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APPUNTI LEZIONI DI STORIA DELL'ARTE MODERNA A.A. 2022/2023, Appunti di Storia dell'Arte Moderna

Appunti completi e dettagliati delle lezioni di Storia dell'arte moderna IV (6 cfu) del prof. Vinco dell'a.a. 2022/2023.

Tipologia: Appunti

2022/2023

In vendita dal 26/04/2023

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Scarica APPUNTI LEZIONI DI STORIA DELL'ARTE MODERNA A.A. 2022/2023 e più Appunti in PDF di Storia dell'Arte Moderna solo su Docsity! -STORIA DELL’ARTE MODERNA IV Lezione 1 (27/09/22) Vedi file Primato dell’occhio per introduzione all’arte moderna + libro Angelini, Il primato dell’occhio. Temi e metodo dell’arte in età moderna Problema di quale approccio dobbiamo avere con le immagini in epoca moderna, che, seguendo la sequenza vasariana, comincia con Giorgione, con Leonardo, con l’arte del primo Cinquecento (a grandi linee). Nel mondo contemporaneo gli artisti non hanno una committenza, ma solo nell’epoca attuale c’è la libertà dell’artista intesa come “esprimo quello che sento, quello che voglio”. Nell’epoca che noi cominciamo a studiare questo non c’era. Quando approcciamo l’immagine, dobbiamo sempre avere presente che siamo davanti ad un testo che qualcuno ha voluto far fare a qualcun altro. Cominciamo a parlare di epoca moderna. Se fino all’epoca medievale e al primissimo Rinascimento non si poteva parlare in termine stretto di un artista come forte individualità, staccato dalle corporazioni e dal contesto nel quale è inserito, poi col progredire del tempo, in particolare con i grandi artisti del Rinascimento, Leonardo, Raffaello e Michelangelo, si sviluppa molto questa componente individuale, diventa una caratteristica specifica dell’artista avere anche una forte individualità. L’artista diventa più autonomo rispetto al committente, più consapevole e acquisisce una mentalità che per certi aspetti non coincide del tutto con quella del suo committente. 1510: inizio dell’arte moderna a Roma. È l’età di Giulio II e Leone X, i grandi committenti di Michelangelo e Raffaello. Il sistema dell’organizzazione della bottega ad un certo punto si frantuma, perché comincia ad emergere una componente speculativa che inizia nel Quattrocento e si compie con Leonardo e modifica lo status sociale dell’artista. L’artista, che normalmente è considerato qualcuno che fa qualcosa di manuale e non di intellettuale, si nobilita e comincia a svolgere un lavoro di tipo intellettuale (però non perde la committenza). Questo accade con l’inizio dell’età moderna. Cambia il contesto storico, cambia il contesto sociale e ci dobbiamo mettere all’altezza giusta per poter osservare questi fatti. Dal punto di vista organizzativo e visivo dell’immagine vengono meno gli interessi prospettici proporzionali del Quattrocento. Potremmo far coincidere il Rinascimento con l’invenzione della prospettiva, del sistema che rende l’immagine “una finestra sul mondo” (cit. Leon Battista Alberti), una rappresentazione oggettiva secondo criteri geometrico-matematici di quanto avviene. Nel Quattrocento Brunelleschi, Alberti, Masaccio danno una visione oggettiva, che fino a quel momento non c’era, prospettica di quanto avviene davanti a noi. Però si fermano a quel piano in cui io non intervengo all’interno di quanto vedo, ma lo strutturo in modo ordinato. Necessità di rendere nel modo più verosimile possibile la realtà che abbiamo di fronte a noi. Questo schema nel Cinquecento comincia a sgretolarsi e comincia a diventare una conquista rinascimentale che viene via via decostruita. Il nuovo status sociale dell’artista viene messo in evidenza in modo definitivo dalla nascita delle Accademie. Le Accademie fino ad all’ora erano solo accademie di letterati, non di artisti, perché gli artisti erano poco più che artigiani. Poi quando facevano oggetti di lusso avevano un riconoscimento all’interno delle corti, ma restavano sempre artigiani. Con la nascita dell’Accademia fiorentina del disegno (1563), l’artista proprio per l’istituzione di cui fa parte, che non è più la corporazione medievale ma è l’accademia, viene paragonato ai grandi letterati e uomini di corte del Rinascimento. Aspetto fondamentale è anche la centralità della fase progettuale con il disegno, in particolare Raffaello e la sua bottega; in scultura l’utilizzo di bozzetti in terracotta; la diffusione delle grandi idee dei maestri con le incisioni. Aspetto della grafica: i disegni ci sono sempre stati, documentati dal tardo Trecento. In questo periodo cambia il valore del disegno, perché il disegno diventa la prova rispetto al nuovo status sociale dell’artista, che non sarà uno che fa quello che vuole, ma di certo ha allargato i confini del proprio raggio d’azione e della propria libertà d’espressione, perché è talmente tanto importante avere un disegno di Raffaello, uno dei primi e dei più grandi disegnatori del Cinquecento, per poter ispirarsi a un’invenzione di Raffaello che l’esecuzione passa anche in secondo piano. Abbiamo questa situazione: siccome Raffaello non può lavorare per tutti (ad un certo punto le commissioni sono troppe e non riesce a soddisfare tutti), lui struttura questo tipo di modus operandi che è quello del disegnare per permettere ai suoi allievi di mettere in opera i suoi disegni. Queste opere vengono comunque considerate come opere di Raffaello. Ancora adesso ci sono opere che si discutono essere di Raffaello o del suo allievo Giulio Romano, perché ci sono dei punti di contatto così forti tra questi due artisti, perché è Raffaello che progetta queste opere che poi Giulio Romano esegue, che si fa fatica ancora oggi distinguere chi le abbia dipinte. La cosa importante è che non c’è mai stato finora un disegno che non fosse utilizzato semplicemente per una prassi di bottega, cioè io faccio un disegno perché poi una persona ne esegua una parte all’interno della commissione che si ha ricevuto. Qui invece c’è un disegno che viene regalato per esempio da Michelangelo ad un amico o ad un collaboratore perché i committenti, non potendo avere un’opera di Michelangelo, si accontentano di avere qualcun altro che metta in atto l’opera di Michelangelo. La sua idea, il suo marchio diventa così importante che addirittura è sufficiente ispirarsi ad un suo disegno. In questa prospettiva va vista anche la nascita dell’incisione. In questo momento nasce l’incisione su impulso di Raffaello, che per diffondere e per divulgare le sue idee affida i suoi disegni a degli incisori di professione, tra cui il più importante è Marcantonio Raimondi, affinché eseguano, replichino e diffondano le sue idee. Un ultimo concetto: ricerca dell’individualità della forma e abbandono del “tipo” standard che caratterizza l’arte medievale. Si apre una tridimensionalità. La terza dimensione viene acquisita con gli studi prospettici di Leon Battista Alberti. Potremmo parlare di una quarta dimensione, perché vengono inseriti degli elementi che connotano l’immagine e che fino a quel momento non erano presenti nell’immagine: -gli studi psicologici di Leonardo: studio delle espressioni del volto umano per non avere più il tipo medievale o del primo Quattrocento ma per avere il più possibile una persona in carne ed ossa. Sui volti si cominciano a raffigurare delle espressioni; -il distacco dall’elemento naturale di Michelangelo per seguire le vie dell’immaginazione. Fino al Quattrocento la rappresentazione oggettiva era stata la stella polare degli artisti. Per certi aspetti si torna indietro. Michelangelo si distacca a quel punto dall’elemento naturale perché lo studio della forma va oltre l’osservazione dell’elemento naturale. -IL METODO DELLA STORIA DELL’ARTE TRADIZIONALE Ci dobbiamo porre dei problemi di tipo metodologico. Noi quando analizziamo un’immagine utilizziamo un metodo, utilizziamo delle domande che ci facciamo. Ci sono tanti metodi per studiare un’immagine. Da questo punto di vista noi cerchiamo di affidarci ad un metodo di tipo storico, anche se c’è stato un periodo, tra la fine degli anni ’70 e gli anni ’80, in cui gli oggetti non interessavano più, non interessavano più le caratteristiche materiali degli oggetti, le opere d’arte venivano utilizzate solo come delle immagini che ci testimoniavano visivamente alcune cose accadute nel passato (es. che piatti si mangiavano in un certo periodo). Negli anni ’70-’80 si tendeva di più ad estrarre un significato dalle opere d’arte: o informazioni storiche, che non avevano nulla a che fare con il linguaggio specifico dello stile e dei valori estetici di un’opera d’arte, oppure si cercavano dei significati particolari allusivi di alcune teorie filosofiche, iconografiche ecc. Noi partiamo dalla materialità dell’oggetto e cerchiamo di non escludere nessuno dei metodi di approccio alla storia dell’arte, ma cerchiamo di verificare tutte queste informazioni che sono arrivate dal passato. Per cui non scegliamo nessun approccio particolare, ma sicuramente partiamo dal presupposto che la ricostruzione dell’ambiente storico è il punto di partenza per qualsiasi approccio che noi possiamo fare all’opera d’arte. Fondamentale la ricerca archivistica, perché ci fornisce degli elementi imprescindibili per collocare nella storia le opere d’arte. Verifiche testuali in ambito letterario: è importante sapere perché ad un certo punto un quadro viene dipinto. L’epoca moderna è un periodo nel quale cominciano anche ad esserci commissioni di altro tipo dalle commissioni religiose. Fino all’età delle corti italiane, fino alla metà del Quattrocento i dipinti erano fondamentalmente di tipo religioso, si facevano pale • Bernini teorizzava che le figure dovessero essere rappresentate nel modo più naturale possibile, cioè quando parlavano • Soggetto attirato da qualcosa davanti a noi che non vediamo  sguardo rapito, bocca schiusa, barba mal rasata • Ritratto di persona che sta parlando ricco di dettagli  espediente per dare maggior realismo e catturare uno specifico momento in cui fa qualcosa Annibale Carracci, Ritratto di Monsignor Agucchi • Raffigurazione di grande personaggio in vesti quotidiane e non ufficiali (in particolare nell’atto di leggere una lettera)  progredire nello studio dell’espressione umana Annibale Carracci, Il mangia fagioli • Persona che si gusta minestra di fagioli Annibale Carracci, Testa di giovane ridente • Buffone di corte che guarda in modo ammiccante nell’atto di essere nel proprio ruolo Dal 1500 nascono le collezioni d’arte partendo da oggetti antichi e dalla metà del 1500 si aggiungono anche quadri degli artisti  sviluppo di gusto collezionistico moderno NB: Quali dipinti vengono collezionati? Dipinti devozionali, ma progressivamente il collezionismo si apre a nuove tematiche colte e divertenti (es. Testa di giovane ridente di Annibale Carracci) Bernini, Estasi di Santa Teresa, 1644-1651. Roma, Chiesa di San Maria della Vittoria • Bernini tramite quest’ “opera” dà nuova interpretazione alla cappella privata • Rappresentazione teatrale più che opera d’arte in cui angelo colpisce con freccia Santa Teresa e famiglia Cornaro (committenti) assistono all’estasi di Santa Teresa  NO! rappresentazione frontale ma partecipazione alla scena dal punto di vista della famiglia Cornaro • Presenza di luce naturale con raggi che irrompono dalla parte alta della cappella che fanno percepire che questo evento miracoloso è dovuto al contatto con il divino attraverso raggi che sbucano dal cielo • Presenza spettatori che filtrano la nostra visione: scultura libera sulla pala d’altare che di norma è uno spazio chiuso Jan van Eyck, Coniugi arnolfini • Opera presente nelle collezioni spagnole • Presenza di specchio convesso • Dipinto che ispira Velasquez (pittore spagnolo) per Las Meninas di Velasquez ma presenti alcune differenze: -Artista rappresentato nell’opera -Nello specchio le figure non danno le spalle ma (siamo noi = genitori della bambina) osservano la scena, che non raffigura una scena ufficiale ma bambina si sta preparando per essere dipinta  frammento di vita quotidiana e non momento ufficiale o Voluta la rappresentazione di una gran confusione per togliere la pseudo-oggettività del dipinto e per ricordarci che dobbiamo partecipare attivamente al dipinto per comprenderlo  massimo grado di complessità tra rapporto spettatore-dipinto LA NASCITA DEI GENERI PITTORICI -Il paesaggio Che dipinti venivano commissionati fino all’epoca moderna? Pale d’altare, dipinti madonne col bambino per mettere nelle case private e committenze particolarmente sofisticate. Si facevano allestire dei camerini, i cosiddetti studioli, stanze dove si esercitava la cultura e dove i nobili si dedicavano ai loro interessi personali con tematiche profane, allegoriche, dei dipinti molto raffinati con riferimenti in genere alla storia romana o alla mitologia greca. Queste erano la tipologia di dipinti che fino all’età moderna. Con invece il progredire dell’età moderna cominciano anche a svilupparsi delle altre tipologie di dipinto, comincia ad esserci una curiosità per l’osservazione della natura, della realtà e della vita, non solo dal punto di vista del coinvolgimento dello spettatore, quindi interesse per la psicologia, per gli stati d’animo, per questo tipo di realtà, ma anche proprio per quella che è la realtà circostante, quindi per tutta una serie di cose che accadono nella nostra vita e che riteniamo utile che vengano raffigurate. Una di queste è il paesaggio. Il paesaggio gode di una grande stagione, soprattutto all’inizio del Cinquecento con Giorgione e Tiziano e la pittura veneta. Però è una stagione piuttosto breve che tende ad esaurirsi con la maniera, ad esempio Michelangelo (artista simbolo del manierismo e del Cinquecento) è uno che i paesaggi non li fa quasi mai, li fa solo nella sua fase tarda quando dipinge la Cappella paolina, ma normalmente Michelangelo non fa i paesaggi. Nel Seicento avviene questo fenomeno di riscoperta del paesaggio, quindi anche di riscoperta di quanto Tiziano e i pittori veneti facevano da giovani che addirittura diventa più importante del soggetto sacro raffigurato. Annibale Carracci, La fuga in Egitto Paesaggio di intonazione romantica, di intonazione suggestiva della campagna romana. Visione poco analitica e molto evocativa delle piante. Lunette Aldobrandini che presentano una scena sacra che di fatto è secondaria, anche se in primo piano, rispetto a questo paesaggio della campagna romana, rivisto con gli occhi della pittura del giovane Tiziano e che viene riproposto come tema molto piacevole con cui adornare una sala del palazzo Aldobrandini. In questo senso anche le scene profane sono delle scene che per certi aspetti arrivano, pur essendo in primo piano, ad avere una importanza secondaria. Qui abbiamo una delle vicende di Ercole e delle storie di Ercole con Ercole capo, ma quello che ci conquista maggiormente in un dipinto come questo è proprio lo sfondo con questa campagna romana (i pittori bolognesi all’inizio del Seicento lavorano molto a Roma). Scuola di pittori bolognesi: Guido Reni, Domenichino, allievi di Annibale Carracci. Improvvisamente il soggetto del dipinto scompare e prevale invece lo sfondo, quindi, tutte queste soluzioni che il Seicento ci propone ci avviano verso la modernità. Per esempio, gli impressionisti sono un movimento che rivaluta il paesaggio e mette in secondo piano quanto viene raffigurato a favore di questa pittura all’aria aperta, di questa pittura della natura. Il paesaggio che vale per se stesso e non è più giustificato da un significato religioso, da un significato culturale, da un significato allegorico è piuttosto una novità, perché fino a quel momento uno si sarebbe chiesto “perché farsi dipingere un paesaggio? Non ha nessun significato un paesaggio. Ha significato la scena che viene raffigurata all’interno del paesaggio”. Invece, in questo caso il piacere per la pittura arriva al punto che il soggetto è piuttosto indifferente e prevale questo sfondo, il paesaggio, che diventa un vero e proprio genere di raffigurazione che da qui in avanti avrà una sua autonomia e quindi non avrà più bisogno di essere giustificato da un elemento culturale, religioso ecc. Di paesaggi ce ne sono di tanti tipi e fatti da tanti pittori. Ad un certo punto a Roma, sempre attorno all’anno 1600, arriva una colonia di pittori nordici, fiamminghi, tedeschi che dà un contributo particolare a questo studio del paesaggio. Questi pittori nordici sono molto attratti dalle antichità romane, che non vedevano dalle loro parti, per cui molto spesso decidono di inserire all’interno dei propri dipinti delle rovine, la natura che si sta mangiando i monumenti, ma una natura che viene raffigurata sempre in rapporto con questa grande tradizione classica che i pittori nordici non avevano modo di vedere dalle loro parti e che coltiva molto la loro fantasia. Esempi: Adam Elsheimer, (riposo del)la fuga in Egitto, 1605-1610 ca. Adam Elsheimer, La fuga in Egitto (terza versione), 1609 Questo momento della vita della sacra famiglia che di fatto un po’ si perde all’interno della bellezza di questo paesaggio, dove compare il volo degli uccelli, delle mura romane che proseguono sullo sfondo. Questo episodio in primo piano ancora una volta ci colpisce relativamente. Anzi, la fuga in Egitto sembra quasi un pretesto di una scena che avviene all’aria aperta, cioè questi pittori, molto interessati alla natura, a far nascere questo genere pittorico al di là di quello che poteva essere un argomento obbligato, come poteva essere un argomento trattato dai Vangeli o dalla Bibbia o dalla mitologia, come Ercole, utilizzano l’espediente di questo viaggio nella natura della sacra famiglia e trovano il modo di raffigurare quello che a loro probabilmente interessa di più, cioè la campagna, in questo caso una campagna piuttosto indefinita, una campagna con delle caratteristiche nordiche, che in questo caso ci colpisce in un modo straordinario. Questo è uno dei primi notturni del Seicento. Sappiamo dalle fonti che anche Giorgione si era cimentato con il tema del notturno, in quel momento in cui i pittori si interessano anche molto della resa di certi effetti della luce. Però qui cosa cambia rispetto ai precedenti dipinti de “La fuga in Egitto”? Qui c’è una illuminazione reale, è data maggiore importanza alla visione del cielo, che è un cielo notturno, c’è una resa di cosa accade in un notturno che prima non avevano. Qui comincia anche una indagine scientifica della natura. Qui siamo nel periodo di Galilei e siamo in un momento in cui la scienza entra in contatto con i pittori e provoca delle reazioni nei pittori. Questa capacità di rendere gli effetti realistici, gli effetti naturali del mondo circostante, che abbiamo visto essere prima di questo dipinto frutto della capacità di osservazione, della riflessione autonoma di questi grandi pittori che, da Leonardo in avanti, cominciano a porsi problemi della espressione umana, della psicologia. Qui avviene anche (e non è secondario) un contributo ulteriore che è dato dalla scienza e dalla scoperta del mondo celeste e dello studio scientifico e astronomico di Galileo Galilei. Qui abbiamo la raffigurazione della Via Lattea, abbiamo le stelle e abbiamo gli studi di come la Luna si riflette su questo specchio d’acqua. Abbiamo una connotazione molto specifica di quello che avviene in una notte realmente. Questo percorso continuo che paradossalmente non è solo in contrasto con quello che succede nel Quattrocento. Anche nel Quattrocento ci si nutriva profondamente della scienza per dare una maggiore chiarezza alle proprie raffigurazioni, solo che la scienza che viene usata nel Seicento è di tipo diverso della scienza che usava Piero della Francesca a metà del Quattrocento. Nel Seicento questo nuovo modo di vedere la realtà contribuisce a fornire ulteriori stimoli. Quindi, noi abbiamo il procedimento del pittore sempre uguale da un certo punto di vista, perché, come nel Quattrocento si prendevano le migliori idee matematiche e si cercavano di esprimerle in pittura, allo stesso modo queste nuove idee fisiche e matematiche portano ad una presa sulla realtà di tipo ancora più forte. Lo studio del fuoco, lo studio degli effetti della Luna sullo specchio d’acqua e lo studio delle stelle. Elsheimer si lascia coinvolgere all’interno di queste ricerche sul paesaggio, portando la propria sensibilità nordica e la propria sensibilità di pittore attento alla descrizione analitica della realtà all’interno di una corrente, che è quella dei paesaggisti romani, che ha varie declinazioni, più romantica, più generica quella di Domenichino e di Annibale Carracci, più scientifica quella di Elsheimer. È notevole come viene raffigurato il cielo, non solo come sfondo e non solo come elemento generico, ma anche come abitacolo di stelle. Le stelle hanno un significato che in quel momento i matematici e gli astronomi stanno studiando, stanno analizzando. Tutto questo all’interno di una fuga in Egitto. Dunque, sta cambiando l’atteggiamento dei pittori nei confronti della realtà. In questo momento la scienza entra a contatto con i pittori, i pittori si interessano fortemente di scienza. Caso istituzionale  Ludovico Cigoli, pittore fiorentino, viene chiamato a dipingere la Cappella Paolina di Santa Maria Maggiore, e dipinge l’Immacolata (1610-1612 ca. Roma, Santa Maria Maggiore Cappella Paolina). In genere viene fatta una mezzaluna che simboleggia l’Immacolata Concezione. Qui invece Ludovico Cigoli mette al di sotto dell’Immacolata la Luna, secondo i disegni che Galileo sta facendo nel Sidereus Nuncius. Galilei inventa nel 1609 il cannocchiale telescopico, l’anno seguente pubblica il Sidereus I GENERI PITTORICI Annibale Carracci è un pittore che nel Seicento riscopre il paesaggio. Il paesaggio è un grande argomento per i pittori nel primo Cinquecento, in particolare per i pittori veneti. Annibale Carracci nella riscoperta della pittura veneta ci ripropone questo tema. Importanti le misure e i supporti dei quadri. In questo periodo i dipinti cominciano ad essere molto preziosi. Tra Cinque-Seicento un altro tema molto affascinante è quello dei supporti della pittura, perché non è indifferente il supporto della scrittura. In età antica si usano le tavole, poi soprattutto nel nord Italia per motivi legati a una maggior conservazione della pittura, in particolare a Venezia, dove c’è molta umidità, le tavole vengono sostituite progressivamente dalle tele. Alla fine del Cinquecento c’è questo forte interesse nei confronti di altri due tipi di supporti: il rame e la pietra di paragone o lavagna, che rendono con degli effetti di lustro e di valori ottici più precisi quello che il pittore vuole dire. La veduta è un genere che vuole documentare la novità che rappresenta l’Italia agli occhi dei pittori nordici. Questi pittori che si trovano a Roma negli anni ’30 sono molto attratti dalla possibilità di restituire quello che vedono e di mostrarlo alle persone che non sono mai state a Roma e non hanno mai avuto l’occasione di vedere questi paesaggi. Poi la veduta veneziana codifica un genere che poi diventerà molto famoso. Si diffonde anche la possibilità di avere delle collezioni anche ad un livello sociale non di primissimo piano, ma sempre importante. LE SCENE DI VITA POPOLARE Le scene di vita popolare sono un altro tassello che ci aiuta ad integrare la nostra comprensione del moltiplicarsi dei soggetti e delle possibilità per i pittori di dipingere la realtà. Queste sono tutte cose trattate nel libro di Angelini. I pittori descrivono la realtà, quello che vedono, ma tutto quello che si vede è frutto di una propria cultura personale, cioè si vede quello che noi abbiamo la consapevolezza di guardare. Noi fino a che non siamo resi consapevoli di qualcosa che esiste ci può passare davanti agli occhi e noi possiamo essere completamente indifferenti. In questo periodo si comincia a vedere la possibilità di dipingere anche dei soggetti che non erano ritenuti degni di essere raffigurati. Tra questi soggetti non degni di essere raffigurati sono queste scene di genere, di vita popolare, che sono delle scene comiche, di vita quotidiana, che hanno un particolare successo soprattutto nelle Fiandre. Le ragioni di questo interesse sono piuttosto misteriose. Un po’ il capostipite di questi pittori è Pieter Aertsen, pittore di Anversa, città commerciale più importante dell’Europa del nord alla metà del Cinquecento. Nasce questo genere che però non è del tutto sconosciuto nella storia dell’arte occidentale. E lo stesso Plinio il Vecchio ci ricordava che esistevano dei pittori di cose umili, i ripagrafi (vedi diapositiva Plinio il Vecchio). Nella traduzione italiana di quello che dice Plinio il Vecchio: “È quindi opportuno elencare qui i maestri del pennello celebri per pitture di categoria inferiore tra i quali fu Pireico; questi, pur essendo secondo a pochi in fatto di arte, si volle distinguere - non so se di proposito - poiché, pur trattando sempre soggetti umili, tuttavia conseguì la gloria nel campo dell’”umiltà”. Dipinse botteghe di barbieri e di calzolai, asini, vivande e simili per cui fu chiamato rhyparographos. In questi soggetti, d’altra parte, dimostrò abilità e determinazione se le sue opere furono vendute a maggior prezzo che le più grandi di molti altri”. Qui abbiamo per la prima volta la descrizione anche di Caravaggio per certi aspetti. Tutto questo apparato teorico che ci arriva dall’antichità in realtà bisogna sempre farlo lavorare con la pittura moderna. Noi tendenzialmente spesso non troviamo spiegazione per certe cose che accadono in età moderna, ma molto spesso hanno il corrispettivo nell’antichità. In questo caso non è escluso che in qualche misura non si rivalutassero anche questi testi dell’antichità alla ricerca di nuovi spunti per la pittura. Questo dotto olandese, Hadrianus Junius, un fiammingo, nella sua descrizione dell’Olanda parla del suo connazionale Pieter Aertsen che si è distinto per la rappresentazione di cose umili (vedi diapositiva successiva): “Nè si deve passare sotto silenzio Pietro (Pieter Aertsen), soprannominato il Lungo, che mi sembra di poter paragonare a buon diritto al Pireico di Plinio, se non anteporre, lui che prendendo a modello della sua pittura, come si vede, le cose umili, conseguì, per unanime giudizio, la gloria somma dell’umiltà e perciò con il nome di riparografia può essere, a mio parere, ugualmente insieme a quello, designato, dal momento che nelle sue opere riluce ovunque una certa grazia, nell’aspetto del corpo espresso molto elegantemente nelle fanciulle campagnole e nel costume, nei cibi, negli ortaggi, nei polli ammazzati, nelle anitre, negli asinelli e nei pesci di diversa specie, infine in ogni strumento di cucina, così oltre al perfetto godimento, anche per l’infinita varietà, i suoi dipinti non saziano mai gli occhi: perciò accade che siano messi in vendita a maggior prezzo di quelli di molti, pur fatti con cura e più grandi”. Questo pittore, Pieter Aertsen, si distingue così tanto in questo genere di pitture che è ricercato allo stesso modo dei grandi pittori di soggetti sacri, di pale d’altare. Anche Caravaggio nell’ultimo decennio del Cinquecento (periodo della rivoluzione di Caravaggio) diceva che ci metteva lo stesso tempo a fare un canestro di frutta che fare un dipinto di un soggetto sacro, nobilitato per il soggetto. Concetto tipicamente moderno: quello che viene raffigurato non fa più la differenza, non è più sintomo di qualcosa di inferiore o superiore, perché tutto quello che costituisce la realtà ha la stessa dignità di essere dipinto. Quindi è il come una cosa viene dipinta, da chi viene dipinta ad essere importante, non tanto cosa viene dipinto. Pieter Aertsen, Scena di mercato Pieter Aertsen, pittore nato ad Amsterdam e attivo ad Anversa, che è un po’ la capitale delle Fiandre dal punto di vista commerciale. Joachim Beuckelaer (allievo di Aertsen), Giovane donna al mercato Beuckelaer, allievo di Aertsen (anche imparentato con Aertsen), prosegue questo tipo di interesse nei confronti della pittura di genere. Molto spesso queste scene di genere nascondono sullo sfondo anche delle raffigurazioni sacre, la cui presenza è stata letta da alcuni storici dell’arte in relazione anche simbolica con quanto viene raffigurato in primo piano in modo apparentemente casuale con queste vivande, queste scene di mercato, di genere. Pieter Aertsen, dunque, viene elogiato nel testo di Hadrianus Junius, Beuckelaer è suo allievo e forse quello che è più rappresentativo di questo mondo, un mondo che qui viene visto in senso più narrativo, è Pieter Brueghel il vecchio. Pieter Brueghel il vecchio, Danza di contadini Pieter Brueghel il vecchio, Matrimonio di contadini Supporto di