è un artista sensuale, che apprezza la vita in tutti i suoi aspetti, che manifesta un'energia vitale assai più forte e profonda di quella dell'uomo comune. Ricapitolazione: Schopenhauer e Nietzsche Schopenhauer Nietzsche L'arte come conoscere L'arte come fare (diretta presa di contatto col mondo) Contemplazione Ebbrezza Disinteresse (artista e fruitore sono distaccati da un coinvolgimento immediato) Sensualità (rafforzamento della) 55 filosofica), economia e morale. Queste quattro forme sono ognuna autonoma, cioè non dipendono da altro, hanno la propria legge in se stesse. Secondo Croce, non solo la nostra attività rivolta all'agire morale, al bene, ha valore, ma anche la nostra attività pratica rivolta a un fine immediato, a un profitto, a una realizzazione pratica. Per Croce, la prima sfera di attività, l'estetica, può stare senza la seconda, la logica: dagli esempi che abbiamo fatto, abbiamo visto che in una pura melodia o in una pura immagine non entra un'elaborazione concettuale; allo stesso modo, per Croce, l'attività economica e quella morale possono stare indipendentemente la prima dalla seconda. Attraverso questa struttura quadripartita, Croce colloca l'arte all'inizio della carriera dello spirito e della divisione delle nostre attività, sottolineando il fatto che non dipende da qualcos'altro. Croce esprime poi con chiarezza l'idea che l'arte sia espressione, che attraverso l'arte noi esprimiamo qualcosa, e innanzitutto esprimiamo noi stessi: diamo forma a qualcosa che abbiamo dentro di noi e la portiamo all'esterno. Una delle tesi più famose dell'estetica di Croce è quella dell'identità di intuizione ed espressione: solitamente, la distinzione tra uomo comune e artista è rappresentata dal fatto che tutti noi proviamo sentimenti, ma non abbiamo i mezzi per esprimerli, quindi potenzialmente, se sapessimo dipingere, suonare, scrivere bene, potremmo dare espressione a questi nostri contenuti; Croce sostiene invece che quando pensiamo di non riuscire a esprimere quello che portiamo dentro non è per carenza di capacità e tecniche artistiche, ma è perché al nostro stesso interno questi contenuti non sono chiari. L'artista si differenzia dall'uomo comune non perché abbia delle capacità tecniche, ma perché vede, sente, più chiaramente, più intensamente. Caso del ritratto: se pensiamo a una persona cara che ci è vicina, non ci è facile darne un'immagine del tutto precisa; l'artista sa dipingere un bel ritratto non soltanto perché sa maneggiare gli strumenti, ma soprattutto perché sa vedere meglio le caratteristiche di un volto, di una persona. Identità di intuizione ed espressione significa che questa capacità di dar forma alle immagini presuppone un contenuto già più approfondito ed è la prova che questo contenuto era presente. Quando ci illudiamo di avere dei grandi pensieri o contenuti che non sapremmo esprimere, secondo Croce questa è una posizione falsa e indulgente nei nostri confronti: se veramente avessimo questi contenuti sapremmo anche esprimerli. L'arte è espressione di sentimenti, di ciò che portiamo dentro di noi. Precedentemente si è detto che l'arte è indipendente dall'elaborazione conoscitiva, dalla logica; non sono contenuti concettuali quelli che l'arte esprime; i contenuti che l'arte esprime sono essenzialmente contenuti sentimentali. Croce tende a interpretare il termine "sentimenti" in modo molto vasto, per cui finisce per coincidere con l'intera vita dell'uomo, ma quando parla di sentimento si riferisce anche ai sentimenti nel senso corrente del termine. Saldando i due aspetti dell'estetica di Croce, quello per cui l'arte è intuizione (immagine formata) e quello per cui l'arte è espressione del sentimento, possiamo giungere a una formulazione che Croce ha dato dell'arte come un insieme di immagini unite da un sentimento che le anima, dove gli aspetti della forma sensibile e del contenuto sentimentale sono compenetrati e coincidenti. La critica alla distinzione delle arti Accanto a questa parte propositiva, l'estetica di Croce è diventata famosa soprattutto per la sua posizione polemica verso molte delle vedute tradizionali nei confronti delle arti, prima fra tutte la sua critica al fatto che le arti sono tante e diverse a seconda della materia che utilizzano. Croce mette in dubbio questa affermazione, innanzitutto portandoci a riflettere sul fatto che l'arte non è tanto, o soltanto, per lui non è affatto, l'oggetto materiale in cui si incarna l'intuizione-espressione: un dipinto, una scultura, può vederli anche un animale non umano, ma non vedrà un'opera d'arte. Perché ci sia un'opera d'arte, è necessario che ci sia un'esperienza da parte di qualcuno che produce l'opera