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Appunti lezioni Sarmati letteratura spagnola II, Appunti di Letteratura Spagnola

Spiegazione dettagliata delle jarchas, delle Cantigas de amigo, del Mester de juglaria, del Cantar de mio Cid, del Mester de clerecia.

Tipologia: Appunti

2019/2020

Caricato il 28/06/2020

rinaldo-bratay
rinaldo-bratay 🇮🇹

4.3

(27)

16 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Appunti lezioni Sarmati letteratura spagnola II e più Appunti in PDF di Letteratura Spagnola solo su Docsity! Letteratura spagnola II (appunti) Esonero orale: 18 dicembre, sull’antologia e sui testi (Lazarillo de Tormes e La Celestina) Appelli: 8/01, 14/01, 3/02, sulla storia delle letteratura se si sostiene l'esonero. Storia della Spagna: online sulla Treccani. Dalle origini al 16esimo secolo in cui nella letteratura succede di tutto. Si arriva al Lazarillo de Tormes del 1554, romanzo picaresco. Romanzo che nella vulgata europea diventa il capostipite del romanzo moderno. Diventò il modello per la narrativa europea (modello per il romanzo sociale inglese, Dickens ad esempio che ha in comune col Lazarillo lo schema di base > un bambino che da condizioni umili o svantaggiate (Oliver Twist) attraverso l'astuzia, la perizia e l'abilità riesce a cavarsela, farcela. Dopodiché il successo che ha il bambino è di diversa natura e può essere letto sotto vari livelli). Se arriviamo ad una data ben precisa (1554) è più complesso dire da dove iniziamo. Le origini infatti, quali sono? È difficile infatti stabilirle, al tempo addirittura la letteratura spagnola iniziava con gli scrittori ispano-romani ed includeva nel suo corso anche opere mediolatine. Oggi questo tipo di periodizzazione è obsoleta. Tuttavia a partire dalla metà del ‘900: il 1948, la letteratura spagnola che prima si faceva iniziare con l'epica> ossia il cantar del Mio Cid, da quella data, per una scoperta importante la letteratura si fa iniziare con la lirica, una poesia lirica scritta ini dialetto o lingua paleoromanza. Nel 1948, infatti, succede che un ebraista, uno studioso di letteratura ebraica, rinviene in alcuni testi di letteratura ebraica, che apparentemente sembrano ebraici, ma in realtà si scopre che quei caratteri ebraici nascondono testi romanzi, scritti in un dialetto romanzo. Ciò porta a retrodatare gli inizi della letteratura spagnola. E si fa iniziare quindi la letteratura spagnola col canto lirico circa un secolo prima. Dialetto paleoromanzo: dialetto mozarabico (arabizzato). Queste canzoncine sono adesso collocate all'inizio della letteratura che studiamo ma anche anticipano di mezzo secolo la nascita della letteratura europea. Prima che si conoscessero le Jarchas, infatti, la lirica europea si faceva iniziare con i troubadours. Perciò questa scoperta fa tornare indietro l'inizio anche della letteratura europea. Se dovessimo dare una data della prima Jarcha di cui conosciamo una datazione affidabile, diremmo che si comincia intorno all'anno 1000 (probabilmente 1048). Però lo possiamo decidere convenzionalmente. Le jarchas sono ad oggi circa 80 poesie, e potrebbe essere che alcune siano più antiche. Perciò per studiarle si ragiona in un periodo di latenza > per periodo di latenza si intende un periodo di trasmissione orale della letteratura che poi si trasforma, ad un certo punto, in un testo scritto. Poiché questo testo scritto indica solo un punto del percorso, e non l'inizio, si tratta di un incidente. Il concetto di vita latente elaborato dai primi filologi della lingua spagnola (come Ramón Ménendez Pidal) viene usato per datare quei testi che nacquero nell'anonimato ma che vissero nella tradizione. Gli studiosi comunque convengono nel dire che possiamo collocare le origini delle Jarchas tra il IX e X secolo, anche se la prima testimonianza è quella del 1048. Quindi il nostro percorso va dal IX-X secolo al 1554. Poi andremo a trattare le origini dell'epoca: col mester de juglaría e poi il cantar de Mio Cid. Il cantar de Mio Cid appartiene al genere del mester de juglaría, che prevede un anonimato dell'autore, è votato all'intrattenimento del pubblico e ad informarlo di vicende storiche. Il mester de juglaría indica quel tipo di letteratura che nasce oralmente nell'improvvisazione. Raccoglie una produzione vasta ed eterogenea nella sua oralità. Sostanzialmente si tratta di una letteratura soggetta a molte varianti. E ad un certo punto si arriva ad un testo scritto, ma come detto, tramite un fortuito incidente. Canzoncine che però hanno molto successo, anche nella contemporaneità, come vediamo in Alberti e Lorca che li riprendono. Mester de juglaría: produzione letteraria dei giullari Mester de clerecía: la letteratura colta. Qui gli autori ci sono noti e sono chierici, in quanto nel Medioevo, lo studioso, il letterato studiava presso le abbazie e i monasteri. Differentemente dal mester de juglaría addirittura una scuola poetica che si esercita su un metro. Tutti scrivono con lo stesso metro. Un po' lo stesso che succede con il sonetto in Italia. In Spagna invece nasce una forma metrica in cui si cimentano gli scrittori con orgoglio. Lo studio prevede lo studio dei primi capolavori: La Celestina, un'opera teatrale. Il cui titolo precedente era "Comedia o “Tragicomedia de Calisto y Melibea" se non che il personaggio di Celestina ebbe così tanto successo da fare cambiare titolo. È una fattucchiera, mezzana. La prima edizione è del 1499. E l'altro libro come detto è Il Lazarillo de Tormes. Hanno una caratteristica in comune: la Celestina viene pubblicata alla fine del regno dei re cattolici, il Lazarillo viene pubblicato alla fine del regno imperiale di Carlo V. Sono testi epigonici, che chiudono dei cicli storici. Collocandosi entrambi alla fine di un ciclo storico sono opere sostanzialmente di contestazione, opere che riflettono e criticano la storia dei loro tempi. Mettono in risalto i difetti, le difficoltà e le crisi dell'epoca. E proprio per questo (contestazione) hanno la capacità di sovvertire i codici vigenti (La Celestina sovverte il mondo borghese e il Lazarillo ironizza sul regno di Carlo V). Lezione 7/10/2019 Concetto di latenza: le prime manifestazioni letterarie, che avvengono nella dimensione orale (del folclore), non basandosi su codici concretamente databili, bisogna ammettere che questi stessi testi hanno origini più remote. Excursus di carattere storico-culturale che ci condurrà ad Al-Andalus (concetto geografico, territoriale ma utile anche in chiave letteraria perché la letteratura spagnola delle origini è fortemente vincolata da questo territorio difficile da reperire geograficamente), la porzione di territorio iberico colonizzato dall'Islam. Quali sono state le lingue di sostrato ad influenzare e a formare il volgare spagnolo? Dunque, non è una sola lingua o dialetto, ma una serie di dialetti che si formano agli inizi, in concorrenza tra loro sui quali predominerà il castigliano, che poi diventerà sinonimo di "lingua spagnola". La Spagna [Saramago attraverso la zattera del suo libro ed elabora una metafora su come anche la Spagna si sia sviluppata, per secoli, dando le spalle all'Europa (e questa è una ragione anche geografica, essendo separata dal continente dai Pirenei e dal Mar Mediterraneo).] Se dovessimo dire quali siano stati i popoli che formarono il sostrato della lingua, possiamo dire che la testimonianza della presenza dell'uomo in tempi primordiali sta in quella famosa arte rupestre, costituita dalle Cuevas de Altamira. Queste grotte situate nel Nord della Spagna (Santillana del Mar) testimoniano che la penisola era abitata in tempi remoti e che vi stava una civilità sufficientemente evoluta da poter lasciare testimonianze artistiche. Queste grotte furono scoperte nel 1876, in maniera casuale, in una battuta di caccia, un cane da caccia si intrufolò in questo pertugio che ostruiva e dava l'accesso a queste grotte. Queste figure rappresentano scene di cacciatori, bisonti ecc e conservate perfettamente perché sono state sigillate naturalmente dalle pietre che ne ostruivano l'entrata, cosa che consentì la giusta temperatura per farle conservare bene. Disegnati sulla roccia gli animali e gli uomini sembrano muoversi. La bellezza di questa scoperta fece dubitare molti archeologi della veridicità di questo. Successivamente furono scoperte grotte simile in sud Francia, ed ecco perché oggi si parla di un sistema di grotte Franco-cantabriche. A quali popoli possiamo attribuire queste opere? I primi 2 popoli che stanziarono nella penisola iberica furono i Celti (che provenivano dal centro Europa, ed arrivarono in Spagna nel VI sec a.C., e si stanziarono nel Nord) e un popolo forse di origine africana, ma che consideriamo autoctono : gli Íberi, più a sud (prendono il nome dal fiume Ebro). Queste 2 popolazioni andavano a formare quella mescolanza conosciuta come cultura/civiltà centibera. Le testimonianze che abbiamo sono ad esempio: la dama de Elche (effige femminile, statuetta in origine forse policroma su cui si sono fatte molto supposizioni, e probabilmente era un mezzo busto a carattere funerario, anche perché il retro è aperto da un foro che indicava forse il luogo dove si depositavano le ceneri. L'altra ipotesi era che fosse una divinità e il foro era il luogo dove si lasciavano i donativi). La cultura centibera in Spagna ci lascia testimonianze molto simili (il mezzo busto, l'incavo posteriore, capigliatura simile ecc). Quali sono i contributi linguistici che queste popolazioni hanno dato/ quale influenza hanno lasciato nel latino? Molto pochi. Molti sono toponimi (ad esempio il fiume Ebro è un toponimo iberico) ed alcuni caratteri che contraddistinguono oggi la lingua spagnola, grazie anche al contributo basco. Queste caratteristiche protoromanze sono la perdita della f iniziale latina (filum - hijo). La mancanza del suono V. Alcuni gruppi consonantici che si sono evoluti da soli, ad esempio il suono CH spagnolo che deriva dal CT latino. germanici e arrivava già romanizzato e a un certo punto convertito anche al Cristianesimo. Perciò la popolazione romana subisce senza dubbio un rafforzamento. Con il termine superstrato si intendono quei rapporti linguistici, fonetici, lessicali che succedono al latino, cioè vengono dopo la romanizzazione. Il rapporto goto-visigoto è irrilevante, le parole germaniche presenti nei dialetti romanzi della penisola iberica erano già presenti nel latino. Mentre, di grande rilevanza come contributo del superstrato fu l’influenza della lingua araba. Come all’inizio dell’VIII secolo, la monarchia visigota è dilaniata da una serie di guerre intestine che vedono il confronto e lo scontro fra 2 fazioni opposte: quella leggittima e quella usurpatrice del re Rodrigo, approfittano della debolezza dello stato visigoto una serie di tribù berbere. Le prime invasioni in Spagna furono quelle di un popolo berbero, i berberi si stanziano nelle coste nord-occidentali dell’Africa e sotto la guida del comandante Tariq, attraversano lo stretto di Gibilterra, dal suo nome derivò il toponimo dello stesso stretto di Gibilterra “Jabal” “Jabel” traslitterato in Tariq. Con quest’invasione inizia la storia di Al-Andalus, è il nome della Spagna araba così come Sefarad è il nome della Spagna ebraica. Infatti anche oggi gli ebrei spagnoli si chiamano ebrei sefartiti con una loro lingua. La Spagna araba si nomina Al-Andalus (da cui poi diventerà l’Andalusia odierna). Sull’etimologia di questo nome le ipotesi sono molte, ma sembrerebbe che gli Arabi recuperino un toponimo locale già presente derivato dai vandali che colonizzarono il sud della Spagna. (Vandali VandaliceAndalice Al-Andalus). Al-Andalus è un concetto molto mobile e agli inizi della conquista musulmana, i musulmani penetrarono nella penisola e arrivarono rapidamente fino al Nord, senza incontrare resistenze. Conquistano tutto il territorio peninsolare tranne le regioni dell’estremo Nord difese dalle montagne, non entrano in Francia, non attraversano i Pirenei perché vengono sconfitti nel 732 da Carlo Martello nella Battaglia di Poitiers e questo diventa l’episodio della Chanson de Roland. Quindi non entrano in Europa e si fermano ai Pirenei. In origine dell’VIII secolo, Al-Andalus era quasi tutto il territorio spagnolo tranne le coste del Nord. Rapidamente però si organizza una riconquista (La Reconquista, il cui eroe è il Mio Cid) cristiana e gli stati al nord si vanno configurando e riacquistando parte del territorio di Al-Andalus fino ad arrivare al XIII secolo, in cui ci ritroviamo una Spagna divisa a metà, a Nord la Spagna cristiana e a Sud la Spagna araba (Al-Andalus). la convivenza in Al-Andalus della cultura araba invasora e della cultura cristiana ed ebraica, fu nei primi secoli molto armoniosa tanto che anche questo è andato ad alimentare il mito della Spagna medievale come la Spagna delle 3 culture. Come si poté realizzare questo clima di convivenza pacifica? Quando gli arabi arrivarono in Spagna, non incontrarono resistenza e i Visigoti erano un manipolo di nobili e soldati che non si erano mai assimilati con la popolazione locale. Da tempi remoti esisteva in Spagna un nucleo di cultura e popolazione ebraica. Neanche in questo caso gli ebrei avevano vissuto in realtà da parte della nobiltà visigota sopraffazioni e persecuzioni. Quindi quando arrivarono gli arabi sia la popolazione locale che la popolazione ebraica guardano con favore i nuovi invasori. Allo stesso tempo, gli arabi , seguendo il precetto del Corano, ritennero di non dover convertire dei popoli la cui religione si basa su un libro sacro. C’era il rispetto per le altre culture e religioni. I Cristiani e gli Ebrei vissero in Al-Andalus rispettati nel loro culto, nelle loro proprietà e nella loro lingua. Quindi questa convivenza pacifica dipendeva dalla loro condizione di Dimni. Chi erano i Dimni? Essi erano la popolazione locale che accettavano di vivere in Al-Andalus (Cristiani, Ebrei) in una condizione di tolleranza e di pace e che però dovevano pagare al demiro, califfo, sultano arabo una Dimna (imposta, tributo). Questo rapporto di pagamento di tributi, in cambio di una convivenza pacifica, non sarà proprio lo stato di Al-Andalus, ma a un certo punto, governerà anche i rapporti tra i cristiani e arabi. Sulle origini della letteratura spagnola le ipotesi vigenti fino alla metà del ‘900 in realtà non riconoscevano la presenza di una lirica spagnola antica, ma facevano nascere la letteratura spagnola con El cantar de mio Cid nella cui ipotesi più remota è quella del 1140 rispetto alle Jarchas, implica un secolo dopo. Addirittura ci sono alcuni studiosi che hanno contribuito sulle origini di essa. Uno di essi è Marcelino Menéndez Pelayo (Santander 1856-1921) in una sua opera intitolatasi “Antología de poteas líricos castellanos desde la formación del idioma hasta nuestros días” (1890-1908) qui negava la possibilità che in Spagna fosse esistita prima dell’epica altra poesia, la negava con una riflessione nella quale sosteneva che la lirica si è sviluppata più tardi dell’epica, che apparì in tempi eroici. L’unica testimonianza in lingua castigliana furono I Cancioneros essi erano dei codici, la cui datazione può partire da metà ‘400, ed essi raccoglievano delle liriche di carattere amoroso-cortese. Stando a queste testimonianze, la poesia epica nasce dai tempi eroici, ogni popolo ha il suo tempo eroico, essi sono i tempi degli eroi nazionali (Cid= Spagna, Chanson de Roland= Francia), quelle canzoni che cantavano le gesta dei grandi eroi nazionali. E dice anche che la lirica per nascere ha bisogno di epoche più colte e riflessive, questa prefazione era una riflessione che trovava conforto nei dati fino allora disponibili. Prima che le Jarchas furono rinvenute, c’era stato un grande studioso, un arabista il cui nome è Julián Ribera (1858-1934) della stessa generazione di Menéndez Pelayo, che aveva già prospettato nel suo discorso nella RAE del 1912, aveva prospettato dopo aver dato la possibilità dopo che anche l’epica avesse origini arabe, su una serie di deduzioni ,affermava come l’epica anche la lirica probabilmente presentava origini analoghe. Questa scoperta si basava su studi di carattere comparativo ed ebbe dei grandi sostenitori a livello teorico, essi furono: Ramón Menéndez Pidal (1869-1968) filologo, storiografo; Emilio García Gomez (1905-1995) queste congetture trovavano poi una dimostrazione tangibilmente concreta nella scoperta che nel 1948 fa Samuel Stern (1920-1969) orientalista di origine ungherese, studioso della cultura ebraica e nel 1948 pubblica un saggio nel quale dice di aver ritrovato celate da caratteri ebraici a conclusione di testi in lingua ebraica, di aver trovato 20 strofette nascoste da caratteri ebraici ma che traslitterate rivelano una lingua romanza. Samuel Stern lavorava con testi di questo tipo. Quindi, come mai le Jarchas furono rinvenute in epoca così tarda (1948) ? la risposta è che per poter leggere dietro a questi caratteri una lingua diversa dall’ebraico era necessario uno studioso, un’orientalista per le Jarchas scritte con caratteri ebraici e un’artista delle Jarchas scritte con caratteri arabi. A questa scoperta di questi 20 testi , collocati alla fine di un componimento in lingua ebraica (non in caratteri ebraici), Samuel Stern ne scopre 20 (in caratteri arabi) e nel 1950 a stretto giro Emilio García Gomez ne scopre altre 24 (in caratteri arabi). Tutta la letteratura romanza scritta con caratteri diversi da quelli romanzi, nella letteratura spagnola si chiama letteratura aljamiada tanto le Jarchas ebraiche quanto le Jarchas arabo-romanze fanno parte della letteratura aljamiada che sta a dire una letteratura scritta con caratteri diversi rispetto a quelli della lingua rappresentata. Perché comporta tanti problemi? Perché i testi che noi leggiamo sono frutto di una traslitterazione (non traduzione) e siccome le lingue semitiche, in particolare l’arabo, si scrive senza vocali, al momento di traslitterare a volte una stessa jarcha, gli studiosi hanno proposto traslitterazioni diverse. Jarcha= traslitterazione in spagnolo. In italiano troviamo Khargia. Jarcha, Jarchas, Khargia, Khargiat. Ma una volta traslitterate con quale dialetto iberico ci confrontiamo? Il dialetto che queste jarchas nascono sotto caratteri diversi è il dialetto mozarabico. Che cos’è e da chi veniva parlato questo dialetto? I mozarabes erano i cristiani che vivevano in Al-Andalus e che rimasero a vivere in Al-Andalus durante la dominazione. Alcuni si trasferirono, altri rimasero. Se dovessimo dare delle percentuali, nei primi tempi della dominazione araba, i mozarabes erano quasi il 90% della popolazione poi con il passar del tempo, si ridussero. I mozarabes erano i cristiani che non si convertirono e che rimasero a vivere in Al-Andalus usufruendo della tolleranza dei nuovi invasori a cui pagavano la Dimna e che parlavano la loro lingua, una lingua romanza che però in quella condizione di contatto linguistico con la popolazione araba, si andava infarcendo di termini lessicali arabi e anche con un’evoluzione fonetica diversa da quella del castigliano, navarro-aragonese, ecc. Se dovessimo riassumere le caratteristiche del mozarabes potremmo sintetizzarle con un solo termine: è un dialetto romanzo di tipo arcaico oppure protoromanzo paleoromanzo (quando usiamo questo termine significa che è un dialetto romanzo molto vicino al latino) per cui certi fenomeni che noi troveremo nel castigliano qui ancora non li troviamo, frutto di un’evoluzione. Se è una lingua di orientamento arcaico mantiene le caratteristiche del latino. Caratteristiche del mozarabe Livello fonologico: 1) conservazione dei gruppi consonantici latini CL, FL, PL: pluvia lluvia 2) mancata lenizione delle consonanti intervocaliche: TD; PB; CG 3) mancata palatalizzazione del gruppo –CT: noctem nohte e non noche Il mozarabe è una lingua di carattere conservatore rispetto al latino. Al-Andalus è una periferia rispetto alla Spagna sia come regno che come impero. Passiamo alle semplificazioni testuali YA FATIN, A FATIN YA FATIN è una jarcha collocata alla fine, chiude una muwassasha , ed è legata al testo anteriore ad alcuni versi di transizione. Il testo è pronunciato nella finzione narrativa, l’enunciatore è una donna, una fanciulla qui veniamo a uno degli elementi più caratterizzanti di queste brevi strofette o canzoncine. L’io lirico è un io lirico sempre al femminile, anzi è un io lirico incarnato da una giovanissima fanciulla. In una jarcha in particolare arriva a 14 anni. È una fanciulla che pronuncia un lamento d’amore. Sin dall’inizio si percepisce subito questa mescidanza di termini paleoromanzi e di termini arabi evidenziati in corsivo. “YA” e “A” è la tipica esclamazione. Si tratta di testi molto enfatici che esprimono un sentimento e in quanto tali con un registro linguistico semplice, è una fanciulla, bambina, adolescente quella che parla. Quindi sono testi ricchi di esclamative e di interrogative, quindi questo “YA” lo incontreremo ripetutamente, che nella traduzione italiana sarebbe “OH”. “FATIN” ha vari significati seduttore, uomo molto bello e allo stesso tempo secondo l’interpretazione di una studiosa, in realtà “FATIN” gioca anche con la parola “FIDNA” che è guerra, quindi può essere tradotto in modi diversi. “VOS Y ENTRAD” lingua latina. “Y”= abbreviazione di “IBI” latino che significa “QUI”. “RIGAL” plurale di “RAGUL”. Cosa le sta dicendo questa fanciulla? È una protesta interpretata in diversi modi. Si dice che la fanciulla lamenti il fatto che il suo amante debba partire per la guerra, si lamenta perché il cavaliere l’ha sedotta e abbandonata tipica delle Jarchas perché le bambine si lamentano di un amore che non c’è per vari motivi: perché è in ritardo, perché è assente, perché ama un’altra donna. Sono tutti lamenti d’amore in cui la bambina si rivolge a un “TU” che in questo caso è il suo amante. Lamenta o protesta per una sua assenza. Non tutti sono d’accordo con le interpretazioni di queste Jarchas,infatti lo studioso Federico Corriente afferma che in realtà non sta parlando di un guerriero, ma sta semplicente utilizzando una delle tante metafore amorose, presente anche nella lirica provenzale-trovadorica, che è quella della guerra d’amore. Quindi il guerriero non sta affrontando una battaglia legata alle imprese militari, ma sta affrontando una battaglia, schermaglia amorosa. Questa jarcha come ogni jarcha è l’ultima strofa di una composizione in lingua araba. La jarcha non è in lingua araba. La jarcha viene a costituire l’ultima strofetta, quindi la strofetta di chiusura, è una composizione in lingua araba, cioè caratteri arabi che però rappresentano la lingua araba. Tra i 2 testi c’è una grande differenziazione dal punto di vista linguistico, quasi una sorta di giustapposizione. Ogni jarcha serve a concludere ogni testo precedente tanto che il termine “JARCHA” vuol dire “USCITA FINALE”. Qual è il rapporto tra il testo che precede e che ingloba e la jarcha? Il testo che precede e ingloba si chiama muwassasha. La muwassasha ci interessa in quanto testo inglobatore del testo romanzo. Se gli arabi in Al-Andalus non avessero apprezzato queste canzoncine in questa lingua romanza e non gli fossero sembrate così belle e proprio per questo non l’avessero inserite all’interno dei loro testi scritti, mentre le jarchas erano cantate (canzoncine popolari), noi le avremmo perdute (le jarchas). Si dice che grazie alla cultura raffinata degli arabi che questi ci vengono conservati. Probabilmente gli studiosi sono d’accordo nel ritenere che anche se la prima jarcha databile 1040 (XI), in realtà questa jarcha è la testimonianza approdata di canzoni antiche romanze, focloriche salvate dall’oblìo, dal fatto di essere state recuperate all’interno di una letteratura diversa. Come vengono salvate? E cosa offrono queste canzoncine al testo di partenza? Si è ritenuto anche che questo tipo di lirica non fosse presente solo in Spagna, ma anche in Europa e in Oriente e che la lirica nasca in generale non solo nella Romania ma anche fuori di essa come canto d’amore, canto di una fanciulla innamorata. In tedesco si chiamano Frauenlieder, in Francese sono le Chansons de femme. Sono recuperate in testi successivi come strofette singole. Nella condizione Les jarchas, furono adottate anche dai musulmani, da chi parlava l’arabo e da chi vivendo in contatto con una lingua romanza impara la lingua romanza. Quindi avremo jarchas scritte al 90% in lingua romanza e il 10% in arabo, e al contrario, possono essere anche al 95% termini arabi e un 5% di lingua romanza. La muwassasha è una composizione esclusivamente in lingua araba, ma che nasce in Al-Andalus, i conquistatori una volta stanziati nel territorio spagnolo, gli arabi, producono una nuova forma lirica diversa dalla Qasida delle loro terre di origini. La muwassasha è una creazione autoctona in lingua araba, ma diversa dalla poesia tradizionale araba che si chiama Qasida. Essa comporta, rispetto alla poesia tradizionale araba delle novità, intanto è una poesia di tipo qualitativo e non quantitativo. Quantitativo sta a indicare una poesia il cui ritmo si basa sulla quantità delle vocali che possono essere brevi e lunghe, mentre la poesia qualitativa (che è tutta la poesia romanza) non si basa nell’alternanza di vocali brevi o lunghe, quindi il piede che è la base del ritmo non è costituita dall’alternanza di vocali brevi o lunghe bensì dall’alternanza di vocali accentuate o non accentuate (toniche o atone). La qasida si fondava su una metrica di tipo quantitativo (breve o lunga), la muwassasha in territorio Al-Andalus, come nuovo genere letterario rispetto a quello tradizionale, è una poesia di tipo qualitativo, che si basa sulle vocai toniche o atone. Questa è la prima variante macroscopica della muwassasha. La seconda, è che la muwassasha è composta da versi brevi rispetto alle misure versali della Qasida (che contava fino a 24-28 sillabe per verso), quindi di versi più brevi e rispetto alla Qasida che era una poesia di carattere non-strofico, di una sequenza ininterrotta di versi, la muwassasha invece, è organizzata in 4-5-6 strofe. Altre caratteristiche di questo testo in lingua araba, che ingloba la jarcha è che la muwassasha può insistere su qualsiasi tematica. Quindi oltre ad avere temi amorosi, ha anche il tema del panegirico (lodi), elegia (in mortem) e quindi si apre a un ventaglio di temi. Una caratteristica specifica è che l’io lirico è sempre maschile e il linguaggio che viene adottato, è un linguaggio, registro alto, colto. La jarcha, invece, che viene collocata alla fine della muwassasha, stabilisce con la muwassasha un bel contrasto a tutti i livelli. La muwassasha è cantata in lingua araba, nella strofa finale invece, cambia la lingua e l’ultima strofetta è in lingua romanza. Quindi, il primo contrasto è di carattere linguistico. Il secondo , è un contrasto legato al registro. La muwassasha adotta un linguaggio elevato, alto, colto, sempre d’autore. La jarcha presenta un registro popolare, è anonima, è una bambina, fanciulla che si lamenta per una sofferenza, pena d’amore. Il registro in cui si lamenta è proprio il registro molto verosimile. Quindi si stabilisce fra i 2 testi (muwassasha-jarcha) una differenza di registro e anche una differenza di voce, perché se l’io lirico della muwassasha è nel 95% dei casi un io lirico maschile, nella jarcha , l’io lirico è sempre, esclusivamente femminile. Come e perché questi 2 testi si vengono a fondere? E come è possibile congeniare il passaggio da un testo della muwassasha (colta, maschile) a un testo della jarcha (popolare, femminile)? Dal punto di vista strutturale la giustapposizione avviene nei versi di transizione. Nel caso del testo “Lunas nuevas [...]” i versi di transizione erano quelli della strofa 5, in essa si favorisce il passaggio alla voce che si esprime in lingua mozarabe con dei versi di transizione che dicono così: “Cuanta hermosa moza [...]” una ragazza vedendo la bellezza di un ragazzo dice così alla sua mamma e inizia la jarcha. In ogni jarcha, ci sono i versi di transizione per mettere il passaggio dall’io lirico maschile con un registro colto e alto a un io lirico femminile con un registro popolare, colloquiale e in lingua mozarabe. È possibile che l’autore della muwassasha sia lo stesso della jarcha? In realtà, proprio perché si è potuto constatare che molte muwassasha si chiudono con la stessa jarcha, si è arrivati alla conclusione che le jarcha, sono la testimonianza di una poesia in lingua romanza, probabilmente, in carattere orale. Les jarchas sono la testimonianza di canti popolari in lingua romanza che esistevano in Spagna da tempi remotissimi, addirittura precedenti a quel IX secolo in cui noi riusciamo a retrodatare le origini delle prime jarcha, quindi prima del IX secolo esistevano in Spagna dei canti in lingua romanza. La trasmissione delle jarchas era di bocca in bocca, rimanevano nella cultura perché venivano trasmesse come le ninne nanne, oralmente di generazione in generazione. E quello che è successo è che quando arrivarono gli arabi in Spagna , provenienti da una cultura superiore e molto raffianta, apprezzano moltissimo queste canzoni e quindi le prendono come base per le nuove muwassasha di carattere privico. Perché è la jarcha che stabilisce le basi delle rime che poi passeranno alla muwassasha. Da questo possiamo concludere che non sarebbe esistita la muwassasha in Spagna se non fossero esiste les jarchas. Quindi nonostante il testo principale e iniziale è la muwassasha, la sua origine sta nella citazione finale (la jarcha è una citazione). Quindi questi ritornelli che rimanevano nella cultura e nella memoria del popolo, passano nella letteratura degli invasori in questo modo appena descritto. Ciò vuol dire che in Spagna in tempi remoti si hanno manifestazioni liriche che non esistevano nel resto d’Europa? Assoluamente no. L’unica differenza è che in Europa non ci fu una civiltà che si sovrappone all’incipiente di formazione delle lingue europee, lingue romanze per quel che riguarda la Romània, le zone colonizzate dai romani, non ci fu una civiltà che le conservò, in questo caso a noi ci sono giunte perché in Al- Andalus questi testi si conservarono tanto in caratteri arabi quanto in caratteri ebraici, cosa che comporta una grande difficoltà testuale perché nella scrittura arabo-ebraica non si prevedono le vocali, la traslitterazione è fortemente soggetta all’interpretazione del trascrittore. Muwassasha araba con khargia romanza (fotocopia lezione 9/10/2019) Nelle muwassasha l’io lirico è sempre maschile, anche in questo caso potremmo supporre un soggetto- annunciatore maschile ma anche la possibilità invece che sia femminile, e questo perché tutta la composizione è un panegirico che è esattamente scritta in lode a una bellezza maschile, quindi potrebbe essere un testo di carattere omofilo come potrebbe invece essere attribuito a una donna. A questo proposito nel 1990 è stata pubblicata una raccolta a cura di María Jesús Rubiera Mata che appunto, mette insieme una raccolta di poesia al femminile intitolata Poesía femenina hispanoárabe, si trattava di poetesse di Al- Andalus che probabilmente lavoravano presso le corti dell’emirato, del callifato e più tardi nelle corti delle taifas (termine con i quali si intendono piccoli staterelli arabi in cui si smembrò a partire dal secolo XII il califfato di Al-Andalus, quindi erano poetesse che come menestrelli, cantavano le loro poesie, spesso in lode a personaggi nobili, in cambio di monumenti, di essere pagate. In questa poesia, attraverso l’elogio, l’esaltazione della bellezza maschile, possiamo dire che nella cultura araba esistevano 2 tipi di amore: uno simile a quello celebrato nelle nostre corti di provenza, un amore di carattere platonico, chiamato udri e un amore di carattere un po’ più sensuale, erotico che si adatta di più al canto, un amore ibai, un amore di carattere più carnale ed esplicito. Questo tipo di sentimento per niente idealizzato, platonico è quello che caratterizza di più les jarchas. Nelle jarchas la fanciulla comunica alla sua mamma, alle sue sorelline la sua passione amorosa. La muwassasha inizia con un preludio, con esso si indica il ritornello iniziale (el estribillo), non tutte le muwassasha iniziano con un preludio, quelle che non iniziano con un preludio si chiamano muwassasha calve (metafora), la parola araba è matla. Si articola in una serie di strofe (5) che a loro volta alternano delle rime. Il grande teorico della muwassha Ibn Sanāʾ al-Mulk che vive appunto dalla seconda metà del XII secolo spiega il significato della parola muwassasha. E anche nel significato di essa, si capirà come anche qui la dimensione metaforica è molto forte. Muwassasha potrebbe essere tradotto in 2 modi diversi: la prima vuol dire un doppio filo di perle oppure una collana dal doppio filo, cosa sta a indicare questa duplicità? Metaforicamente rimanda appunto alla costruzione rimica del testo, se prendiamo il testo, vediamo che si alternano delle rime. Una di queste sequenza rimane sempre uguale, le rime iniziate dal preludio (AA) ma in realtà queste rime sono offerte dalla jarcha, sono le rime della jarcha che determinano le rime dei ritornelli. Questo AA sono le rime dell’ultimo ritornello che è la jarcha. Con tristico si intende la strofa di 3 versi che rimano uguali, cambiano ad ogni strofa le rime, rimangono monorime ma cambiano a ogni strofa. Il termine muwassasha allude proprio a questa struttura rimica, di 2 serie: l’una fissa offerta dalla jarcha e che poi si ripete in tutti gli altri ritornelli o vueltas (ritorni), invece le rime che cambiano in ogni strofa. Se la parola muwassasha indica questo, la parola jarcha vuol dire letteralmente uscita, quindi è l’ultimo ritornello dopo il quale il testo si conclude. La jarcha e la muwassasha che abbiamo davanti ai nostri occhi è trascritta in versi lunghi, in alcuni casi potremmo vederle scritte in versi brevi tagliandola a metà, cioè costruendola sulla base degli emistichi. A livello di contenuto, il preludio dovrebbe sintetizzare il tema, che poi viene amplificato nelle varie diverse. Qui il preludio è una circostanza notturna propizia all’incontro amoroso. Nel preludio la strofa è abbastanza oscura. “cielos de seda” vuol dire che è un cielo luminoso, morbido. La 1° strofa esordisce già con la lode della bellezza maschile, notiamo subito che la lode alla bellezza maschile è un tema totalmente estraneo alla cultura occidentale fino ai giorni d’oggi. Questa bellezza è descritta con dei canoni che ci sorprendono, la fanciulla o l’innamorato rompe con lo stereotipo. Un uomo biondo e dall’incarnato chiaro. Si tratta di ricorrere a metafore per descrivere la bellezza in una dimensione molto consueta, che i denti siano perle, che le guance siano rosee. La trasposizione dei colori e della beltà di un incarnato attraverso elementi che si desumono dalla flora, natura e che poi continuerà all’interno della tradizione fino ad arrivare poi all’iconografia parodica Arcimboldo che costruisce i suoi quadri, basando la costruzione somatica prendendo tratti dal mondo vegetale. I capelli sono foglie d’oro (quindi biondi) che scaturiscono da rami d’argento, quindi bianco e oro fanno riferimento all’incarnato. In termini realistici, la spiegazione di questa bellezza sta in questi conquistatori berberi che nell’iconografia corrente, anche nei testi dell’epica araba, appaiono con gli occhi azzurri e i capelli biondi. Il ritornello si modula sul linguaggio più mediato e qui si inserisce il lamento di un amore disatteso. Nella 2° strofa continua la lode dell’innamorato, di questa figura bellissima che è questo Ahmad. Nella 1° strofa la lode procedeva attraverso un paragone fra le caratteristiche somatiche dell’uomo e il mondo minerale (oro,perle argento), questa volta si passa dal mondo minerale al mondo vegetale. Nella 2° strofa abbiamo i cigli, i papaveri, la cornalina e la corgnola. Cigli e papaveri (di nuovo bianco e rosso), la serie di elementi minerali e la serie di elementi vegetali alludono a questo affetto coloristico fra il bianco e il rosso. Nella vuelta, l’estribillo non ci deve stupire che ci si riferisca all’innamorato con il termine “gacela”. Nella lirica araba il termine “gacela” sta a indicare una caratteristica della bellezza tanto maschile che femminile e che si riferisce all’eleganza, è sinonimo di eleganza e sinuosità. Qui si affaccia una delle componenti più frequenti di questa lirica araba ma che poi tornerà anche nella lirica gallego-portoghese, la figura del censore, che si riferisce al controllo sociale. L’amore è sempre un amore illecito perché porta dentro di sé la possibilità dello scandalo e quindi la fanciulla o l’innamorato lamenta la presenza del censore e dei commenti/mormorì che possono nascere intorno da chi guarda e da chi si accorge della loro relazione. “jaloque” e “algalia” che stanno per scirocco e zibetto, lo scirocco è un vento che viene dal deserto mentre lo zibetto è un intenso profumo di origine animale, continuano a profilare questo contesto erotico ed esotico. Questa volta si passa dalle percezioni visive (di carattere minerale o vegetale) a percezioni di carattere olfattivo. Nella descrizione della bellezza si indica al volto, ed è una bellezza tipica in cui si procede dall’alto verso il basso. Nella 3° strofa compare il nome dell’amato: Ahmad, un nome parlante perché “Ahmad” significa colui che è degno di lode, colui che deve essere lodato. Quindi un nome parlante perché contiene dentro di sé le qualità del personaggio stesso, si continua a esaltarne la bellezza, lo sguardo, le ciglia folte che feriscono come frecce. In questo caso è presente una delle metafore più frequenti del sentimento amoroso, molto frequente nella tradizione occidentale che è la ferita d’amore. Anche nella mitologia, l’amore viene rappresentato dalla freccia di Cupido che colpisce chi poi si innamorerà. Quindi la ferita d’amore, la freccia , costituisce uno stereotipo della lirica amorosa. Nella 4° strofa si passa da questo tipo di stereotipo (amore come ferita) a un altro tema molto ricorrente in cui si parla di amore come malattia, la malattia d’amore. L’amato qui è il medico che può curare , uscendo dalla metafora, ricambiando l’amore e l’innamorato invece è impaziente perché soffre appunto d’amore. Nei ritornelli, rispetto ai tristici monorimi, è presente la dimensione narrativa del testo. Mentre le strofe (mudanzas) evidenziano la dimensione lirica. La dimensione narrativa anche qui è legata da questo amore irregolare e che quindi deve essere vissuto in segretezza e la presenza di spie o di censori che possono danneggiare gli innamorati. La 5° strofa costituisce la strofa di transizione, qui termina la celebrazione della beltà maschile, quest’esaltazione della sua bellezza e arriva una fanciulla. Qui usciamo dal piano metaforico (non è più la amapola o la cornalina) ma sono le labbra rosse e il bel bianco collo. A partire da questo momento parte la traslitterazione della jarcha della lingua dai caratteri arabi ai caratteri romanzi che si articola come una semplice e pura esclamazione. “Madre che bellezza [... ] semplice esternazione, esclamazione della giovane bambina che si rivolge alla madre. Caratteristica della jarcha, spesso, come in questo caso è quella di costruirsi come un apostrofe cioè sempre rivolta a un Tu, spesso è la madre, a volte le sorelline al quale si rivolge con un’interrogativa retorica, esclamazione, ma esse non hanno mai risposto. Prevede un interlocutore silente, cioè, che non risponde. coniò quest’espressione e disse che las jarchas e la lirica gallego-portoghese nelle sue Cántigas de amigo e i villancicos sono 3 rami dello stesso tronco. Con quest’espressione quindi un albero ha 3 rami, con quest’espressione il tronco, immaginato da Ménendez Pidal vuol dire una precedente cultura, lirica presente nella penisola iberica prima delle jarchas che informò seppure in periodi diversi subito recepita dai poeti mussulmani , tardivamente invece, apprezzata nelle corti castigliane e quindi trascritta. Quindi una lirica comune che ha trovato espressione in questi 3 diversi filoni. A questo proposito, una lirica nella quale una fanciulla appenata per sofferenze amorose, diciamo intona un canto, non è specifica soltanto dell’area iberica ma appartiene all’intera europa. Ma alcuni autori hanno potuto constatare come fosse presente anche in Europa e in Oriente (Antico Egitto) la lirica di questo punto. Questo cosa sta a dire? Che probabilmente la genesi della poesia è in generale affidata al canto, la poesia nasce in quanto canto, e la prima espressione di questo canto è il canto femminile, molto spesso legato ai lavori domestici, ai lavori del campo, quindi a quella vita quotidiana accompagnata da queste canzoncine. La testimonianza del fatto che i canti posti in bocca di donna siano presenti anche in altre culture, basta menzionare i Frauenlieder che (canti di donne) e le famose Chanson de toile francesi (i canti della tela) che stanno a dire, i canti che accompagnavano le donne nei lavori di tessitura. Anche nella letteratura italiana abbiano un repertorio, folclorico alto, recuperato molto tardivamente tra cui per esempio le famose canzoni della Malmaritata. È molto importante distinguere 2 concetti a proposito della lirica di cui stiamo trattando, questi 2 concetti sono rivolti a: una lirica di tipo popolare e una lirica di tipo popolareggiante. Quando abbiamo parlato delle jarchas, abbiamo usato il termine popolare anche se oggi è un termine estremamente desueto per far riferimento a un tipo di lirica folclorica, però lo continuiamo a usare perché ci è molto utile contrastivamente. In che cosa si differenzia una lirica popolare-folclorica come quelle delle jarchas e una lirica popolareggiante come quella della lirica gallego-portoghese, in modo specifico, delle Cántigas de amigo? In che cosa si distinguono queste 2 correnti? Si distinguono soprattutto per 2 aspetti: il primo aspetto è quello della genesi, il secondo aspetto è quello della trasmissione, genesi (origine), trasmissione (come i testi vengono tramandati). Per la lirica popolare, abbiamo detto che las jarchas sono un genere anonimo (non vuol dire che non ci sia stato nessuno) però i filologi tedeschi parlavano di Natur poesie ovvero quella lirica per cui dobbiamo presuppore un’origine di autore, ma quest’autore diciamo, si nasconde e si oggettivizza nel testo. Il testo tradotto viene subito affidato alla comunità che ne diventa il vero proprietario, prima non c’era questo sentimento di proprietà. Quindi, il canto che nasce per iniziative individuali viene subito affidato alla collettività. Questo che cosa determina? Questo influenza tanto il testo che a quel punto si dice che vive nelle varianti testuali perché un testo cantato è soggetto a tante modifiche quanti saranno i loro interpreti. Questo nella letteratura medievale e spagnola è molto frequente , uno stesso villancico, lo troviamo in diverse rappresentazioni testuali perché vuol dire che la trasmissione, a seconda dei canali, per la quale si è diffuso, lo ha modificato. Quindi la lirica popolare è anonima, vive nelle varianti perché il testo non è fissato nella scrittura. E poi la trasmissione della lirica popolare è una trasmissione orale. Il termine più adatto, impiegato per parlare di trasmissione orale è tradizionale, si parla di testi tradizionali, cioè che vivono nella tradizione. Se noi ragioniamo sulla lirica popolareggiante, soprattutto la lirica gallego-portoghese (Cántigas de amigo). Intanto che cosa vuol dire popolareggiante? Intuitivamente vuol dire che imita la lirica popolare, popolareggia, nel senso che imita quella lirica popolare senza esserlo. Anche qui per capire in che cosa si differenzia la lirica popolareggiante dalla lirica popolare, (le Cántigas de amigo e les jarchas) dobbiamo ragionare sulla genesi, se la genesi delle jarchas vive nell’anonimato, la lirica popolareggiante è sempre l’autore, ne conosciamo l’autore. E come è trasmessa? È trasmessa da codici scritti, e quindi, per quello che ci riguarda , parlando di codici scritti parliamo di manoscritti, quindi in questo caso, la lirica d’autore si basa su codici scritti che sono manoscritti. In alcuni casi autografi (manoscritti d’autore), in altri casi sono invece copie. Il fatto che è un testo sia fissato sullo scritto (nella scrittura), comporta che non vive in varianti, che tendezialmente non vive in varianti. Un testo scritto viene trasmesso alla tradizione già fissato. Se noi diciamo che la Cántigas de amigo sono lirica popolareggiante abbiamo bisogno di definire le caratteristiche di questa poetica. Non esiste una poetica formalizzata, non abbiamo un trattato di poeti mussulmani o mozarabi che ci dicano , che ci descrivano le caratteristiche di questi testi. Ibn sana al mulk è un poeta che vive nel XII secolo e abbiamo detto che questo poeta ci ha lasciato un’antologia di muwassasha nella quale ha dato una definizione di muwassasha e anche una definizione di jarcha unico testo teorico di cui disponiamo. Per muwassasha, lui ha spiegato il significato etimologico del termine e vuol dire “una collana dal doppio filo di perle”, questa è la definizione e non riguardava tanto i contenuti come la struttura. Il doppio filo di perle indicava l’alternanza delle rime fra la mudanza e la vuelta. Per quello che riguarda las jarchas, dice che esse sono “sale,ambra e zucchero “ della muwassasha, quindi anche qui ci troviamo al cospetto di un linguaggio molto metaforico, possiamo dire semplicemente che per i poeti di Al-Andalus la jarcha era il cuore della composizione, quindi l’elemento poetico più rilevante, importante che collocato a chiusura della composizione come se fosse una gemma, l’aspetto più prezioso. Ma non ci dà delle informazioni di carattere poetico. Pagina 18 (antologia) Jarcha II intanto, ritorna anche qui la madre e ritorna anche qui quel famoso esclamativo “YA” quest’interiezione che introduce un’esclamazione, quindi intanto possiamo già riconoscere a livello retorico l’abbondante presenza di frasi esclamative ed interrogative perché simulano più facilmente un sentimento, l’espressione di un sentimento immediato, cioè a livello di contenuti, il sentimento d’amore espresso nelle jarcha non è sottoposto a un analisi di carattere introspettivo molto diversamente dalla lirico-occetanica (Dante, Petrarca) dove il sentimento viene analizzato. In questo caso no, ma viene presentato nella sua immediatezza senza che questo comporti nessun tipo di introspezione. Sono anche testi nei quali è sempre presente un confidente, questa struttura dell’apostrofe che individua un destinatario ideale perché collocato all’interno del testo. Quindi il destinatario non è il lettore , non siamo noi, ma è questa mamma collocata all’interno del testo, si struttura in una serie di confidenti. La struttura è sempre in apostrofe, questo Tu è un destinatario ideale e sono dei confidenti. Finora ne abbiamo individuato uno che abbiamo visto anche nella Jarcha I e che è la mamma. Si dice che las jarchas sono espressione di un’ambiente urbano nella sua domesticità. Subito dopo una brevissima narrazione, annunciata nei suoi elementi più essenziali. In particolare questa jarcha appartiene a quella serie anche della lirica occitanica e lirica gallego-portoghese, che nella lirica gallego-portoghese venivano definite albas o alboradas, esse descrivono un incontro d’amore sul far dell’alba o la separazione dei due amanti che hanno passato la notte insieme sul far dell’alba, può avere queste 2 varianti. Qui ci troviamo di fronte a questo tipo di contesto perché dice che alla luce della mattina viene Abu-hayyay. B che in castigliano sarebbe V questo è specifico del dialetto mozarabico che non conosce il suono labio-velare V. Quindi conosce il bilabiale. Non è così frequente nelle jarchas la presenza del nome proprio, ma molto più frequentemente, l’innamorato viene appellato nel termine generico di habibi, ma molto spesso è presente anche il nome proprio. E qui c’è questa bell’immagine in cui volto di Abu-l-hayyay è paragonato al sole, il volto d’aurora. Come se il sole sorga ed arrivi ad Abu-l-hayyay. Potremo dire che si tratta di una dimensione testuale molto concentrata e incisiva, a queste caratteristiche di concentrazione di incisività del messaggio contribuiscono nelle scelte la prima, l’inizio extrabrutto , il racconto ci viene narrato senza antefatti, la cosa si conclude senza scioglimento, è un frammento di vita, brevissimo perché questa poesia popolare vive nella sintesi di un sentimento molto semplice manifestato con linguaggio altrettanto semplice che si compone di alcuni sostantivi, una scarsissima o quasi inesistente aggettivazione e tutto modulato sul registro colloquiale pertinente a una giovane fanciulla, ma noi sappiamo che l’autore della jarcha non è una fanciulla, però c’è questa perfetta coerenza fra il soggetto enunciatore e l’enunciazione. A livello formale di nuovo tutto si svolge in una manifestazione testuale estremamente breve abbiamo la quartina (quarteto, e non quarteta)  perché è composto da versi di arte menor (minori di otto sillabe). Quarteta se è di arte mayor. Arte menor (sotto le otto sillabe) Arte mayor (sopra le otto sillabe). Il verso principe della lirica spagnola è il verso di Arte menor, è l’ottosillabo. C’è una bella differenza tra il verso principe della lirica spagnola e quello della lirica italiana. Per quanto riguarda la lirica spagnola c’è l’ottosillabo mentre per quella italiana l’endecasillabo, questo dimostra anche come nelle 2 lingue sono fiorite delle tradizioni, una di origini folcloriche (spagna) e quella italiana che ha avuto maggior esito ha avuto origini colte, un verso lungo, non si possono improvvisare endecasillabi, ma si possono improvvisare canzoni ottonari, sono 2 filoni molto diversi. Nel caso della 2° jarcha ci troviamo un testo scritto in settenari con un senario, nel 3° sono 3 settenari e 1 senario (di 6 sillabe il 3°). E quest’irregolarità, il fatto che non sono tutte e 4 settenari sta a significare che è una poesia di tipo orale. Tutta la lirica orale ha una struttura metrico-versale estremamente variabile perché nei testi è possibile fare l’improvvisazione. La 3° jarcha è una delle più famose. In questo testo c’è la metafora della malattia d’amore (che abbiamo già incontrato nella muwassasha), si nota un’altra caratteristica della lirica popolare che è quella di vivere nella ripetizione, le figure della ripetizione. In questo caso questa figura della ripetizione è un parallelismo, è una ripetizione delle stesse parole. Questi testi formati da un vocabolario molto esiquo, molto minimo, lo strutturano anche in costruzioni o parallelistiche o anaforiche (altra struttura della ripetizione a inizio verso). Anche qui c’è una fanciulla e un confidente, non è la mamma ma è l’habibi (l’amigo della lirica gallego- portoghese) che sta per l’innamorato. La 4° jarcha è anch’essa una quartina (quarteto), c’è di nuovo il confidente che non è né la madre né l’habibi, ma sono le sorelline (sempre il nucleo familiare), la fanciulla si rivolge alle sorelline in realtà con 2 interrogative retoriche. Garid (verbo dire). “Ditemi oh sorelline!”  apostrofe, le chiama con un destinatario ideale. È un’interrogativa retorica evasa dall’interlocutore. Se l’interlocutore è continuamente chiamato all’interno del testo, si tratta di un’interlocutore silente, sempre silenzioso che non risponde mai. La stessa cosa avviene nella 2° domanda, questa volta una domanda indiretta ma appunto lasciata aperta. Anche questa è una quartina dalle rime alterne (ABAB), questa volta sono tutti ottosillabi. Nella 5° jarcha c’è sempre un confidente, ma in questo caso esso non è né la madre, né le sorelline, né l’amato bensì una Rabb è un termine arabo che sta per il nome di Dio (Allah), girato intorno alla religione mussulmana. È un’interlocutore superiore con un’invocazione del tutto astratta rispetto alle precedenti. Nella 6°-7° jarcha ci troviamo in una costruzione in cui il progetto di sintesi e quindi di poetica della brevità è particolarmente evidente, entrambe le jarchas sono dei distici, composizioni di soli 2 versi. Il termine distico nella lingua spagnola si dice pareado. Quindi sono 2 jarchas costruite con 2 pareados ovverosia distici a rima baciata (AA). Nella 6° jarcha c’è la paura della fanciulla forse per la giovane età. Mentre nella 7° jarcha c’è un io lirico più esperto perché c’è una fanciulla più esperta e l’interlocutore qui è l’habibi, non è presente concretamente ma lo capiamo dalla costruzione verbale (dormis) che si riferisce ad un tu. Pag 32 (antologia) Le cantigas de amigo In questo testo si conosce l’autore del testo che è Martin Codax. Noi abbiamo i nomi di circa 88 poeti che scrivono cantigas de amigo. Martin Codax è probabilmente uno dei primi e ce ne accorgiamo per alcuni aspetti di carattere metrico-formale che ci fanno capire che si tratta di testi più arcaici rispetto alle altre cantigas de amigo. Gli elementi in comune sono molti. Intanto si tratta di un canto posto in bocca di donna, sempre una fanciulla. Essa si lamenta di essere sola, cioè che il suo amato non c’è. Un lamento legato all’assenza dell’amico, anche qui non sappiamo dov’è lui, perché è lontano. Anche questi testi iniziano e finiscono senza antefatti e senza conseguenze e quindi sono molto simili alla costruzione della jarcha. Un altro elemento che lo accomuna è quel “Oh Dio” siamo in un contesto cristiano, non ci troviamo in Al- Andalus, non è un “Ya Rabb”, ma è un “Ay Dios” quindi anche qui c’è un interlocutore ideale, è presente come personaggio all’interno della cantiga. Anche questa cantiga si costruisce dal punto di vista teorico come una apostrofe e l’interiezione. Questo testo dal punto di vista della rielaborazione formale è molto denso, molto più elaborato rispetto alle jarchas. Non è una strofa ma sono 6 strofe con ritornelli, e si percepiscono delle strutture retoriche, di ripetizione un po’ più complesse, non è una ripetizione così semplice, si tratta sempre di figure della ripetizione ma più complesse. Da ciò si capisce perfettamente che questo testo non nasce nell’oralità ma nella scrittura poiché non sarebbe possibile costruire nell’improvvisazione musicale un testo di questo tipo. Infatti c’è stato tramandato da codici scritti però nonostante più elaborato, mantiene quelle qualità della lirica popolare a livello lessicale, un lessico minimo e anche di carattere ripetitivo, quindi se dovessimo fare all’interno di questi testi un bilancio fra costanti e varianti, diremmo che il 90% del testo è affidato alla ripetizione (testo molto concentrato, insistente nel messaggio che vuole mandare, che poi è sempre lo stesso). Lei dice che è sola e se lui potesse saperlo. modello di decadenza di questa lirica che si va ripetendo in modo ripetitivo. Sono i poeti considerati epidoni di questo genere. -La cantiga de amigo: -La cantiga de escarnho: -La cantiga de mal dezir: Tra questi generi, quelli costruiti e modellati sulla lirica provenzale sono quella de amor, escarnho e mal dezir [questi due generi alle volte si associano ma hanno delle differenze. Sono delle poesie di tipo satirico in cui i bersagli della satira possono essere personaggi della società, altri trovatori e quindi la cantiga diventa una sorta di competizione, possono essere messi alla berlina vizi e problematiche di carattere più generale. La grande differenza è che la cantiga de escarnho è costruita su metafore, non è esplicitamente dichiarata. La cantiga di mal decir è del tutto scoperta.] Genere autoctono invece è la cantiga de amigo detta così per la quantità di volte in cui all’interno di questa lirica appare questa parola. Altra informazione importante rigaurda come queste opere ci sono arrivate: ci sono giunte attraverso 5 canzonieri, in portoghese cancioneiros. I canzonieri in area iberica, sono delle raccolte per lo più collettaneo, che raccoglievano in codici le poesie del tempo. In realtà a parte per alcuni canzoniere che sono coevi nella maggior parte dei casi i canzonieri che abbiamo sono copie di copie. Il più antico di questi 5 canzonieri risale al 1280 ed è il canzoniere del Ajuda. Prendono il nome dei luoghi in cui sono conservati- è importantissimo perché è il primo anche se vi sono presenti solo cantigas de amor. Di cantigas de amigo ne troviamo in due canzonieri successivi, del 16 secolo che però in confrotno con il primo canzoniere raccolgono poesie del 13 secolo. Questi sono il canzoniere COLOCCI e BRANCUTI. Si chiama coloci perché fu allestito nel 1500 da un famoso umanista italiano che si chiama Angelo Colocci. Nel XIX secolo passò ad appartenere al conte Paolo Brancuti, il quale a sua volta lo vendette a un famoso filologo italiano Ernesto Monaci. In questo canzoniere sono contenuti tutti e 3 i generi. Nel terzo canzoniere è quello della biblioteca vaticana, canzoniere conservato nella biblioteca vaticana e scoperto solo nel 1898 da un famoso filologo Fernando Wolfe. Oltre a queste tre opere collettanee, sono stati scoperti dei canzonieri individuali. Il primo è la pergamena Vindel, che era un libraio che scopre casualmente nei primi anni del 900 che un’edizione del de officis di Cicerone che presentava una copertina, quando la toglie scopre che era stata fatta con una pergamena che era un canzoniere di un poeta galego potroghese. La sua particolarità è di essere l’unico ad avere una annotazione musicale. È l’unico ad averlo ed è molto importante dato che nascevano per essere in musica. La sequenza delle 7 cantgas di Martin Codax è uguale in tutti e tre i codici prima citati. Questo è importante: probabilmente queste 7 cantigas nel cui stesso ordine compaiono i canzonieri, erano pensate per un tipo di esecuzione essendo la pergamena una sorta di copione che si usava nei mometni della recita. Ci illuminano anche sulla produzione di altri trovatori: possiamo anche dedurre che la produzione di altri trovatori potesse anchenel loro caso rispondere a un’organizzazione relativa a un’unica esecuzione. Nel 1990 viene scoperto un nuovo pergamino: pergamino SHARRER perché rinvenuto da LEO SHARRER. Egli ritrova in una biblioteca portoghese di nuovo in dei codici notarili in una copertina che salvaguardava un’altra pergamena di cantigas firmate da Don Dinish. L’importanza di queste due pergamene è che ci conferma una certa informazione sulla loro trasimissione: quelle che nella letteratura portoghese si chiamano pliegos, che indica un codice di piccole dimensioni, de cordel. Il cordel è una cordina- probabilmente nelle piazze forse proprio quando avveniva l’esecuzione si appendevano le pergamene che veicolavano una trasmissione anche popolare- una circolazione più ampia. Ci testimoniano il tipo di tradizione che avviene con il pliegos de cordel. MARTIN CODAX: non abbiamo nessuna fonte documentale. Quello che sappiamo di lui lo sappiamo attraverso la lettura dei suoi testi. Gli studiosi si comportarono leggendo questi testi e da questi desumere alcune informazioni di carattere biografico. Altro elemento a loro disposizione era la calligrafia. Viene collocato nei primi decenni del secolo 15° . Pagina 32 (antologia) I: è una pena di amore irrisolta. Le informazioni biografiche che potremmo trarre quali sono? È presente una città: Vigo. Siccome la città di Vigo è molto presente nelle cantigas di Martin Codax, si potrebbe supporre che lui provenisse da lì. È molto importante sapere che le cantigas de amigo si dividono in: -Barcarolas o Marineiras dove il contesto è marino; -Cantigas de Romerias, dove il romero è il pellegrino. In questo genere è sempre presente il luogo della chiesa, il pellegrinaggio. -Albas: indicano un contesto cronologico, l’incontro o la separazione degli amanti sul far dell’alba. Se per le jarchas si parla di poesia urbana che nasce nei centri cittadini, questo non vale per le cantigas caratterizzate da questo contesto bucolico agreste. II: Si ripetono gli stessi versi. Questa percezione di ripetizione continua si basa sull’uso di due strategie retoriche: (1) il parallelismo, che nelle cantigas si distingue in perfetto (1° verso 2° strofa: “quantas sabedes amar amadu”- ripetizone degli stessi termini, non solo della stessa struttura sintattica, con la variazione magari della parola rima) e imperfetto. A un certo punto al parallelismo perfetto si sostituisce la tecnica del lascia e prendi, che consiste nell’aprire la terza strofa con il 2° verso della 1° strofa e poi aprire la 4° strofa con il secondo verso della 2° strofa. Le cantigas hanno 8 versi, che sono divisi in distici seguiti da un ritornello. La cantiga costruita con distici a rima baciata o pareados più ritornello è l’unica coltivata da martin codax. Insieme all’analisi scritturale, insieme a queste informazioni e alle rime arcaiche I-O o A-O. nel caso di martn coadax non dovremmo parlare di trovatore ma di GIULLARE, perché nella lirica galego portoghese si differenziano trovatore, interprete di ceto nobile, e giullare, che appartiene ai non nobili. III: non è una cantiga marinara ma l’ambientazione è comunque bucolica; Analisi: Troviamo quasi le stesse strutture con delle varianti interessanti. Ogni sezione è forata da 2 strofe: le prime due sono accomunate dallo stesso tipo di racconto. La caratteristica della 1° strofa è che è femminile e quella della 2° è che è maschile. Questo comporta anche rime femminili nella prima strofa e rime maschili nella 2°- l’io lirico anche qui è una fanciulla che descrive un contesto bucolico, con i cervi. I cervi e le cerve simboleggiano i due amati. C’è una trasposizione metaforica: una cerva e un cervo che corrono come se fossero due innamorati. Nelle strofe 3° e 4° c’è il tema della fonte e del lavaggio dei capelli. Sono riti di carattere afrodisiaco e legati alla fertilità (acqua, fontana,). I capelli sciolti indicano la verginità della fanciulla. Anche qui le coppie stano insieme: rime maschili e femminili. Le figure di ripetizione rimandano a una volontà di ripetizione del testo. Le strofe 5° e 6° sono ancora formata da coppie una maschile e femminile. Sempre si parla di capigliatura e pettinatura. Nelle strofe femminili ancora maschile e femminile. Qui si introducono due nuovi artifici linguistici delle ripetizioni. Incontriamo il lascia e prendi che lega le strofe 5-6-7- 8. Le prime 4 strofe sono libere, le seconde 4 sono legate perché il secondo verso della 5° strofa divente il 1° della 7 e il secondo verso della 6° diventa il primo dell’8°. È presente anche una nuova costruzione di ripetizione che è il poliptoto, quando una stessa parola è presente declinata in modo diverso: lier, liara- aspirei asperara. Lezione 23/10/2019 Con le jarchas, cantigas e villancicos completiamo la lirica delle origini. La lirica galego-portoghese dal punto di vista della sua diffusione e anche dei codici di trasmissione, questi codici sono detti cancioneros. Martin Codax appartiene alla fase iniziale del genere e l’altro invece alla parte di maggiore maturazione, questo lo deduciamo da una parte dalle caratteristiche stesse dei loro testi. Le cantigas di Martin Codax hanno tutte una stessa struttura che è quella del pareado o distico a rima baciata con un ritornello, con una struttura che si ripete per tutte le 7 cantigas di questo giullare trovatore. E come elemento di arcaicità abbiamo la presenza di rime piuttosto convenzionali, per esempio: la rima I O, I A. Mentre le cantigas di Pero Meogo hanno un grado di evaporazione più alto, e lo possiamo collocare durante gli anni del re trovatore portoghese che aveva raccolto intorno a sé una corte di trovatori. Agganciare la produzione poetica di Pero Meogo a quella di Don Inish è una congettura non soltanto di carattere generico (cioè di cantigas più elaborate) e per essere più elaborate dimostrano una maggiore maturità ma la presenza del trovatore alla corte di di don inish è anche testimoniata da una cantigas del seguir, che già dal titolo indica una cantigas del regno di Inish scritta in risposta o a completamento di una cantiga di Pero Meogo, questo sarebbe il dato più concreto. Si colloca l’opera di Pero Meogo dal 1279 al 1325 che verificano il regno di questo famoso re portoghese. Facendo un confronto tra le sue cantigas e quelle di Martin Codax, nelle sue c’è una maggiorità di rima, le rime che si ripetono riguardano soltanto la 1° e la 3° strofa e la 6° e l’8° strofa. Questo già dimostra una maggiore ricchezza, rielaborazione. Abbiamo constatato anche che la direzione delle cantigas di Pero Meogo è decisamente più alta, intanto la presenza del cervo che è ricorrente, egli scrive 9 cantigas de amigo, è un elemento così ricorrente che ha fatto supporre ai critici che fosse un marchio di riconoscimento, la presenza di questo cervo indicava un tratto, una caratteristica stilistica che rendeva riconoscibile questi testi. La presenza del cervo ha ascendenze remote, si dice che il cervo nella cultura celtica è un’animale dai significati simbolici molto densi e carica su di sé sia la figura dell’innamorato come dell’uomo (dal punto di vista iconografico) bello perché agile e snello. In realtà il cervo è un’animale presente tanto nella cultura araba quanto in quella ebraica. Nel Cantico dei cantici, che descrive l’amore tra un uomo e una donna, per indicare l’amore fra l’anima e Dio , l’innamorato viene rappresentato dalla figura del cerbiatto, quindi già nella Bibbia , il cervo è presente con un notevole numero di ricorrenze ma soprattutto nel Cantico dei cantici ha questo valore metaforico e simbolico. La cantiga alterna strofe maschili e femminili, nuova risorsa della variazione, cervi e cerve e rappresenta nelle strofe 3 e 4 rappresenta la fanciulla che lavava i capelli in una fontanella e qui strofe maschili e femminili , trecce e capelli , sinonimi che ripetendo lo stesso concetto creano una gradevole variazione linguistica e rimica, la stessa cosa succede nelle strofe successive. La novità , pur nella dimensione parallelistica e nella presenza di Leixa pren che abbiamo notato a partire dalla strofa 5, in questo testo l’autore introduce anche nuove figure retoriche, in particolare questa figura del poliptoto che indica la coniugazione di un verso in diversi modi e tempi con la declinazione della parola in diversi casi. Poliptoto indica una parola coniugata e declinata diversamente. I tempi verbali nell’epoca medievale hanno un’oscillazione differente nella dimensione temporale . Cantiga IV (pag 37) Essa introduce una nuova modalità, non c’è soltanto come nelle jarchas e come nelle altre, la fanciulla che rivolgendosi a un confidente piange, si lamenta per un amore non corrisposto, c’è anche la risposta del confidente. Ci troviamo in un’ulteriore variazione e per ciò possiamo definirla una cantiga a carattere dialogico. Ci sono alcune cantigas nelle quali il confidente risponde, una è questa e l’altra quella che sta a pagina 138 , quella di Don Dinis, qui l’innamorata si rivolge ai fiori, perché nelle cantigas de amigo, l’elemento bucolico e paesaggistico è molto presente, si rivolge ai fiori e questi a partire dal verso 5 le rispondono. Qui abbiamo 2 interventi, c’è la fanciulla e la mamma. Il dialogo fra le 2 si basa su un’esperienza, la fanciulla innamorata che con ingenuità soffre perché crede che il suo innamorato a sua volta soffra d’amore, la risposta di sua madre invece, dall’alto della sua esperienza le consiglia di essere prudente. La madre confidente che interviene per sostenere, proteggere la fanciulla. Il dialogo è costruito in maniera simmetrica, alla fanciulla sono attribuite le prime 3 strofe, la 3° strofa è indipendente , non collegata ad altre. Le strofe 4 e 5 sono della madre. Il filo narrativo come sempre c’è ma è molto tenue e la cantiga non presenta la Un terzo canzoniere che va ricordato è cancionero de palacio ed è importante perché verrà allestito durante l’epoca dei Re Cattolici ed è un canzoniere musicale. I villancico erano testi cantanti. Nei villancicos avviene dal punto di vista testuale esattamente il contrario di quello che avviene nelle jarchas, ossia, nelle jarchas avevamo una serie di strofe che si concludeva con una strofetta finale e quest’ultima forniva alla composizione precedente almeno le rime e a volte anche il tema. Nei villancicos questo schema si ribalta, la strofetta tradizionale è iniziale, condiziona sempre lo svolgimento successivo ma costituisce il preludio e non la conclusione. Quindi c’è nelle 2 tradizioni, arabo-andalusa e nella tradizione castigliana, il villancico viene impegnato dal punto di vista strutturale in modo diverso. Pag 42 (antologia) Qui abbiamo la sequenza di 7 villancicos , ognuno di questi testi costituisce un testo a sé. Alla pagina 44 il villancico 6 e 7 costituiscono l’elaborazione di uno stesso estribillo, una in elaborazione popolare e una in elaborazione colta, a testimoniare che i poeti colti si esercitavano rimodulando il testo. Il villancico 1 ci si presenta come una quarteta, di 4 versi di arte menor, capiamo subito che questo villancico è di ambito tradizionale e da che cosa lo capiamo? Intanto dalle rime, rima soltanto nei versi pari, si tratta di rime assonanti. Rime assonanti vuol dire che si ripetono solo le vocali e non le consonanti. Quindi questo potrebbe essere una spia della sua origine tradizionale, un’altra spia è che ci troviamo in un’anismosillabismo, i versi non sono uguali, l’irregolarità. Il 1° verso conta 6 sillabe e gli altri 3 ne contano 8, la regolarità in una quartina avrebbe voluto 4 versi di 8 sillabe. Il contesto è una voce femminile. Ci ricorda la jarcha 7. C’è una fanciulla che si lamenta, una narrazione quasi inesistente e il tema rimane sospeso, non c’è il confidente. Il villancico 2 presenta quella forma che avevamo individuato nella frottola, un estribillo iniziale e una strofetta di commento. Tra l’altro non sappiamo se si tratta di un frammento iniziale di un poema più lungo. Il testo rimane molto misterioso. È un testo molto curioso perché c’è una circostanza di spazio così esplicita. Questo testo si compone di un estribillo iniziale , irregolarità nella misura, 7 e 6 versi che non rima, non è un pareado. E c’è una strofetta di 3 versi monorimi. Questa struttura dei 3 versi monorimi in spagnolo si chiama struttura zéjel. Anche questo tipo di struttura metrica ricorda quelle della muwassasha, nelle muwassasha la strofa è monorima, è un tristico monorimo con una strofetta, estribillo iniziale riconosciuta come zélesca. La maggior parte dei villancico si esprime attraverso la quarteta così è anche il villancico numero 3. Nel villancico 3 ritorna la figura della mamma, è molto popolare, lo troviamo trascritto in molti canzonieri e spesso contraffatto in termini A lo divino, e quindi trasformato con temi religiosi ma anche con una contraffazione di carattere parodico, è un testo che ha avuto una grande circolazione e ha subito numero riscritture. In altri testi, questo “que le duele” al posto di “duele” c’è il verbo “entretiene” che cambia completamente il significato. Perché se nel primo caso non viene, c’è qualcosa che lo fa soffrire mentre nel secondo caso c’è qualcosa nei campi che lo intrattiene e quindi è ritagliato su una figura di infedeltà amorosa. Nelle versioni a carattere parodico è costruita sulla figura del fiume Manzanarre, è un fiume con la portata d’acqua consistente grazie a interventi di carattere artificiale ma un tempo era di scarsa portata. Un villancico di carattere medievale parla di questo fiume descrivendolo scarso d’acqua. Pag 44 (antologia) Il villancico 6 è di carattere tradizionale, questo testo glossa o commenta il villancico con una strofetta di 4 versi. È una fanciulla che soffre d’insonnia, un’insonnia d’amore. Ha sognato che la rosa fioriva e lui veniva sotto l’acqua fredda. È un contesto sensuale, erotico. Lei lo aspetta e sogna lui. La glosa è di carattere tradizionale sia per la forma che per i toni che usa, quindi è una glosa tradizionale, è una quartina e anche qui i versi rimano soltanto nelle sedi pari. E qui l’ultimo verso riprende il verso dell’estribillo, quindi una sola strofa di commento. Il villancico 7 è diverso rispetto al precedente, esso è un villancico d’autore, l’autore è un poeta del ‘500 (1490-1550) che è Cristóbal de Castillejo, è un grande poeta di epoca rinascimentale quando in Spagna cominciava a diffondersi l’endecasillabo e il Petrarchismo. Questo poeta apre una polemica contro l’uso dell’endecasillabo in Spagna, questa polemica si intitola contra los que dejan los metros castellanos y siguen los italianos è una rivolta che si chiama di taglio tradizionalista, quindi questo poeta difende l’uso dell’ottonario o dell’ottosillabo ed è per questo che scrive i villancicos. I villancicos e i romances sono i generi più antichi della lirica spagnola e sono scritti in ottosillabi. E vediamo come le glosas che scrive a commento di questo villancico tradizionale abbiano una dimensione assolutamente diversa rispetto a quella del villancico tradizionale. Questa poesia in apparenza semplice, si basa invece, su una ripresa di metafore che abbiamo avuto modo di presentare molto ricorrenti nella lirica d’amore. Qui la metafora che lui costruisce su dei sogni d’amore è quella dell’assedio d’amore. Questa grande metafora degli occhi assetati dal dolore impersonificati dalla figura del soldato, non riescono a chiudersi. La struttura è molto più complicata, c’è una strofa costruita dai primi 4 versi , costituisce letteralmente la mudanza e i 3 versi successivi ripetono , il verso 5 la rima del verso precedente e gli ultimi 2 versi riprendono le rime dell’estribillo iniziale. Se noi segnamo l’estribillo iniziale con le rime XY (ojos X, dormir y) la struttura rimica della 1° strofa è ABBA-AYY, sufrir e dormir ripetono la rima del 2° verso dell’estribillo iniziale. Questa glosa con questa struttura rimica ABBA-AYY si divide in 2 sezioni: ABBA che è una quartina, che non la chiamamo quarteto ma redondilla a causa delle sue rime. Si chiama redondilla quella quartina che presenta le rime non allacciate ma abbracciate, cioè la prima rima ritorna nell’ultima rima della quarteta ABBA , redondilla perché inizia con A e finisce con A. Se invece avesse avuto lo schema rimico delle rime alterne ABAB si sarebbe chiamata quarteta. Questo tipo di strofa di commento è molto frequente nei villancicos di tipo colto, sempre costruite da una redondilla o mudanza più 3 versi finali di vuelta perché uno dei versi riprende il verso della mudanza e gli altri 2 riprendono il verso dell’estribillo, quindi sono ritornelli. Tutte le altre strofe avranno questa stessa struttura. La strofa 2 sarà CDDC-CYY, quindi anche qui abbiamo una redondilla, una mudanza con questo schema rimico di 4 versi, un verso che si allaccia con la redondilla (pesados) e 2 versi che riprendono l’estribillo iniziale. La stessa cosa l’ultima strofa, EFFE-EYY, come capiamo, queste strofe potrebbero mai appartenere a una dimensione di tipo tradizionale? Ovviamente no. È un testo scritto su un supporto che non vive nella dimensione orale. Nelle strofe 2 e 3, nelle ultime 2, continua il tema degli occhi che sono stanchi di sostenere l’assalto dell’amore. Alcune volte sono così tormentati questi occhi che si addormentano. Ma gli incubi non gli consentono di dormire, che non li lasciano in pace. Nella strofa 3 il poeta ci sta dicendo che questa sorta di amore lo sta conducendo alla follia. Gli occhi sono la sineddoche che stanno a indicare l’innamorato. In questo villancico si vede quello che succede a questa lirica di carattere popolare. Una delle caratteristiche era la brevità e che la semplicità del sentimento che vive nell’essere comunicato ma non nell’essere analizzato e vediamo come qui, in questa poetica di tipo tradizionale espressa nel ritornello iniziale poi subisce una trasformazione assoluta. Intanto non è più breve, il poeta giustappone 3 strofe di commento e anche il sentimento che viene proposto ha perso quella freschezza di quel linguaggio semplice attribuibile alla voce giovane e femminile che diventa invece estremamente più intellettuale , ricco di metafore e possiamo notare un’esibizione di una capacità compositiva. Questo tipo di trasformazione del testo tradizionale a un testo colto sarà la vita dei villancicos. Verranno recuperati e glossati in modo da esibire la capacità di variazione dell’autore. Lezione 4/10/2019 Oggi iniziamo un nuovo genere letterario sempre un genere delle origini e sempre un genere che possiamo collocare in quella categoria molto ampia che abbiamo imparato a denominare Mester de Juglaría. Ancora si studiano delle opere la cui trasmissione fu essenzialmente orale e a carico di juglares ovverosia giullari, menestrelli o parti o aedi. Siamo nell’ambito di una produzione orale e trasmissione orale che in quanto tale è soggetta a forti irregolarità di ogni tipo. A partire invece dal XIII secolo ci confronteremo con la letteratura colta, a base scritta e d’autore, invece che una letteratura popolare, orale e anonima. Questo tipo di letteratura la riconosceremo sotto un altro tipo di macrogenere che è il Mester de Juglaría. Sono nozioni elementari ma basilari. Il genere epico è il primo genere poetico a carattere narrativo. Abbiamo visto i canti posti in bocca di donna che sono il primo genere lirico. Cosa vuol dire a “carattere narrativo”? vuol dire che racconta una storia , questa definizione è già inclusa nell’etimologia stessa della parola. “Epica” che si fa risalire alla parole epos che vuol dire parola o narrazione. È un genere che conoscono tutti, anche perché è presente nella maggior parte delle letterature. A noi italiani è molto nota l’epica classica mentre non è nota un’epica nazionale nostra perché non è esistita, se non un’epica colta rinascimentale L’Orlando Furioso, La Gerusalemme liberata. Essa conserva alcune caratteristiche dell’epica medievale dove invece collochiamo il Cantar de mio cid. Quando parliamo di epica, pur riferendoci a un genere che è nato e perdurato per secoli a partire da Gilgameš , il poema epico-sumero , 4500 anni prima della nascita di Cristo, da Gilgameš alla nostra epica rinascimentale, pur essendo perdurato per tanti anni, ha delle caratteristiche ben definite e che rimangono nei secoli, insieme ad alcune caratteristiche per esempio dall’epica classica a quella medievale possiamo parlare di discontinuità come possiamo parlare di discontinuità all’epica medievale e rinascimentale. Quindi alcuni elementi che perdurano ed altri che invece si introducono come nuovi o si perdono. Quali sono le caratteristiche basilari della poesia epica? Per capirlo bisogna ragionare sui contesti. L’epica, al contrario della lirica, nasce con dei propositi ben specifici, e sono in carattere informativo. In un’epoca in cui non esistevano giornali, mass media, le informazioni di carattere storico-sociale, gli eventi, venivano trasmessi e diffusi attraverso il genere, canto epico. Quindi da questo discende che l’epica è sempre legata a un momento storico che si propone di raccontare e proprio perché racconta degli eventi storici ne discende che le caratteristiche essenziali sono una certa oggettività. Il canto epico è un canto che tende all’oggettività, che tende alla descrizione veristica dei fatti succeduti, non come il canto lirico che comunica un’emozione. Il canto epico si basa sostanzialmente su una descrizione oggettiva di eventi storici e ha un forte carattere assertivo. Cosa vuol dire? Che nell’epica non si contesta mai delle situazioni, non si contestano dei valori presenti, non si propongono valori nuovi. Ma nell’epica che viene sempre incarnata da un eroe epico, non esiste epica senza eroe, infatti si chiama anche poesia eroica proprio per questo. L’eroe incarna i valori di un gruppo sociale unanimamente riconosciuti, vuol dire che li incarna e li esprime. Ciò significa che l’eroe viene ad essere il rappresentante al più alto grado di un collettivo e quindi l’eroe ha una funzione dal punto di vista sociale del gruppo, del popolo, ha un valore fortemente identitario. Ovviamente, ogni popolo ha individuato nei tempi remoti un proprio periodo eroico, non per tutti i popoli il periodo eroico è lo stesso. La letteratura che ci è più nota da questo punto di vista è la letteratura francese, essa individua la Chanson de Roland che è il poema epico-medievale che riconosciamo meglio, e questo suo periodo eroico lo colloca nell’VIII secolo perché è l’espressione della Monarchia Carolingia e in particolare se si pensa alla Chanson de Roland , essa narra un evento particolare, la famosa Battaglia di Roncisvalle, quando la retroguardia dell’esercito franco condotta da Orlando viene sconfitta ai Pirenei dai Saraceni. I Saraceni hanno invaso la Spagna, sono arrivati fino al Nord, tentano di scappare in Francia, ma vengono sconfitti da una retroguardia francese ma poi non riescono ad entrare. La Chanson de Roland individua il suo nucleo eroico in quegli anni, in particolare nel 778, data della Battaglia di Roncisvalle. In questi 2 romances si narravano le vicende del Cid legate al re Don Sancho e le vicende sono queste (sono l’antefatto): il Cid come cavaliere nasce alla corte di Sancho II , chi è Sancho II? È uno dei 3 figli maschi di Fernando I (1035-1065). Fernando I già in quegli anni dominava sulla Galizia, sulla Castiglia e sull’Aragona. Quando muore , ha 3 figli maschi e il regno si smembra di nuovo e a uno dei figli che si chiama García dà la Galizia, a un altro che si chiama Sancho II dà la Castiglia e a un altro dei figli che si chiama Alfonso VI, ed è il re presente nel poema del Mio Cid, dà l’Aragona. Che cosa succede ? succede che il Cid che è un infançon, appartiene alla piccola nobiltà, los infançones erano la piccola nobiltà, il primo gradino. Il Cid, membro della piccola nobiltà, della corte, prima di Fernando I passa poi alla corte di Sancho II è quindi il cavaliere della corte di Sancho II. Nei romances si narra la storia del Cid cresciuto con Sancho II nella sua stessa corte, addirittura compagno di studi e quando Sancho viene probabilmente assassinato da Alfonso , è costretto a passare con gli altri vassalli sotto il nuovo sovrano. Quindi il Cid, in questi poemi, ci viene raccontato nel suo rapporto di vassallaggio e sudditanza ed anche fraterna amicizia con il precedente re Sancho II prima che la storia cambiasse e alla morte di Sancho , Alfonso VI riunisca di nuovo come il padre Fernando I tutti i 3 regni sotto di sé. Siccome una serie di romances ci narrano quella storia lì, dobbiamo supporre una cosa: forse esistette un cantar di Sancho II, forse questi romances precedettero il cantar e che il cantar fu il risultato della ricucitura di tutti questi brevi canti. Quindi c’è un’ipotesi odierna molto poco sostenuta che ritiene che l’epica abbia avuto origine dai romances e c’è poi invece un’altra teoria molto più accreditata che immagina esattamente il contrario, cioè che prima esistettero i cantares e che poi dallo smembramento di alcuni versi, dai poemi epici derivarono poi i romances. Quindi nella genesi dell’epica in Spagna, non dobbiamo soltanto ragionare da quali altre epiche discese. Questo è fondamentale perché la tesi per cui nacquero i primi romances e poi i poemi epici era sostenuto dalla critica romantica che riteneva l’epica la nascita spontanea di canti storici da parte del popolo e quindi la faceva discendere da queste narrazioni più brevi di carattere epico-lirico. Quando diciamo di aver supposto l’esistenza probabile di un cantar di Sancho II, lo abbiamo supposto anche perché un’altra importante testimonianza della presenza in Spagna di un’epoca molto ricca, è il fatto che i poemi epici venivano usate nelle cronache storiche scritte in prosa come fonti. Quando ad un certo punto, più tardi, verso il 1300, XIII-XIV secolo, si cominciarono a scrivere le cronache storiche , i cronisti utilizzavano come fonti le canzoni di gesta, i poemi epici. E quindi noi abbiamo all’interno delle cronache riportati i stralci inversi di vecchi cantares oramai perduti e quindi ipotizziamo questo cantar di Sancho II , per esempio e ipotizziamo tutta un’altra serie di poemi sulle figure dei primi conti di Castiglia. Quello che riguarda l’epica è che certamente l’epica in Spagna fu un genere estremamente fortunato, di grande ricchezza , ma purtroppo dalle testimonianze che ci sono giunte sono molto esique e sono testimonianze che abbiamo attraverso i romances di cui abbiamo appena parlato, ma anche attraverso le cronache compilate negli scrittori che utilizzavano l’epica come fonte e quindi certamente quello di cui siamo certi è che il poema del Mio Cid è il monumento dell’epica nazionale ma non fu il primo poema epico, quindi come abbiamo detto per la lirica, per una serie di fortunate coincidenze, a un certo punto, questo testo approdò a un codice scritto, ma anche per l’epica come abbiamo detto per la lirica dobbiamo presupporre l’esistenza di tutta una serie di testi precedenti al Cantar de Mio Cid che ci sono pervenuti ma che probabilmente esistettero e possiamo quasi con certezza sostenere quest’ipotesi perché nelle cronache abbiamo riportate fasi di questi cantares precedenti a quelli del Cid, quindi che ci narrano per esempio, quello che abbiamo detto prima, gli antefatti. Fotocopia del Cantar del Mio cid Con codice intendiamo tutti i manoscritti precedenti alla stampa , questa è la definizione di codice. Questo testo risale con ogni probabilità al XIV secolo, quindi in epoca molto avanzata. Quest’ipotesi XIV secolo, viene stabilita in base all’analisi della scrittura che noi definiamo all’analisi paleografica. La paleografia studia le antiche scritture e in base a queste riesce anche a formulare delle ipotesi di datazione. E quindi il codice conservato alla Biblioteca nazionale lo possiamo collocare nel XIV secolo, però questo codice è una copia, nel senso che il Cantar de Mio Cid non fu scritto nel XIV secolo. E per capire copia di cosa, dobbiamo far riferimento alle rubriche finali. Nei manoscritti , le rubriche finali indicavano spesso il nome di chi aveva scritto il codice e in quali anni era stato scritto. Queste 2 rubriche sono l’Éxplicit (explementum= conclusione) e il Colofón (anch’esso è una rubrica finale). Nelle nostre edizioni moderne, se prendiamo quest’edizione e troviamo le ultime pagine, troviamo dove è stato stampato, la tipografia e l’anno. Diciamo che sono informazioni di carattere editoriale. In realtà, nella fotocopia sono presenti anche dei versi precedenti, dal 3725 al 3730, in questi versi anche ci viene data un’informazione interessante che valuteremo alla fine, in riferimento alla datazione dell’opera. L’Éxplicit, in realtà, quest’edizione traduce in 1245 quella cifra che è scritta in caratteri romani, la discrepanza tra queste 2 cose ha creato un’infinità di ipotesi di quelle che già c’erano. Il primo punto è chi scrisse questo libro? La parola Escribir nella lingua medievale, non voleva dire comporre, ma voleva dire copiare. Quindi, questo porta già a supporre che questo “Per Abbat” non fosse l’autore, ma fosse il copista e quindi che questo “Per Abbat” stesse copiando da un codice precedente. Comunque il manoscritto presente nella Biblioteca nazionale è probabilmente copia di questa copia. “Per Abbat” può essere tradotto in 2 modi diversi: l’abate Pietro e quindi potremmo supporre un giullare di origine monastica, un’abate che si chiama Pietro oppure potrebbe essere “Per” Pedro abad, là dove questo sarebbe il cognome del copista e sarebbe un cognome di origine monastica, quindi anche su questo diciamo che le possibilità sono molte. Adesso veniamo alle questioni che si aprono intorno alla data. Sul testo dice “en era de 1245”. Traduciamo 1245, su questa che sembrerebbe essere una traduzione pacifica, invece, alcuni studiosi tra cui il famoso Ménendez Pidal li ha descritti in cifre romano e si creava uno spazio fra le centinaia e il ’45 e nei numeri romani non è possibile separare le cifre che corrispondono ai numeri. Allora Ménendez Pidal supponeva anche avendo studiato concretamente la pergamena di questo manoscritto, aveva notato che fra quella C e quella X, fra quel 100 e quel 10 notava delle raspature e quindi supponeva che quelle raspature erano state fatte per cancellare, che lì ci fosse un’altra C e che invece di 1245 questo manoscritto fosse datato 1345 , sono 2 ipotesi di datazione diversa. L’uno colloca la data del manoscritto , la copia nel XIV secolo mentre l’altro la colloca nel XIII secolo. Come se questo non bastasse, poi era necessario ragionare anche su quella parola “era”. La parola “era” non è così pacifico tradurla negli anni perché nelle culture remote, si partiva convenzionalmente da certi fatti. In Spagna, la era spagnola faceva iniziare gli anni dal 1° gennaio del 38 a.C, perché? Perché secondo il calendario Giuliano, il 1° gennaio del 38 a. C era l’anno in cui Cesare aveva diviso le province spagnole. Così come noi sappiamo, la Spagna venne divisa in Vlterior e Citerior. Questa data, il 38 a. C è l’origine della colonizzazione romana della Spagna e quindi dobbiamo discendere che quel 1245 o quel 1345 è meno 38. Se noi partiamo con la Nascita di Cristo, calcolando dalla nostra era di oggi. Loro partivano 38 anni prima. Quindi la datazione che dobbiamo dare di questo manoscritto è o 1207 o 1307. Oggi si preferisce la prima data, ci furono anche studiosi che cavalcarono la data 1307, in particolare , uno tra questi che fu Tony Smith, oggi invece si preferisce come data della copia precedente 1207. Ma questo non vuol dire che il poema fu scritto nel 1207 e qui avviene che nella seconda informazione di carattere cronologico, nella stessa fotocopia si hanno i versi dal 3724 al 3730 e sono i versi finali del poema del Mio Cid. Il poema del Mio Cid si compone di 3730 versi e nei versi finali dice che: “Oggi i re di Spagna sono parenti suoi (del Cid)” e quindi la storia ci dice che a un certo punto, i discendenti del Cid e in particolare una pronipote del Cid che si chiamava Bianca de Navarra si sposò con un re di Spagna , con Sancho III. Quindi a un certo punto, la dinastia del Cid (una pronipote) divenne una dinastia reale e noi possiamo collocare questo avvenimento intorno al 1140 e quindi questo ci porterebbe a dire che il poema arrivò al codice scritto in questa data (1140). L’ipotesi di datazione appartiene al 1140 piuttosto che a quelle date antequem e postquem segnalate all’inizio. Quindi il poema del Mio Cid è collocabile tra la metà e la fine del XII secolo. A queste considerazioni ne dobbiamo aggiungere un’ultima che è dire: se il poema conclude dicendo “Oy los reyes de españa sos parientes son” è probabile che il poema nasca proprio da questo, cioè che la figura del Cid che viene celebrata ed esaltata, sia stata recuperata proprio in questi anni alla fine del XII secolo proprio perché è il momento in cui la dinastia reale si imparenta con i discendenti e che quindi il poema sia nato in realtà per celebrare quest’evento e non tanto per descrivere l’eroe della Reconquista. È stato l’evento da cui parte l’elaborazione del cantar. In che condizioni ci giunge il codice? Abbastanza deteriorato anche perché per poterlo leggere meglio furono utilizzati dei solventi, questa stessa lettura di questa data ci crea dei problemi. È un codice mutilo, cioè che mancano delle cose, manca la pagina iniziale e quindi non sappiamo il titolo, noi lo chiamiamo Cantar de Mio Cid altri lo chiamano Poema de Mio Cid, perché cantar e non poema? Perché la parola poema non è presente all’interno del testo mentre all’altezza del verso 2276 che dice cosi: “Las coplas d’este cantar aqui se van acabando”  saremmo utilizzati piuttosto a chiamarlo cantar che poema, d’altra parte “cantar” è lo stesso termine presente nella Chanson de Roland, Cantar equivale a Chanson, è un cantare, chanson è un canto. Perché cantar e chanson? Perché erano recitati probabilmente con l’accompagnamento di uno strumento a corde e una monovia, recitati ritmicamente e da qui ne discende il nome, mentre il termine “Poema” è certamente adatto per quell’epica più colta e rinascimentale successiva. Nella parola “cantar” si palesa anche la modalità di trasmissione orale e cantata. Il primo foglio è probabile che contenesse il titolo ma è anche più probabile che contenesse dei titoli che sono andati perduti. Questo 150 versi mancanti vengono distribuiti con un foglio d’inizio e 2 fogli che mancherebbero al suo interno. È un codice prezioso, confezionato in laboratori reali ed è scritto senza soluzione di continuità, cioè quando noi sfogliamo l’opera, questi 3735 versi sono scritti in modo consecutivo e invece è proprio delle edizioni moderne (tutte) pubblicare il testo in strofe. La parola “strofa” non è corretta per indicare le strofe epiche, dobbiamo dire che è convenzione pubblicare il testo in lasse. La strofa epica è la lassa, in spagnolo si direbbe “tirada”, diviso in microstrutture che sono le tiradas e in macrosezioni che sono 3 cantares. Quest’edizione è opera degli editori moderni e su che cosa si sono basati per dividerla in questo modo? Intanto la lassa epica è una sequenza di versi infiniti che sono accomunati dalla stessa rima. La definizione di lassa è questa, è una strofa di un numero di versi, 4-10-20, il Cid va da strofe di 4 versi a strofe di 186 , quindi una grande oscillazione. La possibilità di inviduare queste strofe è legata dal cambiamento di rima e quindi gli editori moderni al cambiamento di rima cambiano lassa e creano delle microunità. Mentre la possibilità di dividerlo in 3 cantares diversi ce le offre lo stesso autore. Il verso 2776 dice che qui finisce il cantar, ma in realtà non finisce, poiché l’opera finisce nel verso 3735, però nel 2776 finisce una parte, un cantar. Quindi ci sono delle frasi alla fine del 1° cantar e alla fine del 2°cantar in cui l’autore dice che qui finisce il 1° cantar , qui finisce il 2° cantar. Si evince da queste dichiarazioni che probabilmente il poema veniva recitato in 3 atti, 3 momenti. Un giorno si recitava una 1° parte (i primi 2776 versi), poi si recitava la 2° parte e infine la 3° parte, cioè queste 3 unità dei 3 cantares erano 3 momenti recitativi, però questa è una deduzione a posteriori. Il manoscritto ci presenta un testo senza soluzioni di continuità. Lezione 6/11/2019 si intende la famiglia, quindi al proprio sangue o per meriti. Soprattutto nell’epoca della Reconquista, quali erano i meriti? Un capitano sconfigge gli arabi, annette terre, e quindi ricchezze e per questo la sua condizione va migliorando, accrescendo. Nel caso del Cid questo non succederà perché si trova a servire l’antagonista del suo re, cioè Alfonso VI. L’esilio viene determinato da una vicenda e la vicenda è questa: Alfonso manda il Cid a riscuotere dai regni mori di Siviglia e di Granada le parias. Che cos’erano le parias? Le parias erano dei tributi che i regni arabi pagavano ai regni cristiani per essere lasciati in pace, sostanzialmente. Il pagamento di questo tributo comportava che il re cristiano non li avrebbe attaccati. Il Mio Cid viene mandato a Siviglia a riscuotere questi tributi, ma lì succede che il re di Siviglia attaccato dal re di Granada, sostenuto da un nobile della corte di Alfonso VI viene difeso dal Cid e il nobile della corte di Alfonso VI viene umiliato. Da questa umiliazione, nasce alla corte di Alfonso VI , viene effusa la diceria che il Cid si sia macchiato di frode, di malversazione ovverosia che quei tributi che aveva riscosso, in parte se li fosse tenuti per sé. Quindi, tornato alla corte, Alfonso VI crede alla grande nobiltà a cui il Cid è inviso, crede al furto di cui il Cid viene accusato e lo manda in esilio e a questo punto inizia il senso di questo pianto iniziale. È proprio da ricercarsi in questa vicenda storica. Preliminar (fotocopia) Preliminar c’è un paragrafo che è stato tratto dalla cronica di Castiglia, in questo paragrafo sono stati individuati dei versi che sono assonanzati in A, O che probabilmente erano i versi iniziali del poema che sono andati perduti. Questo non ci interessa tanto per il poema del Mio Cid ma proprio per capire come le cronache hanno assorbito dei cantar precedentemente esistiti andati perduti. Si tratta di un castigliano medievale. Qui siamo in un frammento nel quale è possibile separare dei versi, calcoando che i versi dell’epica sono dei versi lunghi, quindi oscillano dai 10 ai 16 ai 18, la maggior parte contano o 14 o 16 sillabe, quindi sono versi lunghi che terminano con un’assonanza. Esso racconta la storia che il Cid mandò a chiamare tutti i suoi parenti, amici e vasalli e mostrò loro che il re aveva ordinato di lasciare la terra fasta entro 9 giorni e questo è un punto importante. Il re lo esilia e gli impone il tempo di 9 giorni (sarà importante questo dato). E disse loro chi volesse seguirlo, perché chi avrebbe voluto seguirlo sarebbe stato aiutato, protetto, ricompensato da Dio, mentre quelli che decidono di non seguirlo li rispetta comunque. Allora parlo don Álvar Fáñez, questo è un personaggio centrale nel poema perché lo ritroveremo a breve nei primi versi, storicamente era un nipote del Cid, all’interno del Cid è il comprimario, quel personaggio importante non tanto quanto il protagonista ma quasi. È l’aiutante in un certo senso, quindi svolge un ruolo fondamentale, soprattutto il Cid si rivolge molto a lui. Álvar Fáñez disse che con loro andranno tutti, per terre e per villaggi, quindi ovunque e non vi verremo mai meno finché saremo vivi e sani. Con voi divideremo gli averi e i vestiti, sempre vi serviremo come leali amici e vasalli, si conclude. Il Cid lasciò Vivar, andrò verso Burgos rapidamente e quando vide i suoi palazzi diseredati, svuotati piange. Ci sono dei versi perché c’è un’assonanza che si ripete ed è quando comincia a parlare Álvar Fáñez, a quel punto ci troviamo a dei versi di un poema epico perché le due frasi sono scritte in A, O, quindi probabilmente lì uno storico, cronista usa questa fonte perché erano le loro fonti e riconoscevano ai cantar de gesta un valore storiografico. Seppure il cantar de Mio Cid ha un carattere fortemente realista,oggettivista, storico, anche dal punto di vista della biografia, ovviamente la realtà che narra è la realtà eroica e quindi soggetta ad essere per certi versi manipolata. In realtà, quando si vuole capire in che direzione questa realtà viene interpretata dal giullare che lo ha cantato, si dice che il Cantar de Mio Cid testimonia l’animus, il sentimento dei castigliani contro la nobiltà leonese, Alfonso VI che annette la Castiglia. Ma a rendere l’eroe di questo poema epico , un eroe castigliano contro l’ingiustizia perpretrata da un re aragonese, quello che passa (lo vedremo anche in alcuni commenti che fa il giullare al margine della storia) è l’orgoglio dell’animus castigliano contro la dinastia leonese, questa è una parte della portata ideologica di questo cantar. Poi c’è chi sostiene che in realtà il giullare non furono uno ma 2, in un campo aperto di cui non abbiamo certezza di nulla e che esiste un primo giullare quello che scrive i primi 500 versi che veicola questo messaggio e un secondo giullare che scrive tutto il resto , i restanti 2600 versi, che invece dimostra una mentalità più vicina alla corte di Alfonso VI, quindi nel cantar 2-3 , invece, questo conflitto con il re, così forte nel primo, si va un po’ sfumando. Le lasse (pag 66 antologia) Queste 4 lasse iniziali riassumono la storia che va dal Cid che lascia Vivar, il Cid che entra a Burgos (2° lassa) e nella 3° lassa il Cid che è costretto a lasciare anche Burgos perché i suoi cittadini temono la punizione del re. Nella 1° lassa, al di là dei tecnicismi, “alcándaras” che deriva dall’arabo che vuol dire “pertiche” dove sostavano gli uccelli da caccia. “senza pelli né manti” si fa riferimento anche a un abbigliamento prezioso e quindi a quei beni che il Cid perde, che gli sono stati sottratti. I falchi e gli astori sono uccelli della pigna che si utilizzavano nello sport della caccia. Questo continuo ripetere del “sin” ovviamente fa riferimento a un sentimento che si vuole comunicare al lettore o a chi ascolta che è quello di un senso di profonda privazione, deprivazione, al Cid è stato tolto tutto, tutti i bene immobili. Questo inizio del poema, sta subito a rimarcare la simpatia del giullare che narra nei confronti di questo personaggio. Già descrivercelo come piangente e con tutto quello che gli è stato tolto, crea una sorta di alleanza fra chi ascolta e il personaggio che viene narrato. Non deve stupire il pianto dell’eroe perché come caratteristica oggi di nobilità, perché in realtà, nella mentalità, nella cultura medievale, il pianto dell’eroe era sinonimo della capacità di provare sentimenti ed emozioni profonde. La virilità dell’eroe, non compromessa dal pianto, cambierà poi completamente nei secoli successivi perché nei libri di cavalleria spagnola e delle culture successive dove gli eroi spagnoli continuano a piangere, quando questi romanzi vengono tradotti in italiano , quando devono tradurre “pianse” lo traducono con “si commosse”, il pianto si segna come un carattere poco virile. Quindi questa simpatia che si crea intorno a quest’eroe con questo tipo di presentazione viene poi suggellata nel verso 6 quando l’autore gli attribuisce un nome “Sospirò mio Cid”  è chiaro che si suggella questa solidarietà tra chi canta e il personaggio che viene cantato. È il “suo” perché rappresenta i valori di quella connettività, l’eroe nei poemi epici è sempre questo. L’eroe è un esponente al livello più alto, nobile di maggiore valore, dei sentimenti, dei valori, dell’ideologia di una collettività. È eroe quanto detto finora, quindi il suo destino non è individuale ma collettivo. Il Cid sospira perché aveva molte preoccupazioni, affanni, dispiaceri, soffriva molto e quindi sospira. Come vedete la costruzione è parallelistica, cioè le frasi ripetono la stessa struttura con alcuni cambiamenti (anche in posizione a inizio verso). Prima sospira e poi parla, ma come parla? Parla bene e in modo misurato e qui si introduce quella che è una delle qualità principali di questo eroe. La qualità principale di questo eroe è la misura, ripetutamente tornerà. Si parlerà del Cid in quanto eroe misurato. Che cosa si intende con questo termine? Si dice che la misura cidiana è la somma delle 4 virtù cardinali che costituiscono i principi della morale cristiana ma anche quelli della morale storica. Quindi questa misura è un’insieme di prudenza, giustizia, fortezza e temperanza (4 virtù cardinali). Quindi è un eroe che difficilmente perde la compostezza, ma sa sempre reagire all’altezza delle situazioni facendosi forza e parlando in modo composto, contenuto. Cosa dice qui per la prima volta? Dice che è grato al Signore che è così in alto e questo gli hanno fatto i suoi nemici. Qualcosa gli hanno fatto, sappiamo che il re lo ha mandato in esilio ma non sappiamo ancora il perché e il Cid più volte si scaglierà contro questi nemici malvagi e mai avrà parola di risentimento, rabbia, nei confronti del re. Questo perché nel contesto della narrazione, l’ira del Cid viene spostata dal re che rimane il suo sovrano e con il quale lui cercherà di ricostruire, ritornare in pace, lo sposta dal re ai nobili che hanno lavorato con il re per il suo discreto. Nell’opera noi troviamo “mios enemigos malos” o “calumniadores”. Quindi la 1° lassa è una 1° lassa che ci presenta la condizione dell’eroe, le sue principali caratteristiche. Ma nella 2° lassa entra già la capacità di farsi forza e di reagire e quindi il Cid che si è voltato a vedere i suoi beni e quindi ha lasciato alle sue spalle Vivar e si dirige verso Burgos. In realtà il famoso codice del Cantar de Mio Cid non presenta divisioni, si presenta come una sequenza ininterrotta di versi, però le edizioni moderne hanno ritenuto di dividerlo in 3 macrosequenze che sono i 3 cantares e in una serie di microsequenze che sono le lasse (tiradas) che compongono ogni cantar. Come hanno fatto? Hanno fatto la divisione sommaria e arbitraria? Per quanto riguarda la divisione macrostrutturale dei 3 cantares, il 1° cantar parte dal verso 1 al verso 1085, il 2° cantar dal verso 1086 al verso 2276, il 3° cantar dal verso 2277 al verso 3735. Questi 3 cantar vengono divisi in base a delle informazioni alterne e particolarmente all’inizio del 2° cantar l’autore dice: “qui comincia il cantar”, alla fine del 2° cantar dice: “qui finisce il cantar” e quindi da questa informazione, noi capiamo che il testo è diviso in 3 sequenze, più o meno di 1000 versi. Questi 3 cantares vengono intitolati nei loro argomenti principali, il 1° cantar si intitola: “Cantar del destierro”, 2° cantar si intitola “Cantar de las bodas”, il 3° cantar si intitola “Cantar de la afrenta de corpes” corpes è uno scorcetto nel quale avviene un oltraggio compiuto sulle figlie del Cid. Questi 3 sezioni hanno questi 3 nuclei tematici: l’esilio, le nozze delle figlie e l’oltraggio compiuto contro le figlie del Cid e lo scioglimento finale. Per quel che riguarda le microstrutture si usano le lasse. Come hanno potuto dividere il poema in tante porzioni? Che come vediamo sono diverse l’una dall’altra. La 1° lassa misura 9 versi, la 2° lassa 7 o 6 versi, la 3° è lunghissima. Perché lo hanno diviso così? La differenza delle lasse ha un fondamento molto più tecnico e non è arbitrario e sta proprio nelle rime. Nelle rime che sono assonanze, se vediamo la parte finale dei versi della 1° lassa , notiamo un’assonanza in A, O “ando,ando,ados,antos,ados,ados,ado,alto,alos”. Se invece passiamo alla 2° lassa, c’è un cambio di rime e infine un verso giunto da Ménendez Pidal, qui abbiamo un’altra assonanza in E, A. Ovviamente le 2 cose sono legate, in che senso? Nel senso che il giullare cambiava rima quando cambiava tema, era una strategia a priori. Per spiegare bene la struttura metrica del Cantar de Mio Cid anche in relazione ai romances. I romances erano una sequenza di ottosillabi assonanzati nei versi pari. Alcuni studiosi ritengono che i romances siano cantares de gesta, alcuni brani dei cantares de gesta, estrapolati e pubblicati con una sequenza di ottosillabi perché la struttura metrica è la stessa. In che senso è la stessa? Quando noi leggiamo il poema del Mio Cid, nella lettura si fa una forte pausa , questa forte pausa all’interno di un verso, in alcune edizione viene marcata. Ci troviamo al confronto con dei versi lunghi di base semplici che però si compongono di 2 emistichi di base otto. Quindi il cantar è composto da versi di 16 sillabe i cui versi assonanzano tutti, l’unica cosa da dire è che è composto da ottosillabi che assonanzano nei versi pari. Se invece di leggerli i versi lunghi li leggiamo a emistichi. Il 2° verso sarebbe il 2° emistichio, il 4° verso sarebbe il 4° emistichio e quindi la struttura sarebbe quella di ottosillabi che assonanzano nei versi pari, è una convenzione tipografica. In ogni caso le lasse si compongono di un numero di versi variabili di base 16 con enormi irregolarità ma sempre con una cesura a metà. Quindi ogni verso si compone di emistichi. Per concludere, una delle ipotesi che ha avuto supporre che il Cantar de Mio Cid non fosse opera di un solo giullare, ma che invece, fosse stata opera di 2 giullari, si basa su tante cose. Una prima ipotesi è che il primo è più ostile nei confronti del re, l’altro ha l’atteggiamento nei confronti del re di rispetto. Ma una delle ipotesi di carattere più concreto è che nel 1° cantar noi troviamo una grande varietà di assonanze, ogni strofa sperimenta un’assonanza diversa mente gli altri 2 cantares sono molto più monotoni da questo punto di vista. Lezione 11/11/2019 questa volta lo macchia dell’onore famigliare) verrà risolto dalle cortes (Unione del Parlamento) che dava ragione al Cid, punirà gli infanti imponendoglidi restituire al Cid, la dote, le 2 spade famose come la Tor Lindana che sono la Colada e la Tizona, e successivamente obbligarli a uno scontro fra campioni menzionato quando abbiamo parlato nella possibile derivazione dell’epica spagnola dall’epica gota. Gli infanti che non vorrebbero, sono costretti a batterso contro dei campioni, cavalieri del cid e verranno sbaragliati dopodiché il poema finisce, vengono annunciate le nozze fra la pronipote del Cid Bianca di Navarra con Sancho III e che probabilmente determinerà l’origine del cantar. I lassa (pagina 66 antologia) Attraverso questa costruzione iperbatica fra il 1° e il 2° verso si anticipa il complemento di circostanza. Grazie alla scelta di questo iperbato iniziale vuole far confrontare non tanto il pubblico con un campione della Reconquista ma all’inizio vuole far comunicare al pubblico e al lettore, la dimensione umana di questo personaggio che non verrà mai meno e quindi come condizione umana il suo pianto in quanto esiliato. Successivamente gira la testa e lo sguardo, da questa attitudine di introspezione di raccoglimento , lo sguardo si rivolge invece verso l’esterno e constatando i suoi palazzi devastati. Nei versi 3-4-5 si nota l’uso del polisindeto, quindi l’uso ripetuto e insistito della congiunzione “Y”, che in qualche maniera, forse anche nella recitazione, il polisindeto pressupone un rallentamento del ritmo narrativo e che quindi vuole ben insistere sull’enumerazione di tutti i danni che il Cid subisce dal suo re e da questi danni anche il senso di perdita e di privazione. “E SIN” sono le congiunzioni che si ripetono costantemente in un costrutto di carattere fortemente parallelistico che si ripeterà costantemente all’interno del testo. Quindi iperbato, polisindeto, costruzioni parallelistiche. A partire dal verso 6 il Cid sospira e poi parla, quindi si ricompone e viene enunciata la sua qualità principale che è quella misura che nel caso del poema diventa una qualità di dimensione eroica. Ovviamente il fatto che il Cid non si lasci mai andare a quell’ira funesta è anche coerente con la narrazione storica che è presente. Può prendersela con i nobili che ne hanno determinato la sventura, ma non può prendersela con il suo re. Nel verso 8 si potrebbero rivelare 2 realtà contrastanti: da una parte la profonda Cristianità di questo eroe, è un eroe della Reconquista e quindi della Cristianità mentre dall’altra il ringraziamento qui qualcuno ha voluto vedere un gesto di stizza e di sarcasmo. Nell’ultimo emistichio vengono presentati quei nemici contro i quali il Cid si scaglia e che costituiscono uno buono schermo per proteggere la sua ira dalla figura del monarca. II lassa Anche questa molto breve, di soli 6 versi, il Cid lascia Vivar. Nel 1° verso c’è di nuovo questa costruzione di tipo parallelistico ed anche per certi versi di carattere sinonimico che letteralmente vuole dire che il Cid comincia il suo viaggio. Cominciano a spronare i cavalli e sciolgono le redini. Il viaggio inizia sotto dei presagi: uno fausto e l’altro infausto che ci vengono detti nei versi 11 e 12 escono da Burgos e sentono una cornacchia sulla destra, il canto di una cornacchia. Entrano a Burgos e la sentono a sinistra. Nei commenti del poema, questi versi sono origine di spiegazioni diverse, ma la cornacchia a destra sembrerebbe un presagio positivo, annunciare al Cid un futuro fortunato, eroico mentre la cornacchia a sinistra, quando entrano a Burgos, anticiperebbe la mancata accoglienza dei cittadini di Burgos che come vedremo, saranno costretti a non accoglierlo. Al verso 13, con un immagine fortemente iconica il Cid scuote le spalle e la testa pronunciando dei versi anche qui piuttosto complessi, dirà “Albricia” “evviva, che buona notizia” è un’espressione esclamativa che in questo caso, la maggior parte dei traduttori rendono con “coraggio”. Nel 1° caso “evviva, che buona notizia” starebbe a marcare un segno di una dolorosa acquisizione, sorpresa, la cornacchia a sinistra la interpreta come segno di malaugurio, “evviva, siamo stati cacciati dalla nostra terra” come una forma di litote per dire il contrario esattamente. Il verso 15 è scritto in corsivo perché non fa parte del cantar ma è stato ricostruito da Ménendez Pidal che basandosi su alcuni versi presenti nelle cronache lo aggiunge. In questo caso, aggiungendo questo verso, quell’ “evviva” forse troverebbe una giustificazione di carattere sarcastico non nel voler dire il contrario ma una sorta di riscossa interiore del Cid che ritiene che da quel momento in poi la sua condizione potrà soltanto migliorare e tornerà nella sua patria di nuovo rispettato. Ricordiamo che se il poema termina con l’ascesa del Cid appunto per cui la sua pronipote può sposare il figlio di un re, nella storia il Cid invece rimarrà un infançon e non avrà la possibilità di vedere effettivamente migliorare la sua condizione III lassa Questa lassa è estremamente più lunga delle altre. Qui si raccontano le condizioni dell’esilio, in quali condizioni il Cid viene cacciato dalla sua patria. A livello formale, una caratteristica presente in questa lassa è che tornerà poi nelle lasse successive, è presente nelle rime. Le rime sono costruite su un’assonanza “O, E” ci si accorge che in molti di questi casi queste “E” sono delle aggiunte necessarie per costruire la rima ma che non sono giustificate da un uso grammaticale corretto. “Entróve”  questa E finale che serviva in una dimensione di recitazione orale per creare delle rime quando era difficile trovare delle uscite simili, si chiama nell’epica spagnola E paragogica ovverosia “entró” è necessaria una rima in “O,E” e quindi il giullare aggiunge una sillaba, aggiunge una E con una V che gli serve di congiunzione fra la sillaba finale della parola e quella diciamo artificiale. La E paragogica può essere tanto antietimologica come in questo caso qui “Entróve” non ha nessuna giustificazione nella dimensione etimologica di questa parola come invece etimologica. Recupera una E latina che nella lingua spagnola va perduta. La E cade. Il giullare per facilitarsi la costruzione in rima vi aggiunge una E paragogica in questo caso etimologica. Questo fatto ricorre nel cantar ripetutamente. È un escamotage. L’altro è l’uso delle formule. Lo stile dei poemi epici si chiama infatti anche stile formulistico, ovverosia, la possibilità di costruire alcuni costrutti, parole delle stesse posizioni in modo fisso laddove corrispondono le stesse regole metriche. Il Cid entrò a Burgos con 60 cavalieri (60 pendones=Sineddoche). Intanto già si constata la simpatia dei burgalesi nei confronti di questo eroe. Il Cid entra e tutti accorrono a vederlo. L’espressione “mugieres” “varones” . “burgeses” e “burgesas” sono coppie nominali che corrispondono proprio a quella dimensione formulare del testo. Perché questi 4 termini stanno per “tutti”. Ma la possibilità di scindere questo “tutti” in una coppia nominale aiuta l’artista a completare un emistichio e quindi a raggiungere la misura versale giusta nonché gli offre delle rime facili perché ricorrenti. Anche qui appare la formula “Plorando de los ojos” che compariva nel verso 1 “De los sos ojos fortemente llorando” se dovessimo definire quest’espressione da un punto di vista retorico diremmo che si tratta di un pleonasmo. Che cos’è un pleonasmo? Un pleonasmo è una figura retorica che dice una cosa che non è necessaria ed è un pleonasmo perché si può piangere soltanto dagli occhi ovviamente, quindi dire “Plorando de los ojos” vuol dire ripetere per 2 volte la stessa informazione. Nel verso successivo l’autore impiega un altro pleonasmo “De las sus bocas todos dizían”. All’interno dello stile epico “Plorando de los ojos” e “De las sus bocas todos dizían” sono state definite delle frasi fisiche. A che cosa servivano? Probabilmente servivano nella fase della recitazione del testo, quindi un testo recitato da un unico interprete ad accompagnare il testo con dei gesti. Quindi queste 2 frasi unite alla gestualità che lo accompagnasse. Il verso 22 è probabilmete, tra i tanti, uno dei più discussi perché se il significato letterale fosse quello della traduzione “Dio, che buon vasallo, se avesse un buon signore” ovviamente comporta una posizione del giullare, della storia fortemente antimonarchica perché dire ciò significa attribuire le responsabilità delle disgrazie del Cid non ai “malos escuderos” come il Cid fa all’interno del testo ma allo stesso monarca. E quindi a questo tipo di interpretazione se ne sono sommate altre 2. Una possibilità è “Dio, che buon vasallo, se Alfonso fosse stato buon signore” e questa è quella che crea delle difficoltà sull’impianto ideologico del testo. L’altra possibilità che viene data dalla traduzione “Dio, che buon vasallo, se troverà ora un nuovo signore” e quindi con una formula di auspicio. La 3° più complessa invece traduce quel “Buen” non con il significato di “Buono” ma con il significato di “beni”. Cioè “Dio, che buon vasallo sarebbe se avesse dei beni” se avendoli potesse continuare la sua opera di conquista. Successivamente compare l’istituto dell’ira reggia e cioè quale pena il re infligge. In realtà, quale pena il re infligge al suo vasallo e allo stesso tempo alla comunità qualora decidesse di aiutarlo. Nel verso 23 “Conbidar le ien” è un condizionale di tipo analitico, molto tipico nella lingua medeivale. “Conbidar” infinito “ien” le uscite del verbo avere e “le” pronome collocato fra l’infinito e le uscite. Oggi sarebbe più semplicemente “le conbidaría”, ma nella struttura medievale, il condizionale non era ancora diventato sintetico. Questa ira del re che è un’istituzione giuridica medievale, non è un’espressione di carattere generale. Ma come istituizione giuridca medievale, l’ira del re o l’indignazo regis prevedeva una serie di possibilità e vediamo come Alfonso VI all’interno del poema le declina. Prima dell’arrivo della notte arrivò a Burgos un messaggio con ordini severi. Arriva questa lettera con grande prudenza e non si sa se questa prudenza è riferita al modo in cui questo editto reale arriva oppure al contenuto che c’era, fortemente ben sigillata e che diceva così: “nessuno desse alloggio al Cid” quindi ha un primo carattere prescrittivo e successivamente un carattere punitivo perché “colui che glielo desse, saprà con certezza che perderà gli averi e in più gli occhi del volto” “Los ojos de la cara” pleonasmo che serve per la costruzione della rima. Perderà ancor più il corpo e l’anima, quindi in sostanza perderà tutto. Questa che noi scambiamo per una maledizione, in realtà, la perdita degli occhi, nelle disposzioni giuridiche medievali corrispondeva ad un’espressione Efosio oculorum ovverosia l’accecamento , la punizione per accecamento, quindi chi accoglie il Cid verrà accecato e inoltre perderebbe il corpo e l’anima. Ovviamente, l’impossibilità di trovare qui sepoltura all’interno dei confini del regno. La lettera arriva a Burgos, i burgalesi la leggono, il Cid ancora non è consapevole. Il Cid si dirigeva verso il suo alloggio e quando arrivò alla porta la trovò ben chiusa perché per paura di re Alfonso. Qui abbiamo per la prima volta un gesto di rabbia e di stizza che sembrerebbe contraddire quella misura che abbiamo così esaltato e che lo stesso giullare ha messo come prima qualità di questo grande eroe. Perché al verso 40, il Cid spronando il cavallo, si avvicina alla porta e gli assesta un bel calcio e la porta non si aprì perché era ben chiusa. Vedremo poi come questo accenno di ardimento verrà poi subito ricomposto di fronte alle parole che a lui rivolgerà una bambina. Questa è la figura di un Deus ex-machina, una bambina viene mandata dai burgalesi a parlare con il Cid sperando che di fronte all’innocenza, il Cid decida di allontanarsi. Riappare qui esattamente la stessa frase della formula legale che era stata dichiarata nei versi 27-28. Questa volta però questa frase ripetuta letteralmente a memoria, è a carico di una voce infantile e di fronte a questo annuncio, il Cid decide di abbandonare Burgos e di intraprender il cammino dell’esilio e lo farà sostando fuori dalla città. Si fermerà presso la cattedrale di Burgos, dopodiché pianterà le tende su un’affluente del fiume Duero e Arlanzón e quind dormirà sulla ghiaia, lo lasciamo quasi come un fuggiasco. Sotto Fernando III el Santo , Castiglia e León si uniranno e quindi la Spagna sarà divisa in 2 regni: il regno di Castiglia e León e poi successivamente il regno di Aragón. Quindi nella 2° metà del XIII secolo la Reconquista è sostanzialmente fatta e in questo clima di maggiore serenità, pacificazione e anche di staterelli cristiani che non si fanno la guerra l’uno con l’altro, cominciano a nascere le prime università. Questo è un evento che interesserà tutta l’Europa. In particolare proprio in quell’anno lì della Battaglia de Las Navas de Tolosa (1212), nasce la prima università spagnola che è probabilmente la più antica d’Europa che è l’università di Palencia, situata nel Nord della Spagna ma sempre nel regno di Castiglia e León. Le prime università spagnole non si chiamavano università ovviamente che è un nome che verrà dato più tardi a queste istituzioni accademiche, ma si chiamavano Escuelas Generales e quindi nel 1212 si forma la Escuela General di Palencia. Come si formavano queste scuole? Sotto quale impulso nascevano? E che cosa si insegnava? Questo è importante saperlo perché altrimenti ci è molto difficile spiegare questo passaggio fra una letteratura tradizionale, popolare di dimensione orale e una letteratura come quella del Mester di clerecía di carattere colto ed erudito. È difficile definirla una scuola come è difficile definire una scuola come il Mester de juglaría, quindi una poetica diffusa e che si organizza e nasce nei centri culturali. Queste Escuelas Generales sono delle istituzioni volte all’insegnamento che nascono intorno a monasteri e a quelle che vengono definite scuole cattedralizie. Cosa succedeva? Nelle cattedrali e nei monasteri erano conservate oramai soltanto lì le biblioteche erano luoghi di conservazione di libri e di studio, intorno a queste entità di carattere religioso nascono le prime Escuelas Generales che poi nel corso degli anni si laicizzeranno. In Spagna, appunto la più anticha è quella di Palencia e la ricordiamo perché lì probabilmente studiò Gonzalo de Berceo, uno dei più importanti esponenti del Mester de clerecía. Palencia poi insieme all’università di Salamanca che nascerà soltanto alcuni anni dopo. Ad oggi in Spagna, l’università più antica è quella di Salamanca perché quella di Palencia durò pochi anni , poi fu trasferita a Valladolid. Questa breve introduzione ci aiuta meglio a capire chi fossero los clericos (Mester de clerecía) ed è molto chiaro chi sono i giullari (Mester de juglaría). È più difficile spiegare l’evoluzione di questa parola e perché viene acquisita all’interno di questa definizione di genere. Chierico fa riferimento all’uomo di chiesa, ma il Mester de clerecía ha poco a che vedere con questo tipo di accezione e perché? Perché il chierico era l’uomo di chiesa in quanto studiava presso i monasteri, abbazie, chiese, cattedrali che erano i centri dove si conservava, si ricopiava e si trasmetteva il sapere medievale. Quindi nella letteratura medievale tanto spagnola come non, il chierico era l’uomo di studi che magari non ha preso i voti. Il chierico è il letterato, il dotto, chi sa scrivere e chi studia. Tanto che sempre più anche all’interno di alcuni poemetti medievali, alla figura del chierico come uomo di scienza si contrappone la figura del cavaliere come uomo d’armi. L’uno è l’uomo di scienza con una tendenza speculativa e l’altro invece è l’uomo d’armi con una tendenza pratica e attiva. Ci sono moltissimi poemetti medievali che confrontano questi 2 personaggi. Quando fu coniata quest’espressione? Quando nacque? Perché è stato possibile collocare tutta una produzione letteraria medievale sotto il cappello di Mester de clerecía? Questa definizione compare in un’opera intitolata il Libro de Alexandre che nella 2° copla, annuncia per certi versi una poetica programmatica, questa 2° strofa , se la leggessimo con delle categorie più moderne diremmo che è un manifesto di poetica. Questo poema di quasi 3000 versi, molto esteso, non soltanto annuncia a livello della sua 2° strofa le caratteristiche di questo Mester ma le incarna anche. Quindi questa 2° strofa è un enunciato, è una strofa metapoetica ma le incarna perché impiegherà al suo interno questi stessi criteri. 2° copla Libro de Alexandre (pagina 86 antologia) Il Libro de Alexandre è un’opera anonima anche se qualcuno ha voluto attribuire a Gonzalo de Berceo che forse è l’unica figura biograficamenta riconoscibile all’interno degli scrittori del Mester de clerecía. Questa copla ci aiuta a capire anche la filosofia che c’è dietro a questa nuova produzione letteraria. L’autore che parla in 1° persona, annuncia di impiegare una nuova pratica poetica. Lui offre un’arte bella che non è quella giullaresca, è un’arte senza peccato perché è l’arte dei chierici. Parlerà in rima attraverso la metrica della Cuaderna vía con tanto di sillabe. Intanto quello che percepiamo prima di entrare nel verso specifico di ogni parola è la sensazione di un grande orgoglio e di un grande compiacimento nel considerarsi esperti e portatori di una modalità poetica considerata di grande pregio, bella=hermosa. La qualità di questa bellezza non ci viene concretamente dettagliata, ma viene esplicitata in una contrapposizione non è l’arte giullaresca. Il Mester de clerecía e il Mester de juglaría si abbagliano su alcune qualità di carattere contrapposto. Il Mester de juglaría è anonimo e popolare che si trasmette oralmente e fortemente irregolare, al contrario, il Mester de clerecía nelle sue espressioni più portanti prevede la dichiarazione dell’autore, quindi non più anonimo. Quindi c’è l’anonimato versus la dichiarazione di paternità, letteratura orale versus codici scritti, irregolarità (anisosillabismo, assonanza nelle rime perché più facili) versus una metrica stringentemente regolare (isosillabismo, si passa dall’assonanza alla consonanza). La parola “Mester” deriva dal latino “ministerium” oggi “ministero”. La parola “ministerium” indica in senso traslato il lavoro, il compito, l’ufficio che ciascuno di noi svolge, il proprio compito. Nel verso 2, di questa arte si sottolinea una qualità, quella di essere “sin pecado”. Quest’espressione “senza peccato” non va letta in modo stringente pensando come in parte è anche che si tratti di opere a carattere devoto. Questo è vero per Gonzalo de Berceo, ma non è vero per tutta una serie di opere che noi includiamo sotto questa categoria. La critica ha voluto andare oltre e legge l’espressione “sin pecado” anche dal punto di vista della loro dimensione formale. Sono opere senza peccato perché dal punto di vista formale sono perfette, regolari con una precisa misura sillabica sempre rispettata. Quindi questo “sin pecado” potremmo leggerlo a livello tematico ma anche a livello formale perché è della clerecía, degli uomini di scienza, dotti e di cultura. Nelle 2 strofe successive, il poeta entra meglio nella struttura formale e qui potremmo dire che il Mester de clerecía è la Cuaderna vía. Esse coincidono e sono anche sinonimi. Intanto il poeta dice che parlerà attraverso il curso rimado. Nella prosa latina il “cursus” era una clausola in quanto un sintagma che pur appartenendo alla prosa, rispettava una certa propensione ritmica. Siamo all’interno di una poesia di tipo narrativo, la prosa narrativa deve ancora nascere. Lui dice che parlerà in rima nella Cuaderna vía, essa è esattamente la strofa che stiamo leggendo. “Cuaderna” perché è una quartina fatta da 4 versi. Ma la Cuaderna vía sono 4 versi congeniati in un modo particolare e molto elaborati. Per questo l’autore vanta questa sua grande perizia e abilità. Questi 4 versi sono organizzati in modo monorimante, rimano tutti allo stesso modo, 4 versi con la stessa rima. Quindi la Cuaderna vía sono 4 versi monorimi, poi lui ci dice che si contano le sillabe, quindi isosillabici e questa è la grande abilità. In realtà, la Cuaderna vía detta anche tetrástrofo monorrimo. Quindi l’espressione Cuaderna vía, Tetrástrofo monorrimo, Mester de clerecía vogliono dire sostanzialmente la stessa cosa rimanendo che Mester de clerecía è una definizione che si usa anche per inquadrare tutto questo movimento poetico di carattere programmatico perché per scrivere in Cuaderna vía bisogna rispettare queste regole che oltre a quelle dette precedentemente, dobbiamo aggiungere altri chiarimenti. Intanto “a sílabas contadas” di quante sillabe? Il verso del Mester de clerecía è obbligatoriamente il verso alessandrino che prende il nome non da questo poema ma dal poema francese Le Roman d’Alexandre scritto in alessandrini. Il verso alessandrino misura 14 sillabe, quindi sono 4 versi di 14 sillabe, 4 alessandrini. Siamo all’interno di quei famosi versi di Arte mayor che qualificano una produzione più scritta che non orale e poi dalla stessa convenzione tipografica, si nota che questi alessandrini sono spezzati a metà perché nel Mester de clerecía si prevede una forte cesura centrale che spezzi il verso in 2 emistichi (metà verso) rigorosamente di 7 sillabe. Qui la faccenda si complica, perché? Le sillabe metriche non corrispondono alle sillabe fonologiche, quando si misura un verso, non contiamo tante sillabe quante sono quelle fonologiche perché se un verso è agudo (finisce con una parola tronca) quando noi contiamo le sillabe dobbiamo contarne una in più. Se un verso finisce con una parola tronca in spagnolo si dice che è “aguda” dobbiamo contare una sillaba in più. Se invece un verso finisce con una parola sdrucciola cioè se l’accento cade sulla terzultima sillaba dobbiamo contare una lettera in meno, questa è la famosa legge di mussafia. Noi contiamo tante sillabe quante sono quelle fonologiche soltanto quando il verso è piano, quando l’ultima parola è piana. Che cosa succede nel Mester de clerecía ? Succede che a questa regola nella quale si aggiunge una sillaba se il verso termina con una parola acuta, si sottrae una sillaba se il verso termina con una parola sdrucciola, si applica non soltanto al 2° emistichio, quello che è portatore della rima, ma si applica anche al 1° emistichio. Le altre 2 regole del Mester de clerecía sono che è vietato l’encabalgamiento (l’enjambement), non si può concludere il senso di un verso nel verso successivo. Si può fare una bella pausa alla fine di ogni verso e perché? Perché ogni verso ha un significato compiuto e non bisogna andare a completare il significato nel verso successivo, questo è l’enjambement. Ma oltre a questo, c’è anche una pausa interna, questo cosa vuol dire? Vuol dire che non solo non è possibile l’encabalgamiento fra un verso e l’altro, ma che anche fra un emistichio e l’altro non ci deve essere un nesso di tipo sintattico. Ogni emistichio e ogni verso hanno senso compiuto e questo comporta un 3° livello di attenzione. La 3° regola è che nel Mester de clerecía c’è sempre l’obbligo della dialefe. Che cos’è la dialefe? La dialefe è una figura metrica, ed è il contrario della sinalefe. Si conosce di più la sinalefe, essa è una licenza poetica, laddove un poeta deve scrivere un endecasillabo, può contare con una sola sillaba 2 vocali a contatto di 2 parole diverse “grande amore”  “e” “a” le posso contare con una sola sillaba, ma non sono obbligato. Quindi vietare la sinalefe che è la stessa cosa che dire obbligo di dialefe ed è introdurre una difficoltà in più. Che cos’è la dialefe? Essa è l’impossibilità di contare come una sola sillaba 2 sillabe che finiscono in vocale a contatto. Nella copla 2 non abbiamo caso di questo tipo. Adesso si capisce perfettamente la spiegazione di quella “gran maestría”, è una dimostrazione di grande capacità, abilità. Sempre nel Libro de Alexandre, la parola “clerecía” viene poi spiegata, clerecía in quanto uomini colti, dotto, eruditi che hanno studiato. In questo libro, la cui storia è la storia di Alessandro Magno, la sua biografia ha dato origine sin dall’epoca classica a molteplici narrazioni e perché? Perché questo perso un fascicolo e non ce lo dirà. Quindi in quale modo finì la storia non saprebbe dirlo perché è venuto meno il fascicolo di cui si trattava. Sulla deontologia degli autori di traspositori della cultura classica e volgare , questi passaggi ci aiutano a capire il loro operare a stretto contatto con i codici latini e il loro rispetto per la lettera dei classici appunto perché laddove non riescono a decifrare una lacuna la dichiarano ma non la colmano con la loro fantasia. L’opera di Berceo è un’opera dal carattere esclusivamente devoto, quella che noi leggeremo è la sua più importante opera intitolata Los Milagros de Nuestra Señora e con “Nostra Signora” sta parlando della Vergine Maria. Anche in questo caso i miracoli che lui ci racconterà sono 25 miracoli, sono 25 racconti che lui traduce da un codice latino . Questo codice latino si intitola Miracula Beatae Mariae Virginis , questo codice latino ne contiene 49 e su Berceo ne sceglie 24, un 25esimo che è molto interessante perché è ambientato nella stessa epoca di Berceo ed è anche ambientato in quella geografia lì. Il 25esimo non è presente nel codice latino e potremmo supporre che sia originale. El Milagro de la iglesia robada , potremmo immaginare, sia perché non è presente nel codice, sia perché di ambientazione medievale e la geografia della regione della Rioja potremmo supporre che sia stato scritto dallo stesso Berceo. La letteratura mariana che narra la vita e i miracoli compiuti dalla Vergine era una tradizione in realtà antichissima e proprio nei pellegrinaggi, proprio questi lunghi cammini, questi codici che appunto contenevano le storie della Vergine, attraverso questi cammini si diffondono enormemente. In particolare, in Spagna, la devozione mariana ha un culto molto più importante che nel resto d’Europa, basta ricordare la processione della Settimana Santa della Pasqua spagnola in cui alla Vergine il popolo lancia complimenti, apprezzamenti come se fosse una donna. Le origini di questo culto mariano che troviamo in questi raccontini sembra che si siano incrociati in area spagnola una serie di tradizioni che sono tutte convogliate verso quest’esaltazione della figura di Maria all’interno della religione invece che alla figura del Cristo e questi sono: la liturgia mozarabe, che era la liturgia che celebravano i cristiani di Al-.Andalus, la Vergine svolgeva una funzione di grande importanza. Alla liturgia mozarabe si assumono poi I Sermoni di Bernardo di Chiaravalle dove il culto mariano è estremamente il più importante e sembrerebbe anche la letteratura cortese, cioè l’importanza di Maria in quanto donna, l’importanza che la donna assume all’interno della letteratura cortese. Non vi è dubbio che la figura di Maria all’interno di questi Sermoni, è una Maria estremamente umanizzata proprio perché serve a questi predicatori per creare una religione di carattere molto più affettivo, per avvicinare il popolino. Il popolino non si avvicina con le speculazioni intellettuali della teologia scolastica e per avvicinarlo si usa Maria come mediatrice cioè il mondo divino e il mondo umano nei suoi caratteri principali di donna, madre e moglie. Nel 1° miracolo di Berceo, avremmo l’idea come questa Maria venga designata da Berceo come una Giunone infuriata perché è stata tradita e quindi è colpita da una violenta gelosia. Lezione 18/11/2019 Il Mester de clerecía da una parte alcuni studiosi propengono per definirla una scuola poetica, altri invece un macrogenere letterario. Qual è la differenza fra queste 2 definizioni? Nel considerarla una scuola poetica, bisogna ammettere che ci fu un centro propulsore ovverosia un luogo dove gli autori delle opere scritte in Mester de clerecía, dove questi autori si formarono ed elaborarono una poetica comune. Ovviamente di questo non si ha alcun tipo di certezza, però, chi propende per considerare il Mester de clerecía una scuola, riconosce come centro propulsore quella famosa Università di Palencia, che è la prima università spagnola, dalla vita molto breve perché fondata intorno al 1212 e già si chiuse nel 1214 per essere trasferita a Valladolid, ma che costituisce il primo nucleo di studi superiori importantissimi per quella che abbiamo definito la rinascita culturale del XIII secolo. Non abbiamo più parlato minimamente di rinascita culturale di centri di studi superiori, di centri di scuole monastiche per il Mester de juglaría perché in quel caso era un tipo di produzione di carattere popolare, orale che si trasmettevano non in una scuola, non in un’accademia, non attraverso lo studio, ma semplicemente oralmente, è una letteratura di carattere folclorico. Dove troviamo questo termine “Mester de clerecía” ? Perché è stato possibile individuare una scuola poetica su questo nome? Su questo nome, successivamente si è coniato il termine di “Mester de juglaría” in contrapposizione. È capitale questa strofa che è la 2° strofa o copla del Libro de Alexandre, che sembrerebbe essere la prima opera scritta con questo metro. Il Mester de clerecía è un metro, molto difficile, complesso, che richiede una grande abilità per chi scrive e tra l’altro si dice che chi ammette che il centro propulsore fosse stato Palencia, si sa che il Libro de Alexandre, la versione francese, circolava già in Spagna da svariati decenni e che nell’Università di Palencia, prima della scuola cattedralizia avesse avuto una sua ragion d’essere. Per cui a partire dal Libro de Alexandre si realizzò la quartina di alessandrini, in rime monorimatiche che fu impiegata da tutti gli autori del Mester de Clerecía. Questa quartina è importantissima, va conosciuta bene in tutte le sue dichiarazioni perché è una sorta di manifesto poetico, qui c’è tutto, questo è il Mester de clerecía tanto per quello che dice quanto per quello che rappresenta. Mester traigo fermoso, non es de joglaría mester es sen pecado, ca es de clereçía; fablar curso rimado por la cuaderna vía, a sílabas contadas, ca es grant maestría Perché lo dividiamo in emistichi? Perché una caratteristica di questo verso è proprio quella di essere una quartina di alessandrini ovverosia di 14 sillabe, ma con una netta cesura a metà. La cesura indica una pausa nella recitazione, una pausa più breve rispetto alla pausa versale. La divisione in emistichi è anche una divisione metrica e adesso vediamo perché. “Mester traigo fermoso” è il 1° emistichio della 2° strofa. Nel Mester de clerecía, i versi vengono nominati ABCD. C’è da parte di questi poeti il vanto di esercitare, di produrre un’arte bella e la qualità di questa bellezza viene specificata nel 2° emistichio della 2° strofa perché non è arte giullaresca e quindi è un’arte senza peccato. “Mester es sen pecado” può essere interpetato in 2 modi diversi: può essere un’arte devota, sacra, religiosa ma in realtà dal punto di vista formale è interpetata come un’arte perfetta, precisa dal punto di vista metrico. In questo senso si contrapporebbe con l’arte giullaresca dove invece ci muoviamo in una dimensione di assoluta irregolarità dal punto di vista formale. Dopodiché dice che “Ca es de clerecía”, è un’arte di clerecía, anche qui la prima traduzione sarebbe l’arte dei chierici e quindi gli uomini di chiesa, ma in realtà i chierici erano in epoca medievale gli studiosi, quelli che studiavano presso i centri monastici, cattedralizi e poi le università come quelle di Palencia. Quindi è un’arte di chi ha studiato, dell’uomo di lettere. Nel 1° emistichio del 2C poi entra nella dimensione più tecnica. “Fablar curso rimado” vuol dire scrivere rispettando il cursus. Il cursus era l’andamento della prosa latina che rispettava una certa prosodia, era un andamento ritmato. “Por la cuaderna vía” la Cuaderna vía è la strofa di 4 versi di alessandrini monorimati. Cuaderna vía, Mester de clerecía o Tetrástrofo monorrimo. Il Mester de clerecía si qualifica nel XIII secolo per utilizzare esclusivamente questo 3° e non altri, nel quale si contano le sillabe. 1° emistichio del verso D “A sílabas contadas” e questo è una cosa difficile, bisogna essere bravi per farlo. Dobbiamo entrare più nello specifico di cosa voglia dire “A sílabas contadas” , semplicemente versi di 14 sillabe, ma per contare queste 14 sillabe bisogna fare riferimento ad alcune regole metriche, in particolare questa: nel Mester de clerecía si rispetta la dialefe, la dialefe è una figura metrica che è il contrario della sinalefe ovverosia, dire che bisogna rispettare la dialefe equivale a dire “Non si può fare sinalefe”. Ovviamente tutto questo va rispettato non soltanto nel contare le sillabe del verso ma anche nel contare le sillabe dell’emistichio, è come se l’emistichio fosse non solo metà verso ma come se funzionasse come un verso a sé. Quindi non si può fare sinalefe fra l’ultima parola del 1° emistichio e la 1° parola del 2° emistichio e quando contiamo le sillabe, tutte le regole dette precedentemente vanno rispettate anche a livello di emistichio. Quali sono le opere che nel XIII secolo noi includiamo nel Mester de clerecía? Sono opere molto diverse, intanto tutta la produzione di questo “Juglar de Díos” che è Gonzalo de Berceo. Quello che sappiamo di lui, lo sappiamo perché ce lo ha detto, perché qua e là, all’interno delle sue opere ci offre alcune delle indicazioni di carattere biografico. Una tendenza del Mester de clerecía è quella di non essere opere anonime al contrario della produzione giullaresca e quindi proprio perché nasce in un ambiente colto, proprio perché si tratta di una produzione raffinata, cominciano a presentarsi le prime dichiarazioni d’autore, “cominciano” perché molte opere risulteranno anonime. Gonzalo de Berceo è uno di quei autori che ricorre a quella strategia che è la Anominatio, strategia inaugurata in ambito cortese dai trovatori, che consiste nel presentare il suo nome all’interno delle sue opere. È una sorta di firma. “Io Gonzalo de Berceo[...]” e qui comincia a narrare i suoi versi. Cosa sappiamo di Gonzalo de Berceo? Sappiamo che probabilmente si formò presso il monastero di San Millán de la Cogolla. Con “Millán” abbiamo detto si intende Sant’Emiliano, un santo locale per la regione della Rioja che possiamo collocare nell’Alto Ebro e nell’Aragona, perché lo riusciamo a collocare così bene geograficamente? Perché tutti i suoi poemi insistono su santi locali. Le opere che scrive sono: la Vida de San Millán de la Cogolla, la Vida de Santo Domingo de Silos, la Vida de Santa Oria, il Martirio de San Lorenzo. È chiaro che lui e la sua produzione insistono su una regione molto specifica e che probabilmente si dice, essendo una regione che viene incontrata lungo il percorso del Camino de Santiago, probabilmente questi poemi nonché I Milagros erano rivolti (una sorta È chiaro come l’acqua di Maria arriva agli uomini. Los milagros de Nuestra Señora. Introducción (pagina 92-95 antologia) Questo testo svolge la funzione di prologo ed è fondamentale per capire l’intenzione dell’autore. Tra le altre cose l’introduzione è molto importante perché anche questa è opera di Berceo come forse quel 25esimo miracolo di cui non si trova la fonte. L’autore della traduzione è stato professore di filologia romanza alla Sapienza, si chiama Giuseppe Tavani, uno dei più grandi maestri di queste discipline. Egli ha cercato di rispettare le condizioni imposte dal Mester de clerecía. Come abbiamo potuto percepire la gradevolezza di questa cantilena, ha questo tipo di prosodia. Berceo si presentava nella piazza, nel sagrato della chiesa recitando questi testi. Quindi quanto più questi testi avevano un incedere cadenzato tanto più irretiscono l’ascoltatore. Si percepisce dalla lettura che è una costruzione molto allegorica. L’introduzione si compone di 46 strofe di cui sostanzialmente le prime 14 e 15 sono costruite intorno ad una allegoria. L’allegoria è una metafora continuata, cioè tante metafore che stanno tutte per le parti di una sola cosa. Adesso vedremo quali sono queste metafore e intorno a quale motivo si muovono. A partire dal verso 16 , il poeta, come spesso succede in epoca medievale, quando si costruiscono testi allegorici, la traduce e dice: “questo simbolo qui vuol dire questo, questo vuol dire quest’altro”. Il verso 14, che è il verso di transizione, spiega quello che ha detto prima, è un’analogia e dice: “Semeja esti prado egual de Paraíso”. Esce fuori dall’allegoria e dice che il prato che ci ha descritto è simile al Paradiso, quindi diremmo sostanzialmente che è il Paradiso perché si compone di tutta una serie di elementi. Invece le strofe 45 e 46 presentano l’intenzione dell’autore, l’autore ci dice che cosa vuole fare e quello che vuole fare. Egli vuole scrivere e presentare al pubblico alcuni miracoli. Il testo comincia con un appello al pubblico, quindi un’apostrofe, cioè si rivolge ad un Tu e questo ci fa capire che il testo era recitato probabilmente. L’apostrofe a che cosa serve? Essa serve in un contesto orale ad avvicinare il pubblico “amici e vassalli” , è una tecnica fortemente di ambito giullaresco. Effettivamente Berceo pur operando in campo erudito, utilizza molte delle risorse di tipo giullaresco, una di questo è appunto l’appello all’oditorio che non avviene soltanto all’altezza della 1° strofa, ma se vedessimo bene, la strofa 16 che è la strofa dalla quale prende il via la traduzione minuziosa dell’allegoria, è di nuovo un richiamo a chi ascolta. La strofa 16 dice infatti “Señores e amigos” di nuovo c’è questo continuo. Se uscissimo dalle definizioni retoriche, diremmo che queste espressioni “Amigos e vasallos” e “Señores e amigos” svolgono una funzione fatica, cioè non vogliono dire niente, vogliono soltanto richiamare l’attenzione. Nella 2° strofa avviene esattamente quello che abbiamo annunciato precedentemente: Presentazione e Autonominatio dell’autore che si definisce maestro. C’è questo bell’esordio dell’Io in posizione iniziale del 1° verso, sembrerebbe un’enunciazione di carattere fortemente autobiografico, poi capiremo in realtà che non è così perché quell’ “Io” è detto in quanto “Io peccatore” e quindi uguale a voi. Per la 1° ed ultima volta si definisce maestro e qui i critici si sono chieste che cosa volesse dire questo termine, soprattutto se “Maestro” potesse essere una qualifica o un titolo d’istruzione, quindi lui si definisce maestro perché ha concluso gli studi superiori e magari come dicono alcuni abbia studiato proprio a quella famosa Università di Palencia. Ovviamente questo non lo sappiamo seppure deduciamo dalla modalità dei suoi scritti che è un uomo colto, intanto legge in latino e lo traduce anche se si dichiara ignorante, però c’è anche chi afferma che questo “Maestro” potesse essere soltanto maestro di confessione e quindi una duplice significazione. Quindi esordisce con questo “Yo” moderno, ma subito dopo dice “Andando in pellegrinaggio” e qui Berceo impiega uno dei più grandi Topos della letteratura medievale ovverosia l’uomo come un pellegrino. L’uomo come pellegrino, stereotipo/cliché che in latino si esprime con l’espressione l’Homo viator, l’uomo pellegrino in questa terra e alla ricerca di un cammino di salvezza, è in questo senso pellegrino. Potremmo anche dire che la parola “Pellegrino” voglia dire “Peccatore”. Quindi la vita considerata Peregrinatio Vitae e il peccatore considerato Homo viator cioè un viandante. Fra le altre cose, questo esordio non è molto diverso da quello di Dante Alighieri nella Divina Commedia. Anche Dante nella Divina Commedia, apriva la 1° cantica parlando di sé, non esplicitava così bene l’io ma diceva che “Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura” soltanto che Dante questo cammino lo inizia nell’Inferno e la differenza è che la religione di Gonzalo era una religione gioiosa, bella e leggera e quindi questo pellegrino il suo cammino lo fa invece nel Giardino delle delizie e non tra i fuochi infernali. Al verso 2 della 2° strofa dice che “Andando in pellegrinaggio dice che si è imbattuto in un prato” e comincia a descrivere le qualità di questo prato e questo giardino lo riconosciamo come una trasposizione del Locus Amoenus. Come sappiamo il Locus Amoenus, in epoca medievale era sempre un giardino con fiori, verzura, fresco, fontane, frutta, a quanto di meglio si possa aspirare. Nella 3° strofa dice che “Intenso era il profumo dei fiori ben fragranti” e poi in ogni angolo sgorgavano acqua limpida e corrente. Siccome dice “In ogni angolo” dobbiamo immaginarci 4 sorgenti di acqua cristallina. Quindi un prato, dei fiori, 4 sorgenti di acqua cristallina. Nella 4° strofa oltre a quanto detto precedentemente c’è anche una grande quantità di alberi da frutto: melograni, fichi, peri, meleti e dopo ci dirà che questi frutti sono tutti ben maturi e saporiti. La 5° strofa riassume tutte queste metafore di questa più ampia e distesa allegoria perché parla della verdura del prato, il profumo dei fiori, l’ombra degli alberi dai soavi sapori. Quindi il pellegrino arriva affaticato in quel prato e grazie a tutto questo si asciuga il sudore e si ricrea. Nelle strofe successive quello che farà è tradurre appunto dal punto di vista allegorico ognuna di queste metafore. Dobbiamo chiamare metafore e non simboli perché il simbolo è soggetto a tante interpretazioni mentre la metafora è invece una ad una. Che cos’è il prato? Ce lo dice nella 19° strofa, il prato in questo giardino delle delizie è la Vergine e perché il prato è la Vergine? Il prato è la Vergine perché è di colore verde e il colore verde indica a livello simbolico-metaforico la Verginità anche per una certa paranomasia dei 2 nomi, un certo gioco di parole. Noi sappiamo che la Verginità della Vergine è un dogma e lo sa bene Berceo che dice “Post partum et in partu” ripropone la definizione che indica. La Vergine concepisce in modo immacolato tanto che noi la chiamiamo l’Immacolata Concezione per questo. Quindi il prato è la Vergine. Che cosa sono le fonti di acqua cristallina? Intanto queste fonti sono 4 e stanno ad indicare i 4 Vangeli. Nella Genesi, infatti, nel 2° versetto della Genesi si parla che nel Paradiso sono presenti nei 4 estremi 4 fiumi, questi 4 fiumi stanno a indicare questi 4 Vangeli dei 4 Apostoli nel Nuovo Testamento. Nella 23°esima strofa che cosa sono gli alberi e che cosa è l’ombra degli alberi sotto la quale il pellegrino affaticato si ricrea? L’ombra degli alberi sono le preghiere che il devoto rivolge alla Vergine e questo è un elemento importante in questa concezione religiosa di Berceo perché la devozione è forse l’unica attività che il peccatore deve fare per salvarsi. Le ombre sono le preghiere. E che cosa sono gli alberi? Gli alberi sono proprio i miracoli. Nella 45° e 46°esima strofa chiude dicendo che lui vuole salire su un ramo di quegli alberi e cominciare a raccontare alcuni di quei miracoli, chiudendo il prologo con quello che farà a seguire. Le nozze e la Vergine (Pagina 97-101 dell’antologia) In Berceo, in particolare la Mariologia sfiora abbastanza l’ortodossia, nel senso che nel rappresentare la Madonna , Berceo forza anche un po’ la mano. Certamente si basa su una fonte latina , ma diciamo anche quella di Berceo non è completamente una traduzione, ma è piuttosto un volgarizzamento. Il volgarizzamento è la traduzione dal latino al volgare, che però è basata più su una tecnica Absentium che non Abverba, non si traduceva parola per parola ma si coglieva il senso dell’espressione e questo senso si trasponeva nella lingua romanza ed effettivamente Berceo traduce proprio in questo senso. Infatti i miracoli latini sui quali si basa sono molto stregati, molto essenziali quasi aneddotici, invece Berceo amplia il racconto, approfondisce moltissimo le caratteristiche psicologiche e umane della Vergine e dei peccatori e costruisce anche contesti di più ampio respiro e la Vergine appunto si umanizza a tal punto in questo racconto da diventare quasi una Giunone furiosa perché si sente tradita dal suo devoto. Lo schema dei miracoli è sempre lo stesso: un peccatore, una crisi o perché ha commesso un peccato o perché è stato smascherato. Questo stesso peccatore devoto alla Vergine basta che congiunge le mani pensa alla Madonna, non che si penta, non è mai presente il pentimento in questi miracoli per questo si parla non di redenzione cioè di consapevolezza dei propri peccati di espiazione dei peccati, non è necessario espiare assolutamente nulla, ma è semplicemente una salvazione. Il peccatore si inginocchia e prega, gli riviene in mente la Madonna e la Madonna lo salva. Quindi è un mondo riparato, Humani generi reparatrix  la definizione della Madonna nell’ambito della liturgia visigotica. La Madonna interviene e ripara il tutto e lo salva. All’interno dei miracoli, a volte, è presente anche il conflitto fra il bene e il male, nel senso che, prima di salvare intervengono dei diavoli che cercano di portare a sé l’anima, ma è una partita persa perché in ognuno di questi confronti fra il bene e il male sarà sempre il bene a vincere e il male a soccombere. Quindi quello di Berceo è un mondo dove appunto il male sostanzialmente non esiste. Le strofe 330-331-332 riguardano il momento introduttivo, successivamente inizierà la crisi. Cosa succede nelle strofe 333-334 ? Succede che c’è questo canonico, il canonico di San Cassiano molto devoto alla Vergine. Quando però, muoiono i suoi genitori e siccome gli lasciano un’eredità molto ricca, dei grandi beni, i suoi parenti insistono perché lui si sposi e quindi pensi alla sua discendenza dimenticando la Madonna. Nella strofa 335 decide di sposarsi. Nelle strofe successive , San Cassiano si lascia allettare dalla ricchezza, dal trasporto dei sensi, decide di sposarsi, ma mentre sta per andare a prendere la sua nuova sposa, gli sovviene la Vergine e prova una gran paura. Nell’11°esima strofa, la Vergine gli appare e lo maltratta, questo è un passaggio importante perché ci si rende conto come la religione venga assolutamente trattata in un modo così accessibile da fare ricorso anche a un linguaggio popolare, popolaresco, triviale e colloquiale. circostanze biografiche lo farebbero assomigliare a questo arciprete. Quindi Alcalá de Henares o Alcalá la Real. In realtà, quello che sappiamo, perché ce lo dice appunto, è che fu arciprete ad Hita. Arciprete è una carica ecclesiastica, oggi diremmo più semplicemente un parrocco. L’arciprete può essere anche il sacerdote più anziano all’interno di una parrocchia e può svolgere funzioni vicarie rispetto a quella del vescovo. È certamente un uomo di chiesa e questo ce lo dice di nuovo all’interno dell’opera. Nella copla 19 , a cavallo fra i versi B e C dice: Porque de todo bien es eomienco e raíz la Virgen Santa María, por ende yo, Juan Ruiz acipreste de Fita, d'ella primero fiz’ cantar de los sus gozos siete, que ansí diz'. di nuovo nella strofa 575 ci dice: Yo Juan Ruiz, el sobredicho açipreste de Hita Pero que mi coraçon de trobar non se quita Nunca fallé tal dueña como a vos Amor pinta, Ni creo que la falle en toda esta cohita. Intanto dove si trova Hita? si trova in quella regione spagnola che in epoca medievale si chiamava Castilla la Nueva e che invece oggi si chiama Castilla la Mancha e si trova in provincia di Guadalajara. Quando visse el Arcipreste de Hita? Vissa nel XIV secolo certamente, forse nacque nel 1280 e morì intorno al 1350. In questa data 1350 è stata ipotizzata perché nel 1351 era Arcipreste de Hita un certo Pedro Fernández e quindi dobbiamo supporre un arco biografico precedente. Che cosa succede però? Quando si è andati a cercare nelle parrocchie, nelle chiese e nei monasteri circostanti, chiarimenti su questa figura si è visto come di Juan Ruiz Arcipreste de Hita ce ne fosse più di uno e quindi questo ha preso in modo curioso questa dichiarazione, nominatio di paternità, anche perché si è pensato che essendo Juan Ruiz un nome ricorrente all’interno di quella carica, cioè varie persone avevano assunto la carica di arcipretato di Hita che si trattasse un po’ di quei nomi che indicassero la funzione, questa dimensione di antonomasia e quindi che Juan Ruiz potesse essere un nome generico che indicasse la funzione di arciprete e che quindi l’autore del Libro de Buen Amor avesse scelto questo nome proprio perché frequente in questa carica. Quindi si apre un enorme dettaglio di ipotesi che è bene che si conosca per avvicinarsi correttamente al libro. Ci dice ad un certo punto, all’inizio dell’opera, nelle prime 10 coplas che si trova in prigione (su quest’elemento tornerà) e prega al Signore affinché lo liberi. La 1° strofa recita così: Señor Dios, que a los jodíos, pueblo de perdiçión saqueste de cabtivo del poder de Fa[raón], a Daniel saqueste del poco de Babilón: saca a mí coitado d'esta mala presión. Gli dice al Signore che ne ha salvati tanti: gli ebrei, San Daniele, salva anche me da questa prigione. Non possiamo sapere in quale prigione si trovasse, quale reato avesse commesso, ma soprattutto non sappiamo se leggere questa prigione come un fatto biografico concreto o uno stereotipo molto frequente nei prologhi in cui gli autori parlano di una prigionia, per esempio: Cervantes che dice di aver scritto il Don Chisciotte nelle prigioni di Algeri, anche lì fu veramente imprigionato. La prigione potremmo considerarla una metafora perché così ricorrente e perché il motivo del corpo come prigione dell’anima è molto antico , è di ascendenza orfica. Quindi questo dire “Sono nella prigione, salvami tu” potrebbe essere una richiesta di essere salvato dalla prigione del peccato in cui versa o dalla sofferenze della natura umana. Ultimo elemento, all’interno del Libro de Buen Amor è presente una descrizione fisica di questo signore che si trova a pagina 111 dell’antologia in nota, dove l’arciprete si fa descrivere di nuovo dalla Trottaconventi, la Trottaconventi va dalle signore del posto e gli fa pubblicità. La Trottaconventi recita così: «Señora», diz' la vieja: «yo le veo a menudo: el cuerpo a muy grant, mienbros largos, trefudo, la cabeça non chica, velloso, pescuçudo, el cuello non muy luengo, cabel' prieto, orejudo. »Las çejas apartadas, prietas como carbón, el su andar infiesto, bien como de pavón, el paso segurado e de buena rasón, la su nariz es luenga, esto le desconpón, »Las encías bermejas e la fabla tunbal, la boca non pequena, labros al comunal, más gordos que delgados, bermejos como coral, las espaldas byen grandes, las muñecas atal. »Los ojos ha pequeños, es un poquillo baço, los pechos delanteros, bien trefudo el braço, bien cunplidas las piernas; el pie, chico pedaço; señora, dél non vy más: por su amor vos abraço. Ovviamente la descrizione è una descrizione che fa l’occhiolino alla dama, ma anche qui ritroviamo che queste caratteristiche: robusto, massiccio, sopracciglia folte, naso considerevole, ecc ecc. In realtà corrispondono nelle letterature medievali, nella letteratura erotica, all’immagine, allo stereotipo del buon amante, buon amatore e quindi anche qui ci muoviamo fra una descrizione reale e invece una descrizione che rimanda a dei cliché. Questo succederà sempre per la maggior parte dei testi che studiamo, ci capiterà anche nella Celestina. Parliamo un po’ della storia editoriale di questo testo. Possediamo 3 codici, 3 manoscritti. Come noi sappiamo, i manoscritti si nominano con delle sigle. Queste sigle derivano o dalle iniziali della città in cui questo manoscritto si trova o è stato trovato oppure le iniziali del cognome del proprietario. Nel caso del Libro de Buen Amor, questi manoscritti si chiamano GTS e sono molto diversi. L’ultimo di manoscritto S, e con S si intende Salamanca, perché è un manoscritto che si trovava nel Colegio San Bartolomé di Salamanca, oggi si trova ancora a Salamanca , ma ha cambiato biblioteca. Questo è il manoscritto più completo ed è il manoscritto su cui si fondono la maggior parte delle edizioni ed è composto appunto da questi 1736 versi. Questo manoscritto è copia di un codice del 1343 , quindi siamo nel XIV secolo. Poi ci sono i manoscritti G e T. G è il proprietario appartenuto a suo tempo a Benito Martínez Gayoso e il manoscritto T appartenuto alla Cattedrale di Toledo. Questi 2 manoscritti non identici, sono anch’essi copia di 2 codici precedenti datati questa volta 1330. I 2 manoscritti G e T sono molto diversi dal manoscritto S perché sostanzialmente contengono soltanto un terzo dell’opera. Si potrebbero fare 2 tipi di riflessioni: si potrebbe dire che tutti e 3 i manoscritti derivino da un archetipo, da un originale per vie diverse, ma si potrebbe dire invece, come ipotesi maggioritaria che invece G e T appartengono a una redazione, una stesura e che invece S ha un’altra redazione, cioè sostanzialmente che l’autore Juan Ruiz abbia fatto 2 redazioni della stessa opera. Come ci spieghiamo la grande differenza di metri? All’interno del Libro de Buen Amor assistiamo a un fatto molto curioso che non è stato ancora possibile spiegare e cioè che uno stesso racconto perché come abbiamo detto, si parla di un’opera miscellanea che quindi mette insieme tanti testi diversi. Questi testi sono apologhi, con una storia che li raccoglie tutti, ma i testi e le riflessioni presenti costituiscono appunto apologhi, favole, digressioni erudite, cantigas. Il meccanismo curioso che abbiamo solo in questo libro è che l’autore una volta racconta la storia in Cuaderna vía e quindi in metri lunghi e subito dopo la racconta di nuovo in versi di Arte menor. Quindi la storia è reduplicata. Una volta in versi lunghi e una volta in versi corti e la cosa altrettanto curiosa è che non tutti i racconti presenti hanno questa “doppia formulazione”, alcuni sì e altri no. Ovviamente potremmo pensare, partendo da questa constatazione , che anche il manoscritto S non sia completo e che quindi Juan Ruiz avesse l’intenzione di completarlo. Potremmo però anche supporre che alcuni dei testi andarono perduti e certamente che sia la 1° ipotesi o che sia la 2°, il testo si presenta in un modo molto speciale e molto particolare e sotto questo aspetto come anche sotto altri aspetti, è un po’ un Unicum nella letteratura. Quindi è un’opera miscellanea, sono presenti tante narrazioni, storie incarnate da animali, favole, parabole bibliche, insomma tanti testi, però, con un filo conduttore. Questo filo conduttore è rappresentato proprio dal “Yo Juan Ruiz, Arcipreste de Hita” è il personaggio che si muove all’interno dell’opera, questa tecnica di narrazione si chiama tecnica a schiglionata. Noi sappiamo perfettamente che quando leggiamo una miscellanea di racconti, la struttura è a cornice (vedi il Decameron) cioè una cornice che tiene insieme tutti i racconti che ci sono dentro, poi c’è un’altra modalità di tenere insieme una serie di storie presenti qui e poi vedremo che si ripeterà nel Lazarillo de Tormes, è quando l’unità viene data dal protagonista. Egli è un protagonista che si muove, si dice a schiglionata o a infilzamento, bisogna immaginare delle storie infilzate una dopo l’altra su un unico filo che è quello del personaggio, che non è che le protagonizza tutte, in una serie di vicende le racconta o a lui vengono raccontate, oppure fanno riferimento a lui e alla sua biografia, in questo senso è lui il filo conduttore, però possiamo dire anche che una certa trama c’è. Quindi questa storia è la storia di un arciprete che si chiama Juan Ruiz e che è molto soggetto all’innamoramento e delle sue 14 avventure amorose. Queste avventure amorose riguardano una costellazione di modelli femminili, di rappresentazioni del gentil sesso che per certi versi è anche una rappresentazione al femminile della società. Queste 14 avventure amorose sono: I avventura: la gentildonna II avventura: la fornaia Cruz III avventura: la donna onesta IV avventura: Melón e Endrina (Trottaconventi) Noi diremmo, alla luce della più moderna semiotica, che per Juan Ruiz il messaggio è per sua natura polisemico, possiamo leggerlo in un modo o nell’altro e per far capire bene questo, leggiamo uno dei testi presenti nell’opera. L’opera si compone di queste 14 avventure e di una serie di materiale paratestuale, una serie di documenti che vengono posti prima, quindi: una preghiera, un prologo in prosa, un prologo in versi e ad un certo punto c’è un aneddoto. Questo aneddoto si intitola La disputa fra i Greci e i Romani e vediamo come questa disputa ce la racconta proprio per farci capire che le cose possiamo leggerle in molti modi, ma comunque le leggiamo o le interpretiamo vanno bene, si lascia al lettore la responsabilità di decidere in che direzione leggere la sua opera. Libro de buen amor, prologo (pagina 116 dell’antologia) Disputa fra Greci e Romani Esso non è un testo originale, ma si basa su una fonte scritta in latino di un grande giurista che si chiama Accursio, tra l’altro italiano, uno scrittore del ‘200, non molto notò ma Juan Ruiz scrivendo la sua disputa lo ha reso famoso. Qual è questa storia? La storia è che i Romani vogliono avere anche loro delle leggi e chiedono queste leggi ai Greci, il popolo più antico e maturo. Però i Greci, siccome non parlano la stessa lingua, prima di lasciar loro le leggi, vogliono capire se il popolo dei Romani se le merita, se hanno le capacità morali per farne un buon uso. E quindi c’è una disputa fra un loro rappresentante, un saggio greco e un rappresentante dei Romani. Se questo confronto andrà a buon fine, cioè se il Romano dimostrerà di essere all’altezza, loro daranno le loro leggi a Roma. Lo leggiamo a partire dalla strofa 47. Nel verso 47 vedono i romani inferiori culturalmente e che siano incapaci di intendere le loro leggi. Nel verso 48 chiedono la disputa, il confronto. Nel verso 49 i Romani dicono che accettano il confronto, ma siccome non capiscono la lingua dei Greci, parleranno a gesti. Nel verso 52 vanno da un omaccione romano che chiamano ribaldo e gli chiedono di aiutar loro a uscire da quest’impiccio. Nei versi 53, 55, e 56 si fanno i gesti. Nei versi 57-58-59-60 qui è quello che interpeta il Greco. Nei versi 61-62 avevano la credenza nella Trinità ma il suo gesto diceva ben altro. Nei versi 62-63 si parlano, si fraintendono completamente, ma i Greci pensano che abbiano capito e quindi danno loro le leggi. Tutta questa storia finisce con il verso 64 dove ci dice appunto che noi siamo autorizzati a leggere le cose come vogliamo e questo sta nella polisemia dei testi. Si rimette alla volontà del lettore. Il genere della serranilla, sappiamo bene che nella lirica provenzale, esiste un genere molto famoso di trasposizione dell’amor cortese e questo genere è quello che va sotto il nome della Pastorella. Le pastorelle provenzali sono famosissime. Che cosa raccontano le pastorelle? Le pastorelle raccontano, in genere succede questo: in un bel giardino, Locus amoenus si trova una bella pastora, passa di lì un cavaliere, la vede e se ne invaghisce, si dichiara e alla sua dichiarazione, dopo una schermaglia amorosa, segue molto spesso il diniego della fanciulla, la fanciulla dice no, in genere dice no perché ha già un amico, altre volte dice no perché tutela il suo onore, altra volte ci sono pastorelle in cui nonostante il no della pastora, il cavaliere le forza. Ma il contesto è un contesto bucolico, è sempre primavera, la pastora è sempre bellissima. C’è questo confronto di classi in cui tuttavia, il mondo agreste viene vitalizzato tanto che questa pastora, ha tutte le caratteristiche della gentil dama. Le pastorelle in Spagna, forse anche a causa di una geografia più impervia, si trasformano in serranillas. Non sono pastore, ma sono serranas, cioè abitano la sierra e le montagne. Nella letteratura spagnola e portoghese, abbiamo tante serranillas di carattere tuttavia serio. Ma abbiamo anche serranillas di carattere goliardico e burlesco, tutte quelle caratteristiche dette precedentemente si capolvolgono così. Intanto, non ci troviamo più in un Locus amoenus poiché il clima è più rigido e invernale, ci troviamo nella sierra e il fatto che ci troviamo in una zona impervia e in un clima rigido determina le sofferenze di questo cavaliere, in questo caso le sofferenze sono dell’arciprete che si arrampica su queste montagne fredde e piene di neve. È una totale contraffazione del genere cortese, è una riscrittura assolutamente parodica. Dopodiché i 2 personaggi si scambiano i ruoli. Nella pastorella e nelle serranillas cortesi è il cavaliere che fa le offerte alla sua dama e la dama spesso si nega. In questo caso abbiamo delle donne forti, robuste e anche molto attive che invece incalzano anche sesssualmente l’arciprete, quindi c’è un totale scambio di ruoli e l’arciprete, in alcuni casi, è costretto, a congedersi. Dopo c’è una totale riscrittura dei canoni della Descriptio pulchritudinis, della descrizione della bellezza perché noi ci troviamo di fronte a montanare molto mascoline, fortissime (addirittura una si mette l’arciprete sulle spalle e se lo porta via), virili, rudi, non solo nel fisico ed estremamente aggressive e anche dotate di un appettito sessuale decisamente considerevole. Cantiga de serrana (pagina 122 antologia) Esso è un testo scritto in versi ottosillabi. Queste montanare nelle diverse serranillas, compaiono sempre come guardiani di valichi di montagna.
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