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Appunti lezioni prof. Petrini Storia e teorie dell'attore - a.a. 2020/2021 (DAMS), Appunti di Storia del Teatro e dello Spettacolo

Appunti completi sulle lezioni tenute dal prof. Petrini per il corso di Storia e teorie dell'attore a.a. 2020/2021 1. Scritti teorici - Diderot - Stanislavskij - Mejerchol’d - Gordon Craig - Brecht - Jouvet - Petrolini - Brook - Bene 2. Enrico IV - Introduzione - Analisi attori

Tipologia: Appunti

2020/2021

Caricato il 30/04/2021

MariaSoleB
MariaSoleB 🇮🇹

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Scarica Appunti lezioni prof. Petrini Storia e teorie dell'attore - a.a. 2020/2021 (DAMS) e più Appunti in PDF di Storia del Teatro e dello Spettacolo solo su Docsity! STORIA E TEORIE DELL’ATTORE – appunti lezioni 1/03/2021 Introduzione al corso Le lezioni non vengono registrate, perché il rapporto delle lezioni dal vivo tra studenti e professori è di contemporaneità. Il corso dell’anno scorso si è svolto pressoché interamente con lezioni registrate: visto che il corso di quest’anno è strutturalmente uguale a quello dell’anno scorso, se si accede al Moodle dell’anno scorso si possono accedere alle lezioni registrate. Gli argomenti del corso sono esplicitati sulla pagina del corso: la parte monografica su Carla Tatò non viene più svolta e quindi il corso è stato cambiato. Ci organizziamo con una prima parte dedicata ad una teoria sull’attore e sulla recitazione e una seconda parte, indicativamente le ultime due settimane del corso, dedicata ad alcuni esempi specifici di recitazione contemporanea, vedendo alcuni attori alle prese con i testi di Pirandello e in particolare con Enrico IV. Si studiano quindi due dispense: per chi è frequentante lo studio è da integrare con gli appunti di lezione e l’antologia di scritti teorici sulla recitazione, che impegna la prima parte del corso. Inoltre, ci saranno altre dispense sugli attori alle prese con Pirandello. Non riusciremo invece ad avere degli ospiti. Il corso è considerato contiguo al corso della professoressa Pierini di Teorie dell’attore, e ci saranno quindi delle lezioni comuni scambiando le questioni dei due corsi. Gli obiettivi del corso sono: - Avere dei punti di riferimento essenziali riguardo al dibattito teorico sulla recitazione nel corso del ‘900. - Provare ad indagare il modo in cui gli attori nel teatro si fanno autori di quello che avviene nel corso della rappresentazione, fino a che punto gli attori possono essere considerati autori nel teatro. Diversi attori recitano infatti un testo di un autore così forte come Pirandello rimanendo autori di ciò che accade in scena, mostrando le declinazione dell’attore-artista in scena. - Avere dei primi strumenti di lettura dell’arte dell’attore, qualche elemento per poter leggere e valutar l’arte degli attori e la recitazione. Questo obiettivo viene affrontato all’apertura delle lezioni e scorre in modo sotterraneo nel corso delle lezioni. Come leggere l’arte degli attori Normalmente, si pensa che non sia tanto difficile capire se un attore è bravo o no. Questa è un’idea diffusa, che nasce poiché la recitazione è una forma d’espressione con cui si è costantemente in contatto, avendo una consuetudine quantitativa con la recitazione. Questo porta a pensare che non sia così difficile capire la recitazione ed entrare all’interno dell’espressione di un attore. Questo è invece un giudizio complicato, perché la recitazione è una forma d’espressione artistica ed è quindi un linguaggio, con delle sue caratteristiche. Perché è difficile leggere l’arte dell’attore? Più generalmente, la cultura contemporanea rende difficile avere strumenti di valutazione per qualsiasi forma artistica, poiché non c’è l’abitudine ad avere punti di riferimento critici e metodologici per avere elementi di valutazione. Siamo quindi disabituati a porci dei problemi ed avere degli elementi di lettura. La difficoltà a leggere l’arte attoriale sta dentro ad una difficoltà più generale a districarsi con delle categorie interpretative nell’arte contemporanea. Questa difficoltà trova le sue tracce già nell’800, come nell’esempio dell’attore Luigi Bonazzi, che ha scritto una biografia di Gustavo Modena. Osservando il teatro a lui contemporaneo, dice che il pubblico dei cantanti e dei danzatori distingue i bravi e i non bravi, ma il pubblico del teatro no. La difficoltà di valutare l’arte attoriale non è solo contemporanea, ma è avvertita già nell’800, poiché il pubblico del teatro non sa valutare chi ha di fronte. Vale lo stesso per il pubblico contemporaneo: se oggi un pubblico ascolta un cantante cantare, la stonatura è percepita; se un pubblico vede uno spettacolo di danza ci si può accorgere di movimenti particolarmente sgraziati, stonati rispetto alla forma corretta. Un pubblico teatrale, come dimostra l’esperienza, non ha la stessa capacità in linea di massima, perché quello che sarebbe il corrispettivo della stonatura in musica e della non armoniosità in danza non è allo stesso modo palese nel teatro. La valutazione della recitazione è quindi un problema amplio che va indagato. Questa differenza tra i diversi tipi di pubblico sta nel fatto che il pubblico musicale/di danza è più preparato, avendo una cultura relativa alla disciplina di cui si tratta. È un pubblico più specializzato, che conosce ciò che va ad assistere. Ne è esempio il pubblico del teatro d’opera, che fischia quando il cantante viene giudicato non bravo per la sua interpretazione. C’è una maggiore specializzazione da parte del pubblico ma soprattutto l’importanza percepita della tecnica è diverso: il pubblico di teatro non si accorge dell’elemento tecnico, del linguaggio artistico sotto alla recitazione. Il pubblico di teatro tende a mettere in relazione ciò che fa l’attore con una credibilità desunta dal comportamento quotidiano. Si cerca nel teatro la rappresentazione della vita, fonte di molti errori ma facilmente compiuto, mentre per chi ascolta un cantante o guarda i danzatori presta attenzione alla componente tecnica. È chiaro che chi canta sta usando le tecnicità del canto, e la stessa cosa si può dire per la danza. È evidente l’elemento tecnico anche inconsciamente, mentre come spettatore di un attore questo elemento non viene preso in considerazione, puntando istintivamente la credibilità che ha a che fare con la recitazione come imitazione della vita. Questo punto svia da altri pensieri e riflessioni utili per capire meglio la recitazione. La conseguenza principale del ragionamento è che la prima cosa da tenere presente è che la recitazione è un linguaggio espressivo: laddove siamo di fronte a degli artisti con ambizione d’arte siamo di fronte ad un linguaggio espressivo ed artistico, e perciò bisogna abituarsi a vedere gli attori come qualcuno che usa un linguaggio specifico con un vocabolario e una grammatica. A partire da questi elementi realizza la sua recitazione. Tanto più si è all’interno di un ambito artistico, quanto più il linguaggio deve essere modificato da chi sta realizzando l’opera: l’autore si misura con vocabolario e grammatica, piegandoli alla propria ambizione artistica. Si potrebbe arrivare a dire che tutte le grandi opere d’arte fondano una grammatica, tutti i grandi artisti partono da una grammatica per poi rifondarla (Walter Benjamin). Ne sono esempi nella letteratura James Joyce o Carlo Emilio Gadda, autori che rifondano una loro grammatica partendo dal linguaggio normale conosciuto alla perfezione e ricalibrato sulla propria necessità espressiva. Bisogna pensare che quando si ha a che fare con un attore che recita, ci si sta misurando qualcuno che ha come punto di partenza un vocabolario e una grammatica. La differenza e il fascino della disciplina del teatro è che è straordinariamente difficile se non impossibile fissare questi due elementi: la recitazione pone questo tema in modo esponenziale. L’attore è qualcuno che si confronta con un linguaggio espressivo fatto di vocabolario e grammatica, ma questi non sono precisabili e alcuni teorici della recitazione del ‘900 si sono fermati su questo punto cercando di precisare il linguaggio teatrale, senza riuscirci. Probabilmente, nel caso della recitazione, ciascun attore ha il suo vocabolario e la sua grammatica. Il punto decisivo di partenza è quindi abituarsi ad avvicinarsi alla recitazione come un linguaggio. Non c’è un vocabolario o una grammatica esplicita nel teatro da poter fissare, anche se alcuni teorici hanno provato a fissare questo linguaggio. Una delle conclusioni è proprio che ogni attore abbia un linguaggio proprio. Quella dell’attore può essere una forma artistica, però quando c’è l’ambizione artistica l’attore può essere un autore, che ha due caratteristiche particolari quando viene inteso come artista: - L’attore è sostanzialmente l’unico artista insieme al danzatore che usa il proprio corpo come materia della propria espressione d’arte. Nel caso dell’attore, artista e opera coincidono. Questa è una caratteristica tipica dell’arte dell’attore, peculiarità assoluta da tenere conto. È il motivo per cui in realtà non si riesce a formare il vocabolario e la grammatica dell’arte, perché ogni corpo è diverso, e di conseguenza diventa estremamente complicato fissare caratteri generali. - Vincolo organizzativo che pressa sull’attore: nel caso della arte recitativa, il vincolo organizzativo ha una importanza che nel caso delle altre arti è molto inferiore. Un romanzo può essere scritto quando si ha la disponibilità a farlo, l’ispirazione, le caratteristiche ambientali giuste: la stessa cosa vale se compongo una scultura o un quadro, poiché sono forme d’arte che consentono di scegliere il momento in cui ci sono le condizioni migliori per farlo. In più, teoricamente, sono forme d’arte che consentono di tornare su quello che si produce, lavorando in diversi momenti. L’arte dell’attore, usando se stesso come opera, non può mai essere del tutto sganciata dalle condizioni organizzative in cui realizza la sua opera, e deve tenerne conto con una forza diversa rispetto alle altre arti. Un attore realizza la propria forma espressiva a partire dalle 21 i un luogo deputato e viene ascoltato da un pubblico. Questo rapporto con chi guarda e ascolta ha una durata temporale determinata e finisce, senza possibilità di tornare indietro. L’attore è un artista che lavora con il proprio corpo, con la propria sensibilità e sentimenti, usandolo con un vincolo organizzativo particolarmente forte, che le altre forme d’arte presentano in modi completamente cruciale, che pur tenendo conto della mediazione, riesce a prevalere sugli altri codici espressivi. Ne è esempio Orson Welles, che sosteneva che nel cinema il regista non era fondamentale, in quanto solo l’attore importava. Parlando di recitazione teatrale si fanno spesso esempi di attori cinematografici, tenendo conto la continuità ed essendo questi più facilmente analizzabili. 3/03/2021 Petrini consiglia di stampare il file per avere una lettura più proficua. L’antologia è una serie di brani che comprende una scelta di riassumere gli snodi essenziali del teatro novecentesco. Non sono brani scelti soltanto per l’importanza che hanno avuto di per sé, ma anche per l’influenza che hanno avuto: soprattutto fra i primi, le figure hanno avuto una forte influenza nelle teorie successive. Si tratta di brani novecenteschi, e l’unico autore che sfugge a questo intervallo temporale è Diderot, intellettuale settecentesco, che però ha avuto un influenza maggiore nel ‘900 rispetto a quando era in vita. Si tratta spesso di brani estrapolati da opere più ampie, proprio come nel brano di Diderot, tratto dal Paradosso sull’attore, e bisogna quindi tenere conto che spesso questi brani possono sembrare mancanti di passaggi argomentativi. Le lezioni sono utili per suggerire le chiavi di lettura dei punti principali. I brani estrapolati al loro interno hanno dei tagli, che si segnalano editorialmente con le parentesi quadre. Altri testi sono invece riportati per intero, come nel caso del brano di Stanislavskij. Denis Diderot Diderot è un intellettuale francese settecentesco che si occupa di teatro nel corso della sua vita scrivendo testi teatrali e frequentando assiduamente il teatro. Ha scritto un libro uscito come intervento su rivista pubblicato a puntate, poi intitolato Paradosso sull’attore. Questo testo si sviluppa nella forma di dialogo, come tipico dei brani illuministi. Una delle due figure normalmente è un alter ego dell’autore. L’importanza di questo testo è soprattutto otto-novecentesca: quando Diderot pubblica sulla rivista tra il 1787 e il 1788, l’eco della sua pubblicazione non è così vasta. Viene pubblicato come volume in Francia soltanto nel 1830, postumo e come volume in edizione rivista parzialmente da Diderot. In Italia arriva solamente nel 1909. Queste due date possono dare il polso di come il testo abbia influenza posteriore: in Italia le sue tesi erano conosciute nell’800, ma la traduzione significa un ingresso più forte nel dibattito teatrale. Questo testo si riferisce molto al teatro contemporaneo all’autore, interessante per chi si occupa della storia del teatro. La riflessione teorica si coniuga con il racconto del teatro contemporaneo, preso come esempio come stimolo per il lettore. Si tratta inoltre di un pamphlet per nulla sistematico: Diderot non ha in testa un’idea di partenza, uno sviluppo e un’idea di arrivo, ma il suo ragionamento si muove su diversi ambiti e non c’è sistematicità, ma più un mix di argomenti. In questo saggio vengono espresse idee e riflessioni che sembrano non stare dentro ad un filo logico, ma più ad una serie di osservazioni. Il titolo del libro non è casuale, perché esprime alcune tesi paradossali. In modo particolare quella più celebre, viene accostata immediatamente a questo testo: cosa vuol dire però paradosso? Non è solo una cosa un po’ strana, ma significa etimologicamente contro il senso comune, contro l’opinione corrente: il paradosso ha l’ambizione di rovesciare l’opinione corrente su un certo argomento. Questo testo intenzionalmente vuole rovesciare alcuni punti che secondo Diderot sono sbagliati, e il suo testo si incarica di esprimere opinioni molto diverse. Il paradosso viene espresso informa piuttosto netta, e quindi le sue tesi sono paradossali perché esasperate: le tesi sono volutamente espresse in modo estremo, perché l’intenzione è di rovesciare l’opinione corrente sulla recitazione. Le cose che dice Diderot sono molte, proprio il carattere non sistematico non aiuta a sintetizzarne il contenuto, però in prima approssimazione sono due le tesi principali: - La prima riflessione sull’attore, che è quella più famosa, riguarda il rapporto fra l’attore e le emozioni che prova in scena. Secondo lui, l’attore di genio non deve provare le emozioni del personaggio che recita. Sono gli attori mediocri, che a lui non interessano, sono quelli che in scena provano davvero le emozioni del personaggio che recitano; mentre gli