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Appunti procedura civile 1 - Menchini anno 23/24, Appunti di Diritto Processuale Civile

Appunti completi del corso tenuto dal prof. Menchini nel I semestre dell'anno accademico 2023/24. Non vi sono le integrazioni che il prof. ha richiesto da fare sul libro. Voto complessivo dell'esame 28/30 (preparazione su appunti + integrazioni libro)

Tipologia: Appunti

2023/2024

In vendita dal 23/06/2024

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Scarica Appunti procedura civile 1 - Menchini anno 23/24 e più Appunti in PDF di Diritto Processuale Civile solo su Docsity! 1 APPUNTI DIRITTO PROCESSUALE CIVILE PARTE 1 PROF. MENCHINI SERGIO ANNO ACCADEMICO 2023/24 I SEMESTRE (tutte le lezioni tenute dal prof. No integrazioni libro) 2 DIRITTO PROCESSUALE CIVILE I 26-09-2023 PRINCIPI PRELIMINARI ED ISTITUTI E PROCESSI FONTI DELLA DISCIPLINA = in cosa consiste lo studio del diritto processuale civile. Il diritto processuale civile ha ad oggetto lo STUDIO DEI PROCESSI E DELLE AZIONI =, i RIMEDI (azioni) che in modo tipico o atipico sono resi dal legislatore in lesione di interessi sostanziali e i PROCESSI attraverso cui le azioni sono esercitate e decise. Es. se la lesione è data dallo spossessamento dell’autore → la tutela è la rivendicazione. Come si svolge l’azione di rivendicazione? servono i processi, i procedimenti attraverso cui nel contraddittorio con le parti il giudice si pronuncia sull’azione esercitata e concede o nega la tutela delle parti. Queste disposizioni da cui si ricavano le azioni e i processi e la loro disciplina, si rinvengono nel CODICE DI PROCEDURA CIVILE (cpc) e in parte (soprattutto per azioni e rimedi) nel libro 6 del CODICE CIVILE. Si hanno una serie di LEGGI SPECIALI che possono venire in rilievo es. in tema di locazioni: disciplina delle locazioni immobiliari e azioni che servono per tutelare i diritti lesi. Si hanno anche le NORME COSTITUZIONALI e le NORME DEL DIRITTO EUROPEO: norme di carattere sovraordinato che non dettano la disciplina specifica dei singoli istituti ma stabiliscono i principi generali ai quali il legislatore ordinario deve informare la sua disciplina e che devono essere attuati o rispettati a pena della incostituzionalità nella disciplina di azioni o processi. Tra le fonti oggi vi è la LEGGE DEL 2022 – RIFORMA CARTABIA che ha fortemente inciso sul cpc. Il cpc del 1942 ha subito una serie di interventi e novellazioni nel corso del tempo, l’ultima delle quali è la novellazione della riforma Cartabia. La riforma Cartabia è intervenuta su più livelli perché ha operato non soltanto sulle norme del processo ma anche rispetto a norme organizzative e norme riguardanti le ADR. Il FUNZIONAMENTO DEL PROCESSO dipende da più fattori, non solo dalla regola processuale (disciplina del singolo processo) quanto piuttosto da due fenomeni contigui: REGOLE ORGANIZZATIVE = regole che disciplinano l'organizzazione della funzione giurisdizionale. Se ho 2mila giudici che decidono le controversie o ne ho 10mila la risposta del sistema di giustizia cambia. Il n° dei giudici attiene all’organizzazione: ai fini del funzionamento e dell’efficienza e della durata del processo di deve sapere il n° di magistrati che devono risolvere le controversie. Si deve capire quante controversie vanno di fronte al giudice: vi sono molti conflitti che possono sorgere, non tutti vanno di fronte al giudice. L’ordinamento individua dei filtri attraverso cui cerca di risolvere la controversia prima che vadano davanti al giudice (giudice = extrema ratio quando non sono riusciti altri rimedi, categoria delle ADR). ADR = modi alternativi di risoluzione delle controversie. I modi alternativi nell’evoluzione tecnologica sono tantissimi. Es. se nasce una contestazione tra me e Amazon per un libro ordinato, se non troviamo altra soluzione si va dal giudice. Attraverso gli algoritmi, Amazon risolve il 99% delle contestazioni. Le pratiche commerciali cercano di ridurre le controversie che finiscono di fronte al giudice. In Italia con gli ALGORITMI si risolvono circa 3milioni di potenziali controversie all’anno che riguardano questi argomenti nuovi come l’e-commerce. La riforma interviene sull’ORGANIZZAZIONE: a livello organizzativo cambiano alcuni elementi importanti. GENERALIZZAZIONE DEL PROCESSO TELEMATICO: il processo telematico opera di fronte ad ogni tipo di giurisdizione civile, davanti ad ogni giudice civile (tribunale, cassazione, appello, giudice di pace) → processo telematico = regola generale che trova attuazione di fronte ad ogni giudice. Gli atti vengono formati in modalità telematica, vengono depositati non in cartaceo ma in modalità telematica e vengono notificati con tecniche di notifica telematica tramite gli avvocati. Il PROCESSO TELEMATICO è la prima grande innovazione! 5 La legge non può obbligare le parti ad andare in arbitrato sennò è una violazione dell’art. 24: ARBITRATO E’ SEMPRE FACOLTATIVO, non può essere obbligatorio! La corte è intervenuta eliminando tutte le forme di arbitrato obbligatorie che imponevano la risoluzione delle controversie da parte degli arbitri: es. appalti pubblici. Quando sorgeva una controversia riguardando gli appalti pubblici si doveva andare da un arbitro. La corte dice che è illegittimo. L’oggetto deve essere arbitrabile: deve riguardare i diritti disponibili. Abbiamo 2 FORME DI ARBITRATO: a. ARBITRATO RITUALE → codice di rito: dà luogo ad un rito che ha effetti di sentenza, è impugnabile con gli strumenti che la legge prevede in tema di arbitrato (giudizio di nullità) → DECISIONE CHE HA GLI EFFETTI DELLA SENTENZA. b. ARBITRATO IRRITUALE → figura ibrida: sono le parti che lo scelgono, l’unico limite è il rispetto delle regole fondamentali di procedura. Il provvedimento finale ha la forma del LODO ma non è una decisione, non vale come una sentenza, ma come un CONTRATTO, il cui contenuto è dato dal terzo. Il terzo ha poteri dispositivi più o meno ampi → ATTO CHE HA CONTENUTO ED EFFETTI DEL CONTRATTO. L’arbitrato può essere previsto dalla parti con una convenzione privata: dicono che la controversia sarà risolta da un arbitro o la risolve un arbitro individuato da un soggetto da loro designato → ARBITRATO AD HOC: arbitrato governato dall’accordo tra le due parti. Per favorire l’arbitrato sono previsti gli ARBITRATI AMMINISTRATI: hanno sempre alla base la volontà delle parti ma si svolgono secondo regole e nell’ambito di enti istituzionali. Rende più semplice il ricorso all’arbitrato e ne riduce i costi. Es. in Italia la forma di arbitrato più importante è l’arbitrato presso la camera di commercio di Milano: le parti si rimettono ad esso, ne accettano i costi ecc. Per gli arbitrati internazionali il più famoso è l’arbitrato presso la camera di commercio di Parigi. CARATTERISTICHE dell’ARBITRATO: • CONVENZIONE DI ARBITRATO ALLA BASE • SEMPRE FACOLTATIVO • ARBITRATO RITUALE E IRRITUALE • ARBITRATO AD HOC E AMMINISTRATIVI Se vi è la controversia su un certo diritto (Es. il debitore non paga) e se non c’è accordo delle parti sul ricorso a forme arbitrali e quindi SI VA DAL GIUDICE DELLO STATO → GIURISDIZIONE STATUALE: lo stato assicura (art. 24 comma 1 cost) il DIRITTO DI AZIONE, attribuisce ad ogni soggetto il diritto di agire a tutela dei propri diritti di fronte ad un apparato giurisdizionale. Sono giudici organizzati in certi modi che attraverso i processi danno una risposta alla domanda di tutela che la parte fa esercitando il diritto di azione. ORGANIZZAZIONE DEI PROCESSI: vi sono norme ordinarie, norme costituzionali ecc. La giurisdizione è presa in considerazione da più norme e sotto più profili a livello internazionale. Le norme costituzionali si occupano di disciplinare la giurisdizione. Non ci interessano le norme che dicono come è organizzata la giurisdizione, quali sono le garanzie del giudice etc. (regole organizzative di carattere costituzionale). Ci interessa capire quali sono le norme costituzionali che riguardano l’ORGANIZZAZIONE DEL PROCESSO: come deve essere organizzato un processo, la sua struttura. Devo tener conto delle norme che dicono quali sono le norme alle quali deve uniformarsi il processo per essere giusto! Norme dell’Unione: norme della convenzione europea dei diritti dell’uomo e norme della Carta fondamentale dei diritti dell’Ue. Gli artt. 6 e 46 di questi due plessi normativi sono norme che di fatto hanno un contenuto identico a quello della nostra carta costituzionale. L’art. 6 e l’art. 46 sono pressoché identici alle norme costituzionali. Le NORME COSTITUZIONALI che ci interessano sono di 2 TIPI: NORME CHE ASSICURANO IL DIRITTO DI AZIONE: art. 24 comma 1 assicura il diritto di azione e l’art 113 estende l’azione ad ogni atto o comportamento illecito della PA → Diritto di azione sia nei rapporti tra i cittadini sia nei rapporti con l’amministrazione. 6 NORME SULLA DISCIPLINA DEL PROCESSO: vengono sintetizzate nel concetto del diritto al giusto ed equo processo. GIUSTO PROCESSO: è dato da una serie di principi che devono essere attuati quando si vanno a disciplinare i singoli processi e che sono ricavati dall’art. 24 comma 2 che prevede il diritto di difesa che è inviolabile, l’art. 24 comma 3 dove si assicura il diritto alla difesa processuale, l’art. 25 comma 1, art. 111 comma 1 e 2 e penultimo e terzultimo. ART. 111 COMMA 1: LA GIURISDIZIONE SI ATTUA MEDIANTE IL GIUSTO PROCESSO REGOLATO DA UNA LEGGE. Il comma 1 dice che il processo deve essere giusto e lo è quando rispetta le regole e i principi. Il concetto è enunciato al comma 1, ma il contenuto lo danno le altre disposizioni. Il legislatore dice che il processo non solo deve essere conformato in qualche altro modo, ma deve essere regolato dalla legge. La legge deve predefinire le regole processuali a garanzia del diritto di difesa delle parti. PROCESSO REGOLATO DALLA LEGGE → i PROCESSI CIVILI sono: a. PROCESSO A COGNIZIONE PIENA→ in ogni suo aspetto il processo è predefinito dalla legge. Dice quali sono le norme da applicare in ogni momento → totalmente predefinito dalla legge. b. PROCESSO A COGNIZIONE SOMMARIA → processo in cui la legge si limita a determinare delle regole generali ma poi lascia al giudice il compito di dare contenuto a quelle regole in base alla singola situazione processuale. Art. 111: il processo più bello è quello a cognizione piena. La cognizione sommaria è costituzionalmente legittima o l’art. 111 vuole che il processo sia necessariamente determinato dalla legge? la corte costituzionale dice che il processo regolato dalla legge non è solo quello a cognizione piena, ma è anche quello a cognizione sommaria purché la legge rispetti le regole del giusto processo → sono ammessi PROCESSI A COGNIZIONE SOMMARIA dove la legge rimette al giudice il compito di determinare gli aspetti procedimentali sempre rispettando i principi del comma 2 (giusto processo). 7 28-03-2023 RECAP → ART. 111 COMMA 1: prevede che la giurisdizione civile sia esercitata sulla base del GIUSTO PROCESSO REGOLATO DALLA LEGGE. Ipotesi in cui i processi sono articolati in modo deformalizzato in base alla formazione sommaria. La nostra corte costituzionale ritiene che i processi sommari non siano in contrasto con l’art. nella misura in cui siano allineati col principio del giusto processo. PRINCIPI DEL GIUSTO PROCESSO: principi per cui si può dire che un processo è giusto, equo e conforme a processi costituzionali. Si ricavano principalmente all’art. 111. È stato inserito in una riforma costituzionale del 2000: si cala sul tessuto normativo della vecchia carta e va coordinato con gli artt. 24 e 25 cost, sull'interpretazione dei quali la corte arrivava alle stesse conclusioni dell’art. 111. ART. 111 COMMA 2: “Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata.” → Si ricavano più principi: ➢ PRINCIPIO DEL CONTRADDITTORIO a cui si deve ispirare il processo ➢ il processo caratterizzato dal PRINCIPIO DI PARITA’ DELLE ARMI: stessa condizione processuale delle parti. ➢ il processo deve avere una DURATA RAGIONEVOLE ➢ il processo deve svolgersi di fronte ad un GIUDICE TERZO E IMPARZIALE → 4 PRINCIPI GUIDA DEL PROCESSO AFFINCHE’ SIA GIUSTO. IL PRINCIPIO DEL CONTRADDITTORIO Il principio è simile al secondo comma dell’art. 24 della Costituzione che dice che la DIFESA è un diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento. Sono due articoli strettamente collegati! La legge dice “principio del contraddittorio tra le parti” ma opera non solo tra le parti ma anche tra le parti e il giudice. Non solo quando legittimamente una parte esercita un potere l’altra deve essere messa in condizione di replicare (PRINCIPIO DI CONTRADDITTORIO TRA LE PARTI) ma anche quando è il giudice ad esercitare un diritto processuale, le parti devono essere in grado di esercitare un diritto di difesa e contraddire il potere processuale esercitato dal giudice → PRINCIPIO DEL CONTRADDITTORIO VALE ANCHE NEI RAPPORTI TRA LE PARTI E IL GIUDICE. Il principio trova un’esplicitazione nella normativa del Codice di rito. Già nel codice del 42 lo prevedeva all’art. 101 ma ad oggi, dopo gli impulsi derivanti dall’art. 111 cost, la norma è stata arricchita dal legislatore ordinario. ART. 101 del codice di rito comma 1: principio fondamentale che dice “Il giudice, salvo che la legge disponga altrimenti, non può statuire sopra alcuna domanda, se la parte contro la quale è proposta non è stata regolarmente citata e non è comparsa.” Principio per il quale, prima dell’emanazione di un provvedimento, deve essere posto in grado di difendersi chi è protagonista del procedimento. Si deve sentire sempre la controparte! Principio base: il contraddittorio deve essere anticipato rispetto all’emanazione del provvedimento. SALVO CHE LA LEGGE DISPONGA ALTRIMENTI: possono esserci delle ECCEZIONI. Casi in cui per ragioni particolari il legislatore consente che siano emessi provvedimenti contro una parte senza che questa possa interloquire → il contraddittorio è POSTICIPATO in questi casi. Viene emesso il provvedimento "inaudita altera pars”, viene notificato al controinteressato e nel contraddittorio sarà confermato, revocato o modificato il provvedimento. È costituzionalmente legittimo? È consentito al legislatore ordinario prima avviare il provvedimento e dopo il contraddittorio verso coloro contro cui la domanda è proposta? La corte costituzionale interviene e dice che ci sono delle CONDIZIONI AFFINCHÉ’ IL CONTESTO SIA RAGIONEVOLE: rispetto del PRINCIPIO DI RAGIONEVOLEZZA: ipotesi in cui è ragionevole ammettere questo assetto per tutelare valori di simile importanza o superiore rispetto al contraddittorio. È possibile posticipare il contradditorio, quando il contraddittorio anticipato rischierebbe di determinare la vanificazione del provvedimento giurisdizionale. 10 norme speciali per cui i non abbienti hanno diritto ad essere difesi da un avvocato e dei costi si fa carico lo stato → DIRITTO ALLA RAPPRESENTANZA TECNICA. RAGIONEVOLE DURATA: la parte ha diritto ad un processo di durata ragionevole → TUTELA DEL CITTADINO dando un processo che ha una durata ragionevole. Altrimenti il soggetto ha il diritto al RISARCIMENTO DEL DANNO. Il prof la descrive come “eterogenesi dei fini”: questa norma era stata pensata a difesa del cittadino ma è stata applicata dalla giurisprudenza come norma pubblicistica, oggettiva, con conseguente elisione dei diritti delle parti. Si è detto che la ragionevole durata impone che siano applicate certe contromisure che spesso hanno come conseguenza una riduzione e annullamento dei diritti delle parti nel processo. Viene costruito su questa base l’ABUSO DEL PROCESSO, che nasce dalla ragionevole durata: il processo è un diritto ma non se ne può abusare, non si possono usare le norme per allungare il processo → DA ISTITUTO A GARANZIA DELLE PARTI A ISTITUTO PUBBLICISTICO! ART. 111 TERZULTIMO COMMA: “Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati.” Norma prevede l’OBBLIGO DI MOTIVAZIONE. La motivazione ha una duplice funzione: • verso l’esterno: ciascun cittadino deve essere in grado di capire il perché di una decisione. • dimensione interna: solo la motivazione che la parte riesce a comprendere consente alla parte di vedere se ci sono i presupposti per impugnare la sentenza. Problema: stabilire quanto la motivazione deve essere sufficiente. Un provvedimento senza motivazione è inesistente. Si deve stabilire quale è il dosaggio tra rapidità e esaustività della motivazione. Nell’esigenza pubblicistica l’ordinamento si orienta verso MOTIVAZIONI SNELLE E SEMPLIFICATE. Tuttavia la motivazione può essere snella anche per relationem (richiamando atti processuali delle parti) ma comunque deve essere SUFFICIENTE, deve essere in grado di far comprendere la ratio decidendi. motivazione inesistente → sentenza inesistente motivazione insufficiente → sentenza viziata motivazione carente → sentenza annullabile con mezzi di impugnazione PENULTIMO COMMA: “Contro le sentenze [...] è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge.” Il nostro ordinamento prevede come garanzia costituzionale il RICORSO IN CASSAZIONE per violazione di legge. La giurisdizione civile è organizzata in 3 gradi di giudizio: primo grado, appello e cassazione. Mentre l’appello non è costituzionalmente protetto, non si potrebbe eliminare la Cassazione perché c’è questa norma: DIRITTO DELLE PARTI DI RICORRERE IN CASSAZIONE. Questo istituto prende il nome di RICORSO STRAORDINARIO PER CASSAZIONE perché è previsto a livello costituzionale. Quando siamo in presenza di una sentenza? Il provvedimento non dobbiamo guardare alla forma, ma alla SOSTANZA: se anche il provvedimento ha forma di decreto ma sostanza di una sentenza, allora il provvedimento è comunque impugnabile con ricorso straordinario. Giurisprudenza e dottrina hanno adottato una INTERPRETAZIONE SOSTANZIALE del concetto di SENTENZA: si guarda al contenuto e non alla mera forma. Anche se il provvedimento ha forma diversa dalla sentenza ma è decisorio allora quel provvedimento è ricorribile in cassazione. La giurisprudenza ha precisato che sono ricorribili per cassazione tutti i provvedimenti che presentano certe caratteristiche → il provvedimento: ✓ deve essere DECISORIO perché decide sui diritti delle parti ✓ deve essere DEFINITIVO: se vi sono altri rimedi, non si può avere il ricorso straordinario. Si può usare solo se non ci sono strumenti diversi da esperire. La garanzia costituzionale è solo per la VIOLAZIONE DI LEGGE. Nell’ART. 360 cpc individua i MOTIVI DI RICORSO e accanto alla violazione di legge vi sono anche altri motivi. La violazione di legge è il n° 3 dell’art ma prevede anche altri 4 numeri che sono i motivi di ricorso in cassazione per ERRORI DI PROCEDURA per cui il giudice ha mal interpretato la legge processuale. C’è 11 il n°5 che è un vizio che riguarda l’accertamento del fatto per il quale la sentenza è ricorribile ogni volta che il giudice nel decidere circa il fatto ha omesso o trascurato un fatto decisivo → Il n°5 prevede: motivi che riguardano il fatto e motivi di rito (1, 2, 3 e 4). → La garanzia costituzionale riguarda solo la violazione di legge ma il nostro legislatore ha omologato il ricorso straordinario e il ricorso ordinario. Il ricorso straordinario del 111 il legislatore l’ha esteso a tutti i vizi dell’art. 360 cpc. Es. sentenza che decide l’opposizione agli atti esecutivi non è impugnabile. La sentenza benché definita non impugnabile, è comunque ricorribile in cassazione per il 111 penultimo comma per tutti i vizi del 360 cpc. Art. 24 comma 1 e art. 113: “Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi.” → DIRITTO AL PROCESSO. *Non si affronta ora ma si riprende quando si studia l’azione. Le norme costituzionali riguardano OGNI PROCESSO civile al di là della loro funzione. Questo anticipa la riflessione sul fatto che occorre prendere atto che la giurisdizione civile non ha un solo tipo di giurisdizione ma vi sono VARI TIPI DI GIURISDIZIONE CIVILE: la prima macro distinzione è tra: 1. GIURISDIZIONE CONTENZIOSA, (o costituzionalmente necessaria) 2. GIURISDIZIONE NON CONTENZIOSA O VOLONTARIA (o non costituzionalmente necessaria) GIURISDIZIONE CONTENZIOSA: si sviluppa in varie sotto-fattispecie. All'interno si hanno varie figure di azioni e contenziosi: • TUTELA (o giurisdizione) DICHIARATIVA • TUTELA (o giurisdizione) ESECUTIVA • TUTELA (o giurisdizione) CAUTELARE Giurisdizione contenziosa è quella che ha la funzione di RISOLVERE LE CONTROVERSIE DI DIRITTO SOGGETTIVO. È COSTITUZIONALMENTE NECESSARIA perché c’è l’art. 24 comma 1 che assicura il diritto di azione. Ciascuno ha diritto ad avere un’attività giurisdizionale volta a tutelare i suoi diritti → la impone la carta costituzionale! Giurisdizione volontaria è COSTITUZIONALMENTE NON NECESSARIA: può esservi o meno questa forma di giurisdizione perché non è imposta dal legislatore costituzionale la previsione di questa figura. La giurisdizione volontaria si differenzia per l’OGGETTO: ➢ contenziosa → TUTELA DEI DIRITTI ➢ volontaria → GESTIONE DEGLI INTERESSI: non risolve una controversia sui diritti, ma la decisione del giudice va a gestire interessi delle parti. Non spetta necessariamente ai giudici, potrebbe essere affidata ad altri soggetti. La regola generale del diritto privato è il PRINCIPIO DI AUTONOMIA PRIVATA: le parti con atti giuridici producono effetti sul piano sostanziale. Non ci sono interferenze dello stato perché ciascuno, nel rispetto delle norme inderogabili, può stipulare contratti ecc. Tuttavia a volte l’ordinamento in ragione della tipologia di interessi coinvolti o del n° di soggetti interessati o coinvolti nella faccenda, LIMITA E ATTENUA L’AUTONOMIA PRIVATA: un certo atto in un certo contesto non può essere compiuto liberamente. L’ordinamento vuole intervenire negli interessi dei privati quando rinviene in una fattispecie dei MOTIVI PARTICOLARI che lo spingono a farlo, derogando alla regola generale. Es. domani posso vendere l’immobile a chi mi pare se c’è il principio di autonomia privata. Se l’immobile è di proprietà di mio figlio, non posso venderlo come mi pare ma serve un’autorizzazione del tribunale. Devo dire, perché possa stipulare il contratto traslativo, perché devo venderlo → deroga alla regola generale per tutelare l’interesse del minore. 12 Es. diritto societario: la validità formale delle delibere che riguardano atti straordinari (es. aumento di capitale, fusione, scissione) sono soggetti al controllo formale del notaio. Fa un controllo formale di legalità e se non ci sono i presupposti non deve erogare l’atto. Anche nelle società i soci fanno quello che vogliono (regola generale dell’autonomia privata) ma in alcuni casi, quando l’atto incide sull’organizzazione societaria, la volontà delle parti non è autosufficiente perché è sottoposta ad un provvedimento posto in essere dal notaio, quantomeno c’è un controllo di legittimità formale dell’atto. → DEROGHE ALL’AUTONOMIA PRIVATA perché un soggetto estraneo rientra nella faccenda. In casi peculiari (diritto di famiglia o societario etc.) in cui gli interessi di ordine generale si fanno sentire in modo particolare, l’autonomia privata è derogata: per il procedimento di formazione dell’atto è previsto un controllo esterno di carattere pubblicistico. È una scelta dell’ordinamento. Se lo stato vuole intervenire, deve decidere COME si estrinseca questa scelta: se attraverso l’intervento dell’apparato giurisdizionale o da parte di altri soggetti che hanno specifiche funzioni → scelta discrezionale. Dove decide di intervenire, interviene come ritiene più confacente a quella determinata situazione. Più interviene il giudice più appesantisco l’attività del giudice e lo distolgo dal loro compito. Quando lo stato decide di intervenire e di farlo col giudice siamo in presenza della GIURISDIZIONE VOLONTARIA: - è un’attività giurisdizionale perché svolta da un giudice dello stato - è volontaria perché non risolve una controversia ma GESTISCE INTERESSI - attività non costituzionalmente necessaria → può esserci o meno. C’è sempre stata un’oscillazione. Prima della riforma societaria del 2006, le attività che svolge il notaio le svolgeva il giudice, poi si è spostata dal giudice al notaio ma la funzione è sempre la stessa. In un’epoca in cui c’è il problema della giustizia o della giurisdizione che non è in grado di far uscire tutto quello che entra, si parla di giurisdizionalizzazione. La riforma Cartabia ha spostato delle funzioni che fino al 2022 erano dei giudici su altri soggetti come i notai. DISCREZIONALITA’ in 2 MOMENTI: a. DECISIONE SE INTERVENIRE O MENO b. DECISIONE SUL COME INTERVENIRE Sono attività sempre giurisdizionali in base non al suo oggetto ma al SOGGETTO. Ogni volta che interviene nel procedimento il GIUDICE che decide una controversia o l’istanza autorizzatoria, siamo sempre in presenza di un processo giurisdizionale e quindi devo rispettare le regole del giusto processo. Oggi non rileva l’oggetto ma il soggetto: se l’attività è data ai giudici deve avere le caratteristiche della giurisdizione e si ampliano a questi procedimenti le GARANZIE! La STRUTTURA DEI PROCESSI cambia in base alla FUNZIONE: non posso dare processi uguali a funzioni diverse. Nella giurisdizione contenziosa serve un processo che consenta un pieno sviluppo del contraddittorio nel quale il giudice ha un potere d’ufficio. Nella giurisdizione volontaria è diverso perché c’è un interesse pubblico quindi c’è un forte potere del giudice, un procedimento snello e rapido, deformalizzato, con provvedimenti non idonei al giudicato. L’interesse è mutevole quindi non possono esserci provvedimenti stabili. I procedimenti utilizzati per la giurisdizione volontaria sono particolari. È il PROCEDIMENTO CAMERALE SOMMARIO previsto agli artt. 737 ss del cpc. Camerale = si svolge con un’unica udienza in camera di consiglio, sommario = è breve. CARATTERISTICA: è rimesso il suo svolgimento al POTERE DEL GIUDICE, è deformalizzato, non c’è una predeterminazione rigorosa. Il giudice ha POTERI AMPI, ad esempio per quanto riguarda la prova. I provvedimenti sono modificabili o revocabili in ogni tempo. I mezzi di controllo sono uno strumento più duttile ovvero il RECLAMO CAMERALE. 15 Tuttavia noi non si coglierebbe il senso della tutela dichiarativa se non mettessimo la tutela dichiarativa in collegamento funzionale con l’istituto del GIUDICATO SOSTANZIALE o dell'attività di cosa giudicata. Il giudicato, la qualità di cosa giudicata, è il carattere indispensabile della tutela dichiarativa, tanto che noi possiamo dire che ogni volta che vi è giurisdizione dichiarativa, vi è giudicato e ogni volta che la legge dice che un provvedimento è idoneo al giudicato allora ci sta dicendo con chiarezza che siamo in presenza di una funzione di tipo dichiarativo: se c'è giurisdizione dichiarativa, c'è giudicato, se la legge dice “il provvedimento fa stato ai sensi di 2909 cc”, allora io non ho dubbi di inquadrare quel procedimento, è un processo di tipo dichiarativo quindi c'è un nesso bilaterale tra giudicato e tutela dichiarativa.  Il giudicato è ciò che caratterizza e distingue la tutela dichiarativa. Chiariamo meglio questi concetti. Che cos'è il giudicato? Se dopo il primo grado, il secondo grado e il ricorso in Cassazione, si va a stabilire che il cavallo è di A il giudicato significa che non si può più discutere tra A e B se il cavallo è di A o di B ma devono prendere atto che il cavallo è di A perché a un certo punto la lite deve finire e non può continuare all’infinito. Il giudicato è la incontestabilità e la definitività dell'accertamento giurisdizionale. Pertanto il giudicato è elemento essenziale della tutela dichiarativa perché se quest’ultima serve per risolvere un conflitto, a un certo punto la risoluzione del conflitto deve avvenire in modo definitivo. Cioè il giudicato è un accertamento, un accertamento per essere un accertamento vero a un certo punto deve diventare definitivo, non più contestabile perché un accertamento provvisorio, modificabile in qualunque momento a un certo punto non è più un atto accertativo vero. Nel procedimento legislativo c'è la parola fine quando viene promulgata la legge e così anche nel procedimento giurisdizionale = quando è emessa la sentenza che per l'ordinamento è definitiva, a quel punto non se ne parla più di questa realtà definitiva, immodificabile e immutabile. I temi che dobbiamo meglio approfondire sono due e cioè: ➢ Quando un provvedimento è per l'ordinamento definitivo e quindi produce la incontestabilità che è tipica del giudicato? A questa domanda risponde un istituto che prende il nome di GIUDICATO FORMALE: art. 324 del cpc. ➢ Che cosa significa che quando il provvedimento è definitivo passa in giudicato, acquista l'autorità di cosa giudicata? A questa domanda risponde un'altra istituto collegato al primo che prende il nome di GIUDICATO SOSTANZIALE (o autorità di cosa giudicata): art. 2909 cc. Quindi noi abbiamo questi due istituti, uno presupposto dell'altro. L'art. 2909 esprime il fenomeno del giudicato sostanziale. L'accertamento contenuto nella sentenza passata formalmente in giudicato “fa stato ad ogni effetto tra le parti, i loro eredi e aventi causa”. Questo è l'effetto del giudicato sostanziale, effetto che la legge collega palesemente all'accertamento contenuto nella sentenza ma non ogni accertamento, solo l'accertamento contenuto nella sentenza passata formalmente in giudicato. Questo accertamento contenuto in questa sentenza fa stato a ogni effetto → vuol dire che quell’ accentramento è vincolante tra le parti sia sul piano sostanziale sia sul piano processuale: il contenuto dell'accertamento non è contestabile in ogni futuro processo in cui venga in rilievo quel diritto accertato neppure sul piano sostanziale perché è regola di condotta delle parti, che devono conformare i loro comportamenti a quell’ accertamento. Quindi il giudicato sostanziale si accompagna all'accertamento, e detto meglio, all’accertamento della situazione sostanziale accertata. Questo accertamento è vincolante, è incontestabile tra le parti vuoi sul piano processuale, quindi in un futuro processo, vuoi al di fuori del processo sul piano sostanziale perché le parti debbono rispettare quella decisione e conformare le loro condotte a quella certa decisione: se il giudice ha detto che il cavallo è di A, B deve rispettare questo accertamento e deve tenere i suoi comportamenti sul piano sostanziale sul presupposto del cavallo di A, quindi non può impossessarsi del cavallo in quanto è di A. Questa caratteristica è propria solo di quell'accertamento che è contenuto in una sentenza passata formalmente in giudicato, cioè in una sentenza che è per l'ordinamento definitiva. Quando è che una sentenza è definitiva? Quando è che ha raggiunto la condizione di stabilità sufficiente per l'ordinamento affinché possa produrre gli effetti 2909? Quando è passata formalmente in giudicato, è per 16 questo che si dice che il giudicato formale è il presupposto del giudicato sostanziale: quando è passata formalmente in giudicato. Ma quando è che una sentenza è passata formalmente in giudicato? Basta leggere l’art. 324 cpc e ci accorgiamo che tale è la sentenza che non è più soggetta, in quanto ormai preclusi definitivamente ai mezzi di impugnazione cosiddetti ordinari. I MEZZI DI IMPUGNAZIONE sono ordinari e straordinari: • i mezzi di impugnazione straordinari sono i mezzi impugnazioni che servono anche per superare il giudicato; • i mezzi di impugnazione ordinari sono mezzi di impugnazione appunto ordinari al cui esaurimento si forma il giudicato: regolamento di competenza, appello, ricorso in Cassazione, revocazione per i numeri 4 e 5 dell'articolo 395 del codice di procedura civile. Questi sono i metodi di impugnazione ordinari: al cui esaurimento la legge condiziona il giudicato formale, che a sua volta è il presupposto del giudicato sostanziale. La sentenza di I grado non ha la forza del giudicato perché se è ancora impugnabile con l'appello non ha la stabilità del 324, lo ha soltanto quando sono decorsi i termini per appellare. Se si vuole impugnare l’appello, la sentenza d'appello sarà il provvedimento che poi passerà in giudicato, bisogna vedere qual è, in base ai mezzi di impugnazione svolti dalle parti, il provvedimento che è divenuto definitivo perché non è ulteriormente impugnabile con un mezzo ordinario. La tutela dichiarativa si sviluppa poi in più azioni, non vi è una sola forma di azione dichiarativa perché abbiamo sul piano sostanziale bisogni differenti delle situazioni soggettive e a questi differenti bisogni corrispondono risposte diverse dell'ord. processuale, quindi azioni (o tutele) diverse. 