quercia, tipico dei pittori fiamminghi. Qui abbiamo una declinazione molto affascinante di questo tema delle scene di genere, perché raffigura scene di vita popolare. Se prima erano scene di genere nel senso di scene di mercato, istantanee, di angoli e scorci di città, qui abbiamo invece un’operazione intellettuale più complessa, perché questa Danza di contadini e Matrimonio di contadini nobilitano la vita del contadino, che mai si sarebbe immaginato di poter raffigurare. Ma chi si faceva fare questi dipinti? Paradossalmente questi dipinti erano con tutta probabilità parte di collezioni nobiliari. I nobili con un intento piuttosto sarcastico e critico nei confronti della vita bassa dei contadini che si accontentavano di poco amavano avere nelle proprie case queste parodie della vita che loro non conoscevano e che loro un po’ deridevano. Diventa un gioco sarcastico: per contrasto tenersi in casa dei dipinti che ricordassero loro una realtà divertente con la quale loro chiaramente non avevano nulla a che fare. il grande pittore di questo tipo di opere è proprio Pieter Bureghel il vecchio, che fa tutti questi dipinti anche con intento un po’ moraleggiante, queste messe a ridicolo della stupidità umana, ambientata però nelle classi dei contadini. Uscendo dalle Fiandre, che sono il laboratorio dove tutti questi temi prendono il via, arriviamo in Italia e troviamo opere come queste, che sono una derivazione palmare da quello che abbiamo visto finora. Bartolomeo Passerotti, Bottega di macellaio Vincenzo Campi, Bottega di pollivendoli Si tratta di un pittore bolognese, Passerotti, e un pittore Cremonese, Campi. Sono dei pittori relativamente importanti. Vincenzo Campi forse fu uno dei maestri di Caravaggio, il pittore italiano che maggiormente valorizza questi generi di seconda fascia, perché lui non faceva distinzione tra la pittura di figura e la pittura di cose. Passerotti e Campi sono dei pittori di importanza secondaria che però qui ci fanno capire come il successo di questo genere di opere fiammingo arrivi anche in Italia. Attraverso quali canali? Sappiamo dallo studio delle collezioni, in particolare le collezioni farnese, dalle collezioni medicee che mercanti, nobiluomini che si trovavano a risiedere per vari motivi politici nelle Fiandre amavano questi dipinti e poi li compravano e li portavano in Italia. C’era sicuramente circolazione di queste opere. Questa pittura divertente, molto umana non tardò ad arrivare anche in Italia. Queste raffigurazioni (Bottega di macellaio e Bottega di pollivendoli) hanno delle declinazioni sarcastiche, molto ammiccanti, con una mimica molto forte, che fa capire anche una certa consapevolezza nel raffigurare questi soggetti da parte dei pittori, che poteva anche essere surrogata da questa vicinanza a nuovi filoni culturali, come la commedia dell’arte, che nobilita tutta una serie di situazioni di vita ritenute poco rappresentabili e che cominciano invece nel tempo ad essere raffigurate attraverso questa nuova forma del teatro che era la commedia dell’arte. Annibale Carracci, La grande bottega del macellaio Annibale Carracci, La piccola bottega del macellaio La differenza tra Passerotti e questi macellai di Carracci è notevole. In questa scena cruenta dei macellai abbiamo una descrizione delle attività umane, non c’è più nessun intento letterario, di nobilitazione del genere basso attraverso la commedia dell’arte, attraverso la riscoperta della poetica di Aristotele, molto studiata nel Cinquecento. Qui abbiamo semplicemente un pittore che descrive naturalisticamente, senza nessuna possibilità di trovare significati simbolici o allegorici, l’attività del macellaio. Questo è un po’ il passaggio tra il mondo fiammingo e quello italiano. Nel mondo fiammingo abbiamo visto un rimando ad un significato simbolico, morale. Qui invece semplicemente gli uomini vengono descritti per quello che sono. Sono due uomini che vengono colti nel momento in cui stanno operando e non si mettono in posa. Sono stati tolti tutti gli elementi decorativi e il pittore è interessato solo a descrivere quello che vede davanti a lui. Dopo questo lungo processo di purificazione dell’immagine, il pittore arriva semplicemente a darci un’idea di quello che vede davanti a lui. Tutto questo genere, a parte queste punte di naturalismo di Caravaggio e Carracci, avrà un successo enorme. Pieter van Laer, detto il Bamboccio, Il venditore di ciambelle Pittore del Seicento. Descrive situazioni tipiche della vita di città in cui ci sono queste azioni codificate. Il Bamboccio riprende questo tipo di scene di vita di strada. Diego Velázquez, Cena in Emmaus Diego Velázquez, Cristo in casa di Maria e Marta Il più grande interprete spagnolo di questa pittura, delle scene di genere è Diego Velázquez. Anche la pittura delle Fiandre tendeva a mettere in qualche caso una scena sacra sullo sfondo. C’è un’inversione nell’importanza simbolica degli eventi. In questo caso (prima opera) con il solito escamotage cinematografico di Velazquez la ragazza, che sembra colei che prepara la cena per Cristo e i suoi apostoli, sembra quasi stare ad ascoltare la situazione che si sta svolgendo nell’altra stanza, creando un collegamento estremamente raffinato tra primo e secondo piano. Non che Velázquez sia diverso da Caravaggio nella modalità in cui approccia la realtà e approccia il naturalismo, ma ogni pittore nel -Giulio Romano però non gode della stessa ammirazione da parte di Vasari di Raffaello, Leonardo e Michelangelo, perché viene definito come esecutore mancante di perfezione  «Si può affermare che Giulio espresse sempre meglio i suoi concetti nei disegni che nell’operare o nelle pitture… non dava loro quella intera perfezione che si vede nei suoi disegni». Qui entriamo in un problema complesso che è quello del disegno manierista, del disegno del Cinquecento. Lo stesso Raffaello ad un certo punto non dipinge più, lo stello Michelangelo ad un certo punto preferisce affidare ad altri le proprie invenzioni, perché in questo momento il genio rinascimentale predilige l’invenzione alla realizzazione e quindi nel momento in cui Raffaello o Michelangelo mette tutto il suo genio nel disegno, nella creazione per poi delegare la realizzazione a qualcun altro. Quindi, fino ad un certo punto dobbiamo seguire questa critica di Vasari, perché sappiamo che nel momento in cui Giulio Romano eseguiva le opere di Raffaello eseguiva le opere per conto di Raffaello noi facciamo fatica a distinguere i due pittori. Per cui il livello artistico di Giulio Romano è di primissimo livello; -Giulio Romano come il genio licenzioso contrastante il divino Raffaello, soprattutto relativo alla vicenda dei Modi o posizioni amorose  «In tanto che io non so qual fosse più brutto o lo spettacolo dei disegni di Giulio all’occhio, o le parole dell’Aretino agli orecchi». Qui si riferisce ad una vicenda piuttosto scandalosa in cui Giulio Romano illustra alcuni sonetti di Aretino, particolarmente erotici e spinti, ma in realtà qui Vasari critica l’aspetto di cortigiano di Romano. Ma questo aspetto di Cortigiano era legato al fatto che era continuamente stimolato dalla committenza anche a creare cose sempre nuove che dovessero stupire e non aveva la tranquillità di una corte colta come poteva essere quella di Leone X o di Giulio II. Leone X, Giulio II e Clemente VII sono il vertice inarrivato della cultura del Cinquecento. Si vagheggia un sogno di un neo-cristianesimo sul recupero degli antichi. Federico II era una persona molto colta, ma non aveva gli orizzonti culturali dei Papa Medici e di Giulio II, committente di Michelangelo. Cronologia di Giulio Romano a Mantova: -nel 1521 Federico II (Gonzaga) esprime a Baldassare Castiglione il desiderio di avere a Mantova i due garzoni, ovvero Giulio Romano e Giovan Francesco Penni. Con i due garzoni si intende i pittori che, a parte Michelangelo e Raffaello, sono i migliori pittori sulla piazza. Lui, informandosi da questo erudito mantovano Baldassarre Castiglione, fa di tutto per avere questi due semi-dei che erano considerati Giulio Romano e Giovan Francesco Penni; Cominciano i rapporti tra Federico II e Giulio Romano e comincia la trattativa per portare Romano a Mantova. -nel 1522 Giulio Romano, che ha 22 anni e lavora presso la bottega di Raffaello e sta lavorando nelle stanze e nella Sala di Costantino, invia a Federico II i disegni per il Palazzo di Marmirolo; -nel 1524 Giulio Romano in procinto di abbandonare Roma per Mantova detta il proprio testamento. Si trasferisce poi a Mantova nello stesso anno. -nel 1525 inizia i lavori per Palazzo Te; -nel 1526 Giulio Romano riceve la cittadinanza di Mantova e viene nominato “vicario di corte” e “superiore delle fabbriche gonzaghesche”. Quello che era il ruolo di sovrintendente all’antichità che aveva Raffaello con Leone X ecco che Giulio Romano lo assume presso da Federico II dal 1526; -nel 1531 acquista la casa in contrada Unicorno dove risiede dal 1533 fino alla morte nel 1546; -nel 1531 c’è il matrimonio di Federico II e progetta la palazzina per Margherita Paleologa, sposa di Federico II Gonzaga; -nel 1536: inizio dei lavori per l’Appartamento di Troia, con storie tratte dell’Iliade, in Palazzo Ducale; -nel 1545: muore Federico II; -nel 1545: Il cardinale Ercole Gonzaga, successore di Federico II, gli commissiona il rinnovamento del duomo di Mantova e dell’Abbazia di San Benedetto Po. -nel 1546: Giulio Romano muore. Federico II scrive a Baldassarre Castiglione il 26 maggio 1519 ed esprime il desiderio di fare una onorevole sepoltura al proprio padre. Federico II ha questo problema di seppellire il padre e scrive a Baldassarre Castiglione: «Perche pensamo di voler far fare un honorevole sepultura per lo Ill. mo S. nostro padre [Francesco II Gonzaga, morto il 29 marzo 1519] de felice memoria, vogliati farci fare quattro o sei disegni belli de sepolture da Michelangelo, da Raphael, e da qualche altri valenthomini che si ritrovino lì in Roma, e mandaticeli». Probabilmente è Raffaello che elabora questo progetto di monumento funebre per Federico II in onore del padre, Francesco II Gonzaga. Grandi telamoni ai lati, il bassorilievo è tratto da uno dei medaglioni dell’arco di Costantino, allegorie dei fiumi, statue che vedono in alto questo monumento equestre di valore molto classico di questo condottiero, Francesco II Gonzaga. Questo è il progetto che Raffaello per il tramite di Baldassarre Castiglione invia a Federico II. Raffaello, Progetto per il monumento funebre di Francesco II Gonzaga  soluzione di Raffaello. C’erano altri artisti a cui aveva chiesto un progetto per la tomba del padre e questa è la soluzione di Giulio Romano. Giulio Romano, Progetto per il monumento funebre di Francesco II Gonzaga  soluzione di Giulio Romano. Classicismo, riferimento a modelli importanti del Marco Aurelio, del monumento funebre, del monumento equestre estremamente classico, qui, invece, questa soluzione adottata da Giulio Romano è la posizione di questo uomo posto in modo più disinvolto con una certa sprezzatura, il ritratto di Francesco II Gonzaga, che viene visto come addormentato sopra la propria tomba. Giulio Romano, Gli Amanti L’opera con la quale probabilmente Giulio Romano si presenta a Federico II è Gli Amanti, in origine una tavola, poi trasportata su tela, che fa parte di questa tipologia di dipinti che servono per l’arredo di una casa. A monte abbiamo una produzione molto ricca nell’area toscana di cassoni nuziali e di spalliere che venivano ad allestire degli spazi degli ambienti molto raffinati. Probabilmente questo dipinto serviva per la stanza da letto del duca, che all’epoca non era ancora sposato e che si sposa nel ’31. Dipinto in cui si vede questa grande carica erotica di Giulio Romano che ben si mette in sintonia con quelli che sono i desideri di una corte abbastanza disinvolta come quella di Federico II, che voleva essere stupito e voleva opere che scandalizzassero, che stupissero la corte. Quindi, Giulio Romano qui si trasforma da perfetto allievo di Raffaello in un pittore che esplora le possibilità che gli vengono offerte da questa committenza colta, raffinata e privata, la ricerca di tematiche più piccanti e più curiose, insolite, come questo dipinto degli amanti. Questo è un dipinto giovanile e nella fase giovanile, quando Romano è ancora fresco della bottega di Raffaello, Giulio Romano è un pittore eccezionale che sa rendere proprio queste figure, il plasticismo di una maniera che comincia ad essere più complicata, più raffinata, comincia ad intercettare anche un gusto che comincia a divaricarsi dalla strada di Raffaello. È lo stesso Vasari che ci parla di «…un altro quadro donatogli dal duca Federigo, pur di mano di Giulio, nel quale è un giovane et una giovane abbracciati insieme sopra un letto, in atto di farsi carezze, mentre una vecchia dietro a un uscio nascosamente gli guarda. Le quali figure sono poco meno che il naturale e molto graziose». Quindi, lui si presenta come nuovo Raffaello alla corte di Federico II e proprio questo ingresso nella corte gonzaghesca di Giulio Romano (quando aveva solo 22 anni) viene descritto da Vasari: «Essendo Giulio dopo la morte di Raffaello per lo migliore artefice d’Italia celebrato, il conte Baldassarre Castiglioni, che allora era in Roma ambasciadore di Federigo Gonzaga, marchese di Mantova, essendogli dal marchese suo signore comandato che procacciasse di mandargli un architettore (…) tanto adoperò con prieghi e con promesse, che Giulio disse che andrebbe. Quando fu là, il Castiglioni lo presentò al marchese, che gli fece dar una casa fornita onorevolmente e gl’ordinò provisione, e gli mandò veluto e raso e altri drappi e panni per vestirsi; e dopo, intendendo che non aveva cavalcatura, fattosi venire un suo favorito cavallo, chiamato Luggeri, glielo donò; e montato che Giulio vi fu sopra, se n’andarono fuor della porta di S. Bastiano, dove sua eccellenza aveva un luogo e certe stalle chiamato il Te, in mezzo a una prateria, dove teneva la razza de’ suoi cavalli e cavalle. E quivi arrivati, disse il marchese che avrebbe voluto accomodare un luogo da potervi andare tal volta a desinare, o a cena per ispasso. Giulio, udita la volontà del marchese e veduto il tutto, mise mano all’opera». Al di là del racconto molto evocativo di questa ammirazione che nutre il duca per Giulio Romano che ha 22 anni, quindi è proprio considerato già un genio dell’arte rinascimentale perché viene dalla bottega di Raffaello, lo accoglie con tutti gli onori ed è significativo anche nella narrazione di Vasari che i due si dirigano subito a Palazzo Te. Già da questa narrazione noi possiamo ricavare un’indicazione molto interessante: nemmeno il tempo di presentarsi a Federico II che subito Federico II lo prende, gli dà un cavallo e gli dice di andare con lui a Palazzo Te perché lì è il primo incarico che gli vuole dare. Lì, a palazzo Te, Giulio Romano realizzerà la sua prima opera. Baldassarre Castiglione Baldassarre Castiglione è un nobile mantovano che ad un certo punto, non trovandosi bene nella corte di Mantova, decide di seguire Elisabetta Gonzaga ad Urbino e lì Castiglione si inserisce nell’élite della cultura italiana del momento, perché ad Urbino incontra Pietro Bembo, che è l’intellettuale più importante che l’Italia ebbe in quel periodo. Bembo lavora con il Papa Leone X, è intimo con Raffaello e di tutti i più grandi artisti del Cinquecento, quindi questo soggiorno di Castiglione a Urbino e queste sue frequentazioni, in particolare con Pietro Bembo e la corte pontificia, lo mettono in contatto con la élite culturale e artistica del tempo. Ed è proprio per questo che qui scopriamo la ragione per cui Federico II si rivolge ad un’altra persona per avere Giulio Romano a Mantova, perché per certi aspetti Baldassarre Castiglione era addirittura più importante di Federico II, perché Castiglione aveva questi contatti con la corte pontificia e con i grandi artisti di Leone X. Questo è il grande vantaggio di questo grande uomo di cultura. Importante costruire anche un contesto storico entro il quale collocare tutti questi fatti che avvengono, altrimenti ci mancherebbero dei tasselli troppo importanti per capire la storia dell’arte. Un tassello molto importante per capire questo primo Cinquecento è proprio la figura di questi intellettuali, di questi “mediatori culturali”, di queste figure che non sono sempre immediatamente riconoscibili, che non ci dicono sempre qualcosa come invece i grandi nobili e i pittori, ma che sono fondamentali per lo sviluppo della storia dell’arte e proprio per ricostruire i nessi di quanto avviene nel mondo storico-artistico. Baldassarre Castiglione ha avuto tra le tante occasioni di essere celebrato anche quella di un ritratto di Raffaello, questo celebre ritratto che Castiglione conservava nella sua casa di Mantova. Noi sappiamo che il suo ritratto fino al 1509 era a Mantova. Raffaello, Ritratto di Baldassarre Castiglione Rubens, Ritratto di Baldassarre Castiglione Rubens sarà l’altro grande pittore di Mantova, pittore di Vincenzo I Gonzaga in questa ideale prosecuzione di pittori di corte che si apre con Pisanello, che continua con Mantegna, Giulio Romano, fino ad arrivare a Rubens. Questa copia di Rubens è la prova del fatto che il ritratto di Baldassarre Castiglione di Raffaello era conservato dallo stesso Baldassarre Castiglione a Mantova nella sua casa fino al 1609, dove Rubens sicuramente ebbe la possibilità di vederlo. Tiziano, Ritratto di Baldassarre Castiglione a corte per sistemare queste opere. (vedi lettera nella slide) Calandra racconta come si sta evolvendo la preparazione delle stanze per Margherita Paleologa. Lui ha proprio un architetto privato che allestisce questi spazi. Tra tutti i quadri elencati nella lettera abbiamo nella slide successiva: il quadro di Federico II fatto da Tiziano, il quadro di San Girolamo di Quentin Massys, il quadro di Cristo morto di Andrea Mantegna, il quadro di San Girolamo di Tiziano. Leonardo da Vinci, Disegno di uno zingaro Quentin Massys, Ritratto di vecchia Quentin Massys, pittore fiammingo, è molto vicino a Leonardo e sfrutta queste potenzialità della caricatura e anche dell’osservazione sarcastica della realtà. Non ci dobbiamo dimenticare che lo stesso Leonardo esplora questa dimensione della caricatura e del mondo del comico e del sarcastico, molti anni prima delle nature morte, proprio per darci l’idea di questo inizio di osservazione della realtà. Tiziano Vecellio, Ritratto di Giulio Romano Ritratto di Giulio Romano, un ritratto che ora è esposto a Palazzo Te, ma che ha avuto delle vicende collezionistiche piuttosto complesse. È stato acquistato all’asta Christie nel 1996 e precedentemente si trovava nella collezione di Carlo I d’Inghilterra e poi in quella di Lord Kinnaird. Non è stata identificata la pianta dell’edificio che Giulio Romano tiene in mano nel momento in cui Tiziano gli fa il ritratto. Questo fa parte della serie di ritratti di architetti, che in genere si fanno ritrarre con gli strumenti del proprio lavoro, in questo caso con la pianta di un edificio da lui disegnato. Si è pensato ad un certo punto che si potesse trattare della pianta della rotonda di San Lorenzo a Mantova, però in realtà non corrisponde questo edificio che eppure è di pianta circolare. GIULIO ROMANO, PALAZZO TE Torniamo con la mente a quel giorno in cui, come ci racconta Vasaro, Giulio Romano arriva a Mantova e viene accolto da Federico II, che lo porta nella zona del Te, dove lui teneva gli animali, che in realtà al tempo era fuori dalla cinta muraria di Mantova, una zona di campagna. Palazzo Te rispetta quelle che sono le descrizioni della domus romana con i quattro ingressi su tutti e quattro i lati. Edificio a pianta quadrata con quattro ingressi (di cui uno principale), con le pescherie e uno spazio, chiamato il giardino segreto, che era una sorta di appartamento particolare di Federico II. La casa di famiglia di Baldassarre Castiglione a Casatico  la cosa curiosa è che a Casatico c’era una corte piuttosto simile a quella che Giulio Romano poi va a realizzare per Federico II. Per dire che in realtà ci sono delle corti della campagna che hanno una struttura analoga e quello che fa Giulio Romano è rivestire concettualmente anche queste strutture esistenti con le proprie competenze antiquarie, archeologiche, quelle di rivestire e ricreare questo ambiente che da una semplice corte rurale diventa una domus romana a tutti gli effetti, con l’inserimento di quegli elementi architettonici derivanti dallo studio dall’antico che lui aveva cominciato a sviluppare al fianco di Raffaello, che ad un certo punto, vedendo le rovine della Roma antica, della Roma dell’epoca dei romani via via scomparire all’inizio del Cinquecento, si dedica al disegno di tutto quello che di antico trova a Roma per cercare con un’operazione filologica, archeologica di ricostruire idealmente come dovevano essere questi edifici. La nostra conoscenza della Roma antica, che si verifica all’inizio del Cinquecento con lo studio, non gode quasi mai di edifici esistenti in tutte le loro parti, ma si tratta dello studio delle piante degli edifici, come farà ad esempio Palladio quando ricreerà le ville romane attraverso le ville venete. Si tratta di studi di frammenti e anche in questo vediamo la complessità del lavoro di questi architetti, perché si tratta di studi di frammenti (basi di colonne, frammenti di muratura ecc.) e attraverso l’interpretazione di queste tracce di edifici virtualmente ricostruiscono quello che doveva essere l’edificio romano. Per cui è una operazione intellettuale estremamente complessa, paragonabile alle ricostruzioni virtuali che si fanno ora, perché da piccoli elementi riescono a risalire a che cosa in origine esisteva. Ecco alcuni disegni che riportano la planimetria di Palazzo Te. Vediamo come da subito artisti fiamminghi, come Marten van Heemskerck, si interessano a questo edificio, che risulta immediatamente un edificio di grande valore e importanza. Anonimo A del codice dell’Album di disegni di Marten van Heemskerck, Copia della planimetria di Palazzo Te Per entrare a Palazzo Te c’era la porta del Te, quella porta che poi viene costruita da Giulio Romano e quella porta che attraversano a cavallo Giulio Romano e Federico II, secondo il racconto di Vasari. Si accedeva dalla città. Questi sono dei disegni assai interessanti di questa porta della Pusterla che Giulio Romano progetta proprio anche per preparare l’arrivo a Palazzo Te dalla città. Quindi, non è semplicemente il progetto di un palazzo, ma è proprio la riqualificazione di una intera area, che è l’area del Te, area suburbana, alla quale si accede attraverso questa nuova porta. Giulio Romano, Primo progetto per la Porta del Te o Pusterla Descrizione: bugnato rustico particolarmente importante, che dà l’idea anche del peso e della forza di questi edifici. La lunetta con una madonna col bambino e i due santi. Lo stemma del marchese, del duca di Mantova. Due porte laterali, secondo uno schema romano che Giulio Romano adotta. Anche questa porta Pusterla, come la palazzina di Margherita Paleologa, è stata demolita, ma ci restano queste testimonianze fotografiche. Altre dimore che erano presenti a Mantova dei Gonzaga sono idealmente rappresentate dal Palazzo di Marmirolo. Oggi questo palazzo non esiste più. Palazzo Te non era una novità assoluta di quel periodo: Federico II viveva nel palazzo Ducale di Mantova, ma aveva un sistema di residenze estive (tradizione che esisteva da tempo). Viene fondato palazzo di Marmirolo da Giovanfrancesco Gonzaga nel 1435 e poi Federico I, figlio di Giovanfrancesco Gonzaga, poi in seguito Francesco II e Federico II decorano questo palazzo. Fino a quando Federico II non decide di affidare la commissione di Palazzo Te a Giulio Romano, il Palazzo di Marmirolo è la residenza estiva di Federico II. Quindi, a pochi chilometri da Mantova, sicuramente più lontano di dove si trova Palazzo Te, c’era questa grande residenza, molto celebrata dalle fonti. Questo è il modello utilizzato da Giulio Romano. Ecco invece qual è la trasformazione a cui Giulio Romano sottopone questo palazzo, la trasfigurazione del palazzo in chiave antiquaria, in chiave classica, con il forte utilizzo del bugnato rustico, con i capitelli dorici e con tutta questa decorazione del cornicione che nobilitano un palazzo che fino a quel momento non si era mai visto a queste latitudini, perché non esisteva nulla di simile, perché per progettare qualcosa di simile bisognava avere una profonda conoscenza del modo di costruire romano. C’erano stati e ci saranno dei tentativi fatti da Giovan Maria Falconetto, che sta a Roma, Michele Sanmicheli, ci sono degli architetti che vanno a Roma e si interessano di questo modo di costruire romano, però di certo nessuno, se non Giulio Romano, che era stato allievo di Raffaello, poteva dare vita ad una struttura così avveniristica per il tempo alla data 1525. Questo è un’anticipazione di quello che avviene a Venezia in conseguenza al sacco di Roma, cioè l’immagine di Venezia rinascimentale quattrocentesca viene trasformata al seguito dell’arrivo di Jacopo Sansovino a Venezia, che costruisce Piazza San Marco, come noi oggi la conosciamo. Questo avviene solo dopo il sacco di Roma, per questo si è deciso di trattare Giulio Romano prima del sacco di Roma, perché è il preludio di quella diffusione della maniera romana e della maniera dell’Italia centrale che avverrà solo dopo il 1527, dopo il sacco di Roma. Invece qui siamo a date leggermente anteriori ed è il primo episodio in cui la cultura antiquaria romana arriva nel nord Italia e segna un momento di rottura con il modo di costruire e con il modo di operare degli architetti del nord Italia. Questa è dunque l’importanza di Palazzo Te, l’importanza dell’arrivo di Giulio Romano nel nord Italia, che non ha eguali come impatto culturale. Non si tratta neanche di qualità della pittura, non si tratta di qualità dell’architettura in senso stretto, però è proprio il primo arrivo di questa cultura romana a tutti gli effetti e su una scala così monumentale. Esterno: tutta una struttura non in pietra, ma in mattoni, poi rivestita con l’intonaco per dare l’effetto della pietra, della preziosità dei marmi romani. Dunque, inganno ottico. L’alternanza delle lavorazioni di questi blocchi di mattoni rivestiti, molto più disegnati nella parte superiore e molto più robusti, proprio per dare un’idea di forza, nella parte inferiore, con questo alternarsi di bugnato molto rustico con un bugnato invece più levigato e più composto. da notare la differenza tra questo registro con una lavorazione più di superficie e un registro più plastico, che ricorda quasi il Colosseo, l’Arena di Verona, questa presenza di massi così plastici, così forti. L’interno di Palazzo Te è più raffinato. Comincia ad essere utilizzata la colonna come elemento decorativo, quindi appoggiata alle pareti. Architrave che si spezza tra le colonne con un elemento che scende e che dà una sensazione di precarietà. Sgrammaticature di Giulio Romano. Già nell’architettura cominciamo a capire che non è un artista, un architetto, un pittore completamente classico. Nonostante sia un allievo di Raffaello e Raffaello fosse morto da quattro anni, non ci troviamo di fronte ad un proseguitore in toto dello stile del suo maestro, ma anzi ad una personalità molto inquieta, espressiva, nella quale, anche quando deve costruire e ha dei vincoli molto stretti, perché l’architettura impone dei vincoli precisi (altrimenti il palazzo cade), emerge lo spirito di stupire, di mettere in dubbio le regole classiche così come sono state faticosamente apprese, rendendo addirittura pericolante la struttura architettonica con questo innesto di questi architravi che si rompono in questo modo. L’interno presenta un soffitto a cassettoni estremamente elaborato. Un elemento che stupisce enormemente lo possiamo individuare nelle colonne, che vengono lasciate non finite, quindi con il capitello dorico scolpito in tutte le sue parti e poi invece la colonna lasciata a grezzo, come anche le chiavi di volta. Per cui qui, nel momento in cui ci si sforza massimamente di rendere una domus romana, noi ci troviamo di fronte al paradosso di una messa in discussione di questi elementi che per la prima volta vengono interpretati in chiave espressionista, in chiave moderna. Abbiamo questo paradosso che comincia ad emergere di un Giulio Romano che è nato dento la cultura antiquaria e in qualche modo la vuole superare attraverso questi espedienti. Pianta del piano terreno di Palazzo Te Il palazzo è costruito da una serie di stanze: loggia ovest, camera di Ovidio, camera delle Imprese, camera