attori di genio non vivono queste emozioni. L’attore di genio è sempre molto distaccato dalle emozioni del personaggio che recita. È una tesi paradossale perché il senso comune sulla recitazione dice esattamente l’opposto, ovvero che il bravo attore prova le emozioni del personaggio che recita, tanto più bravo quanto più riesce a calarsi nei panni del personaggio che recita. Questo è il primo nodo in questo testo, che torna diverse volte nel saggio. - La seconda riflessione è che l’attore in scena è vero non perché imita la realtà così com’è, ma è vero se imita un modello della realtà che lui si è costruito e che lui realizza in scena. Poiché nella riflessione sulla recitazione torna sempre la questione dell’essere veri in scena, pensando che l’attore debba essere vero in scena, si apre un mondo sulle posizioni di cosa significhi questo essere veri. La posizione di Diderot è molto chiara, definendo l’essere veri non quando si trasporta la realtà, la quando osservando la realtà si trae un modello ideale e poi imita quel modello ideale. Un altro autore di questi anni dice che le attrici non devono recitare una regina che hanno visto, ma costruendo un modello ideale di come deve essere una regina e adeguandosi a questo modello. La recitazione viene spinta oltre alla mimesi della realtà, verso una dimensione che mantiene un livello di astrazione. Secondo Diderot, gli attori non devono essere sensibili, non aiutandoli questo a raggiungere una forma espressiva d’arte. L’attore che cerca di riprodurre i sentimenti in scena è in balia di questi sentimenti e della propria sensibilità, diventando fatalmente un cattivo attore. Un buon attore o un attore di genio è un attore che resta distaccato, che controlla tecnicamente e artisticamente i sentimenti del personaggio, stando al di qua di questi e lavorando tecnicamente. In scena dà l’impressione di essere posseduto dalle emozioni ma non lo è, come ci si può accorgere osservando attentamente l’attore di genio. Diderot insiste sulla non sensibilità dell’attore di genio, che deve essere freddo. La sensibilità uccide la possibilità di essere attore di genio. Questa tesi viene sostenuta per due ragioni: la ragione tecnica è che secondo Diderot un attore trasportato, che vive la passione del personaggio che recita, è in balia di questa passione e non riesce quindi a controllarsi in modo corretto, risultando diseguale nella resa. Non è in grado di controllare la sua opera d’arte, prerogativa di un artista in ottica illuministica. Non significa che un attore deve essere razionale nel senso di progettare la sua performance, ma che in qualsiasi forma d’arte si realizza un incontro fra qualcosa che si può chiamare ispirazione, e un elemento che ha a che fare con il pensiero e la forma critica. L’arte è un incontro di questi elementi, e visto che Diderot pensa che gli attori possano essere artisti in senso pieno, rivendicando quindi la costruzione dell’opera. L’attore che non ha questa capacità di controllo è troppo in balia di se stesso, non esercitando la riflessione critica e il controllo tipica della creazione d’arte. Dal punto di vista tecnico questo attore non è sufficientemente bravo, e sono quindi superiori che sono freddi, distaccati dal personaggio che recitano. Non c’è però una questione solamente tecnica, ma Diderot sostiene la necessità di non viene le emozioni anche perché gli interessa la componente della finzione. Dal punto di vista artistico è interessato alle forme d’arte che lavorano sulla finzione, mantenendo evidente questo carattere. Diderot rende evidente ma non esplicita una vicinanza alle forme d’arte che rifiutano l'immedesimazione in nome di una vicinanza ai temi della finzione. Testo: Il paradosso sull’attore (1777-1778) Parlando delle qualità fondamentali dell’attore, vuole che abbia raziocinio, essendo uno spettatore freddo e tranquillo di se stesso mentre recita. Questo gli permette di mantenere forte la recitazione nelle più rappresentazioni. Diderot descrive come chi vive le emozioni non riesca a controllarsi. Gli attori che recitano d’istinto sono ogni giorno diversi, mentre chi punta sulla riflessione e sullo studio. In un genio non è il cuore ad agire ma la testa. Viene incontro ad un’osservazione che gli viene mossa: se qualcuno mi deve commuovere, la commozione deve parlare attraverso l’emozione dell’attore. Diderot non è d’accordo, poiché nella recitazione gli attori bravi sono controllati e le loro rappresentazioni sono frutto di sapienza tecnica fatta di un sistema di declamazione, una tecnica specifica. Ogni espressione fatta in un tono diverso da come dovrebbe suonerebbe falsa, e se è fatta così è perché l’attore sta lavorando su un aspetto tecnico, essendo attendo all’unità e all’armonia della recitazione. C’è una contrapposizione tra lo studio dell’attore e l’emotività. Prima di dire una battuta che colpisce il pubblico, l’attore si è ascoltato dirla più volte, essendo distaccato da questa emozione anche quando turba lo spettatore. Diderot estremizza la sua posizione con l’obiettivo di sconvolgere il lettore per portarlo ad una riflessione: la maestria dell’attore consiste nel porre attenzione ai segni esteriori della sua rappresentazione al punto di trarre il pubblico in inganno. È la mancanza di sensibilità che rende gli attori bravi, come chi fa nascere le lacrime dal cervello e non dal cuore. Il secondo punto presente nel testo è cosa vuol dire essere vero per un attore in scena. Per Diderot non significa imitare la realtà, ma un modello che dalla realtà l’attore deve trarre. Se l’attore in scena porta solo quello che c’è nella realtà, questo è banale, non interessante. Il vero sulla scena è la conformità dei gesti che porta sulla scena, esagerato dall’attore. L’attore si misura con un modello ideale e lavora per migliorare, esagerandolo, il modello presente nel testo. Il modello ideale al quale si conforma l’attore per recitare in scena è un modello che consente all’attore di avere i movimenti, la postura, la presenza in scene e il tono giusti; non viene dall'imitazione della realtà ma da questo modello ideale. Ecco perché l'attore per la strada o sulla scena incarna due personaggi così diversi che si stenta a riconoscerli. Queste riflessioni di Diderot sul modello ideale ricorre nel testo e può essere isolato come punto decisivo: questa tesi è paradossale perché Diderot dice che l’attore è vero quando si rifà al modello ideale. Una delle ricadute di questa tesi di Diderot è stata la discussione nell’800 e nel ‘900 fra due tipologia d’attore principali: l’attore più caldo, che tende a lavorare sull’empatia emotiva con il personaggio, e quello più freddo, che si distanzia dal suo attore. Questa distinzione non è fra attore di genio e mediocre, ma è una differenza sulla quale si interrogano gli attori e chi si interessa di recitazione, su quale rapporto deve esserci tra le attori del personaggio e dell’attore. Uno dei modi di dire di questa distinzione ha due termini: emozionalismo e anti-emozionalismo, termini novecenteschi. Gli attori emozionalisti recitano puntando sull’empatia e sull’adesione emotiva si scontrano sugli anti emozionalisti, che nono coincidono le loro emozioni con quelle del personaggio. Eduardo De Filippo è uno dei massimi esempi di attore anti emozionalista, un attore distaccato. Questa distinzione non sempre è evidente agli spettatori, ma De Filippo risulta sempre molto freddo, mai immedesimato. Nel corso del ‘900 queste due tipologie di attori che descrivono zone diverse e consentono di entrare in uno dei problemi della recitazione. Questa distinzione si può fare anche per gli attori cinematografici, e si può fare un esempio molto famoso di un film, Il maratoneta, in cui ci sono due attori particolarmente interessanti: Dustin Hoffman e Laurence Olivier. Il primo è molto caldo ed empatico e il secondo è freddo. I due sono co-protagonisti e funzionano benissimo insieme, essendo una esemplificazione di come possono realizzarsi questi due tipi di recitazione. Olivier è un dentista mentalmente instabile, un criminale nazista imboscato che sta dietro ad alcune vicende legate al suo passato, mentre Hoffman è un giovane studente universitario: in una scena, Olivier tortura durante la sua professione Hoffman per estorcere delle informazioni di cui ha bisogno. C’è un famoso aneddoto su questa scena: prima di girare questa scena, Hoffman chiede a Olivier di potersi concentrare venti minuti (attore caldo che ha bisogno di immedesimarsi) per correre e sudare, facendo un lavoro fisico per entrare nel personaggio. Olivier lo aspetta fumando una sigaretta. Finiti i venti minuti, Hoffman dice di essere pronto, e Olivier gli dice “Ma non era più semplice recitare?” e iniziano a girare la scena. Hoffman è un attore per antonomasia caldo, nato dal Actor’s Studio, che cerca l’empatia emotiva con il personaggio. Olivier è invece l’opposto, lasciando sempre una distanza tra se stesso e chi interpreta. La sequenza della tortura rappresenta significativamente l’efficacia dei due modi di recitare. 8/03/2021 Konstantin Stanislavskij Dopo Diderot, si fa un salto temporale fra ‘800 e ‘900. Stanislavskij è una figura novecentesca: uno dei massimi protagonisti del teatro del ‘900. È un personaggio che viene riconosciuto come uno dei padri fondatori della regia teatrale, probabilmente il primo vero regista teatrale come tale. La sua compagnia Teatro d’arte viene fondato nel 1898, avendo un ruolo fondamentale nell’avvio della regia teatrale in Russia insieme ad altri collaboratori come Nemirovitc Dancenco. È stata una figura molto importante sia nel suo tempo, diventando subito un riferimento per il teatro europeo, e per l’influenza che ha esercitato sul teatro a venire, essendo ancora al giorno d’oggi protagonista di dibattiti e studi. Ha elaborato una serie di riflessioni ricche e articolate, ma anche estremamente controverse, essendo uno di quegli artisti che ha suscitato attenzione e interesse ma anche dei contrasti. Tutte le riflessioni che Stanislavskij ha elaborato nel corso della sua vita, sempre legate ad un’attività pratica, si riferiscono al suo percorso teatrale concreto, lavorando a teatro e producendo in riferimento al suo percorso moltissimi scritti. Questi scritti possono essere raccolti in un pensiero dell’autore, che alcuni nel corso del tempo hanno forzato in un “sistema Stanislavskij” che però non è autentico. L’autore ha infatti solamente riflettuto rispetto a tutti gli aspetti teatrali, senza comporre in un sistema riassumibile in una formula unica applicabile sul lavoro degli attori. Quelle di Stanislavskij sono riflessioni anche contraddittorie, che vedono l’evoluzione di un’idea nel corso degli anni. I primi autori dell’antologia ripercorre le riflessioni capitali sulla recitazione e l’attore del ‘900. ci sono molti altri intellettuali e artisti che si occupano di questi temi, ma in questa selezione si sono privilegiati autori la cui conoscenza è imprescindibile per lo sviluppo dello studio dell’arte recitativa. Mejerchol’d è uno dei capisaldi del teatro, uno dei massimi esponenti del teatro europeo del ‘900. fa parte della cultura teatrale russa, che in questo periodo ha avuto fortissime influenze. Questo autore è un allievo di Stanislavskij, che per il modo in cui ha impostato il suo lavoro ha avuto diversi allievi che sono diventate figure importanti. Mejerchol’d arriva da un lavoro svolto con il regista nei primi anni dell’attività di entrambi, distanziandosi però da lui molto precocemente: le riflessioni e i lavori più importanti di Mejerchol’d sono molto diversi dal suo maestro. Si distanzia almeno su die punti essenziali: - Procede in una direzione risolutamente anti naturalistica, abbandonando una corrente molto importante per il lavoro di Stanislavskij. Mejerchol’d va in una direzione vicina alle avanguardie, essendo uno dei protagonisti di esse. Questo vale sia per la sua rappresentazione scenica sia per le sue teorie. - Coincide con il modo diverso che ha Mejerchol’d di concepire il proprio rapporto come regista con i suoi attori. L’autore è essenzialmente un regista ma anche un attore, più di Stanislavskij. Come regista, si è sempre posto abbastanza al servizio degli attori: Mejerchol’d è uno di quei registi che pensa che il teatro coincida essenzialmente con l’espressione dell’arte degli attori. Il regista deve quindi organizzarla, avendo però un ruolo che lavora nella consapevolezza che ciò che sta prima di tutto è l’attore. La riflessione sull’attore ha quindi una supremazia assoluta. Stanislavskij è enormemente interessato all’attore, ma il suo cruccio è principalmente avere degli attori che gli permettano di realizzare ciò che lui vuole realizzare come demiurgo. In Mejerchol’d l’attore è a tutto tondo protagonista. L’antologia propone due testi di Mejerchol’d, abbastanza vicini nel corso del tempo: il primo è più concentrato sul teatro come forma rappresentativa e l’attore come elemento basilare; il secondo riguarda il rapporto fra regista e attore. La peculiarità di questi scritti è che sono due conferenze che l’autore tiene in questi anni, trascritte con anche le domande del pubblico e le conclusioni tratte alla fine dell’intervento. Quello di Mejerchol’d è un caso molto simile a Stanislavskij: è un uomo di teatro, che vive sperimentando e vivendo continuamente a teatro, perciò i suoi scritti vanno messi in relazione con la pratica teatrale dell’autore. Questa è una tipica scrittura teorica che ha un rapporto strettissimo con la pratica teatrale. Per questo motivo, il testo è non sistematico: ci sono spunti, riflessioni, hanno uno sviluppo logico che non è predittivo ma vuole riflettere sulle tematiche del teatro. Mejerchol’d ha scritto molto sul teatro ed è stato ampiamente tradotto, avendo poi una forte influenza sul teatro a venire: l’avanguardia teatrale del secondo ‘900 ha avuto l’autore come punto di riferimento. Anche per Carmelo Bene è un punto di riferimento, nonostante le grandi differenze. Testo: Ideologia e tecnica nel teatro (1933) Il primo intervento riassume molti dei punti significativi dell’autore. Il professore dà qualche chiave di lettura e sottolinea le parti più importanti, non ripercorrendo perfettamente il testo. Quattro spunti sul testo: 1. La temperie culturale e politica dentro la quale si colloca il lavoro di Mejerchol’d determina la sua riuscita: la rivoluzione d’Ottobre. L’autore era già attivo prima, ma è stato per antonomasia l’artista della rivoluzione. Non si può leggere ciò che scrive senza tenere conto che sono riflessioni sul teatro legate alla rivoluzione, a cui Mejerchol’d era fortemente interessato. Il significato politico delle sue riflessioni è fortissimo, e non si può capire se non lo si colloca in questo momento. La conferenza del 1933 inizia con “Compagni!”, ed è quindi rivolta ai rivoluzionari. Chi ha partecipato alla rivoluzione russa pensava di essere alla vigilia di un cambiamento del mondo intero: c’era l’idea che la rivoluzione stava rovesciando le sorti della Russia nel senso della liberazione dei cittadini, e pensando che potesse riguardare il mondo intero. Quando si legge l’importanza della politica nel lavoro di Mejerchol’d bisogna tenere conto di questo momento, che lui ha vissuto con questa urgenza. Mejerchol’d ha partecipato alla rivoluzione ed è stato uno delle vittime di essa, perché dopo aver speso la sua vita per la rivoluzione è morto nel 1940 durante le purghe staliniane. L’interesse politico deriva quindi dalla partecipazione ad un movimento radicale. L’autore fa molti riferimenti che si devono contestualizzare in questo contesto. 