Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Appunti procedura civile anno 2023/24, Appunti di Diritto Processuale Civile

Appunti procedura con citazione di articoli del corrispondente codice. Utilizzato per preparare l’esame.

Tipologia: Appunti

2023/2024

Caricato il 29/03/2024

alicetartaro1
alicetartaro1 🇮🇹

5

(1)

3 documenti

1 / 135

Toggle sidebar

Spesso scaricati insieme


Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica Appunti procedura civile anno 2023/24 e più Appunti in PDF di Diritto Processuale Civile solo su Docsity! Diritto processuale civile 25/09/2023 – fonti e principi del diritto processuale civile Il programma di diritto processuale civile è incentrato sul processo ordinario di cognizione (nelle sue diverse articolazioni, dal primo grado fino alla Cassazione). Il processo è uno strumento di attuazione del diritto sostanziale. In generale, abbiamo delle norme sostanziali (ad esempio, quelle contenute nel Codice civile) che, se disattese, determinano la nascita di un conflitto tra i consociati (tali conflitti hanno ad oggetto la tutela di diritti soggettivi). Se di natura privatistica, il luogo ideale di ricomposizione di questo conflitto è il processo civile. Tuttavia, nel processo civile non ci sono solo situazioni di conflitto, ben potendo essere regolate e tutelate altre situazioni che prescindono da esso, come i casi di volontaria giurisdizione (ad esempio, l’amministrazione del patrimonio del minore, che viene appunto svolta da organi giurisdizionali, data la posizione di imparzialità dei magistrati). Il processo civile è un contenitore che ha un contenuto di diritto sostanziale. E non è solo un contenuto di diritto sostanziale che riguarda il merito, bensì il diritto sostanziale disciplina anche situazioni di carattere strettamente processuale (v. Libro VI Codice civile). LE FONTI DEL DIRITTO PROCESSUALE CIVILE Il Codice di procedura civile La prima fonte è il Codice di procedura civile (esso risale al 1940 ed è entrato in vigore nel 1942). Nonostante sia nato durante il regime fascista, il Codice di procedura civile si è ispirato a dei principi solidi che hanno resistito dopo l’entrata in vigore della Costituzione (1948) e all’attività della Corte costituzionale (iniziata a partire dal 1952), sino ad arrivare ai giorni nostri. Il Codice di procedura civile è frutto dell’opera di illustri giuristi, ossia Calamandrei, Redenti e Carnelutti. Nei primi decenni del ‘900 questi tre giuristi iniziarono dei progetti di riforma del processo, che risultava molto pedante nell’impostazione data dal precedente Codice del 1865. Tali progetti non entrarono in vigore, ma non furono del tutto dimenticati. Infatti, quando Nino Grandi ricevette l’incarico di forgiare un nuovo Codice, tali lavori furono ripresi e recuperati e, successivamente, il prodotto finale fu inviato a tutte le corti d’appello e a tutte le facoltà di giurisprudenza, così da poter imbastire una discussione corale. E fu proprio tale dibattito a rendere il Codice di procedura civile così solido e resistente nel tempo. Il Codice di procedura civile si compone di 4 libri: libro I sui principi; il libro II sul processo di cognizione, in tutte le sue articolazioni (dal primo grado a tutte le fasi impugnatorie); il libro III sul processo di esecuzione (esecuzione forzata, espropriazione forzata, esecuzione in forma specifica ect.); Il libro IV sui procedimenti speciali (il processo si declina in vario modo, nel senso che, oltre al procedimento ordinario di cognizione, troviamo altri procedimenti, detti procedimenti speciali (procedimento d’urgenza, decreto ingiuntivo ect.), i quali sono connotati da una maggiore snellezza). Il Codice di procedura civile ha subito qualche lieve modifica per effetto di interventi della Corte cost. (le norme devono essere sempre costituzionalmente orientate), che non ha tuttavia intaccato i principi generali. Oltre che dall’apparato costituzionale, le modifiche sono state apportate anche a seguito di alcune riforme: una prima grande riforma si ha avuta negli anni ’70, dove il legislatore ha messo mano al processo del lavoro, nell’ambito del quale è stato elaborato un procedimento incentrato su una maggiore celerità rispetto al processo ordinario. Le riforme sul processo ordinario di cognizione hanno iniziato ad essere introdotte a partire dagli anni ’90 ed esse hanno investito l’annoso problema dell’eccessiva durata del processo. Infatti, il nostro processo risulta essere molto lento, sia a causa di un organico ridotto, sia, in particolare, a causa di alcune storture nelle dinamiche processuali (come, per esempio, i c.d. processo di mero rinvio; oppure, l’eccessivo tempo concesso in alcune fasi del processo, il che consentiva alla parte che aveva torto di tirare il processo per le lunghe). In particolare, la riforma degli anni ’90 ha introdotto il principio di preclusione (o, meglio, principio di effettività che si fonda sul concetto di preclusione), un principio che fu fortemente osteggiato negli anni ‘50. Il principio di effettività stabilisce che tutta l’attività processuale venga scandita secondo una precisa tempistica (ad esempio, le prove devono essere presentate entro un certa finestra temporale; la domanda può essere modificata, solo parzialmente, entro un certo termine), scaduta la quale non è più possibile fare una certa attività istruttoria (le prove non presentate entro un certo tempo non possono essere valutate dal giudice e, quindi, il fatto costitutivo che sta alla base della domanda dell’avente diritto non può essere provato; dato che la qualificazione della fattispecie che sta alla base della domanda non può essere cambiata, bisogna essere molto attenti, dato che, in caso di errore, si incorre in conseguenze assai gravi). Il Libro VI del Codice civile Il diritto sostanziale permea il diritto processuale, non solo perché le ne costituisce il contenuto, ma anche perché le norme sostanziali permeano lo stesso processo civile, dato che si occupano anche di aspetti prettamente processuali. In questo senso, tra le fonti del diritto sostanziali troviamo il libro VI del Codice civile (“della tutela dei diritti”). Le norme costituzionali Un'altra fonte è costituita dalle norme costituzionali (in particolare, gli artt. 24, 25 e 111 Cost.) Le massime della Corte di Cassazione Nel diritto processuale civile c’è una forte incidenza anche dell’interpretazione che di queste norme viene offerta sul piano pratico (in primis, dottrina e giurisprudenza, in particolare quella nomofilattica della Corte di Cassazione). In questo senso, un’altra fonte è data dalle massime della giurisprudenza di legittimità (la Corte di Cassazione), la quale ha il compito di garantire l’uniforme interpretazione e corretta osservanza delle norme (c.d. nomofilachia). PRINCIPI COSTITUZIONALI DEL PROCESSO CIVILE La tutela giurisdizionale dei diritti ex art. 24 co.1 cost. Art. 24 co.1 cost.: “Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi” aggravio nei costi (sul punto, alcuni ordinamenti hanno previsto una riduzione delle somme da versare nel caso in cui il primo incontro vada deserto). Quini, la mediazione è una via prodromica corretta per molte materia, se affrontata in un’ottica non conflittuale e se non dà costi e spese eccessive. Il diritto di difesa ex art. 24 co. 2 cost. Art. 24 co. 2 cost “La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento” L’ inviolabilità del diritto di difesa ex art. 24 co. 2 cost. richiama il principio del giusto processo ex art. 111 co.1 Cost. (v. più sotto). Art. 25 co.1 Cost.: “nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge” In base a questo principio non è possibile procedere alla nomina di un giudice ex post per fatti già svolti. In altri termini, le parti devono essere posti nella condizione di sapere anticipatamente il giudice competente in base alla tipologia di controversia. Art. 111 co.1 e 2 cost.: “La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. / Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata”. L’art. 111 co.1 Cost. stigmatizza il principio del giusto processo. Il processo è giusto quando rispetta il principio della parità delle armi (principio del contraddittorio). Il principio del contraddittorio, strettamente collegato al diritto di difesa ex art. 24 co. 2 Cost., sta ad indicare che attore e convenuto devono essere messi in condizione di dire la loro in condizioni di parità. Mentre nel processo ordinario di cognizione il principio del contraddittorio è pienamente rispettato, nei procedimenti speciali (Libro VI) esso sembra subire un affievolimento: ad esempio, nel caso del procedimento monitorio, l’avente diritto può richiedere ed ottenere, tramite una richiesta al giudice con un ricorso, un decreto ingiuntivo senza rendere edotta la controparte. In questo caso, il contraddittorio non è soppresso, bensì risulta modificato nella sua dinamica: infatti, ottenuto il decreto ingiuntivo, la controparte potrà fare opposizione, instaurando un giudizio di opposizione. Raramente è possibile procedere (“subito”) all’azione esecutiva con il decreto ingiuntivo se il debitore è inadempiente. Un caso è quello riguardante il mancato pagamento delle spese condominiali, in cui l’amministratore ha l’obbligo di recuperare tali somme attraverso un decreto ingiuntivo. La regola base è che si deve dare il contraddittorio alle parti coinvolte nel processo. Tale vincolo incombe anche sul giudice. Infatti, nell’art. 101 co. 2 c.p.c. è indicato espressamente che il contraddittorio investe lo stesso organo giudicante, il quale ha il preciso dovere di segnalare aspetti della controversia che le parti non hanno rilevato, onde evitare i casi di c.d. “sentenze a sorpresa” (cioè, i casi in cui il giudice, non alimentando il contraddittorio, si limitava a segnalare in sentenza aspetti della controversia non eccepiti dalle parti), così da permettere loro di integrare le proprie allegazioni. Ancora, il processo è giusto quando rispetta il principio della ragionevole durata del processo (in questo senso, l’Italia è stata più volte condannata dalla CGUE. Nel caso in cui il processo non abbia una durata ragionevole – cioè, un processo che supera i 6 anni, tenuto conto di tutte le sue articolazