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APPUNTI LEZIONI DI STORIA DELL'ARTE CONTEMPORANEA A.A. 2022/2023, Appunti di Storia dell'arte contemporanea

Appunti completi e dettagliati delle lezioni di Storia dell'arte contemporanea III (6 cfu) del prof. Viva dell'a.a. 2022/2023.

Cosa imparerai

  • Che cosa caratterizza il Dadaismo?
  • Che cosa caratterizza la Pittura Metafisica?
  • Come si influenzano la Pittura Metafisica e il Dadaismo?
  • Che ruoli giocano Giorgio de Chirico e Carlo Carrà nella storia dell'arte?
  • Quando nasce la Pittura Metafisica?

Tipologia: Appunti

2022/2023

In vendita dal 26/04/2023

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Scarica APPUNTI LEZIONI DI STORIA DELL'ARTE CONTEMPORANEA A.A. 2022/2023 e più Appunti in PDF di Storia dell'arte contemporanea solo su Docsity! -STORIA DELL’ARTE CONTEMPORANEA Lezione 1 (07/11/22) PITTURA METAFISICA E “RITORNO ALL’ORDINE” Punto di svolta che si colloca poco prima e durante la Prima guerra mondiale. La pittura metafisica è un movimento che segna una voluta inversione rispetto alla linearità progressiva delle avanguardie. La pittura metafisica non si pone come un’avanguardia sperimentale, nel senso in cui si erano posti i cubisti, i futuristi ecc., ma segna un rinnovamento della pittura fatto attraverso un riferimento al passato, una inclusione e una rivisitazione della tradizione all’interno della pittura moderna. Dunque, è un cambio di paradigma, perché non possiamo definire a tutti gli effetti la pittura metafisica una vera e propria avanguardia, perché non ha un manifesto, ma soprattutto non ha quel piglio e quella pretenziosità di innovare il passato. La pittura metafisica, segnando un’inversione rispetto all’avanguardia che l’aveva preceduta in Italia, cioè il futurismo, di fatto sancisce anche un ingresso più consolidato della pittura italiana all’interno del dibattito europeo internazionale, al quale non solo il futurismo, ma anche la pittura metafisica contribuisce in modo attivo, innovativo, introducendo nuove linee di ricerca, nuovi stili e modalità di concepire l’immagine e l’opera d’arte. La Metafisica, insieme al futurismo e all’arte povera, è uno dei tre movimenti tra i più celebri a livello globale e internazionale. La pittura metafisica ruota attorno ad un pittore individuale, a un fondatore, cioè Giorgio de Chirico. De Chirico inizia a dipingere in modo “metafisico” in un periodo che va dal 1910 in poi (secondo de Chirico) o dal 1912 (secondo la storiografia). Nel 1912 si trasferisce a Parigi, mentre nel biennio precedente De Chirico sente ancora molto di modelli tardo romantici tedeschi o classicisti tedeschi. Attorno al 1916-1917-1918, durante gli anni della guerra, De Chirico si trasferisce a Ferrara con il fratello Alberto de Chirico, che assumerà il nome di Alberto Savinio, e insieme a una miriade di artisti che cominceranno a frequentare, in particolare Carlo Carrà, sviluppano un clima di lavoro che va sotto il nome di Pittura Metafisica. Lo stesso Savinio, che allora era solo uno scrittore, ma che condivide questo clima, poi dopo si dedicherà anch’egli alla pittura, con risultati molto interessanti. La pittura metafisica ha un nuovo modo di innovare il linguaggio artistico. Non propone una rottura secca con la tradizione, ma una reinterpretazione, una rivisitazione in chiave moderna. De Chirico recupera la pittura rinascimentale come elemento straniante, ossessivo oppure l’iconografia classica, antica, però accostandola in modo anacronistico, inaspettato, inconsueto a elementi della modernità, in un clima chiaroveggente, onirico, ben visibile nei suoi quadri. Sono tutti elementi che de Chirico recupera e reinterpreta, invece di operare come proponevano i futuristi, ovvero distruggendo il museo, tagliando i ponti col passato. Secondo punto essenziale della pittura metafisica è che essa è una ricerca innanzitutto individuale: ciascun artista mescola il proprio elemento biografico a elementi mitologici, isterici, cultura sofisticata di carattere filosofico e letterario. Per esempio, de Chirico recupera in qualche modo Schopenhauer e Nietzsche e questa visione individualista della scoperta del mondo e della verità, tipica nietzschiana, e ricongiunge questi elementi con questo clima di recupero biografico, malinconico e colto della classicità, che era appartenuto già a Böcklin e ad altri pittori tedeschi del tardo Ottocento. Il terzo elemento della pittura metafisica è che coglie dalle avanguardie elementi moderati di innovazione linguistica, sempre destinandoli ad un effetto complessivo straniante e onirico. La presenza di spazi tra loro incoerenti, l’uso di prospettive inverse, scorciate e quasi irreali deriva, insieme alla sospensione del tempo, dalla libertà che i pittori avevano acquisito nei primi quindici anni del Novecento attraverso il linguaggio cubista. Modi di interpretare la pittura metafisica: - vedere la pittura metafisica ancora in rapporto di continuità con le altre avanguardie, in particolare quelle avanguardie che durante il periodo tra le due guerre continuarono l’esperienza delle avanguardie e la rottura con il passato, l’innovazione linguistica, anche a costo di risultare incomprensibile al pubblico, di scandalizzarlo. La pittura metafisica sembrò entrare in rapporto con questa esperienza che continuano durante questo ventennio il dadaismo e il surrealismo: il dadaismo vide un compagno di strada nella pittura metafisica; il surrealismo vide una scintilla ispiratrice nella pittura metafisica da cui poi avviare una ricerca verso inconscio, iconografie associative ecc. L’elemento che suggeriva a questi artisti una ricezione della pittura metafisica come elemento innovativo erano per esempio quegli elementi di accostamento incongruo che de Chirico metteva in scena nei suoi quadri ed elementi di accostamento irrazionale, misterioso, inspiegabile secondo i criteri di iconografia tradizionale; - la pittura metafisica fu un avvio di ritorno all’ordine, un clima di revisione delle avanguardie, di ripensamento da parte degli artisti, che cercarono di abbandonare quel tipo di atteggiamento per confluire invece in una ricerca che recuperava la tradizione, si poneva di nuovo in termini di ricerca di una classicità. Giorgio de Chirico, Natura morta. Torino in primavera (1914) L’immagine dovrebbe avere un soggetto. È un paesaggio, ma il titolo ci dice che è una natura morta. Qui abbiamo una fusione tra due generi, una commistione. Elementi di una natura morta: oggetti. C’è un piano rosso (forse tavolo, forse davanzale di una finestra) su cui sono posizionati degli oggetti disposti sotto una illuminazione, rappresentati con un certo indugiare sulla loro consistenza. Oggetti: carciofo, uovo, libro. Scorcio prospettico di un palazzo con una forma architettonica particolare (arcate pronunciate che seguono il ritmo delle finestre). Intravediamo anche un monumento equestre: vediamo il piedistallo e la figura del cavallo. Ci aspettiamo un cavaliere. Il monumento sembra un monumento bronzeo perché è reso con un’ombra nera. In fondo vediamo una luce ambigua, tra l’alba e il tramonto. Vediamo anche uno scorcio paesaggistico. Bandiera blu. Non ci sono personaggi. Altro elemento strano: mano nera che indica verso il basso. È quindi una commistione di generi: primo piano che si apre con una natura morta; secondo piano con un paesaggio. A destra c’è un’ombra proiettata sul piano di una presenza che non conosciamo. Come è organizzato lo spazio? Spiccata tendenza a ricondurre le forme ad una regolarità geometrica (libro: rettangolo, uovo: ovale ecc.). C’è una componente dechirichiana ricorrente: un piano ci introduce dal nostro primo piano verso la scena. Questo piano quasi sempre è davvero un piano, una forma geometrica netta e monocroma. Incongruenza di punti di vista. Il piano va in alto. Questo piano è talmente rialzato e ripido che sembra un palcoscenico teatrale. Inoltre, sembra creare una situazione angosciosa di ascesa o di ostacolo rispetto a quello che stiamo vedendo di là (l’edificio). De Chirico usa il sistema prospettico nell’edificio. Il piano ha un punto di fuga alto, mentre l’edificio (alto e maestoso) ha un punto di fuga basso. Doppia vertigine. La prospettiva è usata con un criterio particolare: non è ammessa la rappresentazione degli oggetti dallo stesso punto di vista. Le zone principali hanno punti di vista differenti. C’è un elemento cubista. La luce: illuminazione artificiale tipica della natura morta, luce indagatrice, luce che è fondamentale e orientata, luce che è artificiale perché ha una forza e un orientamento a fascio. In realtà non è detto che sia così. Questa sensazione ci viene dal fatto che le ombre sono orientate tutte nella stessa direzione. Non sentiamo una luce solare, diffusa. In secondo piano c’è una luce nel fondo del cielo piazze ispirate dai porticati di Torino, di Firenze, asciugati e resi spogli, essenziali. Quindi, lui rappresenta in un’opera sola l’Italia con elementi vari. Giorgio de Chirico, Malinconia (1912) → Arianna abbandonata, figura mitologica che perde il filo della ragione. Allusione alla malinconia, il sentimento dell’artista e anche il sentimento dell’ispirazione artistica. Giorgio de Chirico, Canto d’amore (1914) → Apolinnaire forse lo vede nell’estate del 1914, quando viene probabilmente dipinto. Gli restituisce il ricordo di una visita dello studio di De Chirico a Parigi in cui osserva un guanto di gomma in lattice. Guanto in lattiche flesso, pendente, mollo, lasso, inchiodato ad un piano, che ricorda la tavolozza di un pittore. È un oggetto gigantesco, che primeggia sul nostro campo visivo assieme ad una testa in gesso e una sfera verde. Qui abbiamo moderno e antico, infantile e adulto, industria e arte, gli opposti messi insieme senza che sia possibile trovare una narrazione coerente. Nei tentativi storiografici di capire il quadro, guardando alle piazze d’Italia, al sentimento patriottico dell’artista, qualcuno ha detto che il canto d’amore, evocando il tricolore, fosse un omaggio criptico e personale all’Italia. Non è possibile assumere una posizione chiara rispetto ad un’interpretazione iconografica. Di sicuro possiamo capire gli ingredienti che de Chirico mette insieme: di nuovo un incastro di quadri prospettici incoerenti, che mescola l’occhio indagatore, la luce clinica della natura morta con aperture, profondità e scorci prospettici del paesaggio e della veduta. Oggetti incombenti e minacciosi convivono con oggetti infantili (palla, treno). Treno sullo sfondo, che sicuramente evoca il mestiere del padre e sembra un giocattolo. Tutto ciò rende il quadro misterioso assieme ai salti di scala oltre che ai salti prospettici, a questa luce così orientata, alla nettezza del disegno, che sembra restituirci una visione oggettiva, fredda della realtà, priva del calore effusivo dell’arte impressionista, privo della luce gioiosa che avevano gli oggetti di Cézanne. Questo è il pregresso della pittura metafisica. De Chirico è un pittore noto nei circoli di avanguardia, pittore che si sente di avanguardia. Pittore che si sta preparando anche al rientro in Italia, rientro che avviene nel 1915 attraverso l’arruolamento volontario, l’unico strumento che De Chirico ha per sanare la sua posizione legale. Come accade per molti intellettuali di quell’epoca, la guerra viene vissuta in seconda linea. De Chirico finisce quasi subito nelle retrovie a Ferrara per motivi, disagi psicologici inventati, vaghi. A Ferrara c’è anche Savinio, conosce Filippo de Pisis e inizia da Ferrara a dipingere in un nosocomio. Tesse una rete di relazioni insieme al fratello che va in due direzioni: il fratello continua a tenere un rapporto con l’avanguardia parigina e con i nascituri dadaisti, quindi con l’avanguardia, mentre de Chirico in Italia ha rapporti con una serie di pittori che stanno cambiando idea sulle avanguardie, che pensano che il nazionalismo, la guerra porti un nuovo vento di italianità, di orgoglio verso la propria tradizione e quindi cominciano a riguardare la propria tradizione con occhi diversi, a rigettare questo amore per la tecnologia futurista, che nella guerra diventa tragedia. Dopo la guerra, quindi, è chiaro che nella coscienza di molti montasse una revisione delle proprie posizioni, un sentimento di disillusione e soprattutto un distacco da questa modernità cantata dal futurismo. Tra questi ultimi c’è Carlo Carrà: Carlo Carrà, I Romantici (1916) → Carrà tra 1915-1916 si allontana dal movimento futurista e si avvicina a Soffici e Papini, due intellettuali fiorentini prima attivi con La Voce e poi con Lacerba, protagonisti di una rissa con i futuristi. Questa vicenda torna, perché in questa opera Carrà sembra autorappresentarsi come un infante con i suoi compagni futuristi, rappresentati come borghesi, che hanno un minaccioso coltello tra le mani. Così lo interpretano gli storiografi. Questo quadro segna il distacco definitivo di Carrà dal futurismo, che avviene lentamente. Carrà è a Milano, la guerra continua e lui prova ad arruolarsi in più occasioni. Carrà però rimane un civile. Entra in contatto attraverso Soffici con De Chirico. Carrà arriva a Ferrara e anche lui finisce in un nosocomio, a Villa Primavera, perché nel frattempo era stato chiamato alle armi e ritenuto anche lui un soggetto con disturbi psichici e mandato nelle retrovie a Ferrara. Carrà era un pittore che si era allontanato dal futurismo per scoprire i lati negati dal futurismo. Guardava anche molto al pittore Rousseau, coevo dei cubisti. Carrà è un pittore naif, senza apprendistato, senza sapienza tecnica, ispirato solo da una vena autentica popolare e che dipinge sulla scorta di questa ispirazione. Quindi, è un pittore che sta tra il genio soggettivo e il popolaresco, una commistione delle due cose. Però guarda soprattutto alla tradizione italiana. Scrive un libro dedicato a Paolo Uccello, un altro che si chiama La parlata su Giotto e individua con un certo anticipo una linea italiana nell’arte che parte da Giotto, passa da Masaccio e arriva fino a Piero della Francesca e a ... Una linea di arte attenta ai volumi, alla sintesi volumetrica, alla consistenza, alla concretezza dei corpi, quindi all’occupazione tridimensionale dello spazio, alla geometria, alla sintesi geometrica. Ed è in questa linea che intenzionalmente Carrà vuole iniziare a collocarsi. È probabile che proprio questa volontà di allontanarsi dalle avanguardie, di riscoprire un certo Quattrocento e questo sentimento infantile sia il terreno di dialogo tra De Chirico e Carrà nel 1917, quando si incontrano. Lezione 2 (08/11/22) La vicenda della pittura metafisica come movimento è legata all’incontro tra Carrà e De Chirico a Ferrara nel 1917, durante la Prima guerra mondiale. De Chirico era in realtà un pittore già metafisico prima dell’incontro con Carrà; Carrà invece era stato un pittore futurista e attorno al 1916 aveva iniziato a rivedere profondamente i messaggi del futurismo, quasi a rinnegarli, interessandosi alla parabola di artisti primitivi, come Giotto e Paolo Uccello, che nella loro ossessiva ricerca di una spazialità del quadro avevano realizzato un linguaggio plastico di solidità, modellato, struttura, che sembrava essere per Carrà il vero esempio di una tradizione italiana da riprendere, tenendo in mente Cezanne, tenendo a mente il cubismo, ma ri-attingendo alle vere fonti italiane di questo tipo di attenzione per la plasticità. Non a caso nell’immediato dopoguerra una rivista, edita a Roma, si intitolerà Valori plastici e sarà un vettore formidabile per i pittori metafisici, sia per De Chirico che per Carrà, rendendo celebre il movimento attorno agli anni ’20-’21 in tutti gli ambienti artistici avanzati europei, sancendo la frattura del movimento e la sua ricezione in contesti come la Germania e la Francia. Ci saranno problemi abbastanza forti nell’immediato dopoguerra di primogenitura del movimento: Carrà si approprierà del ruolo di inventore della metafisica, ma noi ormai sappiamo che la pittura metafisica era un linguaggio che De Chirico aveva coltivato, strutturato, fatto sviluppare nel suo stile anni prima dell’incontro con Carrà. Attorno a queste due figure poi ci sono una serie di protagonisti, un clima di lavoro che include Morandi e De Pisis. Le polemiche sfociarono in una vicenda abbastanza nota: da un lato il litigio aperto tra Carrà e De Chirico su chi fosse l’inventore della metafisica e dall’altro in alcune epocali stroncature critiche, come quella celebre di Roberto Longhi, che nel febbraio del 1919 recensì in modo molto negativo una mostra di De Chirico in un celebre brano intitolato “Al Dio ortopedico”, deridendo la pittura preimpressionista, retriva di De Chirico e implicitamente apprezzando di più quella di Carrà che teneva conto della lezione impressionista. De Chirico avrà anche rapporti conflittuali con i surrealisti. Primo incontro tra De Chirico e Carrà nell’aprile del ’17, annunciato da tante lettere (fitta corrispondenza), Soffici fa da mediatore e il caso poi vuole che l’occasione venga. L’occasione viene fra un primo incontro nell’aprile del ’17 e un successivo periodo più lungo (che si protrae fino all’agosto del ’17) in cui Carrà e De Chirico dipingono gomito a gomito a Villa del Seminario. Carrà viene da una pittura infantile, bamboccesca, ma appena incontra De Chirico trova un linguaggio completamente nuovo, che agli occhi di Carrà ha delle qualità interessanti. È un linguaggio colto, con molti riferimenti mitologici e alla cultura visiva del passato, ha la giusta dose di enigma, di mistero e di sostrato filosofico (Nietzsche e Schopenhauer) e ha anche quel grado di sguardo infantile e incantato, ma che in De Chirico è anche angoscioso, che attrae Carrà. Il De Chirico del 1917 è un pittore che sta sviluppando le premesse che ha già posto a Parigi. I soggetti però durante il periodo della guerra cambiano. La nostalgia delle piazze d’Italia e la malinconia vengono messe in secondo piano e vediamo un De Chirico che si concentra sulla materialità delle cose, sull’aura incantata degli oggetti, che per la prima volta incontra a Ferrara. Il linguaggio in cui traduce tutto questo contiene due possibili ambientazioni: la natura morta e delle camere claustrofobiche, geometricamente semplificate, dove si affastellano degli oggetti, talora riconoscibili talaltra misteriosi ed enigmatici. De Chirico usa gli stessi identici ingredienti che abbiamo visto in Torino in primavera: salti di scala, luce orientata, fredda, nordica, precisione focale nel descrivere le superfici degli oggetti e atmosfera silente, muta, che ci sbarra la strada alla comprensione dei nessi che questi oggetti hanno tra loro. Quadro emblematico è Il linguaggio del bambino, un quadro esemplare perché già allude ad un ritorno ad uno stadio di infantilità nell’osservare il mondo. De Chirico mette in scena di nuovo la sua geometria dei piani, sconnessi e spesso dalle prospettive diverse, creando una sorta di scatola claustrofobica dove appoggia degli oggetti. In questo caso un tipico pane ferrarese a forma di x, interpretato dalla storiografia come la x di Nietzsche, il mistero del mondo, l’incognita. Poi rappresenta altri strumenti: regolo, asticella con delle tacche, cioè oggetti dell’atelier del pittore, e i canditi, dolciumi, attrazione alimentare dei bambini. De Chirico rimane colpito dalle vetrine dei panifici/pasticceri ferraresi, dove vengono esposti questi cibi, che nell’opera assumono un’aurea di mistero, essendo chiusi in una scatola, illuminati, soli, privati della loro funzione, non succulenti, perché non sono visti in una tavola imbandita, ma sono portati su dei piani geometrici che eleminano questo senso del gusto tattile e si concentrano sulle forme misteriose. Il De Chirico del ’16-’17 è un pittore di nature morte, dallo sguardo molto oggettivo, dai piani geometrici molto complessi e dal sentimento che sta tra il silente e il claustrofobico. Quest’ultimo aspetto è probabilmente legato alla situazione ferrarese, la situazione delle ferrovie, la Villa del Seminario quasi di clausura e quindi una situazione di distacco dal mondo, una situazione sospesa tra una guerra che è lì a pochi chilometri e i ricordi infantili e l’incontro con una città diversa. Il ghetto ebraico di Ferrara, la parte storica ebraica ha un’importanza fondamentale. I dolciumi di tradizione ebraica che troviamo a Ferrara sono uno dei punti attrattivi che troviamo nell’immaginario di De Chirico. Quindi, quando Carrà incontra de Chirico, De Chirico ha già fatto un altro scarto: ha abbandonato le piazze d'Italia, si è concentrato nella pittura d’interno, però anche qui i salti di scala, i giochi di “quadro nel quadro” vengono perpetrati spesso da De Chirico: De Chirico, Natura morta evangelica → entriamo come in un atelier misterioso, dove ci sono dolciumi della tradizione ebraica ferrarese, biscotti, la mappa