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Appunti lezioni prof. Nitsch su Kelsen e Croce, Appunti di Filosofia del Diritto

Appunti delle lezioni del prof. Nitsch su Kelsen (lineamenti di dottrina pura del diritto) e Croce (riduzione della filosofia del diritto alla filosofia dell’economia)

Tipologia: Appunti

2023/2024

In vendita dal 21/05/2024

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Scarica Appunti lezioni prof. Nitsch su Kelsen e Croce e più Appunti in PDF di Filosofia del Diritto solo su Docsity! 26/09 Kelsen è nato a Praga nel 1881 e si trasferì a Vienna, ai tempi una delle città più importanti al mondo, dove studia giurisprudenza, anche se, da umanista, era molto attratto dalla letteratura, di fatti scrisse un libro prima ancora di laurearsi, il libro trattava della “monarchia” di Dante Alighieri. Dopo la laurea va in Germania dove segue i seminari di Jelinek, che scrisse un libro sulla dottrina dello Stato. Nel 1925 Kelsen scrisse un libro come quello di Jelinek, ma al contempo molto diverso, essendo Kelsen spesso in disaccordo col suo professore. Nel 1919 diventa professore di diritto pubblico a Vienna e nel mentre scrive la Costituzione di Vienna, la cui particolarità aera proprio l’avere una Corte costituzionale e rimarrà nella politica austriaca fino al 1929, anno della riforma che modificò la formazione e i poteri della Corte costituzionale, fu così in disaccordo da lasciare la città. Le sue opere più importanti furono: “problemi fondamentali della dottrina del diritto dello Stato” del 1919; “La dottrina generale dello Stato” 1925; “La dottrina pura del diritto” 1911; nel suo libro del 1920 scrive un libro sul problema della sovranità del diritto, dove applica la dottrina pura del diritto al diritto internazionale. Se ne va in Germania, a Koln a insegnare diritto internazionale e filosofia del diritto fino a diventare preside, ma nel 1932 capisce che la possibilità che il Partito Nazionalsocialista prenda il potere è alta e che per lui, ebreo, non sarebbero stati tempi facili, così come per tutto il Paese. Secondo Kelsen la sua dottrina era poco conosciuta al di fuori di Germania e Austria, crede lui, perché i suoi libri erano molto grandi e specifici, così decide di scrivere e pubblicare un articolo in cui sintetizzi la sua dottrina, ciò avviene dopo la promulgazione delle leggi razziali in Germania, di fatti il lavoro risulta a tratti incompleto e si affretta anche il processo di traduzione della sua opera in altri Stati. In Italia l’aiuto arrivò da Treves e Del Vecchio, quest’ultimo era redattore di una rivista “La rivista internazionale di filosofia del diritto”, dove voleva pubblicare il suo articolo, ma trovò la limitazione che questo doveva rimanere inedito per un anno, impensabile per Kelsen che voleva pubblicarlo in tutt’Europa quasi contemporaneamente. Del Vecchio gli propone dunque di pubblicare l’articolo su “L’archivio giuridico”, Tavares lo traduce e viene pubblicato nel 1933 così nel 1934 pubblica “Lineamenti di dottrina pura del diritto” Kelsen non vuole andare negli USA, anzi non vuole andare in paesi anglofoni, quindi, si trasferisce a Ginevra dove prosegue gli studi di diritto internazionale. Essendo Ginevra un luogo più tranquillo rivede ciò che ha scritto nell’articolo e si rende conto che questa sintesi da lui fatta ha elevato il livello di difficoltà della dottrina pura del diritto, ma manca ancora qualcosa, una parte dedicata ai problemi circa le relazioni tra gli Stati, mancava dunque il diritto internazionale, ciò su cui lui era più esperto. Decide quindi di pubblicare un libro, nel 1934, “la dottrina pura del diritto”, l’articolo del 1933 con l’aggiunta della parte sul diritto internazionale. Treves aveva appena perso il posto di lavoro all'università di Urbino nel ’38, causa leggi razziali, e se ne va in Argentina, per poi tornare nel Bel Paese dopo la caduta del PNF e nel 1948 Treves viene reintegrato e insegna prima a Parma e poi a Milano. Nel 1950 traduce il libro di Kelsen e lo propone ai suoi allievi. Nel mentre Kelsen, per paura che la Svizzera venga coinvolta nel conflitto mondiale, va negli USA (all’età di 60anni) a UC, California. Riscrive “Dottrina pura del diritto”, un grosso tomo che in Italia viene tradotto con lo stesso nome dell’opera del ’34, il titolo dell’articolo divenuto libro diventa “Lineamenti di dottrina pura del diritto”. 27/09 (pag. 41 “Lineamenti di dottrina pura del diritto”) “Sono trascorsi più di due decenni da quando ho intrapreso a svolgere una dottrina pura del diritto, cioè una dottrina depurata da ogni ideologia politica e da ogni elemento scientifico naturalistico, una dottrina giuridica, cosciente del suo carattere particolare dovuto alla autonomia del suo soggetto” Kelsen nella prefazione a “Lineamenti di dottrina pura del diritto” inizia dandoci un’indicazione temporale circa il momento nel quale ha iniziato a studiare e a costruire la dottrina pura del diritto (1911 “Problemi fondamentali della dottrina del diritto pubblico”); definisce poi la sua dottrina “depurata” ovvero scevra di qualcosa che la rendeva impura, questo qualcosa erano le ideologie politiche e gli elementi scientifico-naturalistici; il primo capitolo depura la dottrina dalle scienze e nei successivi due la purifica da qualsiasi ideologia politica, le due strade della depurazione sono opposte fra loro. L’aggettivo puro si riferisce sempre alle scienze e mai al diritto, lui distingue il diritto, come oggetto di conoscenza, dalla natura, per fare ciò si deve riportare il diritto nella società e distinguere quest’ultima dalla natura, anche se entrambe hanno il tratto comune di essere ordini di connessioni tra fenomeni e/o fatti (quello della natura è l’ordine “causa-effetto”). Aggiunge poi che la sua dottrina ha un carattere particolare dovuto alla “autonomia del suo soggetto”, Kelsen sapeva che ai tempi era ancora accesa la disputa tra i saperi scientifici, nati dal recente passaggio della evoluzione normale delle scienze, metodo cumulativo, a quella della rivoluzione scientifica, che aveva stravolto la visione del mondo affiancati dai positivisti filosofici (figura di riferimento è Comte) che volevano mutuare il metodo dalle scienze, a cui si contrapposero quelli che, come Max Weber, credevano che il metodo e l’oggetto avessero uno stretto rapporto e che quindi il metodo non lo si poteva prendere da altre scienze. Una disputa intorno alla natura specifica, determinata, particolare, del metodo delle scienze dello spirito (o scienze della cultura) rispetto al metodo scientifico delle scienze naturalistiche. Kelsen favoriva la tesi del neokantismo di Marburgo (di Hermann Cohen), per cui diritto puro non voleva dire nulla, di fatti lui non parla mai di diritto puro, ma di dottrina pura, ovvero quella secondo cui un determinato oggetto di conoscenza non può essere indagato con metodi di conoscenza diversi, dal momento che è il metodo stesso che costruisce il proprio oggetto. Di questa tesi Kelsen non sapeva nulla nel 1911, tanto che nella seconda edizione ammette che su singoli aspetti dei “Problemi fondamentali” dice di aver cambiato drasticamente le sue idee grazie anche alla recensione di Ewald che gli spiega come Cohen avesse canonizzato tesi che Kelsen aveva espresso nella sua opera. Quindi la In questa pagina c’è una piccola imprecisione di Kelsen, quando dice che l’altro è elemento è quasi immanente all’accadimento stesso, cosa che il filosofo non pensa e più avanti lo dirà molto chiaramente, questo forse perché siamo ancora in una analisi superficiale dandoci un'immagine imprecisa; se il significato fosse immanente all’atto esso sarebbe contaminato dal giusnaturalismo. Se analizziamo com’è fatto un accadimento giuridico distinguiamo due componenti che non si possono unire; Gli atti giuridici sono quelli di più alta complessità semantica. I fatti sociali presentano un’ulteriore complessità (oltre al fatto che un fatto sociale nasce da uno naturale: non si dà un fatto sociale che non fosse prima fatto naturale), questi arrivano dinanzi agli occhi dello studioso con un’attribuzione di significato già attribuita dai loro attori sociali, significato oggettivo e soggettivo spesso coincidano, ma non è necessario. Per dimostrare ciò usa l’esempio del capitano di Kopenik che si finse capitano di un esercito prussiano, ma non lo era. A noi interessa il significato oggettivo dell’atto “Il fatto in questione ottiene infatti il suo senso specificamente giuridico, il suo particolare significato giuridico, per mezzo di una norma che nel suo contenuto vi si riferisce e gli impartisce il significato giuridico di modo che l'atto possa essere qualificato secondo questa norma. La norma funziona così come schema qualificativo” L’aspetto esteriore, la parte naturalista di un fatto resta relegato nel campo delle relazioni naturali dettate dalla causalità; finché il fatto non ha un significato oggettivo all’interno dell’ordinamento non può essere definito fatto giuridico, il significato arriva da una norma che assume il fatto e gli dà un senso (significato). Prima che sia enunciata la norma il fatto rimane relegato nel campo della natura. Per due ragioni il significato non può essere immanente all’atto per due motivi: esso è conferito da qualcosa che è altro e non da una norma giuridica, da qualcosa che è metapositivo, appartiene al giusnaturalismo, l’altro motivo è l’auto qualifica, precedente all’attribuzione di un significato da una norma giuridica, perché significato e atto non possono mischiarsi. Kelsen sa che un illecito come un omicidio è si un illecito giuridico, ma anche le leggi religiose e morali lo vietano, di fatti la dottrina non può essere pura, ma depurata, lui non dice che il fatto naturale sia inutile, dice che sono cose diverse. A Kelsen interessa la struttura della norma, perché un fatto abbia valore giuridico c’è bisogno che una norma dia valore giuridico a quel piccolo frammento di realtà naturale, quel dato sensibilmente percepibile. Un fatto non significa nulla prima che una norma non gli dia un significato e quindi la norma funziona come uno schema qualificativo. 4/10 (pag 51, 52) I fenomeni sociali e giuridici possono presentarsi allo studioso come auto qualificanti, ma questo non è sempre un vantaggio, in quanto potrebbe essere una qualificazione non eterogenea; quindi, l’unica qualifica valida è quella che gli attribuisce una norma. “la norma, come specifica struttura qualificativa, è qualcosa diverso dall’atto psichico col quale essa è voluta o rappresentata (…). La dottrina pura del diritto non si rivolge né ai processi spirituali né ai fatti fisici quando cerca di conoscere le norme e di comprendere giuridicamente una cosa qualsiasi. Comprendere qualcosa giuridicamente non può significare altro che comprendere qualcosa come diritto (…) il diritto, l’unico oggetto della conoscenza giuridica, è una norma (…). Quando certi atti naturali vengono qualificati come processi giuridici, ciò non significa altro che è loro attribuito un valore da norme il cui contenuto sta in una determinata corrispondenza con l’avvenimento effettivo.” Kelsen pensa alla norma giuridica come struttura che qualifica i fatti, uno schema, disinteressandosi dai processi psichici alla base della norma poiché la dottrina pura del diritto non è una psicologia normativa. Identificare la norma con la volontà del legislatore è una metafora, in quanto un cambiamento di volontà non cambia immediatamente la norma, può farlo col tempo, ma è un processo sociologico che a Kelsen non interessa. La struttura della norma per Kelsen è analizzata sotto il suo aspetto formale, una struttura che qualifica un fatto naturale. Ci interessa come lavora questa norma, essa fa riferimento ai contenuti al suo interno per qualificare un fatto e farlo diventare fatto giuridico. Kelsen dicendo “il diritto è una norma” intende che il diritto, come oggetto di conoscenza, non è un fatto, si pone sul piano del dover essere e non dell’essere; i fatti dei due piani non possono essere in contraddizione tra loro, perché non hanno alcun tipo di interazione. Il problema è che tutte le norme, non solo quelle giuridiche stanno sul piano del dover essere. “Quando, nelle pagine precedenti, si è parlato di “validità” della norma, non si è voluto indicare con ciò altro che l’esistenza specifica della norma, il modo particolare con cui si presenta a differenza dell’essere della realtà naturale che procede nello spazio e nel tempo” Cosa significa che una norma esiste? Significa che è qualcosa di valido, esso è predicato di esistenza, dire che una norma è valida vuol dire che essa esiste; ciò che dovrebbe essere, esiste in un modo diverso da ciò che è, e non possono essere in contraddizione tra loro, perché scorrono su due piani paralleli e opposti tra loro. Se una norma non viene rispettata e non viene sanzionata si dimostra essere inefficace, l’essere inefficace si rispecchia sul piano dell’essere, ma l’efficacia o l’inefficacia di una norma non ne modificano la validità. Una norma può fallire sul piano fattuale perché inefficace o perché disapplicata, ovvero i funzionari non fanno rispettare la normatività comminando le dovute sanzioni. Questo chiude la definizione dell’oggetto della scienza giuridica, nell’ultimo paragrafo del primo capitolo Kelsen guarda al metodo della scienza giuridica comparandola con il metodo della scienza naturalistica dei fatti sociali. 9/10 (pag 53, 54, 55) “Considerando il diritto come norma e la scienza del diritto come scienza limitata alla conoscenza di norme, si delimita il diritto di fronte alla natura, e la scienza giuridica, come scienza normativa, di fronte a tutte le altre scienze che cercano di spiegare i fenomeni naturali secondo la legge di causalità” La scienza normativa è la scienza che riconosce e accetta ciò che sono norme, questa scienza non promulga, modifica, avvalora le norme, il suo unico obbiettivo è la conoscenza, è più adatto parlare di scienza che conosce le norme, in quanto la scienza è tale solo se è rivolta alla conoscenza. Lo scontro sul metodo del XIX secolo è detta controversia sulla spiegazione e comprensione; Weber chiamava la sua sociologia "sociologia comprensiva”, prima si conosceva e descriveva un fenomeno seguendo una catena di causa-effetto, le scienze della natura spiegano i fenomeni, le scienze sociali, come quella di Weber, comprendono i fenomeni, precisando che le scienze comprendente (la sua sociologia) si servono sempre del metodo della spiegazione, utilizzandolo come strumento e non come fine, ciò che caratterizzale scienze sociali è la domanda finale che vuole comprendere e non spiegare; la scienza del diritto è una scienza sociale, della comprensione, che è ben diversa dal diritto naturale. “Particolarmente la si delimita anche di fronte a una scienza, la quale si propone di indagare le cause e gli effetti di quegli accadimenti naturali che, qualificanti delle norme giuridiche, si presentano come atti giuridici” Non si deve confondere la scienza del diritto, volta a comprendere e chiarire lo schema di norma, con la scienza naturale, che ha, sì, a che fare con gli atti giuridici, ma lavora spiegando i nessi di causa-effetto. L’oggetto di quest’ultima scienza, che Kelsen chiama sociologia-giuridica, non è una scienza di norma, ma di fatti, di causa-effetto, che hanno a che fare con le norme, perché con esse questi fenomeni assumono valore giuridico. La sociologia del diritto si occupa di un fatto che si incatena a quella serie di eventi tutti collegati dalla causa-effetto. La sociologia indaga fatti che sono stati già qualificati da norme, la sociologia del diritto arriva dopo la scienza del diritto. La scienza del diritto qualifica quei fatti naturali che la sociologia del diritto studia a posteriori della suddetta qualifica, questa può darci dati interessanti, che possono essere utili alla modifica della norma stessa. “Il diritto in tal modo viene in questione solo come fatto naturale, come fatto nella coscienza degli uomini che pongono, che eseguono o che violano le norme giuridiche. Non è quindi propriamente il diritto quello che costituisce l'oggetto di questa scienza, ma costituiscono quest’oggetto soltanto certi fenomeni paralleli alla natura” Dobbiamo capire che domanda rispondono le due diverse scienze, sociologia del diritto e scienza del diritto, dobbiamo capire i diversi metodi, i diversi campi a cui appartengono, l’essere e il dover essere. “La dottrina pura del diritto, come specifica scienza giuridica, non rivolge la sua attenzione alle norme giuridiche considerate come fatti di conoscenza, né alla volizione o alla rappresentazione di questa, ma rivolge alle norme giuridiche come strutture qualificative volute o rappresentate. Essa comprende qualsiasi fatto solo in quanto è contenuto di norme giuridiche, in quanto è cioè determinato da norme giuridiche. Il problema della dottrina pura del diritto è quindi quello della specifica autonomia di una sfera comprendente atti e fatti che hanno un significato giuridico” Da una parte si guarda all’atto psichico che porta alla norma, da un’altra si guarda all’atto psichico dato dall’influenza di una modifica di una norma sui consociati, questo non è ciò che studia la scienza del diritto, ma se ne occupa la sociologia del diritto, norma voluta e norma rappresentata non sono porta alla confusione, in cui il piano della volizione prevale sugli altri piani. L’ideologia occulta il vero, argomenta intorno al giusto, cercando di far diventare vero e giusto la stessa cosa. La parola natura è una parola ambigua, con più significati, nel primo capitolo si è parlato di natura fenomenica, che si riconosce con le connessioni causa-effetto, quella del secondo capitolo è un valore, non c’è fenomeno, c’è solo ideologia di “giusto”, un’ideologia con una presa forte. Le argomentazioni giusnaturalistiche non sono in termini di causa-effetto, ma normative, il giusnaturalismo cerca di far credere che il dover essere scaturisca dall’essere. La dottrina pura del diritto lo vuole rappresentare per come è, senza aggettivarlo con termini come “giusto” o “ingiusto”, è una teoria radicalmente realistica. “Queste tendenze ideologiche, le cui mire e i cui effetti politici appaiono evidenti, dominano ancora sempre nell’odierna scienza giuridica anche dopo l’apparente superamento della dottrina del diritto naturale. Conto di queste si è rivolta la dottrina pura del diritto “ Kelsen combatte il giusnaturalismo perché le sue tendenze ideologiche hanno infiltrato la dottrina positivista a lui contemporanea, di per sé il giusnaturalismo era “morto”, si sapeva che aveva poco a che fare con il diritto positivo, ma stava facendo del male latentemente al giuspositivismo giuridico. Kelsen critica la dottrina giuspositivista dall’interno. 16/10 Kelsen quando discute dell’atteggiamento della giustizia o del giusnaturalismo egli non si sta confrontando con delle scienze, ma con atteggiamenti politicamente orientati. Il giusnaturalismo vuole assumere una posizione critica verso il giuspositivismo, lo valuta, positivamente o negativamente, per sostenere i propri scopi politici. La politica del diritto è un esercizio nobile, ma ciò che Kelsen ritiene sospetto è l’atteggiamento di quelli che vogliono fare la politica del diritto facendo passare questa come una scienza, questi atteggiamenti Kelsen li chiama “ideologia”, una manipolazione del reale per raggiungere scopi politici. Nel primo capitolo Kelsen affronta un problema per lui attuale, l’intraprendenza della sociologia del diritto a livello accademico è una cosa che accade a cavallo tra 1800 e 1900; nel secondo capitolo il problema di cui si occupa sembrano arretrate, anzi il problema sembra già risolto, ma queste tendenze ideologiche dominano l’attuale scienza giuridica. Il secondo capitolo ci presenta il problema in forma classica, ma non è un problema del passato, Kelsen lo ritiene un problema attuale. Il positivismo giuridico era malato a causa di quell’atteggiamento politico che nonostante avesse perso la battaglia si era insinuata dentro il positivismo stesso. “Il carattere ideologico della teoria giuridica tradizionale combattuta dalla dottrina pura del diritto si rivela già nella determinazione comune del concetto del diritto. Essa sta ancora oggi sotto l'influsso del giusnaturalismo conservatore che, come già sopra abbiamo accennato, opera con un concetto trascendente del diritto. Questo corrisponde totalmente al carattere metafisico fondamentale che ha la filosofia durante il predominio della dottrina del diritto naturale, cioè in un periodo che coincide politicamente con lo sviluppo della strada di polizia della monarchia assoluta. Con la vittoria della borghesia liberale nel secolo XIX, ha inizio una notevole reazione contro la metafisica e contro dottrina del diritto naturale. Di pari passo col progresso delle scienze empiriche e della natura e con la dissoluzione critica dell'ideologia religiosa si compie il passaggio della scienza del diritto borghese dalla dottrina del diritto naturale al positivismo. Sebbene questo passaggio sia stato radicale, esso non è stato però mai veramente completo. Non si vede più il diritto come una categoria eterna e assoluta; si riconosce che il suo contenuto è sottoposto a un mutamento storico e che, come diritto positivo, è un fenomeno condizionato da circostanze di tempo e di spazio, ma con ciò non si perde del tutto l'idea di un valore giuridico assoluto e questo sopravvive nell'idea etica della giustizia affermata anche dalla giurisprudenza positivistica. Sebbene sia energicamente accentuata la distinzione tra la giustizia e il diritto, entrambi i termini rimangono però Uniti da fili più o meno visibili.” Questa pagina si presenta come “nuova”, è la prima pagina in cui irrompe la storia, che era stata finora ai margini. Kelsen dice che il passaggio da giustizia a diritto è radicale, ma è anche e contemporaneamente incompleto. L’oggetto della scienza del diritto non può che essere il diritto, la norma, il dover essere; già intorno alla definizione del concetto del diritto nella dottrina tradizionale si osserva un residuo ideologico di giustizia, un concetto trascendente della norma, l’influenza del giusnaturalismo conservatore, quell’influenza che ci porta a dire che il legislatore applica il diritto (norma) grazie alla giustizia, crea confusione. Kelsen è un uomo di scienza, si rende conto che in un secolo era cambiato il mondo giuridico, ecco perché definisce il passaggio “radicale”, ma è incompleto a causa di quella macchia ideologica che sporca la dottrina positivista del diritto, quella ideologia che ci portiamo dietro dai libri di diritto del 1700 che mischiavano scienza del diritto e politica del diritto, il valore politico rimane anche nella giurisprudenza positivista. Ci sono dei fili che collegano diritto e giustizia, le connessioni sono deboli, i fili sono sottili, e per questo ancora più invisibili e insidiosi, difficili da riconoscere. Per diventare teoria del diritto giuridico la dottrina pura deve recidere questi fili, ma deve prima individuarli 17/10 