Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Appunti lezioni prof.ssa Pierini Storia delle teoriche del cinema - a.a. 2020/2021 (DAMS), Appunti di Teoria Del Cinema

Appunti completi sulle lezioni tenute dal prof.ssa Pierini per il corso di Storia delle teoriche del cinema - a.a. 2020/2021 1. Introduzione 2. Origini 3. Teoria e teorie del cinema 4. Nascita e sviluppo della teoria del cinema 5. Teorie classiche 6. Verso la teoria attraverso i film 7. L'uomo visibile 8. Che cosa è il cinema?

Tipologia: Appunti

2020/2021
In offerta
30 Punti
Discount

Offerta a tempo limitato


Caricato il 10/03/2021

MariaSoleB
MariaSoleB 🇮🇹

4.7

(29)

13 documenti

1 / 30

Toggle sidebar
Discount

In offerta

Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica Appunti lezioni prof.ssa Pierini Storia delle teoriche del cinema - a.a. 2020/2021 (DAMS) e più Appunti in PDF di Teoria Del Cinema solo su Docsity! STORIA DELLE TEORICHE DEL CINEMA – appunti prof.ssa Pierini 28/09/2020 L’oggetto del corso è un ambito ampio che copre tutta la storia del cinema. Il percorso qui seguito non è storico. È importante per studenti del DAMS confrontarsi con la parte più ostica degli studi del cinema, ovvero delle teoriche del cinema, elaborata da molti studiosi con origine diversa. Lo studio della teoria offre degli strumenti di comprensione nuova. Il confronto diretto con i testi è fondamentale: l’esempio è André Bazin. Questo è un esercizio di complessità, comprensione e messa in discussione delle teorie. Le lezioni possono essere definite “lettorati”. Le due linee di lezione sono: - Goss: percorso cronologico con più testi; panoramica sulle teoriche del cinema con i principali autori - Pierini: percorso monografico: Bazin “Che cos’è il cinema”, Béla Balázs “L’uomo invisibile” (lettura dei testi) Questioni pratiche. Moodle contiene tutti i materiali del corso. Si consiglia di scaricare in anticipo i materiali per seguirli in contemporanea alle lezioni. Goss ha caricato file con link di Google Drive con tutti i testi da studiare. Il percorso scelto cerca di essere creativo per attivare il discorso contemporaneo. Importante è prendere dei concetti passati ed estrapolarli per produrre teorie moderne. Dal cinema si sviluppano tutta una serie di correnti moderne che possono essere analizzate e rielaborate. La scansione teorica cronologica è dovuta allo studioso Francesco Casetti, scansione che cerca di rispondere a determinate domande poste in momenti storici. Due piattaforme: pagina del corso sul sito DAMS e Moodle. Per seguire il corso è importante seguire Moodle. La parte monografica segue due testi: si invitano gli studenti ad acquistare i testi o comunque ad avere le pagine su cui si lavora stampate (scansionate dalla professoressa su Moodle). A lezione si fa riferimento a film specifici indicati nella filmografia, da vedere. Le lezioni si bloccheranno solo nella settimana di esami di novembre. INTRODUZIONE Si parte dalle origini. Affrontando i temi in ordine cronologico è necessario comprendere lo shock del cinema e del suo arrivo nella società, essendo difficile mettersi nei panni di chi assiste a questo evento straordinario. Per avere un’idea di come arriva il cinema, attraverso una serie di invenzioni e sviluppi tecnici che partono dalla fotografia, leggiamo George Demeny nel 1982. Parla del “ritratto animato” che “restituisce la vita” all’uomo. Il cinema ha quindi a che vedere con la rianimazione, la riproduzione della vita (“complesso della mummia” di Bazin). Queste frasi profetiche, che uniscono la riproduzione vocale del fonografo con l’immagine del movimento per rivivere i morti. Demeny è un ginnasta che si occupa del movimento scomposto e si immagina cosa può essere quarant’anni dopo, con l’avvento del suono nel cinema. Si mostra il primo film, l’arrivo del treno dei fratelli Lumière, del 1896, per introdurre un’altra citazione che spiega lo shock dell’avvento del cinema. Il cinema ha due limiti al suo arrivo, come spiega Maksim Gor’kij, in “Nel regno delle ombre”, quando descrive l’esperienza di una esposizione di Lumiere: tutto è grigio e silenzioso. Tutto sembra vivo ma quando arriva al bordo dell’immagine scompare. Questo testo contiene la sorpresa del cinema e i suoi confini: il fuoricampo, il bianconero, il silenzio. Il cinema gli appare un regno delle ombre, qualcosa di irreale, e riduce al nulla la realtà. L’impressione del treno è forte, il contrasto tra il luogo della proiezione con la realtà però delude. Il cinema presto diventa popolare ma non in prima istanza: inizialmente arriva in un luogo che non è deputato, come nei caffè. Il pubblico è distratto e non è nella condizione odierna. La fruizione del cinema è a livello primitivo. Di fronte all’aspettativa c’è quindi sorpresa, delusione e paura. Il silenzio, l’assenza del suono del mondo è fondamentale. La stessa proiezione ha recensioni diverse rispetto all’aspettativa, come dimostrano diverse testimonianze entusiaste di alcuni giornali. L’immagine in movimento è quindi anormale, shockante, e da qui nasce la riflessione teorica sul cinema. Queste analizzate sono solo reazioni. La prima teoria del cinema nasce dal dover definire e capire cos’è il cinema. Da qui nasce la pulsione a scrivere delle teorie. I teorici si 1 definiscono solo molto tempo dopo, però le teorie nascono da questo bisogno di comprensione. La reazione, lo shock, si condisce quindi di pensieri. Molti scrittori raccontano l’esperienza cinematografica, ed è interessante ad esempio il racconto di Apollinaire su un uomo che vede una sua amante passata riprodotta, e lo shock che questo comporta. Molti sono i testi tra fine ‘800 e ‘900 su questa esperienza. Il cinema è termine di confronto con la letteratura, poiché il contrasto con le altre arti è fondamentale in questo periodo primitivo. Il romanzo ottocentesco contiene vita, emozioni, situazioni, paesaggi; il cinema non ha ancora queste possibilità alla sua nascita e non tralascia la complessità della vita. La primazia della letteratura è ancora stabile, ma il cinema viene confrontato con tutte le altre arti. Il cinema è arte se ha specificità sue che vengono analizzate. L’immagine del treno che irrompe nella scena dà il via ad una serie di imitazioni e viene ripreso in molti film. L’esempio è Hugo Cabret, dove si cerca di dare un’idea allo spettatore contemporaneo dello shock dell’immagine, il treno che arriva addosso. Il treno rende bene l’idea del film e permette di chiedersi cosa vuole dil cinema dallo spettatore. C’è un altro tipo di montaggio che suscita la stessa emozione, o per lo meno una che richiama quella originale. Questa scena di Hugo Cabret dà corpo alla paura e mostra ciò che lo spettatore primitivo teme. I primi anni di cinema sono un laboratorio sempre in evoluzione e questo si riflette sulle teorie, vive dell’esperienza del cinema delle origini. Il cinema è un’invenzione che diventa un’industria che cresce molto velocemente e da quando si capisce che genera denaro diventa sempre più produttivo. Vengono riportate “le origini discorsive dell’universo cinematografico”, la produzione di discorsi dalla nascita (e prima) del cinema stesso. Alberto Barbera cura il libro che promuove alcuni scritti mai tradotti prima. Nell’introduzione si parla del discorso del cinema, la sua eterogeneità, che ha contribuito all’industria cinematografica. Per esempio, il discorso tecnico è fondamentale: bisogna capire come funziona il cinematografo, come va migliorato. Si può notare come il cinema generi non solo discorsi, ma anche un’introspettiva del cinema che cerca di capirsi guardando se stesso. I film sul cinema, il meta-cinema, è una distensione naturale del cinema, come nel film del 1902 di Porter (Uncle Josh at the Moving Picture Show): uno spettatore guarda il film sul treno di Edison e reagisce scappando e scambiando per lo schermo qualcosa di reale. L'auto-riflessione è semplice ma allo stesso tempo complessa: il protagonista non ha mai visto un film, essendo quindi rappresentato la relazione tra spettatore e schermo, una divisione della scena codificata, una attrazione dovuta all’incapacità di lettura di fronte a ciò che gli si presenta. È già una visione retrospettiva e comica, che prende in giro la sorpresa del cinema. Il cinema cerca di capire se stesso nella “Lanterna Magica” di Méliès, del 1093. I due clown si cimentano con un cinematografo e reagiscono alla loro visione. Per concludere “Kid auto races at Venice” primo film di Chaplin del 1914. Nella sua semplicità è un film che mostra la forza della macchina da presa, l’azione e l’attrazione di un personaggio verso la cinepresa. Altri aspetti importanti sono le persone reali: mentre Chaplin è un personaggio, gli altri sono persone normali: addirittura alcune di loro non vogliono essere riprese. Anche il pubblico ha la consapevolezza della ripresa: alcuni guardano in macchina, altri si nascono. Ci sono diversi livelli di presenza, dall’attore al passante. Questo film attesta quindi la consapevolezza del poter rifiutare la cinepresa, dell’entrare in campo o fuori campo. 29/09/2020 Il cinema ha origini discorsive anche nel mondo cinematografico stesso, come mostrato nella lezione precedente. La vastità della sfera discorsiva sul cinema è nata dalle sue origini. L’imponenza dello shock e il momento di cambiamento non viene percepito come tale all’epoca ma viene rilevato più avanti. Balázs dice infatti nel 1924 che il cinema ha reso l’uomo “nuovamente visibile”, una nuova forma di sguardo sul mondo in senso letterale, che implica la visione. Ci vuole del tempo per comprendere la rivoluzione artistica e culturale. 