dell’Istria, tema del contendere durante la prima guerra mondiale per il famoso irredentismo Trento-Trieste. Allusione con la mappa geografica molto precisa agli eventi della guerra, che però non trovano una corrispondenza logica nel quadro. È presente anche un quadro di un colonnato in penombra nella notte. il tutto è presentato di nuovo su questo piano inclinato, ascendente, che conduce verso una porta. A lato un affastellamento di regoli, squadre, cornici. Il titolo, anziché dischiudere il senso, lo complica e lo maschera. Ci sono anche letture mistiche in De Chirico e rimandi alla cultura ebraica. Carrà entra inizialmente in punta di piedi nell’atelier di De Chirico, ma poi il dialogo è costante, febbrile e anche i debiti sono febbrili e costanti. Carrà, La musa metafisica → non solo prestito testuale (la musa ispiratrice è metafisica come la pittura metafisica di De Chirico), ma anche nell’ambientazione, nelle soluzioni, nelle incongruenze prospettiche e iconografiche. Anche qui Carrà dipinge le terre irredente dell’Istria, le racchiude in una specie di scatola-quadro, poggiata misteriosamente sul pavimento dello studio, su queste assi Filippo de Pisis, Natura morta accidentale Giorgio Morandi, Natura morta [Metafisica importante perché influenza in Francia la nascita del surrealismo.] DADAISMO Esercizio con una poesia d’avanguardia. Il dadaismo fa una provocazione, ma ci pone davanti ad un fatto semiotico, interpretativo cruciale, che il Novecento scopre nella semiotica, nella linguistica, nella filosofia, cioè l’importanza del contesto nell’atto dell’interpretazione. Il potere della contestualizzazione nei confronti del significato è cruciale. Il dadaismo distrugge volontariamente una serie di aspettative che noi abbiamo nei confronti dell’arte. Secondo il dadaismo, ci sono fattori dell’Ottocento che vengono minati. Trasmissione empatica del messaggio. Questa poesia ci mostra come funziona il meccanismo artistico. Lezione 3 (09/11/22) Il dadaismo affianca dal punto di vista cronologico quella che è la vicenda della pittura metafisica. Anche il dadaismo sorge durante la Prima guerra mondiale, ma c’è una differenza fondamentale con la pittura metafisica: innanzitutto il dadaismo si pensa, si autoproclama come una avanguardia, ricorre allo strumento del manifesto; in secondo luogo, il dadaismo avvia una continuità fra avanguardie storiche anteguerra e vicende avanguardistiche postbelliche, che è una sorta di torsione che dalle sperimentazioni delle prime avanguardie conduce al surrealismo. La vicenda del dadaismo è passata alla storia come una vicenda che fu espressione di un gruppo irregolare di artisti dallo spirito anarchico, fortemente nichilista, corrosivo, antiartistico, guidato dal sarcasmo, dalla voglia di provocare, dalla sfiducia in tutta la civiltà occidentale per come si era venuta configurando negli ultimi decenni fino a giungere alla tragedia della prima guerra mondiale, che agli occhi di questi artisti era l’espressione di un’eccessiva fede nel razionalismo, nella tecnologia, nel progresso, che aveva condotto alla autodistruzione. L’avanguardia dadaista si distingue per una sua caratteristica particolare: nasce con una struttura basata su focolai, su diversi contesti, che parallelamente sorgono connettendosi poi tra loro attraverso lo strumento delle riviste, della circolazione degli artisti e delle idee. Il dadaismo, quindi, è suddiviso in base a dei nuclei e dei contesti geografici precisi. Il primo di essi è quello che si ritiene fondativo, cioè quello che sorge a Zurigo nella Svizzera neutrale durante la guerra, cioè nel 1916. Parallelamente ad esso si sviluppa un altro nucleo, che inizialmente non si proclama dadaista, ma successivamente si ricongiunge al dadaismo, a New York. Anche in questo caso si tratta di esuli europei e francesi, come Picabia e Duchamp, che si trasferiscono a New York per il ruolo neutrale che gli USA manterranno almeno nella prima parte della guerra (poi entreranno anche loro nel conflitto). Questi sono i due contesti di avvio. Il primo, quello zurighese, si autoproclama in poco tempo dadaista; il secondo si congiunge al dadaismo e fonda il dadaismo newyorkese. Sorgono poi nell’immediato dopoguerra, a seguito dal ritorno da New York di Duchamp, ad esempio, oppure del ritorno da Zurigo in Germania e in Francia di alcuni dadaisti, nuovi focolai. Questi nuovi focolai sono a Berlino, ad Hannover, a Colonia e a Parigi. Abbiamo quindi una struttura già con cinque città e ciascuna di queste città ha e presenta un dadaismo dalle forme e dai caratteri particolari e peculiari. Per esempio, il dadaismo zurighese sarà molto più nichilista, corrosivo, attento a recuperare una sorta di stadio primordiale del linguaggio e della mente, addirittura afasico, dove il linguaggio si fa lallazione, sillabazione priva di senso, dove l’arte diventa un attacco stesso di intenzionalità dell’artista al significato così come è concepito nelle arti, affidandosi a procedimenti casuali, provocatori, in parte derivati anche dalle serate a cui partecipavano. A New York invece è uno spirito un po’ più elitario, dandy a spingere verso la casualità con un atteggiamento anche meno corrosivo nei confronti dell’occidente o meno attento alla situazione bellica e alla devastante condizione umana che si era venuta a creare soprattutto in Europa durante il primo conflitto mondiale. A Berlino, invece, questi elementi diventeranno una forma di arte dalla denuncia sociale, spiccatamente schierata ideologicamente a sinistra, che criticherà la borghesia, lo stato berlinese, il capitalismo e quindi avrà un altro moto di ispirazione. Ad Hannover e a Colonia, invece, saranno piuttosto singoli artisti a sviluppare alcune delle caratteristiche del dadaismo, emerse già negli anni precedenti. Dunque, non esiste un solo dadaismo, ma esistono più forme dadaiste che confluiscono in un movimento magmatico, dal voluto carattere erratico e dal compiaciuto carattere a- programmatico. Nelle sue punte più acute il dadaismo è la critica più assoluta che si possa condurre a qualsiasi forma di razionalità, a qualsiasi forma di logica semiotica per sposare invece una distruzione intera della struttura linguistica, semiotica delle arti, conducendo ad una afasia finale, che è un gesto di protesta estremo dell’artista e che per questo viene nominata come gesto antiartistico. Il movimento dadaista nasce nel ’16 a Zurigo e di fatto termina e si conclude attorno al ’19-’20-’21, quando, soprattutto i dadaisti di carattere più aleatorio nella loro arte, coloro che ricorrono più al caso, in particolare quelli che si trasferirono a Parigi, lentamente confluiscono nel surrealismo. Altri artisti dadaisti continueranno ad acclamare il dada, a rievocarlo nelle loro opere anche in date più tarde, però la parabola del dadaismo può ritenersi conclusa in questa forbice cronologica. Elementi che contraddistinguono il dadaismo: - rottura del patto tacito, semiotico, cioè di significato, tra artista e spettatore, così come si era configurato per tutto l’Ottocento e a partire dal Settecento. con Manet questo patto si era rotto, l’arte era diventata anche provocazione, tradimento delle aspettative del pubblico, ma con il dadaismo questo tradimento diventa sistematico, diventa una forma di critica, diventa un obiettivo degli artisti (soprattutto nel dadaismo zurighese). Questo elemento deriva anche dal futurismo, dalle serate futuriste, dalle azioni, dalle provocazioni marinettiane. È quindi un’idea dell’arte che coincide anche con una azione concreta, un tradimento frontale delle aspettative del pubblico, che mira a scardinare qualsiasi convenzione che si era venuta creando nel sistema artistico negli ultimi 150 anni di arte. Questa pratica darà avvio nel Novecento a tutta una serie di gesti provocatori ancora più estremi e si arriverà fino addirittura alla performance. Negli anni ’60 e ’70 il dadaismo sarà un riferimento importantissimo per gli artisti delle generazioni più giovani. - appropriazione di oggetti e di elementi della realtà. Questo elemento è una sorta di rifiuto profondo che per le più varie ragioni. Ne mettiamo in campo almeno due: una è una sorta di profondo anti-capitalismo, anti-produttivismo; il secondo invece è una forma che si ricollega alla provocazione, al tradimento delle aspettative, cioè si limita a rielaborare quanto già esistente nel reale, a ricombinarlo secondo processi tecnici che sono diversi da quelli tradizionali, accademici. Nasce il “ready made” in Duchamp, cioè il prelievo di un oggetto così com’è, presentato come un’opera d’arte; nasce la pratica dell’assemblage; Schwitters porterà questa pratica di appropriazione della realtà sempre più a dimensioni ambientali ed immersive con il suo Merzbau nei decenni successivi. Questo elemento è fondamentale: il dadaismo in qualche modo rifiuta la visione di un artista come produttore artigianale, abilmente capace di possedere una tecnica e uno stile. L’artista rifiuta anche questa idea produttiva di essere in qualche modo qualcuno che dal nulla produce qualcosa di nuovo, di geniale, di interessante. Invece, fa un gesto che è semplicemente di appropriazione: si appropria dei materiali del mondo, li arpiona in qualche modo, li fa propri e li inverte di significato, utilizzando altri sistemi semantici (il cambio del titolo, l’accostamento con alti oggetti, l’assemblage di parti di oggetto, la ricomposizione ecc.). Queste pratiche saranno fondamentali nel Novecento e finiranno per cambiare lo statuto del mestiere dell’artista. Prese però nella prima fase del dadaismo, esse significano soprattutto una forma di rifiuto della tradizione accademica dell’arte, della visione dell’artista come artigiano supremo e soprattutto una sorta di rifiuto delle aspettative del pubblico, che dall’artista si aspetta una forma di genialità, di originalità. Questa pratica è l’estremizzazione di qualcosa che c’era già nelle arti (cubismo, futurismo ecc.). - elemento aleatorio e casuale. Molto spesso i dadaisti, in particolare quelli zurighesi all’inizio, ma anche poi quelli parigini, in parte i newyorkesi, meno i berlinesi, adottano gli elementi di casualità e i processi aleatori per contrastare, eliminare alla radice uno dei processi fondamentali della creazione artistica, così come si erano configurati dal romanticismo in poi, cioè la visione dell’artista come persona ispirata che crea dal nulla, sulla base della sua ispirazione, qualcosa di nuovo, di originale, di personale e di proprio, infondendo un sentimento, una intenzione alla sua opera che si trasmette dall’opera allo spettatore. Questo schema viene completamente rotto dal dadaismo. Il dadaismo cerca di utilizzare sistemi di composizione, di realizzazione dell’opera d’arte che includono processi o del tutto casuali o parzialmente casuali. Questo significa rifiutare completamente qualsiasi gesto compositivo e quindi anche qualsiasi gesto di scelta razionale oppure di importanza esecutiva artigianale dell’opera. L’opera di fatto si viene a creare come gesto che ha una duplice via nuova di espressione: da un lato coincide sempre più con la vita, dall’altro c’è un uso dell’opera d’arte per cercare di mettere in evidenza un elemento della produzione del significato dell’opera d’arte che era stato in qualche modo sottovalutato dall’arte dal romanticismo in poi, cioè l’elemento del contesto. Il contesto di ricezione dell’opera d’arte è parte fondamentale del significato. Le aspettative del pubblico sono fondamentali. Appunti dalla lezione: Il dadaismo mette in crisi l’idea della autorialità. L’idea di un autore è un’idea con una sua storicità. All’inizio del Novecento sembra essere una regola irrinunciabile dell’arte, ma invece viene messa in crisi. Entra in crisi il sistema empatico, che il romanticismo aveva consolidato. Tzara e i dadaisti avevano chiara la nozione che il ricevente del messaggio era influenzato dal contesto in cui riceveva il messaggio. Gli storici possono ricostruire tanto il contesto dell’autore quanto il contesto del ricevente. Il dadaismo nella sua provocazione, nella sua irrisione di certi meccanismi mette in luce dei problemi del funzionamento del messaggio artistico. Il dadaismo nasce come movimento volutamente antiartistico perché ritiene che l’arte sia una costruzione storicamente definita, influenzata dalla ascesa ottocentesca della borghesia e del capitalismo. L’idea di arte che la società ha durante la guerra è frutto di una costruzione storica che il dadaismo rifiuta. I dadaisti non attingono ad altre culture, ma fanno un’opera di distruzione. Carattere anarchico: sfuggono alle definizioni, alle posizioni fisse e stabili. Sorpresa continua, fluidità, scandalo: strategie del dadaismo. Non c’è una data stabilita in cui il dadaismo nasce, ma ci sono dei focolari dove il dadaismo nasce in contatto con caratteristiche diverse e senza che ci sia una linearità. Gruppo newyorkese. Nuclei che si sviluppano alla fine della guerra in altre città: Parigi, Berlino, Hannover, evidentemente una provocazione, uno scherzo, un’operazione irrisoria? La vicenda va in un modo leggendario. L’opera non viene esposta. Qualcuno dice che sia stata esposta per un periodo dietro una tenda, quindi celata. Stieglitz la fotografa con ancora il cartellino con i dati dell’artista (di presentazione alla giuria), esposta su un piedistallo. Questa è l’unica testimonianza che noi abbiamo di questo orinatoio, che va disperso. Ovviamente Duchamp non rivendicherà mai la paternità di quest’opera, se non negli anni successivi. In quel momento il suo gioco è difendere nella sede dell’associazione le ragioni di Mutt, con l’appoggio di Anesberg e di pochi altri. Su una rivista, The Blind Man, diretta da Stieglitz, Duchamp pubblica un articolo in anonimo in cui accompagna questa foto a poche note di difesa di Richard Mutt. Sostanzialmente Duchamp dice questo: “non importa che Richard Mutt abbia realizzato quest’opera con le sue mani, ma ciò che è importante è che Richard Mutt l’abbia scelta e indicata come un’opera artistica e quindi ci abbia fatto osservare questa opera sotto un nuovo sguardo”. Quindi, quello che Duchamp sta dicendo, sempre in anonimo, è che l’elemento determinante per un’opera d’arte è innanzitutto l’atto di selezione con cui un artista la designa come tale, quindi chiede che venga apprezzata come arte. Quindi, rifiuta che ci sia un organo esterno, una giuria, un museo, un gruppo di critici, che possa sentenziare definitivamente che quell’oggetto non è arte. È un gesto deliberato, una istanza, però il fatto che sia un’istanza per Duchamp va già bene, è già arte, perché qualcuno la propone, la seleziona, la designa come tale. La bibliografia si è profusa in litri e litri di inchiostro per spiegare simboli alchemici, le allusioni velate di questa opera di Duchamp. Sono emerse tantissime cose. Duchamp diceva, per esempio, che aveva in realtà selezionato questo orinatoio osservandolo per caso in un negozio di sanitari e di idraulica, che si chiamava Mott Iron Works, e quindi gli venne l’ispirazione di chiamare Mutt, cambiando una lettera, l’autore di questa opera. Altri dicono che alludesse ad una coppia molto celebre di personaggi dei cartoni animati, quindi che l’elemento di gioco e parodia fosse quello più spiccato (personaggi Mutt e Jeff). C’è chi dice che Mutt + R si può leggere come mater (madre, grembo creativo, materia, creazione della materia) e questi giochi di inversioni di parole sono tipici del Duchamp successivo. Elemento alchemico, elemento femminile (mater) che si mescola con l’elemento maschile (orinatoio): congiunzione dell’androgino, che è uno degli scopi dell’alchimia con cui Duchamp era molto avvezzo e a cui Duchamp stesso allude spesso nelle sue opere. Quindi, possiamo spaziare in tantissime interpretazioni. La cosa più importante è però l’essenzialità dell’operazione che Duchamp mette in campo. Ci sono due tipi di operazione di Duchamp, una interna e una esterna. Tutte e due le operazioni riguardano il valore contestuale, cioè come il contesto è determinante per investire l’opera di un significato. Operazione interna: Duchamp gioca con le attese del sistema artistico, ne rispetta alcune fondamentali, quelle che per lui sono necessarie, ma le stravolge poi, perché presenta un oggetto già esistente. Esse sono: assegnare un autore; dare un titolo, un significato; confermare l’autorialità con una firma; presentare questo oggetto su un piedistallo, su una base, l’elemento marcatore di una scultura, e inserirlo in un contesto espositivo. Per Duchamp questi quattro fattori sono già sufficienti a concorrere alla produzione di un significato artistico, al punto tale che l’oggetto presentato come artistico è un “ready made”, cioè un oggetto già pronto. A quel punto l’azione dell’artista consiste nel selezionare quell’oggetto, proporlo o candidarlo all’apprezzamento estetico, usando dei marcatori tipici dell’oggetto artistico (firma, titolo, piedistallo o cornice e contesto espositivo). Ciò per Duchamp è sufficiente. Questa è la parte interna. L’idea di ready made ha assunto molti significati nel Novecento: innanzitutto quello dell’importanza della scelta dell’artista (di qualcosa di già fatto) e non del fatto che abbia eseguito l’oggetto. Per Duchamp non c’è bisogno di inventare, perché la produzione di oggetti è talmente enorme che non ha senso inventare altri oggetti. Basta cambiare il significato, dando un altro titolo (gesto essenziale, semplice). Questa è l’operazione interna. L’operazione esterna è che Duchamp accompagna questa operazione interna con un contesto esterno: conosce le regole del funzionamento dell’associazione e le rispetta, partecipa ai lavori del comitato ordinatore (che si occupava di esporre le opere in una mostra), si fa appoggiare da un mecenate e poi pubblica la foto, quindi la diffonde, e la accompagna ad una interpretazione. Dunque, è fondamentale questo gesto ed è tanto fondamentale al punto che il fatto che l’opera sia andata dispersa non conta più. Si può prendere un altro orinatoio, rifirmarlo, ripresentarlo e non cambia niente. Non essendo il frutto di una esecuzione irripetibile dell’artista, allora esso può essere sostituito, ripetuto. Non solo, ma ciò che conta è che venga mediato in un certo modo. Dunque, l’artista sposta la sua azione dall’esecuzione dell’oggetto alla mediazione dell’oggetto, tanto interna quanto esterna. Duchamp sa che nel momento in cui rispetta queste norme essenziali l’oggetto è affidato ad una catena interpretativa potenzialmente infinita, perché infiniti sono i contesti in cui l’oggetto viene recepito e perché il gioco dell’arte è quello di innescare questa catena interpretativa. Duchamp, dunque, non ha l’onere di schierarsi per una delle tante interpretazioni. Il fatto stesso che l’artista proponga l’oggetto significa accettare la variabilità degli altri contesti interpretativi. L’importante è che si avvii la catena. Ma non è un’operazione che possono fare tutti, perché c’è un problema: l’oggetto potrebbe essere accolto dalla totale indifferenza, quindi il sistema non funzionerebbe. Quindi, non è così facile e non è che proprio chiunque riesce a fare questa operazione, tanto è vero che non ci era riuscito nemmeno Duchamp, perché l’opera nel 1917 si perde e non se ne parlerà più. Solo quando Duchamp la rivendica nel dopoguerra, la rende ancora più nota, il caso viene recuperato dalla storiografia e nasce tutta una serie di interpretazioni critiche. Questo perché nel ’17 era troppo presto per fare un’operazione del genere, mentre negli anni ’50 c’era un sistema dell’arte che era pronto ad accogliere un gesto così radicale e dargli delle interpretazioni. Attorno al gesto radicale di Duchamp ci sono artisti meno radicali, che operano sempre a New York. Uno è Francis Picabia, che era stato un pittore del cubismo orfico. Anche lui con lo scoppio della guerra si trasferisce a New York. Conosceva già Duchamp, che aveva frequentato i cubisti, e assieme sviluppa un nuovo linguaggio, però pittorico nel caso di Picabia, che ha dei punti di contatto precisi con Duchamp. Duchamp usa continuamente la metafora della macchina con fini alchemici, tutte metafore del funzionamento dell’organismo umano, quindi dell’inconscio, degli istinti primari dell’uomo, però visti come pulsioni. In parte è una metafora di una spersonalizzazione totale dell’uomo, che l’artista mima in un modo ambiguo: in parte sembra una critica e in parte sembra un gioco divertito. Molto spesso Picabia presenta dei bambini o dei personaggi o un accoppiamento come un sistema di pistoni, cilindri ecc., cioè come un sistema macchinico, un meccanismo, che nega il culto della macchina futurista. È una macchina che non serve a nulla, una macchina che, come nell’atto erotico (no atto riproduttivo), è fine a se stessa, gira a vuoto, produce un’energia ma non serve a nulla. È il contrario di quello a cui