La dottrina giuridica tradizionale intende il diritto come norma, ma il modo in cui il diritto può essere determinato non è univoco, non tutti i giuspositivisti considerano il diritto come norma, come dover essere e anche chi lo considera tale lo può considerare norma in modo diverso da un altro. Trascendente significa che un oggetto non lo si può conoscere con i sensi; descrivendo la concezione della norma come trascendente si pensa al diritto al di là del positivismo, la validità di una norma verrebbe valutata tramite mezzi che vanno al di là del positivismo e quindi il legislatore non può valutare il fondamento di validità di una norma “a) il “dover essere” come categoria del diritto” Questa posizione spirituale si manifesta chiaramente in quella concezione per cui il diritto positivo viene compreso e sussunto nel concetto della norma o del dover essere. Certo si torna sempre ad accentuare la diversità delle norme giuridiche dalle norme normali, ma, dal punto di vista giuridico, non si pone in dubbio il valore assoluto della morale. E se anche questo pare avvenga allo scopo di far spiccare dallo sfondo, sempre più nitidamente, il valore puramente relativo del diritto, tuttavia, il solo fatto che, anche senza sentirsi competente, la giurisprudenza non neghi l’esistenza di un valore assoluto non può non ripercuotersi sul suo concetto di diritto. E infatti, se il diritto, al pari della morale, viene considerato come norma, e se il senso di norma giuridica, come quello della norma morale, viene espresso in un “dovere essere”, in una parte del valore assoluto che è proprio della morale rimane allora aderente al concetto della norma giuridica e al dover essere giuridico.” La posizione spirituale è quella della scienza del diritto è quella del positivismo normativistico, che, ricordiamo non è l’unico modo di ricondurre all’esperienza del realismo giuridico. Kelsen dice che la corrente attuale del positivismo giuridico continua ad accentuare le differenze tra norme giuridiche e norme morali, pur non mettendo in dubbi l’importanza della morale, che anzi ha creato un atteggiamento (diffuso) in cui si denota la differenza tra morale e norma, insistendo sul carattere storico della norma e sul carattere assoluto della morale, quest’ultimo carattere rimane in qualche modo aderente al diritto. Ciò accade perché se penso sia al diritto come norma che alla morale come norma le differenze di cui prima diventano marginali, delle sfumature, perché la categoria concettuali di partenza di norma e morale è la stessa. “Il giudizio per cui una cosa qualsiasi è regolata giuridicamente, o un contenuto qualsiasi è voluto in forza di diritto, non è mai del tutto libero dall’idea che questo sia in tal modo buono, legale, giusto. E in questo senso, la definizione del diritto come norma e dover essere non è infatti priva di un certo elemento ideologico nella giurisprudenza positivistica del secolo XIX” Questa aderenza si manifesta nel giudizio giuridico che si porta dietro un pezzo del giudizio morale. Pensare a diritto e morale partendo dalla stessa categoria, aggiungendo differenze, induce a pensare che la norma posta dal legislatore è proprio in quanto tale: buona, retto (non legale), giusta, do un giudizio morale. Quelle differenze divengono nulla se la categoria di pensiero a partire dalla quale penso la norma è la stessa nel campo del diritto e della morale provocherò confusione. Si pensa la norma giuridica come un dover essere, avendo però del dover essere un’idea trascendente, il cui valore supera la positività, e quindi il legame con la morale non si recide. Kelsen non è il primo a notare questo problema, i realisti americani ne parlavano già dal secolo precedente la nascita di Kelsen. Pensare il diritto come dover essere significa pensare al diritto come ideologia, il diritto va pensato come fatto di realtà per gli americani, la norma si crea di conseguenza. È una soluzione rozza, ma che funziona. Kelsen ritiene ci sia un’altra strada per risolvere il problema, ma per arrivarci deve mettere le mani nel concetto di “diritto”, perché per lui il diritto è norma ed è dover essere. Il dover essere va pensato in modo diverso. 18/10 La strada di Kelsen è un tentativo di depurare il dover essere, perché l’errore sta nel concepire il dover essere giuridico in maniera uguale al dover essere morale. “b) Il dover essere come categoria trascendentale diritto fa una cosa diversa, distingue le cose che tra loro sono diverse: giudizio giuridico e giudizio morale sono cose diverse, si deve risolvere il problema che la prima sia collegata con la seconda. Kelsen prova a depurare la categoria secondo cui si pensa il diritto giuridico. Kelsen fa un accostamento analogico tra norma morale e norma giuridica che serve a farci capire come è fatta e come funziona la rappresentazione della norma giuridica come rapporto tra una condizione e una conseguenza tra loro legate da un dover essere che esprime una categoria trascendentale, una cosa mai fatta prima. Diritto morale e diritto giuridico, nella specificità di ognuna di esse, riescono ad esprimere l’esistenza specifica di natura e di diritto, il principio di causalità spiega l’esistenza stessa della natura, la rivisitazione del concetto di dover essere in senso trascendentale diventa l’apriori gnoseologico del diritto giuridico, essa è una connessione specificamente funzionale, evitando di confonderla con un giudizio di valore. Kelsen ci invita a pensare al principio di imputazione nella stessa maniera del principio di casualità, certamente con l’imputazione è più difficile che con la casualità. Riconfigura il dover essere eliminando i valori morali, l’imputazione è depurata. Kelsen immagina che qualcuno possa obiettare dicendo che l’esempio da lui proposto non funzioni perché va bene per la causalità, ma non funziona con l’imputazione che colleghiamo automaticamente ad un giudizio morale, e lui risponde: “La causalità in particolare non altro significato che questo, la si liberi dal carattere magico metafisico che le era unito in origine, cioè nel tempo in cui in forma totalmente animistica si rappresentava la causa come una qualunque forza segreta che procedi per sé. L'effetto. Ma la scienza naturale non può rinunciare a un principio di causalità così depurato, dato che in esso non si manifesta altro che il postulato dell'intelligibilità della natura a cui non si può corrispondere in altro modo che ha mezzo di una connessione dei fatti presentati alla nostra conoscenza. “ La causalità non nasce pura, viene depurata, Kelsen dice che va fatto lo stesso con l’imputazione. L'uomo antico era convinto che tutto ciò che lo circondava era animato e questo tutto si posizionava in un sistema di posizioni normative, retto da un principio di retribuzione secondo cui il male va punito e il bene retribuito. Il primitivo si spiega tutto tramite un sistema normativo non causale. Kelsen nel 1935 venne invitato come sociologo a Parigi al secondo congresso dell’istituto di filosofia del diritto e presentò una tesi dal nome “anima e filosofia del diritto” e tutti gli chiedono che c’entri con i suoi lavori precedenti, ma la pagina appena letta è la riprova che Kelsen si è sempre interessato a ciò. Il primitivo non vedeva la natura, vedeva solo relazioni sociali basate sulla retribuzione, perché difettava della apriori gnoseologico che serve a riconoscere la natura, la mancanza della pioggia per lui era la risposta di un Dio a un qualcosa che lui aveva fatto di sbagliato o rispetto a cui era stato manchevole oppure qualcuno gli aveva fatto il male e quindi doveva rispondere. C'è stata una evoluzione da COLPA a CAUSA, ma la parola greca Aethia significa entrambe le cose, questo perché l’evoluzione è stata molto lenta. 24/10 “In tal modo il dovere continua a sussistere, quelle categorie relativamente a priori per la comprensione del materiale giuridico empirico.” Se ci serviamo per descrivere norma giuridica e morale della stessa concezione trascendente, tutte le differenze che enunciamo finiscono sullo sfondo perché la categoria concettuale è la stessa, risultando che la norma giuridica si porti dietro una componente morale. Il diritto non deve essere immorale, ma avverte l’esigenza di tracciare il perimetro che segna l’autonomia del proprio oggetto di conoscenza. Se il dovere lo pensiamo come la mera connessione normativa di condizione e conseguenza giuridica trasformando lo Sollen, una categoria formale, in una categoria trascendentale al servizio del diritto. “Se si dice: quando avviene una cosiddetta illegalità “deve” subentrare la conseguenza dell'illegalità, allora questo “dovere” come categoria del diritto significa soltanto il senso specifico con cui condizione è conseguenza vengono insieme collegate nella proposizione giuridica. Questa categoria del diritto ha un carattere puramente formale con ciò si distingue linea di principio da un'idea trascendente del diritto. Essa rimane applicabile qualunque sia il contenuto dei fatti così collegati e qualunque sia la specie degli atti, da concepirsi come diritto. A nessuna realtà sociale può essere contestata la compatibilità con questa categoria giuridica a causa della conformazione del suo contenuto. Essa è nel senso della filosofia kantiana gnoseologico trascendentale, non metafisicamente trascendente.” Il Sollen esprime il senso specifico con cui condizione e conseguenza sono collegate nella proposizione giuridica, non veicola alcun giudizio di valore. È una categoria formale dentro cui possiamo metterci qualunque contenuto poiché neutrali rispetto ai valori, circa cui possiamo esprimere poi giudizi. Trascendente è ciò che va oltre l’esperienza (il positivismo), trascendentale significa, dalla gnoseologia kantiana, che un concetto è a priori che rende possibile la conoscenza di una specifica esperienza. L’imputazione di fronte al diritto precede l’esperienza rispetto al diritto la precede, è trascendentale e quindi la descrive. La causalità e l’imputazione sono categorie di pensiero attraverso cui noi intendiamo un fatto. La soluzione di Kelsen venne accolta dai realisti americani abbastanza male, la ritenevano ideologica; quindi, le posizioni dei realisti e di Kelsen sono molto più lontane di quanto sospettassimo; le soluzioni sono diverse, ma lo è anche la diagnosi del problema. Gli americani volevano dire che il dover essere in quanto distinto dall’essere non è parte della realtà, esso non esiste, Kelsen dice che il dover essere esiste in modo diverso da come era stato concepito fino a quel momento staccando giudizi morali e giuridici in maniera definitiva. Kelsen afferma che la sua concezione del diritto è radicalmente realistica e non ideologica; l'oggetto di conoscenza del diritto è reale, ideologico è l’atteggiamento del giusnaturalismo che vuole modificare la realtà. Per il realismo americano è ideologico l’atteggiamento che pretende che la realtà sia altro rispetto a “ciò che è”, Kelsen vuole proprio questo, vuole ciò che gli americani non vogliono. Per gli americani la realtà sono i fatti, per Kelsen la realtà sono le norme, che sono dover essere. Senza Kelsen, per gli americani il problema dell’ideologia è una mistificazione del reale che mischia essere e dover essere, cosa impossibile perché il dover essere non esiste, per Kelsen è il collegamento tra ideologia e norma il problema, per Kelsen il dover essere esiste ed è anzi il modo di pensare il diritto 25/10 Kelsen era certo che il lettore mediamente colto delle sue pagine possedeva una sufficiente dimestichezza con le scienze della natura e con il carattere gnoseologico della causalità circa queste; la causalità è stata riportata dal piano dell’ontologia a quello della gnoseologia, diventando uno strumento della conoscenza. Negli anni ‘20 e ‘30 del 1900 la causalità non riusciva più a spiegare tutto a causa delle scoperte che avevano rivoluzionato la fisica, quali la relatività e la meccanica quantistica. Questi temi divennero molto comuni anche tra chi non studiava quel settore, Kelsen si avvicina a queste tesi grazie a ciò che aveva scritto Max Plank. Kelsen propone una tesi circa la crisi della causalità ai suoi tempi, dice che questo è l’ultimo passo che serve a scindere la natura dal principio di retribuzione, la causalità si è liberata di quell’elemento di assolutezza che con essa non aveva nulla a che fare. “C) Il ritorno al diritto naturale della metafisica. La teoria giuridica tradizionale, dopo le scosse sociali causate dalla guerra mondiale, sta per tornare su tutta la linea alla teoria del diritto naturale, allo stesso modo che anche la filosofia tradizionale trovasi ora in pieno ritorno verso la metafisica prekantiana. (…) E proprio per il fatto che la dottrina pura del diritto trae le ultime conseguenze dalla teoria giuridica e della filosofia originariamente positivistica e antiideologica del secolo XIX, essa incontra una fortissima opposizione negli epigoni che rinnegano la filosofia trascendentale di Kant e il positivismo giuridico.” Kelsen dice che dopo la Prima guerra mondiale si è fratturato il corso della storia, è cambiato il modo di concepire la guerra, ha un contraccolpo sul diritto e sul positivismo giuridico, i positivisti cominciano a chiedersi se non sia stato il loro ideale a portare l’uomo ad una guerra che ha rischiato di far estinguere l’essere umano. Il giusnaturalismo riprende consensi, quando Kelsen scrive questo libro l’uomo cerca valori più alti delle leggi, cerca i valori morali, la sua teoria vacilla contro la sociologia del diritto, e la riduzione al naturalismo del campo delle scienze, e contro la rinascita del giusnaturalismo, e dei suoi valori morali. 30/10 “Con la categoria formale del dovere o della norma si è riusciti però soltanto a determinare il genere prossimo, non già la differenza specifica del diritto. La teoria del diritto del secolo XIX è stata in genere concorde nel ritenere che la norma giuridica fosse una norma coattiva, intesa come una norma che stabilisce una coazione e che appunto per questo si distingue dalle altre norme. In questo punto la dottrina pura del diritto continua la tradizione della teoria positivistica del diritto del secolo XIX.” Kelsen annuncia un punto di continuità, il criterio della coattività, la norma è coattiva, questo è un pensiero che esiste dal ‘700 con Thomasius che distingue il diritto dalle norme di altro genere, fonda la filosofia del diritto e nelle sue fondamenta c’è l’elemento della coattività. come concetto giuridico. L’illecito aveva una posizione, a causa della politica e della morale, che lo collocava fuori dall’ordinamento giuridico, anzi era in contrasto, ora invece è la posizione dell’atto coattivo che definisce come illecito un dato comportamento. “La dottrina pura del diritto, respinge la concezione per cui l'uomo, con l'illecito, verrebbe a infrangere o violare il diritto. Essa dimostra che il diritto non può essere infranto o violato dall'illecito, perché anzi soltanto a mezzo suo che il diritto raggiunge la propria essenziale funzione. L'illecito non significa, come lascia supporre la concezione tradizionale, un'interruzione, l'esistenza del diritto, ma proprio l'opposto; in questo fatto si conferma l'esistenza del diritto che consiste nella sua validità, nella doverosità dell'Atto coattivo come conseguenza dell'illecito giuridico.” L’illecito è un comportamento umano, un fatto non può essere la negazione di una norma, essere e dover essere non possono essere in contraddizione, anche se una norma non viene rispettata dai più essa rimane valida, l’efficacia non è una condizione necessaria della validità della norma, anzi è proprio grazie all’esistenza della norma che possiamo dire che i più la vietano, l’essere non in contraddizione col dover essere. “(definizione di illecito) Illecito è quel determinato comportamento dell'uomo, che nella proposizione giuridica viene posto come la condizione, per cui si rivolge contro di esso l'atto coattivo posto nella proposizione stessa come conseguenza. Con questa definizione identifichiamo un genere e una specie in cui inserire l’illecito: illecito è un certo tipo di comportamento dell’uomo determinato dal fatto che il comportamento è assunto nella norma giudica da una conseguenza sanzionatoria. I valori morali scompaiono completamente. 6/11 Il problema dell’obbligo giuridico è un problema delicato, perché si crea una relazione inedita tra dover essere e obbligo giuridico (pflicht). “a) Efficacia dell’ordinamento giuridico Se il diritto, considerato del tutto positivisticamente, non è altro che un ordinamento coattivo esterno, esso sarà allora concepito soltanto come una specifica tecnica sociale: si raggiungerà o si cercherà così di raggiungere lo stato sociale desiderato collegando al comportamento umano, che rappresenta l'opposto contraddittorio di questo stato sociale, un atto coattivo come conseguenza, cioè la privazione coattiva di un bene: vita, libertà, beni economici. Evidentemente, con ciò, l'ordinamento giuridico parte dal presupposto che gli uomini, il cui comportamento è regolato dal diritto, considerino questo atto coattivo come un male che cercano di evitare. Con la rappresentazione di questo male minacciato nel caso di un determinato comportamento, l’ordinamento giuridico ha pertanto il fine di indurre gli uomini a seguire un comportamento contrario. In ciò risiede l’efficacia dell’ordinamento giuridico” La coazione rappresenta un carattere differenziale della norma giuridica, i caratteri sono coazione ed esteriorità. Il diritto è una specifica tecnica sociale, un complesso di pratiche, un mezzo per raggiungere lo Stato sociale voluto dal legislatore. Il diritto non è l’unica tecnica sociale, morale, costume, religione, ecc… la specificità della tecnica sociale “diritto” è predisporre una misura sanzionatoria che rappresenta l’opposto contraddittorio dello Stato sociale che vogliamo raggiungere, il fine si raggiunge tramite la sanzione di un comportamento che non aderisce con l’idea di Stato sociale. A Kelsen interessa la struttura formale del diritto: sanzione di un comportamento che non aderisce all’idea di Stato sociale. L’efficacia è un fatto da verificare empiricamente, cosa importante, ma di cui si occupa la sociologia del diritto. Con la definizione di illecito (pag 67) abbiamo detto che la posizione della sanzione determina l’illiceità dell’atto, adesso aggiunge che il diritto dice ai consociati come comportarsi, mettendo una sanzione che qualifica l’illecito, di conseguenza comanda di avere un comportamento opposto a quello che viene sanzionato. Tutto si mette in moto a partire dalla posizione della sanzione: essa precede l’illecito, perché lo qualifica, e l’obbligo, perché è qualificato dall’illecito che comanda il comportamento contrario. La depurazione è completa, non ci sono più connotazioni morali circa la norma, l’illecito e l’obbligo, la reine Rechtschlere è compiuta. Se ogni norma esprime un dover essere, che cosa deve essere? Se la norma in questione è giuridica ciò che “deve essere” è una sanzione, una misura di coercizione. L’analisi di Kelsen si discosta dall’analisi normativa tradizionale e questo discostamento rivoluziona l’obbligo, quando analizziamo la norma il suo essere non è il comportamento dei consociati, ma anzi la sanzione. Nella teoria del diritto si dice che la norma giuridica opera con un meccanismo di operazione indiretta (Se commetti A, allora deve essere B), la norma naturale opera con un meccanismo di operazione diretta (non si deve fare A). Nel caso della norma naturale affermare che un certo comportamento dei consociati sia obbligatorio è pari ad affermare che questo comportamento DEVE ESSERE, nella norma giuridica le nozioni di obbligo e dover essere sono divise, non coincidono (al contrario accade nella norma naturale), affermare che un certo comportamento dei consociati è obbligatorio vuol dire che questo “deve essere una sanzione se i consociati si comportano in tal modo”. I destinatari della norma naturale sono obbligati a fare ciò che la norma dice, nella norma giuridica i destinatari sono obbligati a tenere un comportamento giuridico contrario al comportamento che costituisce l’illecito, l’obbligo giuridico è l’obbligo di astenersi dalla condotta illecita. Per dire che l’esecuzione della sanzione sia obbligatoria c’è bisogno di un’altra norma che sanzioni il funzionario che non esegue la sanzione; in linea di partenza l’esecuzione della sanzione non è obbligatoria, il funzionario è autorizzato a sanzionare chi ha commesso l’illecito, ma non è obbligato se non esiste un’altra norma che tramite una sanzione glielo imponga. La dissociazione di dover essere e obbligo giuridico significa che diversamente dalla norma naturale le due cose non coincidono, ma anche che la condotta dei funzionari, che è dover essere, non è obbligatoria. 7/11 Nel momento in cui Kelsen ha risolto il problema della rappresentazione del dover essere, mutando la categoria del dover essere da trascendente a trascendentale, adesso consente, con l’integrazione di norma giuridica coattiva, di accedere alla definizione dei concetti di diritto: nuovo concetto di illecito, scevro da caratteri morali, nuovo concetto di obbligo giuridico. “b) La norma secondaria Se, in base allo scopo dell'ordinamento giuridico, si presuppone l'esigenza che gli uomini debbano comportarsi in modo tale da evitare l'atto coattivo che li minaccia, si può allora risolvere l'ordinamento giuridico in un complesso di norme in cui appare come comandato questo comportamento che costituisce lo scopo dell'ordinamento stesso; per esempio: non si deve rubare, si deve restituire un prestito ricevuto, ecc... E però soltanto necessario tener presente che, in questo modo, non viene espresso il rapporto con l'atto coattivo che è essenziale per il carattere giuridico della norma» Questa dicotomia tra norma primaria e secondaria è una partizione vecchia, che non inventa Kelsen, ma che Kelsen rinnova con la dottrina pura del diritto; il diritto un mezzo che può essere posto al servizio di scopi molto diversi tra loro. Se scopi diversi possono essere perseguiti con lo stesso mezzo, il medesimo scopo può essere perseguito con mezzi diversi. Kelsen in questo paragrafo sembra dire il contrario di quanto detto nelle pagine prime, dice che l’ordinamento si può risolvere in un serie di norme che prescrivono direttamene un obbligo; Kelsen dice che si può fare, ma senza l’atto coercitivo, che caratterizza la norma giuridica, torna quel collegamento con le norme naturali. È valida una norma che dice di (non) fare qualcosa in maniera diretta solo se esiste un’altra norma che dica che se si commette (o non si commette) quel determinato fatto si viene sanzionati, una norma primaria, che rende la norma diretta una norma secondaria. «La norma che determina la condotta che evita la coazione (condotta che l'ordinamento giuridico ha come scopo) (è la norma di tipo a) ha il significato di norma giuridica soltanto quando si presuppone che con essa si debba esprimere in forma abbreviata, per comodità di esposizione, ciò che solo la proposizione giuridica enuncia in modo corretto e completo: cioè che alla condizione della condotta contraria debba seguire un atto coattivo come conseguenza (è la norma di tipo b). Questa [la norma di tipo b/è la norma giuridica nella sua forma primaria. La norma (di tipo al che ordina il comportamento che evita la sanzione, può valere quindi soltanto come norma giuridica secondaria» Data una norma primaria è possibile ricavare una e una sola norma secondaria, se abbiamo la secondaria possiamo trovare un numero potenzialmente infinito di primarie che la sostengono. «La norma giuridica secondaria anteriormente formulata [nel nostro esempio: non si deve uccidere), in sé e senza riferimento alla proposizione giuridica che ricollega la condizione con la conseguenza del diritto, non può essere in nessun modo l'espressione dell'essenza del diritto» Se non c’è la primaria, la secondaria non ha valore giuridico senza rinunciare alla battaglia antiideologica contro il giusnaturalismo, nella prima affermazione ideologia viene usata col senso con cui la intendono i giusnaturalisti, nel secondo caso intende la natura. Anche il concetto di realtà come oggetto della conoscenza scientifica ha più significati, realisti e Kelsen studiano la realtà, per i primi è la realtà naturalistica dei fatti, per Kelsen è la norma, il diritto, il dover essere. “Qui rimane ancor dubbio se in generale, da un tal punto di vista, si possa concepire l’esistenza di fenomeni sociali, o se, in una trattazione di tale specie, tutto ciò che è sociale non debba necessariamente dissolversi e scomparire come oggetto particolare. Molti sono infatti gli argomenti in favore della tesi per cui la sfera del “sociale” avrebbe essenzialmente un carattere ideologico e la società si distinguerebbe in genere dalla natura soltanto come l’ideologia si distingue dalla realtà.” Queste parole riportano al momento in cui Kelsen denuncia la cornice del suo problema, quando dice che la scienza del diritto deve affermare di essere una scienza diversa dalle scienze naturali, con diversità di metodo e oggetto, se si identifica in una scienza naturale questa diventa irriconoscibile e rovina la società. La posizione del realismo giuridico è uguale opposta allo stato primitivo, i primitivi vedevano solo stato, non c’era una causa e un effetto, i realisti (e i sociologi) vedono solo e soltanto la natura, i fatti reali sono solo di causa ed effetto. “Se il senso normativo dl diritto è soltanto una “ideologia”, ne viene che una dottrina giuridica, che vuole afferrare il senso immanente del diritto, cioè il diritto come si presenta agli organi legislativi e giudiziari e al pubblico che vi si appella, sarà allora rivolta allo studio delle caratteristiche proprie di una ideologia. La dottrina pura del diritto è perfettamente consapevole di ciò. Anzi, spogliando il dover essere del diritto positivo del suo carattere di valore metafisico assoluto (riducendolo soltanto all’espressione del rapporto fra la condizione e la conseguenza nella proposizione giuridica), essa ha aperto la via per giungere a quel punto dal quale risulta evidente il carattere ideologico del diritto.” Se il senso normativo del diritto è solo ideologia allora la dottrina pura del diritto è ideologica, ma la Reine Rechtschlere ne è consapevole e sa che quello che i realisti intendono per ideologia viene dopo la definizione di ideologia che dà la dottrina pura del diritto, tutto ciò volto a definire cosa intendevano dire le due teorie, criticano due cose diverse. “Ma la dottrina pura del diritto non crede di dovere trarre la conseguenza che sa necessario rinunciare alla categoria del dover essere in generale, e con ciò a una teoria normativa del diritto; non crede cioè di dover rinunciare a una penetrazione adeguata e ad una elaborazione sistematica delle strutture spirituali che anzitutto danno il senso del diritto agli atti naturali cheli portano. La possibilità e l’esigenza di questa teoria è già dimostrata dall’esistenza millenaria della scienza del diritto” “Essa non può assolutamente essere sostituita dalla sociologia giuridica, poiché questa è rivolta a un problema ben diverso. (…) La sua posizione nel sistema generale delle scienze costituisce un problema diverso e subordinato. Ciò che è necessario, non è abolire questa scienza giuridica insieme con la categoria del dover essere o della norma, ma bensì delimitarla nel suo oggetto e chiarire criticamente il suo metodo.” Kelsen ha detto che la scienza del diritto non deve essere ridotta a scienza della natura, ma non che la scienza del diritto debba sostituirla, non propone un riduzionismo delle scienze. Tutte le cose che non interessano alla dottrina pura del diritto, ma appartengono ai sociologi del diritto sono cose importanti e che dividono le scienze, nessuna delle due scienze prenderà mai il posto dell’altra, hanno metodi e oggetti diversi e per questo devono convivere; la convivenza è facile perché tra queste due scienze non ci sono punti di intersezione, ma continuano a contendersi spazi ancora oggi perché, a parte Kelsen, non c’è una visione dualista che vede sia l’essere che il dover essere e che vanno trattati da scienze diverse. 14/11 La teoria del diritto di Kelsen è modellata sul paradigma dello Stato moderno, uno stato che funzionava benissimo. Kelsen inizia però a occuparsi del diritto internazionale durante la Seconda guerra mondiale, momento in cui molti pensavano il diritto internazionale morto. Sul terreno del diritto internazionale entrano in tensione alcuni temi della dottrina pura del diritto, uno dei quali è il rapporto tra dover essere e dovere giuridico. “Il fatto che, in rapporto alla realtà naturale, si possa far valere il diritto come ideologia e che tuttavia si possa esigere una teoria giuridica pura, cioè priva di ideologia, non è certo un fatto assolutamente contraddittorio come sembra.” Siamo di fronte a due significati della parola ideologica “che ora indica lo spirito come opposto alla natura in generale, ora come una rappresentazione che involge la realtà esaltandola o deformandola” Il secondo significato di ideologia è arrivato quando è arrivata la critica da parte dei realisti americani, mentre la prima volta che si è parlato di ideologia si è parlato di giusnaturalismo e di collegamento di giustizia con diritto. Kelsen pensa che il giusnaturalismo non si presenta come scienza del diritto, ma anzi ha un atteggiamento valutativo, che deforma la realtà per difendere la politica che si vuole spingere. Kelsen ci conferma la sua intenzione di tenere ferma la posizione che ha difeso finora: se si vuole pensare il diritto come norma e dover essere, non si è disposti ad arretrare rispetto al proposito di avere una teoria giuridica pure, priva di ideologia. “Se si considera il diritto come ordinamento normativo in rapporto alla realtà degli eventi effettivi che, secondo la pretesa del diritto positivo, debbono corrispondergli (sebbene non gli corrispondano sempre), allora si può qualificare questo diritto come “ideologia”.” La realtà qui è quella degli eventi effettivi, quella che risponde alla legge di causa-effetto, dunque la realtà naturale; l’ideologia è ciò che deforma il diritto positivo per renderlo utile a scopi politici o che lo distrugge completamente per fare spazio ad altro, la giustizia. “Se si considera il diritto positivo un rapporto con un ordinamento “superiore”, il quale pretende che questo diritto gli corrisponda, come ad esempio nel rapporto col diritto naturale, con l’ideale di una giustizia immaginata in modo qualsiasi, allora il diritto positivo si presentava come il diritto “reale” esistente, e il diritto naturale o la giustizia come ideologia” La realtà è spirituale e corrisponde al diritto positivo; mentre l’ideale è il diritto positivo come ordinamento superiore, l’ideale di giustizia. “La dottrina pura del diritto conserva la sua tendenza antiideologica per il fatto che essa cerca di isolare la rappresentazione del diritto positivo da ogni specie di ideologia giusnaturalistica della giustizia. La possibilità delle validità di un ordinamento che sovrasti il diritto positivo rimane per essa al di fuori della discussione. Essa si limita a considerare il diritto positivo e impedisce così che la scienza del diritto lo faccia passare per un ordinamento superiore o che attinga da un tale ordinamento la giustificazione del diritto, oppure che la discrepanza tra un qualsiasi presupposto ideale di giustizia e il diritto positivo venga abusivamente usata come argomento giuridico contro la validità di quest’ultimo. La dottrina pura del diritto è la teoria del positivismo giuridico.” I problemi col giusnaturalismo tornano perché la critica dei realisti afferma che la dottrina pura del diritto è ideologia, che sarebbe uguale al giusnaturalismo… o forse no, perché il realismo dice che il carattere ideologico della dottrina pura è nel suo pensiero che la dottrina pura del diritto si basi sulla norma e sul dover essere, una cosa totalmente diversa da quella che lui ha inteso come ideologia associandola al giusnaturalismo. La dottrina pura del diritto pensa al diritto come norma e dover essere e che può criticare il giusnaturalismo perché sono due definizioni di ideologia diversa, per Kelsen il diritto è un dovere essere trascendentale, per i giusnaturalisti è un dover essere trascendente. La frase finale del terzo capitolo è la fine del percorso iniziato a pag 46 quando dice “la dottrina pura del diritto è UNA teoria del diritto positivo” che qui si conclude affermando che la Reine Rechtschlere è LA teoria del positivismo giuridico. Kelsen ha criticato il positivismo giuridico per elevarlo, depurato e farlo arrivare al suo livello finale. 21/11 Nel campo del diritto internazionale la Reine Rechtschlere si misura con una serie di problemi, primo fra tutti la natura del dovere. Kelsen si interroga se il diritto internazionale fosse diritto tanto quanto il diritto comunitario statale; va quindi ad analizzare la natura coercitiva degli Stati. Kelsen va a cercare una sanzione che vada a qualificare un illecito nel diritto internazionale, per dimostrare la giuridicità del diritto internazionale. Kelsen era convinto dell’opportunità politica di dimostrare la giuridicità del diritto internazionale, per evitare disastri politici, che poi avverranno, di fatti durante la guerra si batterà affinché i giuristi facciano tornare a prevalere la norma. L’11 ottobre 1938 scrive tre lettere a Rosco Pound, Felix Van Furder, (due associati della Rockfeller Association) le lettere ai due sono molto simili, parla degli sviluppi della situazione politica in Europa che lo stanno costringendo a scappare da Praga, specificando che sia la terza volta che a causa della politica sia dovuto scappare, e Abraham Flexer, nella lettera a Flexer egli è costretto a presentarsi, in quanto questi non ero uno studioso del diritto come gli altri due per poi dire lui quanto detto ai due colleghi; dopo un anno e mezzo nessuno vuole Kelsen nonostante venga molto apprezzato oltreoceano. Nel giugno 1940 lascia Ginevra per ricominciare la sua carriera accademica in un Paese sconosciuto e di cui non padroneggiava la lingua. Ricomincia a mandare lettere, tanto da rivolgersi alla Rockfeller Association che si era impegnata ad aiutare gli studiosi rifugiati di guerra, che gli aveva precedentemente detto no, in quanto la Svizzera non era in guerra e quindi Kelsen non era un rifugiato, quando poi arrivò negli USA questi si convinsero che era un rifugiato, ma temporeggiavano. Rosco Pound si ritrovò Kelsen nel suo studio e gli affibbiò delle lecture ad Harvard su Holmes, da queste lettere (1942) scriverà “Diritto e pace nelle relazioni internazionali”, in questo libro interviene un elemento che sembra sovvertire la definizione di diritto che Kelsen ci aveva dato. 28/11 Kelsen, ormai sessantenne, deve cominciare una nuova vita in un mondo per lui nuovo, un mondo che aveva un approccio al diritto molto pragmatico, basti pensare ai realisti. Fin dagli esordi, la sua relazione col diritto internazionale lo ha costretto a fare i conti con la realtà, ed è per questo che parla di tali temi agli americani. C’è una novità, irrompe il tema della pace nella sua riflessione giuridica, un tema che si collega indissolubilmente e antiteticamente alla guerra, la guerra infuria in Europa e la sua mente viene assalita dal pensiero della pace, scrive “La pace che porta al diritto” e “Diritto e pace nelle relazioni internazionali”. In quest’ultimo c’è una introduzione che parla della riforma delle relazioni internazionali improntata alla pacificazione degli Stati, il problema della pace è il problema più grave e urgente a cui un giurista doveva rispondere a quel tempo (1945); i giuristi non si sono mai occupati della pace, ma Kelsen la pensa in modo diverso, crede che questi debbano aiutare i politici a raggiungere la pace. Nella prima lezione la pace è il centro dei temi che Kelsen tratterà, “il concetto del diritto” è il nome di questa lezione, viene detto che il diritto è essenzialmente (essenza del concetto) un ordinamento per la promozione della pace, questa è una definizione del diritto, è una definizione completamente nuova e completamente eterogena rispetto alla definizione della dottrina pura, ma non è incompatibile. La definizione del diritto della dottrina pura (il diritto è un ordinamento coercitivo che porta all’applicazione di una sanzione) era un mezzo, non era uno scopo, lo scopo è promuovere la pace e la pacifica convivenza dei consociati. Le due definizioni sono compatibili solo se per pace intendiamo una pace relativa, in cui la forza non è totalmente esclusa, ma è consentita in regime di monopolio, solo alcani soggetti possono usare la forza in determinate condizioni, solo lo Stato o un suo organo delegato solo come reazione nei confronti di un illecito, questa è la pace del diritto. La guerra è un impiego della forza e la guerra è consentita dall’ordinamento internazionale, che è giuridicamente valido perché la guerra è lo strumento coercitivo che lo definisce come tale. Questa pagina introduttiva però parla del diritto in generale e non del diritto internazionale, di fatti questa nuova definizione finirà né “la teoria del diritto e dello Stato” del 1945, ci sono entrambe le definizioni e definiscono il diritto in generale. In una pagina de “la dottrina pura del diritto” del 1960 Kelsen ammette di dover fare un grande modifica della sua teoria del diritto, la promozione della pace è una tendenza degli ordinamenti giuridici e solo per quelli più evoluti, la promozione della pace non è più elemento essenziale del diritto 29/11 Il primo avvicinamento di Kelsen al diritto internazionale avviene ne “il problema della sovranità”, in America si continuerà a occupare della questione circa la ricerca della prova della giuridicità dell’ordinamento internazionale. Il tema della pace non può essere assente, ma entra in gioco solo a partire gli anni ’40, quando Kelsen scappa dalla guerra; delle lecture ad Harvard aveva molte aspettative e per degli anni riuscì a rimanere ad Harvard, finché l’amministrazione dell’università decise di non illuderlo con continui incarichi provvisori, ebbe l’incarico a UC all’università di Barkley, dove parla di diritto internazionale. Kelsen non insegnava ad una law school, molto pratica e che se ne faceva poco di un teorico del diritto, ma ad una università di scienze politiche. L’attenzione verso la pace nasce da una sollecitazione politica ed etica, la pace doveva essere il trionfo del diritto internazionale. Il concetto di pace viene trattato circa il diritto in generale, non il diritto internazionale, e viene scritto sia nel libro che nasce dalle Holmes lecture nel 1942 e in “Teoria generale del diritto e dello Stato” nel 1945. Questa tesi di Kelsen circa l’essere il diritto un promotore della pace ha vita “breve”, nel 1960 infatti scrive che è costretto a modificare la sua concezione di diritto e pace, la promozione della pace è una tendenza del diritto, non un elemento essenziale, solo gli ordinamenti che hanno raggiunto un certo livello di sviluppo possono garantire; il che è strano, Kelsen non si è mai occupato di questioni pratiche. L’interpretazione di questa correzione per molto tempo è stata quella di Norberto Bobbio, che affermava che il diritto fosse un ordinamento che doveva garantire la pace ed era una cosa che si distaccava troppo da come era stata costruita la reine rechtschlere, era un fine pratico, non teorico. (pensiero di Nitsch) Nel discorso di Kelsen, però, il discorso sulla pace era molto vuoto; tornando al 1920, la forza poteva essere usata solo come sanzione, altrimenti era un illecito, era necessario polarizzare la forza, o è illecito o è sanzione, non ci sono altre opzioni, in un certo senso Kelsen qui già ha detto che il diritto tende alla pace, la pace del diritto non è l’esclusione della forza, va usata come sanzione. Il riferimento finalistico della pace non creava problemi alla costruzione, prettamente strutturale, della dottrina pura, perché il concetto di pace di diritto non ha valori morali, come diceva Weber, Kelsen parla del suo rapporto col valore di pace (wertbeziehung), non del valore morale di pace, il rapporto col valore di pace dice che è per lui chi studia la dottrina debba aiutare i politici a raggiungere la pace. Bobbio immagina che Kelsen avverta la necessità di ritrattare la sua tesi per evitare che si crei confusione tra diritto e morale nella reine rechtschlere, (Nitsch) invece si pensa che ci sia una confusione tra norma e fatti, non tra diritto e morale, un po’ per l’ambiente in cui vive, un ambiente di realisti. Dopo aver detto che il diritto è essenzialmente un ordinamento per la promozione della pace, ma finché continueremo a considerare diritto quello delle società arcaiche come si fa con l’ordinamento internazionale, che si basano sulla risposta violenta alla violenza, non potremo dire che la pace è un elemento essenziale del diritto. Un concetto lo possiamo enunciare per definire i suoi caratteri essenziali e le capacità denotative, maggiori sono i caratteri essenziali, minori sono le capacità denotative, se dice che il diritto promuove la pace, non posso dire che il diritto internazionale è valido, se dico che il diritto internazionale è valido, non posso dire che il dritto sia essenzialmente un ordinamento per la promozione della pace, questo è il dilemma in cui si trova Kelsen nel ’60. Kelsen preferisce intervenire sul concetto di pace e dire che non è un carattere essenziale, perché per lui che l’ordinamento giuridico internazionale è più importante del concetto di pace, questo perché se l’ordinamento internazionale vuole potrà evolversi e diventare un ordinamento che possa garantire la pace, se invece avesse preferito la pace, questa ci sarebbe stata internamente alle Nazioni, ma non ci sarebbe stata a livello internazionale. La tendenza alla pace verrà perseguita se si continua a pensare che l’ordinamento internazionale sia valido. 4/12 Guerra e pace sono elementi correlati, ma nella riflessione di Kelsen si consolidano in momenti diversi, il primo è la guerra, vista come sanzione in risposta ad un attacco da parte di uno Stato ai danni di un altro per qualificare l’ordinamento giuridico come valido; ciò avviene nel 1920 “Problemi fondamentali della dottrina dello Stato”. Nella nuova prefazione del 1923 dello stesso libro, offre al lettore la “bibliografia” tramite cui il lettore si sarebbe potuto aggiornare circa i temi trattati nel libro. Nel 1942 inizia a parlare della pace grazie alle Holmes lecture e la ritiene un elemento essenziale del diritto, che nel 1960 nella seconda edizione degli Haputprobleme verrà rivista e la pace sarà intesa come sola tendenza del diritto e non come carattere essenziale dello stesso; la pace ha un carattere funzionale, cosa strana data la scienza teoretica che è il diritto della dottrina pura, non è come la guerra che qualifica l’ordinamento. Guerra e pace per Kelsen si muovono in modi opposti. Quello che sembra un passaggio di discontinuità in Kelsen (il momento, nel 1960, in cui ritratta la sua affermazione circa la pace del 1942/45) è al tempo stesso testimonianza di una più profonda idea di continuità nel pensiero di Kelsen, in quanto per rimanere costante col suo pensiero che l’ordinamento internazionale sia valido, ammettendo che questo non abbia raggiunto la pace e che quindi la pace non possa essere elemento essenziale del dritto. Nel 1960 si preoccupa di più della validità dell’ordinamento internazionale che della definizione di diritto, perché finché la guerra sarà definita sanzione giuridica, la pace non potrà essere considerata elemento essenziale, finché la vendetta di sangue sarà definita sanzione giuridica, la pace non potrà essere considerata elemento essenziale. Kelsen ha avuto interessi per l’ordinamento sociale delle società arcaiche da sempre, ma c’è un momento specifico in cui questi interessi diventano scientifici e sono al centro dei suoi studi, il 1935, quando viene invitato a tenere una conferenza chiamata “l’anima e il diritto” a Parigi. Secondo Kelsen l’omicidio non è solo la più antica violazione dell’ordine sociale, ma è anche la più antica forma di reazione ad una violazione dell’ordine sociale. Gli uomini, da quando vivono in gruppo, hanno detto che questa doveva essere definita da elementi esotici. Il giurista si trova in una terra di mezzo tra studi scientifici e studi umanistici, il giurista ragiona in una dialettica con il ragionamento del politico del diritto e tracciare i confini tra i due comportamenti era difficile. Kelsen deve tornare sulla questione del “la giurisprudenza è una scienza?” e precisa qual è la specificità dell’oggetto di questa scienza (o presunta tale). L’esplorazione degli ordinamenti giuridici primitivi ci è servita a smascherare l’aspetto di generalità della teoria della dottrina pura del diritto e a problematizzare questa teoria, la mette in difficoltà, mai in discussione, anzi la rende più forte e in un certo senso ancor più generale. Il tema della forza è un tema si basa sulla definizione di diritto come ordinamento coercitivo dei rapporti umani, la forza è un mezzo per qualificare ciò che è giuridico e viene sublimata nell’idea kelseniana di dover essere che serve, si, a identificare il piano della normatività rispetto a quello della causalità, ma è anche su un piano diverso dall’essere ed è strano pensare che la forza sia lontana dal piano dell’essere. La forza serve a distinguere la norma dalla morale, la centralità del momento della forza si esibisce nell’atto della qualificazione giuridica dell’illecito, ovvero il dover essere sanzionato di uno specifico comportamento umano, ed è così che lo difende da ogni influenza valoriale o politica. 8/01 Croce era uno studioso di grande spessore del secolo scorso, ma non era laureato, come spesso accadeva all’epoca. Era una figura ingombrante e tutti lo leggevano mentre era ancora in vita, l’anticrocianesimo era forte ed ha insegnato molto, ora si è persa questa attenzione e gli anticrociani non sono più una fonte di interesse. L’anticrocianesimo si sviluppa sul versante della filosofia del diritto; Croce era un socio dell’Accademia pontaniana ed usava il pubblico dell’accademia per divulgare le sue idee, mettendosi in discussione e modificando poi le su tesi prima di pubblicare ufficialmente le sue opere. Nella primavera del 1907 annuncia il lavoro che porterà poi ad un libro molto grande “Filosofia della pratica”, questo lavoro più piccolo diverrà “Riduzione della filosofia del diritto alla filosofia dell’economia”. A pagina 7 ci conferma che l’accademia è stata il banco di prova per la pubblicazione della “Filosofia della pratica”; nell’edizione della Riduzione del 2016 contiene 3 delle sue memorie: La memoria che prepara il libro sull’estetica; la memoria che prepara il libro sulla logica; la memoria che prepara il libro sulla pratica. Filosofia dello spirito era diviso in 4 volumi, per lungo tempo sono stati solamente 3: estetica, logica, pratica, teoria e storia della storiografia. Distingue spirito teoretico (ciò che attiene al dominio della conoscenza) e spirito pratico (ciò che attiene al dominio dell’agire; lo spirito teoretico è diviso in due parte, una che riguarda la conoscenza intuitiva, preconcettuale, ed è finito nel libro dell’estetica, la seconda parte è la conoscenza concettuale che è finito nel libro della logica. Lo stesso voleva fare con lo spirito pratico, dedicando un libro all’economica e uno all’etica, ma non andò così, questi due problemi sono confluiti nella Filosofia della pratica. Il quarto volume non identifica un momento ulteriore dello spirito, ma rappresenta una specificazione ed un approfondimento della conoscenza concettuale, come se fosse un’appendice del libro della logica. Le memorie preparatrici di estetica, logica e pratica sono stato proposte all’accademia pontaniana a pochi anni di distanza l’uno dall’altro. Croce ha accreditato una casa editrice, La Terza, diventò la sua casa editrice dal momento della costruzione della Filosofia dello spirito. Croce lavorava molto, era uno stakanovista ed aveva un diario in cui annotava ciò che faceva e programmava le sue mosse future, li chiamiamo Taccuini. Parte del suo lavoro fu volto a rielaborare il corpus delle sue opere, con La Terza costruisce un complesso organigramma di rubriche in cui le sue opere andavano risistemate.; le tre memorie preparatrici non compaiono nel corpus di Croce, banalmente perché era convinto che i lavori preparatori, dopo aver svolto la loro opera si erano dissolti nell’opera compiuta e quindi non andavano nel corpus. Attisani e Croce intorno alla metà anni ’20 ripubblicano le tre memorie, si esauriscono e la loro storia editoriale finisce lì; perché? Erano comunque recuperabili negli archivi pontaniani in quanto atti accademici e anzi erano reperibili anche nelle altre accademie d’Italia; la risposta è che non si sa la motivazione, forse Croce nel 1903 insieme a Gentile, fonda una rivista, La critica, in cui Croce scriveva ed insieme a Gentile voleva combattere le tendenze del positivismo filosofico, ma nel 1913 cambia qualcosa, i pensieri dei due divergono, Croce pubblica un articolo in cui annuncia che in termini di filosofia si era profilata appunto la possibilità di una divergenza. Schiere di studiosi prendono coscienza che il magistero Croce- Gentile si sta dividendo in due. Croce era ricco e non lavorava se non scrivendo, Gentile aveva problemi economici ed infatti era professore universitario. I due si mettono d’accordo sul fatto che era importante lavorare insieme senza fratture ideologiche, perché la loro battaglia non è finita ed entrambi vogliono vincere. Lavorano insieme finché non vengono fuori le differenti idee politiche, Gentile diventerà il filosofo fascista, mentre Croce diventerà il filosofo antifascista, i due non si parleranno mai più. Nel momento in cui si apre irrimediabilmente il dissidio tra i due, gli allievi di Gentile cominciano ad attaccare Croce su più fronti accomunati tra loro dalla critica che Croce sia anch’egli un allievo di Gentile e che quindi Croce sia un eretico. A Croce quest’accusa non piacque, perché la riteneva falsa, ma non si mette a polemizzare con dei ragazzi e non vuole dare importanza alle tesi di questi giovani, e quindi decide di ripubblicare le memorie accademiche che hanno preceduto le sue opere maggiori, per dimostrare di essere arrivato anni prima di Gentile, questo non per attaccare l’ex collega ma abbattere le loro tesi. Tra 1925 e 1926 ripubblica le memorie, un paio d’anni dopo le accuse degli allievi di Gentile. Le tesi di estetica e i lineamenti di logica vengono accorpate in un volume unico ed escono nel 1925, le tesi di pratica vengono pubblicate l’anno dopo, la distanza è forse dovuto al fatto che, analizzando le memorie sull’estetica e il libro collegato, quest’ultimo diviso in due parti, teorica e pratica, le memorie sono quasi uguali alla parte teorica dell’estetica, lo stesso accade per memoria e libro della logica, facendo questa comparazione con memorie della pratica e Filosofia della pratica vediamo che non si assomigliano molto, l’unica somiglianza è tra le memorie e la terza parte della Filosofia della pratica (prima parte: del volere e dell’agire; seconda parte: le due forme del volere e dell’agire), intitolata le leggi. il libro del 1925 ha un titolo nuovo “La prima forma dell’estetica e della logica”, il titolo viene dagli occhi con cui Croce guarda alle sue memorie anni dopo averle scritte, quelle erano le prime forme delle sue tesi; la Riduzione, che mantiene il suo titolo originale, è la prima forma delle tesi sulla pratica? 9/01 Il rapporto tra Riduzione e Filosofia della pratica ci interessa molto ed il problema della differenza tra le due opere può essere affrontato in due modi, leggere la Riduzione n vista della lettura della Filosofia della partica oppure leggere la Filosofia della pratica e poi leggere la Riduzione (cosa che fanno i più). Il pensiero di Croce si insinua in vari e differenti campi del sapere; questi specialismi che sembrano diversi tra loro non lo sono, il centro focale del pensiero crociano è la Filosofia dello spirito, nei luoghi più diversi del sapere Croce mette alla prova questo nucleo, le tre categorie dello spirito. Quando Croce licenzia la Filosofia della pratica scrive un’avvertenza in cui avvisa il lettore di trovare cose nuove, tranne alcune pagine della terza parte che si rifanno alla riduzione, che sono state comunque rimaneggiate. Quelli che hanno seguito il percorso dalla Filosofia della pratica alla Riduzione hanno notato un cambiamento enorme, in primis perché la memoria viene in minima parte trascritta nell’opera finale. Noi dobbiamo vedere la Riduzione come lavoro preparatorio nonostante rimanga poco nella Filosofia della pratica. Il diario di Croce è incentrato sul lavoro, non parla degli avvenimenti personali, tranne per alcune circostanze come lo scoppio della Prima guerra mondiale o la scoperta dell’ideologia di Gentile; Croce ha diretto e scritto La Critica da solo per tanti anni e nel diario mette poche informazioni sui lavori minori, pratica. Croce non è di questa idea; la filosofia del diritto è per Croce una scienza. Lui è d’accordo che la filosofia del diritto non sia fenomenologia, sotriologia, ecc… tanto che per lui è scontato e non ritiene vada ripetuta. La terminologia corrente era filosofia pratica, Croce invece sta lavorando alla filosofia della pratica, nel primo caso pratica è un aggettivo, nel secondo è un complemento di specificazione, l’oggetto di questa filosofia sarà la pratica. Croce problematizza il termine comune e ci lavora nella riduzione, fino ad arrivare all’opera finale, la Filosofia della pratica, in cui parlerà delle stesse cose di cui parlavano quelli che scrivevano la filosofia pratica, Croce sa che la filosofia resta filosofia, uno studio del metodo di agire, ma non diventa pratico il metodo di studio. Croce non dice mai filosofia della pratica nella riduzione, dice sempre filosofia pratica, tranne che nell’avvertenza iniziale, che è la parte che viene scritta alla fine, ma la verità è che sia prima che dopo la scrittura della riduzione la terminologia passa dall’una all’altra molto spesso “La filosofia – diceva Hegel, - giunge, e deve giungere, sempre tardi, ha fatto compiuto; perché essa non crea il reale, ma lo ricerca e comprende. Sorge a sera, quando l’opera della giornata è al suo termine: “l’uccello di Minerva leva il suo volo al crepuscolo”.” Croce non esita a professarsi sin dall’inizio contrario all’identificazione tra filosofia del diritto dalla fenomenologia, dalla storiologia, ecc… perché non è di questo che deve occuparsi la filosofia del diritto, la filosofia del diritto è filosofia, non è sociologia o teoria generale e non si deve più perdere tempo circa questo argomento, si deve rifletter alla filosofia del diritto in quanto tale ed ha concentrarsi sul diritto “I libri, che s’intitolano filosofie del diritto, contengono un vario, e spesso assai pregevole, materiale di dati storici, di schematismi giuridici, di critiche circa istituti sociali e di proposte e, o anche importanti vedute filosofiche generali. Ma tutto ciò resta fuori dalla mia indagine. Io debbo fermarmi soltanto a quelle parti di essi, - talora, poche pagine introduttive, o qualche capitolo o paragrafo, che si cela quasi vergognoso nella selva delle discussioni estranee, - nelle quali si cerca di stabilire il fondamento o concetto di diritto”. Si può rivendicare il carattere filosofico della filosofia del diritto, ma secondo Croce è una perdita di tempo, per quanto interessanti, quei libri non c’entravano nulla con la filosofia del diritto, ciò è inerente alla filosofia del diritto è una riflessione del diritto che ne definisca la natura e per Croce ci sono troppe poche pagine nei libri che ha letto, di solito nell’introduzione o pochi paragrafi mischiati con una discussione che con la filosofia del diritto non hanno nulla a che fare. Croce critica fortemente i filosofi del diritto dicendo che non si occupano abbastanza del loro compito, della natura del diritto, ma questo è anche un invito agli stessi; Croce partirà col definire il diritto e poi parlerà di ciò di cui la filosofia del diritto deve parlare. 16/01 “Il rapporto di dritto e morale, che il giurista von Jhering chiamava il capo Horn (o capo delle Tempeste) della scienza giuridica, mi sembra, in verità, il capo dei Naufraghi. L’indole dell’attività giuridica rimane ancora oscura, e non si è riusciti a distinguere davvero da quella dell’etica.” Il problema è quello della definizione dell’oggetto della filosofia del diritto, è difficile trovare i confini dell’oggetto; nelle pagine di Croce questo problema si rivede nella dicotomia tra diritto e morale. Croce si rifà subito a Jhering che definì lo scontro tra diritto e morale come Capo Horn, capo delle tempeste, ma è anche capo dei naufragi, quelli che hanno attraversato il mare di questo problema hanno perso contro le tempeste e sono naufragati. Croce è un grande costruttore di metafore esplicative e quella di Capo Horn sembra una storia semplice che parla di fallimenti, ma è molto di più… “Se non si è riusciti, - si potrebbe dire, - gli è che la distinzione non esiste; e la filosofia del diritto dev’essere puramente e semplicemente assorbita nell’etica. – Ma a questa conclusione resiste ostinatamente una certa confusa coscienza, che è in tutti, dell’elemento differenziale, che il diritto contiene rispetto alla morale. E le si oppone poi con energia tutta la storia della filosofia del diritto, la quale è sorta appunto dalla necessità di fissare la distinzione di diritto e morale. “ Parte il primo filosofo del diritto, arriva a Capo Horn e si inabissa, il secondo invece di evitare quella strada la percorre e così tutti gli altri, forse perché non c’è distinzione tra diritto ed etica, forse il diritto va ridotto all’etica, ma a questa convinzione si oppone tutta la storia della filosofia del diritto che è nata proprio per distinguere diritto e morale. Nonostante tutti si siano inabissati, ogni filosofo percorre questa rotta con ostinazione ed energia, ma soprattutto resiste con quella che è una certa confusa conoscenza sull’elemento differenziale, un elemento che sa esistere, ma non sa distinguere; per quanto sia una storia di naufragi, questa è la storia di marinai che devono scoprire qualcosa, devono scoprire cosa c’è dall’altra parte del Capo, i filosofi del diritto sono attirati da Capo Horn, devono andarci nonostante i fallimenti altrui. Il problema è molto importante, tutta la storia della filosofia del diritto si caratterizza per questa ricerca. È in questa rappresentazione che c’è il punto di continuità più grande tra la Riduzione e la filosofia della Pratica. La storia di Capo Horn va letta come storia eroica. “è codesta, come da alcuni si è riconosciuto, una storia assai recente, e non a torto si è fatta risalire non oltre la fine del secolo XVII, ossia a Cristiano Tomasio. Fino a quel tempo non si può parlare propriamente di una filosofia del diritto: i trattati sul diritto e sullo Stato, in ciò che contenevano di filosofico, erano nient’altro che trattati di etica; non già solo perché le due scienze fossero materialmente unite negli stessi libri, ma proprio perché i due concetti erano indistinti.” Croce sa che la filosofia del diritto è giovane, per lui ha una data di nascita, il 1705. Filosofia del diritto è il nome di una disciplina universitaria, lui studia i libri degli insegnanti della filosofia del diritto, ma quando dice che la filosofia del diritto è giovane non si riferisce alla materia universitaria, ma filosofia del diritto come sapere filosofico. Tutta la filosofia classica da Croce viene esclusa dalla storia della filosofia del diritto, questo perché, e qui si rifà alla dicotomia tra diritto e morale, Thomasius fu il primo a capire che il problema era distinguere diritto e morale e tematizzò questo problema, tutti quelli prima di lui non lo hanno fatto, perché affinché sia possibile distinguere, parola molto importante nella filosofia crociana, si devono avere solo due elementi: diritto e morale, questa dualità va tenuta sempre.; gli altri avevano assorbito il diritto nell’etica oppure perché aveva dissolto l’etica nella forza. Perdendo il dualismo si perde il presupposto della distinzione Per Croce, Thomasius vede, affronta e risolve, a modo suo, il problema, soluzione di cui Croce non è soddisfatto. Thomasius è il primo a naufragare a Capo Horn ed ha imposto agli altri di affrontare il problema della distinzione tra diritto e morale. In una metafora successiva, Croce dice che il problema della distinzione tra diritto e morale pesa sullo stomaco dei filosofi del diritto, un peso che non riusciamo né a digerire (risolverlo) né a rigettare (accantonare, ignorare). È un problema esistenziale che non si riesce a risolvere. Prima di Thomasius non si può parlare propriamente di filosofia del diritto; croce qui analizza una delle due cause della perdita del dualismo diritto-morale: l’assorbimento del diritto nell’etica, i trattati sul diritto e sullo Stato che avevano tratti filosofici non erano altro che trattati di etica. Il problema della confusione non nasce dall’affrontare i due temi nello stesso libro, lui stesso tratta la filosofia dell’economia (agire in vista dell’utile) e l’etica (agire in vista del bene), ed aveva appena deciso di affrontare le due materie nello stesso libro. Il problema era stato affrontato, ma non realmente, né nella tradizionale riflessione sulla giustizia o diritto naturale (trattati di etica) perché l’etica fagocitava il diritto, ma neanche nella tradizionale riflessione sulla forza e sull’utilità (Hobbes e Spinoza) in cui la forza fagocitava l’etica. “questa rozza distinzione di un diritto naturale e di un diritto positivo, di un diritto assoluto e di uno relativo, di un diritto ideale di fronte a quello reale, persiste e ricompare in Tommaso d’Aquino e in altri scolastici. E niente più di questo si trova in quei pensatori del secolo XVII, che fondarono il cosiddetto Diritto naturale, come nel Grozio e nei suoi seguaci” A proposito della riflessione sulla giustizia e sul diritto naturale, Croce dice che con il libro quinto dell’etica nicomachea di Aristotele si inizia a riflettere sulla giustizia, ma non c’è il problema della distinzione tra diritto e morale, lo stesso vale nel diritto romano; per lui il primo che ci si avvicina un po’ di più è Tommaso d’Acquino insieme a quelli che hanno “fondato” il diritto naturale, ma non ci sono mai davvero arrivati. “egualmente, molti secoli dopo, Hobbes mosse dall’utilità e quindi dalla guerra di tutti contro tutti, spinto ciascuno dall’unità, - donde dedusse la necessità della confederazione e della pace; - e Spinoza, svolgendo le stesse idee con maggiore rigore filosofico, identificò il diritto con l’appetito che determina ad agire, e posa la misura di esso nella potenza, non dubitando d’illustrare il suo concetto con l’esempio dei pesci grossi, che hanno la potenza, e quindi il diritto, di mangiare i più piccolo. In codesto tipo di teorie non si ha più, è vero, l’assorbimento del diritto nell’etica, ma non già perché l’uno sia stato distinto dall’altra, sibbene perché l’etica stessa è stata negata in quel che ha di proprio. Cade il problema della distinzione, perché ne cadono i termini.” Se manca il momento della distinzione c’è l’identità delle due forme, se manca il momento dell’unità delle due forme, non c’è distinzione, ma solo empirica distinzione; Thomasius non ha saputo analizzare l momento di unità e quindi quella che per loro era una separazione, per Croce era un’empirica separazione. 24/01 Per Croce vedere le differenze è possibile solo se si individua il terreno comune dei due argomenti di discussione. Thomasius pone il problema di morale e diritto per la prima volta nel campo normativo, la distinzione di Thomasius è una tripartizione, oltre a diritto e morale c’è il costume sociale. Thomasius nasce nel 1655 a Leipzig, si laurea a Francoforte ed inizia la sua carriera da professore universitario a Lipsia prima di andare a Berlino, dove scrive la sua opera “Fondamenti del diritto della nature e delle genti”, nel 1705. La felicità si ricerca in una condizione di pace, per fare ciò l’uomo deve vivere una vita in accordo con i principi di decoro, giustizia e onestà, tutti e tre le dimensioni del normativo. Benché Croce non sia soddisfatto della partizione di Thomasius, questa è profonda e che merita una particolare attenzione, cosa che Croce non fa. Thomasius ragione con la mente di un uomo del 1700, fa una rappresentazione schematica dei tre principi. Il principio dell’onestum individua il dominio della morale nel campo della pratica; Thomasius traduce ogni idea di questi principi in un comando, il principio dell’onestum prescrive che “quello che vuoi che ogni uomo faccia a sé stesso, fallo anche tu a te stesso”, ogni uomo lavora su stesso autonomamente per migliorarsi e innalzarsi. Nella enunciazione dell’onestum c’è un riferimento agli altri, che però non prevede un’interazione con gli altri, questi sono solo un mero metro paragone. Il lavoro morale si conduce “nel silenzio della propria stanza” e questo lavoro è un lavoro che si può insegnare nel modo migliore possibile grazie agli esempi, ricevendoli e, se si possiedono le capacità, dandoli; la regola fondamentale è quella del pentimento, ci si deve rendere conto dei propri limiti e difetti per superarli. Il secondo principio è quello del decorum, il costume sociale; l’esortazione qui è “quello che vuoi gli altri facciano a te, tu fallo a loro”, qui gli altri sono un termine di relazione (oltre che di paragone), questo principio regola relazioni sociali. Il paradigma qui è quello della spontanea remissione di un debito; il creditore si aspetta un qualcosa, che è dovuto, il debitore deve dare qualcosa, questo principio elimina la visione del creditore, il quale cancella il debito con un gesto gratuito. Il dono è dono solo se non si pretende nulla indietro, è un gesto di generosità, allo stesso modo lo è la remissione del debito; qualcosa che ci è giuridicamente dovuto viene rimesso, questo è il massimo della generosità. L’uomo acquisendo le regole del decorum si acquisiscono nuovi amici. Questa condotta sociale è ispirata da un premio, se noi siamo generosi, gli altri saranno (o forse sentiranno di dover essere) generosi con noi. Il principio del iustium è il principio del diritto; la massima è “non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te”, il diritto stabilisce una relazione differente da quella del decorum (che è proiettiva), ci invita ad astenerci; il diritto ci offre maggiori garanzie, il decorum no, potremmo andare ad invadere lo spazio altrui, il dono potrebbe non essere ben accetto, solo non entrando nella sfera altrui siamo sicuri di vivere in società, a causa del timore della sanzione; la relazione con l’altro va ridotta all’osso, anche se questo non porterà a creare nuove amicizie. Thomasius lavora molto sulla schematizzazione delle tre dimensioni del normativo, ed è utile a misurare e confrontare questi comportamenti nella giusta propensione nei confronti altrui, ogni via porta a risultati diversi; quindi, vanno perseguite tutte e tre le strade. Lo schema è diviso nel bene che possono dare le vie e nel male che possono evitare di recare le vie: la via morale, dell’onestum, è la via del bene massimo, ma è la via del male evitato minore, all’opposto lo iustum è la massima via del male evitato, ma la minore del bene; il decorum sta nel mezzo, non produce il bene massimo come l’onestum, ma produce del bene perché ci proietta verso l’altro, ma è chiaro che questo bene medio evita anche un male medio, le relazioni vengono agevolate, ma non ho le garanzie del iustum. Thomasius non pensava che questi principi potessero escludersi se l’obbiettivo era vivere una vita felice ed in pace, ma dedicò la sua principale attenzione a morale e diritto; se le risposte sono sempre sì e no ed i parametri sono 3, servono 2 criteri distintivi:  intersoggettività, socialità, esteriorità: la condotta della morale non ha alcuna interazione con l’altro, non c’è una proiezione verso l’esterno, non devo fare nulla nei confronti altrui né loro a me; questo criterio distingue la morale dal costume e dal diritto  coattività: le regole che governano il campo del diritto sono regole coattive e sono le uniche con questa caratteristica lo iustum è l’unico che ci comanda ad una condotta omissiva, al non fare, morale e costume al contrario ci chiedono di fare, questo crea una distinzione a priori del diritto dalla morale e dal costume. Questa soluzione per Croce non è soddisfacente, la pensa filosoficamente carente, perché esteriorità e coazione sono concetti interessanti, ma non filosofici, bensì empirici (o pseudoconcetti); i concetti empirici sono quelli con cui lavorano le scienze, i concetti veri sono quelli della filosofia. La parola scienza è particolare per Croce, con più significati, quando parla di scienze empirica usa l’aggettivo o il plurale, se usa