3 modelli generali: 1. L'AZIONE DI MERO ACCERTAMENTO 2. L'AZIONE DI CONDANNA 3. L'AZIONE COSTITUTIVA Se sul piano sostanziale l'unico problema che si pone è di stabilire di chi è il cavallo, la parte si accontenterà di una sentenza di mero accertamento, ma se il cavallo è nelle mani di quello che secondo l'attore non è l'avente diritto, la parte non potrà accontentarsi dell'accertamento ma dovrà dire “il cavallo è mio, condannalo a consegnarmi il cavallo”. Questo viene raccontato nell’azione di rivendicazione dell'articolo 948 del cc, che è un'azione di condanna. L’azione di condanna che è un qualcosa di più dell'azione di accertamento perché io chiedo al giudice che disponga degli ordini, delle condanne in modo che la situazione di diritto venga rispettata e la controparte adegui, con i suoi comportamenti, la situazione di fatto a quella di diritto. Vi è anche una forma particolare che è la forma delle azioni e dell'interesse costitutivo che si caratterizza rispetto alle altre due per questo elemento semplice ma fondamentale: ➢ mentre la sentenza di accertamento e di condanna accertano una situazione sostanziale preesistente, fotografano, cristallizzano una situazione sostanziale preesistente ➢ la sentenza costitutiva è la fonte, la causa di una modificazione giuridica = quindi il giudice non si limita ad accertare ciò che è, ma con la sua sentenza crea qualcosa di nuovo sul piano sostanziale. Ex. azione di risoluzione del 1453 cc, il giudice non si limita a fotografare che dia un contratto e che questo contratto ha subito un grave inadempimento ma così facendo dispone la risoluzione del contratto quindi scioglie gli effetti contrattuali. Quindi la sentenza del giudice è elemento di costituzione, modificazione, costruzione di situazioni soggettive sostanziali. LA SENTENZA DI ACCERTAMENTO O DI MERO ACCERTAMENTO La sentenza di accertamento può essere di: • accertamento positivo: accerta che tra A e B il cavallo è mio, tende al riconoscimento di un diritto dell’autore; • accertamento negativo: accerta che B non ha la proprietà del cavallo, accerta che B non ha un diritto di servitù su beni della proprietà. Pensiamo all’actio negatoria servitutis: azione che è volta a negare l'esistenza di una servitù in danno del fondo di cui è proprietario l'attore che agisce in giudizio. Tende al disconoscimento di un diritto del convenuto. 17 Nel cpc o cc non vi è una norma che dica “nel nostro ordinamento sono ammesse le azioni di mero accertamento”. Se invece andiamo a spigolare tra le norme del codice civile ci accorgiamo che la legge di volta in volta prevede azioni di mero accertamento o positivo o negativo. Ad esempio: • l'art. 1079 cc prevede actio confessoria servitutis cioè l’azione con cui l'attore chiede il riconoscimento di un proprio diritto di servitù. • l'art. 949 cc prevede l'actio negatoria servitutis, cioè l'azione con il quale l'attore vuole sentire disconosciuto il diritto di servitù vantato dal convenuto. • Azioni di nullità del contratto sono azioni di accertamento perché la parte chiede al giudice di accertare che il contratto sia nullo e che quindi non si sono prodotti gli effetti contrattuali, che sia inefficace: non modifica la situazione ma dichiara che il contratto è nullo perché il contratto nullo è inefficace, non produce effetti. • il testamento, è prevista l’azione di nullità del testamento • Lo stesso discorso vale per il la proprietà industriale: vi è una norma speciale del codice della proprietà industriale che prevede l’azione di nullità Quindi, benché manchi una norma generale che dica, come ad esempio in altri ordinamenti, “è ammessa l'azione di riconoscimento/di disconoscimento di diritti” però è innegabile che la legge in più parti prevede e riconosce in modo espresso azioni di accertamento o in positivo o negativo”. La domanda che dobbiamo porci è: l'ordinamento, l'azione di accertamento positivo o negativo, l’ammette solo quando la prevede (ad esempio con riferimento alla servitù: actio possessoria o negatoria) oppure l’ammette in modo generalizzato e atipico, cioè al di là dei casi previsti dalla legge? Quindi il problema di stabilire se le azioni di mero accertamento è un'azione tipica o un'azione atipica: • azione tipica = si può ricorrere a questo strumento nei soli casi previsti dalla legge • azione atipica = è possibile ricorrere a questo strumento per accertamento di qualsivoglia situazione soggettiva sostanziale, a prescindere dal caso in cui la legge lo prevede e quindi posso andare dal giudice e dire “accerta che sono proprietario del bene”/“accerta che lui non è proprietario del bene”. Se diciamo che si può fare, riconosciamo l'atipicità dell'azione; se diciamo che non si può fare, riteniamo che l'azione di accertamento è tipica ed è possibile nei soli casi espressamente previsti.  Non vi è dubbio che l'azione di accertamento sia un'azione ATIPICA, cioè ammessa anche al di là dei casi espressamente previsti dalla legge. Questo da dove lo ricavo? La norma fondamentale è l'ART. 24 I comma Cost. che stabilisce un diritto di azione per la tutela delle situazioni soggettive violate. Il diritto di azione è un'azione atipica cioè ammessa per qualunque situazione soggettiva in presenza delle violazioni, delle lesioni che volta per volta questa situazione soggettiva subisca. Quindi ciò che mi fa dire che l’azione di accertamento è atipica è l'art. 24, il quale, salvo quanto previsto per le azioni costitutive, che sono tipiche, introduce un principio di valenza generale nel nostro ordinamento, cioè il PRINCIPIO DI ATIPICITÀ DELLE AZIONI: non è necessario che una norma dica “c'è questa azione” ma ogni volta che io individuo una situazione soggettiva sostanziale, e ogni volta che questa situazione sia lesa nei vari modi di volta in volta rilevanti, allora in tutti questi casi la parte ha il diritto di azione. È un principio fondamentale del nostro sistema processuale, salvo quanto previsto dall'art. 2908 cc e per le azioni costitutive che sono solo tipiche, per ogni altra tipologia d'azione vale il principio di atipicità, nel senso che anche in assenza di una specifica norma, che preveda una certa azione (l'azione di riconoscimento della proprietà, l'azione di disconoscimento dell'obbligazione) ogni volta, come dice l'art. 24 comma I, che vi sia una situazione sostanziale violata o lesa, in tutti i casi in cui ciò accada, la parte ha per definizione, in base alla normativa sovraordinata di carattere costituzionale, il diritto di azione (con l’azione volta per volta necessaria: l'azione di accertamento, azione di condanna e così via). Premesso che l'azione di accertamento, come ogni altra azione (ad eccezione di quelle costitutive) è atipica, però noi capiamo che dobbiamo tener conto di quello che il bisogno di tutela, e quindi il tipo di rimedio, dipende dal tipo di violazione = a violazioni diverse corrispondono rimedi diversi. 20 dovere e di obblighi che i consociati devono porre in essere → quelli che i civilisti chiamano il dovere di astensione = io devo astenermi da ingerirmi nel rapporto fra il soggetto titolare del diritto e la res. Quando il dovere di estensione è violato, perché il soggetto si è impossessato illegittimamente del bene, perché il soggetto ha compiuto atti lesivi del diritto, nasce una situazione che non è una cosa diversa ma è la trasformazione di quell’obbligo originario, che è l'obbligo di tenere quel comportamento che ripristina la situazione lesa. Es. l'obbligo di consegna nelle azioni di rivendicazione, oppure l'obbligo di porre in essere i comportamenti necessari per ripristinare la proprietà violata e così via. La condanna presuppone una violazione di diritti, che ha come base il fatto che il soggetto debba essere condannato a tenere una prestazione, a tenere un comportamento, al fine di realizzare l'interesse dell'altro soggetto: se la controparte / il convenuto (= colui che è condannato) non tiene questa prestazione, io sul piano sostanziale non sono soddisfatto perché non vedo realizzato il mio interesse. Alla base della condanna vi è la violazione di un dovere, di un obbligo, che consiste in un comportamento che è necessario per vedere realizzato e soddisfatto l’altrui diritto. Se questo è vero, allora è facile capire che, se noi riflettiamo sulle obbligazioni, è in re ipsa il discorso perché l'obbligazione è un diritto relativo tra due soggetti che ha per oggetto una prestazione che deve essere eseguita dal debitore e che solo quando il debitore adempie al suo obbligo l'interesse del creditore è soddisfatto. È un pochino più tortuoso il percorso ma non è dissimile quando pensiamo ai diritti reali, perché il diritto reale che cos’è? Cosa dice l'ordinamento? La violazione del dovere di astensione diventa obbligo di tenere il comportamento opposto = ti sei impossessato della bottiglia violando il dovere dell'astensione allora il dovere di astensione diventa obbligo di restituire la bottiglia. Ancora una volta quando arrivo al processo sono in una situazione simile all'obbligazione perché vuol dire che c'è uno di voi che si è impossessato illegittimamente della bottiglia, ha violato un suo dovere e io chiedo all'ordinamento di condannarlo a ridarmi indietro la bottiglia a restituirmela perché in questo modo soddisfa il mio interesse, e ripristina il rapporto tra me e la cosa. Quindi è un percorso più tortuoso ma alla fine siamo sempre lì, perché: - o ci si arriva in modo diretto = nell'obbligazione - ci si arrivi in modo indiretto attraverso questo percorso più lungo però in entrambi i casi nel processo c'è sempre un soggetto che ha un diritto che presuppone un comportamento dell'altro, e solo se l’altro soggetto rispetta il dovere (quindi tiene il comportamento dovuto) il primo vede realizzato il suo interesse. E quindi si avrà, nell'esempio fatto, la condanna a restituire, che è una cosa diversa dalla condanna a consegnare, giuridicamente ma non di fatto: - la condanna a consegnare ha un titolo contrattuale, un’obbligazione - la condanna a restituire ha un titolo extracontrattuale, la proprietà È evidente che poi ANCHE NELLA CONDANNA VI E’ UN ACCERTAMENTO: cioè la sentenza di accertamento ha un solo effetto, un solo contenuto, cioè l'effetto di accertamento. La sentenza di condanna, invece, ha un duplice effetto, un duplice contenuto: - L'ACCERTAMENTO - LA CONDANNA = il giudice per dire all'altro “paga” o “restituisci la bottiglia”, deve prima accertare il diritto. Quindi c'è prima un atto accertativo – l'effetto è, per esprimerci in termini tecnici, di CAPO DI ACCERTAMENTO. Poi c’è il CAPO CONDANNATORIO – in conseguenza di ciò, ti condanno a restituire il bene/ad adempiere. Quindi la sentenza di condanna è un qualcosa di più della sentenza di accertamento, non un qualcosa di diverso, perché contiene in sé anche il momento accertativo (si parla di capo di accertamento, statuizione di accertamento), MA mentre nell'accertamento ci si ferma, qui segue qualcosa in più: il capo di condanna, la statuizione di condanna. 21 Le sentenze di condanna possono avere a monte qualsivoglia tipologia di situazione solvibile, non solo obbligazioni ma anche diritti assoluti e i diritti relativi (es: diritti reali o diritti personali di godimento = consegno il bene in forza del contratto di locazione). Quindi qualunque tipologia di diritto, sempre che vi sia un elemento, cioè una condotta/comportamento che il convenuto deve tenere per realizzare alcuni interessi. Se questo è vero, allora capiamo che la condanna può avere qualunque tipo di contenuto = pagamento di una somma pecuniaria, consegna di un bene mobile o immobile, facere (io ti condanno a fare questa cosa) con una precisazione importante: - talvolta il facere è l’oggetto diretto dell’obbligazione = stipuliamo un contratto d'appalto in cui si stabilisce che tu faccia una certa cosa nel mio interesse. - altre volte il facere è la conseguenza della violazione di un obbligo di non fare = tu avevi un obbligo di non costruire, lo hai fatto comunque, allora ora ti condanno a demolire. Mentre l'obbligo al pagamento o di consegna è sempre un obbligo diretto, quando invece parliamo di obbligazioni di fare c'è questo duplice aspetto: il non fare violato e il fare = a volte l'obbligazione è soltanto di fare; altre volte un'obbligazione di non fare che diventa un’obbligazione di fare, a seguito della violazione dell’obbligo di non fare. La condanna però può avere anche ad oggetto direttamente condanne a non fare, oppure a un pati. Es. ti condanno a non fare questa cosa, oppure ti condanno a non porre più un essere una certa attività che magari hai già compiuto perché questa attività è un'attività illecita, perché viola il diritto di brevetto, la proprietà industriale di un certo soggetto. La condanna può essere con FUNZIONE RIPARATORIA – REINTEGRATORIA – RIPRISTINATORIA o con FUNZIONE INIBITORIA. Cosa vuol dire funzione riparatoria/ripristinatoria/reintegratoria? Io ti condanno ad un comportamento che dovevi fare e non hai fatto - quindi la condanna è rivolta al passato. Ti condanno ad adempiere, a demolire l'immobile, a consegnare il cavallo, a pagare 100. Qua abbiamo un obbligo sul piano sostanziale che già è stato violato e io ordinamento ti dico “guarda che tu devi porre rimedio alla violazione, devi cessare la violazione e fare certe cose”. Questa è la condanna classica (più frequente), pone rimedio ad un illecito che sul piano sostanziale si è già verificato. Però a volte ha bisogno di qualcosa di più e di diverso = ha bisogno della tutela di condanna a contenuto inibitorio. Come dice il termine “inibitorio”, è una condanna con la quale il giudice inibisce un certo comportamento, una certa condotta, e si accompagna evidentemente ad obblighi di non fare o di pati, e qui c’è un punto importante: non c'è già a monte una violazione dell'obbligo di condanna inibitoria perché è una condanna proiettata nel futuro – a volte può esserci a monte già una violazione, però la condanna non si limita a ordinare la rimozione di un’azione ma dice anche “per il futuro non fare più questa cosa”. Ex. un soggetto violi la proprietà industriale di un altro soggetto: a me non basta che il giudice dica di cessare di tenere quel comportamento passato, MA ci vuole qualcosa in più, perché ci vuole un ordine del giudice che dica “e per il futuro non fare più quella certa cosa perché ledi il diritto di proprietà industriale dell'attore”. Quindi come vediamo può essere: - INIBITORIA PURA = io vado a dire al giudice “guarda che questo sta facendo queste cose” e allora il giudice dice “ti inibisco a fare queste cose”; - oppure come accade il più delle volte, è un’INIBITORIA MISTA perché c'è la condanna per ciò che è già stato fatto + l'inibitoria del futuro = il giudice dice “posto che tu hai fabbricato questa bottiglia violando il marchio della società Lievissima, ti riordino di distruggere tutte le bottiglie che hai già messo sul mercato (per il passato) e ti ordino per il futuro di non ripetere questi comportamenti, di non reiterare questo comportamento illegittimo perché ti ho detto io che è illegittimo”. È molto importante la condanna inibitoria, perché per certe situazioni (situazioni di durata, cioè con effetti proiettati nel futuro, oppure situazioni permanenti) è necessario che il giudice dica “e per il futuro non fare questa cosa” perché altrimenti io ogni volta sarei a rincorrere la controparte. RECAP: la condanna inibitoria si caratterizza rispetto a quella ripristinatoria o restitutoria o riparatoria (ripristino, restituisco o riparo), per il fatto che queste ultime rimuovono e colpiscono comportamenti già posti 22 in essere, violazioni già perpetrate, l'altra invece inibisce violazioni future perché ordina che non vengano posti in essere certi comportamenti che sarebbero una violazione del diritto, la violazione non è necessario che ci sia stata perché io posso dire “giudice guarda che lui sta operando in questo modo, ordinagli che non lo può fare” – quindi può essere anche un’inibitoria pura. Esempio: “guarda che questo sta realizzando questa roba, non l’ha ancora immessa nel mercato, quindi la lesione non ce l'ho da rimuovere MA ordinargli comunque di non farlo” questa è un’inibitoria pura → che può essere invece un’inibitoria mista quando dico “ha già fatto questo, digli che smetta, demolisci le bottigliette e ordina di non farlo per il futuro” → questa è un’inibitoria mista. L’inibitoria è importantissima soprattutto in presenza di diritti ad effetti permanenti o rapporti di durata perché in questa ipotesi il comportamento si può reiterare essendo un rapporto che dura nel tempo e allora io cosa chiedo al giudice? Gli dirò “guarda digli a questo signore che, nella permanenza del rapporto, non può tenere una certa condotta, perché quella condotta è lesiva della mia situazione soggettiva protetta”. Quindi noi non abbiamo una sola forma di condanna, ma abbiamo: ✓ la condanna che può avere tutti i contenuti possibili perché può avere ad oggetto qualunque ordine di comportamento che è necessario per realizzare l'interesse della parte. ✓ poi abbiamo questa duplice distinzione: condanna rivolta verso il passato, perché sanziona un illecito già realizzatovi e quindi ci vuole la condanna a rimuovere l’illecito. Ex. restituisci il cavallo, ripristina l'edificio che hai abbattuto illegittimamente, o a volte risarcisci i danni. Io questi casi ho le forme di esecuzione dirette: demolisci, restituisci e se non lo fai te lo farà qualcun altro. oppure proiettata verso il futuro, cioè inibisci questi comportamenti per il futuro, quindi sanziona una condotta che non si è ancora realizzata ma che si potrebbe realizzare e io ho interesse che il giudice dica non la realizzare. In questo caso il rimedio per assicurare le proiezioni dell’ordine sono le forme di esecuzione indiretta, in cui il giudice dice “e per ogni volta che violi paghi 100.000 €”, cioè prevede una sanzione per la violazione futura (= si chiama misura coercitiva). In questo modo il giudice assicura la realizzazione di interesse perché commina una sanzione che si accompagna ai futuri inadempimenti. Domanda: nell’inibitoria mista, perché si parla di condanna e non di tutela? MA la condanna nel senso tecnico del termine non ha luogo per qualcosa che è stato accertato e quindi riferito logicamente al passato? Risposta: ti condanno a non fare; in questi casi c'è sempre un accertamento del passato perché il giudice dice “questa condotta è illecita e quindi non la fare più”, il giudice qualifica quella condotta contestata come illecita. Se il giudice dicesse “guarda che questo prodotto che hai fatto non viola la Levissima”, non ci si sarebbe condanna, quindi c’è sempre un accertamento di una condotta. 25 diritti sul piano sostanziale. È una scelta del legislatore che per dare protezione a figure particolari. es. il giudice dice “ti condanno ad adempiere e l’adempimento dovrà avvenire entro il 30 giugno 2024” = se io dovessi aspettare il 30 giugno, potrei avere il titolo esecutivo 1 o 2 anni dopo, ma invece ti posso chiedere una condanna ad adempiere in futuro ovvero il 30 giugno 2024, quando l’obbligazione sarà scaduta. Quindi lo scopo della condanna in futuro è quello di rafforzare la tutela del credito e di munire il creditore di un titolo esecutivo prima della scadenza dell’obbligazione. La figura più significativa è quella prevista dall’art. 657 cpc: Intimazione di licenza e di sfratto per finita locazione “Il locatore o il concedente può intimare al conduttore, al comodatario di beni immobili, all'affittuario di azienda, all'affittuario coltivatore diretto, al mezzadro o al colono licenza per finita locazione, prima della scadenza del contratto, con la contestuale citazione per la convalida, rispettando i termini prescritti dal contratto, dalla legge o dagli usi locali. Può altresì intimare lo sfratto, con la contestuale citazione per la convalida, dopo la scadenza del contratto, se, in virtù del contratto stesso o per effetto di atti o intimazioni precedenti, è esclusa la tacita riconduzione L’art. 657 disciplina una figura particolare di processo speciale, il procedimento per convalida di sfratto. L’ordinamento tanto vuole proteggere il locatore, che non solo gli concede un procedimento speciale per ottenere un titolo esecutivo al fine di ottenere la consegna del bene, ma addirittura introduce una figura peculiare, che è la licenza per finita locazione e in forza della quale il locatore può agire per licenza della locazione prima della scadenza del contratto, in modo da ottenere un titolo esecutivo da utilizzare quando il contratto scadrà. Quindi qui il credito è un diritto alla restituzione del bene e quindi il soggetto chiede una condanna alla controparte a rilasciare il bene alla scadenza del contratto. Ricordiamo che le ipotesi di condanna speciale sono figure anomale rispetto al sistema, quindi non sono ammesse a meno che il sistema non lo consenta. La condanna generica e la condanna provvisionale: Art. 278 comma 1 e 2 rispettivamente: “Quando è già accertata la sussistenza di un diritto, ma è ancora controversa la quantità della prestazione dovuta, il collegio, su istanza di parte, può limitarsi a pronunciare con sentenza la condanna generica alla prestazione, disponendo con ordinanza che il processo prosegua per la liquidazione. In tal caso il collegio, con la stessa sentenza e sempre su istanza di parte, può altresì condannare il debitore al pagamento di una provvisionale, nei limiti della quantità per cui ritiene già raggiunta la prova”. Soffermiamoci sul comma 1, ovvero sulla CONDANNA GENERICA: è proposta un’azione, una domanda con la quale il creditore chiede la condanna al convenuto – debitore al pagamento di una somma di denaro, ad esempio al risarcimento del danno. Il giudice può riconoscere esistente un diritto e quindi condannare, non solo se si convince circa il fatto che il diritto esista ma anche sul quantum del diritto, cioè riconosce che non solo quel determinato diritto ci sia ma anche a quanto possa ammontare l’importo corrispondente al risarcimento del danno nel caso in cui quel diritto stesso venga violato. Però in taluni processi, soprattutto quando si parla di responsabilità, di risarcimento del danno, spesso l'attività più complessa riguarda la quantificazione del danno cioè, mentre il procedimento dell’esistenza del diritto avviene più facilmente, la difficoltà sta nel quantificare il danno e talvolta la parte può avere un interesse a vedersi riconosciuto quel diritto, perché magari in via transattiva si risolve la tutela del quantum. In questi casi, quando siamo in corso di causa e c’è già stato un accertamento sul diritto, si può chiedere al giudice una sentenza di condanna generica con la quale il giudice riconosce l’esistenza del diritto e riserva al proseguo del processo verificare se in concreto il danno c’è e il quantum del danno. Quindi se vogliamo si spezza in due parti, una prima fase che si conclude con una sentenza di condanna generica, e la seconda fase che va a liquidare il diritto. Quali sono i rapporti tra le due parti? Nella seconda fase di che cosa si può discutere? Qui la risposta è che si può discutere di tutto ma non dell’esistenza del diritto, perché quel momento ormai è incarnato in una sentenza, ed è possibile discutere di quegli elementi soltanto nella prima parte. 26 Quindi tutti gli elementi della fattispecie o tutti gli elementi eventualmente impeditivi che riguardano l’anima o l’esistenza del diritto non sono deducibili o discutibili in questa fase. L’unica cosa che può accadere è che la parte impugni la decisione, ma nella fase due non possiamo discutere di quello che è stato deciso nella fase uno. Si può anche arrivare a dire che il danno non esiste: nella fase uno c’è semplicemente una valutazione astratta per quanto riguarda l’esistenza del diritto. la seconda fase riguarda il danno in tutti i suoi profili, non solo la quantificazione ma riguarda tutto il piano del danno. Quindi la seconda fase si può concludere con una sentenza di condanna come no. A che cosa serve la sentenza di condanna generica? Ogni volta che vi è sentenza, i temi oggetto dell’accertamento di quella sentenza non sono elementi di discussione nelle fasi successive di quel processo. Per il fatto che si tratta di una sentenza questa è intoccabile, irrevocabile, mentre se fosse una ordinanza potrebbe essere revocata. Quindi la scelta dell’ordinamento di parlare di sentenza è questa: ovvero perché vuole che nella seconda fase non si discuta di quello che è stato detto nella prima. Cosa che si sarebbe potuto fare se fosse detto ordinanza. Che contenuto ha questa sentenza? Si parla di condanna, ma è in realtà una vera e propria condanna o un mero accertamento? Da un punto di vista meramente contenutistico è un mero accertamento perché il giudice si limita a dire che c’è responsabilità. Tanto è poca la condanna, tanto è potenziale il danno. Quindi sarebbe una vera e propria pronuncia di accertamento. Ma allora perché si parla di condanna? Perché innanzitutto questa sentenza non è idonea ad aprire un’azione esecutiva. Poi non è nemmeno una sentenza definitiva. E quindi a cosa serve questa sentenza di condanna? Lo si capisce dall’art.2818 cc: “Ogni sentenza che porta condanna al pagamento di una somma o all'adempimento di altra obbligazione ovvero al risarcimento dei danni da liquidarsi successivamente è titolo per iscrivere ipoteca sui beni del debitore. Lo stesso ha luogo per gli altri provvedimenti giudiziali ai quali la legge attribuisce tale effetto”. Quindi l’utilità della sentenza di condanna generica è per un verso di cristallizzare l'esistenza del diritto, ma soprattutto l’utilità si ricava da questa previsione. La sentenza di condanna generica è titolo per iscrivere ipoteca giudiziale sui beni del debitore. L’ipoteca prevede una quantificazione del diritto, ma se non ho il quantum, come procediamo? La risposta si trova nelle norme sull’ipoteca stessa, perché è in quelle norme dove il legislatore spiega che è proprio il creditore individua l’importo per l’iscrizione dell’ipoteca, è una responsabilità del creditore, si auto quantifica il credito, autoliquida il suo creditore. Ma deve essere cauto perché la sentenza potrebbe discostarsi dalla sua quantificazione e se succede, il creditore subirà una responsabilità del danno verso il debitore. Il presupposto è che sia stato proposto un giudizio sull’intero credito e poi questo giudizio può scomporsi in due parti. La giurisprudenza allarga la portata di questa disposizione prevedendo che addirittura la domanda di condanna generica possa essere oggetto di un'azione ad hoc, cioè che il creditore agisca fin dall’inizio dicendo che vuole la sentenza di condanna generica riservandosi poi in un separato processo dove decide il risarcimento del danno. La sentenza di condanna generica, ex art.278 comma 1, è una sentenza che nasce da un giudizio che riguarda l’intero credito, può essere ottenuta da una sentenza che riguarda soltanto l’esistenza del diritto, consente all’attore di chiedere soltanto il riconoscimento dell’esistenza del diritto, riservando poi ad un eventuale secondo processo la quantificazione. Questo perché capita spesso che ci siano processi vasti in cui è incerto prima di tutto se ci sia responsabilità, poi bisogna quantificare il danno. Allora le parti dividono la questione: intanto accertiamo se c’è responsabilità e poi nel caso ci sia quantifichiamo il danno, altrimenti è inutile parlare del danno. È un modo di realizzare l’economia processuale. art.278 comma 2 abbiamo la CONDANNA PROVVISIONALE: è un’evoluzione della condanna generica. Il giudice, sempre su istanza di parte, può non solo emettere una 27 sentenza di condanna generica, rinviando la quantificazione del danno, ma può anche condannare il debitore al pagamento di una provvisionale, nei limiti della quantità a cui era già raggiunta la prova. Riservando ad una seconda fase la determinazione di quelle voci per le quali non è stata ancora raggiunta la prova. Questa non è la provvisionale che fa il giudice penale, perché di solito la provvisionale nel diritto penale prescinde dalla prova del danno. Il giudice civile emette la condanna nei limiti della quantità per cui si è raggiunta la prova, è il giudice è ormai convinto che vi è responsabilità. Mentre nel caso del I comma non ha ancora nessuna prova del danno, qui ci sono più voci di danno, e si è raggiunta la prova solo di alcune di esse. Ex. ha raggiunto la prova sul danno patrimoniale e non sul danno non patrimoniale. Il giudice liquida in parte il danno, riservando in seguito la liquidazione delle voci di danno non ancora accertate. Quindi la condanna c’è già, perché c’è l’esistenza del diritto e la condanna a pagare una certa somma, la peculiarità è che la somma è sola parzialmente liquidata. Che cos’è che si può discutere nella seconda parte? Quello che il giudice ha stabilito con la sentenza non si discute più. Tutte le questioni relative all’an del diritto e alle voci di danno riconosciute sono intoccabili. Nella seconda fase si può discutere solo delle voci di danno non ancora liquidate. Allora il giudice emette una sentenza di condanna provvisionale che ha un duplice contenuto: • riconosce il diritto • riconosce e liquida in parte il danno Riservando al proseguo le altre voci di danno ancora incerte, non pienamente accertate. Quanto a effetti, questa è una condanna piena, quindi sarà a titolo esecutivo nei limiti del condannato, se perdurerà l’effetto dell'allungamento della prescrizione, nei limiti del condannato che sarà a titolo di iscrizione di ipoteca giudiziale nel rispetto dell’altra parte. Abbiamo un problema. Es. ho una sentenza di condanna generica ma anche un processo che continua sul quantum. Può accadere che colui che ha subito una condanna generica faccia riserva di impugnazione dicendo che impugnerà solo congiuntamente alla sentenza definitiva. L’unica cosa che può fare il condannato è una riserva di impugnazione, io mi riservo di impugnare quando arriverà la definitiva. Però il soccombente può impugnare anche subito con un’impugnazione immediata. Il soccombente ha due strumenti: o un'impugnazione immediata o una riserva di impugnazione. Se si utilizza la riserva, non ci sono problemi, perché si mantiene all’interno del giudizio perché la impugnazione finale riguarderà l’an e il quantum. Le cose si complicano quando c’è un’impugnazione immediata, perché avrò un processo di appello che riguarda l’esistenza del diritto e poi un processo di primo grado che si svolge sul quantum ma sono processi condizionati perché l’an condiziona il quantum. Il legislatore prevede che il giudice possa anche sospendere il giudizio sul quantum in attesa del giudizio in appello, però è un potere discrezionale, allora può capitare che mentre si sta svolgendo il giudizio in appello sull’esistenza del diritto prosegua il giudizio sul quantum. Dal giudizio di pari ne nascono altri due: uno in primo grado che continua per liquidare il danno, l’altro in appello che riguarda l’accertamento del danno. Come si coordinano questi profili? Il coordinamento avviene attraverso la comunicazione di ciò che viene deciso, il cosiddetto effetto espansivo della riforma della sentenza in primo grado, ex. art.336 cpc. “La riforma o la cassazione parziale ha effetto anche sulle parti della sentenza dipendenti dalla parte riformata o cassata. La riforma o la cassazione estende i suoi effetti ai provvedimenti e agli atti dipendenti dalla sentenza riformata o cassata”. Quando il giudice accerta il diritto, riforma la sentenza, la riforma non colpisce soltanto il contenuto della sentenza riformata, ma anche i capi dipendenti. Quindi se il giudice di appello riforma la sentenza di condanna viene travolto anche il giudizio in primo grado, che è considerato un capo dipendente. Avviene anche se il capo dipendente fosse passato in giudicato perché l’effetto espansivo opera anche verso capi definitivi. Il coordinamento quindi avviene o con la sospensione del processo dipendente o con l’effetto espansivo che l’eventuale sentenza di riforma della sentenza in primo grado ha sui capi dipendenti. 30 La sentenza costitutiva è necessaria, quando è il solo strumento per ottenere sul piano sostanziale quel tipico effetto giuridico: ciò accade per la inderogabilità dei diritti o per la presenza di norme imperative. In altri casi, la sentenza costitutiva non è necessaria perché quell’effetto che si ottiene con la sentenza costitutiva si può ottenere anche in altro modo. Ad esempio, lo scioglimento del contratto che si può ottenere anche con un atto di autonomia privata. Ad esempio, la fattispecie all’ art.2932 cc - Esecuzione specifica dell'obbligo di concludere un contratto. dal preliminare nasce l’obbligo delle parti a contrarre. Le parti devono tenere un atto di volontà. L’effetto giuridico altro non è che l’effetto finale che ottengono tramite l’esecuzione del contratto. Ma se una delle parti è inadempiente, l’altra può chiedere l’adempimento coattivo. Quindi la sentenza costitutiva è la risposta all’inadempimento della parte, di regola altrimenti non sarebbe necessaria la sentenza costitutiva. 31 05-10-2023 Per completare il tema della sentenza costitutiva, dobbiamo ancora esaminare 2 aspetti. Per il primo tema bisogna allargare l’orizzonte rispetto a quello detto, e considerare che la tecnica di produzione delle situazioni soggettive sostanziali può prevedere anche un’altra fattispecie. È il caso dei c.d. POTERI SOSTANZIALI CONFORMATIVI, ad esempio il potere licenziare, il potere di esercitare il diritto di scambio ecc. Nell’ultima lezione abbiamo visto che la regola è: A+B = X. E il 2043 del c.c. ne è sintomatico → se si verifica un fatto illecito produttivo di danno sorge l’effetto giuridico, che è il diritto al risarcimento del danno. Però ATTENZIONE, perché può capire anche che A+B = C al cui esercizio e solo al cui esercizio segue X, cioè la norma prevede ancora una volta una fattispecie, ma anziché far conseguire in modo automatico X al grave inadempimento dice che se c’è un grave inadempimento puoi scegliere = se vuoi puoi conservare il contratto e domandare un adempimento oppure puoi anche chiedere al giudice la risoluzione del contratto per inadempimento. E questa è la fattispecie dell’ART. 1453 cc dove C è il diritto potestativo all’esercizio giudiziale perché il diritto è esercitato con la domanda, la parte non ha il potere di realizzare direttamente l’effetto previsto ma ha soltanto il potere di domandare al giudice ed ha diritto di ottenere dal giudice che venga realizzato l’effetto X. Quindi C è una fattispecie complessa che prevede domanda e risolutezza. Però c’è anche un’altra ipotesi: A+B = D quindi ancora si ha una fattispecie AB, ho un elemento D che è il potere che questa volta non abbiamo chiamato diritto potestativo ma POTERE SOSTANZIALE CONFORMATIVO al cui esercizio segue X. In entrambi i casi l’effetto X non si realizza in modo immediato al verificarsi della fattispecie AB. Qual è la differenza rispetto al 1453? La differenza è che qui è necessaria una manifestazione di volontà della parte per produrre l’effetto X ma, al semplice determinarsi della volontà della parte, si produce l’effetto. L’effetto è realizzato direttamente dalla parte che dichiara, che manifesta la volontà di volersi avvalere del potere. Quindi la differenza tra queste ipotesi, tra D e C è data da questo: C è semplicemente il potere di domandare la verificazione giuridica, D è il potere di realizzare la verificazione giuridica perché con C la parte può domandare al giudice, esercitare l’azione della domanda e dire “risolvi il contratto”. Mentre con D è un potere sostanziale che ha un contenuto diverso perché il contenuto non è di domandare, di provocare il mutamento giuridico tramite l’intervento del giudice, ma è di realizzare direttamente. In un caso diciamo che il DIRITTO POTESTATIVO è ad esercizio giudiziario perché esercitato con una domanda giudiziaria (contenuto di domandare al giudice di risolvere il contratto) mentre qua (D) il POTERE SOSTANZIALE CONFORMATIVO è ad esercizio stragiudiziale (atto stragiudiziale con contenuto il potere di realizzare il diritto perché è all’atto di esercizio del potere che la legge collega il mutamento del diritto). Si e fatto l’esempio del potere di licenziamento: quando vi è una giusta causa di licenziamento (es. il cassiere della banca ha sottratto denaro dalla cassa), la legge non dice che se c’è giusta causa, cioè alla fattispecie X segue l’effetto Y (saremmo nell’ipotesi del 2043) ma non dice neppure che se c’è giusta causa tu puoi domandare al giudice la risoluzione (saremmo del 1453); ma dice quando si verifica la giusta causa del licenziamento il datore di lavoro ha il potere di licenziare. Un potere che è esercitato stragiudizialmente con un atto stragiudiziale ed al compimento dell’atto si verifica l’effetto finale dello scioglimento del rapporto. Quindi: un potere sostanziale, ad esercizio stragiudiziale ed al cui esercizio la legge ricollega immediatamente la produzione degli effetti. In questi casi come può intervenire un giudice? L’intervento del giudice si può avere in modi diversi perché il più delle volte la legge prevede che l’atto di esercizio debba essere contestato entro un certo termine e stabilisce poi che questo atto di contestazione possa essere o di tipo stragiudiziale o con un azione giudiziale. Così il lavoratore ingiustamente licenziato deve contestare entro il termine decadenziale il licenziamento ed entro un altro termine deve proporre l’azione di impugnazione (azione costitutiva) perché il lavoratore chiede 32 che venga rimosso, annullato l’atto di licenziamento invalido perché ingiusto o invalido perché non sono state rispettate le regole procedurali (il sistema di licenziamento prevedere certe regole). In questi casi il più delle volte l’ordinamento non vuole lasciare incerta la situazione quindi dice che o lo contesti o se non lo contesti si stabilizza l’effetto (il rapporto di lavoro è sciolto). E la contestazione è un azione costitutiva, un azione con la quale colui che ha subito il tipo di esercizio del potere impugna, contesta, chiede la nullità o l’annullamento dell’atto di esercizio del potere che lui reputa illegittimo (= manca giusta causa) o invalido (= sono violate le regole procedurali). Quindi, attraverso un percorso molto lungo, si ritorna all’azione costitutiva, colui il quale ha esercitato il potere deve impugnare l’atto di esercizio del potere, come colui che vuole l’esecuzione del contratto deve impugnare il contratto. Talvolta la legge dice che bisogna impugnare subito, ex. impugnazione delibere assembleari o condominiali. In altri casi può essere filtrata da un atto stragiudiziale, ex. licenziamento. È una scelta del legislatore ricorrere ad una o all’altra tecnica, è l’ordinamento che sceglie. È chiaro che nel momento in cui si rimanda al giudice vuole evitare che, prima che avvenga l’effetto costitutivo, si garantisca il controllo giudiziale. Quindi il controllo giudiziale è anticipato (1453) rispetto agli effetti: solo con la sentenza l’effetto si realizzarà. Mentre nel caso del licenziamento il controllo giudiziale è posticipato, perché avviene dopo che l’effetto si è realizzato. Questi tre schemi: ➢ Fattispecie ordinaria → 2043 ➢ Fattispecie domanda risolutiva → 1453 ➢ Fattispecie potere sostanziale (potere di licenziare o clausola risolutiva espressa) Questi 3 schemi sono molto importanti perché sono concetti che sono alla base del diritto, cioè che sono regole di produzione degli effetti giuridici che al processualista interessano. Vi sono però dei CASI ECCEZIONALI (siamo sempre nell’ipotesi del dovere sostanziale) in cui la legge dice che qui non importa imporre decadenze alla manifestazione del potere, ciascuna parte faccia ciò che vuole e, nei limiti della prescrizione, potrà contestare l’effetto giudico prodotto = in presenza di doveri sostanziali se è vero che spesso la dinamica è quella del contropotere di contestazione è altrettanto vero che ciò non è obbligato perché può accedere che il legislatore segua una soluzione diversa. Nei limiti della prescrizione ciascuno potrà contestare. Quando una parte dice “il contratto è risolto” per clausola risolutiva espressa nessuno impone a chi ha subito questo potere di contestare subito o di impugnare l’esercizio del potere ma, nei limiti della prescrizione, ciascuno potrà in qualunque momento dire che l’effetto si è realizzato o l’effetto non si è realizzato perché il potere non era contrattualmente previsto o non vi erano i presupposti contrattuali dell’esercizio del potere. Quindi litimi per il contropotere l’ordinamento lo mette tutte le volte in cui vuole rapidamente una certezza, quando all’ordinamento non importa (facciano le parti quello che vogliano) allora non c’è un contropotere soggetto al termine da realizzare ma ciascuna parte potrà in qualunque momento, nel rispetto dei termini prescrizionali, fare valere o contestare i diritti connessi all’esercizio di quel potere. Quando noi ragioniamo sull’azione di accertamento e sull’azione di condanna, salvo alcuni problemi (che vedremo), però vi è un principio, una regola generale = l’oggetto della domanda del processo di accertamento del giudice è l’accertamento dell’esistenza o dell’inesistenza della situazione sostanziale preesistente al processo. Questo per capire qual è l’oggetto della domanda costitutiva = per fare ciò abbiamo detto che se siamo in presenza di una domanda di accertamento di condanna, non vi sono grandi problemi, l’oggetto della domanda sarà il diritto sostanziale che la parte afferma (non che si produrrà ma che già si è prodotto!) quindi la sentenza accerta l’esistenza o l’inesistenza di un effetto giuridico che già si è prodotto. E questo vale sia nello schema del 2043 sia nella risoluzione del contratto. 35 e che prescindono il processo. Questi titoli sono indicati nei numeri 2 e 3 dell’art. 474 del cpc e si tratta o di titoli di credito (cambiali, assenno intestato) oppure di atti che hanno una particolare forza perché si basano sulla pubblica fede, cioè sono atti che per come si sono formati hanno una probabilità elevate della certezza del diritto. Si tratta degli atti pubblici e delle scritture private autenticate. Quindi il 474 c.p.c. individua i titoli giudiziari ed i titoli stragiudiziali. Mentre i titoli giudiziari possono funzionare da titoli con tutti i tipi di processo esecutivo, i titoli stragiudiziali hanno un efficacia diversa. Perché i titoli stragiudiziali, quali i titoli di credito, aprono soltanto l’esecuzione per espropriazione, mentre i titoli stragiudiziali dell’altra categoria, cioè quelli che si basano su un atto di pubblica fede, danno accesso alla esecuzione per espropriazione e all’esecuzione per consegna o rilascio (non anche all’esecuzione per obblighi di fare o di non fare). Capiamo che quando l’ordinamento attribuisce ad una parte il diritto di reagire preventivamente contro l’altra non può non attribuire a colui che subisce l’esecuzione il diritto di contestare il diritto altrui a reagire preventivamente. Io sì sono soggetto ad azione esecutiva, ma se è legittima, e quindi dovrà l’ordinamento darmi dei mezzi, per cercare di paralizzare l’azione esecutiva sostenendo che quella esecuzione è illegittima. Questi mezzi sono le OPPOSIZIONI ALL’ESECUZIONE. Involgono anche, ma non solo, l’esistenza nel diritto sostanziale cioè la parte, con l’opposizione all’esecuzione, vuol dire: tu non hai diritto di agire esecutivamente o perché non hai il titolo esecutivo o perché non esiste il diritto sottostante, cioè il diritto sostanziale nei miei confronti che vuoi vedere soddisfatto coattivamente. È evidente che questo tipo di contestazione, quella sull’esistenza o meno del diritto sostanziale che si vuole fare valere in via esecutiva, avrà spazzi maggiori o minori in ragione di ciò che c’è a monte; se a monte io ho un titolo esecutivo rappresentato da una sentenza passata in giudicato è evidente che non si potrà dire che il diritto non esisteva, ma si potrà al massimo fare valere i fatti nuovi rispetto al precedente accertamento (ex. ho pagato dopo). Quindi quando il titolo esecutivo è giudiziale, il titolo esecutivo ha forza maggiore perché le contestazioni della controparte sono limitate perché a monte c’è un accertamento giurisdizionale. Se invece il titolo esecutivo è stragiudiziale a monte non c’è un accertamento giurisdizionale, sono casi particolari in cui la legge attribuisce efficacia esecutiva ad un atto stragiudiziale e quindi potrò contestare quell’atto, nei limiti in cui la norma sostanziale lo consente. Cioè le contestazioni che potrò avanzare sul titolo stragiudiziale saranno maggiori perché andarranno a coinvolgere addirittura l’esistenza del diritto perché non è accertato da una atto giudiziale. Detto questo, e quindi messo a fuoco che a monte del processo esecutivo vi deve essere sempre un titolo esecutivo e che i titoli esecutivi sono titoli tipici (e non atipici) cioè la legge dice che un atto giurisdizionale o comunque stragiudiziale ha effetto giuridico. Detto questo dobbiamo capire quali sono i processi esecutivi ed in generale il rilievo esecutivo. RIMEDI ESECUTIVI: qui vi è una macro distinzione tra: esecuzione diretta ed esecuzione indiretta. ESECUZIONE DIRETTA: è quella forma di esecuzione che possiamo definire tradizionale per la quale si opera realizzando direttamente, (per questo diretta) la soddisfazione dell’avente diritto attraverso lo strumento processuale. L’esecuzione diretta è un’esecuzione in cui la soddisfazione avviene non tramite l’adempimento del debitore ma tramite un attività pubblica che sostituisce l’adempimento del debitore e che fa conseguire per altre vie al creditore ciò che gli spetta senza che vi sia l’adempimento spontaneo del debitore. Quindi l’esecuzione diretta si realizza SEMPRE attraverso un attività sostitutiva di organi pubblici, i quali, con modalità più o meno complesse, ottengono il risoluto che il creditore vuole, cioè fanno in modo che questo soggetto abbia ciò che gli spetta nonostante che il debitore sia inadempiente. Es. io ho diritto alla restituzione del bene e il debitore non mi consegna il bene. Io e l’ufficiale giudiziario investito di forza pubblica spossesso il debitore e immetto nel possesso il creditore. Il debitore non collabora ma ottengo il medesimo risultato attraverso la forza pubblica. 36 L’esecuzione diretta ha questa caratteristica di attività sostitutiva: la soddisfazione non è realizzata da un comportamento del debitore ma avviene attraverso attività sostitutiva di terzi, organi pubblici. L’esecuzione diretta di divide poi in: • ESECUZIONE PER ESPROPRIAZIONE • ESECUZIONE IN FORMA SPECIFICA. A sua volta si divide ancora in due ESECUZIONE PER CONSEGNA O RILASCIO ESECUZIONE PER OPERE DI FARE O NON FARE Questi processi esecutivi rispondono al contenuto dell’esecuzione = se diverso è il contenuto dell’obbligo diverso anche il processo realizzato coattivamente. Quindi se il diritto ha ad oggetto l’obbligo di pagamento di una somma di denaro (prestazioni pecuniarie) la risposta del d. processuale civile sarà l’esecuzione per espropriazione. Se invece il diritto è il diritto alla consegna oppure al rilascio di un bene determinato la risposta sarà l’esecuzione in forma specifica per consegna o rilascio. Se il diritto avrà ad oggetto un obbligo di fare o di non fare l’esecuzione è l’esecuzione in forma specifica per obblighi di fare o di non fare. Prima ipotesi: il creditore ha un titolo esecutivo che prevede il dritto al pagamento di 500 mila euro (una somma di denaro). Qui, basta leggere l’art. 2910 cc che ci dice che in questi casi la realizzazione coattiva del credito avviene attraverso le forma dell’esecuzione per espropriazione. Che cosa vuol dire ESECUZIONE PER ESPROPRIAZIONE? Art. 2740 cc → il debitore risponde delle obbligazioni con tutti i suoi beni. Quindi che cosa farà il creditore, la banca che deve avere 500 mila euro in forza di una sentenza passata in giudicato al fideiussore? Agirà sul patrimonio del fideiussore. Quindi andrà ad espropriare il patrimonio del debitore, ad esempio un bene immobile, ed attraverso un atto giuridico che prende il nome di pignoramento e poi quel bene andrà liquidito attraverso le forma della vendita forzata e il ricavato sarà poi distribuito a vantaggio del creditore. Nell’esecuzione per espropriazione vi è una differenza tra il diritto del creditore ed il diritto oggetto del credito: perché il diritto del creditore è il diritto ad avere il denaro, mentre il diritto oggetto del credito è la proprietà sul bene immobile. Quindi come funziona? Io ho un credito e tu non me lo ridai, faccio il pignoramento del bene e tramite le regole del diritto processuale viene venduto sul mercato il bene. Quindi i soldi riescono ad entrare nelle tasche del creditore non perché il debitore ha pagato ma attraverso questo circolo molto più lungo. Questo perché c’è una norma (2740) che dice che il debitore risponde alle obbligazioni con tutti i suoi beni. Ma dopo questo articolo ne abbiamo un altro ovvero il 2741 che stabilisce la par condicio creditorum → e quindi stabilisce che salvo le cause di prelazione ammesse dal diritto sostanziale tutti i creditori hanno pari diritto ad essere soddisfatti sul patrimonio del debitore. È per questo che prima si è detto IL creditore invece che I creditori perché, una volta avviata l’esecuzione, nel rispetto dell’art. 2741 gli altri creditori possono intervenire nel processo esecutivo e concorrere alla distribuzione del ricavato. Es. la banca agisce contro il fideiussore ma il fideiussore ha combinato molti guai, anche debiti con me che gli ho fatto un prestito personale, a questo punto io mi insinuo nella procedura esecutiva e concorro con gli altri creditori alla distribuzione. È chiaro che questo avviene nel rispetto della preferenza sostanziale perché se la banca ha l’ipoteca è più protetta e prima si approfitterà lei e poi io, che sono creditore chirografario. Le altre figure sono l’esecuzione in forma specifica, perché le definiscono ESECUZIONE IN FORMA SPECIFICA? Perché il diritto è lo stesso diritto oggetto del processo esecutivo, perché io ottengo immediatamente quel diritto che vanto. Io ho diritto al possesso del bene, oggetto del processo esecutivo è il possesso del bene. Quindi si dice in forma specifica perché vi è coincidenza tra il diritto di colui che agisce e deve essere soddisfatto in forma esecutiva e il diritto colpito dalla procedura esecutiva che è oggetto del processo di esecuzione. Questo tipo di processo poi ha 2 diramazione in ragione del contenuto del diritto ed allora, ancora una volta basta leggere il codice civile, in questo caso l’ART. 2930 → la REALIZZAZIONE COATTIVA DEGLI OBBLIGHI DI CONSEGNA E RILASCIO si realizza attraverso le forma del processo di esecuzione per 37 consegna o rilascio. Abbiamo già detto che la realizzazione attraverso un attività sostitutiva che fa conseguire al titolare del diritto quel bene che deve ricevere quindi fa ricevere, fa immettere del godimento del bene il titolare senza che sia l’altro a consegnarlo. Attenti però: questa è l’esecuzione individuale e NON collettiva, perché quel diritto ce l’ho solo io e non possono concorrere gli altri creditori. Se io ho rivendicato il bene, sono io a cui viene eseguita la consegna del bene. Dopo si discuterà se ci sono degli altri creditori, ma il diritto alla consegna ce l’ho solo io (è un diritto mio, esclusivo). Quindi l’esecuzione in forma specifica è un’esecuzione individuale e non è soggetta a concorso come l’esecuzione per espropriazione. Consegna o rilascio di un bene determinato naturalmente perché se è un bene di genere non è possibile eseguire l’esecuzione. ESECUZIONE PER OBBLIGHI DI FARE O NON FARE: anche qui vi è un ART. il 2931 cc → Se non è adempiuto un obbligo di fare, l’avente diritto può ottenere che esso sia eseguito a spese dell'obbligato nelle forme stabilite dal codice di procedura civile. La norma enuncia “obblighi di fare o di non fare” ma prima per capire l’ambito di applicazione di questa figura dobbiamo riflettere sul come avviene questa esecuzione. L’esecuzione avviene in questo modo: di fronte all’inadempimento del debitore il creditore va dal giudice ed il giudice stabilisce le modalità perché avvenga quell’attività che soddisfa l’interesse del creditore. Però qua abbiamo dei problemi. Obblighi di FARE: un obbligo di fare non è sempre la stessa cosa perché l’obbligo di fare può riguardare prestazioni fungibili o prestazioni infungibili. Prima di ragionare su questo elemento dobbiamo riflettere, abbiamo detto che la realizzazione dell’interesse del creditore avviene attraverso un attività sostitutiva di un terzo, un ufficiale giudiziario e gli ausiliari del giudice. Se l’obbligo di fare è fungibile: ad esempio occorre demolire il muro edificato ad una distanza minore di quelle previste per legge. Sono degli obblighi in cui la prestazione può essere resa anche da un terzo e la prestazione del terzo soddisfa l’interesse del creditore. Quindi che la demolizione la faccia la ditta X nominata dal debito o che la faccia la ditta X nominata dal tribunale poco importa.  Quindi se la prestazione è fungibile l’interesse del creditore è comunque realizzato purché venga resa la prestazione. Quindi nell’esecuzione di obblighi di fare è in esecuzione sostitutiva quando si parla di obbligazioni fungibili va bene, perché va bene la sostituzione, cioè che lo faccia uno o lo faccia un l’altro è indifferente. Ma non sempre è così perché vi sono anche obblighi di fare infungibili ad esempio pensiamo all’ipotesi in cui io mi impegno a scrivere il manuale di diritto processuale civile per la Giappichelli. In questo caso l’interesse del creditore è che la prestazione venga resa dall’obbligato perché la sua realizzazione da parte di un terzo non è soddisfattiva, non soddisfa l’interesse del creditore. Qua non si può operare con la regola sostitutiva, perché cosa fa il giudice? Io vado dal giudice e dato che il professore è inadempiente chiedo che venga nominato qualcuno che scriva il manuale.  Quindi quando si tratta si obblighi di fare infungibili NON può funzionare l’esecuzione per obblighi di fare del 3 libro del codice civile e può funzionare soltanto per obblighi di fare fungibili.  Qui abbiamo un buco = come tuteliamo gli obblighi di fare infungibili? Lo riprenderemo più avanti. Obblighi di NON fare: chi è che può non fare dando soddisfazione al creditore? Non è che l’astensione dell’ufficiale giudiziario soddisfi il creditore. Se io ho diritto di non concorrenza sleale, l’unico soggetto che più soddisfarmi con il non compiere è l’impresa concorrente e non un qualunque soggetto. Quindi gli obblighi di non fare sono per definizione infungibili e allora per gli obblighi di non fare vale il discorso di prima = non c’è tutela nelle forme del 3 libro. Ma perché la legge (619 cpc) dice “esecuzione forzata degli obblighi di fare e di non fare”? Si tratta di ipotesi in cui l’obbligo di non fare è stato violato e quindi l’obbligo di non fare è divenuto obbligo di fare. Tu sei obbligato a non costruire, questo è un obbligo di non fare, tu hai costruito ed a questo punto devi disfare. 40 AZIONE Oggi inizieremo una nuova serie di lezioni che sul manuale del Prof. troviamo scritti sotto il titolo di “Azione”. Occuparsi dell’azione significa capire cos’è l’azione, in cosa consiste, per poi capire quelle che vengono definite le “condizioni dell’azione”: INTERESSE ad agire e LEGITTIMAZIONE ad agire. Nel LUISO legittimazione ed interesse sono considerati tra i presupposti processuali, l’uno rispetto al soggetto (legittimazione) l’altro rispetto all’oggetto (interesse ad agire). Però l’impostazione classica, che il prof. ritiene più corretta, li differenzia dai presupposti processuali, identificandoli come condizioni dell’azione perché l’azione esiste in concreto solo se uno ha legittimazione ed interesse. Quindi sono elementi che non condizionano tanto il processo ma la titolarità del diritto d’azione. Le implicazioni pratiche sono pressoché identiche, la disciplina è uguale, perché in entrambi i casi, sia che li identifichiamo come presupposti sia che li consideriamo condizioni dell’azione, la sentenza finale può essere emessa solo se vi sono questi due. Però il prof. preferisce distinguerli perché hanno una collocazione diversa, gli uni riguardo al processo, gli altri riguardano prima ancora la titolarità e l’esistenza del diritto d’azione. Detto questo, il primo punto che dobbiamo affrontare è quello di ragionare sul CONCETTO DI AZIONE. Noi sappiamo che non solo norme costituzionali, art. 24 comma 1 e art 113, ma anche norme di carattere sovranazionale, come l’art 6 cedu e l’art 46 carta dei diritti dell'UE, prevedono espressamente che a ciascun soggetto spetta il diritto di agire in giudizio ogni volta che il soggetto ritiene che una sua situazione giuridica sostanziale, abbia essa consistenza di diritto soggettivo o di interesse legittimo, è stata violata o lesa. Quindi, l’azione presuppone il diritto sostanziale e la sua lesione, perché solo se il diritto è leso o violato sorge il diritto di azione. Questo diritto di azione, che ha una protezione da parte delle norme di rango superiore, è un diritto particolare perché è un DIRITTO DI CARATTERE PUBBLICO, che viene riconosciuto verso lo stato, non è un diritto verso la parte (quello è un diritto sostanziale). Il cittadino ha diritto che lo stato assicuri il diritto di azione. È un diritto di natura pubblica rivolto verso lo Stato. Questo diritto non può essere in alcun modo pregiudicato, eliso o annullato perché sennò verrebbe violata la cost. Ci sono però alcuni fenomeni che mettono in discussione il principio, ma che, se posti in un certo modo, secondo i nostri giudici costituzionali, sono comunque legittimi. Si è parlato dei fenomeni di giurisdizione condizionata, ed in particolare delle ADR, che condizionano la tutela d’azione, perché non posso agire prima di aver svolto la procedura. Questi sistemi sono legittimi se presentano talune caratteristiche. L’azione, quindi, può subire dei condizionamenti, ma questi devono essere tali da non pregiudicare o rendere troppo difficoltoso il ricorso al processo. Abbiamo anche visto che l’art 24 non impedisce il ricorso alla giustizia arbitraria, sempre che il ricorso non sia imposto dalla legge, ma alla base abbia una convenzione arbitrale con la quale le parti scelgono, si accordano, per rinunciare all’azione dello stato e devolvere la controversia al giudice privato. Questo era ciò che abbiamo già visto e ora riassunto. Ora bisogna capire che l’esercizio dell’azione è necessario affinché si eserciti la giurisdizione perché il processo civile è su DOMANDA DI PARTE (iniziativa di parte) e, quindi, in assenza della parte che domanda tutela al giudice, il processo non parte. Quindi, possiamo dire che l’azione è il momento di collegamento tra il diritto sostanziale violato e la funzione giurisdizionale = quando il diritto viene violato, allora la parte ha diritto di azione, al cui esercizio, che avviene attraverso la domanda giudiziale, segue lo svolgimento del processo, e l’emanazione della sentenza che porta all’accoglimento o annullamento della domanda proposta dalla parte. Quindi, l’azione è il MEZZO tra diritto sostanziale e processo perché è il presupposto di un diritto violato e la proiezione nel processo in forza del quale si chiede al giudice tutela del diritto violato. Per cui, il diritto di azione (importante!) è esercitato con un atto di un soggetto esterno alla giurisdizione, attraverso una DOMANDA GIUDIZIALE, atto con il quale si richiede tutela del diritto. È chiaro che parlare di diritto di azione è quasi riduttivo perché il diritto di azione deve avere un certo contenuto, certe caratteristiche. Non basta dire ti do l’azione, ma intanto si deve capire quando me la dai e poi con quali contenuti. 41 Si deve capire quando si ha il diritto di azione. Si ha solo quando è previsto dalla legge oppure è un diritto atipico? Quando abbiamo parlato di azioni di accertamento, abbiamo visto che, con la sola accezione delle azioni costitutive (rispetto alle quali l’art. 2908 è molto chiaro perché dice nei soli casi stabiliti dalla legge), l’azione è atipica, cioè può essere esercitata per ogni situazione soggettiva. Ogni volta che c’è una situazione soggettiva, c’è una azione. Qui è capovolto rispetto al sistema romano, il nostro non è un sistema di azioni ma un sistema di diritti, quindi ogni volta che riesco a dire che una norma va a configurare a favore di quel soggetto una situazione soggettiva, in quel caso quel soggetto, se quel diritto è violato, ha diritto ad avere un giudizio.  PRINCIPIO DI ATIPICITA’ DELL’AZIONE CIVILE Però, ragionando, potremmo dire che io non ho solo diritto di azione, ma ho diritto ad una azione che mi dia una tutela effettiva. Quindi, il diritto di azione è riempito dalla giurisprudenza della CC che ha detto che il diritto non è solo il diritto di agire in giudizio, diritto ad un processo; ma deve darmi un processo che, per un verso, ha le caratteristiche di un giusto processo legale (art. 111 c.2) e, per altro verso, sia in grado di dare tutele effettive alla situazione soggettiva sostanziale. Lo stato ha un dovere di dare a ciascuno una risposta alla lesione attraverso un processo che deve essere giusto ed equo. Il processo non solo deve essere giusto ed equo, ma deve garantirmi anche una tutela effettiva. Vige, quindi, il PRINCIPIO DI EFFETTIVITA’ DELLA TUTELA, che si esprime nel concetto (già formulato dalla dottrina classica) per il quale “il processo deve dare alla parte tutto quello che alla parte gli spetta sulla base della norma sostanziale”. Non di più, non di meno. Ciò vuol dire che il processo deve essere in grado di modulare la tutela alla norma sostanziale: devo ricevere dal processo quello che mi spetta sulla base della norma sostanziale. Per capire vi racconterò per quale motivo è stata fatta questa affermazione (che sembra banale ma non lo è); Questo concetto è stato espresso a riguardo del contratto preliminare. Nel codice del 1865 non era previsto ciò che prevede l’attuale codice all’art. 2932 cc (Esecuzione specifica dell'obbligo di concludere un contratto). Cosa prevede oggi? Prevede che, quante volte il preliminare è rimasto inadempiuto, la parte ha diritto di ottenere l’esecuzione del preliminare: va dal giudice e chiede una sentenza costitutiva che realizza lo stesso effetto del contratto. Quindi, la parte ottiene tutto ciò che la norma sostanziale gli riconosce. Es. La parte ha diritto a tenere il cavallo oggetto del contratto preliminare. Dal contratto preliminare nasce l’obbligo a contrarre e se non si adempie, è il giudice che compie un atto attraverso il quale si arriva alla soluzione. Nel codice del 1865 non c’era questa norma, per cui si riteneva che la persona avesse diritto solo al risarcimento (tutela risarcitoria per equivalente che opera quando non si può risalire a quella specifica). Questo concetto, espresso nel codice del 65, non fu ritenuto corretto, per cui, nel tempo (dottrina di Chiovenda) fu enunciato l’attuale concetto seguito anche dalla Corte di cassazione, che già negli ultimi anni prima del codice del 42, ammetteva che, pure in assenza di una formula specifica nel vecchio codice, si potesse ricorrere alla sentenza costitutiva. Cosa che poi, il legislatore del codice del 42, ha codificato nell’attuale codice civile. Questo serve per capire cosa intendiamo quando parliamo di effettività della tutela. Pensiamo anche al tema del licenziamento: l’effettività della tutela vorrebbe che il lavoratore illegittimamente licenziato venisse reintegrato, perché la parte ha diritto a questo per norma sostanziale. Il principio espresso prima potrebbe portare a dire che si deve sempre reintegrare nel posto di lavoro. Però, qui, bisogna tener conto che il legislatore, alle volte, ricorre a dei contemperamenti, a dei bilanciamenti di interessi. Dunque, individuando come tutela principale quella in forma specifica, quindi con reintegra nel posto di lavoro, in taluni casi, quando le aziende hanno un numero di dipendenti inferiore a 15, oggi si dà la possibilità del risarcimento del danno. Però stiamo attenti, perché la CC, con una sentenza recente, ha detto che questo sistema di contemperare gli interessi può anche capirlo, ma invita il legislatore a non trascurare che il diritto della parte è il diritto ad avere ciò che gli spetta. Quindi, se il lavoratore è stato licenziato, non ha il diritto al mero risarcimento del danno, ma ha il diritto alla reintegrazione del posto di lavoro. Quindi, la corte ha dato indicazioni molto pesanti al legislatore ordinario. Questo cosa ci fa concludere? Che il principio di effettività vuole che la tutela principale sia la tutela in forma specifica: quello che mi spetta, mi devono dare. Solo ed esclusivamente in casi particolari e per 42 esigenze particolari, il legislatore può rinunciare a dare la tutela in forma specifica accontentando la parte con la semplice tutela risarcitoria. Tutto questo che si è detto è il principio di effettività della tutela che è sintetizzato in quella frase che ripetiamo: “il processo deve dare alla parte tutto ciò che alla parte spetta”. Ora, dobbiamo spostare l’attenzione sulle CONDIZIONI DELL’AZIONE: Legittimazione e interesse. Prendendo le mosse dalla LEGITTIMAZIONE, questa ha una duplice prospettiva di esame: la legittimazione ad agire e la legittimazione a contraddire. La legittimazione mi dice quali sono i soggetti che possono e debbono essere parte del processo. • La legittimazione ad agire dice a chi spetta il diritto di azione. Quindi, sono le regole per individuare il titolare del diritto di azione; • La legittimazione a contraddire mi dice quali sono i soggetti contro i quali deve essere esercitata l’azione e che devono essere citati in giudizio perché l’azione sia ben esercitata. Sono dunque i legittimati passivi: il convenuto o i convenuti. I legittimati passivi sono i soggetti contro i quali è avanzata la domanda di azione e sono i destinatari, proprio perché la tutela è avanzata contro di loro, degli effetti. Qui, se vogliamo, vi è il principio del contraddittorio, secondo il quale i soggetti contro cui vi è l’azione, devono essere parte del processo. Es. se rivolgo domanda verso B, anche se B non c’entra nulla, B deve stare in giudizio. Poi la domanda sarà successivamente respinta se davvero non c’entra, ma B deve stare in giudizio. Più estesa è la riflessione sulla legittimazione ad agire. Questa legittimazione individua, identifica, il soggetto che ha diritto di azione, che può proporre la domanda; quindi, i criteri sulla legittimazione ad agire sono i criteri con cui si stabilisce chi ha il potere di agire in giudizio e, quindi, può domandare tutela al giudice. Nel nostro ordinamento questi sono i principi generali. La legittimazione ad agire è innanzitutto legittimazione ordinaria. Però, ci sono anche casi di legittimazione straordinaria; La norma da cui si evince questo è l’art 81 del codice di rito. Cosa ci dice? Dice che la legittimazione ad agire in giudizio spetta al titolare del diritto: stiamo attenti, bisogna dire “al titolare affermato di diritto” (poi si dirà perché affermato) = questa è la legittimazione ordinaria. Solo nei casi specificati dalla legge, questa può spettare a un soggetto diverso, che non è titolare del diritto, il quale agisce in giudizio, come dice l’art 81, “in nome proprio per un diritto altrui”. Dice “voglio che venga riconosciuto che il cavallo è del professore Menchini” (legittimazione straordinaria); legittimazione ordinaria direbbe: “il professore Menchini dice che il cavallo è il suo”. Dunque, la legittimazione ordinaria è condotta alla titolarità affermata nel diritto sostanziale del soggetto; la legittimazione straordinaria è attribuita dalla legge a soggetti terzi, i quali agiscono in giudizio in nome proprio per un diritto altrui, ma solo nei casi in cui la legge espressamente riconosce a questi soggetti terzi il diritto di agire in nome proprio per un diritto altrui. Cominciamo ora dalla LEGITTIMAZIONE ORDINARIA. Legittimazione ordinaria significa che il diritto ad agire spetta al titolare affermato del diritto sostanziale. Cosa vuol dire “affermato”? Non è una domanda a cui è difficile rispondere perché la legittimazione ordinaria prevede che il diritto di disporre del diritto spetta solo al titolare stesso. Cioè, il principio dispositivo, sul piano sostanziale delle situazioni giuridiche soggettive, si ripercuote sul piano processuale nel prevedere che il diritto di agire spetta, di regola, soltanto al titolare del diritto. ex. come posso rimanere inerte sul piano sostanziale, posso rimanere inerte sul piano processuale perché non chiedo l’intervento del giudice, etc. Quindi, la base della legittimazione ordinaria la si rinviene nel diritto sostanziale, nel principio per il quale le situazioni soggettive sostanziali sono governate dal disponibilità esclusiva del soggetto titolare. Soggetto Affermato: affinché il soggetto sia legittimato non è rilevante che sia titolare del diritto, ma che si affermi come titolare del diritto. In questo caso, ciò che è rilevante per la legittimazione ad agire, è lo stesso oggetto del processo, il merito quindi. Perché ciò che è oggetto del processo, nel diritto sostanziale, è elemento di legittimazione nel diritto processuale. Il presupposto processuale per la condizione delle azioni si basa sull’oggetto del processo. Ex. quando la legge dice la competenza al giudice del lavoro spetta per le controversie di lavoro vuol dire che ciò che è oggetto del processo è elemento rilevante anche ai fini della competenza. Altre volte non è così. Ex. competenza per territorio: è rilevante la residenza, che non rileva per il merito. 45 Oggi si fatica a trovare ipotesi di iniziativa ufficiosa del giudice. Quanto più l’ordinamento ha una visione statalista, tanto più la sfera è ampia. Quanto più l’ordinamento ha una visione liberale, quanto più la sfera è ridotta. Questa sfera riguarda prevalentemente i licenziamenti, il diritto societario, etc. = ipotesi in cui ci sono interessi super individuali. Abbiamo visto la disciplina statica, ora vediamo la disciplina dinamica. Cosa capita se c’è un difetto di legittimazione ad agire? Prima cosa che dobbiamo chiarire: su che cosa si valuta l’esistenza o meno della legittimazione ad agire? Su ciò che è affermato o su ciò che è? Cosa è rilevante, ciò che afferma l’attore o ciò che effettivamente è? Questo perché nel caso di legittimazione ordinaria, ciò che rileva è ciò che è affermato, non ciò che è. Ci sono dei casi in cui però ciò che è rilevante per il rito non lo è per il merito. Cioè, il merito prescinde da quell’elemento. Ex. azione di responsabilità dei soci. È rilevante per accogliere la domanda di responsabilità della società contro gli amministratori il fatto che l’attore sia socio? No, è irrilevante. Per decidere la questione di rito, il giudice deve valutare ciò che afferma l’attore o ciò che è? È l’affermazione l’elemento che dà la legittimazione o l’effettivo modo di essere ciò che rileva? Nei casi di legittimazione ordinaria, poiché l’oggetto del processo è l’elemento legittimante, la risposta è che ciò che rileva è l’affermazione, per il paradosso che se così non fosse, il giudice dovrebbe dire non c’è legittimazione tutte le volte che accerta che il diritto non esiste. Però ci sono dei casi in cui l’elemento che è rilevante per il rito, non rileva per il merito. Ora, però, questa cosa qua capita anche se pensiamo all’azione di responsabilità promossa dal socio: il socio fa valere in giudizio l’altrui diritto. Il diritto al risarcimento del danno per la società. La situazione legittimante è essere soci, ma è diversa dalla situazione oggetto del processo, che è il risarcimento del danno. Quindi, qua, siamo nella stessa situazione della competenza per territorio, perché ciò che rileva per dare legittimazione all’attore, non è l’oggetto del processo, ma un elemento, una condizione giuridica, non rilevante per il merito. Per capire se la società ha diritto al risarcimento da parte dell’amministratore, non rileva la mia qualità di socio, perché queste qualità non rientra nel merito. Questo elemento è rilevante, però, perché io possa agire: essere socio è situazione legittimante, ma non lo è per il merito. Quindi, i casi di legittimazione straordinaria, sono casi in cui la situazione legittimante è dato da un elemento che è estraneo rispetto al merito: se non sono creditore, il giudice non può verificare la domanda. Quindi, in questi casi di legittimazione straordinaria, la situazione legittimante è diversa dall’oggetto del processo e quindi è data da un elemento che è rilevante solo per il rito. Qui, allora, cosa rileverà? L'effettivo modo di essere o l’affermazione? È l’effettivo modo di essere della situazione legittimante. 46 10-10-2023 Dopo aver visto le regole concernenti la determinazione della legittimazione, abbiamo iniziato ad esaminare la disciplina dinamica ovvero quale comportamento devono tenere i giudici e le parti, quando vi è un difetto di legittimazione. Prima di esaminare l’eccezione di difetto di legittimazione e la pronuncia sulla legittimazione vanno risolti due problemi riguardo alla CONDOTTA e QUALI REGOLE segue il giudice nel momento in cui va a decidere la questione. Abbiamo iniziato a vedere se il giudice debba decidere sulla base di ciò che ha affermato l’attore nella domanda o sulla base dell’effettivo modo di essere dell’elemento che la norma prende in considerazione. Abbiamo visto che non c’è una soluzione unica ma sono due: a seconda che l’elemento che la norma prende in considerazione come criterio attributivo della legittimazione sia data dall’oggetto del processo che evidentemente è rilevante anche per il merito, nel qual caso ciò che rileva è l’affermazione dell’attore; e invece un elemento esterno al merito della controversia, nel qual caso ciò che rileva è l’effettivo modo di essere dell’elemento. Secondo problema, è stabilire qual è il REFERENTE TEMPORALE DELLA LEGITTIMAZIONE, cioè quando il giudice decide la legittimazione, quale situazione deve prendere come riferimento = ciò che assume rilevo per dire se vi è o meno legittimazione è la situazione che esiste quando è proposta la domanda o la situazione di quando è emessa la decisione? Esempio: l’attore agisce e non è socio però in corso di causa acquista la qualità di socio. Il giudice deve dire che c’è legittimazione o che non c’è? Qui decisivo è stabilire qual è il referente temporale perché se io dico che il giudice quando decide sulla legittimazione guarda quando è proposta la domanda, allora il soggetto era socio, quindi la domanda dovrà essere analizzata nel merito; ma se al contrario in corso di causa la parte ha perso quella qualità, e il referente temporale è la sentenza, allora il giudice dirà che non vi è legittimazione. Quindi è importante stabilire qual è il momento di riferimento al quale il giudice guarda per stabilire l’esistenza o meno della legittimazione (proposta della domanda o decisione della causa). Ancora una volta ci aiutano i principi di carattere generale: le condizioni della azione, non diversamente dai presupposti processuali, sono condizioni e requisiti di validità della sentenza. Se è vero questo, cioè che la legittimazione ad agire, interesse ad agire e gli altri presupposti processuali condizionano la pronuncia di una valida sentenza, e quindi sono condizioni della sentenza di merito, allora è evidente che ciò che assume rilevo è il momento in cui la causa è decisa con la conseguenza che, eventuali variazioni che intervengano nel corso del processo, sono rilevanti perché intervengono dopo la domanda. Quindi se si applica questo principio al nostro caso si deve dire che se l’attore, quando agisce non è socio ma acquista la qualità di socio in corso di causa, allora il giudice non può dichiarare che vi è un difetto di legittimazione, ma deve pronunciarsi nel merito. E lo stesso nel caso del creditore = se il soggetto quando agisce in surrogatoria non è creditore, ma lo diventa in corso di causa, allora il giudice deve pronunciarsi nel merito. Parimenti la stessa cosa accade se il soggetto perde la qualità che aveva al momento dell’attribuzione della domanda, ad esempio quando la domanda è proposta il soggetto è creditore, in corso di causa perde il credito, allora il giudice non pronuncerà nel merito ma dirà che il soggetto non è legittimato in quanto non è creditore, questo lo fa perché deve guardare a quando decide e non a quando la domanda è stata fatta. Questo accade se il diritto si estingue. Se invece il diritto si trasferisce ad un altro soggetto in corso di causa (ex. cessione di credito: ex. Banca Monte dei paschi in corso di causa trasferisce il credito alla società X) allora ciò non impedisce che ai sensi dell’articolo 111 cpc il soggetto successore, come può portare avanti il processo, può portare avanti la domanda ed essere legittimato perché ricopre la stessa posizione che ricopriva l’autore. L’avente causa non è obbligato ad entrare nel processo. Il processo può continuare anche tra le parti originali e la sentenza colpisce anche l’avente causa. Però l’avente causa può anche intervenire e proseguire il processo in luogo del dante causa (nel nostro caso la società cessionaria interviene in causa al posto della banca). 47 La condizione dell’azione e i presupposti processuali sono requisiti per la validità della sentenza quindi nell’esempio del creditore, il soggetto non è creditore quando agisce ma lo diventa in corso di causa; qui non vi è un difetto di legittimazione, perché quando si va decidere il soggetto era creditore. Può capitare il contrario: che il soggetto fosse creditore quando ha posto la domanda ma non lo è più quando la causa va in decisione e a questo punto il giudice non decide nel merito in quanto l’attore non è legittimato. Questo è un discorso che non ha bisogno di precisazioni = se in corso di causa il debito si estingue perché ad esempio il debitore adempie, a questo punto B non è più creditore e non ha senso portare avanti per A l’azione surrogatoria, perché il debito di B è stato estinto. Ma può anche capitare che in corso di causa venga trasferito il diritto quindi la banca X in corso di causa trasferisce il credito ad una società ad hoc a questo punto se ci si limita a guardare la posizione di partenza si dovrebbe dire che il creditore non è più creditore, ma questo non ha senso perché secondo l’articolo 111 cpc quando si ha un fenomeno successorio nel processo la causa può essere proseguita dal successore. Significa che il successore farà propria la causa e il giudice quando andrò a decidere dovrà prendere atto che anche se non c’è più il creditore originario c’è un soggetto che ha preso la sua posizione e quindi dovrà dire che vi è legittimazione. Si sono risolti i due problemi preliminari: qual è l’elemento che rileva ai fine della decisone sulla legittimazione e qual è il referente temporale della decisone sulla legittimazione. A questo punto ci si può domandare cosa accade quando vi è un DIFETTO DI LEGITTIMAZIONE, in questo caso il processo è viziato, vi è un difetto relativo all’intero processo. Questo vizio è un vizio che riguarda il rito e quindi questo vizio è deducibile con una eccezione di rito. Le attività con e quali vengono sollevate questioni relative a vizi del processo prendono il nome di ECCEZIONI DI RITO. Questa eccezione è sollevabile dalla parte e anche dal giudice e è sollevabile in ogni stato e grado del processo e quindi anche per la prima volta di fronte alla Corte di cassazione. Per il nostro ordinamento vige il principio di auto-responsabilità che trova la sua applicazione nell’articolo 157 codice di rito, per il quale la nullità non è rilevabile dalla parte che vi abbi dato causa. Quindi il vizio sarà rilevabile solo dal convenuto. In ogni stato e grado del processo = questo è un vizio particolarmente grave. Si dice che non solo l’eccezione è rilevabile anche d’ufficio ma che lo è fino all’ultimo grado di giudizio. Questa è una disciplina che colpisce i vizi più radicali del processo. Una volta che la questione è sorta, perché qualcuno dei soggetti legittimati l’ha sollevata, si ha una questione pregiudiziale di rito sottoposta alla disciplina dell’art. 187 comma III cpc. Viene chiamata questione PREGIUDIZIALE perché il giudice non può esaminare il merito se prima non ha risolto la questione di rito. Il giudice deve accertare che il soggetto attore sia legittimato, è pregiudiziale in questo senso perché viene prima del giudizio sul merito. La questione di legittimazione conseguente alla rilevazione di un eccezione di un difetto di legittimazione è una questione riconducibile alla categoria delle questioni pregiudiziali di rito e quindi è soggetta alla disciplina dettata dal comma terzo dell’articolo 187 c.p.c. Se il giudice rileva che vi è il difetto di legittimazione chiude la causa in rito con una sentenza definitiva di rito perché non è possibile pronunciare nel merito in quanto chi ha posto la domanda non è legittimato; è una pronuncia di rito, perché riguarda il rito, ed è definitiva perché definisce il processo, non ha senso andare avanti se manca la legittimazione. Quando si studieranno i presupposti processuali vedremo che i vizi e difetti relativi al processo, come regola generale, sono sanabili perché lo scopo del processo non è di abortire tramite sentenza di rito ma è arrivare alla sentenza di merito = la regola generale è la sanabilità del vizio. Sanabilità che consiste in un’attività diretta eseguita dal giudice. Ex. se vi è un difetto di competenza la sanatoria avviene attraverso una discussione del processo davanti al giudice competente. Se il vizio è la mancata citazione di un terzo, allora la sanatoria sarà la chiamata in causa del terzo. 50 sostanziale lo strumento per ottenere ciò che vuole. Quindi nell’esempio, essendo già in grado di provocare quel certo mutamento, non si può ricorrere al giudice per realizzarlo. INTERESSE AL RISULTATO: il soggetto può anche avere il diritto, l’azione può essere fondata ma il processo non ha alcuna utilità in quanto non determina alcun accrescimento della sua sfera giuridica. Ancora una volta l’azione è fondata ma la sentenza non serve a nulla. Si pensi alle centinaia di sentenze emesse dal giudice amministrativo quando dice che non vi è interesse ad agire, la parte contesta la validità di una delibera amministrativa che approva una certa graduatoria e la parte dice di essere arrivato 3° perché non hanno considerato il punteggio in cui veniva riconosciuta l’anzianità di servizio. Contesta la graduatoria perché a suo avviso è stato violato un suo diritto. Si va in causa e il giudice dice che, se anche tu avessi ragione, i punti non sarebbero sufficienti per farti scattare in graduatoria. Per quanto la domanda è fondata, in graduatoria rimarresti dove sei = quindi il diritto è fondato ma non c’è utilità alla pronuncia. Ancora si impugna un testamento dicendo che è nullo, la parte si difende dicendo che vi è un testamento successivo per cui rimane sempre l’unico beneficiario, l’attore non diventa erede, ancora una volta anche se la domanda venisse accolta non serva a niente che il giudice dica che il primo testamento è nullo perché il secondo testamento non cambia rispetto al primo. Il giudice dirà che non c’è interesse e non sta a perdere tempo in quanto la situazione rimarrebbe la stessa.  L’interesse ad agire è importante in un’ottica di economia processuale. L’interesse ad agire è una condizione dell’azione e quindi valgono tutti questi principi già detti. Qual è il referente temporale e quando deve sussistere? Deve sussistere quando si pronuncia nel merito, tant'è che una figura tipica di sentenza è la sentenza per sopravvenuta carenza di interesse, la parte aveva interesse alla tutela, ma in corso di causa è intervenuto un elemento che ha reso nullo l’interesse. Se l’interesse viene meno in corso di causa il giudice chiude il processo in rito perché deve guardare alla situazione quando va a decidere e lo chiude con una formula di stile che prende il nome di sopravvenuta carenza di interesse. È chiaro che un giudice bravo dovrebbe porsi il problema dell’interesse all’inizio della causa e non alla fine; anche perché dopo 5 anni di processo dire che non c’è interesse ad agire è un po’ una presa in giro. Detto questo il principio generale rimane quello per cui vale la situazione che esiste al momento della decisone. Nello stesso modo se quando si è posta la domanda non vi è interesse e sopravviene in corso di causa il giudice deve pronunciare nel merito, perché ciò che rileva è quando decide. Ex. bando di concorso con il quale quello che ho davanti in graduatoria io non potevo superarlo ma per mia fortuna o sua sfortuna muore in corso di causa, a questo punto io non avevo interesse quando ho posto la domanda ma ora ce l’ho perché con il fatto che è morto posso entrare in graduatoria. Si dice (secondo il prof. correttamente) che, proprio perché l’interesse è un requisito funzionale all’economia processuale, è ammesso che il convenuto, quando si è in sede decisoria, dica al giudice che è vero che non c’è interesse ma di pronunciare comunque nel merito. La sentenza emessa senza interesse è valida ma inutile. Ma il convenuto può dire che è vero che la sentenza non è utile, ma che egli preferisce una sentenza di merito piuttosto che una sentenza di rito. Questo perché la sentenza di merito è idonea al giudicato, quella di rito no. Tornando all’esempio del testamento, si sono fatti 5 anni di processo perché il secondo testamento non era ancora uscito, si è litigato sulla capacità del testatore poi alla fine del processo ecco la sorpresa esce il secondo testamento. Il convenuto può avere interesse che il giudice dica che il testamento è nullo benché sappia che l’interesse non c’è, finché rimane in vita l’altro testamento. Mentre negli altri casi la parte non può dire al giudice di pronunciare ugualmente nel merito, qui il processo non è inutile, la sentenza di merito la possiamo anche avere, è solo inutile la sentenza. Si può accettare che il convenuto dica che non è utile ma è meglio avere una sentenza di merito che avere una sentenza di rito. 51 Il difetto d’interesse è rilevabile anche d’ufficio, in ogni istante e grado del processo. Se il giudice dichiara il difetto di interesse chiude il processo in rito per mancanza d’interesse, quindi di un requisito necessario per aver accesso alla tutela. IL PROCESSO Nuovo argomento. L’azione civile si estrinseca con una domanda giudiziale e con una richiesta al giudice di un provvedimento giudiziale, ma tra la domanda e la sentenza vi è un processo, ovvero tutta una serie di atti e attività che sono indispensabili per accertare se la domanda è fondata o meno. Il processo altro non è se non un procedimento che, essendo informato al principio del contraddittorio, prende il nome di processo. Il processo civile è un procedimento perché il procedimento è una sequenza di atti preordinati all’emanazione dell’atto finale. Il procedimento legislativo è tutta quella serie di attività che non hanno un valore in sé, ma hanno un valore in quanto sono funzionali alla legge, alla sua promulgazione. Il procedimento amministrativo, tutti gli atti che vengono fatti non valgono in sé ma valgono in quanto collocati nel procedimento, in quanto funzionali all’emanazione del provvedimento. Il processo civile è una serie di atti che non valgono di per sé ma sono finalizzati alla sentenza finale che chiude il procedimento. È un procedimento perché consta di una sequenza di atti il cui scopo non si coglie al loro interno, ma solo se proiettati verso la sentenza che chiude il procedimento. È un procedimento che, essendo caratterizzato dal contraddittorio, è un processo, perché quando un procedimento è caratterizzato dal contraddittorio tra interessati prende il nome di processo. Vi sono MOLTI TIPI DI PROCESSO (dichiarativi, esecutivi, cautelari); quelli dichiarativi sono composti da diversi riti (rito per le controversie di lavoro, rito semplificato, rito per le controversie di locazione ecc.).  Per funzioni diverse processi diversi ma anche per la stessa funzione riti o processi differenti. Tutti questi processi sono fatti allo stesso modo, cambiano le regole ma la struttura è la stessa, una sequenza di atti preordinata al risultato finale. Se si va a sezionare il processo ci si accorge che questa disciplina è data dalla norma processuale (norma sulla competenza, norma sulla legittimazione, etc.) La norma processuale qualifica un interesse (processuale, non sostanziale) e quindi attribuisce situazioni soggettive sostanziali che, in quanto vivono nel processo, chiamiamo situazioni processuali. Ex. così la norma che disciplina l’impugnazione, attribuisce alla parte soccombente il diritto di impugnare. La norma processuale che disciplina le regole sulla competenza attribuisce alla parte interessata il potere di sollevare l’eccezione di difetto di competenza.  Lo schema è sempre lo stesso: c’è la norma che qualifica i comportamenti delle parti e lo fa attribuendo alle parti situazioni soggettive processuali di diritto, di obbligo o di onere. Nel processo assume rilievo questa strana figura (non presente nel diritto sostanziale) che è l’ONERE = potere di compiere un atto che però è anche un dovere in quanto al mancato compimento dell’atto segue una sanzione. misto tra potere e dovere. Così io ti do il potere di impugnare però in realtà questo potere è un onere perché se non si impugna la sentenza passa in giudicato. La parte ha il potere ma il suo mancato esercizio determina una decadenza processuale, quindi una situazione svantaggiosa della parte. Nel processo i poteri sono oneri in quanto quasi sempre il potere che è attributo ad una parte ma, il suo mancato esercizio, implica una conseguenza negativa. Norma processuale, situazione processuale e poteri, dovrei, obblighi e oneri e attività processuale (il potere nel processo si esercita tramite un atto processuale). Ex. la norma stabilisce le condizioni per impugnare, in base a questa norma una parte ha potere di impugnare (situazione soggettiva) e quel potere si esercita con l’atto di ammissione. Il processo è tutto questo: norma processuale, situazione soggettiva processuale e atti processuali, che sono concatenati, e sono le modalità di esercizio di un potere processuale. 52 Per capire il processo bisogna tenere presente questi 3 elementi: norma processuale, situazione processuale e atti processuali. Però attenti perché questi atti non sono indipendenti ma sono parte di una SEQUENZA PROCEDIMENTALE che è finalizzata alla sentenza finale. Questo vuol dire che gli atti sono collegati e prima ancora i poteri sono collegati e prima ancora le norme sono collegate perché una norma presuppone un’altra norma, un potere presuppone un altro potere, un atto presuppone un altro atto. Ogni atto è il presupposto di quello che sta dopo nella catena, ed è l’effetto di quello che sta prima. Concatenazioni di norme, di situazioni processuali e di atti processuali. Essendo questi atti non disorganizzati ma regolati dalla legge, ogni atto ha una sua collocazione nella sequenza procedimentale, è il presupposto dell’atto che sta dopo e la conseguenza di quello che sta prima. Il fatto che il processo sia un procedimento rappresentato da atti concatenati in vista della sentenza finale ha delle importantissime ripercussioni sulla validità e sull’efficacia degli atti processuali. Se è nullo l’atto A da cui dipendono l’atto B e C, è evidente che l’atto A travolge anche quello che viene dopo con la sua nullità ma quello che sta prima non viene toccato. 55 emettere una sentenza, tappandosi gli occhi. Poi questo discorso è entrato in crisi per le norme che hanno cambiato la disciplina del codice del 42, perché il giudice deve tapparsi gli occhi se vi è incompetenza e non se ne accorge in prima udienza. La giurisprudenza in effetti per lo più continua a ribadire questa regola e continua a dire che il vizio sul presupposto processuale è rilevabile in ogni stato e grado del processo e d’ufficio nel silenzio della legge e probabilmente questa è la soluzione corretta, nonostante ci siano norme che danno indicazioni diverse, queste sono frutto di una scelta discrezionale del legislatore. Vi è un ALTRO ELEMENTO IMPORTANTE, cioè bisogna considerare che i presupposti processuali non hanno sempre la stessa funzione, hanno sempre il medesimo effetto di impedire la pronuncia di una sentenza di merito, ma non la stessa funzione perché, pur essendo sempre condizioni di validità del processo, talvolta hanno una funzione ulteriore e particolare perché sono circostanze ed elementi il cui scopo è di impedire l’emanazione di una sentenza inutile o, come dice la cassazione, è di impedire che la giurisdizione giri a vuoto. I presupposti processuali hanno un elemento comune, sono tutti condizioni di validità della sentenza e producono tutti lo stesso effetto (= impedire la pronuncia della sentenza di merito), ma vi sono presupposti processuali “di serie A” che hanno una funzione ulteriore oltre di permettere di essere condizioni di validità del processo, perché la loro funzione ulteriore è di impedire che la giurisdizione giri a vuoto e che il giudice emani una sentenza inutile in quanto improduttiva di effetti. Questi ultimi sono i PRESUPPOSTI PROCESSUALI FONDANTI, si chiamano così perché hanno questa specifica funzione. Ex. la legittimazione, che ha la funzione di impedire di emettere una sentenza che non serve a niente, perché la sentenza emessa da un soggetto che non ha legittimazione non vincola il soggetto che è il titolare effettivo del diritto. Oppure il 102 c.p.c., ossia il difetto del litisconsorzio necessario, la sentenza per essere efficace deve essere vincolante per tutti i soggetti interessati e la sentenza non raggiunge il suo scopo se non riesce a dare efficacia alla regola, se l’efficacia deve arrivare ad A B C, ma arriva solo ad A e B è del tutto inutile perché non è in grado di condizionare C e quindi non ha efficacia anche per A e B, altra sentenza inutile dunque. Tutte le volte dove siamo in presenza di presupposti fondanti, presupposti che hanno queste caratteristiche, noi dobbiamo dire che certamente il vizio è rilevabile in ogni stato e grado del processo e d’ufficio, perché la giurisdizione sennò girerebbe a vuoto, che senso ha emettere una sentenza per A e B se non serve a niente?  Quindi sono le norme che ci danno la disciplina, la regola generale è probabilmente della rilevabilità ufficiosa, regola che però è indiscutibile e non può essere derogata ogni vota che il presupposto processuale sia fondante, perché non ha solo la funzione di far sì che venga estesa una sentenza valida, ma questa sentenza deve anche essere utile, dunque serve per non emettere sentenze inutili. Quando un soggetto legittimato nel rispetto dei termini di legge solleva l’eccezione allora sorge nel processo una questione pregiudiziale, che va risolta, qui c’è un elemento che il nostro ordinamento aspira alla sentenza di merito, si vuole che il processo giunga ad una decisione di merito per quanto possibile, dunque si cerca di emettere meno sentenze di rito; Ed è per questo che noi diciamo che i presupposti processuali sono in linea di principio sanabili e quindi danno luogo a vizi e difetti processuali sanabili, ossia per quanto possibile, l’ordinamento prevede che vengano attivati meccanismi di sanatoria per porre rimedio al vizio rilevato dal giudice e proseguire il professo fino alla sentenza di merito, allora il giudice quando rileva il difetto tende a sanarlo entro un certo termine, per farlo serve una attività, se questa si svolge entro il termine il processo continua, sennò questo muore. Il principio è della sanabilità del vizio per quanto possibile, il giudice richiamando una norma di legge ordina la parte la sanatoria del vizio, se questo è sanato il processo può proseguire e se questo non è sanato il processo non può proseguire, allora il processo si chiude con una sentenza di rito o con un provvedimento di iscrizione. La sanatoria vale a seconda del vizio. Ex. se il vizio è che manca o è viziata la procura all’avvocato allora servirà una procura idonea. Se il vizio consiste nella incompetenza, dovremmo proseguire la causa davanti al giudice competente. 56 Non solo la regola è la SANABILITA’ del vizio, ma la sanatoria di regola avviene con EFFICACIA RETROATTIVA, se il vizio è sanato gli effetti della domanda giudiziale, sostanziali e processuali, sono fatti retroagire a quando è stato compiuto, sia pur invalidamente, il primo atto, dunque la sanatoria ha efficacia ex tunc. Se col 102 c.p.c. il litisconsorte è citato, gli effetti della domanda giudiziale non operano da quando è chiamato in causa C, ma da quando è notificata la prima citazione seppur invalidamente. Se è riassunta la causa davanti al giudice competente, gli effetti della domanda sono quelli prodotti dalla domanda originaria proposta davanti al giudice incompetente.  Questo perché l’ordinamento vuole arrivare ad una sentenza di merito, ma vuole anche che il diritto sostanziale ed il diritto ad azione non siano pregiudicati irrimediabilmente per un errore processuale. Regola generale vizio sanabile con efficacia retroattiva. Per quanto possibile. Perché vi sono dei casi in cui non è possibile sanare un vizio, e questo dal punto di vista fattuale. Ex. se vi è un giudicato preesistente non posso sanare il vizio; se vi è un difetto a legittimazione ad agire la stessa cosa. Ci sono dei vizi che sono da un punto di vista di fatto, prima ancora di diritto, insanabili. Se questi vizi sono insanabili per motivi oggettivi, allora il giudice dovrà immediatamente chiudere il processo di rito perché non ci sono le condizioni per la sanatoria. Ultimo aspetto: Che ne è degli atti compiuti prima della sanatoria? Se prima della sanatoria è stata fatta una consulenza tecnica allora questa vale dopo la sanatoria o no? Se la consulenza tecnica è stata fatta davanti ad un giudice incompetente, questo atto varrà davanti al giudice competente? Questo problema si pone solo se le parti non ratificano l’attività svolta prima della sanatoria. Ex. in caso di rappresentanza processuale, se il vero rappresentante interviene e dice che ratifica tutto non ci sono problemi, ma se questa ratifica non c’è cosa succede? Non c’è una risposta univoca secondo il professore, ma bisogna vedere presupposto per presupposto, tenendo conto di un PRINCIPIO: è necessario rinnovare gli atti ogni volta che ciò comporterebbe la violazione del contraddittorio, come nel caso del litisconsorzio necessario, se si è svolta attività nel processo tra A e B non posso dire a C che la consulenza te la tieni in quanto questa consulenza è stata fatta senza la sua presenza, non avrebbe senso, ogni volta che il vizio porta ad una violazione del contraddittorio l’atto va rinnovato, se non c’è questa condizione bisogna vedere volta per volta qual è la condizione più ragionevole. Finiti i presupposti processuali, passiamo agli atti processuali GLI ATTI PROCESSUALI Questi sono gli atti delle parti e degli ausiliari di giustizia, che hanno un disciplina uguale degli atti di parte. Gli atti processuali non vanno confusi con i provvedimenti del giudice, quando parliamo di atti sono delle parti, quando parliamo dei provvedimenti intendiamo quelli del giudice. Per gli atti processuali dobbiamo capire se vi sono requisiti ed elementi che riguardano l’atto e capire che rilevanza hanno questi elementi; Quando studiamo la teoria dell’atto processuale distinguiamo 2 MACRO – CATEGORIE: • Elementi di carattere formale = nel processo quando parliamo dell’elemento formale parliamo di forma in senso ampio e quindi prendiamo nel concetto di norma l’endiadi forma-contenuto. Quando parliamo di un vizio di forma parliamo di forma-contenuto perché la legge mi dice quale è il contenuto ha l’atto, il vizio formale è un vizio di forma-contenuto, quindi prendiamo un concetto di forma più esteso rispetto a quello che vediamo nei negozi sostanziali. • Elementi di carattere extra-formale = accanto agli elementi formali ci sono elementi extra-formali, questi non riguardano il binomio forma-contenuto ma sono importanti per avere un atto valido, sono al di fuori dell’atto e al di fuori della forma, ma parimenti importanti. Ex legittimazione, se l’atto lo avrà compiuto un soggetto non legittimato questo è invalido. Ex. capacità processuale, questa è la capacità di porre in essere atti processuali, se l’atto lo ha compiuto un soggetto senza questa capacità allora l’atto è invalido. Ex. i termini, gli atti devono essere compiuti nel rispetto di questi. 57 Quando parliamo di elementi extra-formali discutiamo di quegli elementi che sono condizione di validità dell’atto, ma che non attengono al binomio forma-contenuto. Quando pensiamo all’atto di parte quali saranno gli elementi extra-formali? Quelli attinenti ai presupposti processuali relativi alle parti: legittimazione, rappresentanza processuale, capacità processuale. Quelli relativi al giudice riguardano il giudice. Gli elementi extra-formali non si attengono in modo diretto alla forma-contenuto dell’atto, ma riguardano aspetti ed elementi parimenti importanti per la validità dell’atto, che attengono ad altri aspetti dell’atto stesso. Questi elementi saranno dati dalla sussistenza dei requisiti relativi alle parti, perché una parte possa operare nel processo serve il requisito A B C, allora ogni atto è condizionato da questi 3 elementi che riguarderanno la persona (per esempio legittimazione ad agire), ovviamente non verranno in rilievo i presupposti processuali relativi al giudice perché riguardano questo e non la parte (come la competenza); poi ci sono altri elementi rilevanti oltre a quelli rilevanti alle parti o al giudice, come i termini. Invece per l’atto processuale NON RILEVA LA VOLONTA’ contrariamente a quanto accade nel diritto sostanziale. Nel diritto privato si parla di volontà da un duplice punto di vista, volontà degli effetti e volontà del comportamento, si dice che la parte deve volere il comportamento per concludere il contratto, ma servono anche gli effetti del contratto, sennò c’è un vizio del consenso. Nel processo la volontà degli effetti è irrilevante perché gli effetti sono quelli che la legge prevede, la volontà degli effetti non ha nessun rilievo perché gli effetti sono previsti in modo tipico dalla legge in relazione ad ogni tipo di atto; ma anche la volontà del comportamento ha una valenza relativa, perché il giudice non indaga se il soggetto voleva compiere l’atto, perché c’è una presunzione assoluta, cioè che il soggetto, compiendo l’atto dove si prevedeva il rispetto della forma contenuto, lo ho cosi vincolato. Si dice che i requisisti di forma contenuto infatti assorbono il momento della volontà del comportamento. Ex. se io faccio un atto di citazione volevo fare questo atto, non c’è spazio per l’indagine, l’elemento del processo vanifica il tema della volontà del comportamento, quindi nel processo non ha rilevanza per la teoria dell’atto il tema sia dell’effetto che del comportamento. Ora ci occupiamo della FORMA-CONTENUTO, cosa dobbiamo dire sulla forma-contenuto dell’atto? C’è un principio generale stabilito dall’ART. 121 del codice di rito, questo è il PRINCIPIO DI LIBERTA DELLA FORMA, gli atti del processo per il quale la legge non prevede forme determinate possono essere compiuti nel forma più idonea per il raggiungimento del loro scopo. La regola generale è la libertà della forma, che però ha un parametro, cioè che l’atto deve avere quegli elementi che sono essenziali perché l’atto possa raggiungere lo scopo assegnato ad esso nella struttura procedimentale, se è l’atto di citazione, questo dovrà avere l’oggetto della domanda e la citazione del convenuto; se è una istanza istruttoria dovrà contenere l’indicazione del teste l’indicazione degli elementi che il teste deve impugnare. Volta per volta devo prendere l’atto e capire che funzione ha nel processo, devo avere tutti gli elementi necessari, ma solo quelli che mi servono per far sì che lo scopo dell’atto possa essere assolto. Ciò salvo che per quegli atti dove la legge espressamente prevede in modo specifico i requisiti di forma- contenuto (dove c’è quindi una forma legale), ma sono casi rarissimi e sono gli atti introduttivi del processo (atti di citazione, ricorso, memorie di costituzione, atto di impugnazione in appello, ricorso in cassazione), poi nel procedimento questi non ci sono. Il legislatore del 2022 ha introdotto una nuova regola sulla forma-contenuto dell’atto, ha previsto il PRINCIPIO DI CHIAREZZA E SINTETICITA’ DELL’ATTO, ultimo capoverso ART. 121 cpc: “tutti gli atti del processo sono redatti in modo chiaro e sintetico”. Questo principio è già previsto in altri leggi processuali, nel codice del processo amministrativo e nel codice della giustizia contabile per esempio. Già la nostra cassazione aveva detto che questi atti dovevano essere scritti in forma sintetica e chiara per semplificare l’esercizio della difesa ed il lavoro del giudice; ma la legge, in una norma delle disposizioni di attuazione del cpc, ci dice con chiarezza che la violazione di questa regola non è mai causa di nullità dell’atto, ma è solo valutabile ai fini delle spese processuali = aspetto molto importante perché nella logica di far presto poteva esserci la tentazione che se l’atto non era leggibile si poteva 60 L’art.156 ultimo comma parla di sanatoria PER RAGGIUNGIMENTO DELLO SCOPO → benché l’atto sia invalido, o meglio benché l’atto presenti un vizio tale da poterlo considerare invalido, ciò nonostante l’atto raggiunge il suo scopo. Quindi non vi è ragione di dichiarare la nullità. Es. l’atto manca di indicazione del diritto controverso, il convenuto però si costituisce → l’atto ha raggiunto il suo scopo? No. Non è che costituendosi il convenuto dica qual è il diritto fatto valere dell’attore, è solo quest’ultimo che può dirto. L’atto rimane nullo perché nonostante la prosecuzione dell’attore, non ha raggiunto il suo scopo. Es. l’atto è carente in quanto l’attore non ha indicato correttamente il giorno dell’udienza, o non ha previsto quelle indicazioni al 163 (avvertimenti a tutela del convenuto). A quel punto il convenuto si costituisce regolarmente → Qui l’atto ha raggiunto il suo scopo? Certo che sì, perché quelle misure erano a favore del convenuto. Quindi di volta in volta, bisogna vedere se l’atto in concreto ha raggiunto lo scopo che esisteva e che pure era in grado di minare la validità dell’atto. Questo perché l’atto che manca di una certa indicazione sarebbe invalido e astratto, ma questa invalidità non assurge dal giudice (esiste ma non viene dichiarata) perché è scattata una sanatoria che è un fatto impeditivo della declaratoria della nullità. La sanatoria impedisce la dichiarazione di nullità che sussisterebbe se non ci fosse stata la sanatoria e quindi dovrebbe essere dichiarata. Vi è poi la sanatoria di TIPO SOGGETTIVO: se i soggetti che hanno il potere di rilevare il vizio, non lo hanno rilevato (nei termini, modi e forme previste dalla legge), il vizio si sana e l’atto conserva i suoi effetti. È un po’ come l’annullabilità del contratto (se nessuno dei soggetti legittimati nei termini di decadenza agisce per l’annullamento del contratto, i suoi effetti si consolidano e il contratto non è più annullabile). La stessa cosa per l’atto: produce i suoi effetti, vi è un potere di reazione della parte lesa la quale reazione deve avvenire nel rispetto di certe regole. Se la reazione non avviene, l’atto è sanato e i suoi effetti sono irrevocabilmente determinati. Per stabilire quando possiamo dire che vi è stata una reazione, bisogna vedere la disciplina dell’eccezione di nullità (art.157). Questo enuncia 3 regole: ➢ La nullità è rilevabile soltanto a ISTANZA DI PARTE a meno che la legge non attribuisca espressamente il potere al giudice. Es. art.158 → le nullità relative della costituzione del giudice, sono rilevabili d’ufficio. Ma se manca una regola specifica, il principio è della rilevabilità a istanza di parte. Qui stiamo attenti: non stiamo a parlare dei presupposti processuali e quindi di rilevabilità extra formali. Ma stiamo a parlare di rilevabilità del singolo atto. Qui la regola è opposta a quella dei presupposti processuali. Questo perché nei presupposti avevamo detto che la regola generale era la rilevabilità ufficiosa, qui invece la regola generale è il contrario: su istanza di parte. ➢ Seconda parte del secondo comma art.157 → non solo la nullità che è rilevabile solo su istanza di parte, ma che la parte che è legittimata deve rilevarla NEL RPIMO ATTO O DIFESA SUCCESSIVA ALL’ATTO O NOTIZA DI ESSO. Una nullità molto corta perché i tempi sono ristretti. Nel primo atto o istanza successiva all’atto nullo, tu devi rilevare la nullità (quindi il primo atto utile). Quindi un regime molto rigoroso che riduce la valenza della nullità. ➢ Ma quindi tempi stretti e soltanto la parte, ma quale parte? Qui la legge enuncia la regola: “SOLTANTO LA PARTE NEL CUI INTERESSE E’ STABILITO IL REQUISITO” (secondo comma prima parte). E aggiunge “che la nullità non può essere opposta dalla parte che vi ha dato causa”. Io devo guardare questi due elementi in modo congiunto. Devo domandarmi: ma nell’interesse di quale soggetto la legge ha messo questo requisito formale a protezione delle condizioni soggettive processuali di quale parte processuali? Inoltre, non deve essere il soggetto che non ha dato causa alla nullità Cominciamo dal secondo aspetto (no soggetto che ha dato causa alla nullità) → qui questa disposizione (ultima parte del III comma 157) enuncia un principio di portata generale del processo civile: PRINCIPIO DI AUTORESPONSABILITA’ → Per questo principio, ciascuna parte è responsabile nel processo delle sue 61 condotte, e ne subisce le conseguenze; dunque non è possibile rilevare una nullità che questa stessa ha causato, perché la nullità è conseguenza. Questa regola dettata per gli atti processuali, riguarda tutte le nullità (anche quella relativa ai presupposti processuali). Quindi il principio è che la nullità è fatta valere da colui che non ha dato causa al vizio. Ma questo non basta perché la legge dice “...e nel cui interesse il requisito violato era previsto”. Quindi negli esempi fatti, è il convenuto che deve sollevare la nullità per due motivi: perché il requisito era previsto nel suo interesse e perché lui non ha dato causa della nullità (è l’altro che lo ha fatto, l’attore). Se nessuno deduce il vizio, il discorso si esaurisce perché l’atto benché invalido non è più annullabile e i suoi effetti si sono stabilmente prodotti. Cosa diversa se una delle parti deduce il vizio: a questo punto il giudice dovrà verificare se esiste il vizio, dovrà farlo immediatamente, nel corso del primo momento successivo del processo, perché deve stabilire se si è risolto quel problema dell’atto processuale (è un problema interno al procedimento). Dovrà verificarlo il Giudice istruttore e a quel punto se ritiene effettivamente esistente la nullità, il giudice la dichiara. Pensiamo il caso in cui l’attore compia un atto di intimidazione dei testi, il convenuto dice che c’è una invalidità. Il Giudice valuta se effettivamente ha ragione, se esiste il difetto. Se il vizio esiste, si apre il tema successivo: gli EFFETTI DELLA NULLITA’ dell’atto: Questa tematica è risolta rispettivamente dall’art.159 e 162. L’ART.159 si occupa di due temi complementari: 1. Effetto della nullità interno all’atto 2. Effetto della nullità esterno all’atto L’atto è invalido ma questa nullità colpisce tutto l’atto o soltanto alcune parti? La legge qui adotta la stessa regola del contratto: la nullità dell’atto colpisce soltanto quelle parti dell’atto che sono interessate direttamente e non colpisce le altre parti che sono distinte. Quindi l’atto costa di più parti, la nullità riguarda la parte A. Questa nullità produrrà effetti rispetto alla parte A e non alla parte B perché è diversa ed è indipendente dalla parte A. Perché se fosse dipendente, allora in modo automatico la nullità di A si espande verso B. È un’ESPANSIONE INTERNA all’atto. Poi vi è l’ESPANSIONE ESTERNA: l’atto è un anello della catena processuale, ma se si rompe un anello, tutto il resto cosa succede? Qui il legislatore ci dà una regola: la nullità dell’atto non si ripercuote su quelli anteriori, ma solo sui successivi e dipendenti. L’effetto espansivo verso l’esterno della nullità dell’atto riguarda solo gli atti successivi e dipendenti. La catena rimane valida, crolla tutto quello che è collegato a quell’anello. Può la nullità in forza di questo effetto a catena, può colpire anche la sentenza finale. Spesso la nullità di un atto provoca la nullità della successiva sentenza, si parla di NULLITA’ DERIVATA DELLA SENTENZA, derivata perché deriva da una nullità anteriore. Quando studieremo i vizi della sentenza, impareremo che i vizi della sentenza sono: a. Propri → quando la sentenza ha un vizio come atto in sé. Manca un dispositivo, manca l’indicazione del giudice. b. Derivati → tutte le volte in cui la sentenza subisce l’invalidità a monte. Quindi un atto nullo a monte, la sua nullità si ripercuote sulla sentenza. Quando studiamo la categoria delle nullità derivate (art.159), è opportuno per comprendere meglio il sistema, introdurre una distinzione che riguarda gli atti processuali: ❖ ATTO NECESSARIO → l’atto deve essere validamente compiuto affinché il processo possa svilupparsi e possa essere emessa una sentenza valida. Es. nullità della citazione → l’atto di citazione è un atto necessario perché se la citazione è nulla, è nullo tutto ciò che c’è dopo, compresa la sentenza finale che viene comunque emessa nonostante il vizio della citazione. Es. nullità della notificazione della citazione → se la citazione non è notificata in modo regolare, tutto ciò che accade dopo è nullo per violazione del contraddittorio. Questi sono esempi di atti necessari, perché debbono essere compiuti validamente affinché possa essere emessa una sentenza valida. 62 ❖ ATTI NON NECESSARI O EVENTUALI → atti che possono esserci come no, non sono necessari per lo sviluppo di un valido procedimento. Es. istanze istruttorie → non è che vi debba essere per forza l’istruttoria di un processo. Se l’istanza e la prova sono invalide, è nulla la sentenza. Proprio perché l’attività istruttoria è un’attività eventuale e non necessaria del processo civile. Se l’atto è EVENTUALE, la sentenza è nulla solo se dipende da quell’atto eventuale. Questo perché l’atto è sì eventuale, ma se la sentenza lo fa proprio dipendendone, subisce la conseguenza negativa derivata dal 159 cpc. Es. testimonianza → il giudice ammette un Teste violando le regole sulla testimonianza. Il Giudice non si accorge di questo difetto e emette una sentenza e motivando in ordine all’accertamento del fatto, utilizza quella testimonianza → qui la sentenza è nulla perché la sentenza si basa su un atto nullo. Quindi subisce la nullità dell’atto (vale il principio di causalità). Se invece il giudice avesse detto che si è accorto di aver emesso un Teste non ammissibile e quindi non lo utilizzo → la sentenza è valida perché non si fonda sull’atto nullo. Quindi non può essere colpito dalla nullità derivata dell’art.159. L’articolo 159 circa gli effetti della nullità, dopo aver enunciato queste due regole (effetto espansivo interno o esterno della nullità dell’atto), enuncia un’altra regola: ci dice che se l’atto è nullo, la nullità impedisce all’atto di produrre gli effetti collegati a quel certo provvedimento, ma non gli impedisce di produrre gli altri effetti che eventualmente esso è idoneo a produrre. Es. la domanda giudiziale ha più effetti (processuali e sostanziali). Tra gli effetti sostanziali, c’è quello interruttivo della prescrizione (dal momento in cui la domanda è esercitata, la prescrizione si interrompe): questo effetto però, non riguarda la domanda come atto processuale, ma riguarda la domanda in quanto non diversamente da un atto extra giudiziale costituisce atto di esercizio del diritto. Se la domanda è invalida, perché ad esempio manca l’indicazione del giudice e il giudice accerta la nullità, certamente la nullità non potrà produrre certi effetti processuali, ma potrà comunque produrre l’effetto sostanziale di interrompere la prescrizione. Questo perché quella domanda, benché processualmente invalida dal punto di vista sostanziale è valida (perché contiene l’indicazione del diritto fatto valere). Ma se invece la domanda fosse talmente viziata che l’avvocato non ha indicato il giudice e neanche il diritto: la domanda non produce né l’effetto sostanziale né quello processuale. Quindi il vizio o la nullità non impedisce all’atto di produrre quegli effetti ai quali l’atto è idoneo nonostante la nullità. L’ART.162 introduce un principio importante: il PRINCIPIO DELLA RINNOVAZIONE DEGLI ATTI: il giudice quando accerta (sanatoria ex post → mentre il 156-157 è una sanatoria ex ante che impedivano la dichiarazione di nullità), dichiara la nullità di un atto o più, allora in tal caso il giudice, per quanto possibile, ordina la rinnovazione dell’atto o degli atti nulli. È il principio di sanatoria o rinnovazione che abbiamo già incontrato nei Presupposti Processuali. Quindi il giudice si accorge che la citazione è nulla, ordina alla parte di rinnovare la citazione emendata da quel certo vizio. Si accorge che la testimonianza è invalida, ordina alla parte di formulare l’istanza di testificanza e formularla in modo valido. Il principio è che se il giudice prende atto che uno o più atti sono nulli, ordina alla parte interessata di compiere quegli atti in modo da recuperare la legittimità formale del processo. Questa articolo è espressione del principio generale, che non vale solo per la nullità di forma contenuto ma per ogni tipo di nullità. Ciò però per quanto possibile, perché se non è possibile rinnovare l’atto nullo, se ne prende e atto e si dice o concludiamo il processo se è un atto necessario o andiamo avanti se è eventuale. Ex. se il teste è venuto meno ed era necessario non ci si può fare nulla. Dunque la rinnovazione è un principio cardine e significa che il giudice disporrà la rinnovazione degli atti nulli. Ciò con il solo limite della oggettiva impossibilità a procedere. L’INESISTENZA DELL’ATTO L’altra figura di invalidità è data dall’inesistenza dell’atto. In realtà è una categoria anche questa di portata generale, che riguarda in generale l’atto processuale, ma in verità la figura dell’inesistenza si apprezza nell’attivazione pratica prevalentemente con riferimento alla sentenza del giudice. 65 È ancora comprensibile quando la sentenza è inesistente per mancata sottoscrizione del giudice (perché non è riconducibile ad alcun soggetto munito di potere). Quindi la sentenza inesistente può essere si impugnata con i mezzi di impugnazione ordinari, ma se il giudice d’appello ravvisa l’inesistenza, rimanda in Primo Grado affinché venga sanato il vizio. Non emette una sentenza con effetto sostitutivo. L’art.383 contiene una regola identica per le pronunce della Corte di cassazione. Infatti la Corte di cassazione qualora ravvisi l’esistenza dei vizi di cui al 354, annulla e rimanda al Primo Grado (anzi ché in appello come fa di solito). Quindi è collegato all’art. 354. Quindi disciplina della sentenza inesistente per mancata sottoscrizione del giudice. La sentenza è impugnabile con il mezzo ordinario. Se il giudice di grado superiore ravvisa il vizio fa retrocedere il processo al grado inferiore (art.354): tuttavia la sentenza inesistente non è sanata dal giudicato formale; se vogliamo l’inesistenza della sentenza è uno dei casi in cui il giudicato formale è superato. Benché la sentenza non sia impugnabile il vizio sopravvive e questo comporta che la parte interessata possa far valere il vizio anche dopo la preclusione del giudicato formale. Lo può far valere con due strade: 1. Actio nullitatis, in via principale → ha ad oggetto esclusivamente la pronuncia di inesistenza della sentenza. 2 In via incidentale ogni volta che la controparte gli oppone l’effetto della sentenza: io potrò dire “guarda giudice che è inefficace” → quindi la farò valere o in sede di esecuzione o in un giudizio qualunque nella controparte vuole utilizzare quella sentenza e vuole opporre l’effetto di giudicato formale. Quand’è che la sentenza è inesistente per mancata sottoscrizione del giudice? La Giurisprudenza da un’interpretazione restrittiva: se il giudice è collegiale (c’è il Presidente, c’è il Collegio, c’è un Relatore e un giudice a latere), la Giurisprudenza dice che benché manchi la firma del Relatore, se c’è la firma del Presidente è comunque valida (si accontenta della firma di uno dei due). Abbiamo visto i casi di sentenza inesistente per mancata sottoscrizione ma vi sono altri casi di sentenza inesistente e quando vi sono hanno una disciplina identica a questa. Quali sono questi vizi? La Giurisprudenza anche qui è restrittiva; l’applica nei casi in cui è difficile dire che abbiamo una sentenza. Vi sono: - Casi in cui la sentenza materialmente c’è ma giuridicamente non esiste: la sentenza è un atto di esercizio della giurisdizione che coinvolge due parti sostanziali e deve riguardare una tutela a un diritto soggettivo. Se manca uno di questi elementi la sentenza non assorbe quella funzione che quell’atto giuridico ha nell’ordinamento. Per quanto riguarda le parti. Es. io chiedo al giudice un provvedimento non ammesso dall’ordinamento e il giudice me lo concede → è un provvedimento inesistente perché ha un effetto giuridico che l’ordinamento non conosce. - Casi di sentenza valida (esiste materialmente e giuridicamente) ma il vizio è tale che non può la sentenza produrre i suoi effetti giuridici (inutiliter data): sentenza emessa con un difetto di legittimazione ad agire. Non può produrre effetti giuridici perché non può vincolare un soggetto che non è titolare del diritto. Es. sentenza violando l’art.102: è un caso in cui la sentenza riguarda A e B , ma per avere effetto deve coinvolgere anche C; quindi non producendo effetti verso C non ne produce anche verso A e B. Pensiamo la divisione dell’immobile senza coinvolgere C: la sentenza sarebbe inefficace perché non può produrre l’effetto che vuole l’attore ma se per caso si passa il giudicato e la sentenza viene fatta anche senza C, la sentenza è inutile perché non producendo effetti senza C non ne produce anche verso A e B. 66 17-10-2023 Ieri abbiamo terminato la tematica relativa all’atto processuale e ciò facendo ci siamo occupati anche di un tema molto importante che è quello da un lato della sentenza inesistente e dall’altro lato del principio di conversione dei motivi di nullità in motivi di impugnazione al primo comma dell’articolo 161. A questo punto ci dovremmo occupare degli Istituti che ruotano intorno al procedimento processo: provvedimenti del giudice, termini processuali e spese processuali. Questi sono Istituti che riguardano il giudice: giurisdizione, competenza, regolare costituzione del giudice. Istituti che riguardano la parte: capacità di essere parte, capacità processuale, rappresentanza tecnica. Inoltre la posizione della parte pubblica (PM) → non si trattano questi temi, da fare su manuale. L’OGGETTO DEL PROCESSO Ricordiamoci che la teoria del processo è: processo/procedimento, soggetti, parti ecc. I temi che cominciamo ad affrontare sono: 1. stabilire l’OGGETTO DEL PROCESSO: quali sono le regole che ci aiutano a dire in cosa consiste l’oggetto del processo e che rilevanza ha. 2. istituti che si accompagnano all’oggetto del processo: LITISPENDENZA, COGNIZIONE E CONTINENZA. L’OGGETTO DEL PROCESSO La teoria dell'oggetto del processo è fondamentale nel campo del diritto processuale civile perché quando andiamo a capire l’oggetto del processo, andiamo ad enucleare nozioni che servono per ricostruire altri istituti. E’ importante capire quale è l’oggetto del processo perché questo concetto è rilevante e decisivo per ricostruire una serie di istituti processuali quali la LITISPENDENZA, il PRINCIPIO DI CORRISPONDENZA TRA CHIESTO E PRONUNCIATO, la MODIFICAZIONE\MUTAMENTO DELLA DOMANDA, l’OGGETTO DEL GIUDICATO → in tutti questi istituti, la prima domanda sarà chiedersi qual è l’oggetto del processo. Tutti questi istituti partono dalla stessa domanda centrale. Prendiamo le mosse da una constatazione: il processo civile è un processo informato al PRINCIPIO DELLA DOMANDA. il processo si muove solo su domanda di parte, su iniziativa di un soggetto estraneo al giudice che è legittimato! Quando si parla di iniziativa della parte, dobbiamo aggiungere un'ulteriore precisazione: colui che agisce, non si limita a domandare, ma deve anche dire cosa domanda → ONERE per colui che propone la domanda DI INDIVIDUARE L’OGGETTO DEL PROCESSO. →Il primo principio è che L’OGGETTO DEL PROCESSO DIPENDE DALL’OGGETTO DELLA DOMANDA. E’ la domanda che enuclea l’oggetto del processo. Secondo principio: l’OGGETTO DELLA DOMANDA è la situazione soggettiva sostanziale per la quale viene richiesta tutela e il rimedio richiesto. Abbiamo 2 elementi: ➢ situazione soggettiva sostanziale che è fatta valere = PETITUM SOSTANZIALE ➢ il rimedio che la parte chiede = PETITUM PROCESSUALE o oggetto processuale. Il processo presuppone la relazione di un diritto quindi quando l’attore agisce domanda: “io ho questo diritto che ha subito questa violazione e quindi chiedo questo rimedio/tutela”. È ovvio che l’oggetto del processo, seppure simile, non è identico quando un soggetto denuncia come violazione di un suo diritto la mera contestazione (ad esempio l’accertamento di proprietà), oppure addirittura lo stato di lesione del diritto rappresentato dal mancato godimento del bene. È ovvio che l'accertamento e la condanna hanno un nucleo comune cioè il fatto che il soggetto sia proprietario, ma hanno anche degli elementi differenziali, in un caso l’accertamento e nell’altro la condanna, in un caso la violazione è una mera contestazione e nell’altro è una situazione di legittimo o non legittimo possesso del bene ad opera del convenuto. È evidente che a seconda del petitum processuale variano anche le questioni di merito che possono assumere rilievo. Che l’oggetto del processo sia dato dal diritto sostanziale si ricava dall’art. 99 cpc, art. 2907 cc, art. 163 sul contenuto della domanda. La legge dice che la parte deve indicare l’oggetto della sua domanda. Quindi il secondo principio: l’oggetto della domanda e del processo è dato dal DIRITTO SOGGETTIVO SOSTANZIALE per cui l’attore agisce e dal PROVVEDIMENTO, dal rimedio che l’attore richiede per ripristinare la lesione che viene denunciata della situazione sostanziale lesa. 67 → Questi 2 concetti sono la base. Ciò che deve essere chiaro sono questi 2 istituti (petitum sost, e proc.). Dobbiamo capire in concreto qual è l’oggetto del processo dopo aver detto che è la situazione soggettiva sostanziale. Un altro punto importante è che quando la parte agisce, deve agire per la TUTELA DI UN DIRITTO: oggetto del processo NON possono essere mere QUESTIONI O FRAZIONI DEL DIRITTO. Nell’arbitrato posso chiedere al giudice di accertare una parte del diritto o un segmento della fattispecie perché è un atto di volontà privata; nella giurisdizione no, prevede uno stretto collegamento tra situazione soggettiva sostanziale e domanda giudiziale. Questo perché nel nostro ordinamento il processo deve dare tutela ad una situazione soggettiva, non ad una mera frazione o parte della situazione soggettiva → DIVIETO DI FRAZIONAMENTO DELLA DOMANDA. L’unità minima strutturale dell’oggetto del processo è il DIRITTO SOGGETTIVO, non una frazione o una parte di esso! Si è discusso a lungo se la parte in attuazione del principio dispositivo, potesse proporre una domanda giudiziale dicendo al giudice che vuole che si occupi solo di certe cose; le altre pur rientrando nello stesso oggetto se le riserva di far valere per un secondo momento. Il principio dispositivo consente di frazionare la domanda giudiziale rispetto all’entità base (diritto soggettivo sostanziale). Il problema si è posto soprattutto per il DIRITTO AL RISARCIMENTO DEL DANNO. Il diritto al risarcimento del danno ha più componenti = voci di danno come danno patrimoniale, danno non patrimoniale ecc. Per il diritto sostanziale il diritto è unico, quindi ho un solo diritto al risarcimento, che però si compone di più voci di danno. Problema: può la parte agire in giudizio dicendo che vuole che venga accertato il diritto al risarcimento del danno e il convenuto sia condannato ma solo relativamente ad una componente, perché le altre non sono ancora pronte? es. voglio risarcimento del danno patrimoniale, ma mi riservo di far valere in un altro processo il danno non patrimoniale. Se si ammettesse, si andrebbe a spezzare la pretesa sostanziale unica in due pretesi processuali! Si è molto discusso se ciò fosse possibile o no: chi diceva di SI valorizzava il principio dispositivo (che mi consente di fare ciò che voglio del processo e quindi anche richiedere una parte soltanto del diritto); chi diceva di NO affermava che altrimenti si sarebbero violati i principi di ragionevole durata, di concentrazione dei giudizi ecc. Dopo una serie di pronunce contraddittorie, la Cassazione ha dato la soluzione: la DOMANDA DI RISARCIMENTO DEL DANNO NON E’ FRAZIONABILE, la parte deve far valere in giudizio l’intero diritto, non può riservarsi di far valere una parte del giudizio in un altro processo. La Cassazione ha fatto ricorso all’istituto dell’ABUSO DEL PROCESSO: in questo caso vi è un abuso del processo, in particolare la seconda domanda è inammissibile perché viziata. La parte fa un uso abusivo dello strumento processuale perché lo usa in modo non corretto. La riserva limita l’oggetto della pronuncia del giudice a ciò che è stato riservato ma la seconda domanda non è ammissibile perché abusiva per vizio del processo → soluzione della Cassazione. Questa soluzione è corretta nei presupposti ma non nella esplicazione finale, il prof crede che il discorso sia più semplice e non serve ricorrere all’abuso del processo: si applicano i principi generali. Se il processo è collegato al diritto sostanziale, riserva o non riserva, il giudice ha il POTERE DI DECIDERE SU TUTTO IL GIUDICATO. La parte non può andare a frazionare il potere di decidere del giudice. L’oggetto del processo riguarda l’intero diritto e quindi il giudice può pronunciarsi su tutto. Ulteriore conseguenza: dopo aver reso questo accertamento, non si può in un secondo processo andare a ridiscutere. Il primo giudicato si è formato sul diritto e quindi la parte non può ri-agire dicendo che ci sono stati eventi non considerati dal primo giudice. Se la parte dice che vuole discutere solo del danno patrimoniale, l’oggetto del processo è il diritto di credito, quindi si potrà discutere anche di altro. Il giudice rende un accertamento che riguarda il diritto nella sua esistenza e contenuto. Reso l’accertamento per cui l’attore ha diritto a tot per il danno, poi il primo finisce e non si può chiedere al giudice di riconoscere di più. → questo perché lo impedisce il PRINCIPIO DELLA DOMANDA: con la deduzione in giudizio di un diritto, quel diritto è dedotto nella sua totalità e completezza, che non può essere frazionata per volontà di parte. 70 I latini questa contrapposizione la basavano su diritti relativi e diritti reali: i DIRITTI REALI sono auto- determinati (non rileva la causa petendi) perché non posso essere più volte proprietario di qualcosa, a prescindere dai titoli di acquisto. Es. proprietà del libro. La cosa può essere solo una volta mia. Tipicamente i latini dicevano che rispetto alle azioni reali non rileva la causa petendi → oggi diciamo che i DIRITTI REALI SONO AUTO-DETERMINATI, perché per la loro identificazione non rileva il titolo di acquisto! Per i CREDITI le cose cambiano: posso aver diritto al pagamento di 100 per più ragioni, ad es. la vendita, il risarcimento del danno, la restituzione di un mutuo ecc. La PRESTAZIONE è RIPETIBILE: A può avere verso B infiniti diritti di credito. Il pagamento di 100 soddisfa l’interesse x ma non altri: è il corrispettivo della vendita ma non serve per il risarcimento del danno. Secondo i romani è possibile dovere più volte in un certo momento storico perché la prestazione è ripetibile → L’intuizione era questa, oggi l’abbiamo specificata con il concetto di RIPETIBILITA’ DELLA PRESTAZIONE. Ciò che oggi è diverso rispetto al diritto romano sono le CONSEGUENZE APPLICATIVE DEL PRINCIPIO. Il diritto latino prevedeva una distinzione perfetta tra diritti relativi e assoluti. Oggi non è più così: da una parte abbiamo i diritti relativi aventi ad oggetto il pagamento di una somma di denaro, dall’altra tutti gli altri diritti. Dall’altra ci stanno non solo i diritti reali ma anche i diritti relativi che sono un diritto personale di godimento, i diritti relativi aventi ad oggetto prestazioni diverse (dare consegnare o fare). Premessa: oggi diciamo che la prestazione non è ripetibile, che il diritto non può esistere più di una volta. Mentre i crediti possono esistere più di una volta, i diritti relativi no. Es. consegna di questo orologio, non di un orologio che sarebbe un bene indeterminato. Una volta che l’ho consegnato non posso consegnarlo di nuovo perché l’interesse è soddisfatto.  La distinzione passa non tra diritti reali e relativi ma è una DISTINZIONE TRA DIRITTI AVENTI AD OGGETTO UN BENE DETERMINATO e DIRITTI AVENTI AD OGGETTO UNA COSA DI GENERE, ed esattamente una PRESTAZIONE PECUNIARIA. Ciò che rileva è il bene determinato, quando lo ottengo sono soddisfatto. La premessa è che ciò che rileva è la possibilità di coesistenza o meno del diritto e la ripetibilità della prestazione. Conclusione: - Sono RIPETIBILI solo le PRESTAZIONI AVENTI AD OGGETTO BENI FUNGIBILI e PARTICOLARI CREDITI PECUNIARI. - Tutte le altre prestazioni NON sono RIPETIBILI. Tutti i diritti che hanno ad oggetto un bene determinato sono AUTO-INDIVIDUATI perché il contenuto del diritto non è ripetibile in un certo contesto temporale. Es. caso del cavallo: c’è litispendenza. È diverso il titolo della proprietà ma i soggetti, il bene sono gli stessi, il titolo è irrilevante. Es. se agisco in un processo dicendo che mi devi 100 per la locazione e 100 a titolo di danno, non c’è litispendenza: soggetti sono gli stessi, oggetto è il medesimo ma cambia il titolo. Le cose cambiano per i DIRITTI ETERO-INDIVIDUALI: il processo non è così banale o semplificato. È evidente che se vado da un giudice e gli dico che ho concluso un contratto di locazione con questo signore e mi deve dare 100, poi questo signore giorni dopo mi ha investito per strada e mi deve risarcire il danno. A nessuno di noi verrebbe da dire che qui non siamo in presenza di due tipi diversi, perché diversi sono i fatti costitutivi. Ho due diritti che nascono da due vicende storiche esistenziali diverse ontologicamente. Però la realtà è più complessa di questo esempio fatto, proviamo ad immaginare una fattispecie diversa: Es. vado dal giudice e dico che ho subito un danno, chiedo il risarcimento del danno per responsabilità contrattuale a B perché ero trasportato da B, c’era un contratto di trasporto. Perdo la causa perché il giudice dice che l’azione è prescritta. Allora dico che chiedo il risarcimento del danno per responsabilità extracontrattuale → è diverso. L’elemento è che si fa riferimento sempre allo stesso accadimento storico, sempre a quel sinistro. Anche la vicenda storica però non è la stessa: da un lato dico che c’era un contratto di trasporto, nell’altro caso no (sennò non ci sarebbe resp ex art. 2043). 71 I diritti nascono sulla base di una fattispecie concreta che si riconduce ad una fattispecie astratta. Quando quello che noi chiamiamo accadimento storico (i tedeschi lo chiamano episodio della vita) è diverso, siamo in presenza di eventi diversi. Problema: la fattispecie astratta è la diversa ma il resto è simile. Nell’esempio del contratto di trasporto ho un nucleo comune, che è quello dell’accadimento storico (incidente) e c’è un elemento diverso, che è il contratto di trasporto che vale solo per un’ipotesi. La fattispecie concreta non è la stessa. Cosa accade? es. agisco sulla base di un contratto di mandato. Giudice dice che non c’era il mandato. Allora dico che c’era la negotiorum gestio. Il nucleo comune è lo stesso perché ho compiuto un’azione nel tuo interesse. Ma in un caso vi è un contratto di mandato e nell’altro no. Sono molti i casi in cui la prospettazione normativa della fattispecie è differente ed ha aspetti giuridici omogenei, ma essendo diversa la prospettazione normativa, non corrisponde nemmeno la fattispecie concreta! Ma se il giudice ha detto che non c’è il diritto X, posso agire per il diritto Y? Se è la stessa domanda e lo stesso diritto si, altrimenti no. Es. sentenza SU del 2015: si stipula un contratto, la parte dice che il contratto è traslativo della proprietà. In corso di causa si rende conto che non si può dire che fosse un contratto traslativo e dice che è un preliminare. L'effetto perseguito è sempre lo stesso = proprietà dell’immobile, ma dico che il contratto è diverso e avrei un’azione diversa (contratto definitivo = proprietà; contratto preliminare = 2932). Teoricamente io NON posso spostarmi da una all’altra azione perché è diverso l’oggetto MA la cassazione dice che si può cambiare: la vicenda esistenziale è la stessa, è sempre lo stesso contratto che andrà interpretato e qualificato a seconda dei casi in modo diverso, c’è la stessa vicenda alla base. Il bene giuridico è lo stesso, la vicenda è la stessa, tutto dipende da come si interpreta il contratto e le due AZIONI SONO ALTERNATIVE. → Comune è l’ACCADIMENTO STORICO, lo stesso è il TARGET (= bene della vita che la parte deve ottenere) che non può essere conseguito più volte, diversa è la FATTISPECIE LEGALE che vado ad addurre. E’ diversa ma simile, in particolare è anche ALTERNATIVA perché le due fattispecie non possono parimenti essere applicate. → In tutti i casi in cui le norme o le fattispecie, richiamate per riempire la base dell’accadimento storico, sono tali per cui non sono parimenti applicabile ma alternative, dirò che il TITOLO COSTITUTIVO E’ UNICO e UNICO E’ IL DIRITTO SOSTANZIALE CHE E’ FATTO VALERE. Devo guardare 3 ELEMENTI secondo la Cassazione: ▪ BASE COMUNE, non identica → si va a guardare la vicenda esistenziale, l’accadimento storico. ▪ EFFETTO COMUNE ▪ FATTISPECIE NORMATIVE ASTRATTE SONO ALTERNATIVE, no contestuale applicazione → allora il FATTO COSTITUTIVO E’ IL MEDESIMO, il titolo della domanda è il medesimo. In presenza di CREDITI PECUNIARI, devo guardare al FATTO COSTITUTIVO: non è l’accadimento storico in sé, non è la fattispecie normativa astratta MA è la SINTESI DI QUESTI ELEMENTI. Devo guardare all’accadimento storico e al rapporto che corre tra le fattispecie astratte. Se queste sono entrambe applicabili mi danno 2 diritti diversi, devono essere alternative e mi devono dare lo STESSO EFFETTO → è l’alternatività di entrambe mi fanno vedere che sono in presenza di uno STESSO DIRITTO. FATTISPECIE ALTERNATIVE: entrambe non sono applicabili, o nasce un diritto o l’altro, non posso avere tutti e due perché le fattispecie non possono esistere entrambe. 72 19-10-2023 Abbiamo esaminato il tema dell’oggetto del processo. Per completare questo tema dobbiamo ancora riflettere e ricordare alcuni principi, alcuni sotto temi. Il primo di questi è relativo a QUALE SIA IN CONCRETO L’OGGETTO DEL PROCESSO ogni volta in cui venga fatta valere in giudizio una situazione elementare che è parte di un più ampio rapporto giuridico reale o obbligatorio. Qui dobbiamo fare un’introduzione per meglio capire questo aspetto. Se riflettiamo sulle nozioni di diritto sostanziale, abbiamo imparato che esistono i rapporti che constano di una pluralità di diritti e di obblighi (tipo il rapporto di compravendita, di locazione, di lavoro) → quindi il rapporto non era rappresentato soltanto da un diritto, ma da una pluralità di diritti, che sono collegati tra di loro e spesso sono in una relazione sinallagmatica (ex. diritto di pagamento del prezzo e al diritto di presa del bene in un rapporto di compravendita). Questi diritti, ex. diritto di lavoro che consta di naturalità sui diritti e sui poteri sostanziali (potere di licenziare, diritto gli straordinari più tutta una serie di situazioni soggettive elementari). Lo stesso discorso vale per i diritti assoluti, in particolare per quelli reali: per definizione, il diritto reale è espressione di una pluralità di poteri, di facoltà del soggetto sul bene (diritto al godere dei frutti, diritto al godimento del bene e così via). Mentre, altre volte invece il rapporto giuridico è un rapporto semplice, cioè che consta di un solo diritto → si pensi all’obbligazione del pagamento del risarcimento del danno che si esaurisce con il diritto di uno dei due e l’obbligo dell’altro al pagamento del danno. Quindi noi dobbiamo prendere atto, che sul piano sostanziale, molto spesso le situazioni soggettive di diritti, obblighi, poteri e facoltà non sono singole, non vivono indipendentemente da altre situazioni, ma sono raggruppate/riunite in una figura giuridica più ampia che prende il nome di RAPPORTO GIURIDICO COMPLESSO o RAPPORTO FONDAMENTALE, che può avere natura reale o obbligatoria. Qual è la funzione della figura aggregante? Cioè del rapporto complesso? La funzione della figura aggregante è che essa, riunendo tutte queste situazioni soggettive, dà ad esse una disciplina omogenea. Fa in modo che questa situazioni siano disciplinate in modo uniforme e coerente, così se il lavoratore ha diritto a prestare il lavoro allora a questo diritto si accompagneranno diritti di eguale contenuto. Oppure rapporto di locazione: se il soggetto ha diritto ad accadere ad un rapporto di locazione, il soggetto avrà diritto a godere del bene, l’altro avrà l’obbligo di pagare il canone e ci sarà poi, se l’immobile ha certe caratteristiche se l’immobile è urbano, tutta una serie di diritti e obblighi nascenti dalla disciplina codicistica → questa figura, in realtà quasi artificiale, ha la funzione molto importante di aggregare tutte queste situazioni elementari riunendole in una figura più ampia che ha la funzione di tenerle assieme e di dare a queste situazioni sostanziali una disciplina omogenea. Problema che si pone = nel momento in cui viene fatta valere in giudizio una singola pretesa, un singolo diritto che è riconducibile a quel rapporto, l’oggetto del giudizio è rappresentato esclusivamente da quel segmento, da quella frazione di diritto, oppure al contrario in realtà il diritto, l’oggetto del processo (e quindi l’oggetto del futuro accertamento giudiziale) coinvolge anche il rapporto madre, cioè il rapporto giuridico (compravendita, locazione etc.) all’interno del quale va ricondotta la situazione figlia, elementare? Quindi, il problema che noi abbiamo è questo: se io chiedo la condanna al pagamento del canone di locazione e il giudice riconosce questo mio diritto, in questo caso l’accertamento giudiziale è soltanto circa il fatto che io ho diritto ad ottenere 100 con il pagamento del canone oppure, al contrario, che ho diritto a tenere 100 col pagamento del canone perché a monte vi è un rapporto di locazione. Con la conseguenza che quando io andrò eventualmente in un secondo giudizio si potrà, a seconda della risposta alla prima domanda, ridiscutere o meno che tra le parti intercorreva una rapporto di locazione. Ex. = quando io poi agisco nuovamente per ottenere la condanna a rate successive nel frattempo scadute del canone, può la parte convenuta dire “non è un rapporto di locazione, ma un comodato” oppure è vincolato dalle procedure di accertamento in cui il giudice ha appurato che esiste un rapporto di locazione. Ex.2 = se io agisco e ottengo la condanna del convenuto all’adempimento e quindi al pagamento del corrispettivo della vendita, vi è un accertamento vincolante solo su questo elemento o anche sull’esistenza di un rapporto di compravendita? in secondo giudizio quando le parti non potranno dire “il contratto è nullo” perché il giudice ha già accertato che devi l’adempimento e il diritto all’adempimento non è possibile se il contratto è nullo. 75 statuto → anche questo è un potere sostanziale perché alla delibera assembleare consegue la produzione di effetti giuridici che ciclicamente si producono nella sfera di vita del condomino, nell’associazione ovvero della società. Se l’assemblea delibera di non distribuire gli utili, c’è un effetto immediato per cui il soggetto non ha diritto agli utili, che invece si verifica se l’assemblea delibera la distribuzione degli utili prodotti dalla società. In tutti questi casi siamo in presenza di poteri di carattere sostanziale. Come già visto, talvolta la legge stabilisce che il soggetto che subisce l’esercizio del potere può reagire nel rispetto delle regole ordinarie: cioè quando vuole farà valere l’azione di accertamento/condanna conseguente all’effetto che si è prodotto a seguito dell’esercizio del potere. Qui ovviamente non ci sono problemi con l’oggetto del processo perché l’azione riguarderà il riconoscimento o disconoscimento di quell’effetto giuridico che la parte ritiene realizzata o meno dall’atto di esercizio del potere. Ex. → se è esercitato il ricatto del bene, a meno che non vi sia nel contratto una regola speciale, il principio generale è che la parte che vuole vedere riconosciuto o disconosciuto un diritto sulla base dell’effetto prodotto dal riscatto agirà, con accertamento positivo o negativo o con la condanna, per vedere riconosciuto l’effetto giuridico senza nessun problema. Quindi, ad esempio, il convenuto potrà dire che il riscatto non è valido e che quindi il cavallo è suo e che deve vedersi ridare indietro il bene di cui l’altra parte si è impossessata illegittimamente e così via. I problemi si pongono quando la legge coordina all’esercizio del potere un CONTROPOTERE della parte che subisce l’effetto, la quale deve entro termini decadenziali impugnare l’atto di esercizio del potere contestandone la validità ecc. (annullabilità, …) → Ex. il socio deve impugnare in via giudiziale la delibera assembleare entro un termine decadenziale che reputa nulla o annullabile / il condomino deve impugnare la delibera assembleare invalida entro 30gg dalla sua conoscenza legale perché se non vi è impugnativa si stabilizzano gli effetti e c’è esigenza di dare certezza alle situazioni soggettive. Ancora il lavoratore deve contestare il licenziamento → è un procedimento complesso in fondo al quale si arriva all’azione con cui il lavoratore dovrà dire che il licenziamento è illegittimo. In questi casi si ha una CONTROAZIONE, o di accertamento (nullità del contratto) o costitutiva (perché di annullamento) con cui la parte che subisce l’effetto reagisce di fronte all’esercizio, a suo avviso invalido, del potere da parte dell’altro soggetto. In questo caso, quale è l’oggetto del processo? Qui, rispetto al processo costitutivo ordinario (che non ha a monte il controllo di un atto/potere sostanziale) vi è una complicazione in più: ovvero che il potere può essere riesercitato e quindi non si esaurisce con il compimento dell’atto. Infatti, l’assemblea, dopo la sentenza del giudice, può deliberare di nuovo; il datore di lavoro può, dopo la sentenza del giudice che ha detto che quel licenziamento è ingiustificato, di nuovo licenziare  il potere NON si esaurisce con l’atto di esercizio, può essere di nuovo rinnovato. Se noi rimaniamo ancorati all’idea tradizionale e quindi prendiamo come risultato del processo solo l’annullamento dell’atto, la caducazione dell’atto invalido, si ha una tutela che è solo parziale perché la parte che ha perso potrebbe rinnovare l’atto sulla base degli stessi motivi. In questi casi, per dare una tutela vera all’attore, non posso limitarmi a valorizzare l’effetto di annullamento della sentenza (cioè la sentenza annulla l’atto di licenziamento illegittimo), ma devo dire che la sentenza deve darmi anche una regola che valga per il potere e per il rapporto → cioè una regola la quale, in caso dell’esercizio del potere, le parti devono attenersi perché il giudice gli ha detto che il potere va esercitato in un certo modo e che il rapporto ha una certa natura. Questo secondo aspetto si chiama EFFETTO CONFORMATIVO DELLA SENTENZA. È la stessa situazione che ha fatto discutere per secoli nell’ambito della giustizia amministrativa. L’impostazione tradizionale diceva che l’unico effetto dell’azione di impugnazione dell’atto amministrativo è l’annullamento dell’atto. C’era però anche chi sosteneva che una volta annullato l’atto, l’amministrazione può riesercitare il potere e ripuò, ad esempio, negare quel bene a cui aspiravo per lo stesso motivo → mi hanno detto che non mi danno la concessione edilizia, e mi ridicono no per gli stessi motivi o sulla base di motivi già esistenti prima del primo processo. Quindi la sentenza non mi dà una tutela effettiva e allora alcuni sostengono che la 76 sentenza amm.va non ha un effetto tanto caducatorio, ma anche di accertamento perché accerta la regola di condotta circa il bene della vita controverso in modo da orientare il nuovo esercizio del potere da parte della PA. Cioè la sentenza dice che la parte ha diritto ad avere la concessione e quindi, quando l’amministrazione esercita il potere, non può negargli quel diritto perché altrimenti viola il primo giudicato. E lo stesso discorso vale per il licenziamento e per l’assemblea → quando l’assemblea delibera di non dividere gli utili, quando il giudice dice che lo statuto impone la divisione, non può limitarsi a dirmi con effetto giuridico rilevante “annullo l’atto che ha negato gli utili”. Abbiamo bisogno di qualcosa in più, che la sentenza dica “accerto e riconosco di imporre alla società il potere di darvi quegli utili che illegittimamente sono stati negati”. Il bene della vita che viene in campo ancora una volta non è l’annullamento dell’atto, ma l’entità sostanziale a cui aspira (nel nostro caso gli utili). Allora se questo è, nei casi fatti (licenziamenti, delibera assembleare) l’oggetto del processo non è il diritto potestativo, ma è ancora una volta il rapporto giuridico sul bene della vita al quale aspira una parte e sul quale quell’effetto va ad incidere. L’oggetto del processo non è il diritto all’annullamento della delibera invalida perché quello è lo strumento, ma il fine è un altro. La sentenza mi dovrà dire se io ho o no diritto agli utili e se quindi, esercitando il potere, la società dovrà deliberare la distribuzione degli utili. Si torna al punto di partenza: cioè che l’oggetto del processo anche per questo tipo di azioni per i motivi soliti, deve necessariamente avere una portata più ampia del mero annullamento del contratto, o dell’atto per vedere la portata deve andare ad incidere sul rapporto sostanziale che è inciso da quell’atto di esercizio del potere. Quindi, per chiudere il tema sull’oggetto del processo, in realtà l’evoluzione di questo istituto fondamentale, nel sistema dei diritti, è nel senso di fare in modo che per un verso il processo possa coinvolgere nel modo più ampio possibile la vicenda sostanziale/il rapporto su cui le parti sono entrate in crisi, e in conseguenza di ciò, di fare in modo che la parte che ha vinto abbia dal processo una tutela più ampia possibile, cosa che non avverrebbe se io consentissi la modificazione delle azioni in ordine allo stesso interesse sostanziale. Questa è la sintesi, l’elemento di fondo che lega tutte insieme quelle sentenze citate e che sembrano così lontane tra di loro, ma in realtà non lo sono. Ex. la sentenza del 2015 (modificazione della domanda) dice questo, cioè che il processo dà una regola ampia su quella vicenda, non è importante che il contratto sia un definitivo o un preliminare, ciò che importa è che il processo mi dia la regola su a chi spetta il cavallo. Alle parti non interessa tanto stabilire se il patto sia valido o meno, voglio sapere se a loro spetta il cavallo; lo stesso vale anche per il licenziamento, a loro non interessa capire se l’atto è valido o invalido, ma se il datore di lavoro ha il potere o meno di licenziare. Questo è il filo conduttore che lega queste ipotesi apparentemente diverse o quantomeno non facilmente riconducibili ad unità pronunce della corte. Il tema dell’oggetto del processo rileva anche al fine della ricostruzione di molti ALTRI ISTITUTI. Gli istituti (litispendenza, continenza) che ora esaminiamo sono fortemente implicati dal tema dell’oggetto del processo perché, proprio nella logica della visione più ampia che abbiamo dato, vediamo che il fenomeno della continenza si allarga rispetto a quella che è la ricostruzione più tradizionale. Cominciamo ad esaminare questi istituti singolarmente. 1. LITISPENDENZA Non dobbiamo confondere la litispendenza in senso stretto, cioè l’istituto che è disciplinato dall’art39cpc, con il concetto di litispendenza perché quest’ultimo aspetto riguarda la litispendenza in senso tecnico: cioè vuol dire che la causa è pendente e questo rileva a più effetti. Quando diciamo che la lite è in pendenza, si vuole dire che la causa pende, che la lite pende e questo al fine della successione di due controverse è importante. Il PRESUPPOSTO di questo istituto è che vi siano 2 cause che hanno lo stesso oggetto (e la stessa causa se vogliamo) che però pendono di fronte a due giudici diversi. Il fenomeno della contemporanea pendenza della stessa causa però è considerato non solo dall’art.39, ma anche dal 273 cpc. Queste due norme disciplinano la medesima fattispecie processuale: due cause che pendono di fronte a due giudici in due diversi procedimenti; in un caso, litispendenza, pendono di fronte ad uffici giudiziari diversi (tribunale di Milano e di Torino) ex art39; nell’altro, art. 237 (RIUNIONE) le cause pendono dinanzi al medesimo ufficio giudiziario/medesimo giudice o altra sezione. 77 L’ordinamento si preoccupa di stabilire cosa succede quando la causa X è pendente in due processi diversi, il processo 1 e il processo 2. Tuttavia, la risposta che l’ordinamento dà della stessa vicenda non è un’unica disciplina, ma sono due disciplina differenti a seconda che la causa 1 o 2 pendano di fronte a uffici giudiziari diversi (Roma-Milano) e allora la norma di riferimento è l’art. 39, o che la causa 1 e 2 vengano di fronte allo stesso ufficio giudiziario (tribunale di Milano) e in questo caso le sub-fattispecie sono molte: lo stesso giudice, un altro giudice, un’altra sezione del tribunale, ma sono comunque tutte articolazioni interne al medesimo ufficio giudiziario e in questo caso opera l’art. 273cpc. Le due norme però riguardano lo stesso fenomeno: stessa causa in due procedimenti distinti. La risposta che dà l’ordinamento è realizzata con tecniche diverse perché, essendo diverse le vicende processuali, è diversa anche la risposta, ma il FINE PERSEGUITO è il medesimo: impedire che i due procedimenti possano proseguire in modo autonomo e che quindi da questi possano scaturire due giudicati che sarebbero contradditori. La litispendenza e la riunione sono praticamente fratelli del giudicato che vuole impedire che ci sia stata una sentenza, ci sia una sentenza sullo stesso oggetto per impedire che si abbiano due interpretazioni sullo stesso oggetto non quando ce ne è già stata una che è passata in giudicato, ma quando ve ne sono due in pendenza → è differente il momento temporale preso in considerazione. Questo perché eventuali giudicati, sentenze, accertamenti difformi provocherebbero un conflitto pratico di giudicati. È opportuno che si dica cosa vuol dire “conflitto pratico di giudicati” che si ha quando decisioni sono del tutto inconciliabili sul piano del loro effetto e quindi che non possono essere attuate congiuntamente perché l’attuazione di una impedisce l’attuazione dell’altra. Il conflitto pratico evidenzia un conflitto dei contenuti decisori tali per cui questi non possono avere contemporanea attuazione e realizzazione. È evidente che il conflitto pratico si ha quando si hanno due decisioni diverse sullo stesso oggetto perché evidentemente come faccio a far stare insieme una sentenza che dice che il proprietario del cavallo è A e un’altra che dice che è B. Fatta questa comune premessa analizziamo l’art39cpc. ANALISI ART. 39CPC (LITISPENDENZA): L’art39 prende in considerazione il caso che la stessa controversa sia pendente davanti a due uffici giudiziari differenti. In questo caso il giudice, adito per secondo, deve chiudere il rito che pende davanti a lui in modo che possa vivere e continuare un solo processo, quello instaurato per primo. Quindi, qui il mezzo per arrivare all’obiettivo (una sola decisione) è uccidere un processo, uno dei due, quello successivo, è chiuso il rito, non dà luogo ad una sentenza di rito, non è definito nel merito, sopravvive solo l’altro processo. PRESUPPOSTO = stessa causa → si dovrà allora guardare all’oggetto del processo perché i due processi devono avere lo stesso oggetto, devono riguardare la stessa situazione soggettiva sostanziale. Ex. se siamo in presenza di due processi che hanno ad oggetto la proprietà di X, in un caso viene fatto valere un tiolo e nell’altro l’altro, è vero che i due processi hanno un elemento differenziale, il titolo, ma l’oggetto è lo stesso e quindi la causa è la stessa. Quindi è errato dire che bisogna guardare se hanno la stessa causa, lo stesso petitum etc. perché vi sono delle ipotesi in cui uno di questi elementi è diverso, ma la causa è la stessa perché l’oggetto del diritto sostanziale è il medesimo → quindi se ragioniamo sulla causa petendi, questa può essere diversa, ma il processo uguale; se ragioniamo sul petitum e io faccio valere in un processo una voce di danni e in un altro un’altra voce di danni, il petitum è apparentemente diverso ma il diritto è lo stesso perché è tale aldilà del credito, della sua quantificazione e della sua componente che è stata fatta valete. Se pensiamo ai soggetti, è vero che si è detto che se cambiano i soggetti cambiano anche i diritti, però abbiamo anche visto che ci possono essere dei casi in cui i soggetti sono diversi e il diritto è lo stesso. Ex. casi di legittimazione straordinaria: la domanda è proposta dalle parti nel primo processo, in un secondo viene fatta valere la stessa domanda dal legittimato straordinario → qui i soggetti non sono gli stessi, ma il diritto è lo stesso. Quindi, NON è corretto dire c’è litispendenza quando sono tutti uguali i tre elementi dell’impugnazione perché questo ci porta fuori strada. Corretto è dire che c’è litispendenza ogni volta che i due processi hanno il medesimo oggetto, ossia ogni volta che le legislazioni sostanziali sono le medesime e quindi potranno aversi casi in cui uno di questi tre elementi sia diverso, ma i diritti siano gli stessi. 80 Ex. Milano e Torino; Milano è la prima, Torino la seconda. Torino dice “io sono il secondo, mi devo spogliare però mi spoglio SOLO SE Milano è competente anche per me”. Quindi se il secondo giudice valuta che il primo giudice ha COMPETENZA anche per la seconda causa, dispone il rinvio della causa. Quindi il secondo giudice si spoglia della sua causa se ritiene che per la sua causa sia competente il primo. Se così NON è, sarà il primo a spogliarsi e quindi sarà il primo che, preso atto della sua incompetenza, prende e matta tutto al secondo giudice.  Quindi, in pratica, il criterio della prevenzione è attenuato da quello della competenza → in prima battuta opera quello di prevenzione, ma è corretto dal criterio della competenza perché può capitare che le cause vadano tutte dal secondo giudice nel caso in cui il primo non sia competente per l’altra. RECAP Criterio della prevenzione e della competenza → il primo giudice tratta il caso solo se è competente per entrambi, se invece il primo giudice non è competente per entrambe, il cumulo si fa davanti al secondo giudice. Quindi non basta il controllo della prevenzione, ma serve anche quello sulla competenza. Infatti, la norma dice “il giudice di questa (cioè il secondo) dichiara con ordinanza la continenza e fissa un termine perentorio entro il quale parti devono assumere la causa davanti al primo giudice” → qui sembrerebbe semplice perché basta la prevenzione. Continua “se questi (primo giudice) non è competente anche per la seconda causa, la dichiarazione della continenza e la fissazione del termine sono da lui pronunciate” → cioè se il primo giudice non è competente anche per l’altra, fissa lui la continenza anche per l’altra e s va dal secondo giudice. Quindi il primo giudice ha il potere SOLO SE oltre ad essere primo è anche competente per la seconda, altrimenti si va dal secondo giudice, sempre che questo sia competente per entrambe. Il provvedimento è un’ordinanza ed è impugnabile con regolamento necessario di competenza. L’art273 cpc si occupa sia dei casi di LITISPENDENZA che di CONTINENZA tutte le volte in cui le due cause (identiche o in rapporto di continenza) pendano davanti al medesimo ufficio giudiziario. In questo caso, se le due cause pendono davanti allo stesso giudice persona fisica nessun problema: questo fa un provvedimento e le definisce. Se invece le due cause pendono davanti a due giudici persone fisiche diverse o due sezioni dello stesso tribunale, il giudice che si accorge del problema rinvia, rimette gli atti al presidente del tribunale che stabilisce quale sia il giudice che proseguirà. Quindi, la stessa causa o le cause continenti sono davanti al giudice A; invece una causa è davanti al signor X e l’altra al signor Y (o due sezioni del medesimo tribunale), a questo punto viene dichiarata la litispendenza o la continenza e gli atti vengono rimessi al presidente del tribunale il quale dirà “c’è litispendenza/continenza, allora va avanti il giudice A o B”. Di norma si fa mandare avanti il giudice adito per primo. 81 23-10-2023 Le cause e le domande possono presentare delle interferenze, dei collegamenti, che sono in realtà collegamenti tra le situazioni soggettive sostanziali che stanno alla base delle cause e domande. Il legislatore prende in considerazione questi fenomeni e dà una risposta ad essi sotto l’aspetto processuale disciplinando regole speciali per dare una risposta a questi fenomeni che si apprezzano sul piano sostanziale. Questi fenomeni/forme di collegamento sono riconducibili a relazioni diverse tra diritti e domande, che possono essere o relazioni di identità o relazioni di continenza o relazioni di connessione. Abbiamo visto anche la risposta dell’ordinamento, quando due domande siano relative a diritti identici ovvero diritti legati da un nesso di continenza. 3. LA CONNESSIONE Cosa vuol dire che vi è tra cause, domande o diritti, una connessione e quali regole disciplina l’ordinamento? L’istituto della connessione è molto importante perché sta alla base di molti istituti processuali, quindi molte delle nozioni sono nozioni base che non verranno riprese ma verranno solo richiamate. Es. litisconsorzio si può istaurare in presenza di connessioni per titolo ma non riprenderemo il significato di connessione per titolo di cui discuteremo oggi. Ci sono norme che si occupano di questa connessione? Si, sono molte e sono riconducibili ad alcuni blocchi. Il blocco che riguarda da ARTT. 102-107 escludendo art 104(= che si occupa di cumolo ma meramente oggettivo e non anche soggettivo). Questo blocco riguarda la pluralità di parti, cioè quelle norme che considerano la connessione come presupposto della possibilità o della necessità di realizzare litisconsorzio, cioè il processo con più parti. Il blocco che riguarda da ARTT. 31-36 + ART. 40, i quali invece prevedono regole speciali in punto di competenza e di rito, quali effetti della connessione. La connessione provoca effetti particolari sulla disciplina ordinaria delle controversie in ordine della competenza e del rito applicabile. Il legislatore si occupa della connessione in queste disposizioni che hanno tutte una caratteristica comune cioè sono tutte norme che dicono “la connessione è possibile causa o titolo di un cumolo di cause, cioè l’effetto tipico della connessione è di consentire la realizzazione del simultaneo processo, cioè quella figura che rivede unite più cause che vengono decise congiuntamente”. Il legislatore in queste norme prende in considerazione la connessione per prevedere la possibilità per le parti di realizzare un cumolo processuale, cioè di realizzare il processo simultaneo in forza del quale le cause simultaneamente sono trattate in un procedimento unico. Il processo simultaneo o cumolo che può avere oltre a questo fenomeno di pluralità oggettiva (= più cause riunite), può determinare anche un fenomeno di pluralità anche soggettiva cioè non solo il processo simultaneo riguarda più cause ma è anche più parti. Qui si apre la prospettiva del litisconsorzio da art 102 a 107 che ci dicono che quando ci sono fenomeni di connessione, l’ordinamento consente la realizzazione di un processo che vede coinvolte più parti (litisconsorzio) e che ha tendenzialmente ad oggetto più cause.  Quindi abbiamo un cumolo che è sia soggettivo che oggettivo. Invece gli articoli da art 31 a 36 e 40 ipotizzano sempre un fenomeno di cumolo (l’effetto sempre lo stesso cioè consentire la realizzazione del cumolo processuale) però è un cumolo che va a determinarsi tra gli stessi soggetti e quindi abbiamo un processo che vede le stesse parti ma che ha ad oggetto più cause.  Quindi abbiamo solo un cumolo oggettivo. RECAP: Abbiamo due temi da sottolineare: La connessione è presa in considerazione da più norme del codice di rito e queste norme la prendono in considerazione, quindi individuano come effetto della connessione la possibilità di realizzare il processo simultaneo o, detto diversamente, il cumolo delle cause, che è oggettivo e tal volta anche soggettivo. Cosa vuol dire che vi è tra due cause/ diritti una relazione di connessione? I diritti non sono uguali, se fossero tali vi sarebbe una connessione di identità ma che presentano degli elementi di contatto, sono connessi perché presentano uno o più elementi di contatto. Se noi ricordiamo quello che 82 abbiamo detto circa i criteri per identificare i diritti e le cause, allora possiamo dire che la connessione può riguardare i SOGGETTI delle cause o anche gli OGGETTI delle cause o ENTRAMBI gli elementi. Quindi i diritti e le cause possono essere connessi: ➢ A LIVELLO SOGGETTIVO: la connessione può essere meramente soggettiva = le cause hanno in comune solo i soggetti e non hanno alcun criterio di collegamento oggettivo, cioè gli oggetti non sono collegati né a livello di oggetto come cosa e neanche oggetto come titolo delle domande. Se la connessione è solo soggettiva il collegamento è solo soggettivo. ➢ A LIVELLO OGGETTIVO: Ci sono poi forme di connessione oggettiva che sono numerose, però alla fine vuol dire che dal punto di vista dell’oggetto, le cause hanno qualcosa in comune e quel “qualcosa” può essere la cosa oggetto del diritto, titolo dei diritti e delle cause o altri elementi come questioni da risolvere. È un collegamento oggettivo che riguarda l’oggetto dei diritti. ➢ PER ENTRAMBI: Il collegamento soggettivo e oggettivo cioè le cause corrono dagli stessi soggetti ed hanno alcuni degli elementi soggettivi comuni. È chiaro che non devono essere tutti uguali, perché se sono tutti uguali non c’è connessione ma identità. LE VARIE FORME DI CONNESSIONE: 1. LA CONNESSIONE MERAMENTE SOGGETTIVA le cause non hanno alcun elemento di connessione oggettiva, il solo loro elemento di contatto è che i diritti e le cause sono i medesimi soggetti. Quando c’è un collegamento così debole (solo i soggetti) qual è l’utilità del diritto processuale di occuparsi di questo fenomeno? Il diritto processuale se ne occupa poco di questo fenomeno perché la sola norma che prevede qualche rinvio alla connessione meramente soggettiva è ART. 104 che ci dice che due cause, anche non altrimenti connesse tra i medesimi soggetti, possono essere separate (= detto dal 103 che viene richiamato dal 104) e poi ci dà una regola in punto di competenza. La connessione meramente soggettiva, art 104 dice: “Contro la stessa parte possono proporsi nel medesimo processo più domande anche non altrimenti connesse, purché sia osservata la norma dell'articolo 10 secondo comma. È applicabile la disposizione del secondo comma dell'articolo precedente”. l’art. 103 è quella disposizione che consente la separazione del cumolo in corso di causa per motivi di economia processuale. L’art 10 secondo comma dice “le domande proposte nello stesso processo contro la medesima persona si sommano tra loro”. Se l’attore agisce chiedendo A e B, ai fini del valore si fa la sommatoria. La connessione meramente soggettiva consente comunque la realizzazione del processo simultaneo, lo dice art.104 primo comma. È un cumolo iniziale, possono essere proposte più domande nel medesimo processo cioè l’attore fa valere più pretese contro il convenuto. Quanto alla disciplina, poco c’è da dire, perché il legislatore dice che queste cause possono essere scisse in corso di causa per motivi di economia processuale e si dice anche che ai fini della competenza si fa la sommatoria delle due cause. Perché questa disciplina è così scarna? Perché le cause non presentono collegamento oggettivo ma solo soggettivo, quindi non c’è elemento di coordinamento tra le cause. È solo per ragione di economia processuale, che il legislatore dà la possibilità di farlo insieme. Es. io devo avere 100 per contratto di mutuo, e 100 per contratto di locazione = io posso unire in unico processo facendo valere la pretesa di mutuo e di locazione, ma non c’è collegamento oggettivo che giustifichi e quindi il legislatore me lo fa fare ma dà delle indicazioni. In primis, se ci sono esigenze di semplificazione processuale e economia processuale il giudice può dividere il cumolo. Poi non ci dà nessuna regola speciale per favorire il cumolo, cosa che accade invece per le altre figure di cumolo. Questa connessione meramente soggettiva è il più debole dei collegamenti tra controversie e per diritti, e per questo motivo la risposta dell’ordinamento processuale è altrettanto debole. L’eventuale trattazione congiunta ha come unico effetto e scopo di economia processuale, cioè di tenere insieme due cause. 85 diritto al risarcimento del danno di uno può esistere con il non diritto dell’altro. Es. incidente stradale. Quindi le connessioni sono definite deboli perché sul piano sostanziale i diritti hanno discipline autonome e indipendenti, non vi è necessità di coordinamento tra discipline e non vi è interferenza tra disciplina dell’una e dell’altra. LE CONSEGUENZE: se le due cause sono proposte separatamente, l’esito di queste cause sarà indipendente l’una o l’altra. Un giudice può dire che la clausola è abusiva e l’atro no. Le discipline sono autonome e quindi le decisioni finali rese in esito a cause, processi introdotti separatamente sono scoordinate e indipendenti. Però il legislatore dice che non è bello che si dica che per uno una clausola è valida e per l’altro no, per responsabilità dell’illecito è causa di uno e dell’altro no e quindi dà alle parti la possibilità di realizzare cumolo processuale, processo simultaneo che, però è il solo mezzo per realizzare il coordinamento perché o il coordinamento si recupera con il simultaneo processo o non si recupera più perché i rapporti sono autonomi e anche perché il giudicato non si forma sulle questioni risolte dal giudice. Non potrò dire al secondo giudice che il suo collega ha detto che il soggetto B convenuto è responsabile, perché starà al giudice stesso decidere dato che non c’è effetto di giudicato a monte. A cosa serve il processo simultaneo? Serve a fare in modo che nelle parti comuni, per le questioni comuni, si abbia una soluzione unica cioè quindi che il giudice decida l’elemento comune nello stesso modo. La funzione del processo simultaneo non è solo di economia processuale (come nel caso di connessione meramente soggettiva) ma una funzione in più cioè di far sì che le cause siano trattate congiuntamente e che il giudice decida allo stesso modo la decisione comune. La funzione del cumolo è di ottenere decisioni che dipendono dalla risoluzione uguale della stessa situazioni di fatto, di diritto. Questa è la funzione del cumolo, però l’ordinamento dice che se non ci sono problemi, dà questa possibilità di far stare tutto assieme ma non è che ci “mette delle sue energie” per ottenere questo risultato, allora le deroghe alle regole ordinarie sono ridotte perché l’ordinamento dice se ci riusciamo bene sennò pazienza. È ammessa la scissione del cumolo, la separazione delle cause per motivi di semplificazione e di economia processuale art. 103 comma 2. Il cumolo in questi casi è scindibile, cioè in corso di causa, le cause si dividono e non sono ammesse deroghe al rito, cioè se vi sono riti diversi non è possibile farle stare insieme. Questo avviene per art. 40 comma 3 che non considera, tra i casi in cui ammette la deroga al rito, l’art 33 (= la norma che appunto richiama il 103, cioè i casi di connessione impropria e causali). Anche le deroghe alla competenza sono molto deboli perché all’ordinamento interessa il giusto di forzare la mano, non è ammessa la deroga a: - competenza per materia, - a competenza per valore - a competenza territoriale inderogabile. Vi è deroga soltanto ed esclusivamente alla competenza territoriale derogabile relativamente ai fori generali perché l’art 33, che si occupa delle deroghe alla competenza, richiama l’art. 103 e facendo ciò dice che unica deroga è questa. Es. se l’attore agisce contro due convenuti sulla base di cause connesse e uno vive a Napoli e l’altro a Milano, i fori generali sono derogabili e quindi l’attore può realizzare il cumolo o a Napoli o a Milano. Oltre questo non si fa. Vi sono poi le CONNESSIONI FORTI: - Connessione oggettiva per PREGIUDIZIALITA’/DIPENDENZA; - Connessione oggettiva con RELAZIONE DI INCOMPATIBILITA’ o ALTERNATIVITA’. LA CONNESSIONE OGGETTIVA PER PREGIUDIZIALITA’ /DIPENDENZA Non solo i diritti riguardano il medesimo oggetto ma sono legati da un nesso tale per cui un diritto è un fatto costitutivo dell’altro. Un diritto, quello diritto/fatto costitutivo si chiama “diritto pregiudiziale”, quello che dipende dall’altro “diritto dipendente”. 86 Questa connessione è la più importante delle connessioni. Questa connessione può essere anche oggettiva cioè riguardare lo stesso oggetto laddove si intende tale. Es. l’obbligo alimentare dipende dallo status di parentela, il rapporto pregiudiziale è lo status di parentela mentre il rapporto dipendente è l’obbligo alimentare. Qui la connessione non è oggettiva perché gli oggetti sono diversi ma è una connessione pregiudizialità dipendenza pura. Molto spesso però la pregiudizialità dipendenza è caratterizzata dal fatto che l’oggetto è lo stesso. es. obbligo del fideiussore e l’obbligazione principale, che è fatto costitutivo dell’obbligo di fideiussore però le obbligazioni hanno medesimo oggetto. Questo tipo di connessione è la figura più significativa e può essere tra gli stessi soggetti o con soggetti diversi. Negli esempi fatti sopra, l’obbligo alimentare e lo status di parentela riguardano gli stessi soggetti, mentre le obbligazioni del fideiussore e dell’obbligato principale implicano due soggetti differenti. Il cumolo è realizzabile sin dall’inizio (per il solito motivo dell’art. 104) quindi connessione tra le stesse parti può essere realizzato sin dall’inizio o in corso di causa o ai sensi di art. 34 cpc, perché nel processo dipendente una delle parti chiede l’accertamento, o domanda sul rapporto pregiudiziale. La pregiudizialità dipendenza tra le stesse parti è ammesso il cumolo che si può realizzare: - dall’inizio, art. 104 - in corso di causa perché una parte chiede e fa domanda di accertamento incidentale sul rapporto pregiudiziale all’interno del giudizio, art. 34 - riunione, art. 40 Se i soggetti sono diversi, l’ordinamento consente il cumolo che si può realizzare dall’inizio art. 103, in corso di causa attraverso l’intervento volontario di una delle parti art. 105 comma 1, può intervenire per volontà di parte art. 106 e nei limiti anche in forza di art. 107 cioè per ordine del giudice, ed anche in questo caso è ammessa la riunione in corso di causa, art. 40. LA CONNESSIONE PER IDENTITA’ DI OGGETTO CON RELAZIONE DI INCOMPATIBILITA’ La seconda figura di connessione forte è la connessione per identità dell’oggetto ma con relazione di incompatibilità. I due diritti vertono sul medesimo oggetto ma sono incompatibili e quindi non è possibile cogliere entrambi le domande perché l’accoglimento di una, implica l’automatico rigetto dell’altra. La relazione può essere tra i medesimi soggetti, ex. io chiedo in via principale il riconoscimento che sono proprietario del bene e in via subordinata o alternativa che sono usufruttuario. I due riti che faccio valere riguardano lo stesso oggetti ma i diritti o uno o l’altro. È un caso di INCOMPATIBILITA’. Ma i diritti o obblighi possono essere anche tra soggetti diversi ma quando vi sono i diritti parliamo di incompatibilità, quando vi sono obblighi di ALTERNATIVITA’. Ex.1 l’attore dice che vuole il riconoscimento della servitù verso il fondo di B ma se tu ritieni che non sia fondata la pretesa, allora la voglio nei confronti di C. è una situazione di obblighi alternativi, o costituisci la servitù su B o su C, non su entrambi. Ex.2 Un soggetto dice che è creditore verso B però B dice che il credito lo hai ceduto a C e C dice che il credito è suo, in questo caso lo stesso credito o è di A o è di C. se il contratto di cessione è valido è del cessionario, se il contratto è nullo, come dice il cedente, è del cedente. Qui ho diritti incompatibili o alternativi perché o c’è l’uno o l’altro e non entrambi, riguardando lo stesso oggetto. Anche per incompatibilità, il ventaglio di opportunità per realizzare il processo simultaneo è ampio cioè lo si può realizzare tra le stesse parti sin dall’inizio (art. 104), per riunione (art. 40) oppure per domande riconvenzionali (art. 36). Invece tra parti diverse art. 103 comma 1, 105 comma 1, 106, 107 e 40. Perché le chiamo connessioni forti? Perché le discipline sostanziali dei rapporti sono o vicendevolmente o unilateralmente interferenti e non indipendenti. Il diritto sostanziale richiede un coordinamento tra le discipline giuridiche perché i rapporti hanno discipline tali che si condizionano vicendevolmente. 87 Per il diritto sostanziale se non c’è obbligo garantito, non vi può essere obbligo del fideiussore, ma, se esiste invece obbligo garantito, esiste obbligo del fideiussore. Sarebbe bizzarro dire in una causa che il fideiussore è obbligato ad adempiere perché l’obbligazione principale esiste e in altra si dicesse che l’obbligazione principale non esiste, e quindi il debitore principale non è condannato ad adempiere. Oppure dire in una causa che il creditore è C, perché il contratto di cessione è nullo, e in altra che il creditore è A perché la cessione è valida. Se io consentissi lo svolgimento di processi separati avrei il rischio di decisioni non omogenei mentre per il diritto sostanziale devono essere coordinate, omogenee. Le posso far andare separate queste cause? SI, non c’è litisconsorzio necessario né cumolo necessario. Non è come la litispendenza, perché gli eventuali giudicati contrastanti non sono in un conflitto pratico, cioè inconciliabili, ma sono in un conflitto teorico o logico. - CONFLITTO PRATICO = quando le decisioni non possono essere contestualmente eseguite - CONFLITTO TEORICO E LOGICO = c’è sì un contrasto tra gli esiti decisori che urta con il diritto sostanziale, ma questo contrasto non impedisce che alla sentenza venga data esecuzione. Dal punto di vista operativo, anche se poi non è giusto moralmente, B può pagare sia a C che ad A. In questi casi i processi separati comportano rischio di accertamenti disomogenei e contrastanti ma comunque attuabili in quanto tali (attuabili) non c’è conflitto pratico, ma c’è conflitto teorico in quanto disallineati con le regole di diritto sostanziale. La RISPOSTA DEL PROCESSO è: non posso costringervi a trattare tutto assieme, lo posso fare solo se c’è litispendenza, non posso imporvi di realizzarla e quindi il cumolo è sempre meramente eventuale cioè dipende dalla volontà delle parti e anche del giudice (si applica qui art. 107) però l’ordinamento dice, fatta questa premessa, faccio di tutto per darvi la possibilità di realizzare il cumolo e evitare decisioni contrastanti. Il cumolo mi fa superare il problema perché quando le cause saranno decise, il giudice, nel decidere una causa, terrà conto di cosa ha detto rispetto all’altra. Quindi l’ordinamento consente con molte possibilità di realizzare il cumolo. L’ordinamento mi dice anche che, per realizzare quel risultato, mi sta dando delle regole speciali per evitare che eventuali diversità di regole sulla competenza e di regole sul rito impediscano di fare le cause congiuntamente. Quindi dà delle regole speciali, modifiche alle regole ordinarie in materia di competenza e di rito. In questo modo, se noi leggiamo art. 34, art. 36, art.40 comma 6 e 7 che si occupano dei rapporti del giudice di pace e tribunale, ci accorgiamo che il legislatore dice che consento di realizzare il cumulo, o dall’inizio o in corso di causa derogando alle norme di criterio di competenza. La deroga è ammessa ampliamente (puoi derogare ad ogni criterio di competenza, per materia, per valore, etc.). E il cumolo lo puoi realizzare solo di fronte ad un unico giudice = per art 34 e art 40 comma 6 e 7, il giudice di grado superiore, cioè si va sempre dal tribunale, in deroga alle competenze per materia, per valore o per territorio, anche inderogabili. Inoltre, il legislatore dà la possibilità di derogare anche il rito perché dice che nei casi di connessioni forti, se le cause appartengono a due riti diversi, dice che puoi trattarle assieme con unico rito e dice lui quale rito abbiamo per tutte e due; quindi deroga al rito e deroga alla competenza (sempre dal giudice superiore). L’ordinamento ha uno strumento, il simultaneo processo per trarre questa cosa. Nel caso di connessione SEMPLICE E DEBOLE è il solo strumento che l’ordinamento conosce per realizzare il coordinamento delle decisioni/motivazioni. Se le parti non utilizzano questo strumento ciascuna ha il suo destino Nelle connessioni FORTI il discorso è diverso perché, se è vero che lo strumento principe rimane il simultaneo processo, è vero che l’ordinamento permette il coordinamento con: • Se si tratta di cause legate da un nesso di pregiudizialità pendenza, con la SOSPENSIONE (ex art. 295) della causa dipendente in attesa della decisione di quella principale. Es. la causa di alimenti è sospesa per vedere cosa capita sullo status di parentela. • Oppure attraverso l’EFFICACIA DEL GIUDICATO perché la decisione sulla causa pregiudiziale ha effetti anche sulla causa dipendente. Se già c’è un provvedimento passato in giudicato che ha detto 90 qualitativamente collegata funzionalmente alla principale, c’è un nesso di accessorietà, quasi di consequenzialità tra le cause, ad es. interessi e capitale: il diritto agli interessi è diverso da quello al capitale, ma è dipendente, perché c’è il diritto agli interessi solo se c’è diritto al capitale. Quindi la causa accessoria va davanti al giudice della causa principale. Continua la norma: “… negli altri casi davanti a quello preventivamente adito.” Qui le cause nascono separate, non sono una nel seno dell’altra come nell’art. 34. Quindi la norma sembra accogliere il PRINCIPIO DELLA PREVENZIONE, il giudice adito per primo ha forza attraente, a prescindere da rapporti gerarchici o di competenza tra i giudici; questo significherebbe che se è proposta una causa davanti al giudice di pace e una davanti al tribunale, ed è adito per primo il giudice di pace, quest’ultimo attrae il tribunale. Però vi sono anche il 6° e 7° c. con i quali bisogna fare i conti. Questi commi dicono (6) “Se una causa di competenza del giudice di pace sia connessa per i motivi di cui agli articoli 31, 32, 34, 35 e 36 con altra causa di competenza del tribunale, le relative domande possono essere proposte innanzi al tribunale affinché siano decise nello stesso processo” e (7) “Se le cause connesse ai sensi del sesto comma sono proposte davanti al giudice di pace e al tribunale, il giudice di pace deve pronunziare anche d'ufficio la connessione a favore del tribunale.” Tecnica → qui non richiama tutte le norme sulla connessione, ma le richiama tutte eccetto l’art. 33 (norma che congiuntamente all’art. 103 fa riferimento alla connessione impropria e alla connessione causale o alla connessione oggettiva semplice); quindi il legislatore, non richiamando il 33, ci dice che questa disciplina che lui prevede, vale solo per i casi di connessione forte, dato che richiama solo norme di connessione forte. Questa norma però entra in contraddizione evidente con il 40 perché in primis la regola si applica anche per le cause accessorie (quindi salta il criterio principale-accessoria nei rapporti giudice di pace-tribunale) e poi mette in crisi il principio della prevenzione, perché le regole su cui si fonda il 40 sono incompatibili con le regole del 6° e 7° c. (abbandonano criterio prevenzione, derogano principale/accessoria) che dicono che ciò che rileva è il giudice superiore = si va sempre davanti al tribunale, ritenendolo idoneo a trattare tutto congiuntamente. Allora nei casi di COMPETENZE VERTICALI (rapporti tra giudice superiore e giudice inferiore) vince sempre il tribunale, perciò 6° e 7° c. superano in parte ciò che prevede l’art. 40. Allora a cosa serve il 40? Per dare un senso al 40 c.1 bisogna dire che questa norma, il comma 1 opera solo nei casi di competenza territoriale, cioè COMPETENZE ORIZZONTALI (es. tribunale-tribunale). È tentativo ricostruttivo che nasce dal volere mettere insieme norme che nascono in momenti diversi e non sincroniche.  Partendo da questo elemento, si può dire che tutte le volte in cui siamo in presenza di cause pendenti davanti a giudici diversi, di competenze diverse di tipo verticale, leggendo i c. 6 e 7 art. 40 la prevalenza va al giudice di grado superiore; quindi, il tribunale attrae sempre la causa del giudice di pace, non solo quando la competenza del giudice di pace è per valore, ma anche quando è per materia. Quando invece c’è solo problema di competenza territoriale, vale il criterio della prevenzione; quindi, l’attrazione è determinata dal tribunale adito per primo o dal giudice di pace adito per primo. Ex. siamo tra giudice di pace di Lucca e Livorno, oppure tra tribunali di Lucca e Livorno. Occorre aggiungere che l’eccezione di connessione è rilevabile anche d’ufficio (forma di ordinanza con cui il giudice adito per secondo dichiara che c’è connessione) e la causa connessa deve essere assunta entro il termine perentorio indicato dal giudice davanti alla causa principale attraente. Il vecchio testo dell’art. 40 ha anche un secondo comma, che rimane attuale. Il 2°c. pone limite alla riunione per connessione perché dice “la rimessione non può essere ordinata quando lo stato della causa principale o preventivamente proposta non consente l’esauriente trattazione e decisione delle cause connesse.” Il legislatore valorizza il principio di celerità del giudizio e di economia processuale: se per riunire si complicano le cose, allora la riunione non può essere disposta. Il complicare le cose è dato dal fatto che la causa attraente è in uno stato talmente avanzato che, a causa della sua riunione con quella attratta, la causa attraente sarebbe inevitabilmente rallentata. 91 Il 3°, 4° e 5° c. si occupano della riunione (e in generale della possibilità di realizzare il simultaneo processo) quando vi sono DIFFERENZE DI RITO: ipotesi considerata è quella che le due cause siano soggette a riti differenti. Nel nostro ordinamento vige il principio della sovranità dei riti: non c’è un solo rito per trattare le controverse dichiarative, ma più riti, ad es. accanto al rito ordinario la riforma Cartabia ha inserito il processo semplificato; poi c’è il rito del lavoro, il rito per le controversie previdenziali (molto simile a quello del lavoro), il rito per le controversie in materia di locazioni; poi ci sono i riti di carattere camerale e sommario, che valgono nelle ipotesi in cui si vuole accelerare la funzione giurisdizionale, come famiglia e stato delle persone. Vi sono due cause connesse: una introdotta/da introdurre con il rito ordinario, l’altra introdotta/da introdurre con il rito del lavoro; è evidente che non si può trattarle congiuntamente con riti diversi, le regole di trattazione devono essere omogenee. Questa è l’unica cosa sicura.  Quindi o non si ammette il cumulo oppure si stabilisce un rito e questo si applica a tutte. Il legislatore adotta entrambe le soluzioni nel nostro ordinamento, perché il 3°c. dell’art. 40 ammette sì la trattazione congiunta in un unico processo di cause connesse soggette a riti diversi, ma solo nei casi degli artt. 31, 32, 34, 35, 36: ancora una volta non richiama art. 33!! Quindi la SOLUZIONE è: non ti faccio fare la trattazione simultanea ogni volta che le cause presentano forme di connessione debole, o perché sono soltanto soggettivamente connesse, o perché connesse per identità del titolo, o per identità delle questioni da risolvere, o perché connesse per l’oggetto, ma con relazione di compatibilità; in questi casi le cause non possono essere riunite, ciascuna va da sé. Quando tra le cause c’è un nesso di ACCESSORIETA’ (art.31), DIPENDENZA (artt.32, 34), di INCOMPATIBILITA’ (artt. 35,36) = connessioni forti, il rito è derogabile per ragioni di connessione. Il problema è stabilire qual è il rito che prevale, cioè quello attraente. Inoltre c’è la novità del RITO SEMPLIFICATO che va a complicare il quadro. COMMA 3: “Nei casi previsti negli art. 31, 32, 34, 35 e 36, le cause, cumulativamente proposte o successivamente riunite, debbono essere trattate e decise col rito ordinario, salva l'applicazione del solo rito speciale quando una di tali cause rientri fra quelle indicate negli articoli 409 e 442. In caso di connessione ai sensi degli articoli 31, 32, 34, 35 e 36 tra causa sottoposta al rito semplificato di cognizione e causa sottoposta a rito speciale diverso da quello previsto dal primo periodo, le cause debbono essere trattate e decise con il rito semplificato di cognizione”. Si dice il rito speciale (che poi è quello del lavoro) solo quando rientra nelle fattispecie del 409 e del 442. Questo vuol dire che il rito del lavoro è previsto per le controversie di lavoro (art.409) e per le controversie di previdenza e assistenza obbligatoria (art.442), ma si applica in molti altri casi diversi da questi due artt. Ad es. per le controversie di locazione. Quindi la legge diversifica rito del lavoro in senso stretto (409 e 442) e rito del lavoro al di fuori del senso stretto (ex. controversie locatizie).  Tra rito ordinario e tutti i riti speciali prevale il rito ordinario, con la sola eccezione delle controversie di lavoro in senso stretto, cioè nei casi del 409 e 442. In questi casi il rito del lavoro prevale su quello ordinario. Il 2° inciso, inserito dalla riforma Cartabia, si occupa dei rapporti tra il rito semplificato e i riti speciali; dice che il rito semplificato prevale su tutti i riti speciali con la sola eccezione del rito del lavoro per le controversie del 409 e 442. DISCORSO GENERALE: Quindi il rito ordinario prevale su tutti i riti speciali, compreso il rito semplificato; il rito semplificato prevale su tutti i riti speciali diversi dalle cause del 409 e 442; il rito delle cause del 409 e 442 prevale sia sul rito semplificato, sia sul rito ordinario. Il legislatore si occupa fino ad ora del rapporto tra riti ordinari e riti speciali, il rito semplificato lo ha inserito dentro la riforma Cartabia. Questo è l’assetto. Il 4°c. si occupa del CONFLITTO TRA PIU’ RITI SPECIALI diversi da quelli esaminati prima, quindi sia dal rito semplificato che dal rito del lavoro del 409 e del 442 (che, prevalendo sia sull’ordinario sia sul 92 semplificato, allora prevale anche sugli altri speciali per proprietà transitiva). Quindi questa norma si occupa di un conflitto tra più riti speciali, che non né quello semplificato né quello del lavoro. Criterio di prevalenza in questo caso è che prevale il rito della causa attraente, per ragioni di competenza, e in difetto il rito della causa di maggior valore. Il legislatore prende in considerazione due ipotesi: ipotesi che la connessione abbia provocato prima che un intervento sul rito, un intervento sulla competenza, ad es. causa y è del giudice di pace e causa x è del tribunale = in questo caso la causa attraente in punto di competenza attrae anche in punto di rito, quindi nell’es. x attrae y e si applica il rito del tribunale. È possibile però che non ci sia differenza di competenza (es. entrambe davanti allo stesso tribunale/allo stesso giudice di pace), in tal caso prevale il rito della causa di maggior valore, quindi se il valore di una è 100mila € e l’altra di 500mila €, prevale il rito della prima; questa è però un’ipotesi residuale. SEPARAZIONE Le cause devono essere congiunte (inizialmente o in corso di causa) quindi c’è un cumulo processuale, il problema è se il cumolo è scindibile: se può il giudice separare le due cause. Le norme di riferimento sono art. 103 c.2 e art. 104 c.2 (che richiama 103 c.2). La separazione è ammessa in presenza di certe condizioni. È ammessa sia D’UFFICIO che su ISTANZA DI PARTE; se tutte le parti fanno richiesta di separazione oppure se la continuazione della riunione ritarderebbe o renderebbe più gravoso il processo. Questa norma è molto simile al 40 comma 2 = le cause si fanno stare insieme nei limiti in cui la riunione non sia fonte di complicazione; allo stesso modo qui, tutte le volte in cui le cause riunite si stanno sviluppando in maniera tale che la continuazione del cumulo complicherebbe o renderebbe più gravoso il processo, allora il giudice anche d’ufficio può disporre la separazione, quindi anche qui alla base ci sono esigenze di semplificazione, economia processuale e celerità del giudizio. Norma speculare all’art. 40 c.2. Questa figura di cui stiamo parlando è la SEPARAZIONE PER MOTIVI DI ECONOMIA PROCESSUALE. Questa figura è sempre ammessa oppure no? Questa figura è prevista riguardo alla connessione soltanto soggettiva (art.104 c.2) e nell’art. 103 in cui si fa riferimento alle connessioni deboli; quindi la risposta è che questo istituto non ha applicazione generalizzata. La separazione opera solo o in presenza della connessione meramente soggettiva o di connessioni deboli, non anche in presenza di connessioni forti, perché nelle connessioni deboli non c’è esigenza di coordinamento delle decisioni nella loro parte dispositiva precettiva, quindi è ragionevole che se, il processo cumulato rallenta le cause, si sacrifica quel minimo collegamento che riguarda le motivazioni, o il fatto o la questione di diritto. Invece nelle connessioni forti il cumulo ha una funzione più importante, di evitare decisioni in conflitto logico di giudicati (= decisioni che danno risultati non coerenti o incompatibili) perciò qui non si può fare la scissione, perché il valore dell’uniformità dei giudizi e delle decisioni prevale sul valore dell’economia processuale. LA DOMANDA GIUDIZIALE Atto con cui è esercitato il diritto d’azione e dal quale prende avvio il processo. È la messa in moto della macchina giurisdizionale, senza iniziativa con domanda il processo non parte. Inoltre, la domanda deve anche individuare il diritto sostanziale per cui è chiesta tutela (e sul quale si svilupperà il procedimento e verrà emessa la sentenza finale di merito e si formerà il giudicato) e il rimedio che la parte richiede. Il processo ha un petitum sostanziale ed un petitum processuale che sono quelli determinati dalla domanda di parte. Ex. è l’attore che dice che vanta un diritto di proprietà (petitum sostanziale) e che vuole essere riconosciuto come titolare della proprietà. La domanda non solo è un atto necessario perché apre il processo, ma ha anche una funzione fondamentale perché identifica l’oggetto del processo (rilevante per molti istituti). Il nostro ordinamento è informato al PRINCIPIO DELLA DOMANDA, art. 99 cpc; il pendant del 99 è l’art. 112 principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato. Queste due norme esprimono lo stesso concetto, l’una guardando dal lato di chi agisce in giudizio (99), l’altra dal lato del giudice (112). ART. 99: “Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve proporre domanda al giudice competente”. Il principio è chiarissimo: solo la domanda di parte è il mezzo per avviare il processo e per ottenere tutela per un diritto soggettivo, in assenza di domanda di parte non ci può essere esercizio di giurisdizione. 95 I due effetti più importanti della domanda giudiziale sono l’effetto sulla prescrizione e l’effetto sulla decadenza. Cominciamo dagli effetti che si ricollegano alla domanda giudiziale. Qui la domanda viene in considerazione non tanto come atto giudiziale introduttivo del processo, ma come atto di esercizio di un diritto, come manifestazione di volontà di esercitare un diritto; per cui, sempre che la domanda sia manifestazione di esercizio di un diritto, l’effetto si realizza anche se processualmente la domanda è invalida o se il processo non arriva alla sentenza di merito. Il più importante di questi effetti è dato dalla interruzione della prescrizione, previsto dall’art. 2943 cc: “La prescrizione è interrotta dalla notificazione dell'atto con il quale si inizia un giudizio, sia questo di cognizione ovvero conservativo o esecutivo. È pure interrotta dalla domanda proposta nel corso di un giudizio. L'interruzione si verifica anche se il giudice adito è incompetente. La prescrizione è inoltre interrotta da ogni altro atto che valga a costituire in mora il debitore…”. Quindi qualunque atto con cui è introdotto un giudizio, è richiesta tutela per un diritto (cognitivo, di esecuzione, anche un provvedimento cautelare), ha effetto di interrompere la prescrizione = EFFETTO INTERRUTTIVO DELLA PRESCRZIONE che consiste in ciò che prevede l’art. 2945 c.1: per effetto dell’interruzione si inizia un nuovo periodo di prescrizione; la prescrizione quindi ricomincia a decorrere dal momento in cui è compiuto l’atto. Anche se compio l’atto nell’ultimo giorno possibile, io ho il termine pieno di prescrizione, cioè ricomincia da zero. Come si intuisce leggendo il 2943 l’effetto interruttivo è dato da ogni atto con cui si costituisce in mora il debitore, con cui si manifesta la volontà di esercitare il giudizio, sia esso stragiudiziale, sia esso giudiziale. Ciò che rileva è l’atto di manifestazione del diritto, la domanda giudiziale è apprezzata nel suo elemento contenutistico di atto di esercizio del diritto, nella misura in cui è possibile, perché se l’attore non identificasse il diritto, l’effetto interruttivo non si produrrebbe; è quindi necessario che la domanda abbia i requisiti minimi per identificare il diritto esercitato, tutto il resto è irrilevante. Però c’è un problema ulteriore, infatti la prescrizione riinizia a decorrere (ex. in tema di contratto di trasporto la prescrizione è di un anno), ma se durante la durata del processo corre, alla sentenza è prescritto il diritto; perciò la legge prevede anche l’effetto sospensivo della prescrizione. Si accompagna solo alla domanda giudiziale, non è prodotto da altri atti stragiudiziali, poiché il legislatore deve sterilizzare il tempo di durata del processo ai fini della prescrizione. Art. 2945 c.2: “Se l'interruzione è avvenuta mediante uno degli atti indicati dai primi due commi dell'articolo 2943 (cioè un atto giudiziale), la prescrizione non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio”. Quindi l’effetto sospensivo opera sulla prescrizione dal momento della notificazione della domanda per tutta la litispendenza, quindi fino alla fine del processo con sentenza passata in giudicato. Se il processo si estingue, sono rilevanti esiti diversi dalla sentenza di merito? il c.3 prevede: “Se il processo si estingue, rimane fermo l'effetto interruttivo e il nuovo periodo di prescrizione comincia dalla data dell'atto interruttivo”, cioè l’effetto interruttivo rimane, perché era collegato all’atto di volontà di parte, ma l’effetto sospensivo viene meno; quindi se durante la durata del processo il diritto si estingue e ricade sull’attore, a causa dell’estinzione si perde il diritto. Se si chiude con sentenza di rito l’effetto interruttivo rimane, ma la durata del processo su chi ricade? In questo caso non c’è la norma, la giurisprudenza ritiene che se il processo si chiude con sentenza di rito è comunque fatto salvo anche l’effetto sospensivo, quindi la nuova prescrizione comincia dal momento in cui è emessa la sentenza di rito, perché la giurisprudenza dice che il c.3 è norma eccezionale e parla solo di estinzione, quindi non si può allargarla a casi diversi; inoltre vuole proteggere la parte che ha sbagliato processualmente, che potrebbe avere ragione sul diritto sostanziale: non vuole che l’errore sul rito pregiudichi il diritto sostanziale sottostante; quindi in caso di sentenza di rigetto l’effetto sospensivo rimane. 96 26-10-2023 Lezione sostitutiva con il prof. Davide Amadei Nel nostro ordinamento, come in altri, ci sono delle azioni un po’ particolari che sono dedicate alla tutela di cd INTERESSI COLLETTIVI o DIRITTI INDIVIDUALI OMOGENI. Cosa si intende? Si tratta di esigenze che sono emerse nel corso della storia nel momento in cui si è molto sviluppato il mercato in particolare. Da noi soprattutto con il boom economico degli anni 60/70 si è posto il problema di andare a tutelare delle categorie deboli del rapporto contrattuale, ci si riferisce in particolare al lavoratore subordinato e al consumatore, di cui stiamo sempre più parlando da ormai 60 anni a questa parte. Il consumatore è un soggetto che agisce sul mercato per scopi estranei alla propria attività. A fronte di questo soggetto sta invece un imprenditore normalmente o un professionista, ex. una banca, una compagnia di assicurazione, etc. soggetto forte sul mercato perché è in grado di imporre condizioni di contratto anche sbilanciate a sfavore della parte debole. Ecco che si è preso atto negli anni ‘60 del secolo scorso della necessità di tutelare anche collettivamente questi interessi, perché questi interessi non sono mai di un singolo individuo; il singolo consumatore ha la sua tutela sul piano individuale, tutela che è stata negli anni approfondita, soprattutto sulla spinta di molte direttive della comunità europea, in particolare la direttiva 13 del 1993 sulle clausole abusive nei contratti con i consumatori: certe cause sono nulle se creano un eccesivo squilibrio a sfavore dei consumatori. Tante volte nei contratti di apertura di conto corrente nella banca ci sono clausole che generano vantaggi unilaterali per la banca, allora il consumatore sul piano individuale ha il diritto di far impugnare quel contratto per far dichiarare la nullità di quella clausola vessatoria. Ma molti possono avere la stessa esigenza. Allora ci potrebbe essere anche il singolo che non ha nessuna intenzione di andare dall’avvocato e di fare una causa contro un bis dell’economica (banca) con il rischio di perderla per pochi soldi. Molto spesso queste clausole comportano un pregiudizio per il singolo consumatore di scarso valore. Allora il singolo non è indotto ad agire → il suo diritto di azione, seppur tutelato costituzionalmente, non trova applicazione pratica. Magari altre 100mila persone sono nella stessa situazione, perché hanno stipulato con quella banca un contratto di apertura di conto corrente con quella clausola abusiva. Subentra un PROBLEMA che deriva dall’applicazione delle normali regole del codice civile. Abbiamo studiato la litisconsorzio tra soggetti nei confronti di un solo convenuto: possono agire gli 100mila consumatori contro quella banca, ma l’aggravamento, anche in termini di economia processuale, è enorme e intollerabile. Allora si cerca di trovare soluzione alla necessità di meccanismi per tutelare in modo aggregato e collettivo gli interessi di una moltitudini di soggetti. Gli INTERESSI DIFFUSI sono di un gruppo, che può essere qualificato in astratto, ma ancora sono interessi che non permetto di individuare precisamente chi sono i soggetti lesi → in questo caso è bene individuare, da parte dell’ordinamento, una tutela preventiva, il termine corretto è inibitoria, volta a far cessare la condotta illecita. Si vuole evitare che nel futuro quell’imprenditore proponga quella clausola illecita ad altri consumatori. Però poi ci sono anche invece gruppi di soggetti ben identificabili e già titolari di diritto di credito alla restituzione di somme, al risarcimento dei danni etc. Ex. DIESEL GATE (unico vero caso in Italia): la Volkswagen e l’Audi hanno venduto per un certo periodo di tempo vetture diesel che non avevano superato certi standard ma la Volkswagen aveva modificato i risultati per cui i motori diesel erano fasulli. In questo modo aveva anche ingannato i consumatori. Il tribunale di Venezia è arrivato a condannare la Volkswagen a risarcire 25mila danneggiati, tutti soggetti che avevano acquistato autovetture con quel problema = tutti soggetti identificati ed identificabili che quindi erano titolari di un diritto omogeneo a quelli degli alti. Quindi erano una classe di individui, dove per CLASSE = raggruppamento di soggetti tutti accumunati dal fatto di aver visto sorgere un diritto da una fattispecie costitutiva comune, in questo caso l’acquisto dello stesso tipologia di autovettura compromessa. Spesso ci sono danni ambientali che creano danni ad una pluralità di persone. Se ci sono 200 famiglie residenti sul lago inquinato dall’impresa, questi sono tutti soggetti identificati dal fatto di essere residenti in quella zona. 97 Allora bisogna aggregare i soggetti che sono titolari di diritti diversi, perché evidentemente i danni sono diversi (ex. uno muore, uno sta male, uno perde un arto, etc.) ma vi è un elemento costitutivo in comune = vi è una fattispecie costitutiva di diritti pluri-offensiva. In questo caso, quando siamo di fronte a diritti individuali omogenei di una classe, si parla, con una terminologia nata negli USA, di AZIONE DI CLASSE. Allora la distinzione fondamentale è quella tra: • AZIONE DI CLASSE = è volta alla tutela di diritti individuali e omogenei di soggetti identificati e identificabili ed è volta alla tutela risarcitoria-restitutoria rispetto a questi diritti; • AZIONE COLLETTIVA = volta ad ottenere un provvedimento che sia un ordine di cessazione, inibitorio di una condotta illecita della controparte. Inibitoria significa condanna a non fare. AZIONE DI CLASSE: Il modello dell’azione di classe è quella della CLASS ACTION americana, che trova la sua regolamentazione nell’art. 23 del Federal Rules of Civil Procedure (codice di regole di procedura civile americana). Come si configura la class action? È un’azione data ad un singolo che agisce per sé e per tutti gli altri membri della classe che abbiamo una posizione simile, agisce il singolo titolare del diritto che viene fatto valere ed agisce per sé ma anche per conto di tutti coloro che sono in una posizione simile. Il giudice allora nelle prime fasi la deve classificare come azione di classe, deve dire che si può procedere come azione di classe; se il giudice non fa questo, dice che mancano i requisiti per svolgere l’azione come azione di classe, e diventa un’azione individuale. I requisiti sono 4: - Essere la classe così numerosa da rendere impossibile la contemporanea presenza in giudizio di tutti i suoi membri = esigenza che si pone in qualsiasi ordinamento. Requisito della numerosity. - Esistono questioni di fatto o di diritto comune all’intera classe, cd commonality. Ex. lo sversamento di rifiuti tossici da parte dell’azienda nel lago X; oppure immissione sul mercato di un medicinale che è dannoso per il sistema circolatorio (molto comune in USA): i milioni di acquirenti del farmaco sono danneggiati da quel farmaco. - Le difese proposte da chi agisce nell’interesse della classe devono essere quelle tipiche di una classe: cd typicality; - I componenti della classe che agiscono, o il solo che agisce, deve essere un rappresentante adeguato, deve essere cioè in grado di tutelare in modo adeguato gli interessi della parte. Deve essere uno che sa condurre il processo come processo di parte e ha le capacità, anche del suo avvocato ed anche finanziare di introdurre e portare avanti un’azione di classe. L’azione è un’azione che costa, perché se bisogna notificare tutte le parti, la notifica costa (una raccomandata per la notifica può costare anche 10 euro). Pensiamo anche al valore della controversia, oppure alla consulenza tecnica necessaria per verificare se c’è una causalità tra l’evento e i danni lamentati da questi soggetti. Se occorre anticipare questi soldi vuol dire che l’attore rappresentativo deve avere anche le capacità finanziarie di sostenere la lite. Questi 4 elementi consentono di certificare un’azione come azione di classe. Ci sono 3 tipologie, due non ci interessano (una è inibitoria, come da noi) ma soprattutto l’azione di classe che si è molto sviluppata è quella PER DANNI DI MASSA (DAMAGES class action oppure la MASS TORT class action) Quali sono le caratteristiche? La caratteristica fondamentale è che, una volta certificata come azione di classe in base ai 4 requisiti visti sopra, il giudice individua la classe, dispone la cd NOTICE: bisogna dare notizia, normalmente con una notifica individuale per quanto possibile (se non si riescono ad individuare tutti si cercano degli strumenti alternativi di comunicazione) che c’è l’azione pendente e che ciascuno dei membri della classe che non sono nel processo può esercitare un diritto di autoescludersi dalla classe, cd diritto di OPT-OUT dalla classe, di scegliere di stare fuori. Altrimenti la sentenza finale sull’azione di classe, che condanna la controparte a pagare, ha effetti nei confronti di tutti i membri della classe che non abbiamo dichiarato di escludersi. Ma ha effetti nei confronti di tutti i membri della classe che non si siano autoesclusi anche la sentenza sfavorevole alla classe.  Sia che abbia effetti favorevoli sia che abbia effetti sfavorevoli alla classe la sentenza della class action per danni ha effetti nei confronti di tutti.
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