del Sole e della Luna, loggia nord delle Muse, il grande salone dei cavalli (spazio in cui Federico II teneva i suoi cavalli), sala di Psiche, camera dei Venti, camera delle Aquile, loggia est di Davide, camera degli Stucchi, camera dell'Imperatore, sala dei Giganti, camerino a crociera, camerino delle Grottesche, camerino di Venere, camera dei Candelabri, camera delle Cariatidi, loggia sud, camera delle Vittorie. La sala di Psiche e la sala dei Giganti sono le camere più importanti. Pianta dell’appartamento segreto del Giardino a sinistra dell’esedra (altro spazio importante) Il giardino segreto è una sorta di Palazzo Te in miniatura, dove si trova questo appartamento più piccolo. Sala dei cavalli La sala dei cavalli ha una decorazione abbastanza convenzionale. Giulio Romano nella realizzazione del camino gioca con queste volute che sostengono questi massi pesantissimi, messi al di sopra del camino. Invenzione con nicchie e busti all’antica. Le storie di Ercole, con le quali Federico II si identificava. Monocromi dorati delle fatiche di Ercole (stile possente e muscolare, stile tipico di Giulio Romano) con in corrispondenza alcuni cavalli di Federico II, di cui conosciamo anche il nome. Tanto grande la passione per i cavalli di Federico che fa nominare, dà un nome a questi cavalli come se fossero dei familiari. Il Morel Favorito è il suo cavallo preferito che viene fatto ritrarre sullo sfondo della campagna all’interno di questa importante architettura. Camera del Sole e della Luna Sala dei Giganti Prima immagine: divinità pluviale sommersa da massi, che è una sorta di introduzione a quello che possiamo vedere nella grotta dei giganti. Dallo studio della pianta della grotta dei giganti si assiste a questo fenomeno architettonico. In questo caso modifica la struttura di questa sala, ma in realtà qui non esistono gli angoli ed è una vera e propria grotta in cui abbiamo una esperienza immersiva. In questo caso siamo completamente immersi e perdiamo la distanza, il controllo conoscitivo con la realtà circostante. Gombrich, il grande studioso di Mantova e di Giulio Romano, vedeva in questa perdita di possibilità di controllare lo spazio dinanzi a noi in qualche misura anche una perdita di conoscenza, di controllo e un’esperienza che l’arte non dovrebbe favorire. Secondo Gombrich l’arte non doveva spettacolarizzare il mondo, ma doveva farcelo conoscere. Invece, in questo modo nel Cinquecento noi assistiamo a questo fenomeno di immersione, di coinvolgimento dello spettatore che nelle sue estreme conseguenze arriva anche a questo fenomeno di immersione nella stanza senza avere punti di riferimento. Gesto imperioso di Zeus che con il fulmine crea questo franare delle rocce, delle architetture in questo senso provocatorio che già abbiamo iniziato a leggere nel linguaggio architettonico di Palazzo Te. L’aspetto pericolante, precario delle architetture qui trova la sua manifestazione principale. La volta che sembra che ci frani addosso. Non si era mai visto un tentativo di addirittura creare terrore nell’osservatore attraverso semplicemente delle immagini. Turbinio di dei, che osservano la caduta dei giganti che hanno cercato di sfidargli, di sfidare gli dèi dell’Olimpo. Struttura architettonica che ci potrebbe ricordare un omaggio a  Mantegna, Camera degli Sposi. Anche la Camera degli sposi ha queste architetture dalle quali si affacciano questi puti. Mantegna struttura molto bene queste visioni prospettiche, è molto attento a questo aspetto. È un omaggio nel senso che anche qui ci sono delle architetture di scorcio. Sicuramente l’idea di mettere delle figure, come i puti che si affacciano, aiuta a vedere in prospettiva, in scorcio, in profondità questo spazio. Chiaramente quello di Mantegna non è vertiginoso, elaborato come quello di Giulio Romano. Descrizione Camera degli Sposi: è la massima realizzazione di una stanza dipinta in tutte le sue parti. Vediamo che la struttura architettonica viene addirittura arricchita e rafforzata nelle sue caratteristiche dalla pittura, che segue tutte le costolature dello spazio architettonico, che ci permette di vedere in questa finzione un paesaggio che si apre al di là delle architetture, molto ordinato, nel quale lo sforzo del pittore è quello di rafforzare ed eliminare l’architettura per consentirci in questo inganno ottico di avere una visione oggettiva della realtà. Tutti questi dettagli architettonici vanno a costruire uno spazio controllato con delle finzioni, che sono però finzioni oggettive. C’è tutta una organizzazione molto razionale dell’immagine. Chiaramente finge qualcosa che non esiste, ma lo finge seguendo delle regole matematiche e prospettiche nel quale noi ammiriamo questo spettacolo. Invece, nella Sala dei Giganti  ci sono queste citazioni, ci sono questi elementi, ma il loro significato è completamente ritrasformato in questo grande franare delle cose. L’impressione della Camera degli Sposi era di uno spazio razionale, perfettamente controllato, mentre qui a momenti ci sentiamo che la stanza crolla addosso anche a noi. Era questo in effetti quello che voleva fare Giulio Romano per usare l’arte in un senso completamente diverso rispetto a quello che si faceva nel Quattrocento, con lo scopo di sorprendere lo spettatore, che è una delle grandi caratteristiche del Manierismo. Caratteristica di voler stupire e di voler strappare l’ammirazione dello spettatore, che viene invitato a guardare l’immagine, non più con questa illusione dell’oggettività, ma proprio con la seduzione, con l’inganno, con il gioco di rimandi illusivo di questo periodo. Franare dell’architettura, colonne distrutte, sembra quasi di percepire le urla dei personaggi, un mondo che ci coinvolge completamente. Commento di Vasari sulla Stanza di Giganti : “E chi entra in quella stanza, vedendo le finestre et le porte torcersi e quasi per rovinare, et i monti e gl’edifizii cadere, non può non temere che ogni cosa non gli rovini addosso. E quello che è maraviglioso, è il veder tutta quella pittura non avere principio né fine, et attaccata tutta e tanto bene continuata insieme senza termine o tramezzo di ornamento”. L’architettura viene usata per essere quasi un sostegno della figurazione. Figure che invadono il nostro spazio come mai era successo (es. gigante che schiaccia quasi la porta dove lo spettatore passa). Anche aspetto caricaturale. Maniera moderna dopo il sacco di Roma  la maniera moderna inizia con Raffaello e Michelangelo a servizio di Giulio II e Leone X, ma qui abbiamo fase vera e propria di manierismo rispetto a quel momento più classicista che era l’arte che idealmente vediamo concludersi intorno al 1520 con la morte di Raffaelo e Leone X. Nascita di questo gusto moderno che rompe questo ossequio nei confronti della tradizione. Si permettono anche licenze verso il comico, verso il grottesco. Giulio Romano e il vescovo Gian Matteo Giberti Importanza di Giulio Romano nel nord Italia. Commissioni di Romano per il duomo di Verona. La grande amicizia con il vescovo di Verona, Gian Matteo Giberti, lo porta a fornire anche dei disegni per il duomo. Francesco Torbido, Decorazione della cappella maggiore del Duomo di Verona Pitture realizzate dal pittore veronese Torbido. Giulio Romano, Disegni preparatori per gli affreschi della cappella maggiore del duomo di Verona Disegni preparatori, vario tipo di invenzioni: scena con la natività, scena con l’incoronazione, scena di presentazione al tempio con l’assunzione della Vergine. Vediamo come si diffonde il linguaggio di Giulio Romano da questo centro che è Mantova. Lui è molto controllato da Federico II, perché non gli consente di lavorare troppo per altre persone, però, se gli amici, come Gian Matteo Giberti, gli chiedono dei favori, lui collabora con queste persone. Mantova diventa un po’ il centro da cui si irradia questa maniera moderna. Disegni per le oreficerie Disegni per l’arredo della tavola. Idea di come questi artisti ridisegnassero un’intera epoca. Artisti come persone che lavoravano e davano vita in tutti i suoi aspetti alla figuratività del tempo. «La morte di questo raro homo mi averà almeno giovato a spogliarmi dell’appetito del fabbricar, degli argenti, delle pitture etc. perché inatti non mi basterà l’animo di far alcuna cosa di queste senza il disegno di quel bello ingegno, onde finiti questi pochi, i disegni de’ quali sono appresso di me, penso di sepellir con lui tutti i miei desiderii» Questo è un lamento che Ercole Gonzaga rivolge al fratello Ferrante Gonzaga. Ercole Gonzaga succede a Federico II nel controllo del ducato di Mantova e inizia a dare delle commissioni a Giulio Romano, tra 1540 (quando succede a Federico II) e 1546 (morte di Giulio Romano). Dalla lettera vediamo come Ercole Gonzaga aveva tutti questi disegni di Giulio Romano e di volta in volta dava da realizzare questi oggetti a vari artigiani. Una volta finite queste riserve di disegni, non ci sarà più motivo di fare questi oggetti, perché manca l’idea di Giulio Romano. Piattaia di oggetti della tavola imbandita per ricevere grandi personaggi, tra cui nel 1530 Carlo V. nel 1530 Carlo V sta arrivando in Italia per l’incoronazione a Bologna di Clemente VII e tutti a Genova, Mantova ecc., tutte le città si preparano a ricevere l’imperatore e quindi cercano di dare il meglio di sé. Oggetti che imbandivano la tavola di Federico II nelle grandi occasioni, quando riceveva grandi personaggi a Palazzo Te. Disegni dell’inventario di Ercole Gonzaga: Giulio Romano, Studi per un cofanetto  “bacilla d’argento con una tartaruga in meggio”. Contenitore con una sezione di canne di fiume, di pesci che nuotano nell’acqua versata all’interno di un bacile, anatre dall’altra parte. Ambientazione molto mantovana. Pinza con il becco dell’anatra, utilizzata per prendere il cibo. Borraccia, contenitore per liquidi, con due oche bicipiti, con zampe palmate. Allude alla natura in un gioco spettacolare di utilizzo della natura come fonte di continue invenzioni spettacolari. Mascheroni che circondano le teste deformate della Camera dei Giganti. Riconosciamo lo stile di Giulio Romano. Corallo che sostiene una conchiglia. Quindi, dai disegni di Giulio Romano vennero realizzati oggetti di oreficeria. Giulio Romano e l’Antico Giulio Romano: personaggio pittoresco, versatile, particolare. Ma quali sono le sue origini? Racconto di chi era Giulio Romano, del suo rapporto con Raffaello e del suo rapporto con l’antico dalle parole di Vasari. Incontro di Giorgio Vasari, pittore e architetto della corte medicea e primo storico dell’arte, con Giulio Romano. Vasari parla di sé stesso in terza persona. In questo tempo Giorgio Vasari, che era amicissimo di Giulio, se bene non si conoscevano se non per fama e per lettere, nell’andare a Vinezia, fece la via per Mantova per vedere Giulio e l’opere sue. E così arrivato in quella città, andando per trovar l’amico senza essersi mai veduti, scontrandosi l’un l’altro si conobbono non altrimenti che se mille volte fussero stati insieme presenzialmente. Di che ebbe Giulio tanto contento et allegrezza, che per quattro giorni non lo staccò mai, mostrandogli tutte l’opere sue e particolarmente tutte le piante degli edifizii antichi di Roma, di Napoli, di Pozzuolo, di Campagna e di tutte l’altre migliori antichità di che si ha memoria, disegnate parte da lui e parte da altri. Di poi, aperto un grandissimo armario, gli mostrò le piante di tutti gl’edifizii che erano stati fatti con suoi disegni et ordine, non solo in Mantova et in Roma, ma per tutta la Lombardia, e tanto belli, che io per me non credo che si possano vedere né le più nuove, né le più belle fantasie di fabbriche, né meglio accommodate. Il qual Vasari partito di Mantova et andato a Vinezia e di là tornato a Roma, in quel tempo a punto che Michelagnolo aveva scoperto nella cappella il suo Giudizio mandò a Giulio, per Messer Nino Nini da Cortona, segretario del detto cardinale di Mantova, tre carte de’ sette peccati mortali ritratti dal detto Giudizio di Michelagnolo, che a Giulio furono oltre modo carissimi, sì per essere quello ch’egli erano, e sì perché, avendo allora a fare al cardinale una cappella in palazzo, ciò fu un destargli l’animo a maggior cose che quelle non erano che aveva in pensiero. Giulio Romano mostra a Vasari la sua collezione di disegni antichi, fatti da sé stesso e da altri. Romano faceva parte della bottega di Raffaello, dove si studiava in maniera ossessiva l’antico e le gesta di Roma. Idea che ci dà Vasari che quest’uomo (Giulio Romano) conosce tutte le architetture, tutte le antichità presenti in Italia, che quindi ha un enorme repertorio di immagini da utilizzare poi nelle sue opere. Vasari ricambia la gentilezza di Romano di avergli fatto vedere i disegni antichi: arriva a Roma, scoprono il Giudizio Universale di Michelangelo nel 1541, fa dei disegni promemoria per Giulio Romano, il quale sembra utilizzare questi disegni per le cose che sta facendo a Mantova. Vasari era un grande ammiratore di Michelangelo, quindi appena può ci dà sempre l’idea che tutto nasce con Michelangelo. Quindi, c’è questo scambio, questo apprezzamento, che ci fa capire una cosa, tutta da verificare: tutta questa massa di disegni che Giulio Romano mostra a Vasari a Mantova esisteva realmente? Noi in realtà abbiamo pochissimi disegni architettonici di Giulio Romano e nessun disegno di edifici antichi. Questo è un problema critico. Quindi, non capiamo bene cosa Vasari intendesse quando dice che aprì l’armadio e trovò tantissimi disegni di architettura. Abbiamo il Codice Fossombrone, il Codice Strahov e il Codice Chlumczanky (vedi slide). In realtà il rapporto con l’antico attraverso il disegno da parte di Giulio Romano è un po’ problematico. Ma Giulio Romano è talmente imbevuto di questa cultura classica che, anche se non avesse avuto questo Entrato nelle collezioni Gonzaga solo nel 1523, dopo che Giovan Battista Malatesta, ambasciatore di Federico II a Venezia, presentava al suo signore «M. ro Ticiano excellentissimo nell’arte sua e anco modesto, et gentil persona in ogni cosa». Lettera del 25 gennaio 1523. Quindi, i due si conoscono nel 1523, si presentano, probabilmente Federico II viene a conoscenza dell’esistenza di questo grande pittore, poco prima dell’arrivo di Giulio Romano, quindi, c’è un forte interesse di Federico II nei confronti della pittura. È alla ricerca di pittori che possano dare lustro alla propria corte. Questa opera, del 1515, non poteva essere stata dipinta per Federico II, ma viene acquistata sul mercato da Federico II per la grandezza di Tiziano. Non conosciamo le circostanze specifiche. Tiziano Vecellio, San Girolamo penitente Dipinto che si trova nell’allestimento della camera di Margherita Paleologa. Perché questo dipinto arriva a Mantova? C’è una lettera. 23 febbraio 1531, Benedetto Agnello, agente di Federico Gonzaga a Venezia, scrive al duca che due giorni prima aveva imbarcato su una nave diretta a Mantova «il S.To Hieronymo che ho avuto da m. Ticiano. Racconta del rammarico del pittore per non poter averlo «anhora qualche dì ne le mani per fare una cosa eccellente e degna di V.S. ». 28 febbraio 1531 il duca riceve il quadro e scrive a Tiziano «lo tengo fra le cose mie più care per essere cosa veramente e bella et da tenere carissima…». Gli chiede di eseguire una «Santa Maddalena lachrimosa più che si può» da offrire in dono al generale dell’esercito imperiale in Italia, il marchese Alfonso d’Avalos, suo amico e alleato politico». Quindi, cinque giorni dopo la lettera il quadro arriva e il duca, Federico II, scrive una lettera per avvisare di questo. Da notare che  1531: anno del matrimonio con Margherita Paleologa. Infatti, il quadro devozionale di Tiziano si trova nell’allestimento della camera di Margherita Paleologa. Conosciamo i rapporti che si cominciano ad instaurare tra Tiziano e Federico II, che però risalivano già al 1523, quando probabilmente arriva a Mantova a Federico II la Donna allo specchio, questo dipinto che è molto nel gusto di Federico II. Federico II per sé tiene questi dipinti con queste belle donne all’antica di Tiziano, con questi temi profani e invece alla moglie riserva le tematiche penitenziali del San Girolamo. I rapporti tra i due sono anche molto quotidiani, anche che riguardano cose di vita pratica e questo ci porta anche alla scoperta di questo quadro di Tiziano, Cristo appare alla madre. Questo quadro, che arriva nel 1554, ha una storia lunga. Perché nel 1530 Tiziano richiese a Federico II Gonzaga per il figlio Pomponio (1523- 1596) il beneficio di Santa Maria del Dosso di Medole, centro sotto il ducato dei Gonzaga, ma in diocesi di Brescia. 1531: Tiziano vede soddisfatta la sua richiesta da parte del duca con la necessaria bolla papale. 1554: richiesta di Tiziano di togliere il beneficio a Pomponio a seguito di una delle molte liti con il figlio. Gli fa avere questo stipendio come parroco di questa chiesa, poi Tiziano litiga con il figlio e chiede che venga ritirato questo stipendio che il padre gli aveva garantito intercedendo presso Federico II. Attraverso questi contatti Tiziano riesce a piazzare il proprio figlio in questa parrocchia nel bresciano. A parte questo aneddoto, la vera grande commissione per Tiziano di Federico II è il Camerino dei Cesari. Lettera di Gian Giacomo Calandra a Sigismondo della Torre del 20 luglio 1536 «Che messer Titiano dice che se raccorderà delli ritratti delli imperatori promissi a Sua Excellentia di fare». noi, sempre attraverso i disegni di Ippolito Andreasi, conosciamo non solo il luogo dove erano collocate queste tele, ma conosciamo anche cosa era raffigurato nel registro inferiore. Vediamo che nel registro inferiore si aprivano questi disegni di Ippolito Andreasi. (vedi slide con la storia degli imperatori) Questa serie di imperatori è talmente importante che dalle misure di questi dipinti si parla di “tela imperiale”. Negli inventari esiste una dicitura di “tela imperiale”: tela delle misure del Camerino degli Imperatori di Tiziano per Federico II. Ci sono rapporti tra Giulio Romano e Tiziano? I due pittori in qualche misura hanno a che fare tra di loro, perché per questo celeberrimo dipinto, Il supplizio di Marsia, Tiziano in realtà in qualche modo utilizza forse un disegno di Giulio Romano. Dal power point successivo: Dopo Federico II... Ritratto del Cardinale Ercole Gonzaga, personaggio che si disperava per la morte di Giulio Romano nel 1546. Federico II muore nel 1540, mentre Ercole Gonzaga arriva nel 1546. Fa costruire non solo le oreficerie, ma fa dare nuova vita e nuova forma al duomo di Mantova, ultima commissione di Giulio Romano in città. Il duomo oggi ha una facciata settecentesca, però percepiamo sui lati le cuspidi gotiche che ci fanno capire che il duomo ha origini più antiche. Come era il duomo prima delle trasformazioni di Giulio Romano lo sappiamo grazie a questo dipinto di Domenico Morone, Cacciata dei Bonacolsi da Mantova nel 1328, dipinto che anticipa alcune vedute di città. Vediamo che la facciata aveva ben altra forma. Riconosciamo le cuspidi ai lati. Purtroppo noi non conosciamo come era la facciata di Giulio Romano, perché è stata sostituita da quella settecentesca. L’interno a cinque navate è il progetto del duomo di Mantova come lo aveva pensato Giulio Romano. Questo episodio del rifacimento da parte di Giulio Romano del duomo serve per introdurre un argomento con il quale concludiamo la vicenda di Giulio a Mantova, cioè il momento in cui muore Giulio Romano e subito non ci sono a disposizione pittori dello stesso livello. Tanto che il cardinale, che ha fatto rifare il duomo a Giulio, va a Verona e cerca dei pittori che possano decorare le cappelle di questo duomo. Non va solo a Verona, ma ci sono pittori di altre zone che lavorano alla decorazione delle cappelle delle navate. Decorazione con le pale d’altare (le pale dei veronesi per il duomo di Mantova). Questo capitolo veronese ci introduce a Paolo Veronese. Il giovane Paolo Veronese nel 1552 (a 24 anni) concepisce per Mantova un grandissimo capolavoro, le Tentazioni di Sant’Antonio. Mettendo a confronto le due opere, notiamo che quella a sinistra non è il disegno preparatorio, come si pensava. O si tratta di una prima idea rispetto alla realizzazione finale o si tratta di un’opera quasi indipendente rispetto alla realizzazione finale. A sinistra: disegno con le stesse qualità di un dipinto, quindi non possiamo considerarlo come preparatorio per l’opera. Non è una prima idea, perché è assolutamente rifinita, ma è una alternativa. Magari la prima proposta non è piaciuta ed è quindi stata realizzata un’altra. Queste però sono tutte ipotesi. Lezione 6 (10/10/22) GIULIO ROMANO A VICENZA Giulio Romano lavora per Federico II, poi Federico II muore e gli succede il cardinale Ercole Gonzaga, vescovo di Mantova, che comincia a reggere il ducato di Mantova. Abbiamo visto tutto il dispiacere di Ercole Gonzaga successivo alla morte di Giulio Romano: «La morte di questo raro homo mi averà almeno giovato a spogliarmi dell’appetito del fabbricar, degli argenti, delle pitture etc. perché inatti non mi basterà l’animo di far alcuna cosa di queste senza il disegno di quel bello ingegno, onde finiti questi pochi, i disegni de’ quali sono appresso di me, penso di sepellir con lui tutti i miei desiderii». Ercole Gonzaga dice di avere, in seguito alla morte di Giulio Romano, dei suoi disegni per oreficerie e per tutta una serie di progetti di arti minori. Poi quando questi disegni son finiti, lui dice che non commissionerà più niente. In questi sei anni dopo la morte di Federico II vediamo che c’è un progressivo sviluppo del linguaggio di Giulio Romano anche dal punto di vista geografico. Giulio Romano non resta solo a Mantova, che è la sua base di partenza perché lui è un artista di corte, quindi, lavora in esclusiva per Federico II. Federico II e anche Ercole Gonzaga ogni tanto però gli concedono qualche deroga per qualche lavoro fuori Mantova. In particolare, il 30 novembre 1542 c’è la decisione del consiglio di Vicenza di chiamare Giulio per una consulenza relativa al palazzo pubblico o della regione, oggi conosciuto come Basilica palladiana. Questo artista, Giulio Romano, che anticipa la diffusione della maniera nel nord Italia, viene chiamato anche fuori di Mantova e in particolare viene chiamato a Vicenza per una consulenza. Noi abbiamo molte notizie della presenza di Giulio Romano a Vicenza. Sappiamo che messer Valeriano de Valle venne pagato 10 ducati come rimborso delle spese sostenute nel viaggio a Mantova per portare Giulio a Vicenza. Giulio rimase a Vicenza più di 15 giorni (1542). Poi nel 1543 c’è questo mandato di pagamento di 50 scudi a Giulio Romano per il viaggio a Vicenza e per il soggiorno. Quindi, documentatissimo questo soggiorno molto breve di Giulio Romano. Ad un certo punto, però, per questo restauro del palazzo pubblico c’è una discussione. Ci sono anche dei disegni di Giulio Romano, ma poi questo progetto di Giulio Romano non si concretizza. Il progetto passa all’architetto Andrea Palladio, architetto molto importante. Quindi, importante sapere che Giulio Romano non è solo un artista e architetto mantovano, ma ha anche un contatto con il veneto, dove interviene in un primo momento per dare le sue idee per la realizzazione di questo edificio che poi viene realizzato da Palladio. Palladio ricopre questo edificio con queste logge. All’interno c’è ancora il palazzo medievale quattrocentesco che aveva bisogno di un restauro, un restauro di cui viene incaricato in un primo momento Giulio Romano e che poi viene però fatto da Palladio. È l’occasione per Palladio di rilanciarsi e di diventare una celebrità, soprattutto poi con tutte le commissioni delle ville venete. Si crea una cordata di vicentini favorevoli a Palladio e di qui parte la sua carriera. Qui a Vicenza troviamo un edificio simile a Palazzo Te (Palazzo Thiene). Vediamo che ritorna il motivo dei conci rustici, questo bugnato molto plastico, di questa quasi dimensione di non finito dei conci. Ed è proprio questo il palazzo che più ci interessa per questo passaggio cruciale del mondo della storia dell’architettura, proprio nella costruzione di tutta l’architettura dell’epoca manieristica del nord Italia, perché abbiamo i fratelli Adriano e Marcantonio Thiene che sono in forte contatto con la famiglia Gonzaga e chiamano a Vicenza Giulio Romano. In occasione di questo viaggio per dare un parere su come restaurare la basilica palladiana, progettano questo palazzo. Qui è un po’ un caso particolare questo palazzo, perché, seppure il linguaggio architettonico ci parla di Giulio Romano, questo palazzo è però la realizzazione dei progetti di Palladio. Palladio si trasforma in teorico e decide di scrivere un libro per tramandare qual è il suo modo di costruire e di percepire l’architettura e i suoi studi. Inserisce proprio questo Palazzo Thiene, che dal punto di vista formale è un palazzo che ci ricorda Palazzo Te, soprattutto nella parte inferiore. Visita di un importantissimo personaggio inglese, che è colui che cambia l’architettura in Inghilterra nel Seicento, che porta il rinascimento italiano in Inghilterra, perché fino a quel momento in Inghilterra c’era un modo di costruire che non aveva nulla a che vedere con il mondo classico, romano e greco. Fino al 1600 questo modo di concepire l’architettura non esisteva all’estero. È Inigo Jones il primo che arriva in Italia con una serie di personaggi appassionati della cultura italiana e si mette a studiare l’architettura classica. Nel 1614 va a visitare il palazzo e annota un’informazione che gli era stata riferita direttamente da Vincenzo Scamozzi, l’allievo di Andrea Palladio, e da Palma il Giovane. Tutti e due gli dicono che “questi progetti furono di Giulio Romano ed eseguiti da Palladio”. Quindi, per sentito dire lui ha questo tipo di informazione. Quindi, gli storici dell’architettura sono propensi nel dire che probabilmente Palladio ha completato un progetto di Giulio Romano e poi se lo fa suo, in una qualche misura, avendo dei rapporti con la famiglia Thiene, poi manda avanti il cantiere e si appropria dell’edificio. Questo è un caso molto interessante, perché noi spesso abbiamo delle firme, che però sono false, sono di bottega, abbiamo delle informazioni frammentarie sulle opere d’arte, che non sempre sono l’ultima parola, perché l’ultima parola va a configurarsi su un confronto tra quelle che sono delle informazioni documentarie, archivistiche che noi riceviamo e l’osservazione diretta delle opere. Se noi guardiamo l’ingresso di Palazzo Te e l’ingresso di Palazzo Thiene, noi vediamo che sono praticamente quasi intercambiabili. Per cui noi abbiamo nel libro di Palladio una dichiarazione che l’autografia di Palladio è piena e invece noi ci troviamo di fronte ad un altro Palazzo Te. Per cui chi ha ragione? Testimonianze di Inigo Jones, che ha proprio una copia de I quattro libri di architettura di Andrea Palladio, che vengono stampati nel 1570, e scrive a commento de I quattro libri: “questo vestibolo è da imitare ed è di Giulio Romano e anche lo stile di tutto il palazzo, ma Palladio lo mette sulla pagina come suo”. Questo commento è annotato a margine della copia personale di Inigo Jones (1573-1652) dei I quattro libri di Andrea Palladio. Il volume è conservato a Oxford, Library of sottostante (mediante ossa in bronzo) e sormontato da una palla, fa pensare non solo a una piramide, ma anche a un obelisco, come quello del Vaticano. Le linee che dividono in tre zone questa piramide-obelisco sottolineano le orizzontali dello zoccolo, del coperchio del sarcofago, della banda con la greca sopra la cassa. La trasformazione del ruolo del sarcofago, che da cassa funeraria diventa piedistallo e la maestria compositiva, rivelano una mente spregiudicata e geniale, quale quella di Giulio. La scelta di un monumento ispirato all’antico, privo di riferimenti cristiani, rispecchia la diffusa cultura umanistica della classe dirigente vicentina, impersonata al più alto livello da Giangiorgio Trissino, parente dei Thiene e in stretto contatto con i Gonzaga. A Verona e Vicenza, come a Venezia, il monumento umanistico, che mira a conservare fama e memoria in questo mondo, piuttosto che esprimere speranze di salvezza nell’altro, era più diffuso che altrove» (H. Burns, in Giulio Romano 1989, p. 50) Altro caso difficile da interpretare: Giulio Romano e Michele Sanmicheli, Palazzo Canossa (Verona) Anche in questo caso noi non sappiamo chi abbia fatto questo palazzo a Verona. Qui abbiamo questi tre fornici, questi grandi finestroni con queste chiavi di volta molto pronunciate, queste fila di finestre sotto il marcapiano, l’utilizzo delle