servono le macchine nel dogma capitalista, cioè a produrre, a essere efficienti, a fare qualcosa, a essere utili. È il ribaltamento di tutto ciò. La macchina diventa il simbolo da un lato di un uomo macchinizzato, schiavo delle sue pulsioni, ripetitivo, che gira a vuoto, il cui atto cosciente nulla può fare davanti a questi istinti, e nello stesso tempo sembra essere la condanna di questo stato a cui l’uomo è ridotto attraverso il capitalismo e l’industrializzazione. È ambiguo, è un gioco in cui non capiamo mai se Picabia sta dalla parte del critico, del parodista o del complice, nel senso che poi ci sono significati alchemici che ci fanno pensare che in realtà Picabia accetti e stia conoscendo questo aspetto dell’uomo macchinico, senza criticarlo. Quindi, è un atteggiamento ambiguo. Francis Picabia, Parade amoureuse →dei martelletti, dei pistoni, una turbina e una ruota vengono usati per un sistema complesso, privo di senso, che Picabia prende da illustrazioni ingegneristiche, di motori, che si diffondono moltissimo anche durante la prima guerra mondiale. Man Ray utilizza lo stesso sistema: Man Ray, Danger/Dancer → ingranaggi di un orologio per evocare un gioco di parole nel titolo (pericolo/danzatrice), il tipico gioco di parole che si innesca in modo casuale, allusivo e a cui il dadaismo comincia ad interessarsi, perché è un processo casuale, associativo. Man Ray, quindi, usa con un senso meno parodico lo stesso linguaggio macchinico. Duchamp lo usa in modo alchemico, Picabia in modo ambiguo, mentre Man Ray sembra quasi affascinato dalla perfezione di questi ingranaggi, dalle loro composizioni geometriche e dal gioco di parole che si può innescare, qualcosa di pericoloso e di armonico allo stesso tempo, in base a come si legge il titolo. Non a caso nell’opera la G è mascherata dagli ingranaggi e genera questa ambiguità. L’opera si pone come un’alternativa tra due sensi inconciliabili. L’opera consente nello stesso tempo di essere interpretata in un modo o nell’altro. BERLINO A Berlino il dadaismo viene interpretato in tutt’altro modo. Quello di Berlino è un dadaismo impegnato politicamente e che pian piano, sviluppandosi, cercherà un linguaggio immediatamente comprensibile alla massa, al pubblico, non perché ne vuole il consenso e nemmeno per scopi commerciali. Questo dadaismo è contrario alla proprietà privata e lo dice apertamente, ma perché vuole che il suo messaggio sia accessibile, non lo vuole rendere elitario, ma lo vuole rendere potenzialmente comprensibile. Il dadaismo berlinese si sviluppa con il ritorno di Huelsenbeck da Zurigo. Qui incontra Raoul Hausmann, John Heartfield, George Grosz e altri protagonisti. Insieme fondano una rivista, che si chiama “Der Dada”, e un club omonimo, dove organizzano delle esposizioni. Quasi tutti i dadaisti berlinesi sono pubblicamente bolscevichi, comunisti, aderiscono al partito comunista tedesco. Per il fatto di voler essere comprensibili i dadaisti cercano di trovare un compromesso tra le tecniche messe a punto dalle avanguardie, come il collage e il fotomontaggio, e la comprensibilità politica ideologica dei messaggi che realizzano. I collage sono un modo di associare le immagini moderno, con dei passaggi narrativi bruschi, dei salti di scala, delle enfasi, degli ingrandimenti e dei rimpicciolimenti, che è tipico della grafica contemporanea. I dadaisti berlinesi cercano di organizzare molte esposizioni. Organizzano addirittura una tournée tedesca, serate ispirate al futurismo, che vanno a finire anche in modi abbastanza simili (contestazioni, dibattiti accesi ecc.). Una delle prime mostre è la Prima Fiera Internazionale Dada del 1920, che si tiene a Berlino. “Fiera” è ironico, perché la fiera è un luogo dove si espone a fini d’acquisto, commerciali, invece loro sono completamente contrari alla proprietà privata. La prima fiera dada è una raccolta di opere che mescola manifesti con degli slogan dada (a volte non-senso, a volte frasi provocatorie, ispirate dal dadaismo zurighese) con opere di Grosz, Heartfield ecc. A questo gruppo berlinese si affiancano poi Hannah Hoch e Otto Dix. Nella prima fiera dada notiamo subito un tema centrale: gli effetti distruttivi che la Prima guerra mondiale ha e ha avuto sulla società tedesca. Dunque, sono temi di impegno civile e politico. La critica degli effetti della guerra è visibile in alcuni disegni e quadri dei primi dadaisti. Sono opere molto debitrici di un linguaggio espressionista. George Grosz, Die Besitzkroten (i rospi arraffatori) → cartella che illustra personaggi caricaturali che mostrano gli effetti della guerra. Rospi: borghesi che si sono arricchiti con la guerra, che sorvegliano i soldi sul tavolo. Una di queste figure guarda la società impoverita della Germania del tempo. Affresco della situazione sociale della Germania dopo la guerra. Otto Dix, Prager Strasse → espressionismo. Figure caricaturali di due mendicanti. Sarcasmo spietato: una figura è mutilata su entrambi gli arti. Sono i mutilati di guerra, impoveriti e abbandonati a sé stessi, emblema della cattiveria del capitalismo. Emblema dell’opportunismo e dell’ipocrisia del capitalismo. Kurt Schwitters, Quadro Merz 32° (il quadro della ciliegia) → i collage e i pezzi di legno si fanno più vicini alla grammatica cubista, i piani si mescolano, i rapporti geometrici perdono di chiarezza e i quadri sembrano quasi diventare una tavola. Ci sono suggestioni casuali, molteplici, dove il valore compositivo, geometrico comincia a perdere di forza ed emerge invece l’elemento materiale, casuale della realtà. Il quadro diventa quasi una sorta di bacheca. Un tipo di adesione al reale casuale, caotica è quello che sta cercando ed è quello che si apre al significato in modo casuale, non pianificato. L’artista è come se si limitasse a mettere insieme oggetti finiti della realtà e a riproporli con una grammatica lontanamente cubista: piani ritagliati, sovrapposti, elementi di texture ecc. Schwitters mantiene la sua fedeltà ad una idea astratta, ma si fa strada in lui sempre più questa passione per l’assemblage, verso l’arte come aggregazione di una realtà bruta a cui dare una nuova configurazione con la stessa casualità con cui la incontriamo. Il modo di procedere di un artista come Schwitters diventerà cruciale nel Novecento: radunare materiali, metterli da parte e poi, mentre compone il quadro, andare a cercare questi materiali e comporre in modo libero, associandoli insieme, essi stessi. Quindi, fase di accumulo, fase di selezione e fase di ricomposizione. Questo processo ad un certo punto, però, scappa di mano a Schwitters, diventa più grande di lui. A forza di accumulare materiali nel suo studio, Schwitters negli anni ’20 comincia ad immaginarsi una grande scultura frutto di questo assemblage. Nel suo studio nel 1923, ad Hannover, concepisce una scultura che si chiama “colonna della miseria erotica”. È tutto un lavoro stavolta contenutistico, probabilmente attorno a questioni personali. Non conosciamo bene quale sia questa scultura, ma sappiamo che a forza di aggregare parti a questa scultura Schwitters comincia a creare un vero e proprio ambiente, una caverna, che accoglie il visitatore in un modo integrale dal punto di vista sensoriale. Comincia a pensare ad un lavoro che è un enorme assemblage di materiali trovati nel mondo. La parola “grotta” deriva da come Schwitters divide questo ambiente: ci sono varie stanze. L’ambiente si espande sempre di più e diventa quasi un progetto biografico, vitale enorme. Abbiamo così la grotta dedicata a Goethe, grotta dedicata all’amore ecc. Sono tutte nicchie, grotte dove lo spettatore può entrare, osservare. Abbiamo poco di queste opere. Le fonti principali sono ricostruzioni biografiche. Fatto sta che lo studio si trasforma in una grande istallazione, in un’opera d’arte totale. Siccome si parla di tridimensionalità, Schwitters utilizza un termine nuovo: Merzbau (“Merz costruito”). Il Merzbau cresce a dismisura e arriva a completarsi nel 1933 ad Hannover con otto stanze. Tuttavia, nel frattempo la situazione politica della Germania muta di segno. Nel 1933 i nazisti prendono il potere. Quello che i nazisti pensavano dell’arte d’avanguardia è presto detto attraverso la mostra del ’37, L’arte degenerata: per loro era una presa in giro, frutto di gente psicopatologicamente minorata ecc. Il disprezzo totale per l’arte d’avanguardia ovviamente incoraggia moltissimi intellettuali a fuggire dalla Germania, già prima che cominci l’epurazione raziale, anche chi non è direttamente legato a temi politici. Nel ’36 è la volta di Schwitters, che si rifugia in Norvegia, vicino Oslo, e ovviamente deve riprendere da capo il lavoro. Costruisce un nuovo Merzbau nel suo studio. Nel 1943 il suo studio vicino Oslo viene distrutto da un bombardamento. A quel punto Schwitters riprende il lavoro da capo (per la terza volta) e lo porta avanti fino alla sua morte. L’ambiente rimane lì semi-abbandonato, un incendio lo distrugge nel 1951. Alla fine di tutta questa traversia, lo Sprengel Museum di Hannover, la città dove aveva lavora più a lungo Schwitters, nel dopoguerra decide, sulla base di alcune fotografie scattate probabilmente da Schwitters stesso o da qualche fotografo su sua commissione, di ricostruire il Merzbau. Di tutto questo ci interessa il fatto che il linguaggio dell’avanguardia, che aveva integrato la realtà nell’opera e unito all’elemento di casualità il dadaismo, dà vita non ad un atto distruttivo, nichilista, ma ad un atto propositivo, costruttivo, cioè l’idea di una nuova opera d’arte che è il frutto dell’assemblaggio di materiali del mondo, un ambiente immersivo. È uno dei primi ambienti dell’arte del Novecento. COLONIA Max Ernst entra a contatto con i dadaisti. Poi si trasferirà a Parigi ed entrerà nelle fila dei surrealisti. Ma Ernst può già dirsi surrealista. A Ernst del dadaismo interessa l’uso dei materiali dettato dalla casualità, ma inverte il punto di vista. La sua è una casualità diversa: dell’uso della casualità Ernst apprezza non tanto l’azzeramento della volontà dell’artista, l’aspetto distruttivo, ma a lui interessa l’effetto involontario che questo uso della casualità aveva nello spettatore. Ernst ripristina l’autorialità nell’opera d’arte, solo che questa autorialità interviene a posteriori. Non usa il caso per eliminare il significato dell’opera e la sua intenzione di artista, ma usa il caso per farsi stimolare all’invenzione. Ernst applica non tanto a fini figurativi ma a fini di creatività la tecnica di osservare le immagini e poi lasciare che siano queste ultime a suggerirgli delle forme, degli organismi inesistenti. Non è lui che si immagina un contenuto e adegua le fotografie che trova a quel contenuto, ma guarda la forma e si immagina qualcosa da rappresentare. Un processo con una casualità controllata, aperta, ma che ripristina l’autorialità. Questa intuizione sarà fondamentale per il surrealismo. Max Ernst, L’usignolo cinese → fotomontaggio. Questo non è un collage, ma è un fotomontaggio, dei ritagli fotografati e poi messi in negativo con la tecnica del fotomontaggio. Letture infantili e libri tecnici che descrivono armi della guerra, fotografie di quotidiani e con queste ottiene un’immagine che sta tra l’infantile e il minaccioso. Questo ricorda de Chirico, artista modello per Ernst. Ernst ritaglia le fotografie e poi si lascia abbandonare ad un flusso ispirativo. Questa opera è un’allusione anche ad una fiaba di Andersen: usignolo vero in competizione con un usignolo meccanico. L’usignolo vero con il suo vero canto batte l’usignolo meccanico. Allusione al rischio di meccanizzazione dell’uomo, alla guerra. Nell’opera vediamo un ventaglio, una bomba, un occhio umano, una sciarpa, composti in qualcosa di biomorfo con delle piume. Questo aspetto biomorfo lo ha preso da Harp. PARIGI A Parigi nel dopoguerra arrivano tutti i dadaisti newyorkesi e alcuni da Zurigo, quindi il dadaismo si sviluppa, entra anche in dibattito, in crisi e confluisce di fatto nel surrealismo. Duchamp, L.H.O.O.Q. → celebre provocazione di Duchamp, la Gioconda con i baffi. Tipico dello spirito un po’ dandy, sofisticato, ermetico e dissacratore allo stesso tempo di Duchamp. È una provocazione pubblica, tipico di Duchamp. Questa è la cartolina di una Gioconda, sfregiata dall’applicazione dei baffi da moschettiere, attraverso i quali si trasforma in un uomo. È una allusione a tutte le teorie che già circolavano sull’ambiguità androgina della Gioconda, sul possibile autoritratto di Leonardo. È una allusione alla banalizzazione dell’opera d’arte, che diventa gadget, souvenir. Un’allusione divertente è lo spelling in francese L.H.O.O.Q., lo spelling di “lei ha caldo al culo”. Duchamp, Air de Paris → omaggio ai suoi collezionisti di Philadelphia, gli Arensberg, che lo avevano appoggiato nell’operazione dell’orinatoio. È uno scherzo: l’aria di Parigi contenuta in una bolla d’alchimista. L'artista trasforma in opera anche l’aria. È anche un gioco. SURREALISMO Movimento artistico autodeterminato come tale, con una sua rivista, con un fondatore. Prima di parlare di tutto questo → all’inizio del secolo, nel 1900, Sigmund Freud cambierà il corso della cultura occidentale in modo irreversibile. Freud pubblica un piccolo libro, L’interpretazione dei sogni in tedesco, nella sua lingua. Libro frutto di studi nuovi che lui ha condotto, studi sui sogni. Nei decenni successivi la figura di Freud cresce di importanza. Freud fonda il metodo della seduta psicanalitica. L’accessibilità in francese dei suoi testi fa sì che un gruppo di letterati e pittori si appassioni così tanto alle sue idee nel trasformarle in arte. Il surrealismo è la ricezione delle idee freudiane e il tentativo di applicarne alcune all’arte. L’uomo non ha il controllo pieno di quello che fa. Mai intenzionalità chiara alla coscienza. I gesti che noi facciamo non sono sempre motivati da una intenzionalità. Dopo Freud l’intenzionalità non è piena, il controllo di quello che facciamo non è pieno, la personalità dell’uomo non è unica, ma si divide in super-io, io e inconscio e poi c’è la parte cosciente. Il tutto parte da quello che noi non possiamo controllare: i sogni, i lapsus. Contenuto latente e contenuto manifesto: il sogno è l’emblema di tutto ciò. La maggior parte delle volte non abbiamo presente il contenuto latente. Tre parti del nostro modo di essere individui: coscienza, es (inconscio) e super-io. L’inconscio è qualcosa di molto complesso, è un desiderio incontrollabile, delle pulsioni. L’inconscio è una parte dell’io che non è pienamente controllabile. L’inconscio è la parte nascosta, che a volte emerge con dei segnali che lo psicoanalista studia. Principio di piacere, che porta all’anarchia, e principio di realtà, che consente la civiltà. Spesso però la repressione dei propri desideri, dell’inconscio genera patologie. Il super-io è quella parte di norme di comportamento che noi abbiamo introiettato, le abbiamo fatte nostre e accettate, ma non sempre con un vincolo coercitivo. È una norma morale, che ci viene insegnata dalla famiglia. I genitori sono una serie di norme che il bambino introietta e che lo conduce ad un comportamento che spesso reprime gli impulsi. Il super-io è l’insieme delle norme introiettate. Freud dice che bisogna risalire all’inconscio con delle tecniche (che lui inventa) che aggirino l’io cosciente e cercando di capire qual è il super-io. Freud parte dal sogno, racconta i suoi sogni e prova a capire come funzionano. Capisce che per posizione naturale/di difesa il soggetto maschera sempre l’inconscio. Quindi, l’io è frutto di un mascheramento. Da Freud in poi l’io è una maschera. Freud capisce che i sogni non hanno senso. La spiegazione è che il sogno è uno stato intermedio tra l’inconscio e la coscienza, è l’inconscio che affiora e la coscienza che tenta di mascherarlo. Le due azioni con cui l’io agisce sono: la condensazione e lo spostamento (fondamento dell’arte surrealista). La condensazione è la fusione, associazione tra due elementi estranei senza un motivo razionale. Il minimo senso però c’è per Freud. Fondo immagini, situazioni, oggetti irrelati tra di loro e questo lo fa il lavoro onirico. L’altro lavoro onirico è lo spostamento: quando io oriento su un oggetto, apparentemente irrelato, le mie pulsioni, i miei bisogni, i miei desideri, il mio inconscio. Esempio di spostamento è il feticista (oggetto che mi rimanda al mio desiderio). Il feticista nutre ammirazione per una persona e si procura un oggetto dell’artista sul quale orienta la passione. Essendo consapevole di non poter raggiungere quella persona, sposta la sua pulsione verso un oggetto che ricorda o che è di quella persona. Sposta il desiderio, la pulsione su altro. Non la può spegnere, perché altrimenti la reprimerebbe. Quindi, la può reprimere fino ad un certo punto e di conseguenza la sposta, la orienta, per esempio, su un oggetto. Come si fa ad aggirare tutto questo mascheramento? Freud inventa una serie di sistemi. Uno dei sistemi è interpretare i sogni, ma il sistema principe, migliore di tutti è la libera associazione: Freud dice che bisogna portare il soggetto ad una seduta psicanalitica e fare associazioni mentali attraverso le quali si giunge dal contenuto manifesto al contenuto latente. Lezione 5 La libera associazione è per Freud un modo efficacissimo di aggirare il controllo razionale che noi esercitiamo, cioè un modo per aiutare il soggetto ad avere accesso alle sue associazioni. Significa in sostanza cercare un sistema per capire come sta condensando e come sta spostando. L’unica cosa che Freud può fare è farsi raccontare il sogno, ma c’è un problema: mettiamo il caso che questo sogno sia scabroso. Anche davanti al migliore degli psicanalisti, sarò un po’ restio a raccontare il contenuto di questo sogno, perché agirà il mio super-io, una censura morale. Ovvero mi sentirò in fanno opere d’arte brutte, senza preoccupazione che siano brutte, perché se cominciamo a preoccuparci sul fatto che siano brutte re-interviene l’io cosciente e il super-io) o morale. • ENCICL. Filos. Il surrealismo si fonda sull'idea di un grado di realtà superiore connesso a certe forme d'associazione (libera associazione) finora trascurate, sull'onnipotenza del sogno, sul gioco disinteressato del pensiero (flusso di pensiero privo di censura). Tende a liquidare definitivamente tutti gli altri meccanismi psichici e a sostituirsi ad essi nella risoluzione dei principali problemi della vita. Dunque, qual è il fine del surrealismo? • Proporre un’arte che sia del proprio tempo, nel senso che sia aderente a come funziona la mente umana, così come l’uomo, la civiltà scientifica-psicoanalitica dei primi del Novecento l’ha conosciuta, l’ha studiata. • Processo di emancipazione, liberazione, cioè un processo parallelo all’attività e alla cura psicanalitica, dunque un processo di liberazione del soggetto che dovrebbe anche liberare lo spettatore o invitarlo a fare lo stesso (più problematico). Il procedimento libero-associativo, l’automatismo psichico (come lo chiama Breton) fa sì che sia possibile realizzare delle opere attraverso questo processo, dunque, che alcune domande tipiche che noi ci poniamo davanti all’opera d’arte ricevano una specie di scacco. Ad esempio, le opere di de Chirico smettono di essere misteriose e basta, possono diventare uno stimolo all’immaginazione, all’associazione libera. Oppure noi possiamo accostare in un’opera parole, immagini incongruenti, senza pensarle più razionalmente. Questo significa che si apre nel Novecento una grande voragine dove il senso non è più prodotto coscientemente dall’artista, ma è il frutto di un contenuto, di un’azione latente, che l’artista non controlla e non domina e di cui non potrebbe nemmeno conoscere fino in fondo la ragione. Tradotto in soldoni significa che noi davanti ad un’opera del Novecento, post-surrealista possiamo ricevere come risposta da un’artista “ah, non lo so. Non so perché ho messo insieme queste due immagini. L’ho fatto e basta. Ho usato il sistema libero associativo”. Ma questo non vuol dire che va bene tutto. Quello che significa è che noi potremmo trovarci davanti a delle opere dove il risultato finale non è nel controllo intenzionale dell’artista. Questo si era già aperto con il dadaismo, ma con il surrealismo prende una nuova significazione. Mentre nel dadaismo è un gesto di negazione, nel surrealismo torna ad essere un gesto di affermazione, affermazione di un contenuto latente, di un modo di procedere che è liberatorio. Questo fa saltare i canoni di bellezza/bruttezza per sostituirli con i canoni di adesione al pensiero e all’associazione libera o controllo razionale. Fa saltare o dovrebbe far saltare gli atti di censura di qualsiasi genere nei confronti dell’opera e dovrebbe avviare una serie di procedimenti che, anziché rinforzare il controllo dell’artista sul contenuto, lo indeboliscono. È il procedimento