il singolare e senza aggettivo, parla di filosofia. La coercizione e l’esteriorità hanno un solo merito nella filosofia, hanno, si, indotto i filosofi del diritto in errore, ha dato loro la possibilità di credere con convinzione che il diritto andasse distinto dalla morale, gli ha dato una strada che non porterà mai a risolvere il diritto nella morale, la strada di Capo Horn. “Dal Tomasio in poi, c’è, nella coscienza filosofica moderna, questo pensiero, di un quid distintivo rispetto alla morale, di un carattere prettamente giuridico, che non è carattere etico. C’è questo pensiero, ed esso torna ad onore della filosofia moderna ed è indizio del progresso compiuto.” queste parole sono importantissime, ci ricordano che Croce apprezza Thomasius per aver indicato la via, la via che è, si, quella dei Naufragi, ma è la via del progresso. “Tuttavia, questa determinazione nuova, questo concetto della giuridicità o legalità, non si è fuso nell’organismo spirituale, quasi alimento datore di forza; ma resta come qualcosa di non ancora digerito, che persi su uno stomaco, il quale non abbia la forza né di espellerlo né di assimilarlo.” Non si riesce a risolvere il problema, ma non si può fare a meno di affrontarlo “Eliminarlo, tornando all’innocenza antica, che altri lamenta perduta, non si può: dominarlo, collocandolo al posto che gli tocca non si sa. Per collocarvelo, bisognerebbe conoscerlo bene, nella sua precisa natura e relazione; e proprio questa conoscenza precisa non si è ancora raggiunta.” Non ci si può liberare del problema, il problema è stato imposto, involontariamente, da Thomasius; dominarlo, conoscerlo a fondo è una cosa che il filosofo del diritto non può fare perché non ha ancora le conoscenze per distinguere diritto e morale per bene. Per conoscerlo bene lo si deve conoscere nella sua natura e nella sua relazione, cos’è il diritto e che relazione ha con la morale. È una relazione complessa di distinzione e che descrive il momento dell’unità e della distinzione tra diritto e morale. Al filosofo del diritto manca la compiuta consapevolezza della autonomia del primo grado dello spirito pratico che è unito e distinto rispetto al secondo dal quale è completamente distinto, manca la conoscenza del momento premorale dello spirito pratico, che è il momento giuridico-economico-politico. Da giovane, Croce, aveva denominato il momento premorale come momento politico, diventerà col tempo economico; Croce, quando scrive la filosofia della pratica si sofferma sulla filosofia del diritto (non della politica o dell’economia), perché è il terreno sul quale i filosofi si sono esercitati nel cercare di distinguere il primo grado, il diritto, che è autonomo e diverso dal secondo, la morale, Croce riuscirà a spiegare questa distinzione nell’unità proprio nella riduzione; i filosofi a cui allude sono i naufraghi di Capo Horn. 6/02 Thomasius pone per primo il problema della distinzione e li pone in termini sufficientemente critici, non limitandosi a separare le cose, ma problematizza i due momenti del normativo, che in realtà sono 3. I principi indicati vanno seguiti tutti (momento dell’unità), perché ciascuno di essi governa una porzione perimetrabile dell’elemento del normativo (momento della distinzione. La soluzione di Thomasius non risolve il problema, ma lo vedo e lo impone a quelli venuti dopo di lui; questo pensiero imperfetto torna ad onore della filosofia moderna (tutta, non solo quella del diritto) ed è un indizio del processo compiuto. Croce sa che è nella storia della filosofia che questa dicotomia è venuta fuori. Questo lavoro della filosofia del diritto, per quanto fallimentare, è un lavoro importantissimo. La metafora dello stomaco funziona bene per far capire come il problema non si riesca a risolvere, ma non si possa eliminare, soffrendo l’incapacità di risolvere «Infatti, quali sono le formole, con le quali si è procurato di cogliere e limitare l'elemento differenziale o carattere distintivo del diritto, e che si trovano più comunemente ripetute? Sono due: quella della coazione, e quella dell'esteriorità [...]» «Il paragone migliore e offerto anche questa volta dall'attività estetica. Nessun poeta crea il suo poema fuori di determinate condizioni di luogo e di tempo; e anche quando egli sembra e viene appellato "anima d'altri tempi', appartiene al suo tempo. La situazione storica gli è data; il mondo delle sue percezioni è quello: con quegli uomini, quei costumi, quei pensieri, quelle opere d'arte precedenti. Ma, quando il nuovo poema è sorto, c'è nel mondo della realtà (nella contemplazione della realtà) qualcosa che prima non c'era, corrispettivo alla situazione data, ma non identico: una nuova forma, e perciò un nuovo contenuto, rivelazione di una verità prima non conosciuta. Tanto che, a sua volta, quella nuova poesia condiziona un moto spirituale e pratico, ed entra a comporre la situazione, che sarà data per le future azioni e le future poesie» L’azione è corrispettiva ad una situazione storica data, ma l’azione modifica quella storia, quando l’azione viene in essere le condizioni cambiano, nessun'azione ripeterà un’azione precedente in modo identico, ogni azione è unica, è un qualcosa che accade una volta soltanto ed è conosciuta perché è accaduta una volta. Volizione ed azione per Croce sono identica, ma egli preferisce usare volizione a volontà, perché è più pratica e concreta, non è un concetto generale; la volizione è il volere in atto. 7/02 Il concetto generale dell’azione ha un carattere complesso, perché l’azione è sempre libera, l’individuo agisce su una base autonoma azione volitiva, e coatta, tenendo conto delle circostanze date. Ogni azione, anche se sottoposta ad una dura coazione, è libera, libera non vuol dire sciolta dal tempo storico dalle circostanze in cui si realizza, anzi, sono il fondamento dell’azione; quelle azioni di fatto sono le azioni da cui l’azione viene in essere e dunque non può replicare le azioni di fatto da cui è sorta. Il concetto dell’azione è importante perché ciò di cui si occupa la filosofia della Pratica e la filosofia del diritto in generale è l’agire degli uomini. “Ma, rettificato l’inaccettabile concetto Rileviamo subito che per Croce il concetto di coazione non è un carattere differenziale di diritto dalla morale, ci aiuta a notare il problema, ma non lo risolve. Definizione di azione: azione che l’uomo compie sempre come forza tra le forze delle circostanze date; Quando dice forza si rifà alla volizione, che però da sola non basta a creare l’azione, servono anche le altre forze delle circostanze storiche date. Possiamo anche guardare all’azione come l’operare delle circostanze e del voler coatto che hanno a che vare con il potere della volontà. “Alle stesse peripezie L’approccio al tema dell’esteriorità parte dall’onda della coazione; l’esteriorità sembra ricordarci che il problema esista, ma che non si sa ancora risolvere, questo perché anche l’esteriorità è un carattere empirico che è comune a diritto e morale anziché un momento distintivo “Interno ed esterno Nel problema dell’esteriorità vediamo il problema del rapporto tra azione e volizione e prima ancora il rapporto tra attività pratica ed attività teoretica; azione e volizione si congiungono e si identificano. Azione e volizioni sono quello che sono se sono consapevoli, senza conoscenza non è possibile nessuna volontà. La conoscenza che serve per volere è la conoscenza storica, la percezione, l’intuizione penetrata dal concetto: la percezione è continua e continuamente cangiante; per l’uomo capire cosa ha intorno è un esercizio continuo e ciò porta ad un riposizionamento della posizione di fatto a parti dalle quali il volere si estrinseca. La conoscenza storica precede e prepara la volizione, ma questa dinamica si avvolge su se stessa, ogni azione modifica le condizioni di fatto e così tutte le azioni e tutte le volizioni di tutte le persone che circondano il soggetto. Per Croce intenzione, volizione ed azione descrivono un unico momento: non si può agire senza volerlo, e non si può volere un qualcosa senza poi farlo. Questi 3 momenti sono ricomponibili in 1, ma mantenere di questa pluralità di termini serve ad aiutarci le prospettive da cui guardare le cose, pur sapendo che sono un unico momento, i singoli termini hanno un loro significato. “Come la poesia vive tutta nelle parole e la pittura nei colori, così la volizione vive nell’azione, non perché l’una stia nell’altra come in un involucro, ma perché l’una è l’altra, e resterebbe, senza l’altra, mutilata e inconcepibile” Il modo di pensare la poesia per Croce non fa distinzione tra intenzione ed azione, il poeta non si figura nella mente i versi e poi li esprime, non c’è poesia prima di quelle parole, tutto avviene insieme: cognizione ed azione avvengono insieme, non c’è un momento precedente l’espressione. Lo stesso vale per il pittore ed i colori. L’opera nella mente ha già quella forma, prima non c’è nulla. «Un paralitico (si dice) vuole levarsi e correre; il suo spirito è libero, ma la sua azione è costretta; ha la libertà del volere, non quella dell'azione. Ma in realtà il paralitico non vuole sul serio levarsi e correre; cioè, non vuole niente affatto. [...] il paralitico non vuole, perché sente di non potere; tutt'al più, vorrebbe, ossia desidera di trovarsi in condizioni diverse da quelle in cui si trova per poter altrimenti volere da quel che ora vuole e fare altrimenti da quel che ora fa, che è di starsene tranquillo. Ciò conferma l'identità di volizione e azione» Una volizione che non si può tradurre in azione non è volizione, è un desiderio, un sogno. Per distinguere volizione ed azione possiamo pensare a qualcosa che si realizzerà, ma che è indipendente dalla nostra volontà.” La nascita dell’azione dipende dalla forza del soggetto e dalla forza delle circostanze date; mi proietto verso una cosa, la voglio ed agisco, questa è la teoria, ma in pratica ciò che accadrà davvero dipenderà dalla forza del soggetto e dalle circostanze date: le leggi, ciò che fanno gli altri, il caso La volizione ci impegna come soggetti agenti. Nelle pagine in cui si impegna a spiegare che volizione ed azione coincidano, Croce dice che il motivo per cui si crea confusione e si crea un momento di distinzione tra azione e volizioni è perché si confonda azione con accadimento. L’accadimento, al contrario dell’azione, è ciò che risulta, sono tutte le circostanze a cui ogni singolo partecipa con le sue azioni «L'azione è l'opera del singolo, l'accadimento è l'opera del Tutto: la volontà è dell'uomo, l'accadimento è di Dio. O, per mettere questa proposizione sotto forma meno immaginosa, la volizione dell'individuo è come il contributo ch'esso reca alle volizioni di tutti gli altri enti dell'universo; e l'accadimento è l'insieme di tutte le volizioni, è la risposta a tutte le proposte» L’accadimento è il tutto, e l’immagine più vicina al tutto è Dio, l’azione concorre all’accadimento; l’accadimento trascende l’azione. «Come senza necessità non si ha libertà, perché senza situazione di fatto non si dà volizione; del pari senza libertà non si dà necessità, ossia non si formano le situazioni di fatto, sempre nuove e necessarie rispetto alle nuove volizioni: perché le situazioni di fatto sono nient'altro che gli accadimenti, e questi nient'altro che il risultato delle volizioni singole. I due termini non si possono separare: tolto l'uno, è tolto l'altro; ma non si possono neppure considerare identici, a mo' di sinonimi. Sono i due momenti, distinti e uniti, dell'atto volitivo, che è l'unità dei due, necessitato e libero insieme» Si conosce il rapporto di perfetta identità di azione/volizione e lo iato che corre tra azione ed accadimento rispetto al quale l’azione è solo una porzione. Accadimento non è altro che il risultato dell’azione. Lo iato è solo tra accadimento ed azione, ma non tra intenzione, volizione ed azione; chi non ha le idee chiare circa azione ed accadimento e lo confondono pensando le azioni nei termini dell’accadimento vedono una differenza tra azione e volizione. «Ma, allorché si parla delle azioni giuridiche come di azioni esterne, non si vorrà dire, per avventura, che esse sono bensì anche interne, ma che la loro interiorità non è quella della morale? e che perciò si chiamano esterne, cioè esterne alla morale, cioè distinte dalla morale? Credo che sia così; ed è questa la sola spiegazione che possa darsi della tenacia con cui si è afferrata, nel campo della scienza giuridica, la determinazione dell'esteriorità: la sola che giustifichi questa tenacia, che è il riconoscimento dell'importanza di un signum. Solo che questo signum, a chi lo studi attentamente, si rivela, non come un punto fermo, ma come un punto interrogativo; non come una soluzione, ma, anch'esso, come un problema» Il riferimento all’esteriorità, come il riferimento alla coazione, non risolve il problema, ma non è un riferimento inutile, ha una funzione nella storia: ha, si, ingannato molti, ma dietro questo inganno si continua ad enunciare l’esistenza di una differenza tra diritto e morale. La riduzione dovrebbe presupporre il concetto generale dell’azione, ma non essendo un trattato non c’è una propedeutica in cui Croce ci presenta i caratteri generali di questo concetto, si serve della critica della coercizione e della esteriorità per costruire questo concetto dell’azione nella sua identità con la volizione, nella sua differenza con l’accadimento e in questa dialettica essenziale che è la dialettica della «Ma, se il lecito come lecito non appartiene all'etica, donde ci proviene dunque questo concetto? Per l'appunto, dal campo del diritto. Giacché la legge, com'è noto, aut iubet aut vetat, o meglio, comanda sempre, e non ha il compito di permettere, salvo che non dia un chiarimento circa l'estensione del comando o non tolga un comando anteriore; nel qual caso si ha un comando che distrugge un comando, e non già una permissione. Ma si deve notare che, se la legge non ha accanto a quella del comando la funzione speciale del permettere, gli è appunto perché il suo comandare è, nel tempo stesso, un permettere. Le leggi comandano, e, delimitando così il campo delle azioni che esse impongono, stabiliscono per ciò stesso il confine delle azioni permesse; tali infatti sono tutte le altre, dalle leggi non menzionate. Perciò, si può dire, indifferentemente, e che il diritto si riferisca al comandato, e che si riferisca al lecito. Lecito, insomma, significa,— conforme alla sua etimologia, — quello che è lasciato dalle leggi, quello che è fuori di esse; e richiama, per correlazione, quello che la legge comanda e non lascia fuori indiscriminato» «Ciò posto, coloro che dicono che il diritto si restringe al campo del lecito, non dicono altro se non che il diritto si riferisce al campo della delimitazione giuridica; ossia, che il diritto è il diritto. Che il diritto sia distinto dalla morale, è ciò che riconosco ancora una volta: che venga effettivamente distinto con tal giuoco di parole del comandato e del lecito, delle leggi e della liceità, è ciò che nego» Di fronte al fallimento della liceità come elemento distintivo del diritto dalla morale, ma dichiara che il problema esiste ed è insoluto Concetto generale di azione:  Coazione: libertà e necessità dell’azione; l’azione deve essere voluta, anche se condiziona dalle circostanze storiche che la circondano, la dialettica di libertà e necessità ci ha fatto capire che le condizioni non sono statiche, in quanto ogni azione modifica le condizioni che l’hanno, appunto, condizionata e dunque non esistono due azioni ugnali tra loro  Esteriorità: Volizione, azione, accadimento; volizione ed azione sono identiche, non si dà una volizione, se non è destinata a tradurre in azione e viceversa (un azione non voluta è un movimento involontario), mentre invece l’accadimento è ben diverso dagli altri due termini, l’accadimento è il risultato dell’azione, delle condizioni preesistenti che l’hanno condizionata e tutte le altre azioni operate da ogni persona; l’azione concorre all’accadimento, l’accadimento genera le condizioni di partenza di una nuova azione.  Liceità: non esistono azioni moralmente indifferenti; talvolta viene rappresentata l’indifferenza di una certa azione rispetto alla moralità, non perché moralmente indifferente, ma perché quell’azione è il risultato di un processo di astrazione in cui il giudizio morale è sospeso. «Ciò posto, coloro che dicono che il diritto si restringe al campo del lecito, non dicono altro se non che il diritto si riferisce al campo della delimitazione giuridica; ossia, che il diritto è il diritto. Che il diritto sia distinto dalla morale, è ciò che riconosco ancora una volta: che venga effettivamente distinto con tal giuoco di parole del comandato e del lecito, delle leggi e della liceità, è ciò che nego» Nel più ampio dominio della morale, il diritto occupa una porzione caratterizzata da alcune specificità che identificano il diritto come specie della morale. La distinzione quantitativa che si fa del diritto non soddisfa croce, in quanto empirica «Se non che, il guaio è proprio questo, che, col minimo e col massimo, si introduce una determinazione quantitativa, di più e di meno; e cioè si confessa l'impossibilità di una distinzione rigorosa e filosofica. Lasciando stare che le azioni umane non sono suscettibili di misurazione, il problema non è poi qui di misurarle, ma di distinguerle qualitativamente. [...] Come concetto filosofico, quello del minimo morale non resiste; e la conclusione che si deve trarne è che, se il diritto è il cosiddetto minimo morale, diritto e morale s'identificano, giacché il più e il meno non appartengono alla considerazione degli universali. Se non che, questa identificazione per l'appunto, si voleva evitare da coloro che proposero il concetto del minimo morale; e la conchiusione più esatta è, dunque, sempre, che con tali sforzi si riafferma bensì l'esigenza di un carattere distintivo del diritto, ma non si riesce a darlo» 19/02 La riduzione si apre con una esplicitazione da parte di Croce circa il problema reale che lui ha riconosciuto dopo aver letto i libri di filosofi del diritto: questi autori hanno discusso del carattere filosofico della filosofia del diritto; Croce è d’accordo con loro, tanto che la ritiene una cosa tanto ovvia da divenire un inutile e dannoso oggetto di discussione. L'unico problema del filosofo del diritto è la determinazione filosofica dell’oggetto del saper, il diritto. Croce, per definire il diritto, ci presenta un’opzione metodologica del suo lavoro: per determinare il diritto esso va distino con la morale; definire in cosa questi due termini sono uniti ed in cosa no. Da questa impostazione metodologica discende la centralità che Thomasius ha avuto nel pensiero pratico occidentale, tanto da essere ritenuto l’uomo che ha fatto nascere la filosofia del diritto, secondo Croce, per quanto l’inglese non trovi una soluzione valida, di fatti la forza di Thomasius è stato vedere il problema ed “imporlo” ai suoi successori. I filosofi del diritto, compreso Croce, non potevano prescindere dal vincolo che le condizioni date avevano generato; era impossibile abbandonare la strada indicata da Thomasius, pur dovendo naufragare lungo questa rotta, convinti di trovare delle soluzioni. Croce dedica molte pagine del primo capitolo alla confutazione dei caratteri differenziali del diritto; in queste pagine Croce non dice solo che questi caratteri sono empirici e quindi inutili nel campo della filosofia, ma dimostra che non hanno nessuna capacità definitoria effettiva ed approfitta di queste pagine per definire il concetto, che non è un carattere differenziale, di azione generale, che è elemento di verità e dimostrazione dell’empiricità di quei caratteri dati. Insita nell’azione c’è una compresenza dialettica e dinamica del momento della libertà e del momento della necessità; Come l’azione non possa pensarsi distinta dalla volizione. Impossibilità di azioni moralmente indifferenti Croce stipula un patto con il lettore, si parla di azione in questo modo ed in nessun altro. Tutti i riferimenti a forza ed esteriorità sono stati appigli a cui il filosofo del diritto si è aggrappato per mandare avanti la lotta per distinguere diritto e morale. Forse i filosofi non hanno raggiunto il loro obbiettivo, ma hanno testimoniato in modo vivo la necessità di raggiungere questo risultato. Negli ultimi 3 paragrafi del primo capitolo Croce verifica quanto affermato, ripercorrendo per autori i grandi nomi del pensiero filosofico occidentale (Kant, Fichte, Hegel). “Tale è la contraddizione, in cui si dibatte da circa due secoli la filosofia del diritto, il diritto non sembra identico all'etica, ma Non sembra neppure semplicemente diverso, sembra identico, diverso insieme, ma l'elemento di diversità non si riesce a fissare nei concetti di esterno, di coatto ed altrettali. Il pensiero di una differenza tra le due forme di attività, come ho notato in principio, non è stato più eliminato, ma non è stato neppure trasformato e assorbito e codesta è una condizione morbosa, se è vero che ciò che nel mondo dello spirito. Contraddizione insoluta risponde, nel mondo organico, alla malattia.” La parola contraddizione dà il titolo al primo capitolo della riduzione; la contraddizione è descritta qui: il diritto è identico e diverso allo stesso tempo. I filosofi del diritto hanno sentito il fatto che c’è unità e distinzione tra diritto e morale, ma non se ne rendono conto, Croce sì e capisce anche cos’è questo qualcosa che unisce ed al contempo divide. Questa situazione è, metaforicamente, un morbo, una malattia; questa metafora è una metafora funzionale ad accreditare l’atteggiamento che Croce ha avuto per tutto il primo capitolo, ha analizzato i sintomi della malattia per combatterla. Tra i sintomi di questa malattia c’è il dualismo tra diritto positivo e diritto naturale «Il morbo, di cui quel corpo di scienza è affetto, dà fuori talvolta in manifestazioni di tanta evidenza, da non lasciar dubbi sull'esistenza e sulla gravità della malattia. È un antico dualismo, come si è notato, quello di diritto positivo e di diritto ideale, di diritto storico e diritto naturale, di legge e di giustizia: dualismo, che non trova preciso riscontro nelle altre scienze filosofiche; giacché nessuno mai ha, in logica, introdotto il concetto di una scienza ideale, contrapposto a quello di una scienza effettiva e storica; o, in estetica, un'arte ideale, contrapposta a un'arte effettiva e storica» Questo dualismo di diritto positivo e naturale è un sintomo della malattia, un sintomo della contraddizione, ma l’analisi che Croce fa è specifica del diritto, non esiste, nel campo della logica, una scienza reale ed una effettiva, una verità ed una storico-concreta, così nel campo dell’estetica non esiste il bello ideale ed il bello storico. La contraddizione viene rappresentata come una malattia perché un corpo di scienza come la filosofia del diritto può avere uno e un solo oggetto e sarebbe una contraddizione se un corpo di scienza avesse due oggetti, una contraddizione come quella che