lesene. Anche in questo caso l’ipotesi è che si tratti di un progetto di Giulio Romano. Questo confronto visivo è proposto da Burns che contrappone questa visione, questo confronto del linguaggio architettonico ad una testimonianza di Vasari nella Vita di Michele Sanmicheli, in cui scrive: «Fu similimente opera di Michele il bellissimo palazzo che hanno in Verona i signori conti di Canossa, il quale fu fu fatto edificare da monsignor reverendissimo di Baius, che fu il conte Ludovico Canossa, uomo tanto celebrato da tutti gli scrittori de’ suoi tempi». Il confronto stilistico con il lato nord di Palazzo Te ha portato Howard Burns ad ipotizzare l’esistenza di un progetto iniziale di Giulio Romano. Quindi, vediamo che in realtà tutte queste cittadine vicine a Mantova, proprio per il fatto della presenza di un artista così centrale, rientrano, vengono attratte nell’orbita figurativa di Mantova. Quando parliamo di geografia di città, di regione, di Veneto, di Lombardia ecc., dobbiamo sempre pensare a quella che era la geografia del tempo, una geografia che in realtà portava anche questi confronti e queste possibilità di sviluppo. All’interno di questo palazzo di Giulio Romano troviamo questi affreschi con paesaggi di Paolo Veronese (Divinità naturali in un paesaggio). L’emergere del disegno preparatorio di questa opera, che ha caratteristiche in comune al disegno preparatorio per la pala di Mantova, ci aiuta ad attribuire questi paesaggi a Paolo Veronese per la presenza di divinità pluviali. Quindi, Veronese diventa in questo caso un pittore, che è il pittore della modernità, legato a Palladio e a questa stagione post 1550 della maniera nell’Italia settentrionale, che ha i suoi inizi all’interno di alcuni cantieri giulieschi. Quindi, c’è quasi questo passaggio di consegne tra Giulio Romano e un’arte che poi si sviluppa attraverso Verona e Vicenza, la cultura delle ville, con Palladio e Paolo Veronese. Giulio Romano e Raffaello, Sacra Famiglia con Sant’Anna, detta la Perla Cardinale Ludovico di Canossa, vescovo di Bayeux, che fa parte dei grandi intellettuali come Pietro Bembo, Baldassarre Castiglione. Anche lui è a Urbino. Quindi, questa sorta di anticipazione di quella che sarà la grande corte raffinatissima di Leone X, questa anticipazione urbinate vede anche Ludovico di Canossa come protagonista. Ludovico di Canossa aveva un appartamento nel Palazzo ducale di Urbino, progettato da Francesco di Giorgio e da Laurana. È proprio presente in questo momento in cui Baldassarre Castiglione trae ispirazione per il suo Cortegiano e in questo momento in cui la cultura italiana cerca di recuperare queste antichità attraverso la letteratura e attraverso l’arte. Il cardinale Canossa non solo si fa costruire il palazzo da Giulio Romano ma aveva nelle sue disponibilità anche la cosiddetta Perla. Era chiamata la Perla delle condizioni imperiali e spagnole, che viene comprata dal grande collezionista Vincenzo I Gonzaga, uno dei membri della famiglia Gonzaga, grandi collezionisti e amanti dell’arte. Acquista dunque dagli eredi di Ludovico di Canossa la Perla, che poi diventa proprietà di Carlo I con la grande vendita delle collezioni mantovane al re Carlo I d’Inghilterra e che poi successivamente per via collezionistica finisce nella disponibilità dell’imperatore d’Asburgo e quindi ora si trova al Prado. Questa però è un’opera molto interessante perché ci consente il passaggio al Giulio Romano precedente a Mantova. Questa è un’opera giovanile di Giulio Romano. ESERCITAZIONE Prima slide: Opera a sinistra: Sant’Anna di Leonardo. Non è minimamente interessato alla dimensione archeologica, ma è interessato solo all’elemento naturalistico. La luce serve per indagare con la maggiore chiarezza possibile l’elemento naturale. Interesse per gli effetti atmosferici, per la natura. Idea del gruppo sacro nell’area aperta. Opera a destra: Giulio Romano e Raffaello, Sacra Famiglia con Sant’Anna, detta la Perla. Ci sono elementi architettonici. Interesse per la dimensione archeologica. Inserimento di città sullo sfondo, architetture, che ci distolgono l’attenzione dalla natura. Non c’è interesse per la natura. Mondo colto, cultura di fondo che emerge. Slide successiva: Queste opere hanno tutte una caratteristica in comune: riprendono sempre la stessa struttura. Lo sfondo invece cambia completamente. Opera: paesaggio molto umanizzato. C’è la campagna a cui noi siamo più abituati, cioè la campagna abitata. C’è il corso d’acqua, le vallate, una campagna abitata dall’uomo. Pastore un po’ bucolico sullo sfondo, ma alla fine questo è un paesaggio nel quale ci immaginiamo gli uomini. Gli ingredienti sono gli stessi in tutte e tre le opere, eppure abbiamo tre grandi pittori che lavorano diversamente su queste opere. Slide successiva: Opera: Tiziano, Madonna del coniglio Slide successiva: Opera: opera di Tiziano. Commissionato dalla famiglia Maffei. Slide successiva: Opera: opera di Giulio Romano. Studio molto dettagliato del frammento di capitello, del basamento con i rilievi antichizzanti ecc. che ci devono far ragionare. Inserimento di elementi architettonici e di elementi che ci fanno subito pensare ad un artista che si è posto il problema di studiare l’antichità. Slide successiva: Opera: Deposizione di Cristo di Tiziano. Tiziano tardo. Difficoltà a distinguere le forme l’una dall’altra. Risultato affascinante. Libera il colore dalla forma e rende queste figure con una grande scioltezza. LA BOTTEGA DI RAFFAELLO (power point successivo) Giulio Romano nel 1524 va a Mantova e quindi è il primo rappresentante di una diffusione di una maniera moderna nel nord Italia che inizia qualche anno dopo, nel 1527, con il sacco di Roma e che assieme all’arrivo di Giulio Romano a Mantova diventa l’occasione più importante di conoscenza di questo stile che si elabora tra Firenze e Roma. Adesso vediamo cosa accade oltre alla presenza di Giulio Romano nel nord Italia, che fa sì che questo stile elaborato tra Firenze e Roma si diffonda in tutta la penisola. Guardiamo i protagonisti di questo linguaggio. Noi ci concentreremo su Clemente VII, Papa del sacco di Roma, ma non si può capire Clemente VII senza almeno avere una rapidissima visione dell’arte a Roma e Firenze che parte da Giulio II, grande committente di Michelangelo e Raffaello e che dà inizio a questo linguaggio estremamente raffinato che a seguito del sacco di Roma si diffonde in varie città d’Italia. È una sorta di serra nella quale alcuni intellettuali si trovano a lavorare, a vivere assieme, guidati da questi grandi Papi. La serra ad un certo punto viene rotta e quello che era contenuto in questo cristallo si diffonde per tutta la penisola. I grandi Papi, dunque, sono Giulio II (Giuliano della Rovere) e poi soprattutto Leone X e Clemente VII, tutti e due membri della famiglia Medici. Leone X è il figlio di Lorenzo il Magnifico. Quindi, una grande continuità con Firenze, con questo clima raffinatissimo che si crea attorno a Lorenzo il Magnifico. Ricordiamo tutti i grandi artisti, come Botticelli, che vengono mandati da Lorenzo il Magnifico a Roma a dipingere le pareti della Cappella Sistina. Episodio che collega questi Papi a Firenze. L’input parte da Firenze con questi dipinti della Cappella Sistina, fatti da Botticelli, da Signorelli, da Bartolomeo della Gatta, da Perugino e altri grandi pittori e poi prosegue con il figlio Leone X e poi con Clemente VII. C’è un breve interregno di Adriano di Utrecht, che era il precettore di Carlo V e che non amava l’arte, ma sarà una pausa molto breve. Adriano VI sarà Papa per molto poco e incide molto poco in questo clima. Fatti principali: -6 aprile 1520: morte di Raffaello; -1° dicembre 1521: morte di Leone X; -gennaio 1522 – 14 settembre 1523: papato di Adriano VI; -settembre 1522: scoppia la peste a Roma; -19 novembre 1523 – 25 settembre 1534: papato di Clemente VII. Chi era Giulio Romano a Roma al fianco di Raffaello (torniamo indietro rispetto a quello che abbiamo già detto): Sala di Costantino, il luogo in cui Giulio Romano lavora poco prima della partenza per Mantova. Vediamo cosa faceva Giulio Romano nel periodo leggermente precedente il suo abbandono di Roma per Mantova. Noi sappiamo che Raffaello, prima della sua morte nel 1520, riesce solo a preparare i disegni per questa Adlocutio di Costantino o Visione della Croce e per la Battaglia di Ponte Milvio. Le scene con il Battesimo e la Donazione di Costantino vennero interamente elaborate durante il pontificato di Clemente VII. Gli affreschi vennero portati a termine entro il settembre 1524 perché Giulio Romano doveva trasferisti a Mantova. Nell’ottobre 1519 i ponteggi sono montati ma non si dà inizio ai lavori. Alla morte del maestro la commissione viene affidata a Giulio Romano e Giovan Francesco Penni che, come racconta Vasari, «diedero fine a molte cose di Raffaello ch’erano rimaste imperfette, e s’apparecchiavano a mettere in opera parte de’ cartoni, che egli aveva fatto per le pitture della sala grande del palazzo, nella quale aveva Raffaello cominciato a dipingere quattro storie de’ fatti di Costantino imperatore». Quindi, loro hanno i disegni, Raffaello muore, però loro come da prassi cercano di portare avanti questo lavoro. però si creano anche un po’ di rumors nel momento in cui senza Raffaello questi due ragazzi ventenni devono portare avanti questo tipo di commissione. E lo sappiamo da una lettera di Sebastiano del Piombo a Michelangelo dell’aprile del 1520: «Compar mio Charissimo [...]- credo havete saputo come quel povero de Rafaello da Urbino è morto [...] vi aviso come el si ha a depingere la salla de’ Pontifici, del che e’ garzoni de Raffaello bravano molto e volena depingerla a olio. Vi prego vogliate arecordarvi de me et recomandarmi a monsignor reverendissimo et se io son bono a simel imprese, vogliate metermi in opera, 1530 circa, momento in cui è costretto a incoronare imperatore Carlo V per fare pace con lui. Raffaello, Sacra Famiglia Canigiani Varie fasi dello stile: -Raffaello fiorentino, proto-classico (a sinistra nella slide); -Raffaello (in realtà Giulio Romano) alla fine della sua carriera, che ragiona su esperimenti leonardeschi (a destra nella slide). Da questo modo di lavorare nasce una critica di Sebastiano del Piombo nei confronti di Raffaello. I due si contendevano la commissione della Sala di Costantino. In queste due opere notiamo un doppio registro di Raffaello. Vediamo quanto Raffaello sia cambiato rispetto agli anni fiorentini e notiamo che raggiunge una maggiore vicinanza per la resa del chiaroscuro all’opera di Leonardo (a sinistra nella slide precedente). Vediamo come lavorano questi artisti: prima lavorano da un punto di vista compositivo. Nell’opera giovanile Raffaello coglie l’idea compositiva di Leonardo, ma non coglie lo sfumato. Nell’opera successiva torna a ragionare. Sebastiano del Piombo per criticare Raffaelo e prendere questa commissione scrive a Michelangelo, commentando lo stile tardo di Raffaello: «Io non dirò altro che pareno figure che siano state al fumo, o vero figure de ferro che luceno, tutte chiare e tutte nere». Tutto questo ci serve per capire cosa accade nella Stanza di Costantino, che è quanto fa Giulio Romano prima di andare a Mantova. Nella Stanza di Costantino ritroviamo elementi di Palazzo Te, quindi abbiamo la possibilità di confrontare come lavora Giulio Romano a Roma e come lavora Giulio Romano a Mantova. Prima scena: Giulio Romano, Adlocutio di Costantino Nell’Adlocutio di Costantino  scena in cui Costantino vede apparire il segno della croce che gli darà la possibilità di sconfiggere Massenzio in battaglia a Ponte Milvio. Volumetria e plasticismo a queste figure. Riconosciamo lo stile di Giulio Romano, anche da questi tipi umani molto caricati, con queste barbe, con questo pathos molto intenso. Nonostante Giulio Romano sia perfettamente riconoscibile, certo è che qui abbiamo delle composizioni molto più razionali, molto più strutturate rispetto a quelle di Palazzo Te a Mantova. Abbiamo delle figure molto più lavorate, molto più classiche. Abbiamo la possibilità di notare come Giulio Romano emerga con la sua personalità all’interno di questi affreschi, che sono fatti su disegno di Raffaello, e come al tempo stesso però si adatti a questo progetto di Raffaello senza distaccarsene troppo. Immenso rapporto con l’antico che hanno questi pittori. Cerchiamo di dimostrarlo, andando a prendere un dettaglio della colonna traiana con questo motivo dell’adlocutio: -adlocutio. Particolare della colonna traiana  notiamo la ripresa identica di questi personaggi, ennesima prova di come Raffaello si ispirasse per le sue composizioni al mondo antico. Giulio Romano, Vittoria di Costantino a Ponte Milvio Tema delle battaglie. Questa è una battaglia fondamentale perché è seminale per tutte le battaglie che vedremo nella storia dell’arte, in particolare nel Seicento e nel Settecento. Qui siamo proprio all’origine della storia dell’arte, che trae enorme spunto da questo tipo di affreschi, dal tema della battaglia, che non era mai stato esplorato in questa grande scala, in queste grandi dimensioni. Ecco altri esempi, per vedere come Raffaello prendesse spunto per le sue composizioni da questi frammenti romani che si potevano studiare a Roma, questo studio intenso delle antichità romane: -arco di Costantino  la figura di Costantino è ripresa pari pari dall’arco di Costantino. Da questo medaglione dell’arco di Costantino è tratto il cavallo e lo stesso Costantino. -piccolo sarcofago Ludovisi  anche dettagli secondari e molto suggestivi della battaglia di Costantino li ritroviamo su questo sarcofago. Idea di cavaliere che cade in questo modo dal cavallo, con la stessa torsione. Vediamo dunque lo studio dell’antico, che ispira Raffaello. Raffaello o Penni, Disegno preparatorio per la Vittoria di Costantino a Ponte Milvio  la critica ritiene che si tratti di un disegno di Penni che replica il vero disegno di Raffaello, che è andato perduto. Giulio Romano, Vittoria di Costantino a Ponte Milvio contro le truppe di Massenzio In questo tumulto delle figure che si contrastano l’una con l’altra in realtà vediamo che queste forme non hanno mai quegli aspetti così caricaturali come sono ad esempio le figure di Palazzo Te. Restano sempre questi lustri, questa definizione attraverso le luci e le ombre della figura, però non sono mai delle figure estremamente caricaturali, anche se l’aspetto della pittura di Giulio Romano si sente, ma l’impostazione classica bilanciata nelle scene, anche semplicemente l’inquadratura razionale dell’episodio, ci fa pensare che qui ci sia un’invenzione alla base di Raffaello e non dello stesso Giulio Romano. Altra scena: Giovan Francesco Penni e Giulio Romano, Papa Silvestro che battezza Costantino Nelle prime due scene il protagonista è Costantino, mentre nelle ultime due è il Papa. Architettura che gira tutta attorno alla scena principale. Il modo in cui vengono definite tutte queste figure in realtà ci fa capire che qui l’intento di Giulio Romano non è quello di stupire, come faceva a Mantova, ma qui è di proseguire nello stile di Raffaello e di darci questo tipo di stimoli. Qui siamo in un momento cruciale della cristianità: nel 1517 Lutero affigge le sue 95 tesi in contrasto con la Chiesa cattolica e tutti questi affreschi vanno letti come una celebrazione del potere papale rispetto alle insidie di tutte queste eresie che stavano contestando la religione cristiana. Il Papa viene celebrato attraverso il battesimo, il gesto con cui Costantino si converte al cristianesimo, inginocchiandosi a Papa Silvestro. Altra scena: Giulio Romano e Giovan Francesco Penni, La donazione di Costantino Il Papa viene celebrato anche attraverso questo racconto della donazione di Costantino, altro episodio molto importante. Anche le altre sale hanno questi riferimenti storici molto complessi. Noi ci concentriamo sulla donazione di Costantino perché ha anche un valore fondativo per quello che è lo stato della Chiesa. Viene scelto questo episodio anche per legittimare il potere e lo status della Chiesa. Qui viene pescato un episodio abbastanza lontano nella storia. Ad un certo punto Pipino re dei Franchi e Papa Stefano II stabiliscono che le terre recuperate nella guerra contro Astolfo, re dei Longobardi, diventassero proprietà del pontefice regnante e dei suoi successori in perpetuo. Questa è la fondazione dello stato della Chiesa. Lo stato della Chiesa si forma proprio grazie a questa donazione. Prima non c’era, non aveva un potere temporale effettivo e invece Pipino re dei Franchi, che aveva il problema di legittimarsi, perché lui era succeduto a una vera dinastia nobile, quella dei Merovingi, per avere una legittimazione da parte del Papa gli concede queste terre. Lo Stato pontificio e tutto quello che noi raccontiamo dei Papi, di Raffaello, di Michelangelo ecc. non esisterebbe se non ci fosse questo atto fondativo con cui vengono regalate delle terre al Papa. Pipino, dunque, si impegnava a fermare con le armi i longobardi e a costringere il loro re a restituire le terre già appartenute all’Esarca di Ravenna (compresa la Pentapoli) e al Ducato romano. Papa Stefano II in cambio consacrava solennemente la dinastia carolingia (dei Merovingi). Pipino consegna i territori conquistati ai Longobardi nel 754 e 756 a papa Stefano II. Con questo atto si forma per la prima volta lo Stato della Chiesa o Patrimonio di San Pietro. Ad un certo punto viene fabbricato un documento, non si sa bene quando. È uno dei casi più affascinanti per cui la filologia riesce a scoprire anche un inganno creato ad arte, un falso storico creato ad arte dalla cancelleria papale. Ad un certo punto Lorenzo Valla nel 1440 fa delle ricerche sulla grafia di questi documenti e si accorge che non possono essere documenti che risalgono al tempo di Costantino, perché si rende conto che la grafia non è quella romana che si usava ai tempi di Costantino. Scrive un libretto, che si chiama De falso credita et ementita Constantini donatione declamatio (Discorso sulla donazione di Costantino, altrettanto malamente falsificata che creduta autentica), pubblicato solo nel 1517 e in ambiente protestante. Quindi, Lorenzo Valla scopre che il documento con il quale si vuole legittimare il potere papale a partire da Costantino non è vero. Si scopre poi che la fondazione dello stato pontificio avviene in realtà qualche secolo dopo. Questo libro però non viene mai pubblicato e viene pubblicato solo nel 1517 in clima di contestazione del potere papale. Quindi, l’importanza di questi affreschi non è solo l’importanza stilistica, per la storia dell’arte, ma è importante proprio anche per il livello di cultura generale. Noi non li capiremmo per certi aspetti se non capissimo la raffinatezza intellettuale che sta dietro la regia di questi fatti artistici. In questo periodo e anche prima di Lutero c’è tutta una serie di richieste al Papa di modificare la propria organizzazione statale. Invece, il Papa risponde con questi affreschi con i quali difende la propria legittimità. Viene chiesto a Raffaello di rappresentare questi fatti (donazione, battesimo) per dare una coerenza a quanto era successo. La Chiesa di Roma fa tutte queste operazioni culturali molto complesse per legittimarsi, per autorappresentarsi e per essere all’altezza del proprio compito, però accade un fatto drammatico nel 1527, il sacco di Roma. Cronaca del sacco di Roma Nel 1527 accade un fatto drammatico. La formazione di questo linguaggio molto articolato attraverso i Papi Medici e prima Giulio II, queste commissioni importanti di queste stanze di Raffaello, questa cultura che ad un certo punto si elabora a Roma attraverso questi Papi viene dispersa lungo tutta la penisola italiana con il defluire da Roma di tutta una serie di artisti. Nel 1526 c’è una alleanza tra Clemente VII e Francesco I. I Medici sono storicamente sono amici del re di Francia e non sono amici di Carlo V, ma Carlo V cerca di accontentare i Medici perché si mettano dalla sua parte e quindi appoggia l’elezione di Clemente VII, uno della loro famiglia. Attenzione, non è normale che i Medici siano Papi, perché a Roma c’era una nobiltà molto più importante di questa nobiltà mercantile di cui facevano parte i Medici e i Farnese, però sono molto ricchi, prestano i soldi al Papa, hanno una posizione sociale ed economica forte e quindi Carlo V, che è l’imperatore della cristianità, fa questa concessione ai Medici. Ma Clemente VII ritorna al suo vecchio amore, Francesco I, anche perché l’imperatore Carlo V comincia ad avere troppo potere e quindi teme che in quale modo questo potere sia eccessivo e che lo soffocherà. Quindi, dopo essere stato eletto, volta le spalle a Carlo V e si allea con il suo alleato storico, con Francesco I. C’è una reazione molto forte da parte di Carlo V, che si allea con i nemici dei Medici, la famiglia Colonna. Una notte del 1526 il cardinal Colonna occupa con le sue truppe la porta di San Giovanni in Laterano e saccheggia San Pietro "la qual Chiesa spogliarono d'oro e d'argento e di molti oggetti preziosi" (Marcello Alberini, I Ricordi). A seguito della sconfitta, Clemente VII chiede aiuto a Carlo V e promette di rinunciare all'alleanza con Francesco I. Ma non appena ottenuta l’alleanza, torna sui suoi passi. Lui teme molto Carlo V, perché capisce che diventa il protagonista di questo periodo, quindi cerca sempre un po’ di sfuggire al potere di Carlo V. E Carlo V arriva nell’autunno 1526 con un esercito di 10.000 lanzichenecchi, mercenari protestanti, quindi molto motivati a combattere contro Roma, e la mettono a ferro e fuoco. Queste persone sono molto motivate perché nel 1517 avevano aderito alla riforma protestante di Martin Lutero e quindi non è solo questione di fare una guerra da mercenari, ma loro erano anche particolarmente motivati. Arrivano a Roma e l’unico che si oppone ai lanzichenecchi in un modo molto fedele è Giovanni dalle Bande Nere, che è il padre del futuro granduca di Firenze Cosimo I, che sarà una sorta di plenipotenziario delle arti e farà rinascere la grandezza di Lorenzo il Magnifico. Nel maggio 1527 i lanzichenecchi e i soldati imperiali spagnoli giungono a Roma e si accampano sul Gianicolo alla guida di Carlo di Borbone, comandante militare cattolico gli ordini Carlo V, imperatore cattolico, alla testa esercito luterani. I lanzichenecchi, di prevalente fede protestante, erano animati anche da fervore antipapale. Il sacco di Roma ebbe un tragico bilancio, sia nei danni alle persone che al patrimonio artistico. Circa 20.000 cittadini furono uccisi, 10.000 fuggirono, 30.000 morirono per la peste portata dai lanzichenecchi. Clemente VII, rifugiatosi in Castel Sant’Angelo, dovette arrendersi e pagare 400.000 ducati. Le tensioni tra papa di far lavorare fonti scritte e fonti figurative ci porta a conoscere un capitolo estremamente importante della vita di Parmigianino, cioè la sua formazione, una formazione che avvenne proprio grazie alla conoscenza di Raffaello. Nato nel 1503 e morto nel 1540, qui siamo a 16 anni, questo è Parmigianino sedicenne che si incuriosisce di Raffaello. Anche qui abbiamo una nuova informazione per quanto riguarda anche la vita e i progressi di questi artisti, che sono estremamente precoci nel caso in cui il talento sia così grande. Lo stesso Raffaello inizia a 14/15 anni. Quindi, non ci dobbiamo stupire di queste cronologie molto precoci e se il cambiamento di questi artisti è molto repentino nella loro carriera, proprio perché la capacità di apprendimento e le loro capacità artistiche sono anche testimoniate dal fatto che già a questa età sono in grado di compiere dei capolavori. L’altra opera difficile da inserire nel catalogo di Parmigianino è: Parmigianino, Matrimonio mistico di Santa Caterina d’Alessandria con i santi Giovanni evangelista e Giovanni Battista Altra opera giovanile, che è una Madonna con bambino e santi. Questa opera si trovava a San Pietro a Viadana, dove Parmigianino a causa della peste si rifugia da giovane assieme al cugino, un altro pittore, Girolamo Mazzola Bedali. Vasari ci racconta questo fatto della vita di Parmigianino: «Ma in quel tempo, mandando papa Leon Decimo il signor Prospero Colonna col campo a Parma (c’è un assedio di Parma da parte di Prospero Colonna, inviato dal Papa) , i zii di Francesco, dubitando non forse perdesse tempo o si sviasse, lo mandarono in compagnia di Ieronimo Mazzuoli suo cugino, anch’egli putto e pittore, in Viadana, luogo del Duca di Mantoa, dove stando tutto il tempo che durò quella guerra, vi dipinse Francesco due tavole a tempera, una delle quali, dove è San Francesco che riceve le stimite e Santa Chiara, fu posta nella chiesa de’ frati de’ Zoccoli, e l’altra, nella quale è uno sposalizio di Santa Caterina, con molte figure, fu posta in S. Piero. Né creda niuno che queste siano opere da principiante e giovane, ma da maestro e vecchio». Parmigianino, Studio preparatorio per la pala di Viadana Vediamo una proposta per disegno preparatorio. Ci sono delle cose che cambiano: c’è una capacità impressionante del disegno che ha fatto dubitare che sia davvero un disegno preparatorio, perché, nonostante il trattamento molto corsivo della figura, siamo di fronte a un’opera di prima grandezza. Basta guardare al San Giovanni, al dettaglio delle foglie che sono sopra questo plinto. Modo di allargare le braccia della madonna su questo trono. Se non è un disegno preparatorio, è una sua variante. Se non è nello specifico collegato a questo dipinto, sicuramente è forse in relazione a quanto Parmigianino sta facendo in questo periodo. È un disegno davvero impressionante. Parmigianino sarà il più grande disegnatore del Cinquecento e già qui vediamo la sua enorme fantasia e già un suo stile tipico. Siluette allungate, estremamente eleganti, che saranno il marchio di fabbrica della grande arte di Parmigianino. Parmigianino, Santa Barbara Altra opera giovanile. Parmigianino ha 19 anni. Tratti molto delicati, modo raffinato di rendere la forma. Tenerezza di questi volti. Notiamo come, rispetto all’opera precedente (Matrimonio mistico di Santa Caterina d’Alessandria con i santi Giovanni evangelista e Giovanni Battista), ci siano dei cambiamenti, perché gli artisti cambiano in fretta, ma ci sono comunque dei punti ci contatto. Raffaello o Giulio Romano, Ritratto di Giovane Parmigianino, Santa Barbara Influsso e studio di Raffaello per una ulteriore crescita del pittore, nonostante lui non fosse ancora andato a Roma. Idea del ritratto di spalla con l’utilizzo di pennellate molto morbide che possiamo ritrovare anche nel ritratto di Santa Barbara di Parmigianino. Le prime opere di Parmigianino a Parma Affrescò le prime due cappelle della navata sinistra della chiesa di San Giovanni evangelista a Parma, la chiesa nella quale Correggio fa la volta con la Visione di San Giovanni evangelista. La seconda cappella all’interno di questo cantiere, che è gestito da Correggio, viene completata prima della fuga a Viadana, dove a seguito di questo assedio di Parma gli zii lo mandano in compagnia di questo suo cugino. Invece, la prima cappella risale al ritorno da Viadana e precede gli affreschi della rocca di Fontanellato. Poi nel 1524 parte per Roma. Prima del 1524 è comunque già polarizzato, orientato dall’arte di Raffaello, quindi già si mette in sintonia con quello che è il massimo artista in quel momento, il punto di riferimento di quelli che vogliono fare i pittori ad altissimo livello nel Cinquecento in Italia. Il 21 novembre 1522 sappiamo poi che Parmigianino si impegna a dipingere volta, crociera e abside del transetto settentrionale del duomo. Una caratteristica di Parmigianino è quella di essere un pittore piuttosto discontinuo e che molto spesso non portò a termine le commissioni per le quali prese impegno e che gli vennero affidate. Poi ci sono altre ipotesi di una quarta cappella nel duomo. Parmigianino a Parma trova già un confronto di un pittore che è stato a Roma e che già si è confrontato con Raffaello, quindi si inserisce in questo contesto. Lezione 8 (12/10/22) FRANCESCO MAZZOLA DETTO IL PARMIGIANINO Vediamo come tutti questi artisti abbiano un percorso uniforme, coerente dopo che conoscono quanto accade a Roma, Michelangelo, Raffaello, dopo la data 1520. Spesso non vediamo a figura intera questi grandi maestri. Per lo meno una coerenza artistica, stilistica del loro percorso ci è data dal fatto che sostanzialmente tutti cambiano nel momento in cui entrano a contatto con questo linguaggio storico- artistico elaborato a Roma, nella Roma di Leone X, di Clemente VII, sotto la guida, sotto l’impulso, sotto l’influsso di Raffaello e Michelangelo. Questo è un passaggio che dobbiamo tenere