contrario a tutto quello a cui noi siamo stati abituati. Questo processo che si avvia è un processo graduale: i surrealisti approdano a queste forme di deregolamentazione dell’esecuzione dell’opera d’arte per gradi. Ci sono degli artisti che avevano già previsto o già anticipato alcuni di questi esiti. Per esempio, Max Ernst dei collage dadaisti di Colonia, ma anche altri artisti, come ad esempio Man Ray, sempre partecipi del dadaismo, che via via si orientano verso il surrealismo. Quindi, per quanto riguarda le arti visive prima del ’24 ci sono due mostre parigine fondamentali. Sono due mostre che rivelano ai giovani Breton, ..., ..., anche Tzara (siamo nel ’20-’21) che il procedimento che in letteratura traduce i sogni, l’onirico, i giochi di parole, le associazioni si può ottenere in qualche modo anche nelle arti visive. Due mostre sono decisive. La prima è la personale di Max Ernst del maggio-giugno del ’21 alla galleria Au Sans Pareil, dove presenta alcuni collage ed assemblage dell’epoca dadaista. Nel frattempo, però sta dipingendo anche quadri come: Max Ernst, La Vergine sculaccia Gesù Bambino davanti a tre testimoni: André Breton, Paul Eluard e il pittore → quadri che giocano con l’iconografia della Vergine. La Vergine, assisa in trono, anziché accudire il bambino, cosa che si attribuisce alla figura femminile nella morale religiosa e pubblica, fa il contrario, lo punisce, lo sottopone ad un gesto aggressivo al punto tale da fargli cadere l’aureola. Il bambino non è accudito, ma è punito. Qui la figura genitoriale assume quei connotati normativi che poi avrà in moltissimi studi di Freud. Non è soltanto la figura positiva dell’accudimento, ma è anche la figura repressiva dell’educazione. Uno dei metodi repressivi è la punizione. Ernst mette in gioco questo gesto punitivo, ribaltando l’iconografia, facendo vedere il lato severo e punitivo della maternità, oltraggiando la religione, quindi non ponendosi una censura morale. Nella finestrella della parete rosa compaiono tre personaggi, che Max Ernst identifica come i due poeti, Breton ed Eluard, e il pittore stesso. Indifferenti, alcuni ad occhi chiusi, assistono passivi e con gusto manieristico a questa punizione. Il dinamismo dell’azione è reso attraverso quella sconnessione di piani, quella luce solare implacabile della pittura metafisica di de Chirico. Breton, guardando i collage, come l’Usignolo cinese, e forse guardando anche quadri di questo genere, disse riguardo ad Ernst: “la facoltà meravigliosa, senza uscire dal nostro campo di esperienza, di raggiungere due realtà distanti (tra loro, quindi diverse) e di suscitare una scintilla con il loro avvicinamento”. Breton dunque si accorge che qui c’è una forma di associazione libera, condensazione. Non tanto qui (nell’opera appena analizzata) quanto nei collage. Ma anche qui assistiamo ad una condensazione, perché ci sono poeti ed artisti (e non santi) che assistono ad una scena sacra, dissacrata però. Seconda mostra: giugno ’21 alla libreria Six. Espone Man Ray, arrivato dall’America, in contatto con i dadaisti e a lungo parte del dadaismo, influenzato dal ready made di Duchamp, propone i suoi primi ready made. Anche questi sono una rivelazione: non disegni, non immagini, non collage, ma oggetti della realtà che, modificati, rivelano il loro potenziale perturbante, onirico, associativo. Uno dei più celebri ready made di Man Ray: Man Ray, L'Enigme de Isidore Ducasse → è un omaggio a Isidore Ducasse, conte di Lautréamont (pseudonimo), che aveva pronunciato una frase che aveva ispirato a lungo i surrealisti: “bello come l’incontro casuale di una macchina per cucire e di un ombrello su un tavolo operatorio”. L’ombrello e la macchina da cucire non hanno nulla a che fare tra loro. Questa frase era un’osservazione poetica di quanto l’incongruenza tra due oggetti, lasciati lì per caso, innescasse invece un potere immaginifico, uno scavo in quello che poi Freud avrebbe chiamato “inconscio”. Man Ray fa questo omaggio ovviamente mascherando (sarà importante il “mascheramento”) una macchina per cucire con una coperta, che poi con un gesto masochistico stringe, bacchetta, costringe e nasconde. Questo minimo gesto, l’impacchettamento, è già un gesto, ha già un significato psicanalitico. Poi abbiamo il mascheramento e poi abbiamo l’omaggio implicito ad uno degli ispiratori che sarà del surrealismo. Ricordiamoci che siamo nel ’21 e il surrealismo ancora non esiste! Sono tutti precursori. Poi ci sono altri precursori, come Paul Klee, artista svizzero, che nel primo dopoguerra si era molto interessato proprio a quel repertorio di disegni infantili, trovando una fantasia, un’elaborazione del segno spontanea, incongruente, associativa, potente che non trovava in altre opere, nemmeno nell’avanguardia. Così si adopera ad acquisire un segno sempre più infantile e ad usare forme di disegno metamorfico, cominciando a disegnare un oggetto e lasciandosi abbandonare al flusso che da quell’oggetto viene. Esempi: Paul Klee, Glasfiguren Paul Klee, Das schamlose Tier Queste opere ispireranno molto i surrealisti. Anche Max Ernst comincia a fare in pittura questo procedimento. L’aveva imparato dai collage e quello che fa è trasferire quel modo di lavorare nei collage ai quadri. Max Ernst, Celebes → opera ancora dechirichiana, nonostante sia del ’21. Questo è di nuovo un innesto proteiforme di oggetti conosciuti: caldaia che diventa un elefante con questa sorta di manica rovesciata, che diventa la fine della coda, che si congiunge alla testa. La proboscide diventa la coda. Il circuito si chiude su se stesso. È come una caldaia con dei tubi che si trasforma in un elefante. Chi c’è dietro a questo tipo di fantasie? Picabia, de Chirico, ma anche i collage (l’Usignolo cinese). Poi ci sono altre figure: figura che indica il cielo (leonardesca o raffaellesca) indossando un guanto di gomma arancione (de Chirico). Poi c’è una specie di albero, ottenuto con un incastro di latte di metallo, innaffiatoi. Il titolo è ancora più misterioso, perché Celebes inizialmente non sembra evocare nulla. Questo quadro è dipinto quando Ernst è ancora a Colonia (si trasferirà dopo a Parigi). Qui Ernst si ispira ai suoi collage, soltanto che stavolta li traduce in pittura. Anziché lavorare con le immagini ritagliate, lavora con la fantasia e disegna, dipinge. Il processo però è lo stesso: lasciarsi ispirare da immagini già viste, immagini tecniche, caldaie, animali, immagini di de Chirico. La figura è incongruente: vediamo delle zanne che stanno dall’altra parte, come se la figura avesse due volti, uno davanti e uno dietro. Quello davanti a le corna, gli occhi, la proboscide, che entra nella coda, come se fossero due tubi. L’elefante a noi ricorda una caldaia, che è una struttura metallica, ma Ernst invece ci dice che deriva da un recipiente sudanese (che forse aveva visto in qualche reportage antropologico). È un’immagine che lo colpisce subito e che lui poi associa alla figura dell’elefante. Il titolo, Celebes, in realtà allude ai sudanesi, una popolazione dell’Indonesia. Per spiegare questo titolo dobbiamo conoscere una cosa che Ernst ci spiega dopo: una filastrocca infantile, boccaccesca, sconcia, che parla dell’elefante di Celebes (l’elefante di Celebes produce una gelatina gialla / l’elefante di Sumatra si tromba la nonna ecc.). La filastrocca era in francese ed Ernst la conosceva. È una di quelle cose scurrili, infantili, in cui l’assonanza delle parole genera accostamenti assurdi tra le parole. Probabilmente nella versione francese si confondono le parole con qualcosa di accettabile. Ernst, ispirato da questa filastrocca infantile, vede la convivenza assurda del gesto infantile, della libertà, della fantasia con lo sconcio inconfessabile ed ispira la figura di questo elefante, che è come un circuito chiuso. Max Ernst, 2 enfants sont menacés par un Rossignol → questo quadro è del 1924, quando Breton ormai sta per fondare il surrealismo. Infatti, è un assemblage quadro pubblicato sulla rivista di Breton, La revolution surrealiste, nel 1925. In questo quadro il ricordo è quello di una vicenda infantile, legata in realtà alla morte di un uccellino, a dei traumi infantili, che qui viene tradotta però in un linguaggio incomprensibile. Ci sono delle figure che scappano, spaventate, una casetta di legno che sembra un giocattolo infantile, un portoncino in legno che si apre e ci svela questa scena, una sorta di cadavere, lasciato per terra, e una figura che sembra armata e che scappa. Questo è un vero e proprio assemblage. Ernst stavolta è più maturo dal punto di vista psicanalitico e comincia a capire che il suo interesse verso questo mondo dell’infanzia è legato al fatto che i traumi della sua vita sono traumi infantili. Dunque, inizia a ripercorrere con un lavoro di psicanalisi la sua esistenza, scoprendo episodi traumatici e traducendoli nel nuovo di linguaggio dell’assemblage e dell’associazione libera. Attorno al 1924 Breton, dopo aver apprezzato Man Ray ed Ernst, si convince che un altro artista che deve assolutamente entrare nella compagine dei surrealisti sia André Masson. Masson era stato un pittore un po’ defilato, vicino al cubismo. Le sue figure però si erano sempre più concentrate su un astratto, sta in questo regno intermedio. Molto del suo fascino è dovuto a questa sua medietà, nel senso di essere intermedio. Questo era un po’ l’immaginario, il cosmo di Mirò, il cosmo segnico. Breton, invece, ci vedeva quello che voleva vedere in Mirò. A Breton sembrava cioè che la pittura di Mirò fosse una pittura ispirata, onirica, allusiva e di libera associazione. Mentre, questa componente c’è, ma in modo moderato in Mirò, perché in Mirò c’è un procedimento progressivo di interesse verso il soggetto arcaico- contadino, pratica segnica, isolamento dei segni, ricombinazione e dalla ricombinazione di questi segni, però, nascono dei simboli, delle cellule figurative che per Mirò però hanno ancora un’allusività, un significato legato a tutto il suo percorso. È tutto un percorso progressivo di astrazione, quindi ha una sua linearità e non è il frutto di un’improvvisazione, non è il frutto di un abbandono all’associazione libera. Breton, invece, questi aspetti non li osserva ed è più suggestionato dal fatto che queste figure possono essere ambigue, geometriche e bio-morfe, organiche e inermi, figurative e astratte e dunque che possano innescare delle associazioni libere nello spettatore che le osserva. Nel percorso del surrealismo abbiamo anche delle figure molto importanti che si avvicinano al surrealismo, ma non ne fanno parte integrante. Uno di questi è Pablo Picasso. Picasso, Sulla spiaggia (Le bagnaide) → c’è ancora la brutalizzazione delle forme, tipiche del Picasso precedente. Ma si tratta di un Picasso diverso, che ha cominciato ad avvicinarsi all’aspetto espressivo del suo segno, abbandonando la ricerca formale che lo aveva contraddistinto durante il cubismo. Picasso comincia un periodo di ritorno alla figura e poi si lascia contaminare dal surrealismo. Soprattutto negli anni ’30 Picasso si interessa a temi autobiografici legati sia alla Spagna che alla sua vita affettiva. Nascono ritratti grotteschi di donne che sono le sue compagne e anche di figure che sono corpi erotizzati con una certa bestialità (Sulla spiaggia). In quest’opera c’è uno smontaggio dell’anatomia: espediente di deformazione, tutto espressivo, che rende le figure degli idoli femminili di sovrabbondanza. Colli pronunciati. Forma fallica del corpo femminile. Sole che spunta dall’orizzonte marino e guarda cosa sta succedendo. Le due figure sembrano giocare con una barchetta. Questo quadro mostra l’avvicinamento al surrealismo di Picasso. Salvador Dalì, Persistenza della memoria → visioni che nascono da autoanalisi dell’artista o da visioni depositate nell’immaginario collettivo. Lui dice di isolare temi onirici e poi elaborarli. Opera: materiale onirico rielaborato alla luce della conoscenza della psicoanalisi. Orologi molli: fobia della morte, del decadimento. Degli orologi molli si depositano, come a ricordare lo scorrere del tempo inesorabile, su un paesaggio desolato, il cui inverno è metafora di spegnimento della vita. Al centro dell’opera una figura biomorfa che ricorda una balena morente, l’occhio di una donna o un animale morente e allo stesso tempo notiamo l’eleganza delle ciglia femminili presenti su questa figura. Tutto ciò in un paesaggio tra il deserto e il glaciale, privo di vita e che manifesta questa inesorabilità del senso di morte del tempo, che è parte delle ossessioni e delle paure. Dalì dà avvio alla pratica del cosiddetto “oggetto a funzionamento simbolico”. L’oggetto a funzionamento simbolico è parte di una teoria che Dalì espone in alcuni scritti e che riguarda la possibile suddivisione degli oggetti e delle opere d’arte surrealiste in varie tipologie. Uno scritto intitolato Oggetti surrealisti, pubblicato nel dicembre del 1931 nella rivista Il surrealismo a servizio della rivoluzione, parla proprio di questa possibile classificazione. Ci sono vari oggetti: quello a funzionamento simbolico e un oggetto di derivazione automatica, cioè che associa immediatamente, in modo irrazionale, senza nessun controllo logico gli oggetti tra loro. Esempio di oggetto a funzionamento simbolico: Dalì, Telefono aragosta → abbinamento di un telefono, nella conformazione che aveva all’epoca, nella sua cornetta alla forma di un’aragosta/astice. L’associazione è tra un elemento della tecnologia e un elemento marino con però indicazioni legate all’uso di questo oggetto, cioè il fatto di portare la cornetta del telefono alla bocca e al naso evidentemente ha un valore allusivo orale e ci mette in contatto con una superficie minacciosa, spiacevole, viscida o pungente. In qualche modo questa prima associazione a funzionamento simbolico ha in realtà delle implicazioni che hanno di nuovo a che fare con l’oralità, con le sensazioni tattili ecc. Dalì in qualche modo mette a fuoco quello che è un punto essenziale che si svilupperà lungo tutto il surrealismo. Alberto Giacometti, Boule suspendue → Giacometti scultore. Famoso per le sue figure filiformi. Elabora delle sculture che suscitano interesse nei surrealisti, che lo invitano nel movimento. Giacometti elabora delle “cape”, cioè delle gabbie, che ospitano spesso immagini in gesso. In questa opera c’è una sfera in questa gabbia. Sfera poggiata su una mezzaluna. Sfera che forse allude a un significato psicanalitico funzionale. Noi possiamo vederci qualcosa di astronomico, innocente (luna e pianeti). Ma possiamo anche vedere uno sfioramento. La sfera in qualche modo viene impedita nella sua oscillazione, ma la si può solo far scorrere in modo ripetitivo sulla mezzaluna. Sfregamento, atto ripetitivo che ha una allusione erotica. Piacere del contatto, dello sfioramento. Anche il titolo “sfera sospesa” sembra più alludere ad una condizione di sospensione. Meret Oppenheim: artista donna. Si trasferisce a Parigi, frequenta il circolo surrealista e adotta il sistema della libera associazione. Ci racconta, dunque, alcuni episodi da cui nascono le sue opere. Meret Oppenheim, Object → tazzina e cucchiaino rivestiti in pelliccia. Questo quadro nasce da una conversazione tra lei, Picasso e Dora. Sensazione tattile (pelliccia) associate alla tazzina, al gesto della colazione. Ne nasce una commistione tra una situazione piacevole, tattile, un’abitudine e una frivolezza, cioè rivestire di pelliccia qualcosa. È una classica libera associazione. È una condensazione. Meret Oppenheim, Ma gouvernante – My Nurse – Mein Kindermadchen → si tratta di nuovo di un assemblage che mette insieme un vassoio, due scarpe col tacco ribaltate e dello spago con cui queste scarpe sono avvolte e tenute insieme e che lasciano vedere il colore giallastro della suola rovinata. Sembra un pollo. Titolo La mia governante: collocazione sociale. Parte femminile: scarpe, elemento di adesione della donna all’elemento femminile che l’uomo si aspetta. Donna condannata come vanità e come pollo, ovvero essere stupido, vanitoso. Meret Oppenheim ironizza su tutto questo. Lo spago ha tre funzioni: allude alla pietanza, quindi rinforza la metafora del cibo; funzione tecnica, cioè consente di tenere le scarpe in un certo modo per suggerire la forma delle alette del pollo; elemento masochista, cioè c’è un offrirsi della donna dentro lo stereotipo atteso e c’è anche il gesto di legare, ambiguo. L’opera significa tutto questo insieme. Ricchezza polisemica. Costellazione semantica di significati. Tema sociale, tema di genere, tema psicoanalitico-masochista. Gioco libero associativo. Assemblage di artisti che si erano prima occupati di pittura. Vediamo due estremi: Picasso, Tete de taureau → caso semplice. Testa di toro che Picasso realizza dopo aver elaborato un’ossessione per la corrida. Testa di un toro che è un assemblamento di un manubrio e di un sellino di una bicicletta. Due oggetti semplici, che derivano da una bicicletta, sono trasfigurati nella testa di un animale. Joan Mirò, Oggetto poetico → oggetti trovati e assemblati. Caso ermetico, criptico. Oggetto poetico che mette insieme un cappello, un pesciolino rosso, una mappa, un cilindro, la scarpa di una bambola, un pappagallo sul trespolo, una sfera. Difficile trovare un nesso associativo tra questi oggetti. ARTE E SOCIETA’, PROPAGANDA E INTEGRAZIONE: FRA ANNI VENTI E ANNI TRENTA Il surrealismo si sviluppa dal 1924 (data di fondazione) fino alla fine della Seconda guerra mondiale. Dopodiché si frantuma in una serie di rivoli, parabole individuali. In questo arco cronologico (1924- 1940) accadono moltissime cose fuori dal contesto surrealista. Negli anni ’30 in particolare in Europa lo scenario politico cambia profondamente. Alcuni di questi processi erano già stati avviati negli anni ’20, come nel caso dell’Italia. Abbiamo uno scenario in Europa dove si affermano i totalitarismi, cioè delle dittature conservatrici di destra che aspirano a plasmare ogni aspetto della vita quotidiana. Questo processo avviene in modi diversi e in gradi diversi: nel caso del nazismo con forme repressive efficaci e inflessibili; nel caso del fascismo in modo altrettanto pervasivo, tragico e capillare, ma con una organizzazione e una rigidità minore rispetto al nazismo; in Spagna dopo la guerra civile del ‘36 c’è il passaggio dalla democrazia allo stato dittatoriale di destra con Francisco Franco. Quindi, abbiamo uno scenario dove le democrazie, nate da poco in Europa, entrano in crisi e ci sono questi totalitarismi. Abbiamo, dunque, un primo blocco di contrapposizione tra le democrazie e i totalitarismi. Poi però abbiamo anche l’Unione Sovietica, dove nel ’17 era scoppiata la rivoluzione bolscevica, seguita da un periodo di potere di Lenin che segna una progressiva burocratizzazione, imbarbarimento e violenza e quindi un’altra forma di totalitarismo, stavolta di sinistra. In Unione Sovietica la spinta totalitarista si spinge anch’essa nel tempo alla censura, al controllo della vita economica, all’abolizione della proprietà privata e nei confronti dell’arte per forme e tentativi di controllo. Negli anni ’30 in particolare il clima peggiora tantissimo, anche per l’arte. Agli artisti comincia a risultare assai difficile operare in maniera autonoma senza le ingerenze culturali, ideologiche, dirette e politiche degli stati in cui operano (ovviamente nei totalitarismi). Abbiamo scenari diversi: la pittura fascista, la pittura murale in Italia; realismo socialista dello stato sovietico; il nazismo, che allude a miti di durezza raziale, di pseudo- classicità ariana; in Germania la nascita del Bauhaus, dove si pone nuovamente il rapporto tra arte e società, ma in termini diversi, cioè progressisti, collaborativi. Dunque, tra anni ’20 e ’30 il tema del rapporto tra arte e società diventa centrale. Momento culminante (in continuità col surrealismo): 1937: Pablo Picasso dipinge Guernica. Genesi dell’opera: alla fine dell’aprile del 1937 si sta ancora svolgendo la guerra civile, cominciata nel ’36, in Spagna. Nel ’36 ci sono delle elezioni democratiche, che vengono vinte dai socialisti. Il blocco conservatore, militare, imprenditoriale, economico spagnolo è preoccupato dei possibili esiti della vittoria del partito socialista e innesca un colpo di stato. Francisco Franco, generale militare, organizza la cosiddetta falange, cioè un esercito con il quale cerca di riconquistare pezzo per pezzo la Spagna, non riconoscendo il risultato democratico delle elezioni. A quel punto ne nasce una guerra civile, che vede i due fronti contrapposti e che nel ’36-’37 comincia a diventare una battaglia simbolica e soprattutto il preludio della Seconda guerra mondiale. Questo perché le forze che si stanno contrapponendo in Spagna sono due blocchi che ormai da vent’anni si fronteggiano in modo acerrimo: regimi totalitari di destra e regime totalitario sovietico. Due