2. Mejerchol’d fa ruotare il saggio attorno al perno secondo il quale l’impostazione ideologica nel teatro è essenziale: qualsiasi rappresentazione teatrale ha una tendenza ideologica, e poiché è così, anche il suo teatro deve esplicitare una posizione, un punto di vista. Il termine ideologia nel titolo sta dentro a questo ragionamento. Il teatro deve porre gli spettatori di fronte ad una visione del mondo. In modo particolare, a pagina 27, Mejerchol’d concentra una riflessione su questo punto: “Capire i compiti dello spettacolo, è indispensabile non solo all'attore ma prima ancora a chi organizza lo spettacolo. In ogni opera che viene messa in scena, c'è una determinata tendenza. Non credete a chi sostiene che esiste un'opera senza tendenza. Proprio in questo si sbagliano i drammaturghi occidentali. […] Essa mobilita tutti gli strumenti dell'arte teatrale, per influenzare lo spettatore, per conquistarselo. ” Qualsiasi testo esprime una tendenza, e i drammaturghi occidentali sbagliano quando affermano il contrario. Bisogna quindi lavorare nell’esprimere il punto di vista più idoneo, lavorandoci artisticamente. Secondo Mejerchol’d l’opera deve esprimere un’ideologia: questo termine può avere diverse accezioni, ma l’autore usa questo termine in senso positivo. Ideologia indica almeno tre cose diverse: la falsa coscienza, ovvero quel pensiero sulle cose che fa vedere le cose in modo distorto; una visione rigida delle cose, sclerotizzata e preconcetta che limita nel contatto intellettuale con le cose; l’accezione che usa Mejerchol’d è intendere ideologia come punto di vista sul mondo e sulle cose. In questa terza Mejerchol’d si ritrova l’autore, ricollegando questo al fatto che il teatro deve cercare di occuparsi della versione del mondo più giusta e di esprimerla dentro l’opera realizzata. Tutto questo non esclude la dimensione artistica: uno dei grandi dissidi di Mejerchol’d con il regime è stato questo: quando il regime staliniano esige che gli artisti subordino la loro ate come semplice espressione di un punto di vista politico, perché ha sempre cercato di esprimere la tendenza con un significato artistico. Questo suo mantenere ostinatamente un’idea di arte che unisce politica e bellezza, profondità del testo artistico è stata una delle più grandi caratteristiche dell’autore. L’attore dentro a questa idea è un elemento fondamentale, poiché in scena deve esprimere egli stesso un punto di vista sul personaggio, non limitandosi a portare al pubblico il personaggio che recita, ma portando il proprio punto di vista e quello della compagnia su quel personaggio. Uno dei motivi per cui Mejerchol’d si distanzia da Stanislavskij è che l’attore immedesimato vede un’adesione tra personaggio e spettatore; l’attore di Mejerchol’d dovrebbe riuscire a portare se stesso attore che mostra un punto di vista del personaggio, possibile solo se rimane parzialmente distanziato. Se in ogni teatro c’è un'ideologia, a Mejerchol’d interessa un teatro che lavora su questo tramite l’attore, che porta il punto di vista proprio sul personaggio. A pagina 35 Mejerchol’d fa riferimento esplicito a Stanislavskij, come il polo opposto al suo. Cita il MCHAT, il teatro d’arte di Stanislavskij: “Sapete che il sistema del MCHAT si basa sul realismo. Voi dite che questo è giusto. Ma a proposito della "reviviscenza" bisogna stare ben in guardia, poiché entrare nella parte fino alla punta dei capelli, tanto da perdere se stessi, è molto pericoloso; quando entriamo in un personaggio, attraverso il travestimento, ne assumiamo tutte le caratteristiche positive e negative, ma attenzione a non perdere mai di vista se stessi. Voi non avete il diritto di entrare in una parte fino al punto di dimenticare voi stessi. In questo sta tutto il segreto [...] perché nei confronti di ogni personaggio dovete assumere il ruolo o di difensore o di pubblico accusatore. Questa è la chiave di tutto, altrimenti nello spettacolo perderete il vostro posto giusto.” Quello che interessa a Mejerchol’d è che l’attore trovi il posto giusto, poiché mantenga una presenza che gli consenta di esprimere il proprio giudizio sul personaggio: l’attore deve mostrare agli spettatori il proprio rapporto con il personaggio, il proprio punto di vista. Così compie un lavoro dal punto di vista politico e artistico. È notevolmente distante dal lavoro di Stanislavskij, come esplicita anche l’autore. 3. L’appartenenza di Mejerchol’d alle avanguardie: ò’autore è parte a suo modo di una stagione storica del primo ‘900 che vede la nascita delle avanguardie. Mejerchol’d è uno dei massimi esponenti del futurismo russo: una delle peculiarità del futurismo russo è l'attenzione al rapporto con la tradizione. Se in Italia il futurismo c’è una cesura netta con il passato, nel caso russo c’è un’attenzione ad innestare la sperimentazione formale e l’innovazione con un interesse per la tradizione del paese. All’inizio del saggio Mejerchol’d parla proprio di questo aspetto, rispetto al bisogno di tenere conto dell’arte del passato. L’autore ha un atteggiamento molto dialettico nel rapporto fra innovazione e tradizione. 4. Tornando all’attore, la questione dell’anti naturalismo, del modo di concepire la recitazione in una prospettiva diversa da Stanislavskij. Alle pagine 29 e 30 si concentrano alcune riflessioni di Mejerchol’d molto efficaci nel definire un proprio sguardo sull’attore, non immedesimato e che fa in scena cose che non sono riconducibili an naturalismo e diverso quindi dall’attore di Stanislavskij. Per realizzare una recitazione di queso tipo Mejerchol’d parte da un tipo di esercizio chiamato biomeccanica: questa è una delle invenzioni più famose dell’autore, che consiste in un modo di far allenare l’attore tramite esercizi fisici, che dovrebbero consentire all’attore di lavorare sul proprio corpo in modo consapevole e libero, aperto a forme non naturalistiche. Stanislavskij concepisce l’allenamento liberando il corpo dell’attore dal blocchi fisici per portare l’attore a esprimersi in forma naturalistica, mentre il lavoro di Mejerchol’d ha l’obiettivo di esprimere il proprio corpo per facilitare l'espressione in scena personaggi che non sono naturalistici. Mejerchol’d mette insieme questi esercizi chiamati biomeccanica che non sono un insieme di esercizi che gli attori facevano in scena, ma si tratta di esercizi che liberano il corpo per usarlo liberamente in scena. Nel saggio parla della biomeccanica e di come questa non debba essere riprodotta in scena. Vediamo un frammento di alcuni esercizi elaborati da Mejerchol’d in un filmato muto. Vediamo anche una rara ripresa di uno spettacolo di Mejerchol’d tra i più famosi, Il revisore, in cui si intuisce un modo di muoversi degli attori in cui l’impostazione della recitazione che fugge dai modi naturalistici: alcune pose sono volutamente un po’ ampliate o artificiali, con scene costruite da movimenti collettivi che non puntano quindi a riprodurre una recitazione naturalistica. Mejerchol’d stesso di riferisce a questo spettacolo nei suoi testi. Questa sottolineatura dell’esibizione manifesta è tipico del teatro di Mejerchol’d. Questo tipo di recitazione non è naturalistica ma, secondo Mejerchol’d, “realistica”. L’autore presenta quindi l’importante distinzione tra naturalismo e realismo: - Il naturalismo tende a riprodurre sulla scena un modo di muoversi, di realizzare il personaggio come mimesi/fotografia della realtà, riportando atteggiamenti e modi di relazionarsi quotidiani. - Il realismo parte da elementi che provengono dalla realtà, non da pure astrazioni, ma sono riprodotte non in modo fotografico: c’è qualcosa che eccede, di più caricato. Lo spettatore che guarda una rappresentazione naturalistica riconosce una situazione quotidiana e tende ad immedesimarsi; lo spettatore che guarda una rappresentazione realistica vede elementi che lo estraniano, mantenendo un atteggiamento più distaccato. Non si immedesima a ciò che vede poiché non la riconosce come familiare, e perciò mantiene una coscienza critica di quello che accade. Mejerchol’d tiene conto di questa riflessione a pagina 30: quando nella storia del teatro del ‘900 qualcuno dice di fare teatro convenzionale, lo fa in senso positivo, intendendo una rappresentazione che mostra gli elementi di finzione senza nasconderli: il teatro convenzionale gioca con la finzione esibita. In questo contesto, Mejerchol’d si considera realista parlando del suo gruppo di lavoro, che usa un realismo convenzionale per condurre la lotta contro il naturalismo. Il teatro non può essere il luogo in cui si fotografa la realtà, ma è il luogo in cui la convenzione costitutiva del fatto teatrale deve essere manifesta, esibita. Il teatro ha un carattere finto anche perché condensa un punto di vista, quindi per forza lavora in un processo sintetico, e lavora sugli elementi tipici rappresentati: “Dobbiamo dunque scegliere tutto ciò che è tipico, in modo che si senta la mano del maestro, la mano dell'artista, in modo che tutto sia chiaro, in modo che si possa costruire uno spettacolo senza elementi che compromettano la trasmissione delle idee.” Il teatro di Mejerchol’d parte dalla realtà ma non vuole fotografarla, spiegando il suo intento con due opere, rappresentate dalla sua compagnia e da quella di Stanislavskij: “Non ci spaventa che ne Il revisore ci sia una parete con undici porte, e che dalla porta centrale spalancata il pubblico veda avanzate una piattaforma zeppa di gente. Noi diciamo apertamente che è ora di finirla con le illusioni della realtà. Se assisterete a Il revisore e a Le anime morte noterete questa differenza. Noi non vogliamo essere naturalisti, e non vogliamo che lo sia nemmeno il nostro spettatore, perché non può esserci una riproduzione della realtà sulla scena, perché la scena è costruita in modo da non poter contenere la vita. Noi diciamo che questo non è compito dell'arte.” Sulla scena non si può rappresentare la vita perché è finta: la finzione per Stanislavskij va superata fingendo che tutto ciò che è finto sia vero, mentre per Mejerchol’d questo sottolinea la finzione e supera il naturalismo: “Già il fatto che sulla scena ci siano tre pareti e non quattro, esclude la possibilità di una piena "verosimiglianza". Questa è la natura di ogni arte.” 10/03/2021 Testo: L’arte del regista (1927) questa nuova recitazione. Oggi costruiscono personaggi naturalistici; domani dovranno distaccarsi dal naturalismo andando in una zona del realismo; dopodomani dovranno creare, distaccandosi dalla realtà. Se l’attore medio guarda la vita come una macchina fotografica e tenta di riprodurla mimeticamente, non sognando un’arte simile alla musica. L’attore dovrebbe passare tramite i tre gradi: “Egli si sforza di riprodurre la Natura, di rado pensa d'inventare con l'aiuto della natura, e non sogna mai di creare”. Questi gesti simbolici avvicinano l’attore alla marionetta, forma di teatro molto diffusa. L’arte delle marionette non è animata dall’emotività, e per dire che l’attore dovrebbe eccedere questo tipo di recitazione, richiamando la Supermarionetta, richiamando le teorie di Nietzsche del Superuomo. Così come Nietzsche intende un uomo oltre l’uomo, l’attore dovrebbe andare verso la marionetta e oltrepassarla, essendo calibrata sulle creazioni dell’attore. Gordon Craig rimane piuttosto vago sulla teoria, essendo questa più un’ispirazione: questo è l’aspetto contraddittorio dell’autore. Quando dice che l’attore deve trasformarsi un una Supermarionetta sembra che voglia dire due cose: - Che in teatro ci fossero davvero delle marionette. - Che, visto che gli attori rimarranno, almeno che lavorino in una direzione più vicina alle marionette, legnosi, inanimati e distaccati dalla natura. A pagina 65: “L'attore deve andarsene e al suo posto viene la figura inanimata: la Supermarionetta, possiamo chiamarla così, finché non si sia guadagnato un nome migliore.” Craig prova per un po’ a trasportare questa idea nel teatro concreto, smettendo poi di lavorare in qeusto ambito e concentrandosi sulla teoria e sugli aspetti scenografici, per cui diventa famoso avendo inventato la scenografia screens. 15/03/2021 Bertolt Brecht Brecht è una figura importantissima nel panorama artistico e culturale della prima metà del ‘900, che ha contribuito a precisare cosa è stato il ‘900 stesso. Brecht si è occupato di moltissimi studi nel corso della sua vita: è stato scrittore di teatro, teorico che ha riflettuto sul testo teatrale e sulla recitazione, regista che ha fondato una compagnia molto importante a Berlino. Oltre a ciò, si è occupato di letteratura come scrittore e critico, ha riflettuto sull’estetica delle arti, si è avvicinato al cinema facendolo e riflettendo sul cinema. Brecht vive nella prima metà del ‘900, in una seconda generazione rispetto ai primi autori studiati. Diventa conosciuto come scritto re e realizzatore di teatro sin da molto giovane: gli scritti antologizzati risalgono ad un periodo di maturità dell’autore. Il primo è uno dei possibili scritti più brevi che condensa il pensiero su alcuni punti essenziali di Brecht; il secondo parla della recitazione in particolare rispetto ad alcuni attori cinesi che vede. Questo autore è molto simile a Mejerchol’d, in particolare data l’importanza dell’approccio politico nel suo teatro. Il suo interesse per il teatro è mosso da questo interesse politico, in un’accezione alta, come leva del cambiamento del mondo. Per Brecht, una delle questioni fondamentali è unire un interesse esplicito per una dimensione politica con una attenzione altrettanto essenziale per l’arte e le questioni artistiche. Questo è uno degli intellettuali che ha saputo conciliare questi due interessi, intrecciandoli vicendevolmente senza che uno prevalga sull’altro. La riflessione estetica sul linguaggio teatrale non manca mai, al contrario di artisti che lavorano su una dimensione specifica. Il titolo del primo saggio riassume questo punto: Teatro di divertimento o teatro d’insegnamento? è secondo Brecht una falsa opposizione, in quanto il teatro d’insegnamento, che accende una facoltà critica nello spettatore, deve essere contemporaneamente divertente, lavorando sul piacere che questo dà. Metterli in contrapposizione è uno sbaglio non casuale, che fa comodo, ma in realtà il grande teatro sveglia la coscienza critica attraverso un’opera bella in senso estetico. Nonostante la sua grande influenza, è