presente, perché nel caso di Parmigianino, come nel caso di altri pittori, non indaghiamo pittori che sono di origini romane o toscane e che quindi fin da subito crescono in questo contesto culturale, ma indaghiamo dei pittori che hanno i piedi e le radici in terre lontane dalla capitale e poi in vario modo e con varie soluzioni vengono a contatto con questa rivoluzione, con questo linguaggio molto sofisticato che viene elaborato a Roma da Raffaello e Michelangelo. Parmigianino fa parte a pieno titolo in tutte le sue manifestazioni di questo linguaggio romano, raffaellesco, michelangiolesco, e quindi può essere indagato fin dall’inizio come un artista che da subito fa parte di questo contesto culturale. Abbiamo visto le sue prime opere ad affresco: alcune ipotesi, mentre altre commissioni documentate. Le prime due cappelle della navata sinistra della chiesa di San Giovanni evangelista a Parma. La seconda cappella viene completata probabilmente prima di questa fuga a Viadana dove fa la pala per la chiesa di San Pietro. La prima cappella viene realizzata poi dopo il ritorno da Viadana. È un periodo del quale non abbiamo date ferme. Diciamo che stiamo indagando questo periodo che va dal 1521 al 1524, la data in cui Parmigianino si dirige verso Roma. Cappella Zangrandi: sant’Ilario e san Nicola da Bari Seconda cappella a sinistra: san Vitale Due delle cappelle della chiesa di San Giovanni evangelista a Parma. Parmigianino è molto ricettivo. Altra committenza giovanile di Parmigianino, che fa parte di questo periodo che precede il viaggio a Roma, sono due ante per la chiesa di Santa Maria della Steccata a Parma. È una chiesa che sarà fondamentale per l’ultima fase della vita di Parmigianino. Parmigianino verrà infatti incaricato di decorare la volta, una commissione che farà fatica a portare a termine, ma di cui esistono molti disegni. Parmigianino, Disegno preparatorio per Santa Cecilia Ancora una volta un disegno preparatorio, molto libero, che ci ricorda delle soluzioni tecniche del disegno preparatorio per la pala di Viadana. Modo molto informale, penna molto veloce. Vediamo che anche i volti della pala di Viadana rendono abbastanza evidente come ci troviamo sempre un po’ immersi nello stesso clima culturale, che risente molto dell’influenza di Raffaello e Michelangelo e che si compatta tra 1520 e 1524 e ci disegna questo aspetto giovanile di Parmigianino. Parmigianino, Ante d’organo, chiesa della Steccata CORREGGIO: la Camera della badessa preso il monastero di San Paolo a Parma Ci sono tutti questi rapporti con Raffaello, ci sono tutti questi affreschi che denotano la conoscenza del linguaggio romano, però adesso ci dobbiamo porre il problema di quale è stato davvero l’intermediario principale della conoscenza dello stile romano di Parmigianino. Parmigianino è consapevole delle novità raffaellesche, è consapevole di quanto sta accadendo a Roma, ma ha anche la fortuna di lavorare in queste cappelle di San Giovanni evangelista, dove il grande protagonista è Correggio. Correggio è un pittore che ha una formazione tardo-quattrocentesca, protoclastica, primo-cinquecentesca e che poi subisce un forte cambio di passo proprio grazie ad un viaggio a Roma. All’altezza della formazione di Correggio, al contrario della formazione di Parmigianino, era necessario un viaggio a Roma per compiere un’immersione in quello che era lo stile di quel periodo. Purtroppo però non abbiamo nessun documento che ci testimoni il viaggio di Correggio a Roma. Come abbiamo visto indagando i metodi della storia dell’arte, ogni tanto abbiamo dei documenti che supportano il nostro argomentare, ogni tanto abbiamo dei documenti che vanno in controtendenza con quella che è l’evidenza dei fatti figurativi e stilistici, mentre, come in questo caso, a volte non abbiamo per nulla dei documenti e ci dobbiamo quindi affidare all’analisi stilistica. Proprio affidandosi all’analisi stilistica, questo grande storico dell’arte del Novecento, Roberto Longhi, propose in un suo contributo innovativo e rivoluzionario le fasi del Correggio giovane e l’esigenza del suo viaggio romano. Pose il problema di un viaggio di Correggio a Roma per aggiornarsi sulle novità raffaellesche. I documenti in qualche misura ci aiutano in questa ricostruzione, perché l’artista è documentato a Correggio il 17 marzo 1518, il primo febbraio 1519 e il 4 settembre 1519. Tra il 17 marzo 1518 e il primo febbraio 1919, in questo anno, in cui Correggio non è mai documentato nella sua città natale, si pensa che sia avvenuto questo viaggio romano. Il viaggio romano di Correggio non è documentato e dobbiamo guardare le opere per capire come mai Roberto Longhi parlasse dell’esigenza di un viaggio di Correggio nella capitale. Correggio, Camera della badessa in San Paolo  commissione che tutti gli storici dell’arte ritengono sia successiva al viaggio a Roma. Camera della badessa, la camera di San Paolo, questo ambiente sofisticato, questo camerino che viene come altri fatto dipingere da committenti importanti. Questa importante badessa Giovanna da Piacenza, che è badessa del monastero dal 1516 al 1524, avvia tutta una serie di lavori di rinnovo del monastero. Dal 1510 fece restaurare il suo appartamento privato dall’architetto Giorgio Edoari o Hedoari da Erba. Si pensa che al ritorno dal viaggio romano, nel 1519, Correggio avesse decorato questa sala. Nel 1524 questa sala diventa una sala di clausura, perché questo monastero viene sottoposto a delle regole più rigide, perché era un monastero che aveva perso un po’ la sua dimensione spirituale a favore di diventare quasi una piccola corte di questa grande badessa. Questo è uno dei motivi della sfortuna di questa sala, che sostanzialmente non viene più visitata da nessuno. Essendo una sala all’interno di un monastero di clausura, nessuno ha la possibilità di vederla, se non quando la visita il grande pittore Rafael Mengs che, vedendo questi affreschi, ipotizza la presenza del Correggio. Quindi, fino a quando Mengs non vede questi affreschi, che vengono dimenticati fino alla sua visita nel Settecento, questi affreschi sono completamente dimenticati. Qui parte una ricoperta dell’autore e poi successivamente anche una ricerca, un tentativo di capire lo stile di questo pittore che si trova ad operare in questa sala. Il tema è apparentemente bizzarro per un monastero, perché sono tematiche profane, un ciclo dedicato a permettono uno studio più complesso, più elaborato della forma e un approfondimento della dimensione muscolare delle figure. La cultura padana, più chiaroscurata, leonardesca, questo aspetto più chiaroscurato ci mette in guardia dal considerare questo pittore un pittore romano, fiorentino, a tutti gli effetti della maniera, ma al tempo stesso questo confronto con Michelangelo sul disegno, sulla dimensione plastica, va a suggerire queste soluzioni a Correggio. Piccola parentesi per vedere un aspetto del Correggio pre-Roma e precedente questa formazione: vediamo questo disegno (?) a confronto con queste due opere. Questo pittore ha anche una sua preistoria (rispetto alle opere che stiamo vedendo) che si può ricavare da alcune figure presenti in questo disegno. Opera a sinistra: I tronfi di Mantegna  opera che Correggio vede a Mantova e che sicuramente studia. Capiamo che Correggio conosceva Mantegna e questo ci fa capire tante cose, che Correggio frequentava la corte di Mantova, che Correggio si forma a Mantova vicino a Mantegna e conoscendo i suoi dipinti tardi. Quindi, anche da queste piccole osservazioni noi possiamo dedurre qualche informazione sulla sua storia precedente e almeno conoscere che c’è un capitolo precedente (che noi non studiamo). Vediamo a confronto alcuni disegni di Parmigianino, che ci fanno capire come non solo Correggio guardasse a Michelangelo, ma come a Michelangelo guardasse anche Parmigianino. Noi sappiamo che questi studi e questi torsi sono in rapporto proprio con alcuni studi di Michelangelo: Parmigianino, Studio di due putti per la prima cappella a sinistra di San Giovanni evangelista Michelangelo, Modello per un giovane schiavo per un progetto della tomba di Giulio II Parallelamente a questo lavoro che Correggio fa direttamente a Roma su Michelangelo, anche Parmigianino prosegue questa sua fase di studio di questo grande pittore. Tornando al confronto tra Correggio e Parmigianino: Correggio, Putto che gioca con un’aquila Parmigianino, Putto che gioca con un’aquila Correggio, Studio di putti per il tamburo della cupola di San Giovanni Vediamo questo putto di Correggio e questo putto di Parmigianino. Qui vediamo la realizzazione finale di Correggio, il disegno preparatorio di Correggio e lo studio da parte di Parmigianino dell’affresco di Correggio. Quindi, c’è un rapporto molto stretto tra questi due pittori (d’altra parte questi pittori lavorano nello stesso cantiere) e c’è una tensione simile nei confronti dello studio dei pittori romani, in particolare di Michelangelo. Anche in questi disegni molto muscolari, molto attenti alla dinamica della plastica, però non manca mai, anche grazie all’utilizzo della sanguigna rossa, che è una tecnica che probabilmente Correggio apprende da Michelangelo, questa tecnica lo porta ad avere sempre questa delicatezza, questa dolcezza nell’espressione anche delle muscolature che lo distingue in un modo netto da Michelangelo. Il rapporto tra i due continua: Correggio, Studio di due apostoli Parmigianino, Studi di due apostoli da Correggio Questa grafica ci aiuta a vedere come Parmigianino studi Correggio e abbiamo visto come tutti e due si rivolgano a Michelangelo. Correggio, Venere, Amore e un satiro Questa opera è quasi una sintesi di quello che Correggio conosceva in gioventù e su cui si aggiorna nell’età più avanzata. Questo bosco stupendo alle spalle delle figure non possiamo farlo risalire a Michelangelo, che non dipinge mai paesaggi, se non nella fase tarda della sua vita e mal volentieri. Questa attenzione agli aspetti naturalistici, allo studio del paesaggio, della natura è un portato dell’Italia settentrionale, anche se qui c’è molto Leonardo, un Leonardo che è comunque in stretto rapporto con l’Italia settentrionale per la sua presenza a Milano. Quindi, imparare a leggere la complessità di un dipinto come questo ci porta ad avere un identikit del pittore, che è fatto di questa formazione padana, mantovana, che si intuisce guardando queste splendide piante sullo sfondo, fitte, che ci ricordano gli studi naturalistici di Leonardo. Natura molto realistica, ma anche studiata in senso molto analitico. Questo ci porta nel mondo di Leonardo, fatto di sfumato, di figure che vengono completamente assorbite dall’ambiente circostante. E allo stesso tempo rispetto a Leonardo abbiamo uno studio della forma che, se non è dinamica, non è plastica, non è sbalzata, come quella di Michelangelo, comunque ci riporta a questo mondo di studi plastici, del disegno. Questi sono esperimenti complessi. La complessità di questo mondo è data dalla stratificazione di influssi che vanno ricercati per spiegare delle immagini che di punto in bianco ci troviamo davanti e di cui dobbiamo dare ragione. Per cui queste spiegazioni complesse sono necessarie perché io ho un pittore di Parma che nel 1524 fa una cosa così e devo capire come mai lui da opere giovanili che assomigliano a Mantegna arriva a fare delle cose così complicate. Questa è la sfida che ci pone Correggio. Per cogliere questa sfida dobbiamo cercare di indagare che cosa succedeva in quel momento nell’ambito storico- artistico italiano e ci dobbiamo confrontare con questa complessità e dobbiamo capire con chi Correggio a sua volta si è confrontato per arrivare a concepire delle immagini così strabilianti e capire anche le influenze di un dipinto così sofisticato e complesso. Vediamo il disegno preparatorio (Correggio, Venere addormentata), un disegno molto informale, la prima idea e vediamo da queste correzioni, da questo modo di dare le ombre, da questo modo molto veloce di abbozzare la figura che c’è comunque il tentativo di fare una figura che non sia una figura semplificata, ma che sia una figura complessa, che ha questo andamento spiraliforme, con questo braccio alzato dietro la testa. Idee simili, pur tradotte con un naturalismo e con una sensibilità che non hanno niente a che vedere con la pittura centroitaliana, si spiegano con la conoscenza dei nudi di Michelangelo. La serie degli “Amori di Giove” per Federico Gonzaga Per dare un senso unitario al nostro ragionamento, oltre che a procedere in senso cronologico, non ci liberiamo del tutto di Federico II, perché Federico II è anche committente di Correggio, oltre che di Giulio Romano e di Tiziano. Qui lo vediamo committente di Correggio. Queste opere sono ricordata da Vasari, che nella Vita di Correggio racconta che il maestro: «Fece similmente quadri et altre pitture per Lombardia a molti signori; e fra l’altre cose sue, due quadri in Mantova al duca Federigo II, per mandare a lo imperatore, cosa veramente degna di tanto principe. Le quali opere vedendo Giulio Romano, disse non aver mai veduto colorito nessuno ch’aggiugnesse a quel segno: l’uno era una Leda ignuda, e l’altro una Venere, sì di morbidezza colorito e d’ombre di carne lavorate, che non parevano colori ma carni…». Sono delle commissioni di Federico II per l’imperatore. Giulio Romano non è impressionato dal disegno di queste opere, ma è molto impressionato dal colorito. Giulio Romano con la sua sensibilità di pittore fiorentino e centroitaliano, non abituato a questo tipo di sottigliezza coloristiche, è molto impressionato dal colorito, dalle ombre e dalle carni lavorate. C’è un’ipotesi che queste opere siano state commissionate da Federico II per ringraziare Carlo V di averlo elevato a duca di Mantova. Alla morte di Correggio nel 1534, il duca chiedeva inoltre al governatore di Parma Antonio Caccia di rintracciare «i cartoni nelli quali sono dissignati gli amori di Iove». Serie stupenda degli Amori di Giove. Si parla di due dipinti, ma in realtà sono quattro: Correggio, Leda e il cigno Complessità naturalistica, grande capacità di rendere le carni, i coloriti e la qualità dell’impatto pittorico. Sono dipinti estremamente complessi, perché dove mai noi abbiamo visto un paesaggio nel 1530 abitato in questo modo, con le figure scalate in profondità, con questa animazione proto-seicentesca. Sembrano i pittori del Barocco, che riescono davvero a dare una complessità e una plasticità a queste raffigurazioni. Questa complessità e questa naturalezza ci vengono offerte da un paesaggio che risente molto di Leonardo, da un disegno che è fortemente improntato alla lezione michelangiolesca e da questa capacità di Correggio di svolgere una sorta di sintesi rispetto a tutte queste componenti. Correggio, Danae Soluzione meno eroica, meno scultorea. Non c’è un disegno scolpito, nitido e tuttavia le figure sono molto sottilmente complesse, cioè non c’è una esibizione della plastica, della maniera, ma le figure sono comunque complesse. È un dipinto che ha una regia teatrale debole. Noi non siamo abituati a dipinti in queste date che abbiano questa capacità a scalare i piani in questo modo. Proprio per questa sensibilità di Correggio nel rendere anche questi effetti atmosferici, queste figure in contrappunto michelangiolesche e allo stesso tempo queste indagini leonardesche della natura, anche queste due opere probabilmente sono di questa serie. Il duca cercava i cartoni di queste due opere di cui non era in possesso: Correggio, Il ratto di Ganimede Correggio, Giove e Io Vediamo che Correggio rappresenta questo spettro di Giove (nella nuvola) che si avvicina a questa figura femminile. Questo è il mondo di Parma, con salti cronologici, questa è un po’ la carriera di Correggio in grande sintesi, per dire che quello che si muoveva attorno a Parmigianino e quello che arriva a Parma per la formazione di Parmigianino è il risultato di questo soggiorno di Correggio e di queste opere che Correggio elabora. Tornando al Parmigianino “correggesco”, cioè prima del suo a sua volta viaggio romano: vediamo la commissione più importante, più organica della sua fase giovanile. 1503-1524. Si trova ad essere convocato a Fontanellato, un castello intorno al ducato di Parma, dove risiedeva una delle quattro famiglie più importanti di quella zona, cioè la famiglia dei Sanvitale. Parmigianino viene chiamato per decorare una delle sale, molto simile alla stanza della badessa. Viene invitato a fare questo lavoro da Galeazzo Sanvitale. Parmigianino, Ritratto di Galeazzo Sanvitale Di questo ritratto conosciamo anche dei disegni, che sono ancora più divertenti di questo ritratto che invece è un po’ più fermo, un po’ più in posa. Parmigianino, Studio per il ritratto di Galeazzo Sanvitale Inizialmente Parmigianino aveva fatto vedere la sedia dal retro, aveva pensato ad uno scatto all’indietro del personaggio con la mano alzata, che dava tutto questo movimento, tutta questa torsione. Parmigianino, Ritratto di Galeazzo Sanvitale e della moglie Paola Gonzaga Addirittura, qui il dialogo con la moglie Paola Gonzaga sarebbe stato un ritratto ancora più insolito, proprio quasi il ritratto colto nel momento in cui sta parlando con la moglie. In realtà poi si opta per una soluzione più classica con un ritratto frontale. Parmigianino, Studio per il ritratto di Paola Gonzaga Sanvitale Parmigianino, Studi di due apostoli da Correggio (studio di Parmigianino sul disegno preparatorio di Correggio) Abbiamo visto che Parmigianino cresce nella chiesa di San Giovanni evangelista la fianco di Correggio e questa è una delle prove che del fatto che Parmigianino, quando è nella chiesa di San Giovanni evangelista, studia Correggio. Rapporto che si può dimostrare tra pittori, quando diciamo che uno è allievo dell’altro. Quando noi possiamo avere delle prove evidenti, le mettiamo subito in campo, perché da quelle si costruisce poi un discorso che si fa anche gioco di cose meno evidenti che possono essere ritenute probabili. Dal disegno di Parmigianino vediamo che non gli interessa la composizione in generale, ma gli interessa questo tipo di figure che probabilmente lo colpiscono. Ritorniamo un attimo su: Correggio, Putto che gioca con un’aquila Parmigianino, Putto che gioca con un’aquila Questi due disegni non potrebbero mai essere dello stesso pittore. Sono figure molto simili, ma siamo caldamente consigliati a considerarli opere di due autori differenti: utilizzano la stessa tecnica, ma questi due autori sono diversi perché il modo di costruire la forma è diverso. Gli strumenti sono quelli, il soggetto è quello, però in Correggio si percepisce un modo di lavorare sulla linea, sulle masse, quasi febbrile. In Parmigianino c’è invece la quintessenza del manierismo, questo modo di continuare a rielaborare la forma attraverso queste ombreggiature, questi tratteggi minuti, questa energia costante, che in Correggio per certi aspetti non c’è. In Correggio c’è una figura che è di grande dolcezza, che ha ancora un certo plasticismo, però è fatta di una massa che è quasi statica, invece in Parmigianino, al di là del movimento, c’è proprio un modo quasi febbrile di utilizzare la matita rossa. Il tratteggio, il modo di costruire le masse è totalmente diverso. Aquila e leone, simboli degli evangelisti Giovanni e Marco e nell’opera di Correggio. Il disegno di Parmigianino probabilmente nasce anche dall’esempio e dallo studio di Michelangelo (Modello per un giovane schiavo per un progetto della tomba di Giulio II). Questo per dimostrare che non sono semplicemente delle teorie, quelle del rapporto tra Parmigianino e Correggio, solo dimostrabili storicamente. Allo stesso tempo però è dimostrabile altrettanto storicamente e con gli strumenti dello stile che siamo di fronte a due artisti che hanno una storia diversa, un percorso diverso e poi degli esiti e degli sviluppi completamente diversi. Lo possiamo anche osservare attraverso questi minimi dettagli dell’utilizzo della sanguigna. Poi anche i pittori si distinguono attraverso questo modo di lavorare facendo attenzione a questi strumenti che vengono usati in modo diverso e che li portano poi anche a sviluppare una figuratività diversa. Quindi, stabilito questo forte rapporto con Correggio, che è il primo tramite di questa conoscenza di Roma e dei grandi artisti romani da parte di Parmigianino  slide: Roma (1524-1527). Abbiamo visto che gli zii di Parmigianino, dopo che lo avevano mandato a Viadana per la guerra che si era scatenata a Parma, quando Parmigianino era molto giovane (16-17 anni), adesso finalmente gli consigliano di andare a Roma. Avevamo visto che c’è una descrizione molto precisa di questo arrivo a Roma, della presentazione davanti a Clemente VII, perché Vasari, che di qui in avanti diventerà per noi una stella polare, ci racconta come avviene la scena: lui si presenta a sua santità con queste opere che gli zii gli consigliano di fare prima di arrivare a Roma, quindi stiamo parlando di opere ancora emiliane e non ancora influenzate da quello che lui vedrà a Roma. Prima opera che viene descritta: Parmigianino, Sacra Famiglia un angelo e san Girolamo. Vasari: “et uno assai grande, nel quale fece la Nostra Donna col Figliuolo in collo che toglie di grembo a un Angelo alcuni frutti et un vecchio con le braccia piene di peli, fatto con arte e giudizio e vagamente colorito” . Cominciamo a cogliere questo lavoro sulla figura più energetico, febbrile, che distingue Parmigianino da Correggio. Questi brani di natura, estremamente tipici di Parmigianino, che apparentemente naturalistici, in realtà cominciano ad inserire tutti questi colori di verde acido, tutte queste iper descrizioni, questo iper naturalismo che porta Parmigianino ad essere ben presto lontano dal naturalismo padano. M. Quinlan – Mc Grath, Sala dei Pontefici Vault Sala dove si tiene l’incontro, una sala che viene affrescata da due dei grandi allievi di Raffaello, Pierino del Vaga e Giovanni da Udine. Secondo brano di Vasari, che ci racconta cosa accade tra Clemente VII e Parmigianino: «così dunque, avendo donato Franceso i quadri al Papa e avuto oltre alle promesse alcune cortesie e doni, stimolato dalla gloria e dalle lodi che si sentiva dare e dall’utile che poteva sperare da tanto Pontefice, fece un bellissimo quadro d’una Circoncisione, del quale fu tenuta cosa rarissima la invenzione, per tre lumi fantastichi che a quella pittura, servivano perché le prime figure erano alluminate dalla vampa del volto di Cristo, le seconde ricevevano lume da certi che, portando doni al sacrifizio, caminavano per certe scale con torce accese in mano, e l’ultime erano scoperte et illuminate dall’aurora, che mostrava un leggiadrissimo paese con infiniti casamenti». Parmigianino, Circoncisione Dei lumi descritti nel brano uno è il lume del volto di Cristo, che illumina la scena. Anche questo è un artificio, sono tutte illuminazioni artificiali, tipiche del manierismo, questo modo di giocare tra realtà e irrealtà. Bisogna abituarsi anche a questo gioco che parte dalla descrizione naturale e poi diventa un gioco su se stesso. L’aurora, che emerge sullo sfondo, illumina le figure. È interessante anche la storia di questi dipinti: «Il quale quadro finito, lo donò al Papa, che non fece di questo come degl’altri, perché avendo donato il quadro di Nostra Donna a Ipolito cardinale de’ Medici suo nipote, et il ritratto nello specchio a Messer Pietro Aretino poeta e suo servitore, e quello della Circoncisione ritenne per sé, e si stima che poi col tempo l’avesse l’imperatore ma il ritratto dello specchio mi ricordo, io essendo giovinetto, aver veduto in Arezzo nelle case di esso Messer Pietro Aretino, dove era veduto dai forestieri, che per quella città passavano, come cosa rara. Questo capitò poi, non so come, alle mani di Valerio Vicentino intagliatore di cristallo, et oggi è appresso Alessandro Vittoria, scultore in Vinezia e creato di Iacopo Sansovino». Questo quadro finito poi lo donò al Papa, ma il Papa, molo affezionato a questo quadro per l’iconografia piuttosto rara a queste date, decide di tenerselo per sé. Anche qui abbiamo il disegno preparatorio: Parmigianino, Studio per la Circoncisione. Vediamo alcune modifiche. Freschezza e libertà nel disegno preparatorio. Parmigianino è considerato anche dai collezionisti del Cinquecento più un grandissimo disegnatore che un pittore. Quando si parla di Parmigianino lo si mette allo stesso livello di Michelangelo e di Raffaello per i suoi disegni (non per i suoi dipinti). Non era proprio una cosa da poco. Questo disegno presenta una grande leggerezza. Nell’opera si sente ancora un pittore legato al suo entroterra un po’ emiliano, un po’ provinciale, mentre nel disegno preparatorio invece le figure assumono un’eleganza e una spontaneità impressionante. La freschezza di ogni singola figura nel disegno si perde un po’ poi nell’opera. Disegno > opera. Capiamo come, nonostante non sia a colori, guardare i disegni, guardarli con una certa attenzione, in questo periodo storico, dà forse anche maggiori soddisfazioni di quanto non dia la pittura. Correggio, Adorazione dei pastori detta “la notte” Parmigianino, Circoncisione Confronto tra un Parmigianino che studia questi sviluppi di notturno e delle idee che poi vengono riprese, sempre sul notturno, in questo caso da Correggio, nella cosiddetta Notte. vediamo questa idea di far illuminare le figure a partire da dei punti luce che sono interni all’opera (la luce che viene emanata dal Gesù bambino) ci riporta a queste idee manieriste, sottili, un po’ particolari, che sono quelle che sviluppano questi due grandi pittori. Per cui questo gioco di notturno è molto all’avanguardia per queste date (i primi notturni sono quelli di Giorgione): sono i primi esperimenti di notturno, che avvengono in un periodo in cui il naturalismo comincia a venire meno e viene soppiantato dagli studi di riflessi, delle fonti di luce non naturali che però creano effetti di maggiore sorpresa. Non più il registro del naturalismo, ma si va su un registro che comincia a sfruttare il ragionamento sulla forma più che sulla semplice descrizione quattrocentesca della realtà. Parmigianino, Autoritratto in uno specchio convesso Disegno che realizza a Roma. Vasari ricorda di averlo visto ad Arezzo («...ma il ritratto dello specchio mi ricordo, io essendo giovinetto, aver veduto in Arezzo nelle case di esso Messer Pietro Aretino, dove era veduto dai forestieri, che per quella città passavano, come cosa rara»). Tra le primissime opere, tra quelle che porta e quelle che realizza subito dopo, in uno stretto giro di tempo, per Clemente VII Parmigianino, una volta che viene incoronato come “novello Raffaello”, c’è questo autoritratto allo specchio, che viene descritto in questo modo da Vasari: «Oltra ciò, per investigare le sottigliezze dell’arte, si mise un giorno a ritrarre se stesso, guardandosi in uno specchio da barbieri, di que’ mezzo tondi. Nel che fare, vedendo quelle bizzarrie che fa la ritondità dello specchio, nel girare che fanno le travi de’ palchi, che torcono e le porte e tutti gl’edifizi che sfuggono stranamente, gli venne voglia di contrafare per suo capriccio ogni cosa. Laonde, fatta fare una palla di legno al tornio, e quella divisa per farla mezza tonda e di grandezza simile allo specchio, in quella si mise con grande arte a contrafare tutto quello che vedeva nello specchio e particolarmente se stesso tanto simile al naturale, che non si potrebbero stimare, né credere. E perché tutte le cose che s’appressano allo specchio crescono, e quelle che si allontanano diminuiscono, vi fece una mano che disegnava un poco grande, come mostrava lo specchio, tanto bella che pareva verissima; e perché Francesco era di bellissima aria et aveva il volto e l’aspetto grazioso molto e più tosto d’Angelo che d’uomo, pareva la sua effigie in quella palla una cosa divina. Anzi gli successe così felicemente tutta quell’opera, che il vero non istava altrimenti che il dipinto, essendo in quella il lustro del vetro, ogni segno di riflessione, l’ombre et i lumi sì propri e veri, che più non si sarebbe potuto sperare da umano ingegno». Cominciamo ad entrare nel mondo delle sottigliezze dell’arte, che dobbiamo sforzarci di far rivivere guardando questi quadri. Coinvolgimento dello spettatore attraverso lo sguardo, che non è più uno sguardo oggettivo. Qui abbiamo sottoforma di sintesi tutto quello che è lo spirito del manierismo, questo spirito di contraffare il vero, di prendere spunto dal vero e però poi di tradurlo in una chiave di raffinatezza, di sottigliezza e di gioco che non solo fa partecipare lo spettatore, ma anche crea questo contatto con l’esterno che prima di questo periodo non sussisteva. Vediamo questo specchio settecentesco, che lui utilizza per creare la sua opera. Rispetto a quello che si vede nello specchio lui sulla superficie piana cerca di realizzare quest’opera. Parmigianino, Autoritratto Disegno preparatorio che ci restituisce l’immagine di Parmigianino giovinetto nel momento in cui realizza questa opera di straordinaria abilità. La vicenda collezionistica di questa opera viene raccontata da Vasari. Il racconto di Vasari circa i passaggi di proprietà dell’Autoritratto di Parmigianino è veritiero. Il dipinto, un tempo appartenuto a Pietro Aretino e, prima ancora, a Clemente VII, venne venduto da Elio Belli – che lo aveva ereditato dal padre, l’orafo Valerio Belli – allo scultore Alessandro Vittoria per 10 ducati. La cosa che rende questo dipinto eccezionale nella PARMIGIANINO E MICHELANGELO Michelangelo, Tondo Gaddi Parmigianino, Riposo durante la fuga in Egitto Torniamo al periodo 1523-1524, periodo di cuspide tra Parma e Roma, dove lo stile di Parmigianino ci ricorda le opere un po’ acerbe, che sbocciano più nei disegni che nei dipinti, che sono ancora figlie di una formazione giovanile. Non dimentichiamo che Parmigianino ha 20 anni quando fa queste opere. Vediamo che in questa composizione di Parmigianino, la sacra famiglia, lo stile non è michelangiolesco, ma lo stile ci ricorda un Parmigianino prima di andare a Roma. Però di fondo questa composizione di Parmigianino tende molto a conoscere l’opera di Michelangelo. Michelangelo, Pietà Parmigianino, Studio della Pietà di Michelangelo Qui Parmigianino ci mette un pathos, un coinvolgimento che nella scultura di Michelangelo non c’è (superamento del modello). Michelangelo, Nudo Parmigianino, Studio di un nudo della Sistina Parmigianino, Studio per la Visione di San Girolamo Qui (Studio di un nudo della Sistina) c’è uno studio che poi lui si ricorda ed elabora nella figura dello Studio per la Visione di San Girolamo. Parmigianino, Visione di San Girolamo Michelangelo, Maddonna con il Bambino detta madonna di Bruges Visione di San Girolamo, dove gli appare questa Maddonna col bambino e questo San Giovanni Battista che indica la Madonna, come se fosse un sogno di San Girolamo dormiente, che vede questa apparizione della Vergine. Anche in questo caso Parmigianino pensa a Michelangelo, ma non facendosi influenzare dalla pittura di Michelangelo. Se pensiamo al Michelangelo della Sistina, un Michelangelo così monumentale, vediamo che qui invece c’è tutto un lessico del Parmigianino più tipico. C’è uno sviluppo in Parmigianino dalle figure un po’ acerbe della natività del Courtauld (Riposo durante la fuga in Egitto) a queste figure più eroiche, queste pelli più levigate, questa raffinatezza maggiore nella pittura, nella quale Parmigianino attorno a questi anni (1526-1527), dopo il trattamento a Roma, cresce e la sua arte cresce in modo enorme. Qui abbiamo un pittore molto più complesso, un pittore raffinato, un pittore che lavora le superfici in un modo straordinario, che riesce a sostenere le sottigliezze della pittura con un’adeguata stesura dei colori. Sempre riferimenti a Michelangelo. Parmigianino, Visione di San Girolamo Tiziano, Venere del Pardo Qui abbiamo un riferimento insolito. Viene studiata l’ora del giorno in cui avviene questo evento, un’ora possibile del giorno in cui avviene questo episodio. In Parmigianino c’è un notturno, ma non abbiamo veri e propri punti di luce, tutto è illuminato da una luce artificiale. Nell’opera di Tiziano c’è invece una luce diurna. Sorprendentemente Parmigianino guarda anche a Tiziano. Parmigianino, Madonna della rosa Vediamo come è sottile un’opera come questa. Mani stupende, vesti raffinate, tutte fatte di luci, Gesù bambino in pose più erotiche e meno naturali, che si appoggia con questo braccialetto di corallo sul mondo. Questo dipinto venne descritto da Vasari: «…tornando a dipignere, ritrasse per aver danari non so che conte bolognese, e dopo fece un quadro di Nostra Donna con un Cristo che tiene una palla di mappamondo; ha la Madonna bellissima aria, et il putto è similmente molto naturale, perciò che egli usò di far sempre nel volto de’ putti una vivacità propriamente puerile, che fa conoscere certi spiriti acuti e maliziosi che hanno bene spesso i fanciulli; abbigliò ancora la Nostra Donna con modi straordinarii, vestendola d’un abito che avea le maniche di veli gialletti e quasi vergati d’oro, che nel vero avea bellissima grazia, facendo parere le carni vere e delicatissime, oltra che non si possono vedere capegli dipinti meglio lavorati. Questo quadro fu dipinto per Messer Pietro Aretino, ma venendo in quel tempo papa Clemente a Bologna, Francesco glielo donò...». Parliamo de periodo in cui Parmigianino, dopo il 1527, fa ritorno in patria e passa da Bologna (poi tornerà a Parma per gli ultimi anni della sua vita). Questo dipinto viene fatto per Aretino, però arriva Clemente VII nel 1530 per l’incoronazione di Carlo V, la riappacificazione tra Clemente VII e Carlo V in seguito al sacco di Roma, vede questo dipinto di Parmigianino e vuole questo dipinto. L’ULTIMA COMMISSIONE: GLI AFFRESCHI DI SANTA MARIA DELLA STACCATA A PARMA Vasari: «Intanto cominciò Francesco a dismettere l’opera della Steccata, o almeno a fare tanto adagio, che si conosceva che v’andava di male gambe. E questo avveniva perché, avendo cominciato a studiare le cose dell’alchimia, aveva tralasciato del tutto le cose della pittura, pensando di dover tosto aricchire congelando mercurio. Per che stillandosi il cervello, non con pensare belle invenzioni, né con i pennelli o mestiche, perdeva tutto il giorno in tramenare carboni, legne, bocce di vetro et altre simili bazicature che gli facevano spendere più in un giorno, che non guadagnava a lavorare una settimana alla capella della Steccata; e non avendo altra entrata, e pur bisognandogli anco vivere, si veniva così consumando con questi suoi fornelli a poco a poco. E, che fu peggio, gl’uomini della Compagnia della Steccata, vedendo che egli avea del tutto tralasciato il lavoro, avendolo per aventura, come si fa, soprapagato, gli messero lite; onde egli per lo migliore si ritirò, fuggendosi una notte con alcuni amici suoi a Casalmaggiore; dove, uscitogli alquanto di capo l’alchimie, fece per la chiesa di Santo Stefano, in una tavola, la Nostra Donna in aria, e da basso San Giovambatista e Santo Stefano». Ritardi di Parmigianino che non voleva finire questi affreschi. Forse è vero che ad un certo punto lui si era molto indebitato per fare questi esperimenti con l’alchimia, perché sappiamo che l’eredità di Parmigianino passò nelle mani del suo committente e amico Francesco Baiardi, forse per saldare alcuni debiti contratti precedentemente con lui. Nell’inventario stilato alla sua morte (30 settembre 1561) sono registrati 22 dipinti e 495 disegni. È molto strano questo passaggio a questo nobile di Parma di tutto questo patrimonio di dipinti e in effetti fa pensare che fosse un finanziatore di Parmigianino e che Parmigianino si fosse indebitato con lui. Nel 1540 (anno di morte di Parmigianino) i fabbricieri della Steccata chiedono un disegno a Giulio Romano per la decorazione dell’abside. Nonostante le lamentele di Parmigianino con Giulio (perché gli portava via il lavoro), Anselmi firmò il contratto per mettere in opera il disegno il 4 aprile 1540. Un secondo contratto venne firmato l’8 maggio 1541 e l’affresco venne portato a termine nel 1542. Parmigianino fa poche cose su questa steccata, però le poche cose che fa sono strabilianti. Disegni preparatori per il soffitto: Parmigianino, Studio per il soffitto della Steccata Parmigianino, Studio per le tre vergini della Steccata Raffaello, Santa Cecilia  opera importante per tutti i pittori bolognesi dal secondo decennio in avanti, che Parmigianino nel suo soggiorno bolognese si ricorda e che prende ad esempio per queste vergini della Steccata, per questo ideale femminile di Parmigianino, estremamente elegante, che viene ripreso da Raffaello e potenziato. Parmigianino è più raffinato e complesso (es. effetto bagnato). Siamo di fronte ad una prosecuzione di questo novello Raffaello che ha elaborato varie fonti di ispirazione, dall’antico a Raffaello e Michelangelo, ed è arrivato in questa sua ultima commissione ad una formula estremamente elegante ed estremamente raffinata, che sono le vergini della cappella della Steccata a Parma, dove da giovane aveva fatto le ante dell’organo. Lezione 10 Parmigianino, La Madonna appare ai santi Stefano e Giovanni Questo dipinto si trova nella chiesa di Casalmaggiore, chiesa dedicata a Santo Stefano, che vediamo raffigurato nell’opera (accanto a lui c’è una testa che sbuca, la testa del donatore). Probabilmente il donatore della pala sarà stato il parroco di Santo Stefano a Casalmaggiore. La chiesa è stata rifatta nel 1840 e il dipinto fa parte di questi dipinti emiliani che ad un certo punto finiscono a Dresda nella collezione del principe di Dresda. È questa la pala di cui ci parlava Vasari quando diceva che si era recato a Casalmaggiore: «...onde egli per lo migliore si ritirò, fuggendosi una notte con alcuni amici suoi a Casalmaggiore; dove, uscitogli alquanto di capo l’alchimie, fece per la chiesa di Santo Stefano, in una tavola, la Nostra Donna in aria, e da basso San Giovambatista e Santo Stefano». Questa è una delle ultime opere che Parmigianino completa in questa fuga da Parma, lasciando incompleta la Steccata. Non abbiamo mai visto una pala d’altare strutturata in questo modo, così complessa. Anche queste invenzioni di Parmigianino sono assai bizzarre, perché noi siamo abituati ormai canonicamente alla madonna col bambino, ai santi ai lati in una uniformità di scala, invece qui è una visione che hanno questi due santi della madonna che irrompe dal retro in una ambientazione architettonica non meglio definita. Santi in primo piano e madonna col bambino in alto in secondo piano. Si coglie l’originalità inventiva e compositiva di questo straordinario pittore, che nell’ultima parte della sua vita lavorava in una maniera abbastanza incostante, ma era sempre mai banale e mai privo di invenzioni, come testimoniano i 459 disegni che si trovano nelle disponibilità degli eredi nel momento in cui Parmigianino muore. LA MADONNA “DAL COLLO LUNGO”: DISEGNI E DIPINTO Mettiamo il focus su come lavora lo storico dell’arte, su come si ricostruiscono alcuni problemi storico- artistici abbastanza complicati. Qui paradossalmente, proprio per non dare niente di scontato fino alla fine, paragoniamo la prima pala d’altare di Parmigianino (Matrimonio mistico di Santa Caterina d’Alessandria con i santi Giovanni evangelista e Giovanni Battista, la pala per Viadana) con una delle ultime (Madonna detta dal collo lungo). Anche proprio per far vedere quanto cambia un pittore, quanto si evolve, quanto viene modificato il suo stile è bene tenere sempre presente anche queste contraddizioni. Vediamo per esempio quanto la gamma cromatica cambi: una gamma cromatica che è anche vicina a Mantegna, ai colori del Quattrocento, questi colori molto forti, molto contrastati, una tavolozza che viene tutta ritradotta in sofisticati accordi cromatici. Da colori primi molto forti, che si alternano e danno una grande vivacità alla superficie pittorica a un uso del colore estremamente misurato, tutto giocato tra un grigio e un blu. Notiamo come la seconda opera non sia finita: notiamo l’architettura sullo sfondo, un colonnato, una architettura molto sviluppata che poi alla fine si perde nel nulla, non viene continuata. Se queste due opere André Chastel, un importante storico del rinascimento italiano, chiamò lo stile degli anni che vanno dalla morte di Raffaello al sacco di Roma «Manierismo clementino». Chastel indica in questa prima età clementina una sorta di sottocategoria, nella quale noi troviamo anche Parmigianino, e una sorta di sottocategoria nella quale comincia a elaborarsi in una sorta di microclima questo linguaggio che poi sboccia nelle epoche successive. Abbiamo visto che questo manierismo clementino è un momento molto particolare e molto bello, che va dal ’22 al ’27, cinque anni in cui si completano le opere di Raffaello, quindi per certi aspetti siamo ancora all’interno del mondo di Raffaello, ma i suoi seguaci hanno perso questa volontà di essere classici, di essere oggettivi, di essere simmetrici, equilibrati e cominciano anche loro a fare queste prime sperimentazioni. Comunque, questo manierismo clementino, che è un fenomeno romano, si iscrive perfettamente in questa categoria della prima generazione dei manieristi, degli anni ’20-’30, in genere fiorentini e che sono questi sperimentatori della maniera. Poi questa seconda generazione di Manieristi (Maniera ‘matura’): normalizzazione dell’arte della generazione precedente, sentita come affine all’arte classica. Quello che sembra una sperimentazione diventa la nuova regola e quindi viene codificato. Quindi, quello che avviene tra gli anni ’20 e ’30, che sembravano dei paradossi, delle cose complicate, una sorta di avanguardismo, adesso gli artisti di seconda generazione ormai si dimenticano che è un fenomeno innovativo quello che sta avvenendo tra anni ’20 e ’30 e a loro volta lo prendono come un fatto normale e lo portano avanti senza nessun problema. I turbamenti spirituali, religiosi e politici dei decenni precedenti vengono repressi o incanalati. Qui c’è un problema religioso molto grande. Quando diciamo che scompare la natura vera e propria di questi influssi che avevano determinato questo stile, vuol dire anche che vengono meno tutte le ragioni spirituali, religiose e politiche che avevano anche un po’ contribuito a creare questo stile sperimentale. Si codificano queste opere degli anni ’20 e ’30 come se fossero delle cose normali. I riferimenti principali sono la scultura michelangiolesca «classica» e lo stile tardo di Raffaello (Rinascimento classico), la scultura antica e l’erudizione, intese nel loro valore di citazione, e i manieristi della prima generazione. Da un certo punto di vista rientrano tutti quelli che erano gli sperimentalismi e si sente l’esigenza di tornare ad una nuova regola. La storiografia inglese iniziò a inserire dei distinguo per evitare l’interpretazione della Maniera come uno stile privo di estrosità creativa, perché appunto doveva distinguersi da quello che invece era uno stile vero e proprio, che non è alla “maniera” di qualcos’altro. FIRENZE Andiamo a vedere chi sono i protagonisti di queste categorie che abbiamo appena elaborato. -Prima Maniera o Manierismo sperimentale: Rosso Fiorentino Pontormo (1520-1530 circa). -Maniera ‘matura’: Bronzino, Francesco Salviati, Vasari e Jacopino del Conte. Tutti questi sono allievi prima del raffaellesco classicista Andrea Del Sarto e poi del raffaellesco manierista Perino del Vaga. Qui cominciamo a capire una cosa importante per la comprensione dell’arte del Cinquecento: alla fine la linea vincente fino alla Controriforma e nella Controriforma compresa è la linea di Raffaello, perché Michelangelo resta una presenza un po’ scomoda, una presenza molto ingombrante e soprattutto Michelangelo resta un artista che viene studiato molto per le sue opere classiche, per le sue opere giovanili, in particolare per le tombe medicee e per la Cappella Sistina, mentre poi per il resto è una fonte costante di ispirazione, gode di una fama infinita grazie alla sua unicità (di cui Raffaello non godette mai), ma sostanzialmente non diventa il riferimento dello stile dell’arte del Cinquecento italiano. Questo perché il vero grande campione del Cinquecento italiano, sia nel periodo di questa codifica della maniera sia nel periodo successivo, quando la Controriforma, il Concilio di Trento devono trovare dei nuovi codici artistici per rilanciare l’arte, resta sempre Raffaello e i seguaci di Raffaello. ROMA Sfortuna del Giudizio universale di Michelangelo. Michelangelo viene molto apprezzato per la volta sistina, viene molto apprezzato come scultore, però la grande critica e la grande sfortuna di Michelangelo è proprio il Giudizio universale, nel quale Michelangelo nega quegli ideali di bellezza che invece lo avevano portato all’inizio a diventare il punto di riferimento della nascita dello stile classico e dell’elaborazione di questo linguaggio, di questa sorta di “maniera” di grado zero, classico della pittura italiana. Non mancarono pittori appartenenti alla corrente «raffaellesca» che rifacendosi direttamente alle opere del maestro, invece che dei seguaci e allievi, si ponevano in modo distinto rispetto alla Maniera ‘matura’. Da qui nacque la pittura della Controriforma. CONTRORIFORMA La Controriforma è una prosecuzione per certi aspetti di questo stile e non è la negazione di questo stile della Maniera “matura” codificato, ma anzi ad un certo punto la Controriforma è paradossalmente il movimento che prepara al naturalismo. Anche se è un movimento per certi aspetti reazionario, da un altro punto di vista prepara il naturalismo, perché ad un certo punto questo stile manierista, che diventa un linguaggio complicato, è così complicato che nessuno capisce più niente di queste sperimentazioni formali. Allora il Concilio di Trento capisce che deve comunicare arte in un modo piano e semplice. Si tratta di dipinti che sono fatti per chi ha gli strumenti per leggere queste grandi invenzioni, per una cerchia molto ristretta che si trova attorno a Papa Leone X e Clemente VII. Il problema è che serve un tale grado di cultura, di consapevolezza artistica e storica per comprendere questo tipo di opere che il Concilio di Trento ad un certo punto si pone il problema che non le capisce nessuno e quindi si punta su un’arte più semplice, più immediata, più codificata, in cui queste cose sofisticate del manierismo vengono meno a vantaggio di una maggiore chiarezza espositiva. Avviene questa arte della Controriforma, che agli occhi delle persone raffinate sono un impoverimento e lo stesso Vasari si trova nel 1567 nella Roma di Paolo IV e dice che: «le grandezze di questo luogo sminuite dalla grettezza del vivere, dalla monotonia del vestire, e dalla semplicità in tante cose; Roma è caduta in tanta miseria, e se è vero che Cristo amava la povertà e che l’Urbe vuol seguire i suoi passi, essa sarà ben presto ridotta alla mendacità…». Questo è lo stupore di un teorico del manierismo che vede, rispetto all’austerità, che già Adriano VI aveva provato ad introdurre, Adriano VI che non aveva molto incentivato l’arte e aveva fatto scappare moltissimi artisti da Roma, un ritorno in un clima dove non si finanzia più questa raffinatezza artistica e dove gli artisti e gli intellettuali del tempo trovano uno stile sciatto. Da questa sciatteria nascerà la Controriforma, poi il naturalismo e un nuovo stile dell’arte. Lo stile della Controriforma venne sancito dal Concilio di Trento in una seduta del 3-4 dicembre 1563. Non si trattava di un stile nuovo, nato in quella data, ma del riconoscimento e codifica dello stile della Maniera ‘matura’, soprattutto nell’ambito della committenza religiosa, già in atto a partire dalla metà degli anni ‘50 del XVI secolo. FIRENZE FRA CLASSICISMO E ANTICLASSICISMO Che cos’è questo famoso stile classico, di cui abbiamo tanto parlato? Baccio della Porta, detto Fra Bartolomeo, Sposalizio mistico di Santa Caterina da Siena Questa è un’opera dello stile classico. È una crescita sulle idee della Scuola di Atene, sulla simmetria, sulla disposizione delle figure in un modo ordinato all’interno dello spazio, delle figure che quasi proseguono idealmente la struttura architettonica, che dialogano perfettamente, che si inseriscono e si uniformano perfettamente all’interno di questa struttura architettonica, dove noi non sentiamo, come prima in Parmigianino, questi sbalzi di altezze. Non c’è nulla che ci disturba, non c’è nulla che ci inquieta, siamo in un mondo perfettamente controllato, un mondo così frontale, nel quale ogni cosa trova il posto giusto. Questa è una delle opere più celebri di Baccio della Porta, detto Fra Bartolomeo, fatta per la chiesa di San Marco a Firenze, perché lui ad un certo punto va in convento e diventa Fra Bartolomeo, ma prima lavorava come pittore con il nome di Baccio della Porta. Questa è una delle opere che noi possiamo prendere a riferimento per questa situazione classica, questa situazione di primo rinascimento, dalla quale ci allontaniamo. Eventi storici a Firenze È una partita che comincia a giocarsi tra Firenze e Roma, quando Lorenzo il Magnifico manda i suoi artisti a dipingere le pareti della Cappella Sistina. È un continuo scambio di artisti che sono un po’ sull’onda di questi due Papi medici, Leone X e Clemente VII, che contraddistingue questa storia molto complessa che si gioca tra queste due città. Firenze vive una storia travagliata in questo periodo, proprio perché tra 1494 e 1498 c’è questa repubblica capeggiata dal frate domenicano Girolamo Savonarola, che di fatto è una reazione a tutte le raffinatezze del mondo di Lorenzo il Magnifico. Vanno anche bruciati un sacco di dipinti, questa società pagana, che era considerata la Firenze dell’ultimo decennio del Quattrocento, viene messa sotto accusa e viene distrutta. Questa repubblica in qualche misura rivive su altre basi fino al 1512 sotto il controllo di questo gonfaloniere della repubblica che si chiamava Pier Soderini. Fino a questo momento a Firenze c’è questo momento repubblicano che sarà molto importante per Michelangelo, perché tutti i cattivissimi rapporti che Michelangelo ha con Firenze nascono soprattutto in questo periodo, quando lui si avvicina molto agli ideali repubblicani, cercando in tutti i modi di contestare il dominio dei Medici su Firenze. Parliamo di dominio dei Medici, perché di fatto poi i Medici solo con il granduca Cosimo I diventano gli effettivi signori di Firenze, come lo erano ad esempio i Gonzaga di Mantova. Ma fino a quel momento i Medici sono un po’ una presenza sotterranea, che ha molto potere e molti soldi, ma di fatto non sono i veri e propri signori di Firenze, infatti, vivono nel loro palazzo di via Larga e non vivono nel Palazzo Vecchio. Si trasferiscono in Palazzo Vecchio solo quando Cosimo I viene considerato il duca di Firenze. Per cui è molto importante questa vicenda della repubblica di Firenze per capire tutti i movimenti di Michelangelo nella seconda parte della sua vita. Quando poi Michelangelo vede che Giovanni de’ Medici, Leone X, torna a Firenze nel ’12 e i Medici sostanzialmente riprendono il controllo sulla città, Michelangelo avrà poche occasioni per lavorare a Firenze. Lavorerà per Firenze proprio per Leone X in occasione di questo ritorno di Leone X a Firenze nei primissimi anni di questo periodo, però dopo questo periodo Michelangelo lavorerà sostanzialmente sempre a Roma, anzi ad un certo punto non ritornerà più a Firenze per gli ultimi 30 anni della sua vita. Nel 1532 i Medici, dopo questa esperienza della repubblica e questo ritorno di Giovanni de’ Medici, diventano i duchi della città. Nel 1537 Cosimo I diventa il granduca. Quindi, questo è lo sfondo storico. La parte artistica vede nell’ultimo decennio del secolo un’intensa attività di Perugino a Firenze e l’inizio di questa cosiddetta Scuola di San Marco, che è composta da Mariotto Albertinelli (1474-1515) e Baccio della Porta in seguito noto come Fra’ Bartolomeo (1473-1517). In questi anni ci sono questi pittori. Nel 1500, sotto la spinta dell’insegnamento di Savonarola (che è l’origine della conversione di Baccio della Porta), Baccio della Porta entra nel convento di San Marco e prende il nome di Fra’ Bartolomeo. Si apre questa Scuola di San Marco. Poi nel 1513 viene sciolta la loro bottega di Fra’ Bartolomeo, ma la collaborazione continua. INIZI DELLA MANIERA A FIRENZE: IL MAGISTERO DI ANDREA DEL SARTO La Maniera a Firenze inizia in questi anni ’10, quando ci si dedica all’affrescatura del Chiostrino dei Voti da parte di una serie di pittori che sono capeggiati da Andrea del Sarto, che è un po’ il grande interprete dell’arte fiorentina di questo periodo, perché è il maestro di Pontormo e di Rosso Fiorentino, che lavorano con lui in questa impresa del Chiostrino dei Voti. Chiostrino dei Voti: abbiamo un elogio di questo pittore che verrà deriso pesantemente da Vasari nelle sue opere successive, ma che qui viene apprezzato proprio perché riesce a mantenere in equilibrio questo classicismo con le nuove ricerche manieristiche. Fino a queste cose qui questo sperimentalismo era tollerato. Qui, nonostante le belle parole di Vasari rispetto a queste figure, c’è qualcosa che è cambiato: ci sono queste figure disposte attorno alla madonna col bambino, disposta su questi gradini, non c’è più la pala d’altare classica, ma sembra quasi di entrare in un’edicola sulla strada. Non c’è più una pala d’altare classica con la madonna col bambino e santi, per cui possiamo parlare di manierismo, di qualcosa di nuovo rispetto all’arte classica e all’arte fino alla morte di Raffaello e ciò nonostante tuto questo rientra ancora in un canone di decoro, in uno studio molto attento delle figure che conquista l’elogio di Vasari. Cominciamo a vedere questi primi moti dell’arte manierista fiorentina, in particolare anche un recupero in questo bambino che ride (Pontormo, Disegno preparatorio per il Gesù Bambino della pala di San Michele in Visdomini) di una certa figuratività leonardesca. Anche lo sfumato che vediamo in questa pala ci fa capire che siamo in anni in cui si recupera la lezione dello sfumato leonardesco. Paolo Giovio raccontava come Leonardo vietasse ai suoi allievi di usare i colori fino a che non avessero superato i vent’anni, facendoli invece «imitare con tratti semplicissimi la forza della natura e i contorni dei corpi che si manifestano ai nostri occhi con tanta varietà di moti. Ecco qui un esercizio in questo spirito leonardesco di non utilizzare il colore, perché Leonardo diceva che bisognava imitare con tratti semplicissimi quello che ci si presentava sotto gli occhi per poter descrivere la realtà. Quindi, c’è già in Leonardo (forse l’unico della sua generazione) questo spirito di osservazione psicologica nei confronti della natura. Non a caso questi sperimentatori, Pontormo in particolare, si rifanno a Leonardo nel momento in cui devono introdurre nuovi elementi rispetto alla pittura classica che in qualche modo diano una raffigurazione maggiormente credibile di quanto vedono e della realtà circostante. Abbiamo anche un recupero da parte di questi pittori di certi autori classici, però un recupero che va ad isolare tutti quegli elementi che sono funzionali ad una maggiore descrizione della natura, della realtà e che quindi consentono di sperimentare nuove formule, nuovi modi, anticlassici, con cui rendere la figura umana, gli affetti e le composizioni. Questa è una prima fase del superamento del classicismo, basata anche sui maestri del passato (Leonardo per Pontormo e Donatello per Rosso Fiorentino), sul recupero della tradizione. Cambio di rotta, cambio di sensibilità. Emerge questa nuova estetica della sperimentazione manieristica. Lezione 11 (24/10/22) MICHELANGELO A FIRENZE (1516-1534) Torniamo alle origini della maniera moderna. Michelangelo attraversa un periodo molto lungo del Cinquecento e quindi lo vedremo anche nel modo contraddittorio con cui caratterizza questo secolo. Vediamo come il percorso di Michelangelo sta alla base dei concetti del manierismo. Eventi storici – vita di Michelangelo Michelangelo si caratterizza politicamente, nel senso politico, sociale e delle sue scelte di vita, per una grande simpatia all’inizio per Lorenzo il Magnifico, che lo accoglie da giovane nel giardino di San Marco, che lo fa studiare, lo ritiene giù da subito un grande genio della sua arte, una simpatia che prosegue nei Papi Medici (Leone X e Clemente VII) che lo faranno lavorare, ma che è una simpatia che non c’è per nulla quando invece si tratta dei Medici in quanto famiglia che controlla la città di Firenze. Michelangelo, dopo questo primo ottimo rapporto con Lorenzo il Magnifico, si fa molto affascinare dalla repubblica, prima la repubblica di Savonarola e poi la repubblica di Pier Soderini, dagli ideali della repubblica. Proprio per questo motivo avrà sempre grandi problemi nel vivere a Firenze nel periodo in cui Firenze è governata dai Medici. I Medici sono una sorta di potere ombra a Firenze fino al 1532, quando diventa duca Francesco I. Cioè, i Medici stanno nel loro palazzo di via Larga, non stanno in Palazzo Vecchio, Firenze è una signoria a tutti gli effetti con i suoi organi di governo e i Medici sono semplicemente una famiglia molto influente, padroni di fatto della città, ma che in realtà però non