ideologie diverse (fascismo e comunismo). Ed è inevitabile che una serie di Paesi vicini a queste ideologie sostengano le fazioni rispettive. Avviene che l’Italia fascista e la Germania nazista sostengono Franco e l’Unione Sovietica appoggi la repubblica e soprattutto la componente socialista. Ne nasce un preludio della Seconda guerra mondiale, dove noi vediamo in campo molte delle forze che si scontreranno nel conflitto bellico. La cosa per cui l’Occidente viene condannato è che altri primi a portare la tragedia umana fuori dalla retorica dell’eroismo, mostrandocela nei suoi elementi moderni, Picasso porta l’inseparabilità dell’elemento biografico dall’elemento pubblico, sociale. Picasso modifica il genere del quadro di guerra: quadro di storia e di tragedia civile che usa anche simboli personali, biografici. Non esiste più l’uomo pubblico e l’uomo privato, separazione abolita dal surrealismo. Nonostante sia evidente che Picasso abbia messo in atto la sfera privata, il pubblico ha eletto Picasso a un manifesto di pacifismo, quindi ha letto solo la parte pubblica di Picasso. • Art Worker’s Coalition, protesta con il manifesto And Babies? davanti a Guernica. Guernica diventa l’icona del pacifismo. • Renato Guttuso, Fuga dall’Etna → quadro ispirato a Guernica. Guernica è stato un simbolo universale di pacifismo, l’urlo della tragedia, oppure è stato il modo stilistico di trattare con più libertà queste scene di guerra, senza l’approccio giornalistico e cronachistico. ARTE E SOCIETA’, PROPAGANDA E INTEGRAZIONE: FRA ANNI VENTI E ANNI TRENTA Russia, Germania, Messico e Italia. Le avanguardie si posero presto il problema di che rapporto avere con la società. Questo problema di pose negli anni Venti e Trenta perché questi regimi avevano posto questo problema. Questo modo che gli artisti hanno di incidere sulla società non è più quello di Baudelaire, cioè semplicemente raccontare la propria epoca. Ci sono già i mass media che possono farlo. L’arte può trovare una via diversa di rapportarsi alla società. -In Unione Sovietica: una buona parte delle avanguardie russe in modo conclamato avevano appoggiato la rivoluzione bolscevica del ’17, quindi inizialmente molti artisti di avanguardia avevano abbracciato e sostenuto il bolscevismo e si erano prodigati per trovare un ruolo attivo nella società. Continuarono a fare gli artisti e cercarono di comunicare con le masse. Questo primo tema viene affiancato dall’insegnamento: trovare dei posti di insegnamento che diano una posizione economicamente stabile all’artista. Questa parabola si inclina attorno agli anni Venti, quando le cose cominciano a cambiare. Abolizione della proprietà privata. L’economia comincia a entrare in una fase di difficoltà. Ad un certo punto inizia a nascere un regime dittatoriale. Avanguardie in posizione di dilemma: espatriare o restare ed essere censurati, repressi, isolati. Uno degli artisti che attorno alla età degli anni Venti inizia a viaggiare è El Lissitzky. È il primo che inventa una forma di arte totalizzante, immersiva, che cerca un coinvolgimento maggiore dello spettatore. El Lissitzky, Stanza Proun → ambiente dove la logica dei piani diventa rilievo e investe tutto l’ambiente. Diversi materiali, colori e forme geometriche entrano in relazione tridimensionale. L’esperienza sensoriale che lo spettatore fa è immersiva. L’artista progetta in toto un ambiente, quindi pittura che si espande, che esce dalla superficie bidimensionale e diventa ambiente. Unione di due filoni di ricerca: quella di Malevič e quella dei costruttivisti. Isaac Brodskij, Lenin all’istituto Smol’nyi → rappresenta un episodio storico. Lenin: uomo di pensiero, di riflessione prima che di azione. Quadro con una patina ottocentesca, chiaroscuro accademico. Negli anni ’30 con l’arrivo di Stalin la politica del regime diventa oppressiva. Dal 1934 in poi un politico responsabile della cultura stabilisce che l’arte di stato è il realismo socialista: gli artisti devono raccontare la realtà e farlo con uno spirito ideologico socialista. Il realismo diventa un linguaggio comprensibile alle masse che serve ad educare le masse. Però in realtà si tratta di uno stile accademico ottocentesco. -In Germania: Germania sconfitta dal conflitto bellico. Problemi per la ricostruzione. Fase della repubblica di Weimar che precede l’avvento del nazismo e la crisi definitiva del sistema democratico istituzionale tedesco. In questa fase di Weimar si sviluppa la parabola della Bauhaus. Il Bauhaus nasce come la fusione di due precedenti istituti. La sua idea è quella di modificare profondamente la formazione artistica così come era strutturata nell’Ottocento. La formazione artistica si divideva in due grandi ambiti: arte, suddivisa poi in discipline (pittura, scultura ecc.); arti e mestieri, cioè tutta quella serie di professioni che riguardavano le arti applicate (decorazione delle architetture, ceramica, vetro ecc.). Il primo atto che il Bauhaus fa alla sua fondazione nel 1912 è di tornare a fondere queste tradizioni, secondo un ideale che all’epoca si voleva come ideale, quasi medievale (antiche botteghe). Nel 1919, quando Walter Gropius fonda il Bauhaus a Weimar, uno degli ideali è proprio questa idea di fondere queste due tradizioni. Il secondo è invece forse l’elemento più di novità: Gropius, direttore e architetto del Bauhaus, inizialmente ha una intenzione che maturerà via via con chiarezza negli anni successivi. A insegnarli questa possibilità è stato soprattutto il neoplasticismo, un movimento olandese, di cui il punto di riferimento è Piet Mondrian. Il messaggio del neoplasticismo è l’idea che le conquiste formali dell’avanguardia possano essere applicate a tutti gli altri ambiti dell’architettura o espressivi. Le avanguardie elaborano linguaggi, stili, forme, modalità operative che poi possono essere forme progressiste, avanzate, di cambiamento di altre arti e si possono applicare ad altri ambiti. Dunque, l’idea (che sembrerebbe contraddittoria all’inizio) di fare dell’avanguardia e dell’accademia una fusione. Gropius vuole tenere insieme la formazione, quindi l’idea di un istituto che forma, e l’idea di sperimentazione. L’idea che le avanguardie possano diventare un modo di insegnare è una novità assoluta all’inizio del Novecento. Il Bauhaus diventa quindi una palestra unica dal punto di vista didattico in cui si avvicenderanno artisti importantissimi. Questo istituto vede questi artisti modificare profondamente la didattica e il metodo di insegnamento. La nuova idea è quella di conciliare l’avanguardia con il mondo produttivo. Chi si forma al Bauhaus non inizia con l’idea di diventare un’artista, un vetraio, un architetto ecc., ma invece fa una formazione base, comune e poi con i vari laboratori prende un indirizzo preciso nella seconda fase formativa, tenendo però sempre aperto il dialogo con le altre discipline, con le altre tecniche, in maniera da avere una apertura, una sperimentazione continua. Il Bauhaus stesso si trasforma in un istituto sperimentale. Nel 1925 a Dessau viene progettato e inaugurato l’istituto del Bauhaus. Kandinskij, illustrazione dal libro Punto, linea, superficie → punto, linea e superficie: tre componenti essenziali, base del linguaggio grafico e pittorico. Kandinskij si concentra su queste forme e comincia a ragionare su di esse. Kandinskij chiede al lettore di valutare i rapporti tra le forme. Riflettere su elementi compositivi puri, come ottenere un effetto compositivo a partire da elementi base. È un Kandinskij molto più sistematico e si vede che sta cominciando a insegnare. Moholy-Nagy, Modulatore spazio-luce → scultura che ha il compito di filtrare la luce nello spazio. Fenomeno del modularsi della luce. Entrambi cercano di creare una forma di sapere trasversale. Vogliono dare cognizione agli studenti dell’uso di queste forme e di questi strumenti. Poi il Bauhaus comincia ad organizzare delle fiere. Vengono esposti oggetti di vario genere. Cominciamo a vedere dei risultati. Il Bauhaus alla fine si pone un nuovo ideale: avanguardia che contribuisce alla società. L’opera d’arte non è più un gesto inutile, gratuito, ma è il campo dove si elaborano questi risultati. L’arte è la ricerca avanzata sulle forme. Nel 1933 il Bauhaus viene chiuso dai nazisti. Viene trasferito per qualche mese a Berlino. Anche negli anni ’30 in Germania il clima cambia radicalmente. Il nazismo è ancora più repressivo della dittatura dell’Unione Sovietica. I gusti di Hitler sono gusti di selezione razziale. Inizialmente il nazismo è alla ricerca di un’arte tedesca, di una germanicità dell’arte. Nel 1937 i nazisti organizzano una mostra che si chiama L’arte degenerata. Mostra di scherno dell’arte contemporanea. Viene organizzata a Monaco per volontà di Ziegler. Ziegler organizza due mostre: la grande mostra dell’arte tedesca e una mostra parallela con tutta una serie di opere d’avanguardia e le opere confiscate. Vicino alle opere d’avanguardia vengono poste delle frasi di scherno. È una mostra fatta proprio per prendere in giro l’arte contemporanea. La mostra consolida una netta scissione tra avanguardie e arte nazista. La repressione si era spinta a rigettare le avanguardie fino a questo punto. -In Messico: il Messico entra nella storia dell’arte occidentale attorno agli anni ’20 per una vicenda molto importante, che passa alla storia come muralismo messicano. La vicenda parte da alcuni artisti che erano stati in contatto con le avanguardie europee. Rivera, per esempio, aveva condotto un viaggio in Europa e aveva conosciuto il cubismo, le avanguardie, ma era stato altrettanto affascinato dai grandi cicli di affresco (es. quelli italiani). La potenza evocativa, la forza dell’elaborazione narrativa degli affreschi sembrava a lui un linguaggio ancora vivo, utilizzabile, che andava ovviamente ammodernato, rivisto, ma che aveva un potere fondamentale. Alcuni affreschi avevano il potere di comunicare in modo diretto il loro messaggio allo spettatore, anche allo spettatore non acculturato. La chiarezza, la limpidità, la forza del messaggio sembravano essere a Rivera una delle proprietà dell’affresco. Questa lettura dell’affresco non è una lettura inventata da Rivera, ma, per esempio, nell’Ottocento Raffaello veniva visto come un grande modello di chiarezza visiva proprio per alcuni dei suoi affreschi (es. Scuola di Atene). Quindi, esisteva già una tradizione che vedeva nell’affresco fin dall’Ottocento un punto culminante della civiltà figurativa, una forma di comunicazione anche col popolo. Dunque, Rivera resta affascinato da questa possibilità e, quando torna in Messico, gli sembra che sia quasi l’unica possibilità rimasta ad un’arte che voglia ancora parlare alle masse. Al suo rientro la situazione politica in Messico è complicata: ci sono state una serie di rivoluzioni e controrivoluzioni tra anni ’10 e ‘20. È una storia parallela che viaggia dall’influenza coloniale e dalla liberazione del Messico poi da questi giochi coloniali. La vicenda arriva fino a Benito Juárez e quindi rimonta fino all’Ottocento (prima liberazione del Messico). Poi colonizzazione da parte degli spagnoli. Questo processo di liberazione aveva visto momenti autoritari, momenti di maggiore libertà fino a che negli anni ’20 un governo un po’ più liberale aveva dato avvio a una nuova campagna più sensibile ai temi popolari, alla equità sociale, ma non un governo di ispirazione comunista. Dentro questa nuova situazione politica degli anni ‘20 si fa strada un ministro della cultura, Vasconcelos, che ha il merito di comprendere subito questa nuova possibilità intravista da artisti come Rivera. Dunque, è lui che assegna dei grandi cicli decorativi a questi artisti nei vari istituti, palazzi pubblici di nuova fondazione nel Messico degli anni ‘20. Rivera è per esempio un artista di ispirazione, ideologia e fede comunista, quindi, rappresenta delle masse con la bandiera con la falce e il martello, cioè la bandiera che poi i bolscevichi adotteranno per l’Unione Sovietica: Diego Rivera, La distribuzione delle armi → grande scena che si ambienta nella rivoluzione che si era tenuta in Messico con le masse operaie e contadine che convergono verso un nuovo orizzonte rivoluzionario. Importante è l’esempio che il Messico rappresenta. Questo affresco è del ’28, quindi già di una fase matura, tarda. Rivera era appena tornato dall’Unione Sovietica (e questo spiega le bandiere). Rivera era già di simpatie comuniste, ma questo viaggio in Unione Sovietica le aveva Il risultato di queste teorie è visibile in questa opera, che in realtà era temporanea (perché era stata realizzata in un palazzo, quello della Triennale, dove c’era un’alternanza di mostre): Mario Sironi, Il lavoro → pittura murale che ha come tema il lavoro (marxismo). Scena abbastanza complessa: da un lato vediamo una città contemporanea moderna (ciminiere, archi, portici ecc.) e poi a destra vediamo un acquedotto romano. Vediamo che gli spazi, i luoghi non sono coerenti tra loro, quindi, Sironi conosce la lezione del cubismo e non usa Raffaello per impaginare l’affresco, ma usa molto di più Picasso (contraddizioni continue). Il messaggio di un affresco del genere è quello di un’Italia operosa che sa tenere insieme la modernità dell’industria e l’ingegnosità dell’impero romano (acquedotto). Dunque, già nelle architetture vediamo un messaggio politico: noi sappiamo quanto il regime proprio da questi anni in poi abbia battuto sull’identificazione tra l’Impero Romano e il nascente impero fascista, soprattutto dopo le guerre coloniali. Dentro questa visione convivono poi figure allegoriche o rappresentative di varie tipologie: figure abbigliate all’antica, che di nuovo rievocano il passato romano, operose, muscolari, stentoree assieme a figure femminili in tunica e figure anche mitologiche, come il centauro. Quindi, l’idea fondamentale di questo affresco è quella di una Italia che sa conciliare moderno e antico, che sa recuperare la sua grandezza. È chiaramente una visione del lavoro allegorica e propagandistica, priva di conflitti di classe, priva di problemi, priva di persone che si rifiutano di lavorare e che sono sfruttate. Mostra una umanità operosa che si è sempre data da fare per trasformare l’Italia e per lavorare. Dal nuovo power point: JACKSON POLLOCK E L’ESPRESSIONISMO ASTRATTO Espressionismo astratto: movimento artistico che nasce negli USA alla fine della Seconda guerra mondiale. Clement Greenberg, critico d’arte americano. Le tesi di Greenberg non soltanto sono diventate delle tesi centrali nella storia dell’arte americana, ma hanno avuto la capacità e la forza di influenzare anche la visione dell’arte in Occidente e poi sono state capaci di riassumere efficacemente il percorso dell’arte dall’impressionismo a Jackson Pollock. Greenberg è un critico d’arte che inizia a scrivere negli anni ’30 negli USA. Scrive per la Partisan Review, una rivista di intellettuali di simpatie socialiste, che poi nel secondo dopoguerra rivedono le loro posizioni e si allontanano dal socialismo a causa della guerra fredda. La sua formazione include anche, per sua stessa ammissione, le elezioni di un esule del fascismo, Antonello Venturi, uno dei pochi tra i professori universitari che ebbe il coraggio di non firmare l’adesione al fascismo. A causa di questo era espatriato. Greenberg incontra anche Venturi, quindi c’è una parte anche di arte italiana, ma anche altri riferimenti europei, come per esempio Roger Fry, altro critico. Quindi, Greenberg non inventa dal nulla la sua teoria (che ora spiegheremo), ma la riassume, la estrae da una tradizione di critica d’arte europea. Ma la sua concisione, la sua chiarezza, la sua capacità di porre una tesi centrale fanno sì che venga usato il suo pensiero per spiegare che cosa abbiamo visto fino ad ora. Secondo Greenberg, infatti, è possibile seguire la storia dell’arte contemporanea del suo tempo trovando una ricerca, una tensione comune, coerente, non in tutti gli artisti, ma solamente nei modernisti. Greenberg pensa che per essere contemporaneo un artista non deve essere solo vivo oggi, ma deve avere un pensiero contemporaneo. Queste sue teorie vengono definite dalla storiografia “modernismo”. Modernismo per Greenberg significa consapevolezza di un percorso che l’arte ha fatto di sviluppo progressivo, che si fa con una sorta di catena evolutiva, una genealogia. Si parte da Manet, si passa dai cubisti e si arriva fino a Jackson Pollock. Secondo Greenberg c’è una ricerca comune che tiene insieme tutti questi artisti e lui sostiene che è possibile trovare una direzione comune in questi artisti con un fine preciso. Direzione teleologica, progressiva e riduzionista. Il modernismo di Greenberg è un modernismo riduzionista. Per Greenberg il soggetto del quadro è un problema del tutto ininfluente. Per lui il modernismo ha una caratteristica: è un processo di purificazione, di spoliazione, di scavo fino all’essenza, un processo che via via purifica, riduce per arrivare a una “essenza”, cioè una caratteristica inalterabile, un nucleo che definisce l’arte stessa (che cos’è l’arte, che cosa dovrebbe essere). Quindi, per Greenberg il modernismo ha queste tre caratteristiche. Lui comincia a scrivere a riguardo alla fine del ’39 e fa una prima distinzione: dice che ormai noi viviamo in un’epoca in cui la cultura è divisa in due parti. Da una parte la cultura di massa (kitsch), tutto ciò che era stato prodotto a fini commerciali, per l’intrattenimento delle masse nel loro tempo libero (cinema, musica, romanzi gialli ecc.). Si oppone a questa cultura la cultura di avanguardia (modernismo). Greenberg nel ’40 parla di pittura modernista. Nel 1960 scrive: “A mio avviso l'essenza del modernismo consiste nell'uso dei metodi caratteristici di una disciplina per criticare la disciplina stessa, non per sovvertirla ma per circoscriverla con maggior rigore nella sua area di competenza. (…) Bisognava mostrare non solo ciò che era unico e irriducibile nell'arte in generale, ma anche ciò che era unico e irriducibile in ogni singola arte. Ogni arte doveva determinare, attraverso i propri procedimenti e le proprie opere, gli effetti che le erano propri. Così facendo, l'arte avrebbe sicuramente ristretto la sua specifica area di competenza, ma nel contempo avrebbe reso il possesso di quell'area molto più sicuro. Ben presto si vide che l'area di competenza unica ed esclusiva di ogni arte coincideva con tutto ciò che era unico quanto alla natura del suo medium. Il compito dell'autocritica divenne quello di eliminare dagli effetti di ogni arte tutti quelli che ragionevolmente potevano essere presi o dati a prestito dal medium di una qualsiasi altra arte.” (Clement Greenberg, Pittura modernista, 1960) Il modernismo è autocritico, una forma d'arte che indaga e critica prima di tutto sé stessa. Il modernismo usa gli strumenti dell'arte per criticare l’arte stessa. Greenberg sostiene che la pittura sia stata lungamente una arte ancillare di altre arti (letteratura e teatro). La pittura voleva imitare effetti che appartengono alla letteratura e al teatro, come raccontare una storia. La pittura è un’arte spaziale, mentre la letteratura e il teatro sono arti del racconto e della narrazione. La pittura non ha come area di competenza il racconto di una storia, secondo Greenberg. La pittura, subendo l’egemonia di queste altre arti, non ha fatto altro che imitarle. Per Greenberg la pittura deve capire qual è la sua area di competenza. Greenberg pensa che contaminare le arti tra loro significa cercare di impressionare il pubblico con effetti spettacolari, cercare di fare kitsch. L’area di competenza di un’arte è determinata dal suo medium. Medium: unione della tecnica e del supporto. Greenberg dice che gli artisti dovrebbero partire dal medium in cui si esprimono, perché quello determina gli effetti che io posso ottenere con quel medium. Medium della pittura: colore; superfice piana, bidimensionale. “Con le sperimentazioni del Modernismo sempre più convenzioni, nell’atto pittorico, hanno dimostrato di essere prescindibili e non essenziali. Così, si direbbe, sembra accertato che l’irriducibile essenza della pittura consista di due convenzioni (o norme) costitutive: la piattezza (flatness) e la delimitazione di questa piattezza; e che il rispetto di queste due semplici norme sia sufficiente a creare un oggetto che possa essere fruito come un’immagine.” (Clement Greenberg, Dopo l’Espressionismo Astratto, 1962) Al medium risponde piattezza (flatness) e formato. Piattezza: non una sfera, ma un cerchio. Formato: devo decidere come organizzare le forme sulla superfice piana. Un quadro modernista deve essere piatto e deve avere considerazione del formato. Il rispetto di queste due semplici norme è sufficiente a fare un quadro. Il risultato è una pittura astratta. Lezione 9 (23/11/22) Riprende ultimo argomento della lezione precedente. All-over: evitare il più possibile la discontinuità nella pittura. Con la flatness, con l’all-over e con il formato noi abbiamo tre caratteristiche della pittura essenziali, uniche e irriducibili. Jackson Pollock si trova al culmine di due filoni di ricerca, due filoni tra loro diversi, ma che convivono in lui. Il primo è il compimento dell’automatismo psichico dei surrealisti; il secondo è il modernismo di Greenberg. Pollock è un artista americano, che studia in parte in California e poi a New York, dove si stabilisce. In famiglia sono interessati all’arte. È un artista che inizia negli anni ’30 con un linguaggio picassiano. Dopodiché attorno alla fine degli anni ’30 si interessa anche a dei pittori americani, nell’idea che sia possibile trovare una forma di pittura autenticamente americana. Inizialmente si interessa a pittori dell’Ottocento americano, poi però via via si avvicina alle pratiche dei nativi americani. Agli inizi degli anni ’40 Pollock è un pittore che sta ragionando su Picasso e su una possibilità di una pittura autenticamente americana. Dal ’42 in poi molti surrealisti si rifugiano negli USA. Pollock, dunque, viene a contatto con le pratiche surrealiste e il contatto è dirompente, perché gli fa completamente reinterpretare la sua passione per Picasso. Riesce così a cogliere l’elemento automatico, libero- associativo, che è la deformazione dei corpi e dei volti di Picasso (interpretato in modo freudiano, psicanalitico). Poi Pollock ha problemi di alcolismo e infatti morirà in un incidente stradale nel ‘56, probabilmente ubriaco. Prima di ciò lui aveva provato a curarsi da questa dipendenza intraprendendo una terapia psicanalitica con un terapista junghiano. La scuola di Jung, partendo da Freud, tende a trovare soprattutto dei simboli universali, cioè dei simboli che fanno parte dell’inconscio umano che sono condivisi da tutte le culture. Jung ssi interrogò a lungo sul valore universale di alcuni simboli che tornavano nei sogni, nelle culture ecc., cercando di capire a che elemento psicanalitico fossero correlati. Jung, quindi, faceva delle ricerche che stavano tra l’iconografico-simbolico e lo psicanalitico, dunque, quanto di più interessante per un artista che stava conoscendo le tecniche automatiche del surrealismo e che era interessato a questa idea di autenticità della cultura autoctona americana. Attorno al ’43 il legame con i surrealisti si fa più evidente: Jackson Pollock, The Moon Woman cuts the Circle (La donna luna che interrompe il circolo) → la donna-luna è un simbolo un po’ picassiano: Picasso usava negli anni ’30 dipingere volti di donna dividendo in due metà il volto della donna, una in ombra e una in luce, a volte con una rotondità che ricordava il pianeta della luna. Il rapporto donna-luna, quindi connessione tra simbolo lunare e donna, era nelle ricerche junghiane. Soggetto della donna-luna che ricorre molto in Pollock, quasi ossessivamente, in questi anni. Alcuni tratti picassiani (es. occhi a triangolo). Il corpo stesso viene quasi smembrato da una forza circolare, reso per frammenti, parti anatomiche, in un vortice di estrema energia e libertà, dove il tratto espressivo di Picasso si smembra, si apre completamente e diventa quasi astratto. La spiegazione di questi esiti è probabilmente nell’incontro con la pittura di Masson (André Masson, Meditation on an oak leaf). Opera di Masson: microcosmo di forme cellulari, embrionali viene dipinto con una continuità immaginifica a partire dal piccolo nucleo che suggerisce la continuazione circolare, spiralica, creando proprio un microcosmo astratto, biomorfico, cellulare. Vediamo che questa idea di lasciarsi guidare associativamente da un primo nucleo problema che una generazione precedente aveva posto. Non solo, ma consegna alla sua generazione (un’altra generazione) una tecnica per poter andare molto di più verso il contenuto latente. Pollock risolve il problema nella misura in cui si può risolvere. Il problema in realtà è irrisolvibile. Lui semplicemente si avvicina al massimo della sua risolvibilità. Il contenuto latente in Pollock è un’energia corporea. Lettura greenberghiana: la pittura di Pollock a suo modo propone una serie di soluzioni che si avvicinerebbero all’essenza della pittura, del suo medium. Osservazioni greenberghiane nelle opere di Pollock: non c’è un centro compositivo; c’è una tendenza all’all-over; non c’è una gerarchia; c’è la flatness; c’è il formato. Altri elementi: i filamenti sono sia linee sia colore, ma anche nessuna delle due cose. Pollock elimina l’idea del contorno, che ancora esisteva in molta pittura astratta, perché Greenberg direbbe che è il contorno è un residuo di figurazione. Tutti i quadri geometrici hanno un contorno, qualcosa che distingue la figura dal suo sfondo. Se io rendo ambiguo questo rapporto tra linea e colore, questo rapporto figura-sfondo svanisce. Colore e linea non sono più distinguibili. La linea non fa da contorno, la linea è portatrice di colore, ma non è nemmeno più linea. Non abbiamo più aree cromatiche. Il colore è talmente assottigliato da non essere riconducibile a nessun elemento associativo. Problema: questi colori, stesi in una area, possono però ancora suggerire un valore naturalistico, valori di profondità e di affioramento. Anche la pittura viene stesa senza l’idea di colorazione: non serve a dare un valore tonale al quadro. Dunque, Pollock elimina altri fattori che sono dei residui della figurazione della pittura. Io posso leggere i quadri di Pollock come l’esito giovanile del surrealismo o come l’esito giovanile di Greenberg. Ma non si schiera da nessuna delle due parti. Questi filamenti sono il risultato di una azione diretta. Quello che noi vediamo non è un segno che cerca di mimare qualcos’altro. Noi vediamo un segno che esprime l’azione che l’ha prodotto. Noi leggiamo il processo compositivo in totale trasparenza. La pittura parla di per sé, senza la sovrapposizione di significati che non le appartengono. Dunque, il quadro esprime energia, aleatorietà, groviglio, intensità, ma lo fa sempre attraverso il suo processo esecutivo. I segni in semiotica sono stati studiati a lungo e sono molto problematici. Ci sono molte teorie che ci consentono di capire. Una delle teorie più accreditate per tanti anni è stata quella di Peirce, uno statunitense che alla fine dell’Ottocento aveva messo appunto uno studio sistematico di tutti i segni. Le tre categorie principali erano state: il simbolo, l’icona e l’indice. L’icona è un segno che funziona per somiglianza. Il simbolo è un segno che funziona per legame concettuale (es. cerchio come simbolo di perfezione). L’indice è la traccia, l’orma di un piede sulla sabbia, una bandiera che ci mostra che è il vento che la muove ecc., cioè quel segno che deriva da una azione fisica. La pittura di Pollock è fondamentalmente questa terza categoria allo stato puro: sono tutti segni indicali quelli che lui rappresenta, risultato di un’azione pura, che si lasciano vedere come risultato di un’azione pura. Quindi, quello che dobbiamo fare prima di tutto davanti ad un quadro di Pollock non è cercare significati difficili, interiori, ma è guardare il quadro e leggerlo in modo indicale, come il risultato di una azione e attraverso questo risultato di una azione cominciare a leggerlo e entrare all’interno di questo quadro. Nella carriera di Pollock il dripping investe gli anni centrali e continua fino agli anni ’50. Jackson Pollock, Autumn Rhythm → quadro che comincia ad invadere molto di più anche i margini della tela. È uno dei pochissimi quadri dove Pollock inserisce l’elemento di allusione figurativa (usa colori d’autunno). Questo perché ad un certo punto della sua carriera (verso la fine) Pollock, rigettando le letture troppo schematiche e rigide del suo lavoro, pare che cominciasse di nuovo a tornare alla figura. Dunque, è problematico sapere quanto Pollock fosse intenzionato a condurre il surrealismo o il modernismo agli ultimi esiti o quanto non fosse più interessato alla propria libertà di esprimersi in totale libertà. ESPRESSIONISMO ASTRATTO L’espressionismo astratto è una definizione che Greenberg diede della pittura di Pollock e di altri artisti, cioè una forma di espressionismo con un elemento espressivo individuale e di astrazione allo stesso tempo. Altri critici parlarono piuttosto di action painting, cioè di “pittura di azione”, leggendo proprio l’elemento indicale, l’elemento performativo del gesto pittorico. Le due etichette stanno per la stessa cosa → espressionismo astratto: generazione di pittori americani che durante la Seconda guerra mondiale incontra esuli e artisti d’avanguardia europea, in particolare i surrealisti, e con essi apprende tutta una eredità dell’avanguardia europea che poi prosegue. L’espressionismo astratto è un movimento che va dai primi anni ’40 fino alla crisi (’50-’60) in cui con varie declinazioni, in varie latitudini, in America sotto l’etichetta di espressionismo astratto e in Europa sotto quella di informale, sperimenta una pittura di macchia, di gesto, di materia, di indicalità, dunque, esplora aspetti della pittura che sono più materiali, più indicali. Dunque, una forma di pittura astratta che però rigetta la geometria astratta del primo Novecento e si rifà piuttosto ad esperienze di attrazione in senso esistenziale, espressivo. L’espressionismo astratto segna anche un altro passaggio fondamentale, un passaggio di consegne: con la nuova generazione di pittori americani l’America e New York diventa la nuova capitale dell’arte, spodestando Parigi. Abbiamo un vero e proprio passaggio fisico e storico di consegne fra la Francia, Parigi, le avanguardie e New York e l’America. Lezione 12 È un momento di snodo cruciale, da qui l’arte del Novecento prende una strada di apertura/espan- sione. Altri pittori che fanno parte dell’espressionismo astratto e che non sempre vengono ricono- sciuti da Greenberg. Gorky Gorky è di origine armena, sfugge dal genocidio e ha una storia drammatica, la madre muore mentre è giovane, quindi lui raggiunge il padre in America, ma il ricordo della madre resta in Gorky e lo inse- risce nei suoi quadri. Arshile Gorky, The Artist and His Mother, 1926- 36, olio su tela, 152,4 x 127,6 cm, Whitney Mu- seum of American Art, New York Importante, infatti, è il celebre ritratto di Gorky con la madre, realizzato tra il ‘26 e il ‘36, ricavato da una sua foto privata che porta con sé quando raggiunge il padre in America. L’immagine della madre e del bambino con un mazzetto di fiori deriva dalla fotografia, ma Gorky la rielabora con un linguag- gio che fonde Picasso e Matisse. Per un periodo studia la pittura di avanguardia, e ne fa uno studio sistematico che lo porta a cono- scerla profondamente. Il risultato finale è una foto dai volti pallidi, smunti che ricorda il fatto nefasto e anche la pittura malinconica di Picasso prima del cubismo e degli anni Venti. Pablo Picasso, Arlecchino, 1923 olio su tela, 130 x 97 cm, Ludwig Museum, Colonia L’arlecchino ha uno sguardo malinconico, ha una colorazione variopinta nella veste, ma non c’è una coerenza cromatica, sbavature, vengono creati effetti di slittamento e anche auto-dichiarazione pit- torica. Quasi come se prima gettasse il colore e poi colorasse. Un colore dopo l’altro, come Matisse. Sagome Piatte, pure, stesura energica matissiana, tavolozza più bassa. A metà tra il ricordo e la rimozione sembra che da un lato voglia cancellare l’immagine. Libertà gestuale con senso esisten- ziale. Arshile Gorky, The Liver is the Cock’s Comb, 1944, olio su tela, 191 x 255 cm, Albright-Knox Gallery, Buffalo Costruire un quadro con fondo pittorico completamente astratto, dal quale affiorino delle forme evocative ambigue, organiche, biomorfe, ma mai precisamente descrittive. Sviluppa la pennellata a contrasto, riprende Matisse, i colori sono uniti ad un tratto nero incisivo con cui descrive lingue, piume, forme ovoidali che affiorano. Immagine che si costruisce per frammenti, suggestioni, sined- dochi. Gioco di parole che allude alla vanità maschile, al gallo, ma anche volgare. In cima ci sembra di ve- dere una testa di un gallo, ma potrebbe essere una suggestione data dal titolo o forse l’immagine ha suggerito il titolo. Gorky inizia a rielaborare una pittura con pennellate tremanti che mostrano come la campitura di un’area cromatica sia un atto, dà valore all’atto gestuale con un tratto miroiano. Arshile Gorky, Studio per The Liver is the Cock’s Comb, 1943 La pittura di Gorky non è di improvvisazione, nasce da studi attenti nei quali prefissa le aree del quadro in cui fisserà le immagini biomorfe, è il frutto di un lavoro preparatorio molto accurato. Hanno tutte a che fare con la boria maschile, la sessualità sorda e cieca, temi anche del surrealismo francese. Tratto sicuro con cui progetta il quadro, lo definisce e poi lo realizza. Siamo dentro l’espres- sionismo astratto per la tensione, ma non si deve confondere con l’istintività di Pollock. Gorky ha una serie di eventi tragici, si suicida, ha un cancro, lo studio va in fiamme. Fase finale di Gorky Arshile Gorky, The Plough and the Song, 1946-47, olio su tela, 134,2 x 155,7 cm, The Art Institute, Chicago Le forme si purificano, il pullulare convulso del ‘44 diventa più chiaro, il segno è più sicuro, pur re- stando comunque ambiguo. I tratti pittorici sono sempre quelli di Matisse, abbiamo le forme che ricordano Mirò (es. il calzare), anche il soggetto è molto miroiano, allude ad un momento in cui fre- quenta la campagna americana e lì scopre la possibilità di una civiltà pre-moderna, in contatto con l’agricoltura (come Mirò) e questi oggetti come l’aratro iniziano ad essere suoi soggetti. Roberto Matta Roberto Matta, Psychological Morphology,1938 olio su tela, 72,4 x 92,8 cm, The Art Institute Chi- cago Uno dei primi attivi che inaugura la possibilità di un paesaggio onirico, surrealista. Influenza anche i colori. Dà vita a paesaggi casuali ed immaginari Uno dei possibili esiti della teoria di Greenberg è quello di un quadro monocromo, espressione di puri valori cromatici. Pittura che tende a ridursi a pochi contrasti cromatici, se non al monocromo, pittura che si riduce a pura stesura cromatica. Rothko Inizia alla fine degli anni trenta con pittura di ispirazione surrealista nella quale rielabora miti di pit- tura ebraica, periodo dell’olocausto, dipinge il toro assiro che ha a che fare con la diaspora ebraica, l’oppressione del popolo ebraico riportata dall’immagine mitologica Junghiana. Linguaggio picas- siano, primitivista. Passa ad una pittura di puro colore. Negli anni Cinquanta ai multiform: quadri di pure bande cro- matiche, pittura di puro contrasto cromatico. Il contrasto è protagonista del quadro. Valori di dissol- venza: risolve i passaggi di tono. Il quadro è la compresenza di un contrasto cromatico che si risolve con la scelta delle tinte a contra- sto opacizzante o diafano. La sua pittura mantiene un assetto esistenziale: idea mistica di immersione nel colore come trascen- denza che lo spinge anche a decorare luoghi sacri. Tensione mistica della pittura. Aspetti formalisti ed esistenziali. Sam Francis Gesti cromatici, sono spugne, tamponi, pennellate a pennello largo, sgocciolature con cui crea scene celestiali la cui intensità cromatica dipende dalla scelta dei contrasti, la qualità della pittura e il grado di assorbimento del colore da parte della tela creando affondamenti e reversioni. I colori riportano a Matisse. È una serie che nasce dopo un viaggio europeo, probabilmente dopo un contatto diretto con i quadri di Matisse. Pittura di puro colore più gestuale di quella di Rothko, ma il risultato è lo stesso: pittura monocolore. Fino ad arrivare a Morris Louis Opera a Washington, in cui crea una piccola scuola con arti artisti tra cui Noland, molto interessato alla pittura di puro colore, ma anche all’idea pollockiana di una pittura che si genera attraverso un’azione fisica controllata dalla mano dell’artista. Dopo l’incontro con Helen Frankenthaler che gli insegna una tecnica che adotterà nel suoi quadri nel ‘58. Sono quadri di velatura, ottenuti ponendo la tela in orizzontale, si procura il magna, una sorta di acrilico molto fluido che permette stesure velate/diafane che ha una presa e un asciugatura rapide. Questi colori spingono Louis verso una tecnica priva della mano e del pennello. Versa sul bordo della tela orizzontale del colore, i punti di versamento sono quelli più densi, poi inclina la tela orien- tando l’andamento della macchia. Pittura di puri valori formali cromatici eliminando l’esistenziali- smo di Pollock, ossia il gesto umano, la mano. La sua pittura deriva da questa manipolazione indi- retta, il risultato deriva da queste velature di colore. Il risultato deriva dall’incontro di due superfici. Louis ha tratto da Pollock il fatto che la pittura potesse essere un procedimento che eliminava del tutto il controllo del soggetto, la pittura appare per quello che è: un colore che si deposita su una superficie a prescindere dall’intervento umano. Si arriva ad un altro artista che giunge al monocromo: Newmann Conosce il dripping di Pollock, l’espressionismo astratto e già nel ‘48 prende una via indipendente, sceglie di prendere dei quadri con superficie moncroma in cui inizia ad apporre un unico gesto pitto- rico, una linea verticale che attraversa il quadro dalla sua sommità alla base. Onement, I Il primo quadro che realizza è Onement, rafforzativo di essere unico, compatto, unitario. Chiama le bande verticali zip perché secondo lui hanno doppia la funzione di dividere e separare, unisce e di- vide contemporaneamente le due parti. È il grado zero della pittura, la proiezione dell’unico dato che rimane come residuo di mimetismo in un quadro astratto, cioè la stazione retta dell’osserva- tore. Anche davanti ad un monocormo che non ha un altro e un basso, io nella mia persona in verti- cale stabilisco un alto e un basso, un rapporto essenziale tra un me che osservo un colore. Sceglie di tradurre la presenza dello spettatore con una banda verticale che percettivamente indica la posi- zione verticale del quadro, la gravità a cui siamo soggetti. È un’idea di un gesto unico, essenziale che fissa un valore universale. La sua prima zip è un valore ge- stuale, prima un nastro adesivo su cui lui dipinge, è una pennellata unica, un gesto, nella trama irre- golare di questo gesto sentiamo che è un’azione umana. Si concentra su questo residuo e cerca di stabilire qualcosa che rimuova la percezione del gesto umano. Vir heroicus sublimis Espande nel ‘50-’51 la sua ricerca attorno l’idea della zip. Arriva ad un’idea di quadro essenziale, mo- nocroma che rispetta i criteri di Greenberg senza il dripping. Quadro piatto (flatness), non modu- lato, come stesura pittorica è un all-over (tutte le parte del quadro sono dipinte con la stessa tec- nica). La relazione principale è quella con il formato, sul quale inserisce le zip che creano dei mo- menti discreti che rompono in continuum della tela, ma non creano nessuno degli effetti estranei alla pittura di cui parlava Greenberg: non troviamo nessuna forma chiusa (non rappresentano dei rettangoli o dei quadrati, non abbiamo contorni chiusi, sembra più siano linee che continuano all’in- finito) → in questo modo rimuove le forme chiuse di Mondrian. Nessuna forma chiusa è nel quadro e non può generare un’attenzione gerarchica) → no attenzione gerarchica. Le linee cromatiche non sono dei contorni, non hanno un rapporto di piani (non possiamo dire se una linea è più avanti dell’altra) e non hanno rapporti di simmetria – per pochi centimetri non è così. Lo spessore delle li- nee varia, ma non suggerisce nulla (non è in rapporto con i piani come con non.). Situazione di sospensione, equilibrio, nessuna affermazione gerarchica è vera. Newmann vuole stabilire un linguaggio di pittura che sia unico, non viene apprezzata la forma in sé, ma porta a riflettere sulla funzione della forma. Nel pensare che la pittura sia un’esperienza unica, che si possa riflettere anche guardando. L’espe- rienza del sublime è un’esperienza in cui l’uomo scopre la sua grandezza infinitesimale rispetto all’universo, Kant dice che laddove io ho un’esperienza che i miei sensi non possono conoscere, en- tra un campo, un’azione di inferenza, devo immaginare quello che non posso raggiungere e questo atto è un limite, ma anche necessario, è l’atto con cui l’uomo inferendo conosce, senza questo lan- cio l’uomo non sarebbe quello che è. È un’esperienza non religiosa, ma trascendente. Esperienza in cui vedo delle linee, una gerarchia che non si completa, quindi, sento che la mia co- noscenza è una forma di inferenza, non posso chiudere la forma, non posso chiudere la partita. Questa è una caratteristica dell’arte, può far riflettere da un atto di trascendenza. Lezione 13 L’utilizzo delle zip comporta all-over, composizione anti-gerarchica. Non c’è mai una lettura defini- tiva. Non c’è più un rapporto tra il fondo e la figura (possiamo concepire le zip come qualcosa che sta sullo sfondo rosso, ma le zip sono di due colori diversi), non c’è più un contorno (non abbiamo più una relazione tra la linea e la forma chiusa), non abbiamo nemmeno la relazione tra la linea e il piano. Nessun elemento formale può dirsi prevalente, non abbiamo nessuna simmetria, le bande di colore arancione ai lati non sono equidistanti, a differenza di quanto sembra → primo effetto di ri- cerca della simmetria che viene eluso. Non abbiamo nessun effetto di prevalenza tonale, nessuno prevale gerarchicamente sugli altri. È un tipo di pittura che risolve problemi e aggiunge a questa ri- cerca ulteriori sviluppi, arrivando ad una composizione non gerarchica, non sentiamo nessun anco- raggio ad un centro, si apre ad un infinito, ad un’esperienza sublime. Nel 1964 Greenberg torna sui suoi ragionamenti e conia il termine “Astrazione post-pittorica”, pitto- rico viene utilizzato da Greenberg per definire il suo nuovo problema che deriva dal tedesco Malevic che veniva utilizzato da Bulfin nei suoi studi sul barocco e rinascimento: cercare di capire cosa distin- guesse il barocco dal rinascimento. La forma chiusa è la forma del rinascimento, la forma aperta è barocca. Il suo libro inizia da una distinzione tra due categorie formali: il Malevic (pittorico) e il li- neare, lineare categoria del rinascimento, Malevic barocco. Il lineare fa riferimento alla linea, quindi all’uso del contorno, secondo Bulfin il contorno viene utilizzato nel rinascimento per dare con esat- tezza i limiti di una figura (nella realtà non abbiamo un contorno, è un’astrazione fatta nel disegno poi trasposta nella pittura), la rappresentazione del contorno viene usata nel rinascimento per dare il senso plastico della figura, per rappresentare una figura chiusa e tridimensionale, dunque il chia- roscuro è una categoria che riguarda sia il barocco che il rinascimento, ma che nel rinascimento ap- poggia il contorno. La solidità della figura è affidata anche dall’esperienza tattile. Il Malevic invece è l’indefinito, la pittura di macchie di colore che sborda, perde un po’ la plasticità della forma, ma che dà dinamicità e vivacità alla forma e realizza un effetto ottico. Contrappone il lineare con l’ot- tico. Lineare è l’arte dell’Ottocento accademico, il Malevic è l’impressionismo. Troviamo sempre tensione interiore, sostrati drammatici che spiccano. Gusto per la matericità del pigmento, si dipinge a pasta alta, con mani, pennelli, direttamente da tubetto, mescolando mate- ria, sabbie, ottenendo impasti con effetti materici pronunciati, le superfici si crepano etc. Si ha sempre drammaticità esistenziale, consunzione della materia e dramma individuale. Abbiamo una serie di mostre che manifestano questa tendenza a parigina: • Galleria Drouin personale di Jean Dubuffet; • Personale del ‘45 di Jean Fautrier; • Personale alla fine del ‘45 di Wols. Vicende biografiche diverse, ma che convergono in quegli anni su Parigi. Attirano la critica che vede in loro una nuova proposta che si discosta dal surrealismo e che sembra tenere conto anche di altre componenti, come il dramma della guerra, la distruzione dell’Europa, la crisi di una civiltà. Questi pittori vengono poi raccolti in un’antologia che nel ‘52 viene scritto da Tapies ”Un’arte altra” che sca- nonizza il formale. Fautrier Fautrier espone a partire dal ‘45 una serie di lavori realizzati nel periodo della guerra durante l'occu- pazione nazista della Francia. Pittore attivo già negli anni ‘20 e ‘30. La sua sembrava una pittura simbolista. Elabora durante una guerra la tecnica che chiama “Enduit”: stesure magmatiche conci- tate bicolore a pasta alta, dalle quali poi si va a sottrarre del colore e della materia sgraffiando. Cancellazione e colorazione. Tecnica che lo accomuna a Wols. Nel ‘45 espone un ciclo di lavori che si chiama “Teste di ostaggio”. La storia che sta dietro è con- nessa con la vicenda bellica: si era rifugiato nella periferia della Francia soggiornando in un paese dove c'era un dottore suo amico, vicino a questo luogo di cura c'erano i nazisti e venivano compite delle esecuzioni al quali assistette ascoltandole. Trauma più profondo che immagina. Trauma le- gato all'olocausto che lo segnò in modo indelebile. Da qui nasce la tecnica che gli dà l'idea delle te- ste di uomini anonimi sfregiati morti vittime silenti dimenticate di un conflitto disumano. Strati bianchi di gesso con i segni sottostanti. Idea infantile di volte dove applica intonaco di colore azzurro e poi segna occhi e nasi, membra, connotati anonimi di vittime della guerra. Suono informale negato all'idea di una denuncia. Jean Dubuffet – Art Brut Negli stessi anni si fa strada Jean Dubuffet autodidatta, la famiglia commerciava vini, nel ‘30 aiuta l'azienda e poi passa alla pittura. Nel ‘44 fa una mostra, ma nel ‘46 crea più scalpore, espone Miss Cholera. Sulla scorta delle lamen- tele dei surrealisti si concentra sull'arte di tutte quelle persone che non avevano mai ricevuto un'e- ducazione artistica. Per distinguersi dai surrealista dà un’ancestrale autentica dell'uomo. Conia il ter- mine di ART BRUT si concentra sulla visceralità autentica dell'espressione artistica. È un’arte che chiunque può praticare, tutti siamo in qualche modo artisti. Abolire l'artista come figura colta. Ar- tista interessante colui che riesce ad attingere ad un linguaggio primordiale. Miss Cholera, 1946 Brutto, deforme, materie basse, detriti, impasto pittorico che ricorda il fango, pasta sgraziata sulla quale incide in negativo il seno, l’ombelico, gli occhi ed il naso. Sporco, detrito, reietto, grado auten- tico dell'esistenza umana. Figura come la potrebbe disegnare un bambino. Mostra dedicata l''inventore del Bitume macadam. Idea di arte orizzontale, trasversale. Wols Tedesco in Francia, vita di stenti, sfugge al nazismo. Fotografo macabro di nature morte con una fo- cale lenticolare. Nel secondo dopoguerra percorso pittorico verso l'informale. Accentua l'idea del segno e dell'energia pittorica. La granata blu Bomba dal centro scuro al bianco del quadro, forma catartica di dimenticare o ricordare. Cerchio istintivamente tracciato, da cui propagano segni pittorici, macchie centrifughe che vanno verso la periferia del quadro. Sgraffia la tela energia pittorica che ricorda Pollock. Forma di dipingere che ci mostra il gesto. (videolezione) Contesto Italiano Pittura informale che si avvicina a quella americana Alberto Burri • Concepisce una pittura che si fa sempre più materia rinunciando alla pennellata; • Attraverso i materiali. Pittura che si ottiene lavorando su un'azione fisica sui materiali del mondo. Lucio Fontana • Dalla pittura verso una nuova sensibilità spaziale (58); Questi due hanno un'importanza mondiale. Alberto Burri Alberto Burri è originario di Città di Castello, autodidatta, studia da Medico e viene inviato sul fronte da medico. Viene fatto prigioniero dagli americani e portato in un campo di prigionia in Texas. Tra- scorre lì tutto il resto della guerra, per riempire il tempo inizia a dipingere. Non sappiamo dove ap- prende tutto, i primi quadri noti sono paesaggi del Texas dipinti nel campo di Prigionia. Nel ‘45-46 sperimenta con la materia e lavora per cicli (catrami, materia densa, lucida, sgradevole) gobbi nel retro della tela, fili di ferro, protuberanze intervengono fisicamente sul supporto. Sacco di Juta – SZ1 del ‘49 Lo ritaglia come un collage all'interno di un quadro astratti (SZ1 del ‘49, cioè sacco zucchero). Fondo di pittura bianca sul quale una linea spessa che corre da un bordo all'altro creando dei poli- goni irregolari (Arp), all'interno di questi spazi incatena ritagli che contengono stelle e strisce. Sacchi che durante il piano Marshall contenevano rifornimenti di beni alimentari primari. C'è arrivato attraverso la sua vicenda biografica. L’America rappresenta la nazione che soggioga e colonizza lo stato italiano. Italia come pedina fondamentale. Politiche ingerenti nei confronti dell'Italia pur di tenerla nel blocco occidentale. Forma di coloniali- smo culturale. Emblema della miseria e distruzione, per via di elemosina dell’Italia. Indizio di interesse per materiale povero emblema di un materiale povero di un paese mai del tutto industrializzato. Italia messa in crisi. Nel 1952 Burri comincia ad inserire i sacchi come materia principale del quadro, fino a farne i pro- tagonisti assoluti. La juta si presta benissimo al suo scopo, texture, il tempo la cambia, lacerazioni e buchi a vista o rattoppati. Grandi aree cromatiche in cui in alcune appone dei colori essenziali ed in altre distende la superficie di un sacco di iuta. A quel punto l'intervento pittorico è dato dalle ricuci- ture, strappi e posizione di rattoppi. Quadri piatti, composizione di un'astrazione organica. Astratti composti attraverso sacchi. Materia pittorica densa, sofferta, lacerata, irregolare, muovono la su- perficie del quadro con la stessa materialità. Espressione dell'elemento drammatico. Serie sacco 5p superficie quasi monocroma, uniche variazione date dagli elementi del tessuto, lace- razione, buchi toppe. All'interno dei quali aggiunta plastica rossa come bruciata, elemento dram- maticp. Ferita epidermica. Manifesta in modo astratto dramma e violenza guerra e professione di medico. Enrico Crispoli, James W(?), critici che appena lo notano daranno un'interpretazione esistenziale. Traduzione post-surrealista del dramma della guerra. La accoglie ma non sappiamo (stessa ambigutà di Pollock). impareggiata nell’arte italiana e anche internazionale. Fontana, quindi, si concentra su un solo gesto che crea una tridimensionalità nuova. Non più lo spazio misurabile della geometria euclidea, non più lo spazio matematico della prospettiva, non più lo spazio soggettivo dell’occhio umano, del piano soggettivo di Cezanne, ad esempio, ma invece lo spazio assoluto, atemporale dell’astronomia, del cosmo, della creazione. L’idea di attesa è l’idea di conoscere che cosa ci attende oltre il nostro spazio terreno o che cosa c’è oltre questo spazio terreno. Tutta la bellezza del gesto di Fontana sta nella sua essenzialità. Anziché illustrare un cielo astronomico, anziché illustrare uno spazio, evita tutto questo e con un solo gesto puro riesce ad ottenere tutte queste suggestioni. È nella bellezza con cui si ot- tiene un effetto e una soluzione con un minimo sforzo, con i minimi mezzi. Fontana diventa famoso per i tagli perché nell’immaginario del dopoguerra è l’artista strampalato, l’artista che non fa nulla, strappa una tela e diventa famoso, ma in realtà dietro la ricerca di Fontana ci sono molti decenni di percorso e di cammino che poi lo conducono a questa soluzione. Questa è l’altra via di fuoriuscita dall’informale, una via che va verso l’ambiente, una via che va verso la de-soggettivazione del qua- dro, che perde questo elemento esecutivo personale, istintuale e assume un gesto di purezza. Dunque, queste due vie: • Burri → manipolazione del supporto e azione fisica, arte processuale (è il processo che fa l’opera); • Fontana → azione fisica sul supporto, espansione in un ambiente, un nuovo spazio. Si perde questo elemento dell’intervento artistico per cominciare ad avere uno spazio trascendente, puro, quindi più concettuale. Processo e concetto: queste sono le due strade con cui l’arte italiana fuoriesce dall’informale. Da questi due artisti nascono delle vie che portano fino ad oggi: arte povera, arte concettuale ecc., tutta una serie di movimenti che da questi due artisti, da questi due insegnamenti percorrono delle vie nuove e indipendenti. Dal nuovo power point: DAL NEW DADA ALLA POP ART Negli anni ’50 ci sono anche altri movimenti che abbandonano l’informale oppure ne modificano al- cune premesse. Partiamo da quel movimento che la critica americana della fine degli anni ’50 chiama New Dada, cioè nuovo dadaismo. New dada: è una sigla che sta a significare la riscoperta da parte di alcuni artisti americani del dadai- smo. Sappiamo che il dadaismo era un movimento talmente frastagliato ed eterogeneo che è molto difficile identificare in una singola componente caratteristica la sua influenza sugli artisti. Robert Rauschenberg È un artista che studia al Black Mountain College, un’accademia di arte ispirata ai principi del Bau- haus che nasce negli USA. All’inizio degli anni ’50 viaggia in Italia e incontra Alberto Burri. È un incon- tro di cui Rauschenberg parla poco, ma è un incontro determinante. All’epoca Rauschenberg è un artista molto influenzato dal surrealismo. Realizza delle piccole cassette con degli oggetti trovati nel mondo in modo associativo. Si compongono con i viaggi, con le esperienze, il risultato della raccolta di materiali che Rauschenberg fa nella sua vita. Ad un certo punto al Black Mountain College Rau- schenberg inizia a realizzare una serie di quadri in cicli: prima le white paintings e poi le black pain- tings. Sono quadri o tutti bianchi o tutti neri. Hanno una stesura pittorica molto densa, materica, che ricorda un po’ l’informale, ma la loro caratteristica per Rauschenberg è una sola: sono come una ta- vola rasa, quella tavola in cera che ospita tutti i segni che le vengono apposti. Queste tele, cioè, viag- giando, essendo bianche (quelle bianche), recano la traccia dell’impronta di chi le manipola, la pol- vere dei luoghi in cui sono, cioè recano traccia della loro storia fisica, di quello che avviene. Sono bianche appositamente, perché nella loro purezza mantengono memoria di tutto quello che avviene su di loro. In questo senso Rauschenberg si ispira al Silenzio di John Cage. Questa composizione di John Cage consiste nel fatto che Cage apra un pianoforte, conti nelle battute musicali il trascorrere di quattro minuti e trentatré secondi, rimanendo perfettamente in silenzio. Cage pone l’accento sol- tanto su un elemento: il fatto che la musica avviene in un contesto. Quello che avviene nei quattro minuti e trentatré secondi è l’attenzione del nostro udito portata sui rumori ambientali. Il silenzio non esiste. Cage quindi ci mostra che in ogni contesto esecutivo l’ambiente sonoro varia, è un ele- mento determinante di interferenza con l’esecuzione musicale, perché il suono è un fenomeno fisico che avviene in un contesto, sono delle onde d’aria che si muovono nello spazio. C’è un’idea perfetta- mente dadaista, che è quella del contesto che fa da sé il significato dell’opera. Non solo: come nelle white painting, ogni contesto lascia sull’opera la sua traccia. L’opera quindi è un ricettacolo, un posto dove si accumula quello che esiste. Questa idea dadaista diventa fondamentale per Rauschenberg. Rauschenberg inizia a cambiare la pratica artistica sulla scorta di Schwitters: accumula materiali nel suo studio, materiali di ogni genere e poi inizia a comporre l’opera partendo da questi materiali, la- sciandosi suggerire dai materiali il loro arrangiamento formale e costruendo l’opera o il significato a partire dai materiali. Con una differenza però: Rauschenberg non vuole indagare se stesso, ma ci pone davanti all’esperienza del mondo, quando noi poniamo attenzione alla caoticità del mondo. Rauschenberg accoglie la caoticità del mondo così com’è e l’opera diventa la testimonianza di quel momento, di quella fase esecutiva. Sicché una delle prime opere è: Robert Rauschenberg, Monogram → gli elementi della natura e della cultura capitalista convivono. Una capra imbalsamata cinta da uno pneumatico. La scultura convive con la pittura. Rauschenberg prende questi oggetti e se ne appropria con il gesto tipico dell’espressionismo astratto, che è il gesto vitale dell’artista, ovvero dipingere istintivamente direttamente col colore. Il volto della capra è se- gnato da queste macchie di colore, dal gesto del pittore. Sulla tavola vediamo quasi un quadro espressionista che fa da piedistallo, dove casualmente si trova collocato una pallina da tennis, il resto di una insegna di legno colorata, i detriti della ? che Rauschenberg assembla nel suo studio. Un critico, guardando tutto questo, capisce che siamo davanti ad una nuova fase. C’è anche l’impor- tanza di un nuovo pensiero che trascende e supera Greenberg. Per Greenberg tutto ciò era inaccet- tabile: pittura astratta mescolata con la figurazione, effetti della scultura resi pittorici, pittura resa scultura. Questa è l’ibridazione per antonomasia, è l’ibrido che si manifesta in sé come forza vitale nella nostra vita quotidiana, ma anche come forza distruttiva. Questi materiali del mondo sono ma- teriali soggetti al consumo (es. pneumatico). Questo statuto di detrito viene riscattato da Rauschen- berg, che si appropria dell’oggetto e lo mette in una nuova posizione. Dunque, anche la cultura di massa, del consumo convive con la cultura alta dell’astrattismo. È praticamente la negazione di Greenberg in tutti gli aspetti. Il critico si chiama Leo Steinberg, che nel 1972 scrive un testo dove parla del Flatbed, cioè il pianale. Dice che l’arte di Robert Rauschenberg in particolare (ma non solo) propone una nuova idea di superficie pittorica. Non si tratta più della superficie del quadro da caval- letto, che si pone in verticale, bensì di un pianale. Steinberg ci spiega che il pianale è una superficie concreta che può essere tanto orizzontale quanto verticale, dove noi nella vita attacchiamo insieme degli oggetti, che sono i segni della nostra vita, li facciamo convivere in questo spazio. Un pianale è tanto un tavolo quanto una bacheca, tanto una lavagna quanto una mappa distesa per terra. È cioè una superficie dove le cose, gli oggetti, i segni hanno una posizione topografica, non sono composti in relazione al campo ottico verticale, ma sono appoggiati, collocati, posizionati in una mappa. Quello che il pianale ci restituisce è la posizione di questi elementi. Dunque, il modo di comporre cambia completamente. Non c’è più soltanto il dominio ottico, non c’è più soltanto lo statuto verti- cale del quadro, ma il quadro può stare anche in orizzontale, è intercambiabile. Questi oggetti sono posizionati, non sono composti per lo sguardo della stazione eretta. Dunque, la superficie pittorica cambia e diventa un luogo che accoglie come un pianale le cose, gli oggetti, gli eventi del mondo così come accadono nella prossimità, nella contingenza del momento. L’esempio più didascalico di questa idea è un’altra opera di Rauschenberg: Rauschenberg, Bed → è un letto con una coperta consunta, usata, un guanciale, un cuscino, di cui di nuovo l’artista si appropria attraverso il dripping di Pollock, cioè il gesto dell’espressionismo astratto, la colata di colore, convertendolo in una sorta di quadro in cui interagiscono gli interventi pittorici e la texture vera degli oggetti. Questo letto, anziché in orizzontale, è portato in verticale con questa idea di intercambiabilità. Ma che cos’è un letto? È un pianale, un pianale dove si svolge la vita (sesso, sonno, riposo, lettura ecc.), è quanto di più aderente alla nostra vita biologica e corporea che pos- siamo immaginare come casa. Dunque, il luogo in cui corpo e vita si congiungono, cioè è l’oggetto che fa parte di questo e che ricongiunge l’arte con la vita (la convinzione di Rauschenberg). Arte come appropriazione della vita così come si presenta. Se questa è l’uscita da Pollock che va nella direzione della vita, dell’assemblage, della procreazione (tutti temi del dadaismo), all’opposto abbiamo un pittore di nome Jasper Johns che condivide negli anni ‘50 lo studio/atelier a New York con Robert Rauschenberg. Alla metà degli anni ’50 i due lavo- rano l’uno accanto all’altro. Il risultato pittorico però è del tutto opposto. Da un lato vediamo il caos della vita, dall’altro la banalità di un messaggio iconografico chiarissimo. Jasper Johns, Flag → quadro in cui chiunque riconosce la bandiera americana prima del ’58 (dopo il ’58 si aggiungono due stati e quindi le stelle diventano da 48 a 50). Vediamo che la composizione del quadro coincide totalmente con il suo soggetto, una bandiera. Cosa c’è di dadaista? Johns non in- venta il suo soggetto, ma lo prende così com’è. Non deve inventare nulla. Quello che ha scelto gli detta la composizione del quadro. Non solo: è un gesto di appropriazione di banale, di comune, di qualcosa che già esiste, quindi, è simile (ma non uguale) all’operazione che Duchamp fa con l’orina- toio. Solo che qui, quando noi osserviamo questo quadro, ci rendiamo conto che il quadro in realtà è dipinto, perché ha una trama irregolare, materica, che registra le singole pennellate con cui Johns ha ottenuto il quadro. L’opera è ottenuta con questa tecnica: Johns stende sulla tela dei giornali e gli incolla, in modo da ottenere una superficie molto liscia e che non assorbe il colore: poi mescola il pigmento con la cera. La cera ha un vantaggio: è spessa, materica, malleabile e registra la traccia del gesto che la segna. Sicché lui ottiene una