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Appunti medicina interna, Appunti di Medicina Interna

Appunti medicina interna per infermieristica

Tipologia: Appunti

2019/2020

Caricato il 18/04/2020

marika-ruggiero-1
marika-ruggiero-1 🇮🇹

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Scarica Appunti medicina interna e più Appunti in PDF di Medicina Interna solo su Docsity! MEDICINA INTERNA DIABETE Il glucosio è normalmente presente nel sangue e rappresenta la nostra principale forma di energia per i muscoli ed altri organi. Per il cervello è addirittura l'unica fonte di energia. Le altre fonti energetiche sono le proteine e i grassi. Il glucosio è fornito dall'alimentazione al momento dei pasti. L'utilizzazione di questo "carburante" è possibile solo in presenza di Insulina. L'Insulina è un ormone prodotto dal pancreas, esattamente dalle cellule beta delle isole di Langerhans. L'insulina ha molte funzioni, una di queste è quella di trasportare i carboidrati ai tessuti. L'insulina quindi promuove il trasporto del glucosio all'interno delle cellule dove questo viene utilizzato od immagazzinato. Ad esempio, l'insulina trasporta all'interno delle cellule muscolari il glucosio, che viene utilizzato durante l'esercizio fisico intenso. L'insulina non agisce solo sul metabolismo dei glucidi ma agisce anche sul metabolismo delle proteine e dei grassi. Durante i pasti il glucosio assorbito e riversato nella circolazione sanguigna provoca un rialzo della glicemia, il pancreas secerne una quantità di insulina sufficiente a determinare una rapida assunzione, immagazzinamento o utilizzazione del glucosio da parte di quasi tutti i tessuti dell'organismo, ma specialmente del fegato, dei muscoli e del tessuto adiposo. La glicemia viene quindi riportata a valori normali( 80-100 mg/dl). Il fegato immagazzina circa il 60% del glucosio presente nel pasto per reimmetterlo nel sangue in condizioni di bisogno: digiuno, attività fisica intensa, situazioni di stress. Il diabete mellito è una malattia multifattoriale caratterizzata da molteplici alterazioni del metabolismo che inducono iperglicemia ed al cui sviluppo concorrono sia fattori genetici che ambientali. Nel diabete la glicemia sale, una parte dello zucchero in eccesso viene eliminato dal rene con le urine, si ha cioè glicosuria. La glicemia però non si alza solo dopo i pasti, ma anche durante il giorno perché viene prodotto glucosio dal fegato. Nel diabete perciò si ha un rialzo della glicemia postprandiale ma anche della glicemia a digiuno. L'iperglicemia può provocare danni praticamente a tutti i tessuti. CLASSIFICAZIONE L’AmericanDiabetesAssociation ha identificato due diversi tipi di diabete: il diabete mellito di tipo 1 (DM1) e di tipo 2 (DM2), in aggiunta ad altri tipi specifici di diabete tra cui quello gestazionale (GDM) ed altre forme più rare. VALORI SOGLIA PER LA DIAGNOSI DI DIABETE:  Glicemia a digiuno (FPG) ≥ 126 mg/dL  Glicemia alla 2a ora dopo carico orale con 75g di glucosio (OGTT) ≥ 200mg/dL  Glicemia non a digiuno ≥ 200 mg/dL in presenza di sintomatologia clinica caratteristica (poliuria, calo ponderale associato a glicosuria e chetonuria). DIABETE MELLITO TIPO 1 Il Diabete di tipo 1 (o insulino-dipendente , IDDM) è caratterizzato dalla distruzione delle cellule beta di Langerhans pancreatiche che producono insulina. Sono stati individuati più fattori che contribuiscono alla sua comparsa: 1 - fattori genetici , cioè ereditati nella nostra costituzione 2 - fattori immunitari, cioè legati ad una particolare difesa del nostro organismo contro le infezioni 3 - fattori ambientali, che dipendono dall'azione contro il nostro organismo di batteri, virus, sostanze chimiche. I dati attualmente disponibili indicano che la distruzione delle cellule pancreatiche avviene in soggetti geneticamente suscettibili. Tale suscettibilità è sicuramente poligenica, cioè coinvolge più geni del codice genetico. La distruzione avviene per un meccanismo autoimmune. Un evento precipitante di natura ambientale (virus, tossine, ecc) inizia il processo autoimmune, cioè vengono formati anticorpi contro le cellule pancreatiche. Si dice che l'organismo ha perso la tolleranza immunitaria nei confronti delle cellule pancreatiche, produce quindi autoanticorpi , cioè cellule di "autodistruzione". Ha un’incidenza in età compresa tra i 5 e i 15 anni , successivamente si ha una drastica riduzione del rischio, ma mai completamente, così la malattia può manifestarsi anche in età adulta che in questi casi viene denominata LADA= Late AutommuneDiabetes in Adults ossia Diabete Autoimmune dell’Adulto. Diabete Mellito di tipo 1, viene suddiviso in:  Diabete Mellito Autoimmune E' causato dalla distruzione delle cellule pancreatiche ad opera di autoanticorpi. Questi si trovano in più del 90% dei pazienti al momento della diagnosi. Picco d'esordio è durante l'infanzia e l'adolescenza, ma nella maggior parte dei pazienti compare entri i 30 anni.  Diabete Mellito Idiopatico E' una forma rara, presente negli afro-americani, si riferisce alle forme di Diabete di tipo 1 caratterizzate da ridotta riserva insulinica, ma residua risposta ai test di sensibilità all'insulina. SINTOMATOLOGIA CLINICA Generalmente il diabete di tipo 1 ha un esordio acuto, spesso in relazione a un episodio febbrile che si manifesta clinicamente con sete (polidipsia), diuresi aumentata (poliuria), stanchezza (astenia), perdita di peso, polifagia, nausea, vomito, dolore addominale, disidratazione, alito acetonemico, respiro di Kussmaul ( tachipnea con respiro profondo). La contemporanea presenza di questi sintomi costituisce il quadro clinico definito come chetoacidosi diabetica. DIAGNOSI DI LABORATORIO - Glicemia > 200 mg/dL - Glicosuria e chetonuria - pH arterioso < 7,35 - pO2 normale e pCO2 ridotta - Peptide-C plasmatico e nelle urine delle 24 ore basso o indosabile - Markers autoimmunitari TERAPIA Il diabete mellito tipo 1 necessita trattamento insulinico intensivo. Il miglior controllo glico-metabolico può ottenersi con multiple somministrazioni sottocutanee di insulina giornaliere. La terapia è multiniettiva caratterizzata da tre somministrazione preprandiali di insulina (analogo ultrarapido o insulina regolare umana) e da