sono i signori a tutti gli effetti riconosciuti. A Michelangelo questa situazione non farà mai molto piacere. Infatti, Michelangelo lavora a Firenze solo quando c’è la repubblica: -1501-1504: la repubblica gli affida il David per la Piazza della Signoria su incarico del gonfaloniere della Repubblica Pier Soderini. -Leone X nel 1515 gli affida l’incarico della nuova facciata di San Lorenzo e 3 anni dopo quello della Sacrestia Nuova La repubblica finisce nel 1512. E allora perché Michelangelo lavora a Firenze fino al 1515? Di fatto in questo periodo Firenze è retta dal Papa, che è un Medici, ma che non è un signore di Firenze a tutti gli effetti. Quindi Michelangelo lavora per il Papa, non lavora per il governo di Firenze. Tanto che poi, quando a seguito del sacco di Roma ci sarà un assedio delle truppe imperiali a Firenze, Michelangelo combatte con i sostenitori della repubblica. Alla sconfitta di questi sostenitori della repubblica, Michelangelo è costretto a fuggire dalla città. Quindi, ci sono sempre questi rapporti conflittuali: ogni qual volta c’è la possibilità di far tornare il governo repubblicano a Firenze, Michelangelo è favorevole, Michelangelo combatte per questa forma di governo; ogni qual volta i Medici prendono il potere a Firenze, Michelangelo si allontana. Si allontana definitivamente dopo questo tentativo dei fuoriusciti medicei di instaurare nuovamente la repubblica e di fatto dal 1533-1544 Michelangelo, chiamato a Roma da Clemente VII, Papa Medici, per dipingere il Giudizio Universale, non farà più ritorno a Firenze fino alla morte, che sarà nel 1563. Quindi, trent’anni di lontananza dalla città e una frequentazione molto intermittente a servizio della repubblica e a servizio di queste commissioni straordinarie papali, che vengono perché c’è un rapporto molto stretto tra il Papa Medici e la città di Firenze, ma alla base c’è questo rapporto estremamente conflittuale con la signoria medicea. Michelangelo, David Commissione repubblicana: David che sconfigge Golia, quindi il debole (popolo) che sconfigge il forte (tirannia della famiglia Medici). Disegno di Raffaello: Studio del David di Michelangelo. In questo periodo repubblicano Raffaello, dal 1504 al 1508, è a Firenze, fino a quando non inizia le Stanze Vaticane, e tra 1500 e 1508 c’è il secondo periodo fiorentino di Leonardo. Quindi, siamo in un periodo cruciale per l’arte italiana, periodo cruciale che vede il David di Michelangelo scolpito tra 1501 e 1504 e questo periodo in cui Raffaello si trova a Firenze e realizza questo disegno. Disegno che ci mostra quanto stretti, quanto forti sono i rapporti tra questi due artisti che di fatto elaborano questo stile classico, che poi nell’interpretazione dei loro seguaci subirà delle modifiche. Michelangelo, Due uomini in lotta Sempre per avvicinarci a questi temi repubblicani, a questo modo di sostenere la repubblica da parte Michelangelo, qui vediamo una sorta di contrappasso fortissimo. In questo periodo di incertezza, in cui i repubblicani sembrano ritornare ad avere il potere a Firenze, c’è l’idea di far completare il David di Michelangelo con una scultura che venne scoperta dal grande storico dell’arte, Johannes Wilde, nei depositi di casa Buonarroti. Quello nell’immagine a sinistra è un modello in creta, alto 41 cm, che doveva essere il bozzetto, la prova della scultura monumentale che sarebbe poi stata realizzata da Michelangelo. A destra (Baccio Bandinelli, Ercole e Caco) invece ecco cosa venne realmente realizzato da Baccio Bandinelli, protetto di Vasari, braccio armato e braccio destro di Cosimo I, grande nemico di Michelangelo e seguace di Alessandro I, secondo duca di Firenze. Ecco il trapasso tra la scultura che Michelangelo avrebbe dovuto fare per fare il pendant in Piazza della Signoria al David giovanile che gli era stato commissionato dalla repubblica e qui invece la statua di Ercole e Caco con significato opposto, cioè che i Medici ritornano al potere. Ercole (Cosimo I) che sconfigge Caco, che ha la repubblica ai suoi piedi. Sullo sfondo Palazzo Vecchio, che diventerà la dimora ufficiale dei Medici nel momento in cui i Medici con Alessandro I e poi con Cosimo I saranno considerati i veri signori di Firenze. Il rapporto di Michelangelo con questi fuoriusciti antimedicei fu sempre molto stretto. Il più famoso fuoriuscito antimediceo è Bindo Altoviti. Michelangelo (volto) e Tiberio Calcagni (panneggio), Bruto Busto di Bruto che venne commissionato da Niccolò Ridolfi per celebrare questo assassinio di Alessandro, del primo duca di Firenze, da parte di Lorenzino de Medici. I fuoriusciti fiorentini speravano che questo assassinio potesse nutrire le loro speranze di ritornare al potere in città. In questa ottica viene commissionato non a caso a Michelangelo, che era molto favorevole a cacciare i Medici dalla città, questo busto di Bruto, che è l’uccisore di Cesare. Anche in questo un significato iconografico molto preciso, una committenza molto precisa a vantaggio di Michelangelo che aveva idee politiche molto precise. Questo omicidio di Alessandro alimenta queste speranze dei fuoriusciti antimedicei di rientrare a Firenze, speranze nutrite dallo stesso Michelangelo, che in quel momento si è rifugiato a Roma. Se Michelangelo fosse stato a Firenze nel momento in cui i Medici ritornano al potere, probabilmente sarebbe stato ucciso. Michelangelo fa questa statua del Bruto in questo momento particolare, ma poi la storia prenderà tutt’altra strada: Alessandro I, il primo duca di Firenze, verrà ucciso da Lorenzino, però a lui succederà Cosimo I, duca dal 1537 e granduca dal 1569, che trasformerà Firenze in uno stato potentissimo, allontanando definitivamente questi sogni di rivoluzione da parte dei repubblicani. Questo busto in realtà non è solo di Michelangelo: la parte di Michelangelo è quella non finita, dove si percepisce una qualità maggiore, invece questo panneggio un po’ più schematico, un po’ più tradizionale è di Tiberio Calcagni, uno dei pochi allievi di Michelangelo. Sempre per vedere questo contrastato rapporto di Michelangelo con questo passaggio di potere definitivo da una reggenza medicea al ducato mediceo, quindi una definitiva sconfitta dei repubblicani, questa statua: Michelangelo, David-Apollo (1531 circa) Commissionata dal governatore di Firenze mediceo, Baccio Valori. Baccio Valori, una volta che ebbe sconfitto i repubblicani, pretese da Michelangelo una collaborazione ad alcuni suoi progetti di rinnovo della sua abitazione, nella quale doveva trovare posto questa scultura, che è una delle poche sculture che Michelangelo fa per l’arredo interno di un palazzo. La straordinarietà della commissione e la drammaticità della situazione (costringono Michelangelo a eseguire questo lavoro) ci danno proprio l’idea di questo periodo drammatico che viene sottolineato anche da queste costrizioni a cui Michelangelo è costretto a sottostare. Poi nel 1532 arriva il duca Alessandro, nel 1537 arriva Cosimo. Michelangelo nel 1534 viene chiamato a Roma per cominciare a dipingere il Giudizio Universale. Tra la fase post affreschi della Sistina e il Giudizio Universale si colloca la importante commissione da parte di Giulio II della sua tomba. Giulio II comincia a commissionare la sua tomba già in questi anni e avrà una gestazione lunghissima. Questa è una copia (Giacomo Rocchetti copia da Michelangelo, Progetto della tomba di Giulio II nella versione del 1513), probabilmente un disegno seicentesco, per un’iper-precisione mai vista fino ad allora, per una leziosità del disegno che ci induce ad ipotizzare che sia una copia e non un autografo di Michelangelo. Questo lo vediamo anche dal tratto troppo finito per essere un disegno di elaborazione e troppo poco prezioso per essere un disegno da presentare ad un committente. Anche attraverso questi elementi di mancata raffinatezza, però al contempo stesso di grande precisione, siamo indotti a capire che non può essere un disegno dello stesso Michelangelo. Tuttavia, abbiamo davanti a noi un’opera che ci rimanda alla tomba di Giulio II e quindi ci rimanda al progetto più antico del monumento funebre di Michelangelo. appunto questo capostipite della famiglia fonda questo banco mediceo che poi progressivamente sarà sempre più potente e sarà sempre più in grado di finanziare varie imprese. Nell’intercapedine di questa sagrestia c’era anche il monumento funebre di Giovanni e di Piero “il Gottoso”, figli di Cosimo “il Vecchio”. Il monumento di Cosimo “il Vecchio” si trova invece nella cripta della chiesa. Notiamo la raffinatezza del programma: si fa una sagrestia vecchia dedicata a questo fondatore della famiglia Medici; nell’intercapedine tra il transetto e questa sagrestia c’è la tomba di Giovanni e di Piero, figli di Cosimo; Cosimo ha la tomba nella cripta della chiesa di San Lorenzo; sagrestia nuova. Capiamo che è un progetto dinastico, un progetto di autocelebrazione di una tale raffinatezza, di una continuità nel tempo che ci fa cogliere anche per questi motivi la grandezza del progetto di questa casata, dell’importanza di questo momento per la storia d’Italia e della Toscana. Sagrestia nuova di Michelangelo: Michelangelo, proprio per tutte le sue vicissitudini politiche, non completerà immediatamente la sagrestia nuova e anzi sarà un progetto che verrà completato solo molto tardi da Vasari. La cosa principale è quella di ricordare un grado di autografia molto grande di questa invenzione, che fino all’ultimo si sperava che Michelangelo portasse a termine il lavoro, tanto che resta il lavoro incompiuto a lungo proprio perché Clemente VII sperava che Michelangelo tornasse ad occuparsene. Nel 1534 Michelangelo è costretto ad andare via dalla città per dipingere il Giudizio Universale e quindi è Clemente VII che di fatto lo sposta su un’altra commissione, lasciando incompiuto questo progetto. Descrizione sagrestia nuova: -prima immagine: l’aspetto della percezione del luogo ci viene dato anche da un semplice dettaglio, cioè che le finestre sono digradanti per ampliare la percezione dello spazio. Queste finestre non hanno la base uguale alla terminazione finale, ma si rastremano verso l’alto. Sono questi i giochi di percezione, che sono tipici del Cinquecento e che non troviamo, se non eccezionalmente, nel Quattrocento. Nel Quattrocento nei capolavori di Donatello, di Filippo Lippi è chiaro che c’è uno studio anche illusivo talmente raffinato che si toccano questi tipi di problemi, però solo nel Cinquecento questi problemi vengono visti su larga scala, vengono assimilati a tal punto da diventare un lessico comune, un lessico normale. vediamo la volta e queste finestre che tendono a rastremarsi verso l’alto proprio per dare questo tipo di effetto illusivo. -seconda immagine: anche questa illuminazione dall’alto tende ad alleggerire la struttura architettonica, che altrimenti risulterebbe più pesante. Vediamo la lanterna aperta che tende a far lievitare queste strutture architettoniche, ad alleggerirle e un po’ a risucchiarle verso l’alto. -terza immagine: lo spazio è abitato dalle sculture. Rispetto alla sacrestia vecchia c’è una dichiarata volontà di rendere la scultura protagonista di questo arredo. Non è una stanza decorata con queste statue, ma questa qui è una stanza popolata da statue in cui le statue, l’architettura e questi monumenti funebri interagiscono a tutto tondo con quelle che solo le decorazioni delle pareti. Le decorazioni delle pareti presentano tutte queste strutture centinate e in questa visione dall’altare abbiamo il senso di quello che era il programma architettonico da parte di Michelangelo. Abbiamo le due sculture di Giuliano e di Lorenzo ai lati, sculture rivolte con la testa verso la parete di fondo, dove ci dovevano essere le tombe degli antenati, cioè le tombe di Lorenzo il Magnifico e del fratello Giuliano. Lorenzo il Magnifico e il fratello Giuliano sono gli unici finora di cui non abbiamo visto le tombe. Qui scopriamo che questi due giovani, Lorenzo e Giuliano, si rivolgono ai loro antenati, Lorenzo e Giuliano. Dall’altare di questa cappella si percepisce molto bene questo gioco di sguardi, che avrebbe avuto il suo centro in questa parete. -terza immagine: bellissima alternanza di pietra serena e marmo di Carrara, sempre questo gioco cromatico non casuale di queste membrature, che evidenziano senza l’utilizzo del colore la struttura architettonica. Tomba di Giuliano, duca di Nemours - Tomba di Lorenzo, duca di Urbino Lorenzo viene interpretato come un personaggio più meditabondo, con il braccio che sostiene la testa. Giuliano invece è un personaggio più d’azione, con questo vestito alla romana e questo bastone di comando. Parallelamente possiamo ammirare le sculture che sono appoggiate sulla tomba: qui l’altra grande invenzione della tomba michelangiolesca. Mentre normalmente il personaggio era sdraiato sul sarcofago e c’era la madonna con bambino, qui invece Michelangelo cambia l’iconografia e il protagonismo del personaggio, del dedicatario di queste tombe è collocato al posto della madonna col bambino. La stupenda invenzione di Michelangelo sono le figure allegoriche dei momenti della giornata (la notte e il giorno; il crepuscolo e l’aurora). Le pose delle allegorie del monumento funebre di Giuliano sono studiate proprio per farci vedere una sorta di chiusura della figura umana in questa tomba (spalla che copre il volto). Invece, le allegorie del monumento di Lorenzo sono figure più aperte nei confronti dello spettatore. Qual è il significato di queste sculture? L’ipotesi che funziona di più è: la malinconia e tristezza di queste allegorie che col passare del tempo hanno causato la morte di questi giovani. Quindi, una sorta di allegoria del tempo, sono rappresentative di un momento della giornata e giornata dopo giornata il tempo si consuma e ha causato la morte di questi due giovani. Michelangelo, Progetto per la tomba di un duca Progetto di una delle tombe. In realtà noi scopriamo che c’erano delle cose un po’ diverse. Ci sono due elementi del disegno del progetto che poi non tornano nella realizzazione: ai piedi della tomba erano previste due divinità fluviali ed era previsto anche un trofeo in alto. Doveva essere un progetto più complesso e con più figure. Il progetto si semplifica. Michelangelo, Bozzetto per una divinità fluviale dele Tombe medicee Bozzetto probabile candidato di quelle due figure che si dovevano trovare alla base delle tombe medicee. Non esistono le strutture vere e proprie, ma per lo meno abbiamo questo bozzetto che ci ricorda che Michelangelo aveva realmente pensato di completare le tombe con queste figure aggiuntive. TOMBA DEGLI ANTENATI: Lorenzo il Magnifico e Giuliano Tomba degli antenati con la madonna col bambino e due santi, Cosma e Damiano. Vengono scelti Cosma e Damiano perché sono i santi Medici fratelli, quindi anche in questo un’allusione alla famiglia Medici. Di questa tomba degli antenati ci restano soltanto le sculture, ma anche un importantissimo disegno (Michelangelo, Progetto delle tombe degli antenati per la Sacrestia Nuova) che ci dice come dovevano essere allestite queste figure. Nell’incompletezza di questo progetto michelangiolesco noi qui nel disegno abbiamo una struttura architettonica molto simile alle strutture architettoniche che ospitano le altre tombe di Lorenzo e Giuliano e i due sarcofagi davanti con una struttura molto simile a quella delle altre tombe medicee. Nel disegno vediamo anche la presenza della madonna con bambino, i santi Cosma e Damiano in evocazione di questi antenati, Lorenzo il Magnifico e suo fratello Giuliano. Questi disegni sono particolarmente importanti per questa ragione. Statua della madonna col bambino: qui vediamo la qualità della scultura michelangiolesca che per certi aspetti ancora un po’ ci ricorda il Michelangelo sistino almeno nello studio di questo contrapposto, nella bellezza classica, c'è ancora un Michelangelo che prosegue questa sua grande elaborazione di temi classici, di temi che vanno nella direzione dello studio della plastica, nella direzione dello studio delle proporzioni rispetto ai punti di vista. Nell’elaborazione di questo tipo di figuratività, di questo tipo di statua troviamo questo bambino. Il gesto della madonna cambia, ma nello studio di questo bambino noi abbiamo (soprattutto in questa torsione) sempre la ricerca della torsione, del contrappunto e al contempo stesso la ricerca di una bellezza classica che in questi anni Michelangelo non abbandona mai. Insistiamo sulla bellezza classica, ma insistiamo però allo stesso tempo nel sottrarre Michelangelo da categorie un po’ troppo schematiche di prima maniera, seconda maniera, sperimentalismo, classicismo, perché all’interno della sagrestia e in un disegno (Michelangelo, Teste mostruose), probabilmente in relazione con questi mascheroni che poi Silvio Cosini realizza (Silvio Cosini da Michelangelo, Mascheroni della Sagrestia Nuova), troviamo anche questo spirito bizzarro, che abbiamo già intravisto in Rosso Fiorentino e che nelle nostre classificazioni dovrebbe essere il manierismo sperimentale. In realtà qui siamo nel pieno classicismo michelangiolesco, per quello dicevamo che nel caso di Raffaello e di Michelangelo un po’ queste categorie fanno fatica ad essere adottate, perché Michelangelo e Raffaello attraversano un po’ queste categorie, le fondano e sono un po’ al di là di questo modo di interpretare gli artisti, perché hanno un’originalità talmente grande che non possono essere ridotti ad una semplice definizione. Qui siamo nel tempio del michelangiolismo classico e troviamo però queste caricature, queste facce deformate che magari starebbero bene a Palazzo Te a Mantova più che nella sagrestia nuova. Questo spirito bizzarro Michelangelo ce l’ha già in questi anni precoci. Tornando alle statue di Giuliano e Lorenzo sui monumenti funebri, capiamo che sono i ritratti idealizzati. Michelangelo, quando fa queste statue, fa due divinità classiche, non fa dei veri e propri ritratti fedeli, non è questo probabilmente il senso poi di queste tombe, che devono eternare la famiglia Medici. La famiglia Medici genera queste tombe non figurative, perché appunto la tomba di Cosimo è nella cripta e si nota dalla Basilica di San Lorenzo solo guardando il pavimento, perché c’è una lastra sepolcrale, le tombe di Giovanni e Piero sono nell’intercapedine tra le sagrestia e il transetto, dunque ci sono queste strane tombe non figurative. Anche in questo caso non c’è un ritratto vero e proprio, ma ci sono questi eroi, queste divinità e il ritratto vero e proprio di Giuliano ce lo restituisce maggiormente questa copia di un perduto ritratto di Raffaello (Ritratto di Giuliano de’ Medici, duca di Nemours). Anche di Lorenzo de’ Medici abbiamo un ritratto di Raffaello. Straordinario equilibrio tra bizzarro e linguaggio classico: -scultura dell’allegoria della Notte  attributi della notte: nottola, gufo, civetta, bellissimo gioiello con la Luna, mascherone inquietante che ci dà il senso dell’inquietudine della notte (gusto gotico in figure classiche). Figura con una grande treccia che nella sua fisicità ci ricorda molto ancora i nudi della Sistina, ci ricorda ancora questo mondo classico, atletico e completamente immerso nel classicismo e nella raffinatezza neogreca. Inquietudine michelangiolesca. -scultura dell’allegoria del Giorno  idea particolarmente bizzarra, innovativa di far vedere le spalle di una scultura. Queste sculture sono copiatissime poi, hanno una fortuna enorme. Far vedere la spalla in questo modo: qui c’è tutto quello che noi intendiamo anche come manierismo della seconda fase, quando noi parliamo di studio capzioso della forma, che ad un certo punto si disinteressa anche della naturalezza e del realismo perché solo interessata a complicare le cose. Cosa c’è di più di tardo manieristico addirittura di disinteressarsi quasi di fare un volto per mettere così in evidenza una spalla? Questo qui è il gusto della forma. Quando uno pensa al manierismo come gusto della forma, pensa a cose come questa. È talmente tanto il disinteresse nei confronti di ciò che viene rappresentato che qui il soggetto è la spalla fondamentalmente ed è una cosa piuttosto estrema per un periodo come questo. -scultura dell’allegoria del Crepuscolo -scultura dell’allegoria dell’Aurora Si ritorna in un mondo più classico, più raffinato e c’è tutto l’intento di rendere una forma perfetta in questo modo serpentinato, che sarà uno dei grandi temi del manierismo. tavole si volevano ottenere effetti diversi dagli affreschi. Quindi, anche questa attenzione ai materiali e alle scelte tecniche deve far riflettere sul fatto che sono diversi gli obiettivi che si cercano di raggiungere utilizzando un determinato tipo di tecniche. E qui il dibattito che creò la rottura tra Sebastiano del Piombo e Michelangelo. Sebastiano del Piombo, che è più un pittore che non un frescante, aveva suggerito e forse anche spinto il Papa a fare una decorazione ad olio, mentre Michelangelo disse che non voleva dipingere «se non a fresco, e che il colorire a olio era arte da donna e da persone agiate e infingarde, come fra’ Bastiano». La pittura d’affresco è una pittura più complessa, perché richiede una certa rapidità di esecuzione. Mentre l’olio è un legante che consente tempi di lavorazione diversi e soprattutto di tornare sulla materia pittorica, un legante che consente delle riflessioni successive, che invece l’affresco non consente. Per questo Michelangelo non accettava questo modo di lavorare di Sebastiano del Piombo, perché lo considerava come uno sminuire la sua bravura nel dipingere. Analisi Giudizio Universale: Slide successiva (focus su Cristo): enorme protagonismo di Cristo, rappresentato centrale nell’affresco. Siamo nel periodo della riforma protestante (Lutero, 95 tesi del 1517). Questa proposta di riforma protestante non era una novità assoluta, perché già al tempo di Leone X, all’inizio del suo papato, c’era stato un progetto di riformare la Chiesa dall’interno che non aveva però sortito nessun effetto. Ma che ci fosse un problema di riformare la Chiesa era ben presente già prima di Lutero. Questo ci consente di tornare a riflettere anche su cosa è il manierismo. Questa riforma della Chiesa doveva riformare un lusso eccessivo e una cultura eccessiva. La cosa che a noi interessa di più è la riforma di una cultura troppo elevata per quelle che erano le esigenze di comunicazione dei concetti cristiani a chi non aveva studiato. Il Concilio di Trento non solo accoglie la riforma protestante come modifica degli usi e dei costumi dei sacerdoti, regolando quelli che erano dei comportamenti ormai fuori controllo, ma anche introduce una semplificazione linguistica nelle immagini e nei riferimenti culturali che ad un certo punto era considerata necessaria, perché di fronte a queste immagini la persona di cultura comune non capiva niente. Mentre, il ricorrere a questi concetti sia in letteratura sia in pittura, questi concetti molto complessi che si riferivano alla classicità, nella folle mente di questi Papi e delle persone vicine a loro aveva il sincero obiettivo di rifondare la religione cristiana sull’insegnamento degli antichi greci e romani. In questo periodo di forti problemi provocati dalla riforma protestante, dopo il sacco di Roma, dopo l’incoronazione e la riappacificazione di Papa Clemente VII con Carlo V, dopo questo periodo di riappacificazione la Chiesa aveva bisogno di tenere insieme questo tipo di messaggi, per cui si apre il Concilio di Trento. Siamo in un momento di forte dibattito su questi temi. Non diamo per scontato questa cultura classica, questo studio delle forme, questo continuo riferimento all’antico, perché in questo periodo tutto questo bagaglio culturale, che si era formato all’inizio Cinquecento, a partire dal 1520 fino alla conclusione del Concilio di Trento (1560) è molto oscillante e subisce anche un certo numero di critiche. Slide successiva (una delle lunette in alto): vediamo che il portare questa colonna è evidentemente un pretesto, perché attorno alla colonna ruota il corpo umano in mille declinazioni diverse. Questo è il senso del manierismo e in questo senso Michelangelo è manierista, anche se è il fondatore del manierismo e fa fatica ad essere incasellato in questi concetti. È proprio un turbinio di figure che ci consentono di vedere il corpo umano in pose sempre diverse. Attorno a questo semplicissimo movimento di sorreggere una colonna ecco che si sviluppa il corpo umano in tutte queste declinazioni. Slide successiva (focus su alcuni personaggi): ancora una volta questa risurrezione dei corpi diventa un esercizio virtuosistico per Michelangelo per dare sfoggio di quella bravura che abbiamo cominciato ad intuire esistere nella sagrestia nuova e che qui la resurrezione dei corpi in tutti i loro diversificati modi di risorgere e quindi di ascendere al cielo ci danno modo di vedere. C’è uno spirito capzioso, uno spirito che sfrutta questa possibilità per infinite variazioni su questo tema del corpo umano. Slide successiva: espressioni non sempre di classicismo convinto, anche se Michelangelo e Raffaello si inseriscono come fondatori del classicismo, ma questa loro capacità di andare anche al di là di certe categorie storiche la vediamo molto bene anche nelle espressioni dei volti. Ci sono queste espressioni molto più composte e classiche in basso e in alto espressioni più concitate dei suonatori di tromba, che fanno partire questo movimento della resurrezione dei corpi. Slide successiva: vediamo uno spirito gotico molto agevolato dai dannati, i quali invece vengono risucchiati all’interno delle viscere della terra dai diavoli. Forte ironia, forte sarcasmo, forte capacità di interpretare le espressioni umane, anche nella loro semplicità per certi aspetti. Figura che si chiude gli occhi per non vedere il suo destino crudele. Quindi, ci sono molti registri di Michelangelo, anche se siamo abituati a vederlo sempre come una figura di perfezione eroica. Slide successiva: aspetti fumettistici, caricaturali di una modernità strepitosa. Vediamo che il paesaggio è abolito (Michelangelo nella sua vita non fa i ritratti e non fa i paesaggi). In questo caso c’è uno studio atmosferico, si percepisce qualcosa, ma fondamentalmente non si vede molto. Quella rappresentata sembra quasi la barca dei dannati dell’Ottocento più che un’opera del Cinquecento di Michelangelo. Fantasia che riprende le stampe nordiche che Michelangelo conosceva. Intercetta anche uno spirito tedesco, più espressionista e anticlassico, però sempre con una tenuta formale nel plasticismo delle figure che non verrà mai meno. Sicuramente c’è un esercizio sul corpo per farcelo vedere da varie angolature, però è anche un corpo che non ha più quell’elasticità, quel dinamismo che ha nelle sue produzioni giovanili. C’è un andare oltre nel Giudizio Universale rispetto al tema dell’ideale classico, andando ad affrontare e a confrontarsi con il tema dell’invecchiamento dei corpi. Certo sono corpi muscolosi, ma sono corpi che ormai non sono più nel pieno della loro giovinezza, ma sono anche appesantiti, la muscolatura, che è stata un tempo molto importante, adesso comincia a vedere che l’età passa e che la perfezione giovanile non c’è più. Ci sono dei dettagli che ci fanno preludere a questo tipo di figuratività più umorale, distorta e caricaturale in certi aspetti. Vediamo la figura che tiene in mano la pelle del San Bartolomeo, scuoiato. Il “volto” ci ricorda la maschera dell’allegoria della notte sulle tombe della sagrestia nuova. Questi corpi atletici, giovanili, ma che non hanno niente del concetto del bello come lo potremmo immaginare nell’epoca classica, non hanno niente delle figure delle sacrestie. E questo è veramente un punto da fissare nello sviluppo dell’estetica michelangiolesca, perché questo sarà il motivo per il quale il Giudizio verrà estremamente contestato. Il Giudizio verrà molto contestato per questa irriverenza dimostrata da Michelangelo nei confronti di un tema così importante. Emergerà anche sotto sotto un disprezzo nei confronti di questo Michelangelo che si cura troppo poco della bellezza apparente di questi corpi. Per cui il grande Michelangelo che in vita è celebrato da ben tre biografie (una prima del Giudizio e due successive al Giudizio) in realtà qui comincia ad andare sul banco degli imputati. Guardando le immagini successive, ci rendiamo conto di questa estetica del brutto che connota Michelangelo e che non ci aspetteremmo mai nel Rinascimento, nel Manierismo e in artisti così classici come Michelangelo. Questa critica, che ci sembra impossibile rispetto al divino Michelangelo, va affrontata e va messa al centro per