2 - Si distingue dal discorso critico in primo luogo, appunto non occupandosi dei film in specifico ma bensì al cinema in generale. - Il discorso storiografico è anche diverso in quanto si occupa dell’evoluzione diacronica del fenomeno del cinema, mentre quello teorico si occupa della dimensione sincronica. - Il discorso poetico, ovvero la posizione di un determinato artista sulla propria arte, è quindi un’idea soggettiva, personale e spesso implicita. - Il discorso estetico si occupa di descrivere le caratteristiche di un film poiché esso sia esteticamente accettabile (esempio: Poetica di Aristotele): quello teorico cerca invece di circoscrivere il raggio d’azione del cinema, i suoi mezzi specifici, le leggi che presiedono il suo funzionamento. La teoria non dice all’artista ciò che deve fare, ma osserva l’arte e cerca di comprenderla. NASCITA E SVILUPPO DELLA TEORIA DEL CINEMA L’urgenza di giustificare l’esistenza del cinema ha una serie di origini: una di queste è che il cinema è un ambito, dall’aspetto ludico e di intrattenimento, che vuole perseguire un ambito artistico, e per fare ciò ha bisogno di una sua teoria. Un nuovo problema è il tema della riproducibilità: dove si colloca l’arte nella dimensione produttiva? Walter Benjamin, ne L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica spiega come l’arte per secoli abbia fatto leva sulla propria unicità: la riproducibilità toglie all’arte la propria aura. Il cinema si trova ben presto a fare i conti con questo problema, essendo un’industria moderna basata sulla riproducibilità stessa. Questo problema pone le basi per la germinazione delle questioni teoriche del cinema. Altra questione è l’artisticità del cinema: può il cinema ambire ad essere arte? Questo dibattito si apre quasi subito e spinge la produzione teorica. Le teorie del cinema definiscono ciò che di volta in volta si è deciso che il cinema sia o possa essere. TEORIE CLASSICHE Sono distinguibili due aree di teorie: teorie classiche e teorie moderne. Le teorie classiche, che arrivano fino al secondo dopoguerra e vengono rivoluzionate da André Bazin, rispondono a queste domande: - Che cos’è il cinema? - Che cos’è il film? - Qual è il raggio d’azione del cinema, i suoi mezzi specifici, le leggi che presiedono al suo funzionamento? - Come incide il cinema sulla società? - Come e cosa rappresenta il cinema? La transizione tra classico e moderno non è semplice e immediata ma segna una trasformazione del mondo del cinema a metà del XX secolo. Il cinema diventa una istituzione affermata e si sente la necessità di un cambio di prospettiva. Esso ha bisogno di affermare la propria specificità fino a questo punto di svolta. Le teorie classiche sono principalmente ontologiche ed essenzialiste, che partono dal presupposto che il cinema possieda caratteristiche e mezzi specifici presenti soltanto in esso e in nessun’altra parte. Come oggi ci si chiede l’effetto e le ragioni dell’era digitale, gli stessi quesiti vengono posti nell’era dello sviluppo cinematografico. Le teorie classiche definiscono qualcosa di sconosciuto, comparandolo e approssimandolo in confronto ad altri arti. Da questo confronto si sviluppa il dibattito sulla specificità del cinema, confrontato con: - teatro; - arti figurative; - musica; - letteratura. 5 Le teorie classiche ontologiche tendono a cogliere quindi l’essenza del cinema e dello specifico filmico, che spesso è ricondotto alla fotogenia: c’è anche una pretesa di spiegare ai cineasti come operare, con una tendenza e vocazione estetica. Non c’è un approccio metodologico, quanto più d’intuizione personale: le prime teorie provengono da cineasti e uomini con interesse umanistico, che apportano quindi un approccio pratico ed emotivo. VERSO LA TEORIA ATTRAVERSO I FILM Il successo eclatante del cinema porta anche ai più critici del cinema a prestare attenzione a questo nuovo fenomeno. Alcuni film specifici generano un cambiamento di prospettiva: 1. Matilde Serao per Cinematografeide! Giornalista e sceneggiatrice, nel 1913 ha un atteggiamento piuttosto critico verso il cinema. Parla della nascita del cinema come lo sviluppo dell’epidemia: il cinematografo domina e spadroneggia le città, descrivendolo come una “macchina terribile” che “coglie a tradimento”. La percezione rispetto al potere dell’apparecchio è già potente. 2. Matilde Serao su Quo vadis? e Cabiria La scrittrice cambia idea rispetto al cinematografo, avvicinandosi al cinema progressivamente fino a diventare sceneggiatrice. Ne esalta le caratteristiche e rivela l’arte del cinema: è innegabile la poesia della proiezione e la realizzazione dell’arte cinematografica. In questa epoca non si sa ancora come guardare la proiezione, ma si stimola un approccio teorico. 3. Colette su The Cheat L’arrivo di questo film in Francia ha un effetto straordinario sugli intellettuali: Colette spiega come questo diventi una “scuola d’arte”, la rivelazione di un futuro cinematografico. 4. Louis Delluc su The Cheat Contro un’iniziale indifferenza, nasce un entusiasmo inconfessato, rivelato prima da Charlie Chaplin e poi dalla visione di The Cheat. Questo film gli rivela che il cinema è un’arte e da qui parte la congettura sulla fotogenia. Il cinema si rivela e porta gli scettici ad apprezzarlo e studiarlo. 12/10/2020 L’UOMO VISIBILE L’introduzione di Quaresima di quasi 90 pagine mostra la complessità del testo, primo testo di Béla Balázs di teoria del cinema. Alcune informazioni fondamentali per capire dove si colloca questo testo. L’autore, il cui nome è pseudonimo di Hermann Bauer, viene riscoperto nella modernità, come il suo testo, che viene tradotto solo nel 2008. Balázs è una figura non facilmente afferrabile, pur essendo non molto attivo: cosmopolita e mitteleuropeo, la sua vivacità intellettuale riflette la cultura del suo tempo. Benché la critica e la teoria siano due percorsi differenti, nei primi anni le due attività sono molto prossime: Balázs è molto attivo nel mondo cinematografico e ha una forte vicinanza con gli intellettuali e filosofi del suo tempo, lavorando allo stesso tempo concretamente nel cinema. La sua attività è molto densa e molti dei suoi testi hanno a che fare con il cinema, a partire da L’uomo visibile (1924): uscito a Vienna in lingua tedesca, è il suo primo scritto teorico e viene seguito da altri due testi che vengono tradotti prima di quello preso in considerazione. Casetti parla di questo testo sintetizzando alcune delle sue questioni principali: ne L’occhio del Novecento, l’inizio si riferisce proprio al pensiero di Balázs. Il cinema rappresenta un nuovo modo di guardare il mondo, un’opportunità per trovare il modo di guardarlo offerta ad uno dei nostri sensi, potenziato dallo strumento della macchina da presa. Quaresima dice che: 6 - il testo non ha carattere sistematico, seguendo un percorso assai libero e non mancando aspetti irrisolti, quando non contraddittori. - Il testo è strutturato per capitoli ma non sempre questi capitoli seguono una linea progressiva di ragionamento. Inoltre, le sue riflessioni teoriche nascono in seno alla sua attività di critica, che tende sempre a generalizzare e individuare fenomeni di portata più ampia: essere critici significa essere anche spettatori. - La critica deve infatti dare una valutazione, potendo quindi innescare una considerazione sul cinema in senso lato. - Per Balázs è importante la novità che il cinema rappresenta, non essendo tanto incentrato su un discorso essenzialista, quanto più capire la vera novità di quest’arte, il passaggio di paradigma del cinema. Il vedere il cinema i contrapposizione con la parola, porta lo studio a fermarsi sul gesto, sul corpo, sulla mimica: l’assenza di parola implica una ricchezza della gestualità non trascurabile. Balázs celebra l’avvento di una nuova cultura visuale, fondata sul primato dell’immaginazione sulla parola. L’accezione attuale di cultura visuale deriva proprio dagli studi di Balázs, che ha individuato con il cinema una nuova cultura dove vige il primato dell’immagine sulla parola. Anche gli studiosi più importanti di cultura visuale tornano a Balázs. Nelle immagini cinematografiche, lo spirito si manifesta, nei luoghi, nei corpi, negli oggetti: il cinema dà una nuova forma di esistenza al mondo, rappresentando il linguaggio universale dell’uomo, quello della mimica: il cinema dona visibilità alla dimensione della visualità. Le pagine iniziali sono pagine come Prologo in tre allocuzioni: tre appelli ai suoi interlocutori, lettori che individua come tre categorie a cui l’autore appartiene. I primi destinatari del suo appello sono gli intellettuali: richiama gli intellettuali del contesto viennese; i secondi i registi e gli amici del settore, cioè persone a lui note e con cui ha dei rapporti; i terzi il pubblico, denominati come “Il piacere creativo”. Balázs si sente parte anche del pubblico, essendo spettatore di cinema. Testo: Prologo 1. La vivacità di Balázs si deduce già dal titolo della prima allocuzione: “Chiediamo di poter entrare!”. L’autore richiede l’attenzione del lettore usando una formula retorica e definisce il suo libro un “libricino”. Ci sono diverse strategie retoriche che preludono un momento forte, un atteggiamento determinato. Dice che la sua è una presuntuosa iniziativa, ma vuole rompere il ghiaccio per dire ciò che nessuno aveva osato dire prima e di cui si inizierà a parlare in futuro. La sua battaglia culturale ha delle ambizioni alte: vuole tracciare una filosofia dell’arte del cinema, vicino allo scritto di Papini. Balázs parla quindi di una nuova arte, dando per scontato questo concetto, senza usare però una teoria del cinema. L’autore ha una formazione filosofica e per questo tende ad usare termini filosofici. Si rivolge ai suoi simili, a coloro che si occupano di pensare all’arte e sono staccati dalla realtà: il cinema chiede di essere degnato di una riflessione teorica. C’è una chiara idea di livelli di arte, nei quali spesso il cinema non viene considerato parte di cultura alta, essendo un’arte popolare. Il cinema deve dimostrare la sua artisticità. Il tono di Balázs, molto ironico, accusa gli intellettuali di essere troppo snob. L’urgenza di fare una teoria del cinema è un appello che mostra le intenzioni dell’autore: solo attraverso una teoria il cinema può esprimere pienamente se stesso, poiché un’arte può andare ovunque se ha la consapevolezza di sé. Uno degli aspetti importanti delle allocuzioni è mostrare che le teorie sono un modo per intensificare il piacere della scoperta e renderlo ancora più ricco. La teoria dà la possibilità di capire in che dimensione si sta andando, è un rapporto tra la riflessione e ciò che l’artista può fare, al posto di andare “a caso”. La teoria ha a che vedere con a consapevolezza di agire in un contesto artistico. Lo studio e la conoscenza nel campo in cui si opera porta a composizioni più strutturate. Il cinema, che si sviluppa sempre più rapidamente, agisce sulla cultura ma anche sulla psiche del pubblico. Balázs ha a cuore l’aspetto popolare del cinema, sia per una questione politica marxista del cinema che perché lo spirito popolare dipende dal e si forma nel cinema, avendo forte impatto sulle masse. L’uno è condizionato dall’altro, con una connessione forte tra arte e popolo. Si pensi il ruolo del cinema hollywoodiano nel fecondare e organizzare il pubblico di tutto il mondo. Il cinema ha il ruolo che hanno avito solo miti e leggende popolari. Da un punto di vista sociale, non si può più studiare il mondo popolare senza soffermarsi sul cinema, che sta cambiando la psicologia delle persone. 