sta analizzando. La specificità del carattere della malattia, il dualismo tra diritto naturale e positivo, segna l’inizio della protostoria che Croce analizza. «Pure, finché quel dualismo resta ingenuo, alla buona, senza alcuna mediazione, come accade presso i giureconsulti romani e come ancora si trova esposto in molti trattati, il danno non è grande; giacché si Quando si esamina l’azione economica, la si può valutare e gli elementi meccanici non sono oggetti di valutazione Questa opzione economica, che Croce chiama principio economico/utile, viene chiamato da Pareto scelto, ma deve essere e non può essere non essere una scelta consapevole Nella critica della confusione del principio economico con quello meccanico, e questa critica porta ad una prima definizione dell’atto economico, l’atto economico è un’azione umana. Sembra quasi voler sovrapporre il principio economico con quello edonistico; invece, Croce sta facendo capire come si sia creata la confusione; il fatto che l’utile produce piacere, non tutto il piacere è prodotto dall’utile. Non tutto l’agire umano è improntato sull’agire economico, ma è improntato sulla ricerca del piacere, dell’utile, ecco l’evidente distinzione tra concetto economico e concetto edonista. Ci si pone il problema di riconoscere la natura dell’attività economica. Questa lettera è una lettera in cui Croce cerca di avvicinarsi a Pareto, per cercare conferma, ma spesso si va ad intricare in ambiguità, la parola “logica” ha accezioni diverse per Pareto e Croce Il volere e l’agire presuppone quel tipo di conoscenza storica che Croce denomina come percezione. Il fatto economico è un atto umano, ma è anche un atto di volontà, un atto pratico Se io confondo economico ed egoistico, l’atto economico se ne è già andato, in quanto l’atto egoistico è un atto che sto giudicando in sede morale come immorale; questo è un problema per Croce, se Queste nozioni primitive sono difficili da definire, ma non sono oscure in quanto tutti abbiamo a che fare con queste nozioni. L'estetica è un’opera sistematica, al contrario della lettera a Pareto, ed essa non è solo il libro che si occupa della prima forma dell’attività spirituale, del primo grado dello spirito teoretico, ma è il libro in cui si annuncia la struttura del sistema. È componendo l’estetica che Croce trova tanti nuovi problemi che lo portano a costruire il suo sistema in cui si distinguessero attività teoretica e pratica e in cui si distinguessero in entrambi i campi un primo ed un secondo grado. Gli anni della costruzione del sistema sono gli anni in cui Croce insiste molto sulle simmetrie tra i due sistemi. Perché un’azione possa dirsi morale (secondo grado) essa deve essere un’azione economica, volta all’utile (primo grado). Secondo croce i filosofi moderni sono arrivati tardi alla concettualizzazione del problema dell’utile Non è vero che l’economica sia un capitolo dell’etica, ma coincide con essa, in quanto è il suo campo negativo «Attività economica è quella che vuole ed attua ciò che è corrispettivo soltanto alle condizioni di fatto in cui l’individuo si trova; attività etica, quella che vuole e attua ciò che, pur essendo corrispettivo a quelle condizioni, si riferisce insieme a qualcosa che le trascende. Alla prima corrispondono quelli che si dicono fini individuali; alla seconda, i fini universali: sull’una si fonda il giudizio circa la maggiore o minore coerenza dell’azione per sé presa; sull’altra, quello circa la maggiore o minore coerenza dell’azione rispetto al fine universale, che trascende l’individuo» Volere ed agire in vista del conseguimento di ciò che è utile al soggetto che agisce, il fine universale è quello che quando l’agire dell’individuo corrisponde al bene. La prospettiva del giudizio è la prospettiva che serve a non creare confusioni, non ci sono due azioni, non ci sono due agenti che agiscono, ci sono modi diversi di giudicare l’azione: una prospettiva economica che si interessa del raggiungimento dell’utile ed una morale che vede che la sua azione è anche volta al bene. «La distinzione e autonomia rispettiva delle due forme, economica ed etica, quale siamo venuti fin qui presentandola e come è espressa anche nelle parole ‘inferiore’ e ‘superiore’ che abbiamo usate, è quella di due gradi distinti e uniti insieme: tali cioè che il primo possa concepirsi in certo senso indipendente dal secondo, ma il secondo non sia concepibile senza il primo. In quella concepibilità di esistenza indipendente del primo è il momento della distinzione; nell’inconcepibilità dell’esistenza indipendente del secondo è il momento dell’unità. Se mancasse l’una determinazione, si avrebbe identità; se mancasse l’altra, si avrebbe distinzione astratta o separazione. Perciò abbiamo battuto sul punto, che sono concepibili bensì azioni prive di valore morale e tuttavia perfettamente economiche, ma non già azioni morali, che non siano insieme pienamente utili o economiche. La moralità vive in concreto nell’utilità, l’universale nell’individuale, l’eterno nel contingente» C’è unita solo se i termini restano due e c’è distinzione, c’è distinzione solo se c’è un elemento di unità tra i termini. Il primo grado si definisce, in un certo senso, indipendente, l’astrazione del giudizio morale, mentre il secondo grado non è mai concepibile senza il primo. Ci fa vedere quali potrebbero essere le pseudo determinazioni di distinzione ed unità, la falsa unità è un’unità priva del momento della distinzione che fa scomparire il dualismo, i termini non sono distinguibili, la falsa unità porta ad identità, mentre la distinzione è solo ciò che cade tra due termini uniti, senza un’unità c’è solo una distinzione astratta. Il giudizio sull’azione economica sospende il giudizio morale ed è un giudizio che può consentirsi questa sospensione perché quale che sia l’esito del giudizio morale, non si perde l’economicità di essa; analogicamente, il momento della distinzione di diritto e morale corrisponde al momento della sospensione del giudizio morale rispetto all’azione giuridica, consentita dal fatto che il giudizio morale non comprometterà la giuridicità dell’atto ed il giudizio giuridico. «Come individuo economico, nel primo attimo, se così si può dire, in cui si affaccia alla vita e all’esistenza, egli [l’uomo morale] non può volere se non individualmente: volere la sua propria esistenza individuale. Non vi ha uomo, per morale che si dica, che non cominci così: come mai potrebbe superare e perfino negare la propria vita individuale, se prima non l’avesse affermata, e se a ogni istante non la riaffermasse? Ma colui che si arrestasse all’affermazione dell’individuale, considerando come luogo di riposo quello che è il primo passo di uno svolgimento, entrerebbe in contradizione col profondo sé stesso. Egli deve volere non solo il sé stesso individualizzato, ma insieme quel sé stesso che, essendo in tutti i sé stessi, è il loro comune Padre. Per tal modo, promuove il realizzarsi del Reale, vive la vita piena e fa battere il suo cuore col cuore dell’universo: cor cordium» Croce usa spessissimo questa rappresentazione, falsa, ma eloquente, di ordine temporale che ci fa credere esista un primo momento in cui l’azione diventa morale o immorale (anche se sappiamo che non è così), ma da individuo economico viene prima il conseguimento del proprio interesse e poi quello morale, ma ciò avviene sul paino del giudizio, sul piano della realtà l’azione è subito sé stessa, un mix tra utile o inutile e morale o immorale. “Di questa mancanza, o di questo ritardato sviluppo, si avvertono i dannosi effetti in tutte le parti della filosofia, e soprattutto nell'etica. Vien da ciò, tra l'altro, quell'impotenza che impedisce alla scienza etica di distruggere definitivamente l'utilitarismo: perché distruggere un sistema falso importa collocare al debito posto la parte di vero che esso contiene; e la filosofia, — dall'ellenica alla moderna, - non ha conosciuto sinora la categoria dell'economicità o utilità, quale forma distinta di attività spirituale, e non ha potuto perciò domare e dominare completamente la rivolta degli uliari e degli eudemonisti nel solo modo efficace, facendo ci ragione a quanto i he di esigenza giusta nelle loro pretese” Se guardiamo il sistema della filosofia dello spirito vediamo che gli elementi di novità stanno nel risultato alla determinazione dell’autonomia del primo grado, quindi dire che l’estetica ha a che fare con un primo momento della conoscenza, che è un primo momento di conoscenza preconcettuale, esattamente come il momento dell’azione economia è un momento premorale, che dirà poi se quella azione è morale o immorale, quindi a he l’etica consegue la sua automazione della sfera, distinguendo e categorizzando il primo momento dell’economico, si è strappato dal dominio dell’etica il momento premorale, ridando al dominio dell’etica la sua piena autonomia. L'etica storicamente si vede soffrire nella difficoltà a liberarsi dagli elementi dell’utilitarismo; Croce dice che per liberarsi di un pensiero falso si deve determinare ciò che ha di vero quel pensiero: l’utilitarismo importuna l’etica perchè dice cose vere, ma in modo sbagliato, finché non si vede il vero questi elementi sbagliati continueranno ad importunare l’etica “I concetti dell’utile e del morale, e gli sforzi che si tentarono o per annullare l’uno nell’altro o per distinguerli riconoscendo il carattere proprio di ciascuno e le reciproche relazioni, formano il problema intorno al quale si è la Filosofia della pratica in quanto Economica ed Etica. È stato mai, questo problema, risoluto, nel suo tutto, in modo soddisfacente? Sarà lecito dubitarne quando si osservi che un concetto filosofico dell’utile ì mancato fino ai giorni nostri, e che, di conseguenza, anche quello della moralità doveva mancare, cioè non poteva essere determinato con sufficiente chiarezza, perché oscuro restava il termine dal quale esso si distingue e col quale si congiunge” I rapporti tra utile e morale, il tentativo di distinguerli, riconoscendo la loro unità e la loro distinzione è il problema genetico che ha affrontato la filosofia del diritto da Thomasius in poi, quindi, per Croce, dalla nascita della materia. Il risultato più importante è l’autonomia del primo grado, e finché non si consegue questo risultato anche il secondo, per quanto sembri dominare indisturbato, è concettualmente confuso. L’utilitarismo trasforma l’etica in una scienza positiva della condotta umana, una scienza esatta, tende a sostituire il riferimento al fine col riferimento al movente dell’agire umano, che è la ricerca dell’utile, del piacere, immaginando che vi sia un carattere super individuale del piacere come movente individuale e che ci sia una coincidenza tra utilità privata ed utilità pubblica. “Questa identità e differenza insieme dell'utile e del morale, dell'economico e dell'etico, spiega la fortuna che ha avuto, e ha ancora, la teoria utilitaria dell'Etica. Infatti, è facile ritrovare e porre in mostra in qualsiasi azione morale un lato utilitario; com'è facile mostrare in ogni proposizione logica un lato estetico. La critica dell'utilitarismo etico non può muovere dal negare questa verità, affannandosi a cercare esempi inesistenti e assurdi di azioni morali inutili; ma deve anzi ammettere il lato utilitario e spiegarlo come la forma concreta della moralità, la quale consiste in ciò ch'è dentro questa forma: un di dentro, che gli utilitaristi non scorgono. Non è questo il luogo dove si possano svolgere con la debita ampiezza tali idee; ma l'Etica e l'Economica (come abbiamo detto della Logica e dell'Estetica) non potranno non avvantaggiarsi entrambe di una più esatta determinazione dei rapporti che intercedono tra loro.” Non si può negare che l’azione etica abbia un lato utilitario ed è per questo che l’utilitarismo, come un parassita, si è ripresentato sempre nell’etica, perché non si può negare che ogni azione morale abbia una utilità, le azioni non utili non possono essere azioni volontarie e cercare azioni morali non utili è impossibile ed inutile. L'affermazione storica di Croce è che è mancato il principio economico e conseguentemente anche la più esatta definizione di concetto etico è mancata; bisogna sempre individuare il concetto nella propria natura e nelle relazioni che lo compongono. La forma concreta è l’azione utile, che si può riempire di un contenuto morale o immorale, il contenitore non muta, il contenuto sì. 27/02 “Checché sia di ciò, concepita una scienza filosofica dell'economia, e dato al concetto dell'utile o dell'economico il suo peculiare contenuto, il problema del diritto si configura diversamente. Noi sappiamo che l'attività economica non è altro che l'attività pratica, presa semplicemente come tale, prescindendo cioè dalla determinazione di essa come morale o immorale. È il fare dell'uomo, il quale, come individuo, vuole, e non può non volere, l'individuale; ed è quindi la forma prima, — e comprensiva di ogni altra forma ulteriore e più determinata, - in cui si presenta l'attività pratica. Ogni azione può essere quindi considerata o come pura azione, pura volontà; e questo è il punto di vista economico: o la storia della filosofia moderna tutta, o quantomeno quella della pratica, perché nello stabilire che c’è qualcosa nell’attività pratica dell’uomo che si distingue della pratica, ma è in relazione con la morale: il principio economico e si ascrive come suo merito la dimostrazione che lo spirito pratico vive di una sua interna dialettica entro la quale c’è la categoria della moralità, ma c’è qualcosa che congiunta se ne distingue: la categoria economica; tutto questo nella storia della filosofia del diritto c’è già stato, non in una soluzione, ma tutto ciò si è concretizzato nel campo stesso della filosofia del diritto, che diventa il laboratorio della prima teorizzazione dell’esistenza di un momento pratico premorale. La riflessione filosofica sull’economia è recentissima quando egli scrive la Riduzione, dice a Pareto che la sua è una vera scienza, la scienza razionale dell’economia. Pareto si pone il problema di porre il problema del principio economico, ed è la storia della filosofia del diritto che si affondano le radici della risoluzione del problema, perché il problema si è visto con Thomasius e con i suoi discepoli è rimasto il problema centrale. La filosofia moderna non può fare a meno di porre il momento premorale della pratica. Tutto quello che sul piano della filosofia della Pratica è stato tenacemente dal filosofo del diritto. Croce sa che la storia del suo problema sta nella filosofia del diritto, ma la soluzione travalica la filosofia del diritto e si espande a tutta la filosofia moderna. La Filosofia della pratica ha un vantaggio, ha la Riduzione alle sue spalle, ma soprattutto ha tempo, Croce ha tutto il tempo di riflettere e modificare quanto vuole la Pratica. «La storia della distinzione di morale e diritto ha importanza che supera questo problema particolare, appunto perché nel corso di essa si affaccia a più riprese l'esigenza di una filosofia della forma aetica o premorale dello spirito pratico, e anzi di tale esigenza quei tentativi di distinzione si possono considerare come l'indizio più forte tra gli altri già da noi passati in rassegna» La storia della filosofia del diritto è il laboratorio concettuale della Filosofia della Pratica, dire ciò è il chiaro segno di come quell’irrefrenabile esigenza di trovare un momento premorale, dove il giudizio morale è sospeso per valutare l’economicità dell’azione. Solo un ingenuo può credere che nelle memorie di estetica e logica il collegamento con le opere finali si vede benissimo mentre tra Riduzione e Pratica questo collegamento non si vede, la Filosofia della Pratica… ciò che viene tematizzato nella Riduzione è il rapporto tra primo e secondo grado. Questo problema ha una storia che sta nella filosofia del diritto. Croce preferisce denominare questo momento premorale con il termine economico perché politica e diritto sono termini pieni, hanno una storia millenaria, la parola economia no; nella riflessione dei filosofi del diritto c’è il problema fondamentale della filosofia pratica moderna. 4/03 «Piuttosto potrebbe muoversi il dubbio — ed è un dubbio che qui si accenna per semplice scrupolo di chiarezza, - che il diritto non sia attività pratica; perché esso si è fatto talvolta consistere nella conoscenza di certe verità, o nel riconoscimento di alcune regole, ossia in un'adesione mentale, che può sembrare essenzialmente teoretica. Ma è evidente che il momento giuridico non consiste in quel conoscere, riconoscere o aderire; sebbene nella risoluzione pratica, nell'atto di volontà, che segue alla semplice conoscenza. [...] Il fatto giuridico è, dunque, sempre, fatto pratico o di volontà» Ci sono due indicazioni importanti sulla storia del diritto e sulle leggi, che ci fanno capire come il diritto non sia un atto teoretico, ma pratico, sulla storia del diritto scriverà altro nell’ultima pagina della riduzione, anche circa la legge se ne parlerà più avanti. Cita queste due cose per ribadire che il diritto non è il momento della conoscenza, ma il momento successivo. Croce parte dicendoci che l’attività giuridica non è attività morale. «Ripetiamo perciò la domanda: - l'attività giuridica è attività meramente economica, o è attività morale? — sicuri d'insistere così sul punto vero e proprio della questione. E, nel rispondere, io credo che si debba subito riconoscere il carattere non etico dell'attività giuridica, considerata in sé. So bene che molti non vogliono sentir parlare di diritti immorali; si scandalizzano non appena odono questa formola, e torcono risolutamente e ostinatamente lo sguardo, quando sono invitati a guardare in tale direzione. Ma lo scandalizzarsi e il chiuder gli occhi non distruggono o modificano la realtà: i diritti immorali sono esistiti ed esistono, e l'immoralità non toglie ad essi il carattere di diritti. Che praticamente non se ne voglia e non se ne debba tollerar l'esistenza, sta bene; ma, scientificamente, bisogna tollerarla» Il grande interrogativo si scinde in due sotto interrogativi, le cui risposte sono: il diritto non è attività morale, il carattere non etico del diritto si è vista la realtà, ogni azione giuridica è sempre morale o immorale, il carattere non etico rende l’azione giuridica, perché l’azione giuridica viene considerata in sé, sospesa dal giudizio etico morale. Conoscere la realtà ed operare sulla realtà sono cose diverse; si deve far sì che il diritto si debba avvicinare il più possibile ai principi morali, ma la realtà è che esistono i diritti immorali anche se noi li ignoriamo. È giusto che tutti si impegnino affinché il diritto si avvicini ai principi morali, ma ciò non ha a che fare co la realtà. «È stato osservato - nota Croce - che, a questo modo, si verrebbe a riconoscere carattere giuridico perfino agli statuti delle associazioni delittuose. Precisamente: dal punto di vista scientifico, bisogna riconoscere, alle associazioni delittuose, questo carattere; [come il fatto che una bella poesia sia empia verso gli Dei o esalti sentimenti di voluttà e di vendetta o contenga spropositi scientifici, non toglie all'opera il carattere letterario di poesia]. Il diritto di un'associazione a delinquere ha, contro a sé, il diritto di una società più vasta; soggiacerà a questo secondo, come al più forte; soggiacerà meritatamente, come il non morale al morale; ma vive come diritto e soggiace come diritto» Dal punto di vista scientifico gli statuti delle associazioni delittuose sono volti a ere azioni col fine di arrivare all’utile, anche se queste sono immorali. Il diritto di un’associazione a delinquere (diciamo delinquere perché ci mettiamo nella posizione dello Stato) ha contro il diritto di un’associazione più forte e soggiacerà alla forza di questa associazione e forse sarà giusto così finché questa altra associazione è più forte, ma può darsi che non sia così e quello Stato potrebbe ribaltarsi e passare dalla parte della illeceità Se dobbiamo distinguere il diritto dal non diritto basandoci sulle azioni morali si va a perdere tutto il precedente lavoro fatto. «Naturalmente, affermando la perfetta pensabilità, e l'effettiva esistenza, di azioni giuridiche immorali, non si vuol già dire che diritto e morale siano di necessità in contrasto; ma, soltanto, che non sono, necessariamente, d'accordo. A metterli d'accordo lavora di continuo la coscienza e l'attività morale del genere umano; ed infatti, per molta parte, per grandissima parte, le azioni giuridiche sono, insieme, azioni morali. Se non che, le eccezioni stanno lì a dimostrare che, quando l'azione giuridica è insieme morale, si può sempre distinguere il lato giuridico dal morale; appunto perché il lato giuridico può aversi anche privo della moralità. L'esame comparativo dei due casi, mentre esclude, per l'eccezione del diritto immorale, la necessità del carattere morale del diritto, esclude anche, per la presenza effettiva delle azioni giuridiche morali, la necessità del carattere immorale. Onde l'attività giuridica si rivela come un'attività pratica, che non è per sé né morale né immorale; quantunque possa, secondo i casi, venir giudicata nell'un modo e nell'altro: un'attività, che, per sé presa, è amorale o aetica. / Già per questo che ora si è detto, sembra di veder designarsi l'identità dell'attività giuridica con l'economica; la quale anch'essa non è né morale né immorale, ma condizione prima di ogni attività morale od immorale» Il diritto non è necessariamente morale, a mettere d’accordo le due parti c’è la coscienza del genere umano, per questo molte azioni di diritto sono anche morali. Sul lungo periodo i punti di divergenza tra diritto e morale si chiuderebbero, diritto e morale non sono mai divergenti in una società che funziona, ma le azioni giuridiche possono essere prive di moralità. Esclude la necessità del carattere morale, ma anche la necessità, ovviamente, del carattere immorale. «Un'altra difficoltà, che è di ostacolo all'identificazione di diritto ed economia, proviene dal concetto troppo stretto, che si ha di solito dei fatti giuridici. [...] Nel campo giuridico, — allorché il concetto s'intenda con rigore filosofico, e cioè in tutta la sua estensione, — rientrano non solo le azioni, che gli uomini compiono in conformità delle leggi dello Stato, ma quelle che compiono in conformità di ogni altra regola: non solo il codice civile e penale, ma anche il codice cavalleresco e il galateo; non solo lo statuto o legge fondamentale dello Stato, ma anche le regole dei giuochi; non solo le organizzazioni della Chiesa e della massoneria, ma quelle anche della mafia e della camorra. [...] È impossibile, infatti, dimostrare che la regola della più meschina e più biasimevole organizzazione differisca, sostanzialmente, da quella della più alta e più nobile” Ognuno di noi conosce incarnazioni storiche del concetto e la maggior parte di queste incarnazioni hanno dei caratteri che sono, però, occasionali, appartengono a quella specifica incarnazione storica; Quando facciamo la filosofia del diritto la prendiamo nella sua totale ampiezza, distinguendo il carattere del diritto dal fatto che storicamente si presenti quasi sempre nello stesso modo, se pensiamo il diritto come quasi sempre si presenta stiamo facendo una arbitraria restrizione. Questa pagina la ritroviamo nella Pratica, rimodulata, ma concettualmente identica. A sia condensata e rappresentata un'intera popolazione, per esempio, la gens Langobardorum, che si riversa nell' antica Gallia cisalpina e trova di fronte a sé i proprietari romani, rappresentati da B. A impone a B di dargli il terzo dei frutti delle terre e di discendere da proprietario al grado di aldio. B potrebbe rifiutarsi e combattere; ma, disperso, disabituato alle armi, sente che la lotta sarebbe vana, e aggiungerebbe solo nuove stragi alle già accadute, senza mutare in nulla la posizione presente, che si riprodurrebbe tale quale o peggiorata. Se la richiesta di A fosse anche maggiore del terzo dei frutti, se addirittura spingesse B a tal punto di miseria da toccar la disperazione, B potrebbe stimare più conveniente a lui di farla finita, una volta per sempre, con una vita intollerabile (di che dettero esempio parecchie volte schiere e cittadinanze di vinti); e, forse, innanzi all'incipiente suicidio in massa della popolazione, A sarebbe mosso dal suo stesso interesse a più miti consigli. A è legato a B, e deve intendersela con B; e viceversa. Il risultato, legge stabilirà, sarà da una parte l'espressione verbale o scritta data alla volontà di A, il quale ha preso la sua qualsiasi deliberazione, utile a lui o improvvida e rovinosa, tenendo conto della volontà di B; e, d'altra parte, a questa legge se ne contrapporrà sempre una seconda, esprimente la deliberazione utile o rovinosa, presa da B. Le due volontà possono coincidere, e le due leggi coincideranno: possono differire, e o spariranno le condizioni stesse di un rapporto tra i due; o si avrà la lotta, ossia la laboriosa gestazione di un futuro accordo” Anche la lotta, secondo Croce è parte della stessa dinamica, con la lotta si supera il momento di indecisione e si gettano le condizioni del futuro accordo, che saranno diverse da quelle iniziali. Il principio dietro queste azioni è quello dell’utile, misurano attimo per attimo cosa gli conviene nelle condizioni date in quel momento, nel corso della lotta i due contendenti si «In tutto ciò è impossibile vedere altro che un rapporto di convenienza economica tra due individui; e, se dapprima codesta natura prettamente economica del rapporto giuridico non si scorge, gli e perché si e abituati a collegare Pidea ai scambio economico solo con alcuni speciali rapporti di scambio: come se vi sia poi differenza sostanziale tra il caso di chi venda otto ore di lavoro per avere in cambio i mezzi di sussistenza di una giornata, e quello di colui che, per campare la vita, scenda alla condizione di suddito di un potente. La coazione, se di coazione si vuol parlare, è eguale nei due casi: il libero consenso, se c'è nell'un caso, c'è anche nell'altro» Se si pensa al fatto economico come uno scambio di denaro per un bene allora si è sempre inteso male il fatto economico, se si intende nel modo giusto è impossibile non vedere che l’atto giuridico sia atto economico. Si può riconoscere l’atteggiamento di chi vuole in una certa direzione, la persona è libera, ma le circostanze date modificano il risultato finale di questo atteggiamento. Questa pagina sulla gens longobarda scompare nella Filosofia della Pratica, non sappiamo il perché, però ci si può servire di questa pagina per denotare la differenza tra Riduzione e Pratica. Questa pagina consente di capire il rapporto che corre tra Riduzione e Pratica. La Riduzione è il lavoro preparatorio della Pratica e c’è una profonda continuità con la Pratica, ma c’è una profonda discontinuità tra Riduzione e terza parte della Pratica, proprio quella parte che maggiormente riprende la Riduzione nella sua opera finale. Riprendendo l’esempio della gens longobardorum, ci sarà un punto di intesa tra i due popoli che Croce chiama legge stabilita; questa pagina ci racconta quello che avviene prima dell’equilibrio, la contrattazione, lo scontro, ecc…, ciò viene fatto per dimostrare i caratteri generali dell’azione. La realtà del rapporto è l’utilità. Croce, nella Riduzione, pensa il diritto in termini di azione giuridica che è azione economica. La terza parte della Pratica parla delle leggi, della coazione, si, ma a Croce interessa riflettere sul modo in cui le leggi condizionano l’agire libero degli individui, che non è il centro della Riduzione. La terza parte non poteva riguardare l’azione giuridica e l’azione economica in quanto questi temi vengono affrontati nelle parti precedenti. La terza parte si occupa del giorno dopo quello descritto nella pagina della Riduzione sulla gens longobardorum, dal momento in cui la legge modifica l’agire di longobardi e romani, la legge agisce al pare del modo in cui agiscono le circostanze date. 6/03 Croce vuole confutare delle pretese differenze diritto ed economia «A questo punto si potrà osservare che, anche posto il carattere economico dell'attività giuridica, con ciò si sarà bene indicato il genere prossimo, ma non ancora la differenza specifica dell'attività giuridica rispetto all'economica; e che nella ricerca di tale differenza specifica deve, per l'appunto, travagliarsi la filosofia del diritto. La qual cosa sarebbe giustissima, se una tale differenza specifica poi ci fosse. Ma tutti i caratteri differenziali, che potrebbero escogitarsi e proporsi, si chiariscono, all'analisi, illusorii» «Infatti, parrebbe che un carattere specificamente giuridico, e non proprio dell'attività economica in genere, fosse stato già tacitamente introdotto con ciò stesso, che il punto di partenza della nostra analisi è stato un rapporto sociale, un rapporto di più individui, o di due almeno. E l'economia, invece, ha iscritto tra i suoi teoremi fondamentali: che il valore economico, prima di essere un fatto sociale, è un fatto dell'economia isolata» La scuola più moderna dell’economia dice che l’economia all’individuo isolato «Ma, se il teorema dell'economia isolata è stato un efficace istrumento di critica contro le concezioni troppo rozzamente politiche e sociali dell'economia, e se ha giovato a mettere in rilievo il carattere costantemente volontaristico, e quindi spirituale e individuale, dell'attività economica; non bisogna poi intenderlo meschinamente e secondo la lettera, e credere sul serio possibile o pensabile un'economia pienamente isolata o un individuo isolato. L'individuo vive nella società, societas hominum; e anzi, in quella più vasta società, societas rerum, che è la natura, e che include in sé l'altra. Isolato non è mai: tale non è neppure il Robinson dei romanzi e dei trattati di economia; non solo per la ragione detta più volte, che egli proviene da una societas e la serba nel suo spirito, ma per quella più fondamentale, che Robinson, anche senza Venerdì, è in relazione con animali, piante e fatti naturali...» C’è un’insidia in questo testo, è automatico chiedersi se l’azione sociale sia economica o giuridica. Se il riferimento alla socialità è inteso in senso empirico (inteso come gruppo) non è elemento né dell’azione giuridica né di quella economica. Robinson la società se l’è portata in testa, la socialità di Croce è quella secondo cui la forza è forza tra le circostanze date, quindi anche quando è solo, l’azione dell’uomo mantiene i caratteri tipici di ogni azione. La possibilità di conseguire il risultato voluto dipende dall’interazione con le circostanze date (uomini, regole, ecc…), che comprendono tutto ciò che ci avvantaggia o svantaggia nella vita. La tesi di Croce è ancora più generale di quella della socialità, l’idea di Croce è che l’agire dell’uomo abbia a che fare con le circostanze date, quindi, spesso, con altri uomini, ma anche in assenza di altri individui, il soggetto deve fare comunque i conti con la natura. «[...] l'azione economica è stata da noi chiarita come l'azione dell'individuo tra le azioni degli altri individui, ossia come forza tra le forze. E tale è per l'appunto l'attività giuridica. I due simbolici individui dell'esempio, in realtà, non sono due, ma infiniti; e, d'altra parte, l'attività giuridica sorge sempre dalla coscienza e dalla volontà di ciascuno individuo singolarmente considerato, avente a fronte tutti gli altri: proprio come l'attività economica. È stato disputato se nel diritto primitivo abbiano maggiore importanza i motivi utilitarii degli individui o il loro rispetto pel costume e per la religione; ma è evidente che costume e religione sono simboli riassuntivi di alcuni dei tanti gruppi di fatti, che condizionano l'azione dell'individuo; laddove la sua deliberazione utilitaria è poi ciò che decide, ed è la vera e propria azione giuridica, la forma dell'azione» L’azione nasce sempre dalla coscienza e dalla volontà di ogni individuo (momento della libertà), ma questi deve confrontarsi con le circostanze date. L’argomentazione della socialità viene confutata assumendo che si debba tenere conto del fatto che oltre agli altri uomini ci siano altre circostanze che esistono anche se non esistono altri soggetti che modificano le circostanze date. «Un'altra difficoltà, che è di ostacolo all'identificazione di diritto ed economia, proviene dal concetto troppo stretto, che si ha di solito dei fatti giuridici. E evidente che, col ridurre il concetto di attività giuridica ad un gruppo arbitrariamente circoscritto di casi giuridici, si foggia un termine di paragone, il quale ripugna e resiste alla fusione con un concetto di universale attività pratica, qual è quello dell'economia. Qui anche è d'obbligo lasciarsi guidare dalla necessità della cosa, e distruggere ogni concetto arbitrario, senza spaventarsi dell'aria paradossale che ciò possa conferire alle proposizioni che ne seguono» Se per azione giuridica pensiamo ai contratti tipici, ci perdiamo la giuridicità di altre azioni ben diverse «Intendendo per legge e fatto giuridico tutto ciò che appartiene al costume sociale, non c'è fatto pratico o volontario che possa restare escluso da quel concetto: il concetto abbraccia tutte le manifestazioni della vita pratica, ciascuna delle quali è esprimibile in formole di volontà, in imperativi, cioè in leggi. E lo stesso campo abbraccia l'attività economica, allorché non s'intenda anch'essa empiricamente mutilata e circoscritta, come si fa di solito (e deve farsi) nei trattati di economia politica. Impossessandosi del concetto dell'attività giuridica e di quello dell'attività economica, — non già delle loro arbitrarie rappresentazioni generali, — si vede subito che i due concetti sono un solo» Contrapposizione tra concetto e pseudoconcetto, le arbitrarie restrizioni sono pseudoconcettuali, in quanto empiriche. Nel campo delle scienze, devono farsi arbitrarie restrizioni, si devono usare concetti empirici, per operare distinzioni funzionali per una scienza empirica, queste restrizioni non hanno alcuna legittimità nel campo della filosofia. «Tuttavia, ciò che il filosofo non deve fare, deve poi farlo, pei suoi fini particolari, il giurista; il quale porrà i concetti di diritto pubblico e di diritto privato, di diritto civile e penale, di diritto nazionale e internazionale, di proprietà, contratto, colpa, reato, famiglia, società, Stato, diritti personali e diritti reali, leggi e consuetudini, leggi di comando e leggi di divieto, dichiarative e permissive, e via discorrendo. E, come storico del diritto, potrà anche distinguere, quasi sieno cose distinguibili (e tali non sono), il costume primitivo indifferenziato dal diritto, la legge non scritta dalla scritta. Tutto ciò è opportuno, ed io sarei molto dolente se questa più esatta elaborazione, che qui si tenta, dei concetti fondamentali della filosofia del diritto, fosse scambiata per una proposta di riforma della giurisprudenza: proposta, che sarebbe arrogante quanto balzana, giacché a riformare, se mai, la giurisprudenza, debbono pensare i giuristi, e non i filosofi, che non sono a ciò competenti. Dove il filosofo è competente, e si può anche permettere la gioia del sorriso, è nell'indire la parola di pace alla gente che s'accapiglia per determinare L’attività pratica-economica è sempre storicamente determinata, la legge costruisce una generalizzazione di molti fatti simili. Il procedimento di generalizzazione del legislatore non è oggetto di conoscenza della filosofia del diritto, è un procedimento che avviene in molte cose simili alle leggi e ciò viene studiato con la logica; dunque, leggi economiche e leggi del diritto servono a generalizzare teoricamente un fenomeno osservato con regolarità nei rapporti sociali. L’elemento astratto è inessenziale diritto e dalla vita pratica, è una costruzione del concetto pseudoconcettuale, sembra che il diritto non nasca se quel generale non incontri l’individualità del caso specifico, ma questo per Croce è impossibile, l’individuale non è mai riportabile nel generale, lo possiamo anche fare, ma non ci sta mai dentro preciso, non si danno mai due casi di permuta uguali anche se i soggetti ed i beni sono gli stessi, non si riconduce il concreto nell’astratto, facendolo stiamo approssimando e stiamo esercitando l’arbitrio, ma lo facciamo sempre, dobbiamo essere consapevoli che quello che facciamo è una approssimazione. Nella Filosofia della Pratica, quando Croce dice tutto ciò che pensa della legga dirà che questa è una volizione irreale perché non è possibile volere l’astratto, quando crediamo di stare applicando la legge, di sussumere la norma, applichiamo una approssimazione dell’astratto. Tutto ciò che eliminiamo con la sussunzione sono gli elementi reali del fatto specifico, dire queste eliminazioni possano essere attenuanti, ecc… non sono altro che eliminazioni ancora più specifiche, ciò che rimane non è la realtà del fatto e dobbiamo esserne consapevoli. Individuale e generale di base non comunicano, siamo noi che li mettiamo in comunicazione, eliminando dal fatto reale ciò che lo caratterizza nello specifico abbiamo che il generale coincide col generale. «Il procedimento astrattivo e generalizzante, se ha il suo indubbio vantaggio, ha, d'altra parte, i suoi pericoli; donde quel continuo lavoro del rimettere in armonia le leggi astratte coi bisogni della realtà sociale, che è la vita effettuale del diritto» Questo è un lavoro continuo di mettere in armonia le leggi astratte con i bisogni individuali, la legge dovrà trovare una misura media dei bisogni di tutti che porterà a scontentare in parte tutti. Non si dà un modo diverso di pensare la scienza del diritto se non nella sua sede che lavora con pseudoconcetti e classificazioni. «Non s'intende perciò come possa più volte essersi manifestato un movimento per riformare radicalmente la giurisprudenza, riportandola, come si dice, alla sua base sociale: questo riportamento e rinnovamento è, appunto, il compito che la giurisprudenza persegue ed ha sempre perseguito, con le sue interpetrazioni, le sue estensioni, le sue finzioni giuridiche, o con le proposte di esplicite riforme. Potrà dirsi che questo o quel giurista o, in generale, i giuristi di un certo tempo e paese, eseguano male il loro compito, o si mostrino parziali verso l'interessi di una data classe: ma codesta è un'altra questione, che qui non ci riguarda punto. Altri vagheggia un'individualizzazione completa del diritto; e ciò importerebbe la distruzione delle leggi e dei codici e delle interpetrazioni delle leggi, alle quali cose tutte si vorrebbe sostituita la sentenza emessa caso per caso, opera dell'ispirazione del giudice. Ma un'individualizzazione così fatta è un'utopia, la quale dimentica con quanta lentezza e con quante industrie e sussidii svariati e transazioni tra opposte tendenze le società umane progrediscano; e sogna compiuto in un fiat, per opera d'individui geniali, ciò che è l'opera collettiva e dei secoli» L’individuale nel generale non lo possiamo portare, per fare i giuristi si deve scontornare il fatto reale e far coincidere ciò che rimane con la generalità. Le idee che hanno tentato di riformare la giurisprudenza, per trovare soluzioni alternative al problema dell’impossibilità di riportare il caso specifico nel genarle senza finire col far coincidere generale con generale, non fanno che rabbrividire Croce Croce sa che non è il primo a far notare la differenza tra generalità ed individualità nella applicazione della legge, ma non vuole che la sua teoria sembri politica, lui è un filosofo del diritto, aveva paura che qualcuno potesse pensare che fosse uno di quelli che dicevano che le leggi erano inutili perché inapplicabili, anche perché lui aveva commentato il libro di Kantorowicz sul “diritto libero” con lo scrittore affermava che il giudice in realtà valutava caso per caso e si schermava dietro la generalità del diritto; la posizione di Croce è diversa perché la sua è una posizione di filosofo del diritto, lui dice che le distinzioni empiriche non spiegano il diritto e che il diritto, di conseguenza, non può riformare la giurisprudenza e la scienza del diritto, e non si può trovare una soluzione ad un problema che soluzione non ha. La filosofia dice che generalità e specialità del fatto storico non si possono riportare l’uno nell’altro tramite la sussunzione, ma dal punto di vista pratico le cose devono continuare ad andare così 12/03 A gennaio del 1907 Croce è pronto a scrivere la Filosofia della Pratica, dai taccuini di lavoro sappiamo perché poi decide di dedicarsi alla Riduzione, il che è un po’ strano, nelle giornate di lavoro di Croce si impegnano impegni diversi, il lavoro ne “La critica”, la revisione di bozze di libri, la scrittura di articoli, mentre invece, quando si arrivava al culmine della scrittura di un’opera Croce faceva di tutto per non avere distrazioni, non lavorava ad altro se non a quello. La Riduzione viene iniziata proprio in all’apice della scrittura della Pratica, il che è un unicum, da gennaio a maggio 1907 si dedica ad entrambe le opere. La Filosofia della Pratica è stata scritta in meno di un anno; il lavoro è molto spedito per le prime due parti dell’opera, mentre invece la terza parte è molto tormentata, proprio quella che va a “riprendere” la Riduzione. La ragione prima di questa difficoltà è dovuta proprio alla presenza della memoria pontaniana; inizialmente riversa tutta la Riduzione nella terza parte della Pratica, ma poi non si ritiene soddisfatto. La prima parte della Pratica tratta del volere e dell’agire in generale, la seconda sulle forme proprie del volere e dell’agire (economica ed etica) e poi la terza parte, che inizialmente doveva lasciare poco spazio alla questione del diritto, in quanto risolta nella forma economica, e decide di soffermarsi sulle leggi: sulla loro natura, dunque del rapporto che corre tra leggi ed azioni pratiche, e poi sul rapporto tra leggi ed azioni giuridiche; questi non sono temi nuovi, ma acquistano uno spazio molto più ampio. Guardando alla Riduzione, vediamo come questa non fosse adatta a risolvere i problemi, in quanto essa si concentra sulla natura dell’azione pratica, economica e giuridica (inutile dato che se ne parlava già nelle prime due parti della pratica), mentre invece era lacunosa circa l’influenza delle leggi nell’agire libero degli uomini. Viene spontaneo chiedersi il perché della iniziale trasposizione della Riduzione nella terza parte della Pratica, forse perché Croce non ricordava in maniera precisa cosa fosse scritto nella Riduzione, era passato tempo, è un’opzione possibile, tenendo anche conto delle domande che si è posto nel tempo circa le leggi. La prima parte della Riduzione era fuori luogo nella terza parte della pratia e soprattutto non si trattava della legge nel modo in cui Croce si era posto nel momento successivo alla scrittura della Riduzione. Nella terza parte della Pratica si pone, circa le leggi, un problema diverso da quello precedentemente affrontato nella Riduzione. Sappiamo che Croce, mentre lavorava all’opera, lavorava anche al sommario, ha cambiato il titolo della terza parte della Pratica, ben due volte; il primo titolo era “L’attività giuridica e la legge” con data 11 ottobre 1907, 5 mesi dopo la pubblicazione della Riduzione, un titolo che assomiglia molto al problema affrontato nella Riduzione, è un titolo che pone in primo piano che accosta attività giuridica e legge per proporre un confronto tra le due e riflettere circa le loro interazioni; nel 10 marzo 1908 il titolo diventa “L’attività legislatrice” che è il titolo più complesso dei tre, è una sorta di fusione tra gli elementi del primo titolo, questo titolo richiama all’attività della creazione della legge, l’azione della legge non vuole in concreto, ma vuole in astratto, vuole che i consociato compiano o non compiano azioni tipizzate, al contrario dell’attività giuridica che riguarda l’agire economico, ma questo titolo allude ad uno solo dei problemi, anzi forse non è neanche il problema più importante, più che del confronto, il problema principale è il condizionamento che le leggi esercitano sull’agire degli individui. Aprile 1908 “le leggi”, abbiamo il titolo definitivo della terza parte, un titolo che arriva a posteriori della scrittura della terza parte stessa (al contrario degli altri due), c’è una differenza siderale con gli altri titoli, il primo titolo non ha nulla a che fare con la terza parte della Pratica, in quanto sono temi già affrontati nella seconda parte dell’opera. La terza parte è stata scritta con fatica, una fatica particolare per Croce, mai provata per le altre opere da lui scritte; l’ha scritta, smontata e riscritta. Nella avvertenza della Pratica abbiamo una sensazione di distanza tra Pratica e Riduzione, dicendo che solo alcune pagine della terza parte sono state anticipate dalla Riduzione e che queste pagine sono anche state rivisitate; sentiamo, nell’avvertenza, la fatica di Croce nel chiudere il libro, per questo è una parte che non va sovrastimata, sta semplicemente dicendo che questo è un libro nuovo, non ci sono pagine che già scritte precedentemente (salvo pochissime), egli non pone il problema storiografico della relazione tra la memoria e l’opera finale. L’avvertenza della Pratica va letta al contrario di quanto fatto inizialmente, ci siamo chiesti del rapporto tra le due opere, quando in realtà questa avvertenza dice che il libro è inedito se non per poche pagine, ci deve ricordare che il lavoro preparatorio non è sempre una prima stesura dell’opera finale, succede spesso che sia così, ma non sempre, un lavoro preparatorio può servire a scandagliare un terreno rilevante rispetto al tema generale del libro che si sta scrivendo. I temi della Riduzione possono indurre a pensare che la terza parte della Pratica debba somigliare alla Riduzione, quando invece sappiamo che è il contrario, si vede la distanza tra le due opere; Croce non cambia il pensiero sulle leggi, ma si pone una diversa domanda da quella che si è posto nella Riduzione, come si concilia la libertà individuale e la limitazione sociale. L’azione libera di volontà deve interagire con le azioni degli altri individui, le leggi si occupano del limitare questa libertà, nel condizionare questa libertà, Croce vuole trovare il punto di equilibrio tra libertà e limitazioni. 18/03 «La legge è un atto volitivo che ha per contenuto una serie o classe di azioni» Il contenuto è lo stesso di quanto detto nella Riduzione «Se, dopo aver tolto via le indebite restrizioni e divisioni empiriche del concetto di legge |→ leggi individuali (programmi), sociali (convenzionali) e giuridiche (coattive), si riporta l'attenzione sul carattere che si è enunciato come proprio a definirlo, si ha modo di distinguere le leggi dalle altre formazioni spirituali, con le quali sovente vanno confuse per effetto delle metafore e omonimie solite nel discorso «Se i difensori dell'utilità delle leggi avessero voluto adoperare contro gli avversari un argomento di buon senso, di quelli che impongono la conclusione anche quando non la dimostrino a rigore, avrebbero potuto semplicemente far notare la richiesta delle leggi, dell'ordine, della giustizia, dello Stato, che s'innalza da ogni punto della storia umana» Se i difensori avessero voluto replicare intelligente avrebbero dovuto chiedere quando e dove non si è chiestala permanenza delle regole per restare in piedi, un’argomentazione intelligente, ma che non dimostra nulla «Passando dalla considerazione di buon senso a quella filosofica, è da dire più direttamente che l'utilità della legge non è già nella sua attuabilità, la quale è cosa impossibile, perché si attua solo l'atto singolo del singolo, ma in ciò, che per volere ed eseguire l'atto singolo giova di solito cominciar dal rivolgersi al generico, di cui quel singolo è caso singolo: rivolgersi, cioè, alla classe di cui quel singolo è componente. Allo stesso modo, per prendere la mira, si comincia di solito col mirare la regione dove si trova il punto su cui la mira si fisserà. La legge non è volizione reale ed effettuale, anzi è fuor di dubbio volizione imperfetta e contraddittoria, ma appunto perciò preparatoria alla volizione sintetica e perfetta. La legge, insomma, in quanto volizione di un astratto, non è volizione reale, ma aiuto alla volizione reale; come (per valerei del solito paragone) i ponti e castelletti di legno sono aiuti alla costruzione della casa, e non perché, costrutta la casa, vengano rimossi, sono stati inutili al lavoro che si è compiuto» La legge non si può applicare davvero. Croce non è un rivoluzionario, la sua è una verità filosofica, non ha applicazione pratica, vuole solo insegnare il giurista alla consapevolezza che, svolgendo il suo lavoro, riportare il concreto nell’astratto o individualizzare il generale è un atto arbitrario. L’uomo per volere in concreto guarda prima alla genericità dei casi astratti, sono solo strumenti al servizio del giurista. L’individuo che opera nel concreto può trarre giovamento dalla legge che svolge una funzione preparatoria rispetto alla volizione concreta. 19/03 Nella Filosofia della Pratica non si dà un’astratta volizione dell’astratto che dà un aiuto alla volizione reale. “E qui ci si mostra ancora una volta esattissima l'analogia tra la costituzione dello spirito pratico e quella dello spirito teoretico. Anche in quest'ultimo s'incontrano formazioni teoretiche, che non sono tali e che si contradicono in loro stesse, ponendo rappresentazioni che fungono da universali, e universali che sono rappresentativi: formazioni arbitrarie, nelle quali la volontà si fa a comandare a ciò a cui è impossibile comandare, cioè a rappresentazioni e concetti, i quali non seguono ma precedono l'atto volitivo e pratico. Ma noi sappiamo che quei finti concetti, quegli schemi, quelle leggi che non sono leggi, quelle falsità confessate e perciò non false, sorreggono la memoria e agevolano il pensiero ad orientarsi innanzi al multiforme spettacolo del mondo, che esso penetra di sé. Non li pensiamo, ma ci aiutano a pensare; non li immaginiamo, ma ci aiutano a immaginare. Così il filosofo ferma di solito la mente sugli pseudoconcetti, per ascendere di là agli universali, e l'artista anch'esso vi rivolge l'attenzione, Per ritrovare sotto di quelli l'individuale e l'intuizione ingenua e viva, ch'egli cerca. I medesimi pseudoconcetti, fatti oggetto di volizione e mutati da schemi in leggi, adempiono analogo ufficio nello spirito pratico, rendendo possibile alla volontà di volere in un certo indirizzo, dove poi s'incontrerà l'azione utile, che è sempre individuata» Lui vuole continuamente riaffermare che il sistema nella forma delle sue simmetrie sia leggibile. Questa esattissima analogia tra spirito pratico e teoretico: come nello spirito pratico lue leggi (che non sono vere e proprie volizioni) hanno l'utilità di aiutare la volizione vera e propria, così nello spirito teoretico ci sarebbero formazioni del pensiero (pseudoconcetti, concetti empirici) che non sono veramente teoretici, non producono davvero conoscenza, mettono in ordine la conoscenza a beneficio della memoria. Gli pseudoconcetti tengono ordinate le informazioni, ma qui sembra che questi siano un aiuto, un primo passo verso la conoscenza, proprio come le leggi. Gli uomini si comportano come soggetti economici, anche in base alle circostanze date, come le leggi. L’attore di un fatto giuridico guarda le leggi e poi le saluta con rispetto per agire nel suo interesse individuale (il che non vuol dire che l’uomo economico commetta solo illeciti); la praticità degli pseudoconcetti servono a spiegare il perché di queste azioni. Sebbene le tesi che preparano la Logica sulla questione degli pseudoconcetti non siano esplicite come nella opera finale, si capisce che lo pseudoconcetto non prepara la conoscenza, ma sono solo un aiuto pratico, l’utilizzo degli pseudo concetti è sempre a posteriori. Questo modo di considerare le leggi verifica l’analogia tra spirito pratico e teoretico. Croce, nella Pratica, argomenta, fino ad un certo punto, in maniera rigorosamente filosofica, questo punto è quando dice che la legge è una volizione irreale, da quel momento lo stile di Croce cambia, la sua argomentazione è più vicina al buonsenso, ma non c’era il bisogno di spiegare l’utilità della legge, queste sono utili come gli pseudoconcetti empirici; lo spiega perché nello Spirito Pratico la sensazione che quanto detto abbia un impatto diretto nella vita reale, ha paura di essere frainteso. Potrebbe anche darsi che riflettendo sulle leggi Croce abbia avuto un momento di ripensamento sulla tesi di identità tra azione economica ed azione giuridica, ma forse l’azione giuridica tiene conto più di altre delle leggi. «Non meno importante è un altro aspetto dell'analogia. Gli pseudoconcetti non sarebbero possibili, se la realtà non offrisse accanto al dissimile il simile; il quale non è l'universale e necessario, ma il generale, un contingente (per così dire) meno contingente di altri, un variabile relativamente costante. E gli pseudoconcetti sono arbitrari, non perché pongono il simile dov'è il dissimile, ma perché irrigidiscono quel variabile, che è costante solo relativamente, facendone qualcosa di assolutamente costante, e mutano il simile nell'identico. Ora lo spirito pratico, che crea la realtà, ha bisogno di creare non solo il dissimile, ma anche il simile; non solo ciò che dura un attimo, ma anche ciò che dura, press'a poco invariato, un anno o un secolo o un millennio o un millennio di millenni; non solo l'individuo, ma anche la specie; non solo il grand'uomo, ma anche il popolo; non solo le azioni che non ritornano, ma anche quelle che ritornano periodicamente, simili benché non identiche. A questo ufficio adempiono le leggi, le quali costituiscono ciò che si chiama l'ordine sociale, anzi l'ordine cosmico. Ordine, per altro, sempre relativo, e che include in sé l'instabilità; configurazione rettilinea, la quale in realtà, esaminata da vicino, si svela anch'essa curvilinea. Perciò è necessario foggiare le leggi, ed è insieme necessario violarle, pur osservandole come si può, nell'esecuzione» Forse la realtà è un po’ più complessa delle categorie, forse c’è un modo più temperato di guardare la realtà, forse non esiste solo l’evento sorpresa che non accade mai più, alcuni un po’ si somigliano, alcuni si ripetono con una certa costanza e ricorrenza, pur non essendo identici. L’errore degli pseudoconcetti non è quello di cogliere l’aspetto di similarità, anzi è il giusto, l’errore è vedere questa somiglianza ed irrigidirla e farla assomigliare sempre più all’universale. L’errore quando si ripropone spesso da qualche parte deve avere un fondo di verità, che però non si distingue dalle falsità che lo circondano. L’idea del modello dell’azione, che è un’idea sbagliata, da qualche parte deve avere un suo fondo di verità, che forse sta nelle leggi; forse il campo del giuridico v ridotto dal punto di vista categorico nel campo dell’economico, ma che questa riduzione abbia bisogno delle astrazioni che sono le leggi. Gli uomini che agiscono creano la realtà, tutti e le leggi costituiscono l’ordina sociale che serve a garantire che tutti gli uomini creino la realtà. Lo spirito pratico deve creare qualcosa che dia stabilità, non solo cose irripetibili, questo ordine è precario a causa proprio delle azioni che tutti compiono; la legge si esegue, ma dato che non la si può realmente eseguire significa violarla. «Quest'ufficio che si è descritto della legge come volizione irreale e nondimeno aiuto e preparazione della volizione reale, sparge luce intorno a un concetto che, nell'esporre il modo di essere e di operare dell'atto volitivo, abbiamo rifiutato: il concetto di piano o disegno o modello, come proprio dell'attività pratica, la quale, per quel che si suol dire, si attuerebbe eseguendo un disegno prestabilito. [.] Ma quel concetto del disegno proposto all'azione ed eseguito per mezzo dell'azione, sebbene anzi appunto perché erroneamente adoperato nell'Economica e nell'Etica, deve avere il suo significato legittimo in qualche altro ordine di fatti, dal quale deve essere stato attinto: altrimenti non potrebbe nemmeno venire in pensiero, né sarebbe possibile farne poi uso erroneo. Ora questo significato, come s'è veduto, si ritrova nel caso delle leggi: le leggi per l'appunto sono i piani o disegni, che si attuano, o piuttosto che non si attuano, dall'individuo operante» Il concetto di piano dell’azione inizialmente rifiutato (nella Pratica), l’azione non poteva avere un tipo o un modello, ma l’ufficio della legge ci fa scorgere una possibilità di distinzione tra azione giuridica ed azione economica, che distingue il mondo del diritto dal mondo paratico, ciò a causa dell’astrattezza delle leggi nel campo dell’attività giuridica; Croce ha accettato di integrare il suo discorso categoriale sulla realtà con il discorso che esista un piano offerto all’azione. 25/03 «Allontanate così le varie cause che, gettando le loro ombre sull'attività economica o giuridica, la facevano apparire profondamente divisa in sé stessa in forme distinte e con caratteri al tutto diversi, noi siamo ora in grado di rendere giustizia ai concetti di coazione, di forza, di esteriorità e simili, che, per quanto imprecisi, hanno, per circa due secoli, con la loro presenza, impedita la confusione totale del diritto con l'etica. [...] Ed è vero che il diritto è la forza, ed è vero che il diritto è l'esteriorità, ed è vero che esso prescinde dalle intenzioni; quando si raffronti il mero diritto con la morale, e lo si guardi dal punto di vista di questa. Alla morale esso appare, o come suddito, o come ribelle: e, in questo secondo caso, che è quello dell'indipendenza, come tale che è estraneo od esterno; che adopera una forza bruta rispetto alla forza morale; che va per la sua strada prescindendo dalle intenzioni morali e riferendosi ad intenzioni meramente individuali. Tutti caratteri veri; ma tutti caratteri vaghi, perché insistono su ciò che il diritto non è, senza giungere a dire ciò che è; e quindi senza poter fissare definitivamente e precisamente neppure ciò che il diritto non è: donde le sempre rinnovate confusioni con la morale, di cui abbiamo fatto la storia» Il paragone tra diritto e linguaggio lo abbiamo trovato dall’inizio a causa del confronto tra primo grado teoretico e primo grado pratico. «Chi volesse ripigliare il paragone, farebbe, a mio parere, cosa assai utile, se insistesse in ispecie sul fatto che, com'è stato impossibile comprender niente di ciò che è il linguaggio finché si sono scambiate per realtà del linguaggio le grammatiche e i vocabolari; così non è possibile comprender nulla del diritto, finché si ha l'occhio ai codici e ai comenti dei giuristi, cioè al fatto superficiale, derivato, secondario e misto di elementi estranei o astratti» Questo è il primo livello del paragone: Il diritto lo dobbiamo andare a cercare nel concreto della vita giuridica, non nelle astrazioni che si trovano nei codici e nei comenti dei giuristi. Abbaiamo pseudovolizioni e pseudoconcetti con l’astrazione ed il diritto non può stare lì; lo stesso si può dire del linguaggio, il linguaggio non si trova nella grammatica e nei vocabolari, le quali sono solo rappresentazioni empiriche. «Solo quando il diritto appare come l'opera individuale e continuamente nuova degli individui; solo quando l'attenzione è volta allo spettacolo della vita, e non alle astrazioni dei legislatori; si può proporsi il problema in che cosa quest'opera giuridica coincida, e in che cosa diverga da quella morale. E anche qui il paragone col linguaggio è calzante: come il linguaggio non è la logica, eppure il pensiero logico non può realizzarsi se non parlando; così l'attività giuridica non è la morale, ma la morale non può vivere se non traducendosi in azioni pratiche e in istituti, che sono tutti giuridici, nel senso largo ed esatto che noi abbiamo chiarito» La seconda parte: La prima parte dice che il diritto vada discusso nel concreto altrimenti è impossibile capire in cosa le azioni giuridiche siano uguali e diverse da quelle morale, se una azione giuridica è immorale, questa rimarrà azione giuridica. Lo stesso vale nel linguaggio, posso scrivere cose false o illogiche, ma se l’opera è bella lo sarà anche senza logica. Il pensiero logico non può realizzarsi se non parlando, se non in forma linguistica. «Infine, al modo stesso che la storia di una lingua è sempre arbitraria ed astratta, finché si consideri da sé, fuori delle opere in cui la lingua si è incarnata, e quindi la vera storia di una lingua è quella della sua poesia e letteratura; così una vera storia del diritto di un popolo, — del diritto realmente eseguito, e non soltanto di quello formulato nei codici, che è rimasto spesso lettera morta, — non può non essere tutt'una cosa, come si è già notato, con la storia sociale e politica di quel popolo, che è tutta storia giuridica ossia economica, storia di bisogni e di lavoro» Il paragone tra diritto e linguaggio si articola su due piani:  astratto e concreto  pratico e logico Era già venuto fuori il materialismo storico marxista in Croce, a pag 39: «La storia del diritto, ossia dell'attività giuridica, non rientra in quella della scienza o, in genere, dell'attività e contemplazione teoretica; ma nella storia della politica e della civiltà [...] la storia del diritto, — che è sempre storia sociale e politica [.]. La più superficiale osservazione della vita del diritto, che si svolge quotidianamente sotto i nostri occhi, ci strappa dall'esame di un fatto teoretico e ci trasporta innanzi allo spettacolo ben più agitato degl'interessi e delle lotte pratiche degli uomini, dove la volontà spiega la sua forza e si bagna spesso di lagrime e di sangue» Una delle matrici della interpretazione che croce dà del diritto tra diritto ed economia è il pensiero di Marx (un’altra è quella del Principe machiavelliano). 26/03 Nel 1926 Atti sani e Croce decisero di integrare la memoria pontaniana, la Riduzione, con tre scritti di Croce del 1908, 1914 e 1916. La funzione di questi tre scritti era che Croce puntualizza e chiarisce concetti affrontati e discussi all’interno della Riduzione, e Dar conto di scritti di chi aveva commentato la Riduzione e che si erano accumulati. Le obiezioni intorno alla mia teoria del diritto: Queste obiezioni sono non nominali, Croce ha accorpato i problemi trovati nei vari commenti sulla Riduzione. La Riduzione ha avuto da parte dei filosofi del diritto delle reazioni dure, questi si sono sentiti lesi nella loro interpretazione della disciplina. Croce, per amor di polemica, ha “risposto”, ciò ha avuto due effetti: da un lato inizialmente c’è stata una amplificazione che la Riduzione ha avuto nel campo filosofia del diritto, ma alla lunga questo effetto è stato negativo, perché Croce ha favorito le letture ingenue della Riduzione. “Vado leggendo quanto si scrive nelle riviste filosofiche intorno alla riforma, da me proposta, di una parte cospicua della Filosofia pratica: riforma, che consisterebbe nel porre ed elaborare una finora desiderata Filosofia dell'economia, e lasciare dissolvere in essa quell'ibrida disciplina, ch'è la cosiddetta Filosofia del diritto” La polemica di quelle pagine contro la filosofia del diritto è una polemica che in realtà vuole spronare il filosofo del diritto a fare sul serio il filosofo del diritto; quindi, è una polemica contro il metodo dei filosofi del diritto. 1908 1. «Sia pure che il contenuto del diritto consista tutto di fatti economici; ma laddove l'economia è possibile dell'uomo isolato, il diritto non è possibile se non dell'uomo È necessario il momento della socialità per distinguere diritto ed economia? Inizialmente Croce pensava che il tratto della socialità fosse distintivo tra diritto ed economia. consociato, richiedendo un rapporto per lo meno tra due individui. E questo è un carattere differenziale del diritto dall'economia». Anch'io, una volta, la pensavo così (*); ma, meditando meglio, mi sono convinto che la distinzione non regge. L'individuo, che si dice isolato, è sempre individuo consociato; e, se non vive tra gli uomini, vive nella cosiddetta natura, con la quale forma società; tanto vero che nell'economia isolata si parla di scambi con sé stesso, che non sarebbero possibili senza una molteplicità di relazioni tra l'uomo e gli esseri naturali. D'altra parte, l'uomo economico, isolato, trasportato nella società dei suoi simili, non prende verso di essi, e verso le cose della società, altro atteggiamento che quello che già prendeva di fronte agli animali e agli enti della natura; li considera come vantaggiosi o svantaggiosi alla sua azione, e cioè provvede, sempre e unicamente, in quanto uomo economico, ai suoi comodi.” Inizialmente anche Croce pensava che l’elemento della socialità fosse elemento fondamentale del diritto Isolato o consociato che sia l’uomo agisce sempre libero e coatto, sempre sul base di una autonoma deliberazione volitiva e tiene conto delle circostanze date, a prescindere che queste circostanze siano uomini, la natura, le leggi... non importa. “Ma il fondo dell'obiezione non è forse questo, a cui le mie osservazioni rispondono. Si vorrà intendere che nell'economia isolata è impossibile quel fatto peculiare, contrassegnato come norma giuridica o legge; il che porterebbe una differenza tra economia e diritto. Ora, per quanto l'affermazione possa alla prima suonare paradossale, anche l'individuo isolato impone a sé stesso leggi e, quando le viola, ne subisce le pene. […] Ma ognuno di noi stabilisce norme e regole di vita per la condotta delle proprie faccende; e ad esse s'attiene, non più e non meno di quanto le società si attengono alle loro leggi.” Per Croce la legge è una qualunque volizione di una serie o classi di azioni, così come i programmi di vita che uno detta a sé stesso (vedi i suoi taccuini); ciò non vuol dire non riconoscere le empiriche differenze tra queste volizioni astratte, la natura di quella legge come volizione dell’astratto è sempre la medesima. “3. «Che cosa si vuol intendere per attività giuridica?” Mi pareva d'averlo detto chiaramente: per attività giuridica io intendo l'attività economica. Quanto all'attività del fare le leggi, essa è un fatto complesso, perché importa prima un lavorio teoretico di astrazione e, in secondo luogo, l'atto pratico con cui si comanda che le azioni di questi o quelli individui si con-formino, a un dipresso, alla linea tracciata, al modello astratto. In tutte codeste obiezioni, c'è in fondo il presupposto tacito della identificazione dell'attività giuridica con la legge; ma, allorché si distingue tra diritto e morale, s'intende parlare di due forme irriducibili di attività spirituale, e la legge giuridica non è una forma originaria, ma una produzione complessa alla quale hanno concorso varie attività. Dunque, nel distinguere diritto e morale non bisogna prendere il diritto nella forma secondaria e complicata della legge, ma in quella primaria e semplice dell'atto individuale. Legge e morale non mi sembrano concetti distinti, ma addirittura disparati” Accanto al lavorio teoretico dell’astrazione, della costruzione della classe, c’è l’atto pratico con cui si comanda. Per atto pratico con cui si comanda si intende un atto che è e non è pratico in quanto è una volizione astratta ed irreale. “4. “Il rapporto tra dominatori e dominati, tra padroni e schiavi è stato presentato erroneamente come rapporto di convenienza, quando in realtà è un rapporto di forza; e di due forze l'una maggiore e l'altra minore». Veramente, io non potrei rispondere a questa osservazione, se non quando mi venisse chiarito che cosa significhi, nel mondo dello spirito, «forza maggiore» e «forza minore». Quale è il criterio e la misura per determinare che la forza è maggiore nell'uomo, il quale asservisce un altro uomo, che non in quello asservito? Io, per quanto analizzi, non riesco a scorgere in questo caso se non l'incontro di due individui diversamente dotati, e l'effettuarsi di due diverse convenienze economiche;” Croce non è che non si accorge che padrone e servo abbiano poteri diversi, ma non c’è uno maggiore e uno minore, le due individualità agiscono in maniera uguale, il misurabile qualitativamente e quantitativamente non si dà nei rapporti tra uomini, “È una verità che verifico continuamente nei miei rapporti col mio servitore: che egli è mio padrone, almeno quanto io sono il suo; e che io sono suo servitore, almeno quanto egli è il mio” 1914 “Da quando, or sono circa otto anni, lessi all'Accademia Pontaniana la mia memoria sulla Riduzione della filosofa del diritto alla filosofia dell'economia, e feci cadere quella grossa pietra sul formicaio dei compilatori d'Istituzioni di filosofia del diritto, e di Tesi di laurea e di Tesi di dottorato intorno al concetto di Diritto e ai rapporti di Diritto e Morale, sto a guardare il curioso rimescolio e viavai che n'è nato, e che non cessa, anzi si agita sempre più sconvolto e vivace. Tutti girano e rigirano intorno a quella mia memoria, anche coloro che la sentenziano paradossale, assurda, sofistica, retrograda, sbagliata da cima
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