commentare questa commissione. Come accadde per la volta della Cappella Sistina, poche persone potevano accedere a vedere il cantiere e anche altri uomini della corte di Paolo III hanno la possibilità di vedere queste immagini e le reazioni sono veramente molto forti e contrarie a quanto sta facendo Michelangelo in questo momento. Lo sappiamo da Vasari, che ci racconta: «Aveva già condotto Michelagnolo a fine più di tre quarti dell’opera, quando, andando papa Paulo a vederla, messer Biagio da Cesena, maestro delle cerimonie e persona scrupolosa, che era in Cappella col Papa, dimandato quel che gliene paressi, disse essere cosa disonestissima in un luogo tanto onorato aver fatto tanti ignudi che così disonestamente mostrano le lor vergogne, e che non era opera da cappella di Papa, ma da stufe e d'osterie. Dispiacendo questo a Michelagnolo e volendosi vendicare, sùbito che fu partito, lo ritrasse di naturale, nello inferno nella figura di Minòs, con una gran serpe avvolta alle gambe, fra un monte di diavoli». Per vendicarsi di questo giudizio molto negativo espresso da questo teologo della stretta cerchia papale Michelangelo lo ritrae in questo modo, come Minosse, come figura estremamente negativa, con la serpe attorno al corpo. Al di là questo episodio, le critiche nei confronti del Giudizio di Michelangelo continuano e si moltiplicano. Non è semplicemente la cattiveria di un teologo, perché il successore di Paolo III Farnese, cioè Paolo IV, zio di San Carlo Borromeo, il grande riformatore della diocesi di Milano, aveva addirittura pensato di distruggere il Giudizio: «Avendo papa Paolo Quarto [1555-1559, zio di Carlo Borromeo], volontà di gettare in terra il Giudizio di Michelagnolo per gli ignudi che li pareva che mostrassero le parti vergognose troppo disonestamente, fu detto da cardinali et uomini di giudizio che sarebbe gran peccato guastarle, e trovaron modo che Daniello [Daniele da Volterra] facesse lor certi panni sottili che le coprissi: che tal cosa finì poi sotto Pio Quarto [1559- 1565] con rifar la Santa Caterina et il San Biagio, parendo che non istesseno con onestà». Vasari, 1568 Qui noi abbiamo fortunatamente questo dipinto di Marcello Venusti (Copia del Giudizio Universale 1549) che ci mostra le versioni di Santa Caterina e San Biagio. Criticato anche da un altro teologo, Giovanni Andrea Gilio: «E per meglio far le persone ridere, l’ha fatta [santa Caterina] chinare dinanzi a san Biagio con atto poco onesto; il quale, standole sopra coi pettini, par che gli minacci...». Qui vediamo la Santa Caterina che viene rivestita da Daniele da Volterra, un artista sublime, grande amico di Michelangelo, che proprio dopo la morte di Michelangelo in forma di rispetto e per evitare che questi affreschi venissero distrutti li emenda, li rende più gradevoli per quella che era la mentalità del tempo, che non sopportava questo tipo di figuratività. Cos’era successo? Succede che questi Papi sono piuttosto benevoli nei confronti di Michelangelo e dopo di che con il papato di Giulio III avviene un fatto molto importante che determina il corso della storia dell’arte e la storia stessa di Michelangelo. Questa fazione di riformisti della Chiesa (rappresentata dal cardinal Reginald Pole, da Gasparo Contarini e in ambito artistico da Michelangelo e Vittoria Colonna), alla quale Michelangelo era molto vicino, viene sconfitta. Si parte con una dura reazione nei confronti di qualsiasi forma di accettazione della riforma protestante. Si inizia con il concilio di Trento a dare nuovo corso alla Chiesa cattolica e quindi tutto quello che non era ortodosso e non era perfettamente inserito nelle nuove regole di decoro dettate dal concilio e da questo mutamento di clima veniva completamente messo da parte. La stessa centralità di Cristo che abbiamo visto prima nel Giudizio Universale ci fa pensare che questo protagonismo del Cristo in se stesso chiaramente diminuisce l’importanza dell’organizzazione sociale della Chiesa, perché Lutero e tutto quello che viene dal mondo protestante è chiaramente portato a diminuire la Chiesa come organizzazione sociale e a creare un legame diretto con Cristo, con la divinità. Naturalmente questa dimensione spirituale più immediata non poteva essere tollerata dalla Chiesa, che cercava di arginarla in tutti i modi. Quindi, questo secondo gruppo di Papi porta avanti questa marginalizzazione delle istanze riformatrici a favore di istanze reazionarie, all’interno delle quali finisce anche Michelangelo con le sue idee spirituali e personali sulla religione, ben espresse dal protagonismo del Cristo nel Giudizio Universale, che però non vengono accettate e che progressivamente vengono sempre più criticate. Dunque, qui cominciano tutta una serie di calunnie, di denigrazioni del lavoro di Michelangelo che nel loro aspetto umano fanno una grande tristezza, ma nell’aspetto più religioso ci fanno capire anche di una oggettiva insofferenza nei confronti di un orientamento spirituale che non si accettava più e che si sentiva ormai lontano dalla propria sensibilità. Infatti, Giovanni Andrea Gilio, un altro censore di Michelangelo, come Biagio da Cesena, andò anche lui a vedere durante l’esecuzione dell’opera la Cappella Sistina e scriveva: «Io non lodo gli sforzi che fanno gli angeli nel Giudizio di Michelagnolo, dico quelli che sostengono la Croce, la colonna e gli altri sacri misteri, i quali rappresentano piuttosto mattaccini e giocolieri che angeli» . In certi aspetti aveva anche ragione: qui entriamo non solo nel registro della spiritualità di Michelangelo che vedeva il Cristo in un certo modo, con una eccessiva libertà rispetto all’organizzazione della Chiesa, ma qui messo in minoranza e non riuscirà a portare avanti questo tipo di proposte. Per Vittoria Colonna Michelangelo esegue tutta una serie di disegni molto interessanti perché si iscrivono nel genere, fondato da Michelangelo, delle opere destinate agli amici. In un primo momento Michelangelo aveva avuto questa forte passione per Tommaso de' Cavalieri, una passione personale, spirituale e affettiva. Michelangelo diventa anche suo maestro di pittura e lo aiuta a diventare un artista. Produce tutta una serie di disegni molto belli nei quali ci sono allusioni erotiche, allusioni alla passione travolgente che può nascere tra due persone. Crea tutta questa serie di disegni finiti, che sono stati definiti dagli studiosi di Michelangelo presentation drawings, cioè dei disegni che sono delle opere d’arte che vengono regalate alla persona per cui vengono fatti. Per certi aspetti all’interno di questi presentation drawings vanno inclusi anche questi disegni per Vittoria Colonna. Il tema cambia per Vittoria Colonna: non c’è più questo rapporto amoroso con Tommaso de’ Cavalieri, ma è un’altra stagione della vita di Michelangelo (dagli anni ’30 si passa agli anni ’40), quindi ci sono questi disegni che alludono ad una riflessione profonda di Michelangelo sulla religione. Le tematiche sono quasi da devotio moderna quattrocentesca, cioè di immedesimazione col soggetto raffigurato. Sono tutte tematiche figurativamente e iconograficamente legate al sacrificio di Cristo, che unico può salvare l’umanità dal peccato. Ancora una volta questo dava fastidio alla Chiesa cattolica, cioè che ci fosse questa immedesimazione con la figura di Cristo, con le sofferenze di Cristo, con la sua vicenda biografica attraverso la quale l’uomo trovava redenzione. Michelangelo, Pietà (per Vittoria Colonna)  in opposto a Raffaello, che tende a lavorare sulla composizione, a schizzare questo tipo di figure per lasciare a stadi successivi la loro realizzazione, ecco qui vediamo l’uso della matita nera, tratti minuti, modo di fondere le forme e di dare molto risalto alle masse. Alcuni amici e artisti traducono in pittura queste idee private di Michelangelo per Vittoria Colonna e anche altre idee private per altri committenti (es. Marcello Venusti). Altra opera: Michelangelo, Il Crocifisso vivo (per Vittoria Colonna)  Questo è uno dei disegni più celebri di Michelangelo per Vittoria Colonna. Cristo vivo che da solo sulla croce regge le sofferenze del mondo e sublima l’umanità. Riconosciamo il tratto dei disegni di Michelangelo, soprattutto di questi disegni finiti, di questi presentation drawings molto elaborati, che non sono delle idee abbozzate, ma sono qualcosa di compiuto in se stesso. Il tema della Crocifissione: disegni estremi, molto abbozzati nello spirito del non finito michelangiolesco. Riscontriamo rispetto ai disegni precedenti delle forme pesanti di questi personaggi accanto alla croce che sono al di là del concetto di bellezza del mondo classico. Con la loro pesantezza ci danno l’idea della nuova estetica di Michelangelo, che ormai si è lasciato alle spalle questa ricerca di una bellezza astratta per andare anche oltre degli aspetti più sensibili, più estetici e di effetto più facile. Michelangelo architetto a Roma: In questo periodo (’34-’64, Roma) Michelangelo si dedica anche a progetti architettonici. La ristrutturazione di Piazza del Campidoglio Michelangelo fa parte degli architetti che proseguono il lavoro della Fabbrica di San Pietro. In particolare Michelangelo ritorna su un progetto di Bramante di un edificio a pianta centrale e si adopera per contribuire al progresso di questa fabbrica. Il monumento funebre di Giulio II: Tomba che caratterizza tutta la sua vita, perché interrotta più volte. 1) Interrotto per dipingere la Cappella Sistina (1508-1512). 2) Interrotto dopo la morte di Giulio II (1512) per dedicarsi ai progetti della facciata di San Lorenzo (1516- 1517) e delle tombe medicee (1520-1534). 3) Interrotto nel 1533 per essere stato convocato a Roma per dipingere il Giudizio e nel 1534 per il rinnovato incarico da parte di Paolo III di continuare a dipingere il Giudizio, con queste parole: «Io ho avuto trent’anni questo desiderio, et ora che sono papa non me lo caverò? Io straccerò il contratto e sono disposto che tu mi serva a ogni modo». 4) Completato nel 1542-1545, quando Michelangelo era settantenne con l’aiuto di alcuni collaboratori. Lezione 13 (26/10/22) Il monumento funebre di Giulio II Commissione che unisce le dimensioni di Michelangelo fiorentino e di Michelangelo romano. Questo progetto per Giulio II si interrompe sistematicamente perché subentrano i Papi Medici che gli danno altre commissioni e con un documento ufficiale lo esentano dal compiere questo tipo di commissione. Abbiamo visto i vari passaggi della travagliata gestazione. Michelangelo alla fine è costretto ad accogliere dei collaboratori malvolentieri, lui che amava lavorare da solo. Qui vediamo delle ricostruzioni virtuali basate su progetti, su disegni e su testimonianze di queste varie fasi del monumento di Giulio II per la Chiesa di San Pietro in Vincoli a Roma. Chiaramente Michelangelo parte da progetti e da aspirazioni molto ambiziose (progetto del 1505): grandissimo numero di figure, in particolare seguite dalla presenza di prigioni alla base, di erme, di telamoni. Il numero delle figure diminuisce progressivamente. Via via la struttura si semplifica (vedi vari progetti). C’è un’enorme differenza tra le prime due redazioni del 1505 e del 1513 e poi le altre del 1513 e del 1532. La struttura architettonica degli ultimi due progetti ricorda quella delle tombe medicee. Nei progetti vediamo una situazione più classica rispetto alle tombe medicee, nelle quali c’è l’idea di Michelangelo di mettere al centro la figura dei capitani e sdraiato sul sarcofago delle allegorie, idea che rompe con una tradizione che era quella della tomba di Giulio II, dove c’è la madonna col bambino sullo sfondo e il defunto sul sarcofago. Come venne realizzato il monumento: c’erano delle sculture, in particolare il Mosè, che venne realizzato molto presto da Michelangelo (1513-1516). Tutte le altre sculture e il monumento stesso nel suo progetto architettonico viene completato poi tra il 1542 e il 1545 con altri scultori, collaboratori (non serve ricordare i nomi). Ha un grande influsso su Michelangelo la scoperta del Laocoonte e lo studio del Torso del Belvedere soprattutto per questa immagine del Mosè. Questi riferimenti classici sono sempre ben presenti nella tradizione michelangiolesca. La parte fortemente esclusa dal monumento, come era stato pensato nelle quattro redazioni precedenti, sono tutta la serie di prigioni, di sculture abbondantemente disposte lungo il basamento della tomba. Alla fine decise di limitarsi alle statue principali e di rinunciare ai prigioni. Ma queste sculture esistevano nella bottega di Michelangelo e due sculture dei prigioni, della fase iniziale di progettazione, molto legate al modello classico e arrivate ad una fase di completamento maggiore, furono donate da Michelangelo a Roberto Strozzi per ringraziarlo di averlo assistito durante la malattia. Sculture in stato di abbozzo: schiavo che si risveglia, schiavo detto “Atlante”, schiavo barbuto, schiavo giovane. C’è una dispersione delle sculture derivate dal progetto di Michelangelo della tomba di Giulio II. Tutte queste sculture che avanzano hanno tutte una storia piuttosto affascinante. Abbiamo visto quelle due del Louvre donate a Roberto Strozzi, queste che restano nella bottega di Michelangelo perché vengono inglobate nelle collezioni medicee e poi nella galleria dell’Accademia, mentre altre dovevano confluire nel Monumento funebre di Michelangelo, attorno al quale si scatena un grande dibattito nella Firenze degli anni ’60. Muore nel ’64. Nel ’63 viene fondata l’Accademia del disegno fiorentina. Dall’Accademia del disegno fiorentina viene istituzionalizzata questa propensione dell’artista del Cinquecento a volere un riconoscimento anche di tipo intellettuale come i letterati. Questa è un po’ la consacrazione dello status dell’artista moderno. C’è un grande dibattito. Il Monumento funebre di Michelangelo nella chiesa di Santa Croce a Firenze viene ideato da Vincenzo Borghini, su progetto di Vasari. Prende parte a questo grande dibattito anche Benvenuto Cellini, scultore straordinario, particolarmente rissoso, che subito litiga con Borghini e Vasari, perché voleva che queste tre allegorie delle tre arti (pittura, scultura e architettura) non fossero equiparate, ma voleva che ci fosse una preminenza della scultura (lui era uno scultore), anche visiva, su questo monumento, perché identificava Michelangelo di fatto come uno scultore. Viene ripreso il progetto delle tombe degli antenati, almeno l’idea del sarcofago che doveva essere realizzato nella sagrestia nuova. Sì, è un progetto nuovo per modo di dire. Borghini e Vasari sono un po’ degli ordinatori, dei sistematori della cultura toscana a Firenze del gusto di Michelangelo. Questo monumento viene ultimato nel 1578. Struttura del monumento funebre di Michelangelo più convenzionale rispetto alla struttura delle tombe degli antenati. Ad un certo punto ci sono alcune sculture che si vorrebbe riutilizzare per il monumento funebre di Michelangelo, perché inizialmente lo stesso Michelangelo, quando si stava progettando il suo monumento, aveva pensato di collocare la cosiddetta Pietà Bandini all’interno del suo monumento funebre. Il problema del marmo che si rompe nel momento in cui Michelangelo lo sta elaborando fa sì che venga donato al banchiere fiorentino Francesco Bandini, che poi successivamente aveva affidato il compito di ricomporre il danno che si era creato su questa scultura a Tiberio Calcagni. In seguito, elaborando un’idea nata dalla Pietà Bandini, Michelangelo farà la cosiddetta Pietà Rondanini. Daniele da Volterra, questo suo grande amico e artista eccezionale, avrebbe voluto riutilizzare per la tomba di Michelangelo i quattro prigioni (Firenze, Gallerie dell’Accademia) e la Vittoria (Firenze, Palazzo Vecchio, foto a destra), destinati alla tomba di Giulio II e rimasti nella bottega di Michelangelo in via Mozza, a Firenze. A questo progetto si oppose Vasari che destinò la Vittoria al Salone dei Cinquecento e fece donare a Cosimo I i quattro prigioni per il Palazzo Vecchio. Tutte queste sculture alla fine non vengono utilizzate, anche perché c’era un interesse di tenersi per sé queste sculture. Committente della Vittoria è Giulio II della Rovere: la statua della Vittoria presenta sul capo dei rovi. Pietà Bandini Tiberio Calcagni non completa l’opera se non rielaborando un po’ la figura della Maddalena. Ritroviamo le idee del Michelangelo spirituale, anche nella scelta di questo tema della Pietà del filone della devotio moderna. Poi anche Borghini e Vasari inseriranno al centro della tomba di Michelangelo un dipinto con una Pietà. Notiamo il livello di finitezza della Maddalena rispetto alle altre figure. Descrizioni di Vasari e di Condivi della Pietà Baldini: «È bozzato ancora in casa sua quattro figure in un marmo, nelle quali è un Cristo deposto di croce; la quale opera può pensarsi che, se da lui finita restasse, ogni altra opera sua da quella superata sarebbe, per la difficultà del cavar di quel sasso tante cose perfette» [Vasari, 1550] «Ora ha per le mani una opera di marmo, qual egli fa a suo diletto. Quest’è un gruppo di quattro figure più che al naturale, cioè un Cristo deposto di croce, sostenuto così morto dalla sua Madre, aiutata di sopra da Nicodemo, che lo solleva sotto le braccia, e da una delle Marie (…). Fa disegno di donar questa Pietà a qualche chiesa, e a piè de l'altare ove sia posta farsi seppellire». [Condivi, 1553] Pietà Rondanini sapeva il Puntormo che i tedeschi e’ fiaminghi vengono in queste parti per imparare la maniera italiana che egli con tanta fatica cercò, come cattiva, d’abandonare?» Per Vasari fa tenerezza vedere come Pontormo avesse perso così tanto tempo nel emulare lo stile tedesco quando gli altri invece fanno di tutto per scappare da questo stile tedesco, che è di livello inferiore, per purificare il proprio stile. Pontormo cerca di fare qualcosa che non ha senso. «né creda niuno che Iacopo sia da biasimare perché egli imitasse Alberto Duro nell’invenzioni, perciò che questo non è errore e l’hanno fatto e fanno continuamente molti pittori, ma perché egli tolse la maniera stietta tedesca in ogni cosa, ne’ panni, nell’aria delle teste e l’attitudini, il che doveva fuggire e servirsi solo dell’invenzioni, avendo egli interamente con grazia e bellezza la maniera moderna». Importante la distinzione tra tipologie, composizioni e stile. Qui abbiamo la chiara consapevolezza che già nel Cinquecento si distinguevano le composizioni e lo stile. Va bene copiare le composizioni ma non va bene copiare lo stile. Sappiamo dalla Vita di Ascanio Condivi che Michelangelo disse: «So ben che, quando legge Alberto Duro, gli par cosa molto debole, vedendo coll’animo suo, quanto questo suo concetto fusse per essere più bello e più utile in tal facoltà. E a dire il vero Alberto non tratta se non delle misure e varietà de’ corpi, di che certa regola dar non si può, formando le figure ritte come pali». Anche Michelangelo non aveva simpatia per questo stile tedesco, perché non c’era disegno, non c’era proporzione, non c’era così tanta qualità nelle opere tedesche da doverle emulare. Opere tedesche e opere di Pontormo (a confronto): vediamo in che misura queste opere tedesche potevano infastidire Vasari e in che misura Pontormo copia le incisioni di Durer. Qui di seguito le opere dalla Certosa del Galluzzo, questa commissione tedeschizzante di Pontormo: Cristo davanti a Pilato: non è una copia fedele al 100%. Con alcuni adattamenti risente della composizione di Durer. Nella Pala per San Michele Visdomini troviamo il turbinio di figure e il sovrapporsi dei piani, che fanno parte del movimento sperimentale del manierismo. In questo caso invece la composizione si complica: perde di chiarezza, perde di disposizione sintattica e diventa una composizione agli occhi di Vasari e dei critici della generazione successiva qualcosa di negativo (nonostante Pontormo sia uno dei pittori più importanti, il pittore dei Medici). Vasari capiva che non era solo una influenza compositiva, ma capiva che c’era una bizzarria dell’utilizzo dei colori, delle forme, che si rifanno a Michelangelo e ritraducono Michelangelo su un piano molto diverso, molto poco eroico, studiato, classico. Dal suo punto di vista Vasari aveva dei motivi per vedere queste differenze. Pontormo, Cena in Emmaus: isolando alcuni dettagli, è facile considerarla un’opera italiana. Vasari aveva comunque capito, pur da un punto di vista ipercritico, che qualcosa era avvenuto nell’arte italiana in quel momento di presa di distanza dall’insegnamento dei grandi pittori classici dell’epoca precedente. Pontormo, Cappella Capponi Pontormo, Trasporto del corpo di Cristo  opera più celebre. Confronto con l’opera di Andrea del Sarto per far vedere come ci fosse un primo distacco, pur utilizzando la stessa iconografia, tra Perugino e Andrea del Sarto. In Pontormo sperimentalismo, sovvertimento dei rapporti simmetrici, di bilanciamento delle forme. Figure che trasportano il corpo di Cristo. Continuo di personaggi che si accalcano attorno al gruppo centrale. Colori che derivano dai colori della cappella sistina di Michelangelo, accordi cromatici acidi, innaturali. Cromatismo innaturale della pittura toscana. Qualità di un colore così trasparente, impalpabile. Panneggi che non ricoprono nemmeno i corpi e creano bordi innaturali, di un manierismo che esplora la forma con dimensioni che non hanno quasi attinenza con i corpi che poi stanno sotto. Manierismo sperimentale, allontanamento dal classicismo di Perugino e di Andrea del Sarto e avvicinamento in territori inesplorati. Pontormo fa conoscendo anche l’arte tedesca, che ha un gusto di stravolgimento della forma che l’arte italiana non aveva mai sperimentato fino a questo livello. Ritroviamo gli sguardi spaventati, gli occhi a palla, le espressioni sbalordite di Pontormo, suo marchio di fabbrica. Immagine: foto prima e dopo il restauro di un volto. In La ricotta Pasolini imita, ricrea l’opera di Pontormo. Pontormo, Visitazione: Pontormo che crea questa visione suggestiva della visitazione della vergine. Spirito monumentale. Figure in primo piano alte come i palazzi sullo sfondo. Gioco di inversione prospettica. Bill Viola in The Greetings si è ispirato all’opera di Pontormo. Ad un certo punto Vasari prende il potere artistico a Firenze e scalza Pontormo. Ma c’erano altri artisti a Firenze a quel tempo che, come Pontormo, avevano questa indole sperimentale. Vasari scrive di un pittore con poche opere, Jacone: «Jacone spese il miglior tempo di sua vita in baie, andandosene in considerazioni ed in dir male di questo e di quello essendo in que’ tempi [Vasari si riferisce agli anni ‘40] ridotta in Fiorenza l’arte del disegno in una compagnia di persone che più attendevano a far baie e a godere che a lavorare, e lo studio de’ quali era ragunarsi per le botteghe, e in altri luoghi, e quivi malignamente e con loro gerghi attendere a biasimare l’opere d’alcuni che erano eccellenti e vivevano civilmente e come huomini honorati. Capi di questi erano Jacone, il Piloto orefice e il Tasso legnaiuolo: ma il peggio di tutti era Jacone». Ecco come Vasari descrive questa borgata capeggiata da Jacone: «… vivevano come porci e come bestie; non si lavavano mai né mani né viso né capo né barba, non spazzavano la casa, e non rifacevano il letto, se non ogni due mesi una volta; apparecchiavano con i cartoni delle pitture le tavole, e non beveano se non al fiasco ad al boccale; e questa loro meschinità e vivere, come si dice, alla carlona, era da loro tenuta la più bella vita del mondo; ma perché il di fuori suol essere indizio di quello di dentro, e dimostrare quali sieno gli animi nostri, crederò, come s’è detto altra volta, che così fussero costoro lordi e brutti nell’animo, come di fuori apparivano». Aneddoto in cui Vasari incontra Jacone nelle strade di Firenze. Vasari ha fatto carriera, è a cavallo, ha un servitore e giunto al Canto dei Medici si imbatte in Jacone, che staccatosi da un gruppo di amici gli si fa incontro con aria canzonatoria e lo apostrofa (ascolta dalla registrazione). Vasari risponde: «Va bene, Jacone mio… Io ero già povero come tutti voi, e hora mi ritrovo tremila scudi o meglio; ero tenuto da voi goffo, e i frati e i preti mi tengono valenthuomo; io già serviva voi altri [allude, evidentemente all’epoca dell’alunnato nella bottega di Andrea Del Sarto], e hora questo famiglio che è qui serve me, e governa questo cavallo; vestiva di que’ panni che vestono i dipintori che sono poveri, e hora sono vestito di elluto; andava già a piedi, e hor vo a cavallo; sì che, jacon mio, ella va bene affatto; rimanti con Dio». Vediamo come cambia la sensibilità tra queste due generazioni di pittori e come tutte queste critiche che vengono rivolte nelle Vite di Vasari hanno il suo punto di vista rispetto a questi artisti un po’ sperimentali. Vasari ci parla anche di Pontormo  Vasari, Vita del Pontormo: “Fecesi Jacopo un casamento da uomo fantastico e soletario: con ciò sia che alla stanza dove stava a dormire e talvolta a lavorare si saliva per una scala di legno, la quale, entrato che egli era, tirava su con una carrucola, così che nessuno potesse salire da lui senza sua voglia o saputa. Ma quello che più in lui dispiaceva agl'uomini, si era che non voleva lavorare se non quando e a chi gli piaceva, et a suo capriccio; onde essendo ricercato molte volte da gentiluomini che disideravano avere dell'opere sue, et una volta particolarmente dal magnifico Ottaviano de' Medici, non gli volle servire: e poi si sarebbe messo a fare ogni cosa per un uomo vile e plebeo, e per vilissimo prezzo”. Vasari non concepisce che si possano fare delle cose gratuitamente per amicizia, per spirito di intesa con alcune persone. I perduti affreschi del coro di San Lorenzo Per darci l’idea che stiamo sempre parlando dell’artista più importante di Firenze almeno fino agli anni ’40, guardiamo la commissione dei perduti affreschi del coro di San Lorenzo. A Pontormo viene data questa importantissima commissione nella chiesa più importante di Firenze. «Immaginandosi dunque in quest’opera di dovere avanzare tutti i pittori e forse, per quel che si disse, Michelagnolo, fece nella parte di sopra in più istorie la creazione di Adamo et Eva, il loro mangiare del pomo vietato e l’essere scacciati di Paradiso (…) In una delle facciate di sotto fece la inondazione del Diluvio, nella quale sono una massa di corpi morti et affogati. Nell’altra faccia è dipinta la Ressurezione Universale de’ morti, con tanta e varia confusione, ch’ella non sarà maggiore dal vero, per modo di dire, di come l’ha dipinta il Pontormo. Fra le finestre, è una fila d’ignudi che presi per mano et aggrappatisi su per le gambe e busti l’uno dell’altro, si fanno scala per salire in Paradiso, uscendo di terra, dove sono molti morti (…) Ma io non ho mai potuto intendere la dottrina di questa storia, se ben so che Iacopo aveva ingegno da sé e praticava con persone dotte e letterate… (ha fatto un gran casino) «In niun luogo è osservato ordine di storia, né varietà di teste, non cangiamento di colori di carni, et insomma non alcuna regola, né proporzione, né alcun ordine di prospettiva: ma pieno ogni cosa d’ignudi (…) E’ una pittura fatta a suo modo, con tanta malinconia e con tanto poco piacere di chi guarda quell’opera, ch’io mi risolvo, per non l’intendere ancor io, se ben son pittore, di lasciarne far giudizio a coloro che la vedranno (…). E se bene si vede qualche pezzo di torso che volta le spalle o il dinanzi fatto con maraviglioso studio e molta fatica da Iacopo, il tutto nondimeno è senza misura, essendo nella più parte i torsi grandi e le gambe e braccia piccole, per non dir nulla delle teste, nelle quali non si vede quella bontà e grazia singolare che soleva dar loro». Questi affreschi sono perduti. Gli affreschi vengono completati dall’allievo migliore di Pontormo, Agnolo Bronzino, e vengono distrutti nel 1738, complice probabilmente anche la critica di Vasari. Giovanni Cinelli: «II Pontormo diede in un eccesso di melanconia, e per fare al naturale quelle figure del Coro di San Lorenzo state sotto l'acque del Diluvio, teneva i cadaveri ne' catini d'acqua per farli così gonfiare, ed appestava dal puzzo tutto il vicinato». Queste sono le descrizioni di Pontormo, però abbiamo capito che si tratta invece di un artista di prima grandezza e che soprattutto queste polemiche ci danno la misura di come questo cambio di generazione tra primo e secondo manierismo fosse stato davvero un trauma e una frattura nell’arte italiana. Idea di un clima culturale, artistico e spirituale che cambia in questo cambio di generazione.
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