stato spesso banalizzato: il divertimento e il piacere del teatro sono essenziali per l’autore. Brecht usa il termine divertimento ma intende il piacere che l’arte provoca. A partire da ciò, l’autore pensa ad un teatro che si distanzi dal naturalismo e da forme di immedesimazione dell’attore: l’immedesimazione nella vicenda rappresentata e negli attori che rappresentano il personaggio non consente la facoltà critica. L’abbandono al personaggio, poiché prende lo spettatore per mano, non consente quello stimolo intellettuale che è un punto essenziale per la sua riflessione. Per Brecht il teatro deve vere una prospettiva assolutamente diversa dal teatro naturalista. Questo è lo stesso orizzonte di Mejerchol’d, che lo ha fatto con una recitazione più vicina alle avanguardie di Brecht. Brecht pensa che per realizzare questo teatro sia necessario dal punto di vista ella forma teatrale, realizzare un teatro epico; dal punto di vista della recitazione sia necessario realizzare una forma chiamata straniamento. Per distanziarsi dal naturalismo bisogna realizzare una forma teatrale epica e non drammatica, e contemporaneamente che gli attori adottino una forma di straniamento verso il personaggio, non immedesimandosi ma rimanendo distaccati. Per quanto riguarda la forma epica, la forma drammatica si riferisce al naturalismo, mentre la forma epica è il teatro che realizza una serie di accorgimenti che evitano il naturalismo. Fra le due dispense a pagina 80 c’è uno schema che ha realizzato lo stesso Brecht, in cui contrappone caratteristiche dei due tipi di teatro. Questa non è una distinzione rigida, ma è una accentuazione e peso diverso che i due tipi di teatro hanno. La forma drammatica si chiama così perché è stato così tutto il teatro da Aristotele in avanti, mentre il teatro epico deve sottolineare il racconto, la narrazione. Lo spettatore del teatro epico non si abbandona alla vicenda, ma ha un rapporto come se il racconto gli venisse raccontato. Le vicende vengono raccontate e non mostrate, così da evitare l’immedesimazione. La forma epica si realizza attraverso una prevalenza del racconto, smontando così alcune caratteristiche tipiche della forma drammatica: il racconto si divide in quadri, che non hanno necessariamente sequenza logica; le scenografie possono essere dei cartelli che indicano la finzione scenica, invece di una ricostruzione naturalistica; c’è un uso dei musicisti in scena e del canto di alcuni attori; durante i primi decenni del ‘900 Brecht utilizza filmati cinematografici proiettati durante la rappresentazione; le luci, il costume e il trucco avevano effetto straniante. Tutto ciò serve a mostrare il carattere di finzione del teatro, per non fare immedesimare lo spettatore e per ripensare il dramma nella forma epica. Brecht temeva che un’eccessiva esasperazione dell’avanguardia in teatro potesse danneggiare la componente politica del suo teatro: per questo il suo teatro non indugia pienamente nell’avanguardia. La politica nel teatro cerca un bacino di spettatori più grande possibile, in particolare nel periodo storico in cui lavora, ovvero alla vigilia dell’avvento del nazismo in Germania. Testo: Teatro di divertimento o teatro d’insegnamento? (1936) Brecht inizialmente ragiona sull’idea del teatro epico, nata da lui, dicendo che a forma più avanzata di teatro sia proprio il teatro epico, che percorre strade molto diversa dal naturalismo. Ciò che Brecht vorrebbe allontanare di più dal naturalismo, è che questo presenti come naturale ciò che propone, l’andamento della vicenda rappresentata. Questo aspetto non accende il pensiero critico, mentre al contrario il teatro epico fa pensare a come le vicende accadono. Il teatro epico non deve dare come effetto la naturalezza ma la finzione. Queste riflessioni nel saggio sono molto efficacemente riassunte nelle prime pagine, in modo particolare alle pagine 73 e 74: quando in teatro arriva l’idea del teatro epico come un fatto molto importante. La scena non è più naturalistica, ma incomincia a raccontare. L’elemento narrativo è fondamentale nel teatro di Brecht, poiché il racconto della scena invece della vista della scena porta al distacco da essa. Oltre a togliere la quarta parete, viene introdotto il narratore, oltre a grandi cartelli, scenografia che mostra la finzione, la proiezione di pellicole . Gli attori inoltre mantengono un distacco rispetto al personaggio interpretato, fino a sollecitarne la critica. Questi non si devono quindi trasformare pienamente nel personaggio: l’attore del teatro epico non dà allo spettatore l’adesione completa al personaggio, ma mostra allo spettatore di essere una cosa diversa dal personaggio. Il distacco deve essere quindi palesato, per consentire allo spettatore di non provare le emozioni incontrollati tipiche dell’arte, che secondo Brecht sono inconcludenti. Nessun aspetto del teatro quindi deve portare a queste emozioni incontrollate, ma deve portare ad uno straniamento, il termine più noto associato all’autore. Lo straniamento permette all’attore di non immedesimarsi, e di conseguenza permette lo stesso allo spettatore, rendendo quindi strano quello che altrimenti sarebbe naturale/naturalistico. Il teatro naturalistico non ha altri sbocchi o esiti, mentre per Brecht è fondamentale che tutta la rappresentazione renda strano la rappresentazione, facendo pensare perché ciò che sta accadendo sta accadendo così. Infatti: “A forza di dire: «Si capisce che è cosi», si rinunzia semplicemente a capire.”. nel naturalismo ciò che accade naturalmente è il centro della rappresentazione, quindi nel teatro epico il centro deve essere la sorpresa della rappresentazione, capendo così le leggi di causa ed effetto. Una rappresentazione, per come si muove naturalmente, porta a dire che il comportamento degli uomini è naturale ed ineluttabile: una rappresentazione epica porta a dire che gli uomini potrebbero comportarsi anche in modo diverso, allenandosi ad avere un approccio critico. Una rappresentazione costruita sul sorprendente è anche più interessante e divertente, portando avanti il sentimento estetico dell’autore. Il concetto di straniamento non viene inventato da Brecht, al contrario di quello di teatro epico, essendo una teoria nata tempo addietro e trattata per esempio dal teorico Viktor Sklovskij. Brecht riprende da altre formulazioni questa idea e la trasporta per la prima volta nell’ambito teatrale della recitazione. L’autore sistematizza la sua proposta, che ha grande fortuna e influenza sui decenni successivi. Lo straniamento, concretamente, è difficilmente descrivibile: è la capacità che l’attore deve avere, per non immedesimarsi nel personaggio, mostrando allo spettatore la differenza fra lui e il personaggio. Questo consente all’attore di evidenziare la finzione impedendo l’abbandono, e dando un giudizio sul personaggio. Il modo in cui un attore realizza lo straniamento non viene mai definita da Brecht, perché questo viene pensato in opposizione all’immedesimazione. Essendo oppositiva può essere realizzata in diversi modi, come dimostrano i lavori venuto dopo le teorie di Brecht che sono state definite stranianti in modi molto diversi. Testo: Effetti di straniamento nell’arte scenica cinese (1937) Questo saggio è un ottimo strumento per cominciare a capire cosa sia lo straniamento, descritto da Brecht. Questo però è solo un esempio possibile. Negli anni ‘30, in esilio dalla Germania, vede delle tournée di artisti cinesi, e trova che il loro modo di recitare sia molto in sintonia con ciò che lui sta elaborando. In queste pagine descrive come recitano gli attori, descrivendo un po’ meglio cosa intende per recitazione straniata. La recitazione straniata è consapevole, presuppone maturità e capacità di riflettere, necessita di un lavoro superiore. A pagina 82, Brecht spiega come guardando questi attori gli sembri di vedere una esemplificazione dello straniamento: l’attore è esente dal problema del naturalismo, ovvero della quarta parete. L’attore sottolinea la sua consapevolezza di essere visto, eliminando una delle illusioni della scena naturalistica. Il naturalismo usa la tecnica di mascherare la finzione della scena, mentre qui viene esplicitato che l’attore sa di essere visto. Inoltre, l’attore guarda se stesso recitare, e lo spettatore si accorge che si sta guardando. Queste troupe rappresentano vicende non naturalistiche, facilitando quindi il processo. Mentre recita, l’attore si rivolge agli spettatori come per chiedere conferma della rappresentazione e guarda il proprio corpo. Manifestare un rapporto esplicito con lo spettatore non turba il piacere della scena. L’attore si sforza per essere strano e sorprendente per lo spettatore, elevando la vita quotidiana oltre l’ovvietà. 16/03/2021 Fra le pagine 85 e 86 ci sono alcuni spunti di Brecht riguardo il ragionamento sullo straniamento. Per l’autore, se un attore deve recitare un’emozione in scena, l’attore straniato non dovrebbe creare dentro di sé l’emozione da rappresentare, il contrario quindi dell’immedesimazione di Stanislavskij. Secondo Brecht, l’attore straniato non deve creare effettivamente l’emozione che deve recitare, ma piuttosto lavorare sull’esecuzione di segni esteriori: così l’esecuzione è una serie d segni esteriori che rappresentano le emozioni. Per esempio, chi deve recitare il sentimento dell’ira potrebbe fare come a questo attore cinese, ovvero avere spalmato nelle mani un cerone bianco, così che quando deve rappresentare l’ira piega il volto sulle mani e sparge sul volto questo bianco. Alzando il volto e muovendosi con apparentemente calma, in modo così poco psicologistico ed emotivo, l’attore straniato può restituire il sentimento dell’ira. Brecht fa questo esempio pensandolo come un meccanismo raffinato, dicendo infatti che l’attore che recita in questo modo ha bisogno di una tecnica e di un’esperienza umana superiore a quella dell’attore immedesimato. Il processo creativo dell’attore straniato è un processo creativo di natura più elevata dell’attore immedesimato, che necessita un grado di consapevolezza maggiore. Riferendosi a quali emozioni in scena prova l’attore straniato, questo non dovrebbe creare l’emozione: questo potrebbe portare a pensare che questa recitazione sia totalmente razionale e controllata. Brecht invece dice che l’attore straniato non ha bisogno di far credere che l’emozione che prova lui è quella del personaggio. Gli attori sono portatori di emozioni, ma non lavorano sulla coincidenza fra le emozioni che recitano e quelle del personaggio. L’attore Glauco Mauri ha lavorato nel solco di questo tipo di impostazione, recitando in una strada un po’ straniata: una sera recitando Re Lear, mentre piangeva, si chiede se le lacrime piante sono sue o del personaggio. Solo dopo si risponde: quelle emozioni erano le emozioni che provava come attore perché stava Nell’antologia sono riportati tre brani: il primo, Il mestiere del comédien (1935-38), è una raccolta di suoi scritti, perché Jouvet scrive molti brevi interventi che sono poi stati raccolti; il secondo comprende dei suoi appunti sulle questioni teatrali, Osservazioni sul comédien (1951), e un terzo che comprende una serie di trascrizioni suoi suoi lavori con attori più giovani, Atteggiamento dell’attore dinanzi al personaggio. Questi sono diari che raccontano i dialoghi durante il suo lavoro di maestro di teatro. La prima questione che pone Jouvet è la distinzione fra due termini che si usano per parlare di attori: acteur e comédien. Questo è il suo contributo teorico più importante: nella lingua francese ci sono questi due termini che vengono usati come sinonimi, ma Jouvet li usa per indicare due tipi di attori diversi: - Acteur: artista dalla personalità così forte che piega a sé i personaggi. L’acteur resta uguale a se stesso, data la sua forte personalità che sovrasta il personaggio. Questo ha una gamma limitata d’azione - Comédien: attore più duttile, che riceve in sé il personaggio e che quindi può interpretare una gamma più vasta di personaggi. Questa differenza si può trovare analizzando il concetto di mimetismo: l’acteur non è capace di ciò, rimanendo se stesso, mentre il comédien ne è capace: l’acteur si sostituisce al personaggio, il comédien lavora per penetrazione. La distinzione è quindi fra gli attori che preponderano sul personaggio e tendono a portare in ogni personaggio la propria personalità, e quelli che accolgono il personaggio essendo quindi più duttili, portando ogni singolarità del personaggio. Lui stesso aggiunge due cose: questa distinzione non è rigida, poiché di fatto ci sono casi più sfumati; inoltre a Jouvet interessa il comédien, ritenendosi un comédien lui stesso e tutto il suo ragionamento è riferito al comédien. Per esempio, Carlo Cecchi è certamente un acteur, un attore che non vuole avere questa duttilità, come anche Memo Benassi. 1. La riflessione di Jouvet si concentra su alcune caratteristiche del comédien, che possono anche essere vere per l’acteur, ma il ragionamento dell’autore va in quella direzione. Jouvet non ha un approccio sistematico, e quindi le osservazioni ritrovate nelle sue pagine sono solo alcune. La prima cosa che emerge dal primo brano è che secondo Jouvet quello dell’attore è un mestiere empirico: c’è una dimensione concreta del lavoro che è quella che conta più di tutte, consegnando riflessioni teoriche. Non sono mai le riflessioni teoriche a precipitare e trasformarsi in una pratica. Questa sottolineatura dell’importanza del lavoro empirico torna nelle sue pagine ed è molto evidente nell’ultimo brano, nel rapporto con gli altri attori. A pagina 145 cita San Paolo e un suo aforismo: «Non è lo spirituale che viene per primo». La riflessione teorica, le idee, vengono dopo il lavoro concreto. Jouvet vive con un po’ di insofferenza l’eccesso di teorie dei suoi anni, vedendosi interessato alle cose fatte, empiricamente provata. Per lui “Tutto è sospetto tranne il corpo”, cioè le cose che il corpo consegna all’attore è qualcosa che ha un senso a seguire, e si può rovesciare fino a dire che tutto il resto è sospetto. 