d'arte e di qualcuno che la recepisce. Per Croce, l'oggetto materiale è soltanto un mezzo fisico che permette la comunicazione. Questo porta Croce a elaborare una critica ai sistemi tradizionali di distinzione delle arti, rifiutandoli completamente e sottolineando il fatto che ogni opera sta a sé, è un modo diverso di 56 realizzare e comunicare un'esperienza. Ecco perché, in realtà, non ci sono propriamente dei materiali deputati alla manifestazione artistica: ogni opera, in fondo, è un caso a sé stante, secondo Croce, e le materie che si possono usare per la comunicazione artistica sono virtualmente infinite. La critica ai generi letterari e alle categorie estetiche Un altro aspetto di quest'atteggiamento critico di Croce nei confronti delle divisioni e classificazioni tradizionali è la critica che Croce rivolge a due nozioni molto diffuse nella storia della critica d'arte e nell'estetica: l'idea di generi letterari e artistici e le cosiddette categorie estetiche. Le categorie estetiche sono i grandi raggruppamenti per cui diciamo che una tragedia è differente da una commedia, eccetera. Quello che conta, per Croce, è l'individualità dell'opera e le generalizzazioni che noi costruiamo attorno alle opere d'arte sono sempre generalizzazioni fallaci. I generi letterari sono dei raggruppamenti di opere che mettiamo assieme solitamente o per motivi formali (poema epico, ode, sonetto), oppure per questioni contenutistiche (romanzo storico, di avventure, poliziesco). Secondo Croce, i generi sono solo un aiuto alla classificazione: voglio andare al cinema e mi oriento genericamente per sapere se quello che vedrò è un film di guerra o un film d'amore, ma questo non dice nulla sul valore di un'opera; anzi, le opere, quando sono grandi, istituiscono un genere nuovo: la Divina Commedia di Dante è un poema, ma non è esattamente un poema epico come i poemi dell'antichità; è talmente fusa di generi diversi che Dante la chiama Commedia come opera che non è una tragedia in senso classico, non veicola soltanto linguaggi e personaggi elevati, ma anche linguaggi e personaggi comuni. Dire a quale genere appartenga la Divina Commedia è difficile, perché è un'opera unica. Per Croce, tutte le opere riuscite, grandi, sono uniche. Qualcosa del genere avviene anche riguardo alle categorie estetiche (esempi: tragico, comico, sublime): la discussione su queste categorie è ancora una generalizzazione superficiale per Croce: la sua idea è che non esiste IL tragico, ma tante tragedie, in ognuna delle quali il tragico è declinato in modo diverso; allo stesso modo, ogni opera comica è comica a modo suo. Dire che un'opera è comica o tragica può servire a collocarla in uno schema, ma non ci dice nulla sui contenuti specifici di quest'opera. Il caso del comico diede spunto a una polemica letteraria che vide Croce opposto a Pirandello a proposito dell'umorismo: Pirandello aveva dato la sua definizione dell'umorismo, dicendo che alla base del fenomeno umoristico c'è il sentimento del contrario; Croce mostra che questa definizione dell'umoristico si adatta ad alcune opere, ma non si adatta affatto a molte altre. La critica artistica Croce ha avuto grande influenza sulla cultura italiana, perché non è stato soltanto un teorico, ma ha praticato per molti anni un'attività di critico militante, che affronta la produzione letteraria del suo tempo. A partire dall'inizio del Novecento e grossomodo fino al 1915 Croce segue quasi quotidianamente le novità della letteratura italiana e compone una serie di saggi che poi raccoglierà in molti volumi intitolati La letteratura della Nuova Italia. Questa attività di critico letterario verrà ampliata ai grandi autori della letteratura del passato, scrivendo saggi su Ariosto, su Dante e su autori stranieri come Shakespeare. In accordo con la sua estetica, quando Croce parla di un'opera letteraria definisce il sentimento che la anima, per esempio definisce Ariosto come poeta dell'armonia. In accordo con la sua concezione estetica, Croce esclude gli aspetti che non appartengono propriamente all'aspetto intuitivo e sensitivo dell'arte, per esempio non apprezza gli elementi filosofici, religiosi, morali, che entrano in molte opere d'arte; li considera aspetti spuri, che non devono entrare nella valutazione estetica e che nella migliore delle ipotesi non appartengono all'aspetto propriamente artistico dell'opera e possono al massimo non nuocere, ma non le giovano. Per esempio elabora la distinzione tra l'aspetto poetico e quello strutturale della Divina Commedia di Dante: poesia sono i grandi momenti lirici: Paolo e Francesca, Pier delle Vigne, Farinata; struttura è invece l'edificio dottrinale-cristiano, l'architettura 57 dei tre regni, il sottofondo filosofico e religioso su cui Dante costruisce la propria idea del mondo di qua e dell'aldilà. Croce non ama quindi gli artisti "pensanti", per esempio non amava Leopardi, ma amava Ariosto, che non vuole insegnare nulla ma vuole soprattutto creare un grande mondo fantastico. Estetica e linguistica Croce sostiene l'identità di estetica e linguistica; l'identità di produzione artistica e produzione di linguaggio. Questa tesi sembra contraddire la nostra esperienza comune: quasi mai la nostra produzione linguistica è una produzione artistica; non pensiamo di fare arte quando parliamo. Quando Croce pubblica la sua prima grande opera, che aveva come titolo Estetica come scienza dell'espressione linguistica generale, la reazione fu sostanzialmente di sconcerto. Si può spiegare questa tesi pensando all'aspetto di sottolineatura del momento individuale tipico di Croce, che nel linguaggio vuole sottolineare l'aspetto creativo, quell'aspetto in forza del quale, anche quando diciamo una parola nota, la pronunciamo con un accento, un'intenzione, in un contesto tale, che la rende in qualche misura nuova. Naturalmente, nel linguaggio non c'è soltanto l'aspetto creativo, c'è anche la grammatica, la lingua codificata. La grammatica è la raccolta delle regole ricavate dal linguaggio vivo; secondo Croce questo aspetto è un aspetto secondario rispetto a quello produttivo e creativo del linguaggio; quello che conta è la capacità innovativa del linguaggio, non la sua codificazione nei vocabolari: l'uso del linguaggio è più importante della sua codificazione grammaticale. Croce antepone alla grammatica, che secondo lui è frutto di un'astrazione ricavata dalla lingua viva, la vivacità e l'uso diretto del linguaggio: il vero significato delle parole vive nella continua trasformazione a cui esse vanno incontro, e non nella raccolta di schemi che sono i vocabolari. Ricapitolazione Punti principali dell'estetica di Croce: ➢ Croce dà grande rilievo all'indipendenza dell'arte; l'articolazione sistematica in quattro grandi forme dello Spirito serve a Croce per porre l'arte alla base del processo e quindi darle un rilievo e un'autonomia decisivi rispetto a tutte le altre forme; ➢ Croce interpreta l'arte come identità di intuizione-espressione: noi esprimiamo quello che siamo stati capaci di intuire; ➢ Il significato di tutto ciò è un'estrema accentuazione del carattere individuale della singola opera: Croce ritiene che allontanarsi dalla singola opera significhi tradirla; ➢ Per questo, l'estetica di Croce si traduce in una protesta molto ferma contro tutte le classificazioni (delle arti, dei generi, della grammatica). LEZIONE 16 – HEIDEGGER, ARTE E VERITÀ Heidegger: gli scritti sulle arti Il nesso tra arte e verità è l'aspetto più caratteristico della riflessione di Martin Heidegger sull'estetica. Heidegger (1889-1976) è stato uno dei più discussi filosofi del Novecento. Nel suo capolavoro Essere e tempo (1927) non si parla di estetica; questo testo è rivolto a temi che non toccano propriamente quelli dell'arte, ma nel 1936 Heidegger tiene a Roma una conferenza dal titolo L'origine dell'opera d'arte che contiene i concetti fondamentali della sua estetica. Ci sono poi le letture di Rilke, Hoelderlin, Trakl, in cui Heidegger si concentra sull'interpretazione di questi grandi poeti di lingua tedesca, rilevanti non tanto per la sua estetica quanto per la sua filosofia in generale, perché Heidegger legge questi poeti con attenzione estrema al loro significato filosofico. Ci sono inoltre gli scritti sulla scultura e architettura, arti cui Heidegger, soprattutto nell'ultima fase del suo pensiero, dedica una certa attenzione. La nozione fondamentale di Heidegger di interesse per il corso è che l'arte sia un tramite 60 La verità come rivelazione Il senso di questo ripensamento è tutto a proposito della nozione di verità come rivelazione, che permette a Heidegger di pensare l'opera d'arte come messa in opera della verità. L'arte ci mostra ciò che qualcosa è veramente. Non si tratta di riprodurre il reale, ma di svelarlo. Heidegger vuole proporre un nuovo senso del termine verità, che non consiste nell'adeguarsi alla realtà, ma nel rivelarla. Heidegger attribuisce all'arte la capacità di rivelare la vera essenza delle cose. Allora, la nozione di arte che Heidegger presenta è molto forte, perché l'arte rivela la verità come la filosofia, come l'azione politica, come la decisione storica. Egli ritiene che ci siano delle forme che sono in grado di metterci in contatto con la verità delle cose; una di queste è l'arte, altre sono il pensiero filosofico e l'azione politica. Il primato dell'arte Heidegger può essere considerato come un teorizzatore del primato dell'arte rispetto alla scienza, alla quale secondo lui è superiore. L'arte, come la filosofia, dà accesso alla verità. Possiamo quindi parlare per Heidegger di un primato dell'arte e possiamo dire che il primato dell'arte sulle altre attività è un lascito del Romanticismo, che considerava l'arte una forma superiore di conoscenza. Il discorso di Heidegger assume senso soltanto se lo mettiamo in relazione con le "grandi" opere d'arte, in cui si sedimenta qualcosa di essenziale della nostra cultura, del nostro modo di vedere il mondo. Ricapitolazione ➢ L'origine dell'opera d'arte (1936), saggio in cui Heidegger espone le proprie idee sull'estetica; ➢ Nel saggio, teorizza l'idea dell'opera d'arte come messa in opera della verità, l'arte come tramite verso la verità; ➢ Heidegger chiarisce l'opera d'arte in termini di rapporto fra "mondo" (insieme di aspetti espliciti con i quali l'opera ci mette in contatto) e "terra" (riserva di senso rappresentata dal suo fondo materiale); ➢ Soltanto un'idea di verità come rivelazione è adeguata al pensiero di Heidegger sull'arte; ➢ Tale pensiero porta a ribadire un primato dell'arte già teorizzato in epoca romantica e che egli riprende con molta forza nella propria idea dell'arte come rivelazione della verità. LEZIONE 17 – ADORNO: AVANGUARDIA E ARTE DI MASSA T.W. Adorno Theodor Wiesengrund Adorno (1895-1969) ha tra i suoi temi principali l'avanguardia e l'arte di massa. Gli studi in Germania e l'emigrazione in America sono stati i momenti che hanno più segnato la vita dell'autore. Il cognome Adorno è il cognome della madre; Wiesengrund era il cognome del padre, commerciante ebreo. Studia in Germania e dopo il dottorato prosegue gli studi, ma l'avvento al potere di Hitler lo costringe a emigrare prima in Gran Bretagna e poi in America. Adorno era molto legato alla vita culturale tedesca e l'emigrazione segna un grande shock per lui. L'incontro con un mondo in cui già l'arte stava prendendo nette caratteristiche di massa lo influenza e lo spinge a riflettere su nuovi argomenti. L'opera principale di Adorno, Teoria estetica, è apparsa postuma, negli anni '70. È lontana dall'emigrazione in America, ed è frutto degli anni che Adorno trascorrerà in Germania dopo la caduta di Hitler, insegnando all'università di Francoforte. Quest'opera conclusiva di Adorno può essere considerata come una teorizzazione rivolta in particolare alla funzione dell'Avanguardia e che in Adorno ha una relazione di netta opposizione all'arte di massa. Che cos'è stata l'Avanguardia L'avanguardia artistica è un fenomeno tipico della prima metà del Novecento; vi sono stati 61 anche movimenti di neoavanguardia nella seconda metà del secolo, ma fondamentalmente questi ultimi sono stati movimenti che hanno ripreso e riprodotto un po' stancamente quell'effervescenza delle arti tipica della prima metà del Novecento e che ha segnato in modo caratteristico soprattutto la stagione degli anni '10, '20 e '30. Le Avanguardie erano: Cubisti, Futuristi italiani e russi, dadaisti, surrealisti, espressionisti. Questi movimenti attraversano tutta l'Europa, si può attribuire un primato al nostro Futurismo, che si è diffuso poi in altri Paesi e ha avuto una storia importante anche in Russia. Tutti questi movimenti hanno caratteri comuni: ➢ Gli artisti formano un gruppo e agiscono secondo un programma (i manifesti), cosa molto diversa da quanto accade oggi. Gli artisti nell'avanguardia si sentono portatori di una forza che vogliono manifestare all'esterno; ➢ Opposizione al gusto dominante e all'arte tradizionale; gli artisti d'avanguardia sono proiettati contro il gusto del pubblico, che vogliono spiazzare e cambiare profondamente; ➢ Aspirazione a un rinnovamento completo della società L'arte come utopia e liberazione Questo terzo aspetto è quello che aiuta a capire un'idea fondamentale di Adorno, che l'arte sia un'utopia e una liberazione. In Adorno, l'arte può valere come critica dell'esistente: Adorno accentua moltissimo il carattere eversivo, innovativo, rivoluzionario dell'arte, che rappresenta una sorta di ribellione nei confronti del mondo di tutti i giorni, come esso è organizzato con le sue rigidità e le sue ingiustizie. L'arte come utopia indica che l'arte configura un luogo altro, in cui i rapporti sociali e i rapporti individuali possono essere pensati in modo totalmente diverso. Questo fa sì che Adorno veda l'arte come liberazione dal mondo amministrato. L'espressione "mondo amministrato" rispecchia la visione di Adorno, che considera l'organizzazione della società borghese un'organizzazione che schiaccia e limita l'individuo. Di fronte a questa limitazione, è proprio l'arte ad aprire lo spazio della libertà e lo spazio di un mondo diverso, ma solo l'arte che si oppone alle abitudini del pubblico può proporsi come alternativa: solo un'arte che richiede impegno da parte del pubblico può aspirare ad avere la funzione liberatrice. Adorno, quando pensa a questo tipo di arte, pensa innanzitutto all'arte delle avanguardie. Gli artisti che hanno prodotto all'inizio del Novecento un'arte che aveva i caratteri di un'opposizione all'arte precedente e una difficoltà di comprensione da parte del pubblico, ma che proprio per questo si proponeva come modificazione della vita e poteva proporsi un programma di rinnovamento non soltanto estetico ma anche politico. L'arte alta, cioè l'arte che si oppone all'arte di consumo, è per Adorno l'arte di avanguardia, che si schiera programmaticamente contro l'arte tradizionale e che soprattutto aspira a cambiare la reazione del pubblico di fronte all'arte ed esige da parte del pubblico un impegno e una serietà che l'arte vissuta come arte di consumo non potrà mai garantire. L’industria culturale L'arte di avanguardia si pone, in Adorno, in contrapposizione a quella che l'autore chiama l'industria culturale. Arte popolare, arte di massa e industria culturale vengono a volte intese come puramente analoghe, ma in realtà, specie agli occhi di Adorno, vogliono dire cose diverse. L'arte popolare è tradizionalmente l'arte che deriva dalle abitudini e dalle creazioni degli strati meno colti della società. L'arte di massa è invece un fenomeno tipico delle società avanzate; non possiamo parlare di arte di massa prima dell'avvento di mezzi come la fotografia, il cinema, la televisione. Adorno sceglie di non parlare né di arte popolare, né di arte di massa, ma di industria culturale, perché vuole sottolineare non solo che l'arte prodotta nelle società avanzate non è un'arte prodotta dalle masse, ma è un'arte prodotta per le masse e pensata per essere sottoposta all'utilizzo da parte degli strati diffusi della società, ma anche perché vuole sottolineare il fatto che il prodotto artistico 62 contemporaneo, quando non è un prodotto artistico d'avanguardia, è un prodotto di un'industria che ha le sue regole, le sue strutture e le sue leggi. Il prodotto artistico come prodotto industriale è il motivo che spinge Adorno a parlare di industria culturale. Il prodotto dell'industria culturale (prodotto culturale industriale) ha i suoi caratteri specifici, che derivano dal modo in cui viene prodotto, in cui viene pianificato; in questa pianificazione, l'industria culturale incontra la propaganda e può agire come un formidabile persuasore. Tradizionalmente, l'arte popolare è un'arte prodotta dagli strati meno colti per gli strati meno colti: i canti popolari, per esempio, sono canti che vengono direttamente dalle classi meno istruite. È un'arte molto semplice, senza pretese, ma che ha una caratteristica che la differenzia dall'industria culturale: il fatto che quest'arte nasce dagli stessi strati sociali che poi la consumano. Il termine arte di massa si presta a un equivoco, rappresentato dal fatto che essa non è un'arte delle masse, ma è un'arte, quella dell'industria culturale, che viene dall'alto e "scende" verso i propri consumatori. Dunque, l'arte popolare si muove, per così dire, orizzontalmente, mentre l'industria culturale presuppone un movimento verso il basso: l'arte di massa viene prodotta da pochi e viene consumata da molti. Caratteri del prodotto culturale industriale Tenendo presente che Adorno ha in mente fenomeni come l'industria hollywoodiana del cinema o come la diffusione di programmi televisivi, o la radio o la letteratura e la stampa popolare, che aveva incontrato durante la sua emigrazione in America e che aveva messo a confronto con l'uso dell'arte di massa compiuto nella Germania nazista, possiamo riassumere i caratteri del prodotto dell'industria culturale: ➢ I prodotti dell'industria culturale sono pianificati: a differenza dei prodotti artistici che di solito facciamo risalire alla genialità o all'impegno di un singolo, il prodotto dell'industria culturale viene progettato in funzione della sua utilizzazione. Si tratta perlopiù di opere collettive, in cui si ha una collaborazione, e di opere che hanno lo scopo di imporsi. Che poi riescano veramente a imporsi può non accadere, ma per Adorno quello che conta è che la loro nascita è finalizzata al loro trionfo commerciale; ➢ I prodotti dell'industria culturale sono prodotti indirizzati al consumo e lo determinano: nell'industria culturale, Adorno vede prevalere l'industria sulla cultura e proprio per questo il prodotto culturale industriale è un prodotto rivolto innanzitutto al consumo; non è pensato per altri motivi che per essere acquistato e consumato dal pubblico, ecco perché secondo Adorno assomiglia straordinariamente a un prodotto industriale qualsiasi. Il consumo di questi prodotti non è un consumo autonomo, ma è condizionato e determinato dal prodotto stesso; ➢ L'industria culturale è resa possibile dalla tecnica e dalla programmazione economica; il prodotto culturale industriale non può fare a meno delle tecniche, né della programmazione economica, ovvero della organizzazione complessiva della produzione; ➢ Il pubblico diventa un ingranaggio del meccanismo. Non c'è un'autonomia del pubblico, una partecipazione attiva, soprattutto non c'è lo sforzo caratteristico dell'avanguardia di rendere il destinatario del prodotto artistico più consapevole e di responsabilizzarlo; anzi, nell'industria culturale il pubblico fa parte dell'industria stessa, ne è soltanto il destinatario finale e viene privato della possibilità di esprimere il proprio parere altrimenti che attraverso il consumo; ➢ Ciò porta a una standardizzazione dei prodotti: i prodotti dell'industria culturale tendono tutti ad assimilarsi. Per esempio, spesso, i best seller letterari ricalcano alcuni modelli, oppure il film di grande successo sfrutta l'inclinazione del pubblico per il patetico o lo spaventoso. ➢ Questa somiglianza dei prodotti dell'industria culturale si traduce in una mancanza di vere e proprie differenze qualitative (illusorietà delle differenze qualitative). Adorno ritiene che le differenze qualitative siano illusorie perché pensa che un'arte finalizzata al consumo debba semplicemente fingere delle differenze, che non sono differenze reali. Adorno sottolinea 65 un uomo posso capire se è alto o basso, biondo o bruno, e queste sono proprietà aspettuali, mentre se è zio o nonno non posso saperlo se non venendo a conoscenza del fatto che ha un nipote, e queste sono proprietà relazionali. Questa distinzione aiuta a capire la posizione di Arthur Danto e la sua tesi riguardo le Brillo boxes di Andy Warhol, che aveva esposto in una galleria d'arte una serie di scatole di spugnette per piatti in tutto uguali a quelle che si possono trovare sugli scaffali di un supermercato. Di qui la domanda di Danto: cosa distingue il prodotto commerciale dall'opera d'arte esposta in una galleria? Proprio il fatto di essere esposta in una galleria. Un concetto fondamentale della filosofia di Danto è quello di mondo dell'arte: secondo lui, ciò che permette di riconoscere un'opera d'arte come tale non è soltanto ciò che vediamo, anzi ormai nell'arte contemporanea è sempre meno quello che vediamo e sempre più quello che sappiamo dell'opera d'arte, l'insieme di teorie che circonda l'opera e che permette di trasformare un oggetto comune in un'opera d'arte. Questo concetto di Danto consente la distinzione tra definizioni funzionali e istituzionali: sono funzionali quelle definizioni che partono da ciò che l'opera d'arte fa; posso dire che l'opera d'arte serve a produrre piacere, a suscitare un'esperienza estetica, a divertire, ecc.; sono istituzionali quelle definizioni che puntano ai modi in base ai quali vengono riconosciute le opere d'arte, per esempio il fatto che esse vengono esposte nei musei o premiate nei concorsi, o esibite nelle gallerie. Ci sono due celebri definizioni istituzionali dell'arte date nell'ambito dell'estetica analitica. La definizione istituzionale di George Dickie è una definizione che sostiene che ciò che consente di denominare qualcosa un'opera d'arte è il fatto che si tratti di un prodotto artificiale che viene prodotto per essere esibito e giudicato da un pubblico appartenente al mondo dell'arte, identificando il concetto di mondo dell'arte di Danto in senso strettamente istituzionale, cioè con il gruppo di persone che hanno un ruolo deputato nel riconoscimento dell'opera d'arte. Un'altra definizione dello stesso tipo è la definizione storica di Levinson, che sostiene che ciò che ci permette di riconoscere qualcosa come un'opera d'arte è il fatto che l'oggetto sia stato prodotto con l'intenzione di essere utilizzato in uno dei modi in cui è stata utilizzata in precedenza l'arte. Anche in questo caso, ciò che decide sull'artisticità è la continuità con un modo tradizionale o precedente di vedere l'arte; non si tratta di giudicare l'opera, perché l'ha già giudicata la storia precedente, riconoscendo che quel tipo di atteggiamento nei confronti dell'opera d'arte è un tipo di atteggiamento che viene recepito come proprio della produzione artistica. Questo tipo di definizioni si presta a una critica: ovviamente non dicono quasi niente sull'opera d'arte stessa e si limitano a porre l'accento sulla cornice istituzionale in cui l'opera è introdotta, che nel caso di Dickie è una cornice fatta dai protagonisti del mondo dell'arte contemporanea; nel caso di Levinson è l'insieme delle pratiche artistiche così come si sono strutturate nel tempo. La caratteristica delle definizioni istituzionali è proprio quella di non pronunciarsi e ritenere che si possa non pronunciarsi sul valore dell'opera d'arte, ma indicare come l'opera d'arte è tradizionalmente riconosciuta e recepita dal pubblico. Le parole della critica Il secondo aspetto centrale nella riflessione dell'estetica analitica è la considerazione del lessico, soprattutto l'analisi del modo in cui funzionano i termini con cui noi valutiamo e descriviamo l'opera d'arte, come "sublime", "grazioso", "terrificante", ecc., che ricorrono nel giudizio sull'opera d'arte. Si tratta quindi di un aspetto dell'analisi del linguaggio della critica d'arte, che è tipico dell'estetica analitica, che prende ad oggetto il modo in cui si parla delle opere d'arte nel linguaggio della critica. Anche in questo caso, lo fa soprattutto per stabilire una distinzione, quella tra proprietà percettive e proprietà estetiche. Le percettive sono proprietà che possiamo avvertire nell'opera direttamente con i nostri sensi e tutti lo percepiamo allo stesso modo, posto che i nostri sensi 66 funzionino correttamente. Viceversa, se una musica è triste o trascinante, sono proprietà che non avvertiamo direttamente con i sensi e che anche persone dotate di sensi perfettamente funzionanti possono non avvertire. Questo porta l'estetica analitica a teorizzare una differenza radicale fra i due termini: le proprietà estetiche richiedono gusto, ovvero una capacità di discernimento ulteriore a quella che hanno i nostri sensi nel loro funzionamento normale. L'estetica analitica si interroga poi sul rapporto tra proprietà percettive e proprietà estetiche. Una lunga discussione sul problema ha portato ad alcuni punti relativamente condivisi; innanzitutto il fatto che non si può negare che questo rapporto esista: le proprietà estetiche di un'opera sono il riflesso e la conseguenza delle sue proprietà percettive; se cambiano queste ultime, cambiano anche le proprietà estetiche. Il problema su cui l'estetica analitica ha lungamente discusso è il fatto che questa dipendenza delle proprietà estetiche dalle proprietà percettive non può essere indicata a priori: non posso prevedere per esempio che un determinato assetto percettivo conduca a una determinata proprietà estetica. Un esempio: il termine "grazioso". Posso dire che un disegno in cui i contorni sono spigolosi non sarà mai descrivibile in termini di grazia, ma al tempo stesso non posso dire che un contorno curvilineo, dolce, sia necessariamente un insieme di caratteri che portano a riconoscere come grazioso il disegno. Possiamo sapere che un determinato insieme di proprietà percettive ci impedisce di attribuire un determinato qualificativo all'opera, ma non possiamo definire in positivo questo rapporto. La definizione di proprietà estetiche in quanto distinte da quelle percettive aiuta l'estetica analitica a stabilire una relazione fra le prime e le seconde, ma una relazione che è tipica delle opere d'arte e che non ha analogie nella normale percezione. Cosa sono le opere d'arte? Questo è un altro aspetto che ha richiesto una grande riflessione da parte dell'estetica analitica. La domanda deve essere intesa in senso tecnico, cioè quali sono i modi d'esistenza delle opere d'arte, che non esistono tutte allo stesso modo; stabilire i diversi modi in cui le opere d'arte esistono è il compito dell'ontologia dell'arte. Un esempio del fatto che non tutte le opere d'arte esistono allo stesso modo è che si può falsificare un quadro, ma non una poesia. Il problema del perché ci siano tipi di arte in cui possiamo produrre esemplari dell'opera e altri tipi in cui possiamo produrre dei falsi è tipico dell'ontologia dell'arte e sui cui l'estetica analitica ha riflettuto, giungendo alla conclusione che in questo caso il problema è il rapporto fra proprietà necessarie e contingenti: in un dipinto tutte le proprietà materiali sono necessarie; il fatto che i colori siano stati disposti in un certo ordine, con una certa intensità, su un certo supporto; viceversa, in un testo stampato molte proprietà sono contingenti: che sia scritto con caratteri gotici o latini, che sia in stampatello o corsivo non cambia il testo, sempre che sia rispettata la natura e l'ordine delle parole. Questo significa che ci sono opere che si differenziano per la storia della produzione, cioè ci sono opere in cui questa storia è essenziale: un dipinto di Giotto è tale perché è stato dipinto da Giotto e deve avere tutte le caratteristiche che ci permettano di pensare che sia stato dipinto da lui; viceversa, la storia della produzione nel caso di un'opera letteraria o, entro certi limiti, anche un'opera musicale, non è altrettanto decisiva. Questa distinzione è stata teorizzata da Nelson Goodman come distinzione tra autografico e allografico: ci sono opere (autografiche) in cui conta la mano dell'artista, e opere (allografiche) in cui invece la mano, cioè la storia della produzione, non è necessaria né decisiva. Queste opere sono tipicamente quelle che hanno una notazione, non solo quelle, ma innanzitutto quelle. Sono autografiche la pittura, la scultura in pietra (perché quella per fusione si può almeno in parte riprodurre); sono allografiche la poesia e la musica. Ci sono naturalmente anche casi dubbi, per esempio l'architettura, che per certi versi è ripetibile, ma per altri è irripetibile, oppure le traduzioni delle opere letterarie, che non hanno materialmente lo stesso ordine delle parole, né le stesse parole del testo originale, ma che noi consideriamo comunque un esemplare trasposto dell'originale. 67 La natura delle emozioni nell'arte Un altro aspetto discusso dall'estetica analitica è la natura delle emozioni nell'arte. Innanzitutto, l'estetica analitica si è concentrata sulle emozioni (intenzionali, che si rivolgono verso qualcosa o qualcuno di esterno) e i sentimenti (che di solito non sono intenzionali, non legati a qualcosa di esterno che li suscita). Molti estetici analitici si sono chiesti se le emozioni suscitate dall'arte sono vere. Considerando che nell'arte abbiamo molto spesso a che fare con soggetti, scenari e oggetti immaginari, possiamo dire che i personaggi che suscitano le emozioni sono fittizi, sappiamo che non sono veri, ma come possiamo provare emozioni vere per personaggi fittizi? Questo tipo di problema va sotto il nome di paradosso delle emozioni di finzione e le risposte che sono state date a questo paradosso sono di due tipi. La prima soluzione è che si possono provare emozioni vere anche per personaggi fittizi: in molti casi noi proviamo emozioni reali anche in assenza delle condizioni effettive che dovrebbero farci provare queste emozioni. Il pensiero di un pericolo, per esempio, è sufficiente a farmi paura. Per quanto sia stata spesso avanzata nell'ambito dell'estetica analitica, questo tipo di soluzione continua a non sembrare del tutto soddisfacente, soprattutto perché il pericolo nel caso dell'esempio citato per quanto immaginato erroneamente è pur sempre un pericolo possibile, mentre nel caso di personaggi fittizi non abbiamo questo elemento di realtà. L'altra soluzione può essere più convincente: le emozioni che proviamo per i personaggi fittizi non sono equivalenti a emozioni reali. Apparentemente ci innamoriamo dei personaggi della letteratura o del cinema, oppure proviamo paura per una situazione rappresentata sullo schermo, ma se osserviamo bene queste reazioni sono soltanto analoghe a quelle che proviamo nella realtà, innanzitutto perché noi proviamo queste emozioni senza il contesto e le conseguenze reali che si accompagnano normalmente a queste emozioni, dunque le emozioni non preludono a comportamenti reali; inoltre, noi proviamo piacere anche di fronte a spettacoli dolorosi. Allora, possiamo considerare gli stati emotivi indotti come simulazione o apprendimento, cioè gli stati emotivi indotti dalle opere d'arte possono essere considerati come forme simulatorie, duplicazioni della nostra esperienza e possiamo considerarli come dei fenomeni che hanno una valenza di apprendimento, ovvero che servono per un training comportamentale utile per il nostro essere nel mondo. Ricapitolazione Caratteri dell'estetica analitica e suoi problemi fondamentali ➢ La definizione dell'arte: due grandi forme di definizione, la definizione istituzionale e quella funzionale (Danto, Dickie, Levinson); ➢ Le proprietà estetiche: differenza netta tra proprietà percettive e proprietà estetiche; nesso tra le seconde e le prime; ➢ L'ontologia dell'arte: riflessione sui modi di esistenza dell'opera d'arte. Differenza fondamentale tra le arti autografiche, in cui è possibile la produzione di falsi e arti in cui questo non è possibile (allografiche) – Nelson Goodman; ➢ Le emozioni estetiche: le emozioni che proviamo nella fruizione di un'opera d'arte sono vere o fittizie? Due possibili soluzioni, una che ritiene che le emozioni siano reali, l'altra che mette l'accento sul loro carattere di analogia e simulazione di stati emotivi veri e propri.
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