7 La teoria classica, dalle origini fino a circa il secondo dopoguerra, ha un impianto essenzialista, cercando di comprendere la specificità del cinema poiché questo sia arte e quale sia la sua essenza. Anche Balázs cerca di capire quale sia la sostanza del cinema in questo capitolo, mettendo in campo un tipo di ragionamento comparativo. L’autore, al posto di “teoria”, parla di “estetica”: nonostante ciò il suo pensiero è di tipo teorico, contenendo pur sempre al suo interno degli atteggiamenti prescrittivi, in cui tende ad andare verso un certo tipo di discorso estetico valutativo. Balázs cerca la specificità del cinema, essendo questa l’essenza dell’arte e delimitandola dalle altre arti. La prima comparazione del cinema è con il teatro, comunemente considerato come parente più affine o addirittura il “capostipite” di questa famiglia, dove il cinema è un derivato più grezzo dove manca la parola. Questi vengono comparati poiché in entrambi i campi gli attori sono al centro della rappresentazione. L’attore cinematografico è un personaggio che si va raffinando a partire dagli anni ‘10, in quanto prima erano persone casuali che approdavano a questo nuovo mondo. Solo con il tempo l’industria capisce il potenziale della presenza attoriale. Gli attori, all’altezza temporale dello scritto di Balázs, sono due realtà precise e distinte, nonostante siano vicini. L’autore parte da questa considerazione per proporre una comparazione con il teatro. La presenza della figura umana non è il punto in questione, poiché anche pittura e scultura hanno come soggetto l’uomo. Secondo l’autore, c’è una differenza sostanziale tra la sceneggiatura (al tempo del muto) e il copione teatrale, un testo a cui gli attori fanno riferimento: c’è una operazione di sdoppiamento, da una parte il dramma e dall’altra la sua rappresentazione. Al cinema questo non succede, in quanto le storia sono (tendenzialmente) originali; in più se un attore incarna un personaggio sullo schermo rimane legato a questo personaggio, diventando un’unica cosa. Il cinema non contempla una modalità comparativa tra rappresentazioni che permette il teatro. Ne è esempio il personaggio di James Bond, il quale, dopo la rappresentazione di Sean Connelly, ha portato ogni attore che ha interpretato il ruolo successivamente a confrontarsi con lui, data la forza dell’immagine. Balázs capisce che l’attore cinematografico è molto più legato al suo ruolo rispetto all’attore teatrale, e la valutazione dell’attore da parte di un pubblico teatrale è legato alla comparazione di rappresentazioni più di quello cinematografico. Gli attori del cinema sono legati ai loro personaggi e non riescono a spogliarsi da questo ruolo. Questa forza, che Balázs associa al concetto di autorialità, è una specificità del cinema. Nel 1924, il riconoscimento di autorialità è particolare in quanto pensiero spesso sorvolato: l’autore riconosce il solidarizzo tra attore e regista e li riconosce come autori del film. La figura dell’attore è l’unico contenuto del film: non interessa cosa riporti la sceneggiatura, ma ciò che si coglie nella proiezione. L’attore lavora con la propria presenza e con la sua espressione del corpo: la materia prima della sostanza poetica del film è proprio il gesto visibile. Non è tanto la storia a importare, quanto più come viene raccontata questa storia. L’arte cinematografica è portata avanti da finezza e forza degli espressione. Questa è una presa di posizione radicale, che rivendica l’aspetto visivo e gestuale del corpo come forza specifica. L’analisi di un film non può limitarsi alla critica della storia, ma a come questa viene rappresentata: anche un racconto semplice di una donna abbandonata può risultare magistrale grazie all’interpretazione del linguaggio mimico di una attrice come Lillian Gish e dalla magistrale conduzione delle immagini. Il cinema non può competere con la letteratura, ma le immagini e gli attori sono gli elementi che rendono la storia arte. Questa è un’altra specificità del cinema, nel quale non bisogna cercare l’articolazione del racconto, che spesso deve essere semplificato, mentre vengono messi in risalto altri aspetti. Balázs riporta come esempi alcuni attori come appunto Lillian Gish, Asta Nielsen, Charlie Chaplin e molti altri. Il discorso teorico di Balázs tiene conto di molti attori e si dimostra ancora uno spettatore e un’amante dell’arte attoriale. Il film di D.W. Griffith Way Down East, viene riportato come esempio dall’autore una scena particolare, in cui molti primi piani dell’attrice si rivelano essere momenti chiave che mostrano la capacità della Gish. La recensione di Balázs ad un altro film di Griffith, Broken Blossoms, riconosce la grandezza e la specificità dell’attore cinematografico. La sua attenzione va verso la rappresentazione della Gish come esempio di come dovrebbe lavorare un attore, con una densità di micro espressioni: i sentimenti in contrasto vengono espressi in un solo volto. Il modo in cui l’attrice dà corpo alla paura e mostra la forza della presenza attoriale, ancora più forte data l’assenza del sonoro (da pagina 139 finire di leggere il testo in autonomia). 10 19/10/2020 Nella autorialità di attore e regista Balázs trova la differenza rispetto al teatro, data dalla tessitura delle immagini: il cinema si esaurisce nella sua mono-dimensionalità, raccontando storie più semplici ma non per questo meno artistiche: questo è un problema solo per chi vuole trovare nel cinema una trasposizione della letteratura:un buon film non ha infatti alcun “contenuto” secondo l’autore, essendo un tutto in uno. Non bisogna cercare al di là della superficie, poiché tutto quello che si deve ricevere deriva dalla superficialità delle immagini: il volto di un attore esprime la sua interiorità, senza che ci sia bisogno di sapere di più di quello che si vede. Balázs inizia un discorso tra la corrispondenza tra ciò che l’attore prova e cosa dimostra il suo volto. Anche arti come la pittura o la musica “bastano a se stesse”, senza bisogno di essere completate. Mentre il quadro è un’immagine statica, il cinema deve tenere conto del tempo e del movimento. Il passaggio alla dimensione concettuale a quella visiva, che induce l’autore a teorizzare sulla natura del cinema, si riconduce alla capacità del cinema di privilegiare il senso della vista e della sua superficialità. Il cinema non si occupa di valori puramente mentali, dedicandosi alla piena realizzazione della sua natura visiva (da pagina 140, Trama parallela e significato profondo, fino a pagina 145, Il significato delle cose visibili, leggere il testo in autonomia). Il cinema basa la propria specificità sul ruolo delle cose visibili, che creano un’atmosfera unica del film. L’autore fa cogliere come il cinema dia rilievo al mondo, a cose che, inanimate e senza vita, acquistano un unico destino che le valorizza: il comune mutismo dà un senso di omogeneità al mondo (Non leggere Letteratura filmata e passare a Gesto linguistico e linguaggio dei gesti). Balázs chiede se si possano quindi considerare movimento espressivo e la visualità come specificità cinematografica, essendo questi elementi anche della rappresentazione teatrale. L’attore teatrale, però, esprime con il gesto solo ciò che non può essere espresso con le parole, completandole: i gesti contengono lo spirito delle parole, e l’attore lega i suoi gesti alla dimensione verbale. L’attore cinematografico utilizza invece un gesto che appartiene ad una sfera espressiva “muta”, che lavora in una dimensione espressiva che vede il proprio corpo come una figurazione estetica, come nel campo della danza. Al centro, tra i ballerini e gli attori di teatro, c’è l’attore del cinema: non usa gesti formalizzati come quelli della danza e allo stesso tempo non usa gesti verbalizzati come quelli del teatro. L’attore del cinema parla come a teatro, nonostante non si sentano le parole: lo spettatore vede l’attore parlare. Mentre a teatro le parole (e la distanza) non permettono di prestare attenzione alla gestualità dell’attore, al cinema il parlare è mimica facciale es espressione del volto: ciò che importa è il movimento che produce il suono al di là di esso. Chi vede l’attore parlare apprende cose completamente diverse da chi ascolta le parole. Veder parlare qualcuno mostra molto di più di quello che le parole possono dire, rendendo possibile “comprendere” attori di ogni nazionalità. Anche questa mancanza di suono non è quindi una mancanza, ma una ricchezza. L’attore di cinema parla in modo intellegibile per l’occhio: sembra suggerire che ci deve essere una maggior attenzione degli attori nella mimica facciale. Addirittura, l’autore arriva a pensare che non sia necessario che l’attore dica frasi sensate, ma che si esprime per l’occhio. L’autore specifica che la