2. La seconda questione di Jouvet è l’attenzione particolare che per Jouvet ha il rapporto tra attore e pubblico, decisivo e costitutivo nel teatro. Il lavoro dell’attore non è qualcosa che l’attore mette a punto prima e poi mostra al pubblico, ma il lavoro dell’attore dovrebbe sempre formare qualcosa di fronte al pubblico, quando è davanti a lui. Questa distinzione in Jouvet è piuttosto decisa, che può essere intuitiva o può necessitare una riflessione ulteriore. In questo senso il rapporto con il pubblico è costitutivo, è l’essenza del teatro, poiché il teatro avviene solamente davanti al pubblico. Le prove, l’allenamento e la fatica sono essenziali per Jouvet, ma c’è la consapevolezza che tutto questo è un lavoro che consente poi all’attore di creare quello che crea nel momento in cui si trova davanti al pubblico. Nel teatro “che ha un senso”, ovvero che gli interessa, si realizza un campo magnetico fra attore e spettatore, della cui presenza gli attori si rendono conto, e che dà loro forza, ma di cui si accorgono anche gli spettatori. Questa è un’intensità percepita da entrambi, un elemento che è conseguenza del rapporto stretto attore- spettatore. Un altro elemento è che l’attore in scena recita poiché ha un mandato da parte degli spettatori: l’attore bravo è un mandatario del pubblico. Una riflessione culturale profonda sul senso dell’attore porta a dire che l’attore non è semplicemente un professionista che fa il suo lavoro, ma deve andare oltre a questo elemento da prestatore d’opera per avere un teatro interessante, essendo consapevole della presenza della scene e per gli spettatori in sala. Così l’attore attiva il campo magnetico parlando per gli spettatori, riferendosi ad un significato rituale del teatro, come rito importante per la società. Se l’attore non crea di fronte al suo pubblico ,non sta nel campo magnetico, e non c’è il patto di mandato culturale, il teatro non ha senso. Può accadere, ma perde di senso. Il senso profondo del teatro si attiva quando questi tre elementi si combinano. Questa è un’idea forte di teatro, con forte significato culturale condiviso da attori e spettatori. 3. Un ulteriore questione per Jouvet è la tecnica, che secondo lui deve essere padroneggiata. L’autore sottolinea questo punto nel lavoro con i giovani attori, unendolo al richiamo affinché la tecnica non padroneggi l’attore. La tecnica non deve soffocare l’energia creativa, che in una fase giovanile potrebbe permetterlo. Conoscere la tecnica significa conoscere le proprie specificità, non uniformarsi nell’uso della tecnica: l’importanza assoluta della tecnica, del rigore e della fatica non deve però schiacciare le singolarità dell’attore. La tecnica può togliere le singolarità quando viene studiata, come nel caso dello studio della dizione: questa può uniformare tutti gli attori. Alcune particolarità va bene che rimangano, stando attenti a non coprire queste specificità con lo studio, in quanto l’uso migliore dello studio è la valorizzazione dell’unicità dell’attore. 22/03/2021 4. Il tema delle emozioni che prova l’attore il scena torna continuamente nella riflessione sull’attore e viene affrontato anche da Jouvet. Per parlare delle emozioni Jouvet si aggancia a Diderot, che è spessi il punto di partenza di questa riflessione. Per Jouvet Diderot resta un punto di riferimento, non perché sposi completamente le sue tesi, ma si colloca i una sorta di posizione intermedia. Si potrebbe dire che in fondo le riflessioni di Jouvet sono una riformulazione e riappropriazione del pensiero di Diderot. Jouvet dice che normalmente le tesi di Diderot vengono riassunte così: il comédien che commuove il pubblico deve essere egli stesso commosso? Secondo Jouvet molti riassumono la teoria di Diderot attraverso la risposta a questo interrogativo, ma così la quesitone è formulata male. Secondo Jouvet, la casistica del rapporto fra attore e personaggio è molto ampia. La consapevolezza del lavoro empirico dell’attore è molto importante, e l’autore si rifà quindi alle situazioni concrete del lavoro. In fondo, non ci sono che declinazioni singole di questo grande tema: Jouvet dice che è inutile delineare un caso universale, e inoltre dice che il paradosso di Diderot è un paradosso sull’attore, ma potrebbe esser anche un paradosso sullo spettatore. Il pubblico, quando applaude, lo fa anche alla capacità di controllo, vivendo un paradosso: anche quando lo spettatore è molto trasportato, conserva una parte di sé che è consapevole della finzione del teatro. Bisogna quindi anche interrogarsi sull’esperienza dello spettatore, che vive una scissione tra ciò che vede e ciò che vive. Rispetto alla formulazione di Diderot, Jouvet dice che ci sono solo casi concreti e che bisogna tenere conto del paradosso dello spettatore. La risposta di Jouvet al tema che pone Diderot è che l’attore ha sempre una parte di sé che controlla le sua facoltà emotive. Jouvet non sposa per intero le osservazioni di Diderot, ma in fin dei conti condivide l’idea che una parte dell’attore controlli sempre l’espressione. L’attore ha sempre una parte di sé che controlla le sua facoltà emotive. L’attore che controlla mentre recita le emozioni, che non è del tutto abbandonato alle emozioni ma che si guarda da fuori, non attenua le emozioni ma le disciplina, sviluppandole e migliorandole. Questo elemento di attore a se stesso, questo non abbandono incontrollato, porta a disciplinare le emozioni e le sviluppa, quindi le potenzia. L’attore ha sempre una parte che controlla quello che sta facendo in scena, ma questa parte vigile è qualcosa che aiuta a migliorare le emozioni recitate. Secondo Jouvet c’è un’oscillazione nell’attore fra l’abbandonarsi nella recitazione e l’essere consapevoli: non si potrebbe dire una cosa definitiva per tutti gli attori, ma dovendo trarre un modo più generale di guardare gli attori si deduce questa oscillazione, nella quale il comédien trova il suo rado più alto di perfezione. Proprio nell’oscillare fra adesione all’emozione e consapevolezza dell’attore di stare recitando, sta il grado più alto della perfezione del comédien. Questa è la sua forza, il luogo della sua arte. 5. Questa considerazione è contenuta nel secondo dei brani dell’antologia, dove Jouvet dice che l’evoluzione del comédien avviene in tre stadi: il comédien, nel corso della sua vita, può percorrere questi tre stadi, sulla base della sua esperienza personale, verso la maturità. - La prima fase è l’unica a cui l’autore dà un nome: la vocazione. È il momento iniziale della carriera dell’attore, in giovane età, quando il comédien ha un modo istintivo di approcciarsi alla recitazione. Il comédien ha una “totale ignoranza di se stesso”, non avendo ancora imparato a conoscere il proprio corpo, le specificità della propria recitazione. Vuole ricevere in se il personaggio, non pensando ma sentendo solo. Si lascia attraversare e vivere dai sentimenti del personaggio: in questa prima fase il comédien è istintivo, muovendosi istintivamente verso il personaggio. Il comédien pensa di potersi immergere completamente nel personaggio in questa prima fase. - La seconda fase è un rimbalzo della prima: si rende conto che la trasformazione di se stesso in un altro è un’illusione, qualcosa di impossibile. In questa fase si rende conto di questa illusione e scopre quindi gli aspetti della simulazione, della menzogna, della convenzione del teatro: qui il comédien si attesta sulla questione opposta alla prima fase. L’incontro con la menzogna è essenziale per l’attore, non avendo un carattere negativo ma costitutivo. Questo è un momento importantissimo. La prima fase è pensare di poter possedere il personaggio, mentre la seconda il disincanto mostra che questo non è possibile. L’attore che nella fase della vocazione voleva imbattersi nel personaggio si trova di fronte a se stesso, scoprendo e prendendo coscienza di ciò che fa. Qui scopre la convenzione del teatro, il carattere costitutivo del teatro. Egli è strumentista ma anche strumento, essendo lo strumento il suo corpo. Questa seconda fase, dopo l’adesione al personaggio, è una fase in cui l’attore scopre menzogna, convenzione e simulazione, la non uscita da sé. Purtroppo spesso il comédien si ferma qui, a questa seconda fase, rimanendo su un piano di tecnica che rischia di diventare un esercizio più freddo. Pochi raggiungono la terza fase. - Fase che si raggiunge raramente, è difficile da spiegare e trasforma quello che era un limite e una frustrazione in un fatto d’arte. È un modo di portare a consapevolezza d’arte quello che rischia di diventare puro esercizio di professionista. Il comédien trasforma la finzione rendendola qualcosa fra emozione e consapevolezza di finzione. Questa fase è raggiunta da pochi, e non è molto chiara: l’attore, in fondo, vive sempre il conflitto fra le prime due fasi, oscillando fra questi due poli, e la terza fase significa vivere fino in fondo questa contraddizione, essendo questa costitutiva della presenza del comédien in scena. Tutti gli attori possiedono questo dono, ma non tutti ne sono consapevoli. Secondo Jouvet, c’è una maturazione umana dell’attore, che procedendo in questi gradi arriva ad una conoscenza di sé migliore. Questo è uno stadio di coscienza superiore, l’apice della maturazione deo comédien, facendo della oscillazione un fatto d’arte. A pagina 141 Jouvet cita Ravel: «Un artista deve essere cosciente e non sincero; c'è qualcosa di umiliante in quest'ultimo termine». La sincerità non è un momento massimo della vita dell’artista, ma la coscienza. Ettore Petrolini Petrolini è uno degli attori più importanti del ‘900 italiano: attore di varietà (comico), questo è un genere particolarmente importante nella prima metà del ‘900 e soprattutto fino alla Prima Guerra Mondiale. Petrolini è stato l’esponente più importante di questo tipo di teatro, e uno degli attori più interessanti del teatro italiano. Per introdurre la figura di Petrolini, si ricorda la considerazione: è stato un attore in grado di trasmettere piacevolezza e leggerezza del tratto comico, unendolo ad unire un tratto più profondo della sua arte. Ha avuto la caratteristica di unire una capacità di raggiungere un pubblico molto ampio grazie al genere comico e alla risata e allo stesso tempo portare agli spettatori qualcosa di più profondo, proponendo un grado di lettura più profondo al quale si può accedere più consapevolmente o no, componendo un’arte complessa. Nel caso di Petrolini questa capacità è il grottesco, l’unione del tragico nel comico portando una risata storta, amara. La comicità di Petrolini ha sempre una nota cupa, tragica. Vedendo Petrolini in ciò che rimane registrato al giorno d’oggi non si ha la reazione del suo pubblico: non fa particolarmente ridere ciò che dice Petrolini, ma gli spettatori ridevano moltissimo, essendo questa componente comica più forte nella sua contemporaneità. Petrolini ha raggiunto la sua massima fama tra gli anni ‘20 e gli anni ‘30. Quello di Petrolini è un esempio perfetto di parodia in teatro, laddove ha senso distinguere fra caricatura e parodia. Nella recitazione comica bisogna tener conto della complessità del genere, per cui ci sono moltissimi modi di recitare a seconda dei diversi obiettivi del comico. Il decennio degli anni ‘20 vede attori famosissimi, come Carl Valentin, Charlie Chaplin, che frequenta una modalità del comico del tutto particolare, Buster Keaton, con una comicità glaciale, Stanlio e Olio, la cui comicità è più bonaria e buffa, o i fratelli Marx, declinazione del comico ulteriormente diversa. Avvicinandosi alla recitazione comica, ci sono moltissime tipologie di declinazioni: una prima distinzione è tra caricatura e parodia. Questa distinzione è tra due modi di recitare: la caricatura mette in caricatura il corpo di chi recita, puntando su una comicità liberatoria e semplicemente divertente, come nel cado di Stanlio e Olio. Questa è una comicità leggera, che libera una voglia di ridere, lavorando su tipologie umane, con l’obiettivo di suscitare una sana risata liberatoria. La parodia è invece la presenza di una nota tragica, che sta sotto la gradevolezza del comico. Questa è una risata con un retrogusto amaro, propria dell’arte di Petrolini, di Keaton, quella comicità che affianca la comicità piacevole con una componente più oscura. Questa distinzione consente di avvicinare la comicità di Petrolini con la consapevolezza della profondità della sua comicità, che risulta anche dalle pagine scritte dall’attore. Un frammento della rappresentazione di Gastone, recitato da Petrolini secondo la sua volontà, è un esempio perfetto della parodia. In questa comicità si coglie in ogni battuta la nota amara. Questa è una “macchietta”, creazione in cui l’attore solo costruiva un personaggio unendolo a musica e canto. Petrolini scriveva inoltre i testi che recitava: Gastone è un testo Il saggio di Petrolini ha anche un continuo richiamo all’elemento parodico, ovvero l’idea che la cosa più interessante che il comico possa fare sia frequentare la parodia, un rovesciare il teatro ufficiale e inserire tragicità nella commedia. Peter Brook Con questi ultimi brani dell’antologia andiamo agli anni ‘60 del ‘900 e in un altro genere teatrale, essendo tutti riferiti al teatro di ricerca, diverso da quello ufficiale e che si afferma in tutta Europa a partire dalla fine degli anni ‘50. Peter Brook nasce nel 1925 ed è ancora in vita e in attività: un suo spettacolo era previsto nella programmazione del Teatro Stabile. È uno dei massimi esponenti del teatro di ricerca: nato a Londra, inizia il suo percorso teatrale nel teatro istituzionale nei circuiti londinesi e dirigendo molti attori importanti. Dopo questa fase iniziale si sposta sul terreno del teatro di ricerca. Brook, nella zona che chiamiamo teatro di ricerca, si colloca come un rappresentante della sperimentazione teatrale, e non dell’avanguardia. Non ha un rifiuto e distanza dal teatro ufficiale come nel caso di Carmelo Bene e Leo De Berardinis, ma lavora senza quella netta contrapposizione tipica dell’avanguardia. Brook fa moltissimo teatro, vivendo all’interno della prassi teatrale e producendo una grande quantità di teoria teatrale. Lo spazio vuoto (1968) è uno dei diversi libri pubblicati dall’autore, letture fondamentali per lo studio della scena teatrale contemporanea. Brook sostiene che quello che va sempre evitato in teatro è il “teatro mortale”, ovvero quello che finisce nel cliché, nello stereotipo, che non vive di vita teatrale autentica, che si irrigidisce nella ripetizione. Il teatro dovrebbe tenersi più distante possibile dal teatro mortale, essendo un organismo vivente. Il teatro mortale è per un verso qualcosa di molto preciso, una tipologia stereotipata e riconoscibile, e dall’altro verso qualcosa di latente in tutti: fa capolino anche nel teatro che si vorrebbe più vivo, ma che se non è fatto bene e sorvegliato rischia di accogliere in sé il teatro mortale. Questo vale sia per gli attori che per gli spettatori. Di qui, una costante attenzione nel suo lavoro sta nell’evitare che il teatro si presenti in queste forme. Secondo Brook, il teatro è mortale quando rinuncia alla sua caratteristica di “vivezza” (concetto di Vachtangov), di accadimento, cadendo nel cliché. 24/03/2021 Testo: Lo spazio vuoto (1968) Su Moodle sono stati caricati due brani di spettacoli di Brook, distanti fra loro negli anni: Marat Sade, uno dei suoi spettacoli più famosi e da cui viene tratto un film (1966), e un Amleto (2001). Il testo in antologia è particolarmente interessante, soprattuto per una serie di questioni che pone. Sin dall’incipit si evidenzia un’idea della recitazione che coniuga un’attenzione forte per l’interiorità dell’attore con un’attenzione altrettanto forte per il lavoro faticoso e di controllo sui propri sentimenti, tecnica, espressività. Una delle caratteristiche più stimolanti di Brook è mettere insieme questi due aspetti, spesso presenti in questo tipo di riflessione ma che qui emergono in un modo molto stimolante. 1. La prima pagina di questo testo comincia parlando della recitazione, che inizia con un “piccolissimo movimento interiore”. Brook fa un esempio: se un regista dice ad un attore di lavorare su questa situazione, ovvero la rottura con una persona, un piccolo sentimento scatta nell’attore. Brook lo chiama movimento sottile: per lui, tutti gli esseri umani hanno un movimento di fronte a questo scenario. Chi non è attore non fa avvertire questo movimento all’esterno. Il movimento interiore provoca nell’attore un movimento diverso per intensità e per il fatto che deve essere percepibile all’esterno: questo è dovuto al fatto che l’attore lavora su questo movimento, lo fa crescere, ed essendo in questo senso particolarmente sensibile. L’attore sensibile lavora sul movimento fino a renderlo percepibile all’esterno. Di tutto il lavoro delle prove, della preparazione alla rappresentazione, lavoro che secondo Brook non finisce mai, tutto consiste nel coltivare, migliorare questo piccolo movimento interno, diventando elemento di espressività artistica. A partire da questa precisazione sul movimento interiore, Brook distingue la recitazione teatrale da quella cinematografica. Nella recitazione teatrale questo movimento interiore va coltivato nelle prove e nelle repliche, in tutta la vita dello spettacolo, poiché sia percepibile. Nella recitazione cinematografica c’è la mente d’ingrandimento costituita dalla macchina da presa, che deve cogliere e fissare il movimento: il lavoro dell’attore di cinema finisce in quel momento. Brook non specifica che l’attore deve lavorare prima per arrivare pronto alla macchina da presa, ma secondo lui quando l’attore ha questo movimento si conclude il suo lavoro grazie alla macchina da presa. Quindi, mentre un buon attore di teatro può fare cinema, non è detto che un attore di cinema abbia le capacità di fare teatro: un attore cinematografico è abituato a considerare concluso il proprio lavoro, e trovandosi quindi a teatro, può trovarsi in difficoltà. Secondo Brook, il lavoro dell’attore teatrale si realizza in una continuità temporale, che comprende prove e repliche. Il suo lavoro si complica man mano che gli anni passano, opinione opposta a Jouvet: qui Brook sottolinea il rischio opposto, poiché sostiene che con il procedere del percorso di crescita, un po’ il successo, quando questo arriva (Brook ha lavorato molto in un teatro più tradizionale con attori molto famosi come John Gielgud), un po’ per l’accumulo di esperienza, rischia di imbattersi nei cliché, ovvero quelle zone di rilassamento espressivo frutto di esperienza, sulle quali si può soffermare. L’attore con esperienza può quindi trovare die momenti in cui adagiarsi, rilassando la propria forza creativa per usare espedienti che sa funzionare. L’attore in questi casi erige delle barriere che non gli consentono una vera e profonda ricerca creativa. Brook evidenzia questo elemento e poi spiega, con esempi dei grandi attori, come questa non sia una cosa obbligatoria, esemplificando in Gielgud un attore di grande successo che non ha sclerotizzato la sua recitazione, non si è accontentato del proprio lavoro. Gli attori migliori sono quelli che continuano ad esigere molto da loro stessi, mantenendo forza creativa ed autenticità. Il rischio però è insito nel procedere con l’esperienza teatrale. 2. La questione seguente è che bisogna fare della recitazione il luogo della libertà espressiva dell’attore: l’obiettivo del lavoro teatrale di Brook è proprio questo. L’urgenza di Brook è di avere degli attori che siano nelle condizioni di essere liberi. Per fare ciò ci sono almeno due cose apparentemente in contrasto che bisogna fare: - Disciplina ferrea: l’attore deve adottare rigore, tecnica, studio. - Continuo esercizio di improvvisazione, soprattutto nelle prove. Brook sottolinea l'improvvisazione fatta durante le prove poiché, se fatta bene, aiuta gli attori a sorprendere se stessi dentro ai cliché. Questa aiuta gli attori a controllarsi e a capire quando emerge il cliché al posto della forza espressiva personale. È importante che l'improvvisazione sia fatta bene, perché Brook dice che quando si è alle prime armi con questa si tende a cadere negli stereotipi. Se si tolgono dall'improvvisazione queste scorciatoie di ricorrere ai cliché, e se chi improvvisa si sforza di scansare gli stereotipi quando questi si affacciano, allora questo è un’ottimo strumento per allontanare dalla recitazione il cliché stesso. Questo è uno strumento che permette all’attore di vedersi da fuori e migliorare la propria gamma espressiva. L'improvvisazione unita ad una disciplina ferrea possono aiutare l’attore a fare della recitazione il luogo di libertà espressiva. Per esemplificare come la disciplina possa aiutare la libertà espressiva fa un esempio. Si riferisce a esercizi che lui ha fatto: prendendo dieci attori e una sola battuta, come “To be or not to be, that is the question”, ogni attore dice un sola parola della battuta, cercando di dare un senso all’accostamento elle dieci voci. Dopo un primo momento in cui ogni attore è più o meno attendo dall’esecuzione tecnica, quando si entra nella dinamica della battuta spezzata, che ha senso solo nell’accostare le voci, ci si accorge che il lavoro insieme è rigoroso, poiché ogni attore sente quanto è forte la propria vena creativa dentro ad un meccanismo corale. Quando questo esercizio funziona, si capisce la libertà all’interno della disciplina, dovuto all’attenzione nella realizzazione che agevola la libertà espressiva personale, poiché ogni attore percepisce la propria libertà all’unisono con gli altri. Il teatro è in questo senso una creazione collettiva, che funziona se mostra questo carattere di libertà creativa singola nella coralità. 3. Un altro punto importante del ragionamento di Brook è affrontato a pagina 159 e 160 e riguarda il rapporto tra attore e personaggio. Parte da un titolo di Stanislavskij, Costruire un personaggio: secondo Brook, l’attore non deve costruire un personaggio, non essendo questo qualcosa di fisso, che si può costruire e poi eseguire. Le prove aiutano ciascuno a creare il personaggio, ma una volta arrivati alla prima non finisce il lavoro dell’attore. Brook fa una distinzione fra gli attori mediocri e gli attori creativi: gli attori possono dividersi in due grandi categorie, ed entrambi hanno il panico della scena. L’attore mediocre però è quello che costruire il personaggio e ha paura che il pubblico non gli riconosca la bravura che lui pensa di avere. L’attore creativo non procede invece a costruire il personaggio, ma procede per tentativi senza mai esaurire il personaggio: anche lui ha paura, ma per una profonda insoddisfazione di sé, e quindi consegna alla scena la riuscita di un ulteriore sforzo creativo. La differenza di fondo sta in questo: l’attore mediocre scopre come risolvere i vari problemi del copione, fissando questo sistema a dovere e pensando di aver raggiunto un’idea precisa del personaggio, essendo rassicurato. La sera della prima teme di non riuscire a mostrare quanto è bravo: l’attore creativo ha invece una paura più intensa, dovuta al credere di non riuscire a non toccare tutta la verità del personaggio, e sentendosi quindi inadeguato. L’attore creativo è capace di misurarsi con i propri limiti, raggiungendo quindi uno stato creativo. L’onestà della sua ricerca lo costringe a ricominciare sempre da capo. Questo è l’unico modo per non costruire un ruolo, ma per lasciare che nasca di fronte agli spettatori. La capacità dell’attore di anziché costruire realizzare insieme agli spettatori permette di dare vita ad un nuovo ruolo. Brook dice poi che per fare questo l’attore creativo ha anche bisogno di tecnica, facendo esempi di diversi attori. L’elemento intimo, creativo, interiore si unisce sempre alla componente tecnica. 4. Un’ulteriore argomento di Brook riguarda il tema della sincerità dell’attore in scena. Secondo l’autore, il compito più duro per un attore è tenere insieme sincerità e distacco: se è solo sincero non è interessante. Per Brook è quasi impossibile, ma necessario: l’attore che pensa di aver solo bisogno di sincerità per recitare sbaglia. Il termine porta l’attore ad un’istintività, un’immediatezza espressiva che rovina le capacità dell’attore, poiché cancella la tecnica attoriale. Una delle caratteristiche più potenti degli attori brechtiani è infatti la loro insincerità, cioè spiazzare sempre l’adesione totale al personaggio. Se l’attore non è in grado di vedere i proprio stereotipi non può raggiungere un’autentica creatività, la sincerità è una forma che blocca questo processo, per cui è necessario un grado di distacco. L’attore deve essere insieme sincero e distaccato. Dopo aver messo in dubbio la positività della sincerità, pericolosa da sola, e che gli attori che puntano solo su essa sono pessimi, dice che purtroppo il risultato di una recitazione sincera è una recitazione della peggior specie. Nelle altre arti, la sincerità è sempre mitigato, mentre in teatro è più facile che l’attore cada in essa. Per quando l’artista lavori sulla sincerità e sull’istintività, vi è sempre la possibilità di riguardare la sua opera: il pittore per esempio può dipingere in stato sincero (es. perché è ispirato), ma può sempre fare un passo indietro e controlla la sua opera, mettendo in atto una modalità più razionale: con questo passo indietro altre facoltà gli segnalano gli eccessi. Anche per il musicista, il passare in uno strumento e il rapporto fra testa e mani coinvolge di meno l’emotività, poiché l’orecchio controlla la mano. L’attore coinvolge tutto il corpo insieme e questo è la sua opera, avendo quindi difficoltà uniche: il mestiere dell’attore richiede totale coinvolgimento ma ad una certa distanza, distaccato ma senza distacco. Questa è un’impresa pressoché impossibile, essendo un equilibrio continuamente instabile: queste riflessioni non possono portare ad una soluzione, ma solamente ad una tensione ad una soluzione. Il teatro ignora questo contrasto, che è invece fondamentale per una migliore espressività artistica. 5. Un’ulteriore questione nella seconda parte del saggio, da pagina 164. Brook scrive questo saggio nel 1968, anno delicato in cui vengono al pettine una serie di questioni sociali, politiche, culturali, e lo sconvolgimento portato da questo anno si manifesta anche a livello artistico. A teatro il ‘68 instaura grandi cambiamenti, tanto che quasi tutti i principali artisti attivi interrompono la propria attività teatrale, poiché lo scossone è così forte che vengono messe in dubbio tutte i motivi per cui le rappresentazioni venivano messe in scena. Molti artisti si dedicano ad altro, spostano la propria ricerca teatrale. Quando Brook parla del rapporto con il pubblico bisogna tenere conto di questa contestualizzazione, in quanto si chiede come molti altri a quale pubblico si rivolge, ricercando un pubblico diverso. Il tema del pubblico è posto in modo radicale e la domanda è a quale pubblico ha senso rivolgersi soprattutto negli artisti più politicamente impegnati. Per Brook è importante rivolgersi ad un pubblico che senta la stessa urgenza di rivolgersi al teatro di chi fa il teatro. Er Brook il teatro è un lavoro culturale, e il pubblico dovrebbe andare a teatro rispondendo ad una stessa logica di necessità. Il punto è avere una sintonia con il pubblico su questo piano, una simile urgenza culturale ed artistica. A pagina 165 Brook scrive che il pubblico non deve essere corteggiato, ma vanno create opere che risveglino nel pubblico interessi che già hanno. Il pubblico deve essere in sintonia per la stessa fame degli artisti. Venendo ad ascoltare il teatro, lo spettatore troverà quindi sintonia in quanto ad aspettative. Brook ritorna su questo punto, poiché ci si deve trovare sulla base di un’urgenza simile. 6. Nelle ultime pagine del saggio l’autore riepiloga il suo pensiero attraverso una formula, quasi autoironica: “Teatro=Rra”(pagina 170), ovvero Répétition, répresentation e assistance. Questi termini francesi derivano dal fatto che Brook gira il mondo e si stabilisce a Parigi dai primi anni ‘70, aprendo un teatro dove realizza tutti i suoi lavori più importanti. Lui stesso dice che la lingua francese in alcuni frangenti è più utile per parlare di teatro dell’inglese. Questa formula dice che il teatro è innanzi tutti “Ripetizione”, essendo qualcosa che va ripetuto. Questo termine evoca un aspetto positivo, poiché ripetendo nelle prove e nel corso della vita dello spettacolo gli attori possono affinare la loro recitazione come fanno gli atleti professionisti, ma anche un aspetto negativo, poiché la ripetizione può portare al rilassamento, allo stereotipo. Brook sottolinea questo aspetto negativo dicendo che tutto quello che nella tradizione teatrale non ha senso è dovuto a questa ripetizione, che è la contraddizione essenziale della forma teatrale. Questa contraddizione si può risolvere nel secondo termine, “rappresentazione”. In francese, questo termine sottolinea il ri-presentazione, un rendere nuovamente presente. L’idea della rappresentazione come capacità di rendere nuovamente presente in quel momento ciò che si sta facendo risolve quindi il problema principale, essendo qualcosa che nega il tempo, prendendo le azioni del passato facendola rivivere. La rappresentazione Nonostante facesse opere molto difficili, aveva un grande bacino di pubblico interessato al suo lavoro, che di fronte al suo fascino aveva un accesso alla sua arte. Bene ha fatto in televisione due tipi di lavori molto diversi: uno è il lavoro artistico, essendo uno tra i pochi che hanno provato ad usare il linguaggio televisivo come arte; un altro ambito, peculiarità di Carmelo Bene, è provare a partecipare al linguaggio televisivo più “scadente” e commerciale come i talk show, un po’ per soldi (es. Maurizio Costanzo show) e un po’ per cercare di decostruire i linguaggio televisivo dall’interno, smontandolo e portando dei contenuti particolari, le sue idee spesso controverse per gli spettatori. Questo gli ha dato una grande notorietà, poiché presentandosi con il fascino dell’antipatico riscontrava grande successo. Figure come Sgarbi sono semplicemente delle pallide copie, fatte senza la minima complessità, di quello che ha fatto Carmelo Bene negli anni ‘90, che ha dato forza alla tipologia dell’intellettuale antipatico, creando un prototipo che è stato lontanamente ricreato. Testo: Il monologo (1982) Per il primo saggio bisogna tenere conto nella lettura di una considerazione di fondo, che non spiega i singoli passaggi ma può dare una chiave di lettura: Bene è un artista che nel finale del ‘900 si misura con una contraddizione fortissima, che esprime ai massimi gradi. Questa è la necessità di ricerca artistica forte e complessa, contemporaneamente alla consapevolezza che l’arte forse non è più possibile. C’è una inevitabile corruzione, mercificazione, degradazione