una iniezione di insulina ad azione intermedia o lenta. DIABETE MELLITO TIPO 2 Il Diabete di tipo 2 (diabete mellito non insulino-dipendente , NIDDM) è caratterizzato da una residua secrezione insulinica che però è inadeguata al fabbisogno dell'organismo; esiste inoltre una resistenza dei tessuti corporei all'azione dell'insulina ancora prodotta dal pancreas. In questo caso sono più importanti i fattori genetici, acquisiti ed ambientali. La predisposizione genetica necessita del concorso dei fattori acquisiti ed ambientali per manifestare la malattia. Per fattori acquisiti si intende: età, dieta, sovrappeso e obesità, distribuzione centrale del grasso, dislipidemia, stress, farmaci, abuso di alcool, ridotta attività fisica, modernizzazione dello stile di vita, meccanizzazione, urbanizzazione. MONITORAGGIO Esami ematochimici:  Glicemia seriata con tecniche di monitoraggio capillare;  Glicosuria e chetonuria;  Emoglobina glicata (HbA1c);  Assetto lipidico;  Microalbuminuria; Esami strumentali  Visita cardiologica ed ECG  Visita oculistica per fundus oculi;  EMG DIABETE GESTAZIONALE Tra le altre forme di diabete va annoverato il diabete gestazionale (GDM), definito come iperglicemia di variabile grado e severità con inizio o primo riscontro durante la gravidanza. Tutte le donne gravide devono eseguire durante la 24 - 28 settimana di gravidanza un carico orale di glucosio di 50 grammi, seguito a distanza di un'ora dalla determinazione della glicemia. Il test può essere eseguito in qualsiasi momento dalla giornata, indipendentemente dai pasti. Se la glicemia è maggiore o uguale a 200 mg/dl si dovrà eseguire un test di tolleranza al glucosio orale da 100 grammi, con tre misurazioni a distanza di un'ora l'una dall'altra. Il trattamento raccomandato è la terapia insulinica associata ad un regime dietetico controllato. SINDROMI IPOGLICEMICHE La sindrome ipoglicemica è definita da una triade (detta di Whipple) che comprende sintomi e segni di ipoglicemia: riduzione delle concentrazioni plasmatiche di glucosio, scomparsa di sintomi con l’ingestione di zuccheri. La crisi ipoglicemica si presenta con: cefalea e vertigine, tremore, agitazione, eccessiva irritabilità, difficoltà nella concentrazione, pelle pallida, fredda sudata, svenimento, convulsione, sino al coma (la conseguenza più grave delle crisi ipoglicemica). L’ipoglicemia è caratterizzata da livelli di glucosio plasmatico inferiori a 70 mg/dL in presenza di sintomatologia clinica specifica. Si definiscono tre gradi di ipoglicemia: 1. Lieve: sono presenti solamente sintomi autonomici (tremori, palpitazione, sudorazione e fame) determinati dal rilascio di ormoni contro regolatori (catecolamine, cortisolo, GH); 2. Moderato: in aggiunta ai sintomi autonomici si ha la comparsa di sintomi neuroglicopenici (debolezza, disturbi della visione, irritabilità, sonnolenza, confusione, sviluppo di crisi comiziali fino al coma); 3. Grave: l’individuo presenta uno stato di coscienza alterato e necessita dell’intervento di terzi. PRIMO SOCCORSO: se il soggetto è cosciente somministrare zucchero, miele o bevande zuccherate. Se il soggetto è incosciente evitare di somministrare liquidi, porre soltanto qualche pizzico di zucchero sotto la lingua.Chiamare il 118.Se respira, posizionarlo in posizione laterale di sicurezza. APPENDICE: PROBLEMATICHE ASSISTENZIALI INFERMIERISTICHE OGTT esecuzione curva da carico orale di glucosio: 1. eseguire prelievo per glicemia al tempo 0; 2. preparare un flacone di soluzione glucosata (50gr-75gr-100gr di glucosio) in 300 mL di acqua; 3. somministrare al paziente per os il preparato; 4. eseguire prelievi seriati per glicemia ai diversi tempi secondo la necessità diagnostica. SMBG automonitoraggio glicemico, si riferisce alla misurazione delle glicemie capillari effettuata dal paziente diabetico o dai suoi familiari attraverso l’utilizzo dei glucometri: 1. disinfettare la cute del polpastrello 2. prelevare un piccolo campione di sangue pungendo lateralmente l’estremità del dito, mediante pungidito; 3. posizionare il sangue sull’apposita striscia reattiva; 4. verificare il valore glicemico sul display del glucomentro; 5. trascrizione del valore sull’apposito diario glicemico; Il numero delle misurazioni è da definire in base all’obiettivo metabolico e al tipo di terapia in atto: se il paziente è in trattamento insulinico intensivo la misurazione si effettua prima di ogni somministrazione di insulina; se, invece, il paziente è in terapia ipoglicemizzante orale la misurazione si effettua 1-3 volte a settimana secondo schema a scacchiera ( valutazione pre e post-prandiale ai 3 pasti principali, a rotazione). GESTIONE DEL PIEDE DIABETICO Il personale infermieristico ha un ruolo fondamentale nell’educazione del paziente alla prevenzione e alla cura del piede diabetico. È opportuno istruire il paziente ad una attenta valutazione di: - Calzature: devono essere larghe, con punta arrotondata, comode e con tacco basso, senza cuciture interne, con pianta di appoggio in cuoio, inoltre devono essere cambiate spesso per evitare la pressione sempre sugli stessi punti, è consigliato non utilizzare sandali o camminare a piedi nubi in quanto è aumentato il rischio di ferite. - Calze: se i piedi sono freddi utilizzare calze di lana, evitare di scaldarli con fonti dirette di calore, evitare l’uso di elastici stretti. - Igiene dei piedi: eseguire quotidianamente un’accurata osservazione, igiene e pulizia della cute e delle unghie, effettuare pediluvi brevi, quotidiani, con acqua tiepida e sapore a ph fisiologico, asciugando bene gli spazi interdigitali. Non tagliare le unghie troppo corte. Se la pelle è secca utilizzare una crema idratante, se umida un talco. Non usare e pulire la cute con alcool e disinfettanti. Eseguire un periodico controllo della sensibilità tattile (tramite batuffolo di cotone), termica e dolorifica (puntura di spillo),vibratoria (diapason) e inoltre i riflessi osteotendinei del piede. ALTERAZIONE DEL METABOLISMO DEI LIPIDI Le dislipidemie sono malattie metaboliche dovute a disordini del trasporto dei lipidi plasmatici. I lipidi plasmatici (trigliceridi, colesterolo libero ed esterificato, fosfolipidi) hanno scarsa idrosolubilità e circolano sottoforma di