perfetta colorazione piatta, ma il quadro lascia vedere la sua lavorazione, cioè ci mostra le pennellate, che sono un po’ caotiche (ci ricordano le pennellate dell’espressionismo astratto). Johns raggiunge subito il successo: nel ’58 diventa, giovanissimo, un pittore molto celebre, perché a tutti sembra una geniale fuoriuscita dal formalismo di Greenberg. Questo quadro rispetta la flatness? Sì. Rispetta l’all-over? Sì. Dunque, Johns ci mostra che è possibile rispettare perfettamente i punti teorici di Greenberg senza sfociare nell’astrazione. Posso fare un quadro flat, all-over, senza spazio, senza piani ecc. Posso fare questo mantenendo un quadro perfet- tamente figurativo. Come si può ottenere questo? Nell’unico modo che Jasper Johns trova: scegliere come soggetto qualcosa che sia piatto di per sé (bandiera, mappa, bersaglio ecc.). Johns dimostra che attraverso un gesto che ha un’ispirazione dadaista, cioè appropriarsi direttamente di qualcosa che è già piatto, si può ottenere qualcosa di perfettamente figurativo rispettando le idee di Green- berg. Questo è il gesto che pone più in crisi di tutti le convinzioni di Greenberg, perché mostra la pa- radossalità delle conclusioni di Greenberg, cioè il fatto che non è detto che l’esito finale della pittura che Greenberg sostiene (pittura modernista) debba per forza essere un’astrazione totale. Mostrando gruppo che la fruisce (comunità, popolo), è l’espressione di una civiltà. Invece, la cultura di massa non è così: il sistema industriale entra nel fenomeno culturale e comincia ad applicare i sistemi industriali alla cultura. Di qui il termine “industria culturale”, coniato da Adorno. Nell’industria culturale esistono delle figure che pianificano i processi, elaborano dei prodotti per le masse e innescano una catena produttiva e organizzata in forma industriale. Si stabilisce un messaggio, una strategia di marketing, delle politiche di profitto e poi si innesca un sistema per cui esiste un gruppo produttivo, una costruzione in modo tale che poi il prodotto finale possa essere moltiplicato e distribuito ad una larga massa. Dunque, un processo che avviene attraverso figure che fanno parte della cultura di massa, ma se ne distaccano perché pianificano in forma industriale con una strategia di marketing. Questo ingresso delle strategie economiche nella cultura di massa è l’elemento distintivo. In un articolo invece più precoce, del ’58, Alloway ci spiega uno dei fattori più interessanti della cultura di massa e che la contraddistingue dal passato. Dice che la struttura ripetitiva e sovrapposta delle opere di intrattenimento contemporanee funziona in due modi. Il primo modo è che questi prodotti permettono un’attenzione marginale, sufficiente al fatto che gli spettatori possono anche, se vogliono, nel frattempo parlare, bisbigliare, mangiare ecc., cioè sono prodotti pensati in modo tale che una attenzione marginale sia sufficiente per comprenderne lo sviluppo. Questa è la caratteristica principale della cultura di massa, cioè la sua capacità di essere fruita in questo stato di sovrappensiero, disattenzione o di una attività multitasking. Però Alloway dice che la cultura di massa non funziona solo a questo livello, ma ce n’è un secondo. Questo secondo livello è fatto e pensato per “lo spettatore immerso/intento/concentrato”, che desidera invece una partecipazione intensa alla fruizione dell’opera e che, per esempio, è in grado di distinguere all’interno dell’azione che si sta svolgendo, nella narrazione le sfumature più sottili. Alloway ci dice che sostanzialmente la cultura di massa produce dei prodotti culturali che sono capaci di funzionare in due modi: o con poca attenzione o con molta attenzione (e cogliendo delle sfumature). La cultura di massa offre schemi ripetitivi, stereotipati, quindi anche lo spettatore attento può ad un certo punto tralasciare questi fatti scontati, scartare i dettagli ripetitivi per concentrarsi su quelli marginali. Questo doppio livello è fondamentale. L’arte fino a questo momento aveva funzionato su questi due livelli: una comprensione che richiedeva un tempo di attenzione e un livello superiore che richiedeva una conoscenza maggiore. Le opere d’arte pop accolgono questa semplificazione come un processo interessante e mescolano questi livelli culturali popolari con una tradizione o con delle conquiste che appartengono alle avanguardie. James Rosenquist, President Elect → quadro molto grande composto da tre pannelli uniti. Su questi pannelli ci sono immagini dipinte. La composizione di queste immagini sovrappone evidentemente fonti visive differenti. John Kennedy; immagine in bianco e nero di una mano che tiene e spezza una torta; carrozzeria di una automobile, una Chevrolet. La compresenza di questi elementi avviene attraverso due forme che appartengono alle avanguardie. Prima di tutto la composizione segue la logica del collage. Le fonti visive sono accostate senza una ambientazione spaziale coerente, con scale diverse e con una formula associativa che da una parte ci ricorda il cubismo per il collage e dall’altra parte ci ricorda il surrealismo per l’associazione. Dunque, questo artista conosce benissimo questi processi di elaborazione dell’immagine, ma li mescola con icone e simboli della cultura di massa. Rosenquist era stato un pittore che aveva esordito dipingendo grandi cartelloni stradali pubblicitari. Dipingeva grandi formati con una semplificazione dell’immagine che consentiva ad un automobilista di guardare sott’occhio il messaggio che veicolava, un messaggio pubblicitario. Rosenquist si interessa a questo nuovo linguaggio ed elabora un suo linguaggio pop, che fonde i colori sgargianti dei cartelloni stradali con il linguaggio della pittura che derivava dal collage e dal surrealismo. Non c’è collage in questo quadro, ma la logica con cui sono messe insieme le immagini deriva dal collage: l’incongruenza spaziale, la non attinenza immediata tra i tre elementi, scalarità incongrua. Questa immagine in realtà ha un fondo comune, che è la cultura di massa, che accomuna questi tre soggetti insieme. È uno specchio di una città contemporanea, come in un giornale. Le cose si mescolano perché il mondo le mescola, la pubblicità. Vediamo tre icone del consumo: • automobile → status sociale; • torta → nuova industria alimentare o idea di vendere ingredienti per fare torte a casa, quindi industrializzazione del prodotto alimentare. La torta è spezzata, offerta, come un invito alla fruizione, a soddisfare un bisogno primario. Dolce fatto dalla donna (mani femminili); • Kennedy → immagine presa dai manifesti elettorali di Kennedy, che ci presentano Kennedy come il perfetto prototipo dell’americano bianco di origini europee e di religione cristiana, che viene proposto non più come un politico del vecchio sistema, ma come un’icona, un’immagine, un divo, sorridente, bello, giovane, idealista, che propone ai suoi elettori un futuro radioso. Quello che noi vediamo è il consumo della sua immagine. Quindi, in questo quadro c’è la convivenza di tre emblemi della nuova America del dopoguerra, dove le esigenze primarie sono più che soddisfatte e diventano lo status o sovrabbondanza e dove la politica diventa immagine, consumo, alla stregua di un’automobile o alla stregua di una torta. Tra ’62 e ’63 un altro artista americano realizza dei quadri che iniziano ad essere ispirati dai fumetti: Roy Lichtenstein. Lichtenstein adotta un sistema che somiglia un po’ al dadaismo e a Jasper Johns, cioè non inventa le sue immagini, ma le prende direttamente dai fumetti: Roy Lichtenstein, Drowing Girl → questa opera è presa isolando un dettaglio della copertina di un romanzo a fumetto (Run for Heart! Secret Hearts). Lichtenstein sceglie di isolare soltanto il volto e di trasformarlo in un enorme ritratto. La traduzione è letterale. Lichtenstein fa pochissimi adeguamenti e la semplifica ancora di più: rimpicciolisce la frase e sposta il fumetto. Usa le stesse tinte utilizzate nel fumetto. I fumetti sono realizzati su una carta molto economica che ha una capacità di assorbire il colore. È un prodotto popolare, che deve costare poco e deve contenere molte immagini, molti colori. L’industria del fumetto sceglie di adottare dei sistemi di semplificazione formale dei colori che consentano di produrre molti esemplari a basso costo. Usa prettamente colori primari, li modula pochissimo (perché modulare un colore e sfumarlo costa moltissimo nella stampa) e poi per ottenere le mezze tinte usa la miscela ottica, che si chiama puntinato Benday (es. puntini neri ravvicinati su un campo bianco da lontano per miscela ottica danno un grigio). Bisogna anche semplificare i contorni, fare in modo che il volto abbia una espressività ma poche linee, abbia una credibilità spaziale ma senza utilizzare prospettive complesse. Il disegno deve essere abile nel capire come darci il senso di spazialità. Lichtenstein non è interessato a questo, ma è interessato alla capacità del fumettista di abbinare l’eleganza delle linee quasi liberty, vorticose con il volto. È un tipo di donna stereotipata dai mass media che incarna certi ideali di bellezza. Lichtenstein recupera tutto questo, lo semplifica, ottiene queste mezze tinte e i colori sono pochissimi (quello più acceso è il blu dei capelli). I capelli sono neri, ma lui utilizza il blu per dare lucentezza ai capelli. Quella della copertina del fumetto è una scena di disperazione un po’ patetica, banale, ma Lichtenstein la traduce con lo stesso linguaggio, quindi prende il linguaggio dei fumetti, lo analizza formalmente e fa di questo linguaggio un linguaggio pittorico. Il fatto di aver isolato quel dettaglio evoca la celebre stampa giapponese di Hokusai (Sotto un’onda a largo di Janagowa). Anche Hokusai era un maestro di semplificazione delle tinte. Questa opera di Hokusai diventa un riferimento colto che sta dietro aa queste immagini. Quindi, l’immagine funziona su due livelli: prima la storia, il fumetto, la prima cosa che capisco, mentre poi entro nel gioco e comincio a capire che c’è il secondo riferimento. Sembrerebbe solo un atteggiamento di analisi delle immagini di massa, fascino per quest’ultime e rielaborazione pittorica, colta di queste immagini. Infatti è qualcosa di questo genere, ma c’è un elemento più interessante e per spiegarlo vediamo questo paragone (↓) Nello stesso anno Lichtenstein si mette anche a dipingere delle copie di quadri famosi, soprattutto dell’avanguardia. Picasso è tra i suoi soggetti preferiti: Lichtenstein, Femme dans une fauteull → copia di Picasso. Donna seduta che è la ripresa letterale di un quadro di Picasso del 1941. Lichtenstein riprende Picasso ma con il linguaggio dei fumetti (bordi semplificati, mezze tinte ottenute con il puntinato benday ecc.). Fa un’altra operazione ulteriore: quando riprende Picasso, semplifica ancora di più quello che già è abbastanza semplice: spariscono le tracce delle pennellate; il giallo che ha delle sfumature diventa un giallo piatto; l’altro giallo è troppo complesso quindi lo fa bianco; la veste di pennellate orizzontali diventa tutta blu; il verde diventa lo stesso verde per la sedia e per la veste. Lichtenstein traduce Picasso nel linguaggio dei fumetti. Usa solo colori primari. In un’intervista dice: “quando io dipingo un Picasso, io non sto dipingendo un Picasso, ma io sto dipingendo un Picasso commercializzato, cioè il Picasso dei poster, cioè l’avanguardia che diventa cultura di massa. La cultura alta non è immune alla massificazione. Può vivere nell’illusione di esserlo, ma non lo è. anche pittori così rivoluzionari e dirompenti come Picasso e Van Gogh sono ormai diventati delle icone della società di massa”. C’è anche un altro messaggio che ci dice: i colori che usa Lichtenstein, tranne il verde, sono sempre esattamente gli stessi colori che utilizzava Mondrian. Che messaggio c’è dietro questa scelta? Lichtenstein mostra che una certa parte dell’avanguardia (non tutta) a forza di ridurre, semplificare aveva creato i presupposti perfetti per il linguaggio visivo di massa. A volte questo intento, come nel Bauhaus, era volontario, mentre altre volte era involontario. Mondrian aveva semplificato i colori usando solo i primari creando le premesse per la semplificazione in colori primari di immagini o contribuendo. Non solo: Picasso con i suoi contorni spessi, semplici, la sua capacità di ottenere un’espressività con pochi segni, anche infantili e primitivi, aveva creato le premesse per avere un disegno semplificato che funzionasse espressivamente. Quindi, che cosa stava mostrando Lichtenstein? Esattamente il contrario di quello che diceva Greenberg. Non esisteva nel modo manicheo che diceva Greenberg una cultura di massa e un’avanguardia che procedevano disgiunte (una per le masse e l’altra per chi conosceva la storia dell’arte). Lichtenstein ci mostra, invece, che esistono dei punti di tangenza e di intersezione per i quali l’avanguardia volontariamente o involontariamente ha contribuito all’elaborazione della civiltà di massa. L’illusione di vivere come artisti in un campo di ricerca completamente scisso e separato e incontaminato dalla cultura di massa era una falsità, un mito. Allora all’artista non restava che prendere atto di questo e continuare il discorso in modo colto, mostrando questa connessione. Un altro artista ancora più celebra si interessa negli stessi anni alla stessa questione. Andy Warhol, americano, lavora negli anni ’50 come vetrinista e inizia così a conoscere il linguaggio della società di massa, del commercio, della pubblicità. Non ha studi regolari alle spalle e decide di diventare un artista. Subito è colpito da miti da cui non si staccherà, come Marylin Monroe. Warhol, Marylin Dyptich → Warhol usa questa iconica fotografia di Marylin isolando il volto, come fa Lichtenstein. Donna ambita e irraggiungibile la cui sensualità quasi le sfugge. È un personaggio mitico dell’America degli anni ’50. È un emblema della sua visione della bellezza della donna. Marylin Monroe stessa contribuisce modellando la sua immagine. La sua immagine è un simulacro (noi non sappiamo come è Marylin nella vita quotidiana). Noi sappiamo quello che l’industria cinematografica ha scelto di farci credere che sia Marylin Monroe. Immagine di qualcosa che rimanda ad un’altra immagine, lo stereotipo della donna degli anni ’50. È sempre immagine dell’immagine. Questo tratto evanescente affascina talmente tanto Warhol che lui stesso come artista lo incarna: è un artista sfuggente; è tanto loquace quanto laconico; scrive diari, li fa pubblicare, ma poi nelle interviste risponde per monosillabi; non scrive quasi mai della sua arte; lascia dichiarazioni provocatorie. Warhol è come Marylin, è un personaggio che vive nella sua stessa immagine. Apre a New York la Factory, frequentata da gente alta e bassa, come tossicodipendenti, giovani aspiranti attori, gente marginalizzata all’epoca (es. transessuali), con ricchi aristocratici, borghesi, abbienti, industriali, che consumo di un prodotto a qualcosa di gratificante i messaggi pubblicitari accoppiano il corpo femminile al prodotto. La donna per piacere viene indotta attraverso il messaggio pubblicitario ad introiettare quel modello di bellezza. Negli anni ’50 e ’60 il messaggio pubblicitario è schizofrenico: da un lato chiama la donna ad aderire a modelli di sensualità; dall’altro la invita al lavoro casalingo, al consumo di prodotti casalinghi. Il funzionamento è doppio: messaggio erotico per lo sguardo maschile e modello da incarnare per quello femminile. Il problema è che questo corpo viene sempre associato nel dopoguerra al messaggio pubblicitario, ad uno slogan e diventa pura associazione. Il corpo femminile viene sempre più associato al consumo per cui l’evocazione di un corpo femminile in un collage funziona negli anni ’60 dentro questa cornice. Come avviene nella pubblicità, questo corpo viene associato ad uno slogan, una frase semplice che prende dalla sentenziosità di certi proverbi l’efficacia nel regolare il messaggio pubblicitario. In questo caso è: “sana come il pane quotidiano”. La frase è semplicissima, ma abbiamo varie associazioni: corpo “sano”, efficiente, che genera figli; “pane quotidiano” associato alla religione, alla pubblicità, alla condizione femminile, al lavoro domestico, all’accudimento. La donna è schizofrenicamente allo stesso tempo madre e amante nel messaggio pubblicitario. Tutto ciò che evoca la maternità, l’accudimento viene associato nell’immagine ad un tondo in cui dei bambini stanno mangiando da delle ciotole di riso. Forse l’immagine proviene dall’Oriente asiatico e per associazione con la guerra in Vietnam posso pensare che siano dei bambini vietnamiti. Qui c’è lo scontro di due civiltà: la civiltà che ancora vive nella sussistenza, che ha il problema dei bisogni primari e l’altra no. Contrapposizione tra benessere e povertà, guerra. Ketty La Rocca, Bianco Napalm → di nuovo allusione religiosa (al bianco Natale). Collage di nuovo di ondanna della guerra in Vietnam. Storia: il Vietnam nel dopoguerra si libera, combatte contro i francesi per l‘indipendenza e in questa lotta, che si conclude negli anni ’50, emerge una fazione particolare di orientamento comunista e di sinistra nazionalista allo stesso tempo. A quel punto gli americani, nel timore che il Vietnam diventi un’altra delle aree di influenza dell’Unione Sovietica, intervengono nel conflitto, aiutando la parte non comunista. Nasce una guerra civile che divide il Vietnam in due parti (Vietnam del nord sotto il dominio dei comunisti; Vietnam del sud sotto il controllo degli americani). La guerra si protrae per anni perché inizialmente una potenza militare come gli USA sembrava poter risolvere la situazione, invece, i vietnamiti si dimostrano incredibilmente abili nella guerriglia, cioè, essendo meno armati e in minor numero, agiscono a sorpresa riuscendo sempre a mettere in difficoltà l'avversario più forte. Gli americani poi perderanno la guerra e il Vietnam rimarrà indipendente. Gli americani iniziano ad usare sempre più armi spietate, perché non riescono a spanare la guerriglia. Qui c’è l’utilizzo del napalm. Il napalm è un esplosivo che diffonde un gas letale. Quindi, Bianco Napalm è innanzitutto un’allusione alla guerra del Vietnam e alla spietatezza degli americani. Infatti, vediamo nelle due immagini scelte nel collage un militare che tiene in mano una bomba missile al napalm e la scaglia contro due bambini inermi. Contrasto tra innocenza, essere indifesi e violenza americana. Invece, Bianco Napalm allude a Bianco Natale perché inizialmente sulla sinistra del collage c’era l’immagine di un cardinale americano che era stato un fervente sostenitore della guerra del Vietnam, in evidente contrapposizione con il pacifismo cattolico. Si trattava di un cardinale conservatore, che aveva sostenuto continuamente la guerra del Vietnam. Dunque, la connessione tra Bianco Natale, il bianco del fumo del napalm e la religione era in questa figura. Luciano Caruso critica la cultura di massa del libro e si inventa una nuova tecnica, che è quella del libro-oggetto. Dei libri, composti da lui, o delle singole copie, manipolate da lui, che sono dei prodotti unici e rifiutano la serialità di massa, dell’industria. Libro-oggetto è la risposta alla cultura di massa: non produco libri in modo seriale per l’industria culturale, ma ne produco soltanto uno, in maniera tale che chi lo osservi torni alla materialità dell’oggetto, all’unicità dell’esperienza letteraria. Luciano Caruso, L’orma della disciplina → prende un testo sacro del buddismo e attua una tecnica al contrario: cancella tutto tranne le parole che gli interessano. Così facendo manipola il significato del libro, perché isola le parole che lo interessano. Mirella Bentivoglio: lavora nella poesia concreta. Poesia concreta: poesia che usa l’aspetto visivo delle lettere come parte del significato testuale. Guarda alle lettere prima di tutto come elementi grafici, visivi, che fa interagire col significato. Mirella Bentivoglio è stata una poetessa e artista visiva importantissima, che poi nel ’78 organizza la Biennale Materializzazione del linguaggio, che riassume tutti questi esperimenti, soprattutto di artiste donne. Mirella Bentivoglio, Gabbia: (HO) → parola HO, verbo avere, parola del consumismo (“possiedo”). Con la H ripetuta la parola diventa una gabbia, una prigione. Schiavo del bisogno di consumo. H come grate di una prigione. L’unica via d’uscita è la O. Mirella Bentivoglio, Il cuore della consumatrice obbediente → prende il logo della coca cola, riflette specularmente la C per creare un cuore e al centro campeggia la parola OCA (insulto nei confronti delle donne). Vacuità femminile e stereotipo femminile vengono associate a come il consumismo tratta le donne e come le relega in una condizione di consumatrici obbedienti.
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