pantomima è un’arte muta sia per l’orecchio che per l’occhio, essendo quindi un’arte del silenzio. I mimi appaiono lontani dalla vita e rigidi, e non sono adatti alla rappresentazione cinematografica: anche se la voce non si sente, gli attori non devono agire come dei mimi, poiché essi stanno in un’altra dimensione espressiva. La pantomima nasce senza voce ed esaspera i gesti. L’autore afferma che il parlare senza che si oda la voce è uno dei mezzi espressivi più potenti di cui il cinema dispone. Nella scena di pantomima di Amanti perduti, la rappresentazione del mimo si mostra profondamente diversa da quella degli altri attori. Balázs dimostra la forza della rappresentazione visiva della parola con la recitazione di Asta Nielsen, che anche senza poter udire ciò che dice, mostra una frenetica ansia e disperazione nel suo discorso: i gesti diventano sempre più emozionanti (Leggere in autonomia La sceneggiatura). Testo: Tipo e fisionomia Tenendo a mente la considerazione secondo la quale “Ciò che è interno si dimostra all’esterno”, si può analizzare il seguente capitolo, che riguarda un tema che unisce diversi ambiti teorici. Balázs porta in causa la fisiognomica, ricorrendo ad alcune categorie che derivano appunto dal discorso fisiognomico. Già con la 11 scelta degli attori, il regista compone il film: nel cinema la superficie del corpo, l’aspetto fisico, le fattezze dell’attore determinano le caratteristiche del personaggio, rafforzando il forte rapporto tra attore e personaggio. Nel cinema, comporre il film significa scegliere gli attori giusti, anche in base al loro aspetto: secondo Balázs, in base alla scelta degli attori dipende in gran parte l’esito della pellicola. Per quanto riguarda il trucco, il cinema è molto più esigente rispetto alla verosimiglianza del teatro: se sul palcoscenico un attore può mascherarsi e interpretare un artificio maggiore, nel cinema c’è meno libertà per quanto riguarda l’aspetto fisico degli attori. Questo è importante poiché così gli attori possono esprimersi in modo più autentico: il cinema scopre la capacità di vedere della macchina da presa, superiore all’occhio umano. Il primo piano, considerato l’essenza del cinema, è l’inquadratura in cui la macchina da presa “vede dentro”, svelando ogni falsità. Balázs mette di nuovo in campo il paragone tra cinema e teatro per dimostrarne le differenze e le specificità. Il personaggio scelto non deve avere a prima vista un carattere troppo rigido, nonostante il cinema, soprattutto quello di Hollywood, abbia una tentazione ad avere volti caratteristici (typecasting) associati ad un tipo di carattere, riconoscibili da tutti. Nel cinema muto, ad esempio, il cattivo ha delle caratteristiche fisiche immediatamente intellegibili per lo spettatore. Gli attori caratteristi, che fanno delle parti legate ad un personaggio specifico, spesso comico o grottesco. Il typecasting è la strada più breve per creare un cast: il cinema americano è quello più spregiudicato e la stessa struttura dello star system deriva da questo fenomeno. Molti attori si ritrovano a rappresentare sempre lo stesso personaggio, secondo un metodo di organizzazione seriale. Oltre ad essere attenti nello scegliere le figure umane giuste, anche i costumi hanno un ruolo importante, poiché nel cinema si giudica solo l’esteriorità. La dimensione del visivo è tale per cui la prima apparizione del personaggio sullo schermo è fondamentale, in quanto lo spettatore si fa un’idea del personaggio da come si mostra: come è vestito, come si muove, come si comporta. La tipicità esteriore indica il carattere individuale: l’attore trasforma il proprio corpo in un’omogenea superficie espressiva, in cui ogni sua parte ha la stessa forte importanza. Nel caso del cinema muto questi è ancora più evidente. 20/10/2020 La fotogenia ritorna anche nel percorso teorico di Balázs. Il film Finis Terrae (1929) di Jean Epstein, composto solo da attori non professionisti, racconta dei coltivatori la cui stessa presenza ha una forza molto particolare. Alcune di queste figure sembrano quasi portare verso il cinema di Pasolini. Epstein lavora sulle presenze umane e su delle immagini, che passano da essere primi piani a campi lunghi, dimostrando efficacemente il “comune mutismo dei film” e come questo annulli la distanza tra esseri animati e inanimati, alternando oggetti e volti. Epstein fa uso sapiente di alcuni effetti come il rallenty, per fare una particolare enfasi a specifici momenti. Ogni inquadratura deriva da un lungo studio. Balázs usa il termine “fisionomia” per denominare quello che oggi intendiamo come “fisiognomica”, ovvero una disciplina para-scientifica che pretende di dedurre i caratteri psicologici e morali di una persona dal suo aspetto fisico, soprattutto dai lineamenti e dalle espressioni del volto. Questa tradizione deriva soprattutto dalla pittura, che cerca di esprimere le emozioni attraverso espressioni comuni per una efficace comunicazione con il pubblico. Questo studio si anima in particolare nell’800, con gli studi di Cesare Lombroso; nonostante ciò, già Aristotele fa riferimenti fisiognomici. Nel ‘500, Giovanni Battista Della Porta ragiona in un libro su alcuni tratti caratteriali associando i volti delle persone a diversi animali. In questo percorso c’è anche un’attinenza con la recitazione, studiando come esprimere le diverse espressioni e i tipi di volto particolarmente adatti a rappresentare caratteri e sentimenti. Quello che oggi si definisce “un tipo” ha alle spalle tutto questo discorso, legato in particolare alla ricerca di sapere e alla decifrazione del volto per la scoperta dell’intimo. Gli stereotipi che si utilizzano di giorno in giorno per il riconoscimento di un tipo hanno tradizioni molto antiche. Anche la stessa associazione di tratti particolari usati per esempio dal nazismo per individuare gli ebrei appartengono a questo discorso. Queste categorie sono una forma di percezione del mondo che vengono adottate più o meno consapevolmente. Balázs non si occupa di arti figurative o di discipline mediche: si interessa alla fisiognomica per una vicinanza alla filosofia. I filosofi dell’area germanica come Josef Chesner del periodo iniziano a guardare il volto e a chiamare in causa il concetto di fisiognomica. Il cinema stesso induce lo spettatore ad utilizzare questa concezione, data la sua esponente “superficialità”. I tratti dei volti sono studiati poiché caratterizzano 12 Balázs oscilla tra una riflessione marcatamente teorica e una più estetica, nella quale il montaggio e la regia orchestrano il primo piano e come questo viene ricevuto dallo spettatore. La valorizzazione del primo piano è un territorio poco esplorato, avendo quindi l’autore dei suggerimenti per la sua resa estetica. Il primo piano è la vera essenza del cinema secondo l’autore, che lo definisce in diversi modi: - Il primo piano è la condizione tecnica dell’arte mimica e, di conseguenza, della più elevata arte cinematografica. - Nel primo piano ogni minima ruga del volto diventa un tratto decisivo del carattere, e ogni fuggente contrazione del muscolo possiede un pathos sorprendente, indice di grandi eventi interiori. - Il primo piano di un volto dev’essere la sintesi lirica dell’intero dramma. - Al cinema, quando un volto in primo piano si estende su tutta la superficie dello schermo, il volto stesso diventa la totalità in cui è racchiuso il dramma. - I primi piani costituiscono la sfera più peculiare del cinema. Nei primi piani si dischiude la terra inesplorata di questa nuova arte. La lente d’ingrandimento del cinematografo ci mostra da vicino le singole cellule del tessuto della vita e ci fa nuovamente percepire materia e sostanza della vita completa. - Il primo piano è la poesia del cinema. Testo: Il primo piano Il primo piano è la maggiore peculiarità del cinema, ciò che lo rende oggetto artistico. Il cinema ci permette di vedere da vicino il mondo, dischiudendo una terra inesplorata dell’arte. La macchina da presa ha la possibilità di vedere di più e meglio dell’uomo: l’obiettivo è come una lente d’ingrandimento, con un vantaggio tecnico, ma porta anche un rapporto di prossimità. Il primo piano vìola la distanza personale, spiazzando lo spettatore e permettendo di vedere dei dettagli del volto normalmente non visibili. Questa lente d’ingrandimento mostra una vita segreta di tutto ciò che circonda l’uomo, mostrando quello che di solito non si nota. La possibilità di capitare nell’occhio della macchina da presa crea sorpresa e disappunto nell’uomo, poiché permette di scoprire qualcosa che non si conosce. I primi piani di un buon film permettono di riconoscere le singole voci della vita di tutte le cose di cui si compone la “grande sinfonia”. Il film La vita di Giovanna D’Arco dimostra l’intensità del primo piano, dove il volto della protagonista trasporta lo spettatore nella storia. Nel film di Godard del 1962 Questa è la mia vita, al cinema viene proiettato proprio il film su Giovanna D’Arco, e un altro primo piano della protagonista mostra quanto questo lavoro mimico possa impressionare ed emozionare anche un pubblico postero, in una dialettica mimica tra passato e presente (finire di leggere il capitolo Il primo piano in autonomia). 2/11/2020 CHE COSA È IL CINEMA? Il contesto entro il quale si colloca André Bazin e la sua opera di proselitismo, è quello della rinascita dopo la seconda guerra mondiale: l’autore rende la diffusione del cinema la sua missione. Bazin è uno scrittore che riporta un universo complesso: se Balazs porta avanti una figura ibrida forgiata tra la teoria e la pratica del cinema, Bazin porta con sé e prosegue la passione per il cinema. La guerra segna una cesura anche nella storia del cinema: lo stesso Bazin si pone com cerniera delle teorie del cinema, essendo però un po’ più vicino a ciò che accade prima della guerra. Nonostante ciò, il suo ruolo va al di là della teoria, influenzando il cinema degli anni ‘50 e ‘60. Alcuni degli elementi che definiscono l’evoluzione del cinema sono: - Non è più necessario, a questa altezza cronologica, difendere il cinema come arte: la battaglia è già stata vinta, entrando il cinema nel campo della cultura più che in quello dell’arte, ma avendo già raggiunto maturità piena. - Bazin non è un teorico puro, avendo però un carattere specifico nella teoria dl cinema: i termini sono assestati e la teoria del cinema parla una propria lingua, condivisa anche sul piano internazionale. 15 - Le riviste nel secondo dopoguerra rinascono, in particolare quelle più culturalmente ambizione, che portano avanti un discorso critico e teorico. Nascono alcune riviste infatti prettamente teoriche, come Screen, Iris, Hors Cadre. - Il cinema comincia ad essere studiato nelle università, essendo quindi accolto nel mondo accademico come disciplina che si può insegnare innanzi tutto da un punto di vista storico. La storia del cinema viene pensata e descritta proprio a partire dagli anni ‘60, inaugurando un nuovo percorso per il cinema. - Il dibattito critico-teorico si internazionalizza, essendo non più legato a singoli paesi ma essendo un discorso globale. Lo stesso Bazin si occupa molto di cinema hollywoodiano e italiano, oltre a quello francese. Inizia ad esserci uno scambio che riunisce le nazioni divise dai regimi della prima metà del ‘900. André Bazin, nato nel 1918, muore a soli quarant’anni, rendendo possibile una mitizzazione del personaggio, ma anche all’impossibilità di egli stesso di curare i propri scritti. Scrive moltissimo e lascia quindi un’eredità molto importante ma anche molto controversa. Molti degli approcci che sono rimasti nel mondo accademico verso il cinema sono seguaci del pensiero di Bazin, che è stato però anche rifiutato e contestato soprattutto negli anni ‘60. La sua eredità culturale non è così chiara, avendo lasciato in una così breve vita segni contraddittori. Bazin ha tre linee principali di influenza: - sulle teorie del cinema, arrivando a smuovere alcuni pilastri della teoria del cinema; - sul fare il cinema, cioè su come il pensiero di Bazin abbia influenzato i registi della Nouvelle Vague; - sulla critica cinematografica: la militanza critica di Bazin ha molta influenza e segna una linea precisa di impegno critico e politico, per un cinema che deve trovare il suo sviluppo, per valorizzare le opere in cui il cinema esprime la sua essenza realista. Nel 1944 Parigi viene liberata dai nazisti: da qui parte l’attività culturale di Bazin, di cui una delle prime imprese è la condivisione del cinema. Secondo Bazin l’esperienza cinematografica è una sorta di rituale, che necessita di presentazione, visione e discussione. L’idea che il film sia un’esperienza da condividere, e che la visione debba essere stimolo per una discussione, formula la nascita dei cine-club, l’attività di proselitismo cinematografico, che per decenni ha avuto una grande manifestazione nei decenni a venire. La vicinanza che il pubblico moderno ha con i film, rispetto al pubblico passato, ha attraversato diverse epoche nella storia del cinema. Le pellicole delle origini venivano lasciate deteriorare e non si ha che più che una piccola parte del patrimonio artistico cinematografico di questo periodo: la fruizione del cinema avveniva esclusivamente in sala e sono di film usciti nella contemporaneità. I critici stessi spesso non hanno la possibilità di rivedere i film di cui parlano. La cultura del cinema che si riguarda per il suo valore culturale e storico, con uno sguardo che ne coglie la profondità e l’importanza, è un fenomeno che nasce proprio con Bazin e nel suo periodo storico, grazie in particolare ai cine-club e alle teorie dello stesso. Bazin appartiene a questo mondo, essendo uno dei grandi promotori dell’avvicinamento al cinema. In questi anni il cinema ha una forte crescita, essendo la circolazione di film ripresa con opere che non erano potute uscire durante la guerra per censura o altri motivi: arrivano molti film americani in Europa, giungendo alla notorietà personaggi come Orson Welles. Bazin si occupa in prima persona di diffondere cinema e altre arti nella sua associazione “Travail et culture”, ma anche nella sua attività di giornalista, lavorando per diverse testate culturali. Il suo nome è legato alla partecipazione alla fondazione dei Cahiers du cinéma, e per la sua “scoperta” di Orson Welles e sulla teorizzazione sulla profondità di campo e sul piano sequenza, concetti ancora oggi studiati e utilizzati. Cahiers du cinéma è la rivista che viene da Bazin fondata con altri due critici di cinema, diventando uno dei poli culturali degli anni ‘50, sulle cui pagine si sviluppano le identità dei registi più importanti e significativi della Nouvelle Vague. Il fermento di questi giovani, che all’epoca sono poco più che ventenni, si ritrova nella lotta contro il “cinema dei papà”, per formare la politica degli autori, una posizione critica fortemente espressa nelle pagine dei Cahiers, seppur quasi sconosciuta a Bazin. L’autore si distanzia infatti dalle posizioni più estreme di Truffaut sulla politica degli autori, rifiutando un’ideologia dell’autore estrema. Questo spirito battagliero comunque distingue sia Bazin che i suoi giovani “seguaci”. Da un punto di vista sentimentale è decisivo il film I 400 colpi (1959), nel quale i titoli di testa si concludono con una dedica, su una schermata nera, alla memoria di Bazin. Il film viene presentato a Cannes e viene salutato come un prodotto di una nuova epoca. 16 Un altro riferimento esplicito a Bazin, seppur con una parafrasi, si trova nella sequenza iniziale de Il disprezzo di Jean-Luc Godard (1963): anche qui c’è una dedica, nella forma di una citazione. L’opera Che cosa è il cinema? è divisa in quattro volumi, suddivisi in quattro aree che mostrano la visione del cinema dell’autore e della sua elaborazione teorico-critica. Il primo volume è l’unico che Bazin stesso ha pubblicato, mentre gli altri tre sono stati pubblicati postumi. L’edizione italiana è una selezione dei suoi testi, non essendo quindi una completa rassegna dei testi. L’opera non è quindi curata da lui. L’edizione italiana non è tradotta completamente allo stesso modo ed è mancante di diversi testi. Una delle prime cose che colpisce di Bazin è la sua possibilità di abbracciare tutto il cinema, l’ambizione di fare un’elaborazione teorica del cinema capace di tenere tutto insieme, in un panorama completo e tendenzialmente coerente di diverse osservazioni sul cinema come dispositivo tecnico ed estetico. Questo muoversi di Bazin nell’universo del cinema è l’esito della visione ampia dell’autore: dopo di lui, nessuno di pone questo tipo di obiettivo. Inoltre, come è stato evidenziato da Truffaut e da Rohmer, Bazin è ricordato come un personaggio con ragionamento metodico, che sviluppa tesi comprovate, con grandi capacità teoriche e dialettiche. L’influenza di Bazin sul cinema moderno è indiscutibile, in quanto predice il cinema degli anni a venire: oltre a parlare di film dei suoi anni o precedenti, si occupa di cinema che non sta nell’ordine di grandezza delle industrie commerciali, facendo riferimenti a film sconosciuti e aprendo la discussione al cinema moderno, che esce dalle logiche del passato. La teoria che si fonda sulla natura ontologica dell’immagine cinematografica, accompagna lo sviluppo del cinema svincolato dalle tecniche antiche e invece collegato allo sviluppo moderno del 16mm, della presa diretta, del piano sequenza… Bazin intuisce e sostiene un cinema sempre più vicino alla realtà, sintetizzando le diverse forme di realismo per raggiungerne l’essenza. 3/11/2020 Testo: Ontologia dell’immagine fotografica Il primo saggio di Bazin è una riflessione sulla fotografia, che però porta inevitabilmente al cinema e mostra le fondamenta della visione e interpretazione del cinema dell’autore. Il titolo pone come centro focale l’ontologia, ovvero la ricerca della natura profonda, dell’essenza dell’immagine fotografica. Questo è un saggio del 1945, che Bazin decide essere il primo volume e quindi avere una posizione prioritaria: il saggio è fondamentale nel mostrare il modo in cui conduce il suo ragionamento Bazin, in maniera precisa e puntuale. Il primo concetto affrontato è la genesi delle arti: da dove nascono? Bazin, “psicanalizzando l’arte”, riconosce il complesso della mummia: uno dei bisogni fondamentali dell’uomo è di difendersi dalla morte, dal tempo che passa. Il poter fissare le apparenze carnali, il corpo, significa provare ad arginarlo dalla sua inevitabile scomparsa, cercando quindi di sconfiggere la morte. Il primo moto contro la morte è quello di fissare i corpi, trattenendoli appunto attraverso la mummificazione. Un primo blocco di ragionamento parte quindi dal bisogno originario che sta alla base dell’arte, della pittura e della scultura: poter salvare l’essere delle persone attraverso la rappresentazione. Se nella cultura egizia, l’esorcizzare la morte ha a che vedere con dei riti magici e votivi, facendo un balzo temporale fino a Luigi XIV si trova l’idea di immortalare la persona attraverso il ritratto, per fissarne le apparenze contro la scomparsa. Mentre nella cultura egizia si pensa che la mummia sia un modo per tenere in vita il morto, è chiaro che nella Francia di Luigi XIV non si crede più a questa cosa, ma si riconosce che il ritratto sia un modo di ricordare la persona viva, salvandola da una seconda morte spirituale. Man mano che il tempo passa, l’arte diventa una copia del mondo reale, una riproduzione: Bazin finalizza il suo ragionamento alla fotografia, passando attraverso la psicologia dell’arte. Quello che l’arte ha voluto infatti esprimere nei secoli è proprio la pulsione ad assomigliare alla realtà, facendone delle copie. L’arte ha avuto una forte pulsione mimetica per vincere la propria paura della morte e sconfiggere il tempo. Se si prendono in considerazione il ruolo di fotografia e cinema all’interno di un discorso artistico, si può capire perché l’arte entra in crisi a metà dell’800: questa vocazione presente in tutta la storia dell’arte, di riproduzione del reale, entra in crisi nel momento in cui viene inventato qualcosa che ottiene questo risultato in modo molto più preciso della pittura. 17 Bazin stabilisce i limiti del montaggio, in modo che il regista non manipoli una fatto, che deve accadere realmente davanti alla macchina da presa: il regista deve conseguire la compresenza dei due elementi dell’azione nella stessa inquadratura. Mostrare prima una cosa e poi un’altra con il campo-controcampo significa manipolare l’azione, togliendone autenticità. L’esempio di un uso corretto del montaggio dove l’immagine acquista veridicità, come nella scena della caccia al coniglio di Crin blanc, rafforza le immagini e le emozioni da loro derivate: lo spettatore crede a questa realtà poiché sta effettivamente accadendo. Per l’autore questo è un esempio di ciò che il cinema deve fare: non usare dei sotterfugi, ma seguire questa forza, rispettando la sua natura. Il punto nodale del suo ragionamento indica una strada, in cui si possa sfruttare al meglio l’essenza del cinema, che il montaggio viola. 9/11/2020 Bazin riflette sul montaggio, con un ragionamento che arriva alle estreme conseguenze, formulando una “legge estetica del montaggio proibito”, un punto d’arrivo che prosegue poi verso il neorealismo. Secondo l’autore il film non deve solamente raccontare la realtà, bensì che l’immaginario abbia la densità speziale del reale: “quando l’essenziale di un avvenimento dipende da una presenza simultanea di due o più fattori dell’azione, il montaggio è proibito”. Questa non è una legge assoluta che vieta il montaggio, come dimostra il film di Welles L'orgoglio degli Amberson, film fortemente artificiale per quanto riguarda l’ambientazione ma non per questo non realistico. L’autore stesso attenua le proprie posizioni, dipendendo dal tipo di film e dall’intento della produzione. In certi casi, la legge del montaggio proibito diventa un discrimine di realismo: ci sono dei momenti in cui questo principio assume una particolare valenza, come nella scena della caccia alla foca di Nanook. Prendendo questa legge come spunto generale, si può studiare dove questa è indispensabile: per esempio, un documentario, che ha l’intento di mostrare fatti realmente avvenuti. Laddove non sia fondamentale il valore di testimonianza, allora può essere concessa la violazione della legge. In certi casi, sfruttare la durata concreta è utile anche nei film di finzione, come nel caso dei piani sequenza di Orson Welles. In certe situazioni, come nel genere comico, la legge può essere molto importante: tutti i trucchi sono permessi tranne il montaggio, poiché la comicità dello spazio e la relazione dell’uomo con il suo contorno sono ciò che rende la comicità realistica. La cosa importante di Ballon rouge non sono i trucchi, ma il fatto che questi siano pro- filmici, che avvengono davanti alla macchina da presa. Testo: L’evoluzione del linguaggio cinematografico Questo è un saggio particolare in quanto una sorta di riscrittura della storia del cinema, diversa rispetto a quella che viene studiata tradizionalmente. Bazin guarda lo sviluppo della storia del cinema attraverso la dicotomia tra i registi che credono nell’immagine e i registi che credono nella realtà. La storia del cinema è fatta di tappe estetiche, nelle quali l’avvento del sonoro non è altro che una rivoluzione tecnica, mentre alcune teorie estetiche si trasportano nei decenni determinandone lo sviluppo. Il cinema muto raggiunge il suo livello massimo e un assestamento proprio con l’arrivo del sonoro, che sembra scombussolare il mondo del cinema. Appena raffinata questa lingua del muto, si deve abbandonare con molte remore. La rivoluzione tecnica è chiara, ma Bazin si interroga sulla rivoluzione estetica degli anni ‘30: dagli anni ‘20 agli anni ‘40 Bazin individua delle famiglie di stili, analizzando la storia del cinema dal punto di vista del découpage, quella suddivisione in scene ed inquadrature di un film, tecnicità del cinema. L’arte del découpage è alla base della struttura del cinema classico Hollywoodiano, un cinema regolato e costruito sulla base di accordi stilistici che vuole rendere il montaggio quanto meno percepibile. Per Bazin il découpage ha a che vedere con la struttura profonda del film, nella sua organizzazione complessiva. Se si guarda il cinema da questo punto di vista, si individuano due modi diversi di intendere il montaggio, due stili diversi di concepire il cinema. Seppur Bazin si renda conto dell’esistente storia del cinema, cerca di creare un’ipotesi nuova per proseguire il suo ragionamento: distingue così i registi che credono nell’immagine e i registi che credono nella realtà. Per cinema dell’immagine, l’autore intende un cinema che aggiunge qualcosa nella sua rappresentazione, non limitandosi a rappresentare la realtà ma manipolandola, sia con ciò che riguarda la messa in scena (costumi, trucchi, scenografia, recitazione), come nel caso del cinema espressionista, sia con il montaggio, 20 che nasce con il cinema di Griffith e con il linguaggio cinematografico. Il montaggio in questo caso è invisibile, e viene usato per aggiungere qualcosa alla realtà: il montaggio invisibile plasma la realtà. In questo tipo di cinema vengono sviluppati anche il montaggio parallelo, accelerato e delle attrazioni: qui viene creato un senso che le immagini oggettivamente non contengono e che deriva soltanto dal loro rapporto, come dimostra l’esperimento di Kulesov. Bazin parte quindi da un uso “debole” del montaggio,non portato a sviluppare al massimo le sue potenzialità, per arrivare a montaggi potenti, che creano qualcosa che non esisterebbe, facendo un uso ideologico del montaggio, che impone una visione della realtà, senza che lo spettatore possa avere una sua interpretazione. I due riferimenti di Bazin sono il film di La Roue di Aben Gance (1923) e Sciopero! di Ejzenstejn (1925), due esempi di uso del montaggio ideologico, la cui forza sta nell’uso marcato del linguaggio cinematografico. Per Bazin queste sono le dimostrazioni di come agiscono i registi che credono dell’immagine. 10/11/2020 Queste immagini mostrano la realtà, ma la forza delle sequenze sono dovute all’accostamento di inquadrature nel montaggio parallelo. L’organizzazione delle immagini è fondamentale in questo tipo di cinema, derivato dalla scuola di Kulesov. La sintesi di queste immagini, nel caso di Ejzenstejn, è ottenuta dalla ripresa dei corpi morti sul campo di battaglia: i rapporti tra le inquadrature suggeriscono l’associazione di idee, così che il senso non sta nell’immagine in sé, rendendo il montaggio un creatore di senso. I due esempi mostrano come il cinema muto nel 1928 sia completo, abbia raggiunto la sua pienezza. Bazin tiene per buona questa considerazione, la pienezza di potenzialità del cinema muto, secondo la quale il sonoro non può aggiungere molto di più: il raggiungimento del vertice in realtà è una pista ingannevole secondo l’autore, poiché l’avvento del sonoro modifica alcuni aspetti fondamentali. La famiglia stilistica nella quale il montaggio è puramente funzionale si sviluppa infatti con il sonoro, selezionando le riprese necessarie. Flaherty, nel documentario Nanook, lavora sull’ampiezza reale dell’attesa, che viene mostrata senza manipolare il tempo. Il suo punto di vista è che la forza e la commozione che deriva da questa scelta è strettamente legata al fatto che lo spettatore condivide quel tempo, condividendo l’attesa dei personaggi. Bazin fa degli esempi “al contrario”, mostrando, dopo i vertici del cinema delle immagini, l’altra famiglia stilistica. Dopo Murnau, l’autore porta l’esempio del regista Erich Von Stroheim: il principio del suo cinema è di guardare il mondo abbastanza da vicino e con sufficiente insistenza perché esso finisca con il rivelare la sua crudeltà e la sua bruttezza. Ne è chiave l’esempio di Greed (1924), e in particolare il finale: i due attori, soli nel deserto, dopo un’intero film fondato sulla loro rivalità economica, mostra la crudeltà dell’uomo. Bazin usa questa bipartizione per sviluppare un ragionamento su questa seconda linea stilistica, che porta il cinema a sviluppare i suoi contenuti. Stroheim è un pioniere di questa capacità di sguardo sulla realtà: Bazin invita il lettore a fare dei ponti ideali tra autori, a partire dal cinema classico e fino al neorealismo. In piena epoca muta esiste quindi un’arte opposta a ciò che di definisce il cinema per eccellenza, che non aggiunge nulla alla realtà, bensì la rivela, ha un carattere epifanico, ed è suo obiettivo lavorare in questa direzione. Mentre si guarda al cinema muto della linea delle immagini come un cinema completo, nella linea della rivelazione della realtà l’assenza della parola può essere un elemento che inficia la pienezza del cinema, poiché manca una parte della realtà. Prendendo quindi la prima linea, il sonoro segna la fine di un certo cinema; ciononostante, nella linea del cinema di Murnau e Stroheim il sonoro si inserisce, ampliando le possibilità del cinema stesso. Bazin si concentra sul cinema hollywoodiano, che negli anni ‘30 e ‘40 vede la sua configurazione più stabilizzata e il suo massimo splendore, e la produzione francese, di grande importanza in questo periodo: queste due cinematografie definiscono il cinema parlato dell’epoca. Bazin definisce la classicità del cinema secondo i termini du questi anni, di un cinema completo con tutti i caratteri di pienezza, uno stile che ha trovato una piena maturità. Il nuovo passaggio di ragionamento è inserire, oltre alla linea della realtà che sopravvive al sonoro, il cinema contemporaneo: il cinema degli anni ‘40 e ‘50 non è nuovo dal punto di vista stilistico, non molto evoluto rispetto al cinema classico, ma ha a che vedere con il cancellare la regia di fronte alla realtà, in particolare nel caso del neorealismo. Questo cinema si fa investire dalla realtà, facendo 21 un passo stilistico indietro per lasciare spazio al mondo. La forza del neorealismo è il punto di approdo della linea stilistica, che lo porta a valorizzare il modo in cui il cinema e gli uomini che fanno il cinema si mettono in relazione con la realtà. Il cinema neorealista racconta il mondo, al contrario delle storie hollywoodiane: Bazin non disprezza questo cinema, ma ritiene comunque il neorealismo come un passaggio successivo del cinema. Bazin anticipa il discorso sulla profondità di campo, citando l’uso di Jean Renoir. Il punto è in che direzione sta andando il cinema: l’evoluzione del linguaggio cinematografico non è nella tecnica, ma nei nuovi soggetti e nello stile che essi generano: dovendo rappresentare la realtà meno edulcorata, meno perfettamente organizzata, nel momento in cui il cinema si mette davvero a contatto con la realtà nasce un nuovo stile, un’evoluzione necessaria. Bazin crea una specie di cliffhanger per il saggio successivo: sotterraneamente, si sta muovendo qualcosa nel mondo del cinema, generando degli smottamenti. Così arriva al discorso sulla profondità di capo, e sulla differenza del cinema di Welles e il cinema classico. Testo: Evoluzione del “découpage” cinematografico dopo il parlato I due saggi sono separati ma il discorso prosegue in modo logico. Bazin tocca alcuni temi di storia del cinema, riprendendo l’esperimento di Kulesov sviluppato attraverso un découpage analitico. Si può associare questo tema alla sequenza del film Meet John Doe di Frank Capra (1941), nella quale si cerca un personaggio immaginario tramite un provino, per evitare la sua morte (fittizia). Qui si vede sostanzialmente rispettata la sintassi del découpage classico, nella quale i dettagli e il montaggio lavorano per mostrare tutti gli elementi utili per decifrare e definire il personaggio. Bazin associa le regole del découpage classico con quelle del cinema francese degli anni ‘30, in particolare con il regista Marcel Carné. L’autore continua ricordando come funziona il montaggio analitico drammatico, che ha le sue origini nel cinema muto. L’arrivo del sonoro mette a tacere, rende meno un servizio a quella linea del cinema muto, privata della sua libertà. Le caratteristiche di questo découpage sono il campo-controcampo, il dialogo, la ripresa dell’uno e dell’altro interlocutore. Questo découpage, alla sua massima espressione tra il 1039 e il 1939, viene rimesso in causa dal découpage di profondità di campo di Orson Welles e William Wyler. 11/10/2020 La fine del decennio ‘30 è per Bazin l’inizio di qualcosa di nuovo, e i ‘39 la data in cui iniziano a vedersi i movimenti sotterranei del cinema. L’autore descrive la potenza della profondità di campo, possibilità tecnica non inventata da Welles, ma che viene sfruttata in modo intenso e significativo dal regista. I primi film vengono girati in profondità di campo, con la differenza però del soft focus, la sfocatura del fondo, possibilità che permette di rafforzare il montaggio mettendo in rilievo particolari soggetti. Bazin accenna a Renoir, che già negli anni ‘30 sfrutta la profondità di campo, preferendola anzi al campo-controcampo: è questo autore che viene identificato come il precursore di Orson Welles, essendo consapevole dell’espediente tecnico che viene messo in atto per la soppressione del montaggio. La profondità di campo presuppone il rispetto della continuità dello spazio drammatico e della sua durata. La scena della firma dei documenti di Citizen Kane è uno dei più chiari esempi di rinuncia del montaggio attraverso la profondità di campo, in cui si vedono tre livelli di profodità. L’attrice che interpreta la madre di Charles Kane, Agnes Moorehead, collabora con Orson Welles nel suo film successivo e comprende il suo lavoro di regia, dando corpo alle possibilità della continuità di campo, in particolare nel film L’orgoglio degli Anderson. Questi film non sono stati girati dallo stesso operatore: nel secondo film viene assecondata la scelta di Welles di lavorare il più possibile in continuità, privilegiandola nella parte centrale del film. Bazin nota che i due operatori differenti mostrano una scelta stilistica autoriale del regista e non solo tecnica dell’operatore. Welles lavora in continuità e in profondità permettendo una prospettiva, una coralità singolare, con personaggi che parlano in contemporanea: personaggi che entrano in campo da ogni lato, dialoghi di sottofondo, sono scelte molto diverse rispetto al découpage classico. La scelta tecnica genera un’intensificazione dell’azione, impossibile da ricreare con il montaggio classico. 22 ricercate e commerciali, sostenuto anche dal fascismo ed esportata all’estero. Un’altra linea artistica più discreta è quella rappresentata da Quattro passi fra le nuvole di Blasetti. Questo è un film di piccola produzione che Bazin invita a riconsiderare per scorgere elementi del neorealismo. Bazin nomina diversi film di questa linea minore, ritenendole delle “modeste violette” alla base delle “sequoie della messinscena”, la linea più marcatamente legata al gusto fascista delle ricostruzioni storiche. Negli anni della Seconda Guerra Mondiale, l’Italia sta già percorrendo questa strada, per sbocciare poi dopo la Liberazione. Bazin ricerca sempre la tendenza realista, trovandone le radici in Italia in Rossellini, De Sica, Lattuada e Blasetti. In Quattro passi fra le nuvole (1942), la scena in cui i due protagonisti si confrontano durante una passeggiata, la storia di persone qualunque, l’ambientazione realistica, la tensione sociale sono tutti elementi che ricorrono nel nel realismo a distanza di alcuni anni. Girato in ambienti reali, racconta di un quotidiano, che assomiglia alla vita degli italiani d quegli anni. L’altro esempio di film citato da Bazin, per suggerire la ricerca delle tracce nel cinema fascista, è I bambini ci guardano di Vittorio De Sica: rispetto a Blasetti, qui si respira un clima moderno per il tema che affronta, una famiglia che si disgrega di fronte allo sguardo di un bambino. Il cinema di De Sica è popolato dai bambini, che portano lo spettatore nella storia con il loro sguardo. La forza del film sta porprio nel nel punto di vista del bambino, il che porta Bazin a chiamarlo in causa per mostrare i barlumi di ciò che avviene nella cinematografia post-Liberazione. I bambini non sono ancora attori formati al mestiere, e quindi hanno una flagranza di vita particolarmente forte, su cui De Sica costruisce diverse storie. A metà film, il padre porta il figlio ad Alassio e questo si perde, rimanendo solo nella stazione. Il bambino lotta contro la separazione dei genitori. Il paesaggio umano e gli spazi aperti di questi film inaugurano le vie stilistiche del neorealismo, mettendo in luce dialettiche sviluppate in futuro. La maestria tecnica del neorealismo arriva proprio da Cinecittà, sebbene la Liberazione faccia precipitare la storia del cinema secondo le vicende storiche. La rivoluzione politica e lo sconvolgimento sociale che sono stati la fine della guerra hanno influito fortemente nella produzione cinematografica italiana: il cinema italiano, innanzi tutto, aderisce all’attualità. La Francia sente meno il bisogno di raccontare la propria storia, anche per la rapidità dei fatti legati alla Resistenza nel paese di Bazin: i film francesi di questi anni sono cronologicamente vaghi, mentre il cinema italiano è prima di tutto un reportage costruito. Il neorealismo ha uno sguardo quasi documentaristico, non potendo essere concepito al di fuori della storia del dopoguerra. Bazin definisce il cinema italiano come un umanesimo rivoluzionario, per esprimere come il neorealismo mette nuovamente in centro l’uomo, le vicende umane, nella sua essenzialità quotidiana. Questa capacità è secondo Bazin è quindi una valenza rivoluzionaria. 1/12/2020 La forza dei film neorealisti dipende in particolare ad un elemento, gli interpreti. Nel paragrafo Amore e rifiuto del reale (pag. 280) Bazin parla della realtà sconvolgente, che sorprende ed incuriosisce lo spettatore, soprattutto se non italiano. Dopo questa affermazione sviluppa una riflessione sull’amalgama, nel paragrafo successivo: mette a fuoco cosa c’è dietro alla superficie del film. L’autore mette in campo tutti i film principali di cui tratta e i principali attori, come Anna Magnani e Aldo Fabrizi. Questi attori esordiscono nella loro piena potenzialità drammatica, in quanto precedentemente lavorano già come attori di teatro e commedie: il personaggio di Pina in Roma città aperta segna una svolta nella carriera della Magnani, così come succede per Fabrizi e il suo ruolo drammatico di prete. Bazin fa riferimento alle informazioni rispetto alla genesi del film in tempo reale, in quanto dalla sua uscita esso riceve un grande interesse internazionale. Questi attori vengono reclutati attraverso quello che oggi si chiama street casting, di cercare le persone nei luoghi reali di ambientazione. Maria Michi ha una parabola cinematografica molto breve che finisce negli anni ‘50, viene considerata una maschera del cinema fino al suo debutto nel film di Rossellini. La questione del non attore è di particolare interesse per Bazin, e viene già indagata dalle origini del cinema. Il neorealismo giova della presenza di non attori per la realizzazione di se stesso, ma il ricorso dei non attori nasce dal desiderio di annullare la finzione, di cogliere la realtà sul fatto. L’attore rappresenta un ostacolo nell’urgenza di riprodurre il presente, mettendo la propria personalità nel disegno di qualcun altro: da qui possono nascere solidarizzi o tensioni, in particolare tra regista e attore. Il non attore toglie la convenzionalità di un attore di mestiere, essendo solo di passaggio nel mondo del cinema: gli attori di strada fanno forza nel non essere associabili ad un lavoro passato, e lo spettatore sa di 25 vederli in quel momento e non più. Il non attore può non diventare mai un attore, ma esistono casi in cui la non professionalità viene tolta, e questo acquisisce una consapevolezza attoriale. Il rapporto tra personaggi e