dell’arte nella società dello spettacolo (Bene è molto in sintonia con Pasolini), che porta alla percezione che dopo al ‘68 qualcosa muta nella società, come detto da Pasolini il “mutamento antropologico”. Bene finge di disinteressarsi di questa questione ma rimane figlio di questa contraddizione, essendo esponente massimo di artista che cerca di realizzare una forma d’arte, contemporaneamente alla consapevolezza che l’arte pura non è più possibile. Questa contraddizione di fondo è presente in tutta la produzione artistica di Bene e anche nella produzione critica. Dal punto di vista dell’attore, questo si traduce con una riflessione sull’attore da parte di Bene che dice che nell’attore devono convivere due istanze: l’attore artifex e il non attore. Il primo costruisce da sé e per sé lo spettacolo, essendo il massimo protagonista che non rispetta il testo scritto ma lo riscrive, portando se stesso in modo affermativo, e che convive con la sua negazione del non attore, che nega il suo ruolo. Il non attore si toglie dalla scena, nega la propria presenza d’attore. In questo saggio la frase d’apertura è “attore è il suo malessere”, alludendo a questa contraddizione: l’attore trova la propria cifra più profonda mostrando il suo malessere. Sale in scena per realizzare un’opera d’arte, ma la cosa più profonda che può fare è mostrare questa negazione, il malessere dell’attore. Nel saggio ci sono almeno quattro cose che sono evidenziate da Bene per dire come il suo teatro sia un teatro che rifiuta quello ufficiale, del canone: - Il monologo: è il titolo e si riferisce al fatto che il teatro di Bene è basato sul monologo, non sul dialogo. Il teatro rifiuta la logica naturalistica e realistica del dialogo, e l’insistenza sul monologo serve a rimarcare il rifiuto della tradizione discorsiva, andando verso una forma monologica. - Insistenza per la musicalità della voce: l’elemento musicale viene sottolineato per sottrarre la recitazione ad un teatro naturalistico, per restituire invece il teatro ad una dimensione poetica. L’attore on dovrebbe interessarsi tanto del discorso logico, quanto più dell’elemento musicale. Questa è una riflessione che diventa per Bene sempre più importante, che elabora una recitazione come phone e insistendo sull’elemento musicale. Lui stesso chiama i suoi spettacoli concerti, usa moltissimo i microfoni per ragionare sulla musicalità. - Rifiuto categorico per il rispetto del testo teatrale in scena: Bene scrive che i testi vanno riformulati (pag. 217), riferendosi al teatro classico greco, dove nessun attore si sognava di restituire il testo agli spettatori, ma riformulava il testo in scena. La sua riflessione è uno spunto fondato dalla fascinazione per il teatro greco, perché l’attore in scena deve appropriarsi del testo e anche riscriverlo se necessario, trasformandolo. Ascoltando Shakespeare a teatro non si ha di fronte Shakespeare, ma l’attore che lo sta recitando, e quindi l’attore riformula sempre lo spunto letterario. - Rifiuto per la figura del regista: per Bene il teatro deve essere fatto da un attore artefice, che costruisce da sé e per sé lo spettacolo. L’aggiunta di una figura esterna non ha senso, essendo egli stesso il creatore dello spettacolo e sommando insieme le figure di regista e attore. Testo: Due passi in casa Meyerhold (1982) È un saggio breve in cui Bene rielabora alcune idee di Mejerchol’d: l'improvvisazione e il riferimento positivo per la figura del cabotin, richiamato da Mejerchol’d come attore positivo, l’attore molto teatrale ed enfatico. Bene recupera queste idee collocandole nel suo ragionamento e riformulandole. Testo: L’avvento della donna (1982) Bene si riferisce a un’altra delle stagioni d’oro del teatro europeo: una stagione d’oro secondo Bene è il teatro classico greco, ma in questo saggio si riferisce al teatro elisabettiano, che secondo lui è stata la grande stagione del teatro, che per paradosso secondo Bene è stata l’ultima stagione vera del teatro, a cui avviene la decadenza del teatro. Una delle cose su cui si appunta Carmelo Bene è la presenza della donna in scena. La questione è che il teatro elisabettiano, fra ‘500 e ‘600, non prevedeva la presenza delle donne in scena, per ragioni religiose e di esclusione dalla vita culturale delle donne. Durante il teatro elisabettiano le donne non recitavano, e questo vuol dire che pensando a Romeo e Giulietta si pensa a uomini che recitavano la parte di Giulietta. Tutta la patina sentimentalistica viene spazzata via da questa idea. In un teatro recitato da soli uomini ci sono due cose che erano più evidenti: - che il teatro era molto meno naturalistico di quanto siamo abituati a pensare, e quindi l’insieme della rappresentazione era meno naturalistica data la presenza di soli uomini; - che c’era una componente parodica più forte, poiché se le scene d’amore sono fatte da due attori, l’elemento parodico e grottesco che già esiste in Shakespeare si fa più evidente. Secondo Carmelo Bene, che esprime tutto questo con un paradosso, l’avvento della donna in scena è una sciagura.questa non è una tesi per dare una valutazione sulle donne, perché il teatro con le donne va verso il naturalismo, smorzando l’elemento parodico. Il teatro borghese che nasce con il ‘700 è un teatro sempre più naturalistico, dovuto quindi all’avvento delle donne. Questo spunto serve a Bene per dire alcune cose: - l’attore deve saper mentire per allontanarsi dal naturalismo, agendo fino in fondo nella finzione del teatro. Bene richiama Oscar Wilde, in particolare nel libro La decadenza della menzogna, in cui Wilde difende la finzione nell’arte. L’attore deve essere fiero, rivendicare il finto. - l’attore non deve lavorare sull’identificazione di genere, ovvero rifiutando l'identificazione fra l’attore maschio che recita le parti maschili e l’attore donna che recita le parti femminili. L’attore dovrebbe avere sempre una fortissima componente femminile, poiché quello che li rovina è l’assenza di questa componente. Per Bene l’arte è femminile. A pagina 223 Bene scrive alcune righe riassuntive, concludendo che il suo disprezzo per il modo normale degli attori contemporanei sta nell’incapacità di mentire, senza rimettere in gioco la capacità di fare teatro ogni sera. Gli attori hanno troppa paura di auto-marginarsi con scelte coraggiose: bisognerebbe, anziché discutere sulla crisi del teatro, fare un teatro che mostri la crisi, l’attore e il suo malessere. L’identificazione di genere è un retaggio del naturalismo, laddove invece l’attore dovrebbe proporsi secondo un punto di vista femminile senza retaggio naturalistico. L’avvento della donna in scena dopo al teatro elisabettiano secondo Bene è una sciagura, termine provocatorio e paradossale, perché si perde l’elemento di anti-naturalismo e una componente grottesca di quando gli uomini recitavano anche personaggi femminili. Con l’introduzione della donna in scena si va verso il naturalismo. Uno dei problemi che nascono a seguito di questa identificazione tra genere e personaggio è la perdita, l’oblio del femminile negli attori. Questo vuol dire che Bene si riferisce ad una distinzione non biologica ma fra un principio maschile e un principio femminile: quello femminile è migliore, più interessante, più complesso e vicino alla sensibilità artistica. Gli attori perdono quindi questo principio essenziale per l’attività artistica, una componente più ricca di quella maschile. Nel femminile c’è attenzione, cura, intelligenza, morbidezza: accanto ad una provocatoria idea della sciagura della donna in scena c’è anche l’idea che ciò che conta nell’arte è il principio femminile. “un attore privato del femminile non sarà mai un artefice, non sarà mai un artista”. Testo: Perseveranza del teatro tolemaico (1982) Questo saggio è mezza pagina, un piccolo manifesto che viene lasciato alla lettura del singolo. 7/04/2021 Interpretazioni di Enrico IV In queste ultime lezioni cambiamo argomento, provando ad affrontare un tema specifico: fino a che punto e in che modi l’attore può essere autore della rappresentazione teatrale. Più precisamente in che modo l’attore può essere autore del proprio personaggio, in quanto vedremo delle creazioni personali basate sullo stesso personaggio. L’esempio scelto è l’Enrico IV di Pirandello, che ci porta all’interno del teatro di tradizione e in cui il testo teatrale è un testo forte, robusto, e contemporaneamente dalle maglie larghe, che consente agli attori di muoversi all’interno delle battute con un margine di libertà. In particolar modo, vedremo cinque attori. Ruggero Ruggeri è l’unico attore di cui non si hanno riproduzioni video, ma una rappresentazione radiofonica. Benassi, Randone e Valli hanno invece registrazioni per la televisione tra gli anni ‘50 e ‘70, mentre nel caso di Mastroianni il ruolo è interpretato in un film, diretto da Marco Bellocchio. Nei diversi Enrico IV si vedono quindi diversi attori teatrali e come invece un attore essenzialmente di cinema può lavorare su un personaggio del genere. Attori teatrali sono il soggetto di questo corso, ed è quindi impossibile vedere quello che hanno fatto a teatro. C’è una grande diversità tra quello che ciascuno di questi attori faceva a teatro e quello che sono riusciti a fare in televisione. Quando si guardano queste riprese bisogna tenere conto della mancanza del rapporto con il pubblico di teatro, e si può considerare il fatto che questi attori hanno fatto volutamente e consapevolmente una trasposizione della recitazione per la televisione. Quelle che vedremo non sono riprese fatte a teatro mentre gli attori sono in scena, che sarebbero ancora più mancanti. Gli attori, pur vivendo nell’ambiente teatrale,scelgono in quel momento di lavorare in uno studio televisivo, ragionando sulla performance in questo senso. Per ciascuno di questi attori siamo di fronte ad attori che prendono Pirandello e che lo recitano. In tutti i casi sono stati scelte quattro sequenze principali, due relativi al primo atto, uno al secondo e uno al finale, per vedere ciascuno attore come recita lo stesso passaggio. Sono caricati, oltre alle rappresentazioni, due testi da studiare per l’esame, relativi a questa parte del corso. Il primo è di Lido Gedda, che ha scritto un libro chiamato Recitare l’Enrico IV di Pirandello, occupandosi di molti attori e registi alle prese con questo testo. Questo è l’unico libro dedicato al modo in cui viene recitato Enrico IV nel corso del ‘900: su due questioni il professore ha un punto di vista diverso. - Sulla lettura che Lido Gedda dà al testo di Pirandello. L’autore parte infatti a ragionare sul testo, con alcune opinioni non condivisibili. - Memo Benassi viene restituito in modo un po’ riduttivo: le pagine a lui dedicate sono il frutto di uno sguardo che non coglie a pieno la complessità di questo attore. Per questo motivo, il professore ha aggiunto all’antologia un saggio dedicato all'Enrico IV di Memo Benassi scritto da Gigi Livio. Quello che manca è il riferimento a Mastroianni: la sua rappresentazione sarà analizzata solo a lezione. Pirandello e l'Enrico IV Luigi Pirandello è uno dei massimi scrittori teatrali del ‘900. ha un rapporto molto stretto con la scena, come accade molto frequentemente agli scrittori teatrali più interessanti: spesso gli scrittori di teatro hanno un rapporto fatto di scambi e debiti con la scena. Pirandello ha oscillato nel corso della sua vita fra un atteggiamento più diffidente nei confronti della scena e uno più aperto e di scambio: oscilla fra la rappresentazione teatrale come inevitabile abbassamento dell’opera, soprattutto negli anni giovanili, e l’idea di uno scambio fertile con gli attori e la scena, più presente quando si dedica effettivamente al teatro, a partire dagli anni della prima guerra mondiale, quando è già un intellettuale riconosciuto. Soprattutto i questi ultimi anni, Pirandello consegna un rapporto fertile e dialettico con la scena, facendo anche il regista per una compagnia. Enrico IV è un testo che va collocato in questa modalità di scambio: è un testo scritto pensando ad un attore specifico, Ruggero Ruggeri, fatto non soltanto importante perché delinea il personaggio con in mente la recitazione dell’attore, ma anche perché il rapporto fra i due è di interlocuzione. Pirandello manda a Ruggeri i testo, chiede consigli, in uno scambio epistolare di cui però non sono conservate le lettere di risposta dell’attore. Il testo sta dentro a questa dinamica, essendo un testo letterario, la cui ultima parola spetta a Pirandello, però con una scelta di scrittura maturata nel dialogo con Ruggeri. Pirandello è uno scrittore teatrale che ha iniziato d pochi anni nel 1921 ma è già importante, essendo questo l’anno in cui scrive Sei personaggi in cerca d’autore. Come tutti gli scrittori di quel periodo si mette in un rapporto diretto con una compagnia teatrale, e si mette quindi a dialogare con la compagnia di Ruggeri, che ha già recitato testi di Pirandello. Il testo che viene poi pubblicato nel 1922 è appunto un testo che vede la pubblicazione dopo la prima rappresentazione. Gli scrittori in questi anni non pubblicano mai prima della rappresentazione, ma succede il contrario: il testo viene lavorato e modificato dalle prove della compagnia e dalla prima ,e la pubblicazione è successiva alla prima. Questo è un caso esemplare di come le prove modifichino il testo. Il primo capitolo del testo di Gedda si occupa di raccontare nel dettaglio di queste questioni preliminari. Il testo di Enrico IV è rivisto e ripubblicato da Pirandello diverse volte, e l’edizione che viene venduta oggi è quella 1. Cominciamo dalla cosa più difficile, l’audio di Ruggero Ruggeri. Essendo solo l’audio non si capisce benissimo cosa succede. Prima di ascoltare si possono osservare alcune immagini dell’attore che recita Enrico IV, così da comprendere in parte il personaggio di Ruggeri, recitato da lui per tutta la vita. La versione radiofonica avviene trent’anni dopo la prima, nel 1953. Qualche secondo prima dell’ingresso si sentono i commenti dei due coprotagonisti: nella versione audio manca anche l’ingresso in scena, che per gli altri attori viene riprodotto in maniera un po’ diversa. L’Enrico IV di Ruggeri è un po’ estetizzante, distaccato nel suo modo di recitare la follia, e vale la pena di porre attenzione all’uso che fa della voce, poiché Ruggeri è particolarmente famoso e amato per la sua vice melodiosa, calda, affasciante. È una voce nasale, cosa su cui gioca lo stesso attore: la nasalizazzione della voce è una tradizione tipica della tradizione italiana (Vittorio Gassman, Carmelo Bene), che affonda le proprie origini nell’800 e che Ruggeri interpreta al massimo grado. - cifra estetizzante 2. Memo Benassi recita un Enrico IV sprezzante, rabbioso, sofferente, nauseato, disgustato. Benassi è un attore molto intenso, che pass anche attraverso questa registrazione. A teatro era una delle caratteristiche più forti: l’intensità passa per l’utilizzo del volto, occhi ì, sopracciglia, bocca, e delle mani. Questi sono i due punti della tecnica recitativa sui cui l’attore concentra l’attenzione. (Recitazione che ha punti di contatto con Eleonora Duse, di cui è stato anche allievo lavorando in una sua tournée del 1921-1924, la sua ultima. Nel caso della Duse il dolore espresso dai personaggi ha qualche elemento estetizzante: non ha caso ha un sodalizio con D’Annunzio. In Benassi questa componente estetizzante viene sostituita dal tormento e dalla rabbia,che diventa la cifra espressiva.) In questo Enrico IV c’è questa rabbia intensa: si vede benissimo in questo ingresso, momento in cui per la prima volta si mostra in pubblico. Questo è il modo di trasmettere al pubblico com’è fatto il personaggio, ed è quindi un’entrata importante. (Benassi è la rappresentazione di acteur per come lo descrive Jouvet, un attore che porta sempre se stesso nelle sue rappresentazioni. Gli altri hanno un atteggiamento più duttile, in particolare nei casi di Valli e Mastroianni.) In questo frangente, guardando l’espressività dell’attore, si può notare che tutta l’intensità sta nel volto e nelle mani: in resto del corpo non esiste. - cifra sofferente/intensa 3. Randone gioca sul tratto beffardo del personaggio: è quasi divertito, sembra quasi che si prenda gioco degli ospiti. Randone gioca una corda quasi comica, beffarda. Anche la scena è completamente diversa, a sottolineare questo tratto comico i cortigiani sono quasi divertiti: uno di questi arriva all’ultimo e si mette la parrucca, e quando egli arriva hanno tutti un mezzo sorriso. La scena della vestizione c’è in Pirandello: nella didascalia è segnata, ma Benassi è del tutto disinteressato alla didascalia. Randone sembra quasi prenderli in giro: è divertito in modo tormentato e sottolinea l’aspetto che diverte l’Enrico IV nel vedere gli altri travestiti per lui. In più Randone usa l’intero corpo, piegandosi e muovendosi nella sua interezza. Se non dicessero le stesse battute sembrerebbero due personaggi completamente diversi. - cifra beffarda 4. Romolo Valli consegna un Enrico IV sarcastico, intellettualistico, lezioso, distaccato. Si fa beffe di chi arriva ma con una forma di distacco, che può ricordare qualcosa di Ruggeri. È un attore che lavora molto di più con la regia, al contrario di Benassi, che ha una sua fisionomia che sta però dentro ad un ragionamento registico. Nella sequenza, la possibile lettura meta teatrale del testo, cioè che Enrico IV reciti un personaggio, è molto sottolineato, essendo tutto palese. Un sipario si apre per far entrare il protagonista, e Valli non entra in scena ma è già in scena e si apre il sipario. La vestizione è lenta e segue con precisione il testo. Valli si prende dei tempi lunghi, e a parità di battute lette lo stesso pezzo dura quasi il doppio di Benassi. Valli è un attore che lavora sul corpo e si concentra molto sul volto, lavorando sul dettaglio con una leziosità particolare: l’uso del dettaglio della fisiognomica è lezioso, usando le “caccole”, ovvero quei micro movimenti teatrali. Questa recitazione ha un gusto un po’ distante dalla contemporaneità.- cifra sarcastica 5. Mastroianni è un caso completamente diverso, in quanto ci troviamo all'interno di un film del 1984 di Bellocchio. Questo è un regista forte, che intreccia molto la sua impostazione con la realizzazione dell’attore del suo personaggio. Mastroianni costruisce un Enrico IV intimo, sofferto, in cui prevale la malinconia, come spesso nei suoi personaggi. Il suo lavoro sta all'intento di una trasposizione nel linguaggio cinematografico del testo, dove molta parte del testo è mantenuta, ma un po’ della sceneggiatura viene riscritta e c’è ovviamente l’intervento registico. Per esempio, quando Enrico IV comincia ad andare verso gli ospiti, contemporaneamente si vedono gli ospiti che parlano tra di loro, in un montaggio che trasforma la sequenza. La macchina da presa ci porta dentro la sequenza in un modo completamente diversa dal teatro. Le musiche di Piazzolla sono utilizzate in tutto il film e danno il senso di una costruzione che va al di là dell’attore. Enrico IV arriva dalle stanze superiori, scende insieme ai cortigiani e mentre scende si vedono gli ultimi preparativi degli ospiti. Claudia Cardinale recita Matilde e si vede mentre ripassa le sue battute. Questa recitazione è sopra, sottotono, e consente a Mastroianni di lavorare sull’elemento intimo in un modo impossibile nel teatro: il registro sobrio viene messo in contrasto con le accelerazioni improvvise nella recitazione, che risultano efficaci proprio in contrasto con lo stile intimo, basso continuo dell’opera. Gli scatti sono tipici dei personaggi dell’attore, e Bellocchio costruisce la scena su questo contrasto. C’è un punto di contatto fra Mastroianni e Benassi, che in modo diverso restituiscono il personaggio tramite l’elemento di sofferenza. In Benassi questa è più rabbiosa, mentre in Mastroianni è più melanconica, tipica del suo lavoro. - cifra intima Seconda sequenza: Finale primo atto Questo passaggio è il finale del primo atto, interessante perché si tratta di un breve finale con una scena muta significativa, che ognuno di questi attori fa in modo diverso. Il finale del primo atto significa che siamo nel momento conclusivo dell’incontro di cui abbiamo visto l’inizio. Il primo atto si conclude con una scena muta con una lunga didascalia, scritta nell’edizione del 1933. La prima edizione è del 1922, successiva alla prima rappresentazione del 1921; ci sono poi diverse edizioni nel corso degli anni ‘20 e quella del 1933 è quella definitiva, a cui tutti gli attori fanno riferimento. Nella didascalia conclusiva si evidenziano: - Un certo elemento grottesco di Enrico IV, componente ricorrente di Pirandello; - Il fatto che alla fine dell’incontro Enrico IV lasci intravedere il fatto che lui non è pazzo, cominciando a dare qualche elemento per capire che non è più convinto di essere l'imperatore. A seconda di come si interpreta, si potrebbe già mostrare subito uno stupore che fa capire questo elemento, ma nel finale la cosa è più esplicita. Enrico IV fa una cosa strana, così strana che è un modo per comunicare ai suoi interlocutori. Questa didascalia recita: “E fa per ritirarsi, così inchinandosi, per l'uscio donde è entrato; se non che, scorto il Belcredi che s'era un po' accostato per sentire, nel vedergli voltar la faccia verso il fondo e supponendo che voglia rubargli la corona imperiale posata sul trono, tra lo stupore e lo sgomento di tutti, corre a prenderla e a nascondersela sotto il sajo, e con un sorriso furbissimo negli occhi e sulle labbra torna a inchinarsi ripetutamente e scompare. La Marchesa è così profondamente commossa, che casca di schianto a sedere, quasi svenuta.” Enrico IV si inchina e fa per andarsene, se non che si accorge che Belcredi si è avvicinato troppo alla corona: tra lo sgomento di tutti corre a prenderla, fa un sorriso molto furbo, si ri inchina e scompare. Questa è una scena muta che Enrico IV fa in chiusura, in cui mostra la consapevolezza in questo gesto grottesco. Nel testo di Gedda, la tesi dell’autore è discutibile: su questo punto c’è una diversa interpretazione. Infatti, quando Gedda racconta l’inserimento di questa didascalia, dice che è molto strana, poco in linea con Pirandello e che sicuramente è stata aggiunta perché l’ha visto fare e gli è sembrato che funzionasse. Dice Gedda che questa didascalia contraddice tutto il testo, che non ha questa componente grottesca. È del tutto ragionevole desumere degli spunti dalle rappresentazioni viste da Pirandello, ma che contraddica il testo è una tesi discutibile. Pirandello non avrebbe aggiunto nella versione definitiva una cosa che non condivideva lui stesso; in più, il tratto grottesco di Pirandello è ricorrente anche in questo testo, che per la sua impostazione ha sempre un piede appoggiato su quello che Pirandello chiamava umorismo, e che oggi chiameremmo grottesco. Anche quando cammina sul terreno del dramma, c’è sempre un indugio all’umorismo ed è proprio ciò che lo rende interessante. Questa didascalia è proprio una conferma che a Pirandello interessava questo elemento spiazzante di farsa. Questa annotazione va fatta per seguire il filo dell’interpretazione del testo. Trattandosi di una scena muta, non possiamo confrontarci con Ruggero Ruggero, e passiamo quindi a Benassi. In tutti e quattro i casi prendiamo la sequenza da un minuto prima per arrivare lentamente al finale. 1. In questa versione Belcredi prende proprio in mano la corona: mentre nella didascalia originale è solo vicino, qui la prende in mano. Enrico IV di Benassi sente di dover difendere la sua pazzia, riprendendo la corona con una certa fierezza. Non c’è nessun sorriso, ma anzi una fierezza che accompagna Benassi fuori sena. 2. Randone, invece, realizza questa scena più aderente alla didascalia appena letta, anzi esasperata. In questo passaggio si vede l’elemento beffardo, comico e divertito di Enrico IV e questa tecnica recitativa che si appoggia a tutte le risorse espressive che il corpo consente. “Farmi vivere questa vita da cui sono escluso” è una battuta di Enrico IV che viene detta da Randone con tono beffardo, e se Benassi è un attore molto intenso, Randone potrebbe essere l’interprete più pirandelliano, che porta avanti il grottesco, la farsa dentro al dramma. Il punto di incontro tra Benassi e Pirandello si gioca in profondità, dove si vede un modo di ragionare sulla frantumazione e sull’alienazione del soggetto tipico dell’era contemporanea. Il soggetto alienato è ricorrente per Benassi ed interessa anche a Pirandello, nonostante lo stile grottesco venga a meno per Benassi. Stilisticamente, Randone è l’attore più pirandelliano. Randone fa svenire Matilde Spina prima della scena che sta per fare a seguito delle sue parole e ricalca la parte della corona il più possibile, con un sorriso beffardo a addirittura tirando la lingua fuori prima di andarsene. 3. In Valli è molto forte il segno registico: qui l’Enrico IV è legato alle scelte registiche, come nel movimento molto studiato dell’uscita di scena. Vedendo Randone, è evidente che i movimenti sono fatti sul momento, mentre qui tutto è studiato in precedenza dall’autorialità registica. Nella risata finale si vede di nuovo quel sarcasmo, una forma di superiorità: Enrico IV di Valli è superiore a chi ha di fronte, mentre l’Enrico IV di Randone si prende gioco della situazione. 4. Bellocchio in questo caso modifica la situazione: nel passaggio, la scena della corona vien trasformata in un’altra cosa. Enrico IV che si congeda, anziché fare questo gioco della corona, corre verso il suo cavallo a dondolo. Questo è un modo per sottolineare questo elemento melanconico, in cui affiora spesso un elemento infantile, cifra di fondo dell’Enrico IV di Mastroianni. Nel testo di Pirandello c’è anche qualche elemento che allude all’infanzia, e Mastroianni ci lavora con Bellocchio. Sale anche un bambino su questo cavallo a dondolo e questo è anche un modo per ricordare l’inizio della follia del protagonista, derivata dalla caduta da cavallo. Le ultime battute sono di Pirandello fino a quando si scioglie l’incontro, poi la scena si trasforma: la corona di Mastroianni è il cavallo a dondolo, in questa metafora di Bellocchio. 13/04/2021 Terza sequenza: Monologo di Enrico IV Nel secondo atto troviamo la scena chiave dell’opera, il monologo di Enrico IV. Nel secondo atto si realizza un secondo incontro: Matilde e Belcredi tornano ad incontrare il protagonista, e quando si conclude questa scena Enrico IV resta solo con i suoi cortigiani e c’è la famosissima scena del monologo sulla follia di Enrico IV. Non è un monologo in senso stretto, poiché le parti monologate sono interrotte da qualche battuta dei cortigiani. Benassi e Mastroianni lo trasformano davvero in un monologo. È una scena piuttosto lunga, che vista per intero ci porterebbe via molto tempo. Su Moodle sono stati caricati dei pezzi di questi monologhi; insieme ne vediamo alcuni minuti. La prima parte di cui il monologo è composto sono le parole che pronuncia Enrico IV dopo l’uscita di Matilde e Belcredi, parole di un disgusto, sofferenza nei confronti di queste persone che vanno via, di cui Enrico IV misura la mediocrità e normalità. Lui invece è un uomo che decide di giocare ad essere folle perché il mondo normale non è per lui. Quando si conclude questo incontro Enrico IV mostra la sua distanza da queste persone. Ogni attore rappresenta questa scena in modo diverso: non è un atteggiamento facile da avere, in quanto si parla anche della donna che lui ha amato. Questa parte è molto breve e inizia subito dopo il monologo: dal punto di vista della trama mostra apertamente ai suoi cortigiani di sapere di non essere Enrico IV, che rimangono sbigottiti, e poi pronuncia queste battute sulla follia che vanno sotto il nome “Monologo della follia”. In questo pezzo sulla follia ci sono delle riflessioni sulla follia. Oltre a questo c’è anche un modo di parlare della follia come consapevolezza della propria diversità dal mondo. Enrico IV è un uomo che, attraverso questo suo giocare sulla follia, dice qualcosa sulla condizione dell’uomo contemporaneo. Pirandello parla dell’alienazione, della frantumazione dell’uomo, che è ridotto a giocare ruoli e ad essere un oggetto. Enrico IV è consapevole di questa situazione e si muove nella sua consapevolezza, che mostra l’inevitabile consapevolezza della diversità contemporaneamente al fatto che non si può fare diversamente. Lui sceglie di fare Enrico IV perché preferisce continuare a giocare, fino a quando la situazione diventa insopportabile, sbottando e uccidendo nel finale Belcredi. Questa decisione di continuare a fare Enrico IV diventa quindi obbligata, perché ai matti è concesso un comportamento del genere senza la reclusione. Ogni attore restituisce un personaggio diverso e un proprio sguardo sull’uomo contemporaneo, attraverso un gesto artistico importante e riuscito. 1. Enrico IV svela implicitamente di non essere Enrico IV quando dice che gli altri sono buffoni. Benassi continua a usare volto e mani come zone espressive: addirittura si siede perché il resto del corpo non gli interessa.ha una recitazione molto accelerata, affrettata, non facendo pause dove verrebbe logicamente da farne e ne fa in altri luoghi. È un modo di recitare meno interessato al senso delle parole e più alla musicalità del dialogo, tanto è che ogni tanto questo gioco di accelerazioni e battute suona un po’ strano. È voluto per cercare un fraseggio nel dire la battuta. Ogni tanto le parole si sentono non benissimo: oltre alla ripresa non perfetta, succedeva anche a teatro. Benassi è un attore ancora grandattorico, e in questo modo di recitare in cui le battute non sempre si sentivano tutte, si interessava a far sentire alcune parole, mentre le altre magari non erano di suo interesse. Altri attori come Randone e Valli sono più attenti a restituire tutto il filo del testo:
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