lipoproteine. Nei soggetti normali si riconoscono 5 classi di lipoproteine: 1) chilomicroni (presenti solo nella fase post-prandiale); 2) lipoproteine a densità molto bassa VLDL; 3) lipoproteine a densità intermedia IDL; 4) lipoproteine a densità bassa LDL (ricche in colesterolo aterogene); 5) lipoproteine a densità elevata HDL (responsabili del trasporto inverso del colesterolo). CLASSIFICAZIONE Le dislipidemie possono essere classificate in primitive (prevalentemente genetiche) e secondarie ad altre patologie (ipotiroidismo, diabete, malattie renali, colestasi, gammopatie monoclonali)) o all’uso di farmaci. DIAGNOSI La diagnosi delle dislipidemie si esegue mediante esami ematici di primo e secondo livello, solo in alcuni casi è necessaria anche la tipizzazione genetica. I parametri comunemente analizzati prevedono il dosaggio ematico di colesterolo totale, HDL, trigliceridi e lipidogramma elettroforetico. Con tali esami è possibile identificare sei differenti fenotipi (classificazione di Fredrickson): 1° in cui prevale chilomicronemia e ipertrigliceridemia marcata; 2°a nel quale si assiste ad un incremento di LDL e ipercolesterolemia; 2°b che si caratterizza per l’aumento di VLDL ed LDL associato a dislipidemia mista; 3° in cui la presenza di elevati livelli di IDL si accompagna a dislipidemia mista severa; 4° che si presenta con incremento delle VLDL e ipertrigliceridemia; 5° nel quale predomina la chilomicronemia con incremento delle VLDL e ipertrigliceridemia marcata. Esami di secondo livello prevedono il dosaggio dei livelli circolanti di alcune apolipoproteine (ApoA1, ApoB) o il dosaggio di frazioni lipoproteiche specifiche (LDL piccole e dense). La tipizzazione genetica è finalizzata al riconoscimento di eventuali difetti molecolari a carico del recettore di ApoB o delle proteine implicate nella captazione delle LDL; inoltre, permette l’identificazione di particolari genotipi che caratterizzano forme specifiche di alterazioni del metabolismo lipidico. Si annoverano diverse forme monogeniche di iperlipidemie, le più comuni delle quali sono l’ipercolesterolemia familiare, l’iperlipidemia familiare combinata e l’ipertrigliceridemia familiare, che accompagnano ad un aumentato rischio aterogeno e possono determinare l’insorgenza di accidenti cardiovascolari in età precoce nell’ambito della stessa famiglia. La diagnosi precoce viene solitamente effettuata mediante screening in soggetti a rischio (familiarità per dislipidemia e/o cardiopatia ischemica precoce). In tali soggetti sono da ricercarsi alcuni segni clinici tipici quali xantomi e xantelasmi; è opportuno valutare pressione arteriosa, polsi periferici, BMI ( Body Mass Index) ed effettuare esame obiettivo cardiologico. TERAPIA Il primo approccio terapeutico è volto alla normalizzazione del profilo lipidico mediante una dieta povera di grassi e l’introduzione di attività fisica costante. Qualora non vengano raggiunti soddisfacenti risultati è indicata terapia farmacologica: attualmente farmaci di comune impiego sono le statite, i fibrati e le nuove associazioni tra statina ed ezetimibe. Le prime sono particolarmente efficaci in caso di ipercolesterolemia e dislipidemia mista, i secondi nell’ipertrigliceridemia isolata. Gli obiettivi terapeutici sono stratificati per classi di rischio: ad esempio nel paziente diabetico, considerato al pari di un soggetto con pregresso accidente cardiovascolare, il target del profilo lipidico è identificato con valore di LDL <100 mg/dL, nel paziente diabetico con anamnesi positiva per accidente cardiovascolare il target è pari ad un LDL <70 mg/dL. ALTERAZIONI DELL’EQUILIBRIO IDRO-ELETTROLITICO E DELL’EQUILIBRIO ACIDO-BASE Nel corpo umano di un adulto, l’acqua rappresenta il 65-70% del peso corporeo, in essa sono disciolti sali minerali, zuccheri e altre sostanze nutritive. L’acqua presente nell’organismo umano si divide in intracellulare (70%) ed extracellulare (30%), a sua volta ripartita nello spazio tessutale (24%) e nello spazio vascolare (6%).Per equilibrio idroelettrolitico si intende la situazione fisiologica in cui acqua ed elettroliti si mantengono in proporzione costante (omeostasi), quando si ha quindi regolarmente l’eliminazione degli eccessi e la reintegrazione delle perdite. L’acqua è il mezzo fondamentale per il metabolismo cellulare e per il trasporto, dalle altre cellule, di sostanze nutritive, ossigeno e prodotti del metabolismo cellulare e per regolare la temperatura corporea. L’equilibrio idroelettrolitico viene compromesso quando le perdite superano le assunzioni di liquidi (disidratazione) o viceversa (iperidratazione). L’acqua viene introdotta nell’organismo attraverso l’assunzione di bevande e di cibi con l’alimentazione per bocca, a cui si aggiunge l’acqua prodotta per ossidazione attraverso il metabolismo. L’eliminazione avviene principalmente per via renale attraverso le urine, ma anche per via cutanea (sudorazione), e polmonare, nonché in proporzioni modeste attraverso il tratto gastrointestinale con le feci. Gli elettroliti sono dei composti che si scindono nell’acqua in particelle, o ioni, dotati di carica elettrica. Tale carica può essere positiva, quindi si hanno i cationi, o negativa, e si parla di anioni. Sono cationi il sodio (Na+), il potassio (K+), il calcio (Ca++), il magnesio (Mg++). Sono invece anioni il cloro (Cl-), il bicarbonato (HCO3-), i fosfati (HPO4--). La loro concentrazione è indicata in meq/l (milliequivalenti/litro; il milliequivalente è la millesima parte del peso atomico di uno ione, espresso in grammi, diviso per il numero di cariche elettriche presenti nello ione stesso. In tal modo 1 meq contiene sempre lo stesso numero di ioni, indipendentemente dalla sostanza. Anche gli elettroliti, come l’acqua, hanno un bilancio, che in condizioni fisiologiche normali si chiude in pareggio. Vengono qui dettagliati gli elettroliti di prevalente interesse clinico: 1. SODIO (Na+) Il sodio è il catione extracellulare più importante. La sua concentrazione plasmatica va dai 135 a 145 meq/l, ha notevole importanza per l’equilibrio acido-base. Il sodio non si presenta mai isolato nell’organismo: lo si trova sotto forma di cloruro di sodio più conosciuto come sale da tavola o di bicarbonato. 2. POTASSIO (K+) Il potassio è invece il più importante catione intracellulare. Nelle cellule la sua concentrazione è in media di 150 meq/l, mentre nei liquidi extracellulari la sua concentrazione è di 4-5 meq/l. E’ particolarmente importante per l’efficienza del lavoro del miocardio e nella conduzione degli impulsi nervosi. 3. CALCIO (Ca++) Il calcio è uno dei minerali più abbondante nel corpo umano, essenziale alla crescita e allo sviluppo. La sua concentrazione plasmatica va da 8.50 a 10.50 mg/dl di sangue, circa il 99% del calcio presente nell’organismo è concentrato nei denti e nelle ossa; il resto circola nel sangue, dove ha un ruolo indispensabile in importanti processi quali la contrazione del cuore e dei muscoli. 4. CLORO (Cl-) La sua concentrazione plasmatica va da 96 a110 meq/l, è una sostanza estremamente diffusa in natura sotto forma di anioni, cioè di atomi dotati di carica elettrica negativa. Quindi esso è sempre legato a un atomo di carica positiva, per esempio di sodio o di potassio, con cui forma dei sali; o di idrogeno, con cui forma l’acido cloridrico. Il cloro costituisce i due terzi degli anioni presenti nel plasma sanguigno, e figura in tutti i tessuti del corpo in misura non meno rilevante del sodio. Ne sono ricche anche le cellule dello stomaco che fabbricano l’acido cloridrico gastrico. PRINCIPALI PATOLOGIE DELL’EQUILIBRIO ELETTROLITICO, IDRICO ED ACIDO-BASE · DISIDRATAZIONE E’ la patologia più importante e più frequente. La disidratazione si verifica quando avviene una perdita di acqua superiore al 6% dei valori normali. I sintomi più importanti sono: la presenza di sete intensa, di cute secca e poco elastica, di labbra screpolate, di oliguria con urine scarse e concentrate ed anche rapida perdita di peso. Generalmente la perdita di acqua avviene con perdita di elettroliti. Si distinguono tre tipi di disidratazione: Disidratazione grave: perdita di liquidi superiore all’8-10% del peso corporeo. I sintomi sono molto gravi. La possibilità di sopravvivenza è intorno al 50%. La reidratazione per via infusionale è indispensabile. Disidratazione media: perdita di liquidi dal 5% all’8% del peso corporeo. I sintomi non sono allarmanti come nel primo caso. Disidratazione lieve: perdita di liquidi inferiore al 5% del peso corporeo. · IPOPOTASSIEMIA O IPOKALIEMIA Il potassio è, come abbiamo precedentemente accennato il più importante catione intracellulare ed è particolarmente importante per l’efficienza del lavoro del miocardio e delle cellule del sistema nervoso. L’ipokaliemia o deficienza di potassio , cioè con valori al di sotto dei 2 meq/l, provoca astenia, aritmie cardiache, depressione; le cause principali sono: effetto di diuretici, squilibri ormonali, vomito e diarrea, traumi , ustioni ed interventi di chirurgia addominale. Si riscontra inoltre in caso di: assunzione di insulina per iniezioni, avvelenamento da bario-leucemia. Comporta inoltre disturbi del ritmo cardiaco, debolezza muscolare, insufficienza renale e, in casi estremi, persino la morte. L’ipopotassiemia può essere corretta con la somministrazione di soluzioni di Potassio-Cloruro, opportunamente diluite e per infusione lenta. Si haiperpotassiemiaquando la concentrazione sierica di potassio supera i 6meq/l., l’aumento si riscontra in seguito all’assunzione di preparati sostitutivi del comune sale da cucina, oppure può essere in relazione con unacura prolungata a base di penicillina. Può anche essere conseguenza di una trasfusione di sangue o di una chemioterapia; ma si riscontra inoltre in caso di insufficienza renale acuta e cronica-pielonefrite-leucocitosi-trombocitosi,disidratazione, emorragie del tubo digerente. L’iperkaliemia può essere altrettanto grave. Se i reni sono in buono stato possono filtrare moderate quantità eccessive di potassio, eliminando il sovrappiù attraverso le urine. Ma un eccessivo apporto di potassio può compromettere la funzionalità renale e provocare un’insufficienza a livello delle ghiandole surrenali, sfociando in un arresto cardiaco. Le iperkaliemie non gravi si traducono in alterazioni del ritmo cardiaco, spasmi muscolari e pseudo-paralisi. La terapia consiste nella somministrazione di soluzioni glucosate ipertoniche. · IPONATRIEMIA L’ iponatriemia o carenza di sodio si ha quando i livelli sierici dello stesso scendono sotto i 125 meq/l, si manifesta con astenia, crampi muscolari, ipotensione. Può essere provocata da un eccesso di acqua (iperidratazione).In tal caso non è una perdita di sodio in quanto tutti gli elettroliti sono diluiti. L’iponatriemia può invece essere provocata con reale perdita di sodio durante il vomito, nelle diarree imponenti, nelle nefropatie e dopo interventi chirurgici di una certa rilevanza. · IPOCALCEMIA Alterazioni del metabolismo e della fissazione del calcio danno luogo a osteoporosi, e rachitismo, il suo deficit o ipocalcemia provoca inoltre alterazioni della emocoagulazione, dell’eccitabilità del tessuto nervoso e muscolare, sino alle convulsioni. Può essere trattato con la somministrazione endovenosa di soluzioni di calcio-cloruro al 10% molto lentamente. · IPERCALCEMIA Un elevato tasso di calcio nel sangue (ipercalcemia) produce costipazione, inappetenza, nausea, dolori addominali e insufficienza renale. E’ spesso dovuto a tumori, affezioni renali, sovradosaggio di vitamina D o disturbi ormonali. · ACIDOSI RESPIRATORIA Questa sindrome è dovuta ad una riduzione della ventilazione polmonare da insufficiente eliminazione di CO2, che aumenta nella sua concentrazione ematica con conseguente diminuzione delpH (valori normali 7,35-7,45). E’ in genere causata da enfisemi, polmoniti e broncopolmoniti, pleuriti o insufficienza cardiaca. La terapia consiste nella somministrazione di soluzione di lattato di sodio. · ALCALOSI RESPIRATORIA E’ la soluzione opposta alla precedente e si verifica per aumentata ventilazione polmonare.La terapia consiste nella somministrazione endovenosa di soluzione fisiologica. · ACIDOSI METABOLICA Per acidosi metabolica si intende un accumulo nel sangue di corpi che tonici. Essa è provocata da scompensi cardiaci, diabete, digiuno e febbre. Lo stato di acidosi va corretto rapidamente, perché il ritardo può portare all’impossibilità di ovviarvi. La terapia consiste nella somministrazione endovenosa di soluzioni di sodio bicarbonato e di sodio lattato · EDEMA POLMONARE L’edema polmonare è la conseguenza di un aumento della pressione venosa polmonare e della infiltrazione di plasma negli alveoli e nei bronchioli, che provoca insufficienza respiratoria. L’accumulo di liquido produce una sensazione di oppressione al petto e difficoltà respiratoria. L’edema polmonare presenta diversi gradi di gravità: da una leggera insufficienza respiratoria fino all’arresto respiratorio. Un forte accumulo di liquidi è particolarmente pericoloso perché provoca mancanza di ossigeno. Pertanto, se la terapia non è tempestiva, l’edema può portare al soffocamento. La causa più frequente dell’edema polmonare è l’insufficienza cardiaca. Il cuore non riesce più a pompare il sangue, pregiudicando la circolazione generale. Il paziente colto dall’edema polmonare acuto ha una intensa dispnea inspiratoria ed espiratoria,presenta cianosi intensa con sudore freddo e respiro rumoroso. L’accesso di edema polmonare ha durata varia, da pochi minuti ad un’ora, può portare a morte rapida, ma talvolta regredisce spontaneamente anche senza cura alcuna. arteriosa e questo grazie ad un meccanismo ancestrale, ad un sistema renina angio-tensina aldosterone, è un sistema che in qualche modo interviene, mediante la sua attivazione, in tutte una serie di processi in cui vedremo la parte dell’organismo in trattenimento di acqua e sodio e vedremo in maniera diretta o indiretta questo sistema intervenire nella regolazione della pressione. Oltre a regolare la pressione, interviene nella regolazione del volume dei liquidi presenti nel sistema circolatorio, le due condizioni che sono capaci di appurare questo sistema sono appunto, la modificazione della pressione arteriosa o una modificazione, nel senso di riduzione, della volemia (disidratazione, condizione più semplice, pz che beve poco, che introduce pochi liquidi), si può avere una riduzione della volemia anche quando il pz è imbibito (pieno di liquidi), per esempio il pz con ascite, dove i pz non trattengono i liquidi per l’assenza di albumina (proteina che trattiene i liquidi, a cui si legano i farmaci e gli ormoni). Nel pz con cirrosi, i liquidi, invece, di essere trattenuti passano nel terzo spazio extra cellulare e quindi si ha la comparsa dell’ascite, allo stesso si verifica nel pz che perde l’albumina perché ha un danno renale, in questo caso non si ha un’alterazione della sintesi, ma c’è un’eccessiva perdita, con un meccanismo diverso, che avviene nel terzo spazio interstiziale della cellula. INSUFFICIENZA RENALE ACUTA (IRA) L’insufficienza renale acuta (IRA) è una sindrome caratterizzata da una improvvisa riduzione della funzionalità renale che determina aumento della azotemia, ritenzione idrica ed alterazioni elettrolitiche. Esistono due classificazioni correnti per la definizione e la stadiazione dell’insufficienza renale acuta: criteri di RIFLE e di AKIN. I criteri RIFLE definiscono l’insufficienza renale acuta in base ai livelli sierici di cretinina ed alla diuresi:  Risk: aumento della creatinina di 1,5 volte, riduzione della velocità di filtrazione glomerulare (VFG) del 25% o della diuresi a meno di 0,5 ml/Kg per oltre 6 ore;  Injury: raddoppio della creatinina, riduzione della velocità del filtrato glomerulare (VFG) del 50% o della diuresi a meno di 0,5 ml/Kg per oltre 16 ore;  Failure: aumento di oltre 3 volte della creatinina, riduzione del VFG del 75% o oliguria/anuria per 12 ore;  Loss: perdita completa della funzione renale che richiede dialisi per più di 4 settimane;  End-stage kidney disease: perdita completa della funzione renale che richiede dialisi per più mesi. Quest’ultimo criterio si è dimostrato valido per definire il rischio di morte dei pazienti con IRA (più alto è il RIFLE più alto è il rischio di morte dei pz). Nel caso in cui la creatininemia e la diuresi indicano due diversi livelli di gravità, lo stadio è indicato dalla funzione maggiormente compromessa. I criteri AKIN stabiliscono che si parla di IRA quando in 48 ore la creatininemia sale di 0,3 mg/dl, ovvero di oltre il 50%. La stadiazione prevede 3 livelli di crescente gravità:  Stadio 1= RISK  Stadio 2= INJURY  Stadio 3= FAILURE Le cause di insufficienza renale vengono classificate in base alla sede anatomica del danno renale:  Insufficienza pre-renale: da ridotta perfusione del rene che determina riduzione del flusso sanguigno renale, riduzione del filtrato glomerulare, ischemia e oliguria;  Insufficienza intra-renale: da danno a carico dei nefroni dovuto principalmente a glomerunefriti o a danni tossici da farmaci. I nefroni non riescono ad assorbire né ad eliminare l’acqua gli elettroliti, il glucosio, gli amminoacidi, l’ammonio ed i bicarbonati.  Insufficienza post-renale: dovuta ad un’ostruzione bilaterale delle vie urinarie. Molte di queste condizioni possono determinare IRA o IRC (definita come un danno renale progressivo ed irreversibile) in relazione alle modalità di presentazione e di progressione della malattia. INSUFFICIENZA RENALE CRONICA (IRC) Le cause principali dell’insufficienza renale cronica (IRC) sono rappresentate dalle malattie glomerulari croniche, dalle ostruzioni del tratto urinario, dal diabete mellito, da malattie vascolari, da malformazioni congenite (es. rene policistico), da collagenopatie, dall’ assunzione di nefrotossine. La terapia dell’insufficienza renale acuta e cronica è variabile in base all’eziopatogenesi ed alle caratteristiche specifiche del singolo paziente. I presidi terapeutici principali sono rappresentati da liquidi endovena, elettroliti, diuretici, agenti alcalinizzanti, soluzione glucosata ed insulina e/o resine a scambio ionico per trattare ipercalcemia, dieta ipoproteina (specie dell’IRC), trattamento dialitico. Nell’insufficienza renalepost-renale, prettamente di interesse urologico, la rimozione dell’ostruzione è fondamentale per il proseguo della terapia. La gestione infermieristica deve monitorare il bilancio idrico entrate/uscite, la qualità della diuresi, registrare i parametri vitali, il peso corporeo giornaliero, somministrare i farmaci prescritti, stabilire e far osservare la dieta ipoproteica adeguata in base al peso corporeo ed agli esami ematochimici. Deve, inoltre, far osservare il riposo e la tranquillità nella stanza del paziente, osservare eventuali complicazioni, preparare il paziente alla dialisi, se necessario, incoraggiare l’espettorazione e l’esecuzione di respiri profondi, fornire supporto ad un eventuale stato emozionale alterato, provvedere all’igiene e istituire sui comportamenti e sui controlli da osservare alla dimissione. PRINCIPALI PATOLOGIE DELL’APPARATO RESPIRATORIO  BRONCOPNEUMOPATIA DELL’APPARATO RESPIRATORIO (BPCO) La broncopneumopatia cronica ostruttiva è un quadro nosologico caratterizzato dalla progressiva limitazione del flusso aereo, tale limitazione è prevalentemente non reversibile, cioè non è possibile ottenere la normalizzazione della funzione polmonare. Tale riduzione del flusso è associata a una risposta infiammatoria polmonare in seguito all’inalazione di particelle o gas nocivi. Il fattore di rischio principale è il fumo di tabacco, per tale motivo questa malattia è considerata prevenibile. Sebbene le alterazioni presenti nella BPCO siano strutturali e permanenti codesta malattia è considerata curabile, ovvero grazie all’ utilizzo di terapie si possono ridurre i sintomi e migliorare la qualità di vita. La malattia produce significativi effetti sistemici, tra cui i principali sono: l’infiammazione sistemica, le alterazioni nutrizionali e perdita di peso, la disfunzione dei muscoli scheletrici, gli effetti sulle funzioni cognitive ed emotive e gli effetti sull’apparato cardiovascolare ed osteo-articolare. La BPCO è in effetti una sindrome al cui interno sono racchiusi differenti quadri clinici. In particolare nella BPCO si ha la coesistenza dei quadri di bronchite cronica e di enfisema. La bronchite cronica è definita su base clinica come malattia caratterizzata da ipersecrezione bronchiale cronica presente per almeno tre mesi l’anno di due anni successivi che non sia attribuibile ad altre cause polmonari o cardiache. Di contro l’enfisema è definito su base anatomopatologica (cioè sulla base delle osservazioni al microscopio) come malattia caratterizzata da dilatazione irreversibile degli spazi aerei distali ai bronchioli terminali con distruzione dei setti alveolari in assenza di chiara fibrosi. Il polmone enfisematoso pertanto si presenta gonfio di aria, che è rimasta intrappolata all’interno degli alveoli. I quadri di bronchite cronica e di enfisema quasi sempre coesistono: in alcuni pazienti prevale la componente bronchitica, in altri quella enfisematosa. La BPCO è una malattia molto comune con prevalenza minima di circa il 6% nella popolazione generale, ma il dato sale fino al 30% se si esaminano sono i soggetti di età superiore ai 60 anni. Sono considerati fattori di rischio il fumo di tabacco, il fumo passivo, l’inquinamento urbano e domestico e alcune esposizioni professionali a gas o particelle tossiche. Non è mai stato identificato un singolo gene responsabile ad eccezione di quello per l’alfa-1-antitripsina il cui deficit determina una forma rara di enfisema giovanile. La presentazione clinica nel paziente con BPCO è legata alla presenza prevalente di bronchite cronica o di enfisema. Se prevale il quadro bronchitico, il paziente è prevalentemente un soggetto sovrappeso, con cianosi, e spesso con edemi agli arti inferiori (legati alla disfunzione dei ventricolo destro). Questo fenotipo lamenta dispnea anche a riposo e tosse con abbondante espettorato mucoso o muco purulento (dovuto alla bronchite), nelle fasi più avanzate di malattia è presente ritenzione di CO2 e marcata ipossiemia. Al contrario, se compare un quadro enfisematoso, il paziente è prevalentemente un soggetto non cianotico, magro talvolta fino a quadri di malnutrizione gravissima (cachessia). L’enfisematoso spesso non soffre di dispnea a riposo, ma lamenta intensa dispnea al minimo sforzo ed è pertanto fortemente limitato nelle attività quotidiane. La produzione di espettorato è scarsa e raramente si osserva ritenzione di CO2. I segni più tipici sono l’iperfonesi plessica e la riduzione del murmure vescicolare (connessi all’enfisema) o i rantoli a medie bolle mobili sotto tosse (per bronchite). Di comune riscontro sono anche i rantoli crepitanti (in genere basali) e sibili tele-espiratori. Se è presente insufficienza respiratoria si può osservare cianosi e nei casi più avanzati ippocratismo digitale. La diagnosi di BPCO si basa sulla presenza del quadro clinico suggestivo e di ostruzione alla spirometria. Il test del cammino, la valutazione della dispnea e della stato nutrizionale sono utili per la valutazione prognostica, anche se oggi la classificazione di gravità (da stadio I a IV, il più grave) si basa esclusivamente sulla gravità dell’ostruzione alla spirometria e sulla presenza di insufficienza respiratoria. La complicanza più frequente è l’insufficienza respiratoria che si osserva nelle fasi avanzate della malattia. In questa fase sono spesso presenti ipertensione arteriosa polmonare e insufficienza ventricolare destra. L’insufficienza respiratoria è ovviamente una importante causa di morte con i pazienti con BPCO, ma una cospicua parte dei pazienti, in tutti gli stadi di gravità muore per cause cardiovascolari o per tumore polmonare. La terapia della BPCO è distinta in terapia di fondo, cioè di tutti i giorni e terapia delle riacutizzazioni, durante le quali i farmaci sono somministrati in dosi più alte o per via sistemica anziché inalatoria. Il trattamento di fondo si basa innanzitutto sull’abolizione dell’esposizione al fumo di tabacco. Purtroppo nessuno dei farmaci attualmente in uso nel trattamento di fondo della malattia, ad eccezione dell’ O2 terapia a lungo termine, aumenta la sopravvivenza. Tuttavia, la terapia farmacologicamigliora i sintomi e riduce le complicanze. Inoltre le vaccinazioni anti-influenzale e anti-pneumococcica possono prevenire alcune riacutizzazioni. I farmaci più importanti per la terapia della BPCO sono i broncodilatatori per via inalatoria. È importante segnalare che il cardine della terapia per la BPCO sulla terapia inalatoria, per la cui esecuzione, nei pazienti ricoverati, è cruciale l’assistenza infermieristica. PRINCIPALI CLASSI FARMACOLOGICHE E PROVVEDIMENTI TERAPEUTICI IMPIEGATI PER LA TERAPIA DELLA BPCO BRONCODILATARORI Beta2 agonisti (inalatori); Anticolinergici (Inalatori); Teofillina (orale, endovena, in riacutizzazioni) STEROIDI Inalatori in fase stabile; Orale nelle riacutizzazioni. ANTIBIOTICI Solo nelle riacutizzazioni ASSIGENO È riservato ai soli casi in insufficienza respiratoria. In genere a basso flusso e per almeno 16 ore al giorno. RIABILITAZIONE Respiratoria e motoria.  ASMA BRONCHIALE L’asma bronchiale è un disordine infiammatorio cronico delle vie aeree che si caratterizza per la presenza, nella parete dei bronchi, di infiltrato infiammatorio, costituito in prevalenza da mastociti, eosinofili e linfociti. La limitazione del flusso aereo è variabile e pertanto determina sintomi, che sono anche essi un’insufficienza ventilatoriain cui sono i muscoli respiratori a non funzionare (come nel caso di riduzione del comando nervoso centrale). Classicamente sono descritti quattro meccanismi patogenetici che sono in grado di determinare l’insufficienza respiratoria:  Alterazione del rapporto ventilazione/perfusione: affinché avvengano gli scambi gassosi a livello della membrana alveolo-capillare è necessario che ai 2 lati di questa membrana arrivino in quantità sufficienti aria da un lato e sangue dall’altro. Invece, la perfusione è alterata quando le arterie polmonari sono accluse. Questo determina ipossiemia;  Shunt: lo shunt è il passaggio del sangue dal circolo destro a quello sinistro senza che questo venga ossigenato;  Ridotta diffusione alveolo-capillare dell’ossigeno: affinché avvengano gli scambi gassosi a livello della membrana alveolo-capillare è necessario che la membrana sia integra e ben funzionante. Esistono malattie in cui i setti interalveolari son distrutti (enfisema).  Ipoventilazione alveolare: quando a causa della persistenza di una condizione di eccesso di lavoro, i muscoli respiratori vanno in fatica, si ha una riduzione dell’efficienza della contrazione muscolare (insufficienza ventilatoria) e nei casi più gravi l’arresto respiratorio. L’aumento dei valori di PaCO2 determina una riduzione del pH del sangue arterioso e questa condizione è detta acidosi respiratoria. La condizione opposta, cioè quella determinata da una riduzione dei valori di PaCO2 determina una aumento del pHnel sangue arterioso e questa condizione è definita alcalosi respiratoria. La riduzione dei valori di PaCO2 è dovuta a condizioni di iperventilazione. I pazienti con insufficienza respiratoria hanno segni e sintomi legati all’ipossiemia e all’ipercapnia. L’ipossiemia determina iperventilazione, dispnea, cianosi, sudorazione, tachicardia. L’ipercapnia acuta da segni molto evidenti tra cui dispnea, cefalea, sudorazione, salivazione, secrezione gastrica, tremori grossolani alle mani/arti (flapping), ipertono muscolare. Nei casi più gravi si può osservare una progressiva riduzione della stato di coscienza fino al coma detto coma carbonarcotico. Al contrario, l’ipercapnia dà segni meno evidenti perché il corpo si è adattato. La diagnosi di insufficienza respiratoria non è clinica ma è basata sui risultati dell’emogasanalisi. Nella condizione di IR cronica il quadro è irreversibile, mentre l’IR acuta può essere reversibile. La terapia dell’IR ha lo scopo di garantire un’adeguata ossigenazione del sangue arterioso e, se necessario, di aiutare i muscoli respiratori in fatica per consentire un’adeguata eliminazione della CO2. Il primo obiettivo si raggiunge con la somministrazione di ossigeno, mentre il secondo con la ventilazione meccanica. Quest’ultima può essere praticata in modo invasivo, cioè con intubazione orotracheale o in modo non invasivo tramite maschere nasali o facciali. MALATTIE ENDOCRINO-METABOLICHE Le malattie della tiroide sono determinate prevalentemente da processi autoimmuni che possono causare eccessivo rilascio (ipertiroidismo) o ridotta produzione (ipotiroidismo) di ormoni tiroidei. Di frequente riscontro è inoltre la patologia nodulare tiroidea.  IPOTIROIDISMO Si definisce ipotiroidismo la condizione clinica caratterizzata da ridotta secrezione di ormoni tiroidei. L’ipotiroidismo rappresenta la patologia tiroidea più diffusa con una frequenza molto più alta nelle donne rispetto agli uomini e correla positivamente con l’avanzare dell’età. L’incidenza è più alta nelle regioni o nelle aree con ridotta presenza di iodio nell’ambiente che ne determina un minor apporto nutrizionale; in tali regioni l’ipotiroidismo è associato ad un’alta incidenza di gozzo. Nel 95% dei casi l’ipotiroidismo è causato da una patologia tiroidea, mentre, per la rimanente percentuale, è determinato da un alterato funzionamento delle strutture delegate al controllo della funzione tiroidea, ipofisi od ipotalamo. Nei soggetti affetti da ipotiroidismo la ridotta secrezione di tiroxina (T4) e di triiodiotironina (T3) ne provoca una riduzione delle concentrazioni ematiche e delle loro frazioni libere (FT3 ed FT4) con conseguente incremento compensatorio della secrezione di TSH da parte dell’ipofisi. La sintomatologia è variabile anche in funzione del grado di ipotiroidismo. I sintomi tipici dell’ipotiroidismo sono: sensazione di freddo, depressione, sonnolenza diurna, difficoltà di concentrazione, aumento di peso, stipsi, cute secca e ruvida, gonfiore al viso, voce rauca, capelli secchi e fragili, perdita di memoria. La diagnosi di laboratorio si effettua valutando: - Aumento dei livelli plasmatici di TSH; - Riduzione delle frazioni libere di ormone tiroideo (FT3 e FT4); - Positività anticorpale (anticorpi anti tireoperossidasi-AbTPO e anti tireoglubulina.AbTg in caso di tiroide cronica autoimmune); - Ipotiroidismo subclinico: valori del TSH al di sopra della norma con valori di FT4 ed FT3 nei limiti di norma in assenza di sintomatologia clinica caratteristica. Il trattamento dell’ipotiroidismo prevede la somministrazione di ormoni tiroidei per os. Attualmente la terapia più utilizzata si avvale dell’utilizzo di Levo-Tiroxina in dosi sostitutive in rapporto al peso corporeo. L’ormone deve essere somministrato a dosi a scalare, soprattutto nel paziente anziano cardiopatico, al fine di evitare la comparsa di sintomi e segni elettrocardiografici di uno stato ischemico preesistente. È consigliabile assumere la Levo-Tiroxina a digiuno lontano dai pasti e da altri farmaci per permettere un perfetto assorbimento. Il monitoraggio e successivo adeguamento della terapia con Levo-Tiroxina va effettuato dopo circa 45 giorni con dosaggio di TSH ed FT4, raccomandando al paziente di non assumere la terapia nella giornata in cui viene effettuato il prelievo ematico. In presenza di concomitante iposurrenalismo è fortemente raccomandato impostare una terapia sostitutiva steroidea e solo successivamente somministrare la terapia con Levo-Tiroxina, in quanto gli ormoni tiroidei aumentano la clearance del cortisolo favorendo l’insorgenza di una crisi surrenalica acuta.  IPERTIROIDISMO Si definisce ipertiroidismo la condizione clinica caratterizzata da aumentata sintesi/secrezione di ormoni tiroidei. Si indica, invece, con il termine di tireotossicosi la condizione clinica derivante dalla presenza di elevati livelli circolanti di ormoni tiroidei, più frequentemente secondaria ad assunzione volontaria di preparati farmacologici ad attività ormonale (tireotossicosi factitia). Il Morbo di Graves è la causa più comune di ipertiroidismo soprattutto nei giovani, mentre negli anzini esso è per lo più secondario a gozzo multi nodulare tossico. Cause più rare sono rappresentate dell’ ipertiroidismo iodio-indotto (di solito scatenato da farmaci come amiodarone e mezzi di contrasto radiografici), dall’adenoma tiroideo, dalla tiroide subacuta, dalla tiroidite post-partum, dall’assunzione volontaria di ormone tiroideo. La diagnosi di laboratorio si effettua valutando: - Riduzione dei livelli plasmatici di TSH - Aumento delle frazioni libere di ormone tiroideo (FT3 e FT4) - Positività anticorpale - Ipertiroidismo subclinico: valori di TSH al di sotto della norma con valori di FT3 e FT4 nei limiti della norma in assenza di sintomatologia clinica caratteristica. I sintomi tipici dell’ipertiroidismo sono: intolleranza al caldo, perdita di peso con polifagia, affaticamento, indebolimento, iperattività, irritabilità, apatia, depressione, poliuria, sudorazione, palpitazioni e aritmia (soprattutto fibrillazione atriale), dispnea, infertilità, calo del desiderio, nausea, vomito, dissenteria. Spesso nell’anziano l’ipertiroidismo è oligosintomatico (ipertiroidismo apatetico) con perdita delle caratteristiche ipercinetiche della malattia e presenta sintomatologia sfumata caratterizzata da calo ponderale, astenia muscolare, depressione, insufficienza cardiaca, tachicardia o fibrillazione atriale di recente insorgenza. Alcune forme di ipertiroidismo sono transitorie e richiedono soltanto una terapia sintomatica che prevede la somministrazione di betabloccanti. Negli altri casi sono 3 le opzioni terapeutiche: l’utilizzo di farmaci antitiroidei (metimazolo e propiltiouracile), la terapia con radioiodio e l’exeresi chirurgica. L’amiodarone, farmaco antiaritmico ad alto contenuto di iodio, può indurre alterazioni della funzionalità tiroidea. Tale farmaco ha un’emivita di circa 40-50 giorni e quindi anche un’assunzione con posologia ridotta non modifica l’eventuale effetto sulla funzionalità tiroidea che talora può protrarsi fino a 6 mesi dopo la sua sospensione. Il suo effetto sulla tiroide può manifestarsi con un blocco o una riduzione della funzionalità tiroidea oppure con un’aumentata sintesi di ormoni tiroidei, in quanto lo iodio ne costituisce il substrato metabolico. Ne deriverà, pertanto, o un ipotiroidismo o un ipertiroidismo (tireotossicosi da amiodarone). La terapia prevede, laddove possibile, la sospensione dell’amiodarone e il trattamento della funzionalità tiroidea.  NODULO TIROIDEO Il nodulo tiroideo è un aumento volumetrico circoscritto della tiroide che può essere unico o multiplo (gozzo uni o multinodulare). I noduli tiroidei sono estremamente comuni con una frequenza maggiore nelle donne. La maggior parte dei pazienti con noduli della tiroide è asintomatica. Talvolta la tireopatia nodulare può essere accompagnata da sintomatologia clinica correlabile ad alterazioni funzionali della tiroide (ipertiroidismo) o a sintomi compressivi tipici (dispnea, disfagia, disfonia) nel caso di noduli voluminosi. La diagnosi viene effettuata attraverso: - Dosaggio TSH, FT3, FT4; - Dosaggio calcitonina in caso di sospetto carcinoma midollare; - Ecografia tiroidea; - Scintigrafia tiroidea; - Agoaspirato tiroideo eco guidato. Le opzioni terapeutiche attualmente in uso per il nodulo tiroideo, dopo appropriato inquadramento diagnostico, prevedono la terapia medica con L-T4 a dosaggi soppressivi dei livelli di TSH, al fine di ridurno lo stimolo o in alternativa la terapia chirurgica che prevede l’asportazione della ghiandola in toto. Le complicanze della chirurgia della tiroide sono essenzialmente legate alla lesione dei nervi laringei (superiori ed inferiori), ad un danno delle paratiroidi o ad una possibile emorragia postoperatoria. Le lesioni dei nervi laringei sono più gravi se si verificano a carico dei laringei inferiori (ricorrenti) rispetto ai superiori. La lesione di un ricorrente determina la paralisi della corda vocale omolaterale con conseguente disfonia e riduzione della spazio respiratorio. Se la lesione interessa entrambi i ricorrenti la paralisi di entrambe le corde vocali determina una riduzione tale dello spazio respiratorio da rendere necessaria la tracheostomia. Se la continuità del nervo non è interrotta, la paralisi è in genere transitoria e la funzione è recuperata dopo qualche mese. Se la continuità del nervo è interrotta la paralisi è definitiva. Le lesioni delle paratiroidi sono determinate generalmente dall’asportazione accidentale di tali ghiandole. Solitamente l’asportazione di una singola paratiroide non è sufficiente a determinare l’ipoparatiroidismo postoperatorio, in quanto le paratiroidi residue assicurano buoni livelli di paratormone nel sangue. L’ipoparatiroidismo può essere transitorio o definitivo. Esso determina una riduzione dei livelli di calcio nel sangue (ipocalcemia) che si manifesta con parestesie e nei casi più gravi con “crisi tetanica” caratterizzata dalla contrazione di diversi gruppi muscolari, in particolare quelli facciali (trisma) e quelli del carpo. Il
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