spazio nel neorealismo ha inoltre una grande importanza, essendo il non attore parte dello spazio in cui recita come cittadino. La sua storia è molto vicina a ciò che il regista ha in mente, oppure aiuta a definire personaggi solamente abbozzati: rappresenta la massima coincidenza tra personaggio e attore, annullando il livello di recitazione. È importante che loro non cancellino se stessi davanti alla macchina da presa, ma che anzi di portino davanti ad essa. Il non attore è qualcuno che porta una componente nuova nel cinema, la non finzione: il non attore, non avendo competenze tecniche, non lavora dento ad un registro di convenzioni, bensì con naturalezza. La pratica dell’arruolare non professionisti è presente in tutta la storia del cinema, come nel cinema sovietico: dopo la prima fase del cinema di Ejzenstejn, anche la scuola sovietica abbandona questa idea ricorrendo ad attori teatrali. Nonostante ciò, questa corrente continua sotterranea percorrendo diverse cinematografie, come nei casi dei film Sierra de Teruel e L’ultima speranza, film che perseguono questa strada per esigenze narrative. Altri esempi più recendi a Bazin sono Tabu del 1931 e in particolare Farrebique del 1946, girati in spazi reali con persone che non sono degli attori. Farrebique è l’esempio più estremo, essendo anche recitato in occitano. Bazin richiama questo film per ricostruire una storia parallela del cinema, da punto di vista della non attorialità. Tabu è più marcatamente un documentario, mentre Farrebique è la storia di una famiglia, con una declinazione più narrativa. Bazin presenta la legge dell’amalgama: non è solo l’assenza di attori professionisti che caratterizza il neorealismo, ma la negazione del divismo (principio della vedette) per utilizzare indifferentemente attori professionisti e non. Anna Magnani per esempio viene sradicata dal suo ruolo naturale, per morire a circa trenta minuti dall’inizio del film. Secondo Bazin, il cinema neorealista non deve per partito preso rifiutare i divi, ma per ottenere l’effetto straordinario l’attore famoso non deve avere alcun legame con il suo lavoro precedente, così che non porti il carico, il riverbero dei suoi ruoli anteriori. Per il pubblico dell’epoca, vedere la Magnani in questo ruolo è uno shock, essendo lei abituata ad interpretare donne facoltose ed appariscenti. Non necessariamente tutti devono essere non attori, poiché la padronanza tecnica può essere utile quando si scontrano con ruoli inusuali. I non professionisti sono invece chiamati ad essere se stessi, con conformità fisica e biografica. Bazin individua nella compresenza di professionisti e non, in questa amalgama, il segreto della forza dei film italiani realisti. La questione tecnica è che l’attore si trova a recitare un personaggio lontano da sé, ed avendo vicino i non attori comprende il suo ruolo. Da questa amalgama nasce qualcosa di inedito, dove gli attori portano con sé qualcosa di nuovo, mentre i non attori giovano dai professionisti. Questa amalgama così felice si può creare una volta sola, poiché da lì in poi si torna al cinema che si voleva superare: per esempio, Anna Magnani nei suoi film successivi perde la fragranza di realtà, trovandosi a replicare l’esperienza del primo film. Per i non attori, quando appaiono per la seconda volta sullo schermo non sono più non attori. Il non attore entra in crisi in un’industria che spettacolarizza la sua persona, come dimostrano le vicende personali di molti non attori: in non attore non può avere esperienza, per avere la sua qualità di presenza. Bazin invita il lettore a riflettere sull’unicità dell’alchimia del realismo cinematografico, che deve sempre essere originale. Tre esempi di realismo italiano sono: - Sciuscià è un film centrato sui bambini, veri protagonisti del film. De Sica racconta l’origine del film: finita la guerra, la distruzione del paese si riversa anche su bambini e ragazzi. Il regista conosce due ragazzi di strada, dai quali si ispira. - Roma città aperta utilizza invece attori “al di fuori dai loro ruoli abituali”: Bazin usa le parole di Rossellini per spiegare la legge dell’amalgama, il quale ribadisce le sue posizioni sul realismo cinematografico. - Paisà è invece un film senza attori nel vero senso della parola: i sei episodi ambientati in sei luoghi d’Italia, che segue la liberazione d’Italia, vedono la ricerca dei non attori nei paesi in cui viene girato il film. Il risultato è la messa in scena di un esperimento corale che racconta il rapporto degli italiani con la fine della guerra. La sceneggiatura si modella ai personaggi, che accorrono al momento della ripresa. Questo film è radicale, superando l’idea dell’amalgama negando la presenza degli attori: gli interpreti si abituano al tempo delle riprese e parlano nei rispettivi dialetti. 26 Bazin dice che l’amalgama si fa una volta sola: Roma città aperta è quindi un esperimento irripetibile, e Paisà sembra la risposta a questo problema, per non perdere la magia di questi film. Rossellini nega gli attori, costruendo il film a partire dalle persone che incontra, cucendo la sceneggiatura seguendo le storie degli interpreti. I sei capitoli del film sono preceduti da una parte documentaristica, in cui una voce da cinegiornale spiega il momento della liberazione. Il primo episodio mostra l’incontro tra l’esercito americano e l’Italia, in particolare di una ragazza diffidente. 2/12/2020 L’analisi di Paisà arriva dopo qualche pagina rispetto alla proposta della legge dell’amalgama. Bazin, nel capitolo della rivoluzione del découpage, introduce sorprendentemente (a pag. 89) il discorso sul neorealismo italiano, per la sua assenza di effetti dovuti al montaggio: inserisce nel suo ragionamento la rivoluzione realista insieme al lavoro di Welles, uniti dalla ricerca dell’ontologia del cinema. Questo ragionamento ritorna nel quarto saggio: a pagina 284, Bazin richiama i film che parlano dell’attualità della storia, introducendo il tema dell’estetica cinematografica. L’autore invita a diffidare dal pensare che il discorso estetico nasca solamente dall’attualità della storia e la verità dell’attore: il fatto di poter avvicinarsi di più alla realtà significa un affinamento tecnico, ma allo stesso tempo la posizione realistica implica una scelta, e quindi una posizione stilistica. Non si può tendere ad una riproduzione della realtà, poiché questo è impossibile nel cinema: nel modo in cui si sceglie di rappresentare la realtà nasce lo stile di un regista. Per esempio, Welles si posiziona in modo da privilegiare la continuità del tempo. Nel caso del neorealismo, la posizione è dovuta alla capacità di costruire immagini fatto. Bazin inserisce un nesso tra il neorealismo e la letteratura a lui contemporanea americana. La riproduzione della realtà è una tensione che non può mai esaudirsi pienamente, essendo il realismo realizzato attraverso artifici come il girare in studio: le scelte stilistiche creano un effetto di realtà, e il cinema deve quindi operare una scelta in ciò che viene rappresentato. Anche dove la tensione realista è forte, questa tensione è una contraddizione, poiché il cinema vuole restituire alla realtà ma non può farlo. L’arte realista è quindi un’arte che opera una scelta su cosa guardare della realtà. La limitazione del cinema stimola soluzioni stilistiche, come la profondità di campo. Realista è un sistema di espressione che tende a far apparire la realtà sullo schermo, dove per realtà si intende una qualità e non una quantità. Nel capitolo Da Citizen Kane a Farrebique (pag. 287), Bazin trova in Citizen Kane e Paisà i due film che hanno segnato lo sviluppo del realismo nel cinema. Questo è uno dei ragionamenti forti della sua riflessione. Bazin ripercorre le sue teorie su Welles, che restituisce la continuità al cinema, e la sua differenza con il découpage classico. La sua rivoluzione parte infatti dalla continuità di campo, nonostante il suo cinema sia fatto di set cinematografici ed attori esperti. Welles rinuncia alla realtà in alcuni terreni per lasciare la continuità, mentre film come Farrebique utilizza esterni reali, non attori, essendo l’opposto di Citizen Kane. La realtà sfugge quindi sempre da qualche parte. Nel neorealismo, la perdita di realtà avviene nel suono, che viene registrato in un secondo tempo, data la mancanza di attrezzatura tecnica. Questo fatto permette però agli operatori del cinema italiano di muoversi con grande libertà, alzando il coefficiente di realtà. Inizia quindi la lunga sezione del saggio dedicata a Paisà. Bazin invita a concentrarsi sulla postura stilistica di Rossellini, diverso dagli altri registi italiani. Essi stessi non hanno steso alcun manifesto, ma stanno insieme per contemporaneità e desiderio di catturare la realtà. L’autore non cerca di categorizzare il cinema, ancora nel pieno del suo sviluppo, bensì di trovarne alcuni tratti tipici. Secondo Bazin Paisà è il film più interessante, essendo il entro da cui parte questa riflessione, ed è il film più misterioso, che spezza le consuetudini del cinema a partire dalla struttura episodica. Bazin fa riferimento alla generazione di scrittori nati alla fine dell’800 come coloro che rappresentano una forma di realismo sperimentale, con una capacità di guardare la realtà proponendo una declinazione stilistica originale. L’autore crea questo nesso per descrivere le scelte stilistiche di Rossellini, a partire dal modo in cui gli autori raccontano i fatti. Bazin definisce lo stile sulla base del racconto, della genesi e della forma di esposizione che lo determinano. Laddove la maggioranza delle produzioni cinematografiche viene sottomessa a delle regole pratiche di organizzazione, e a delle necessità drammatiche, essendo le storie perfettamente congegnate, anche nel cinema neorealista serpeggia una tensione a far ricorrere a determinate vicende che portano ad accentuare il melodramma. Il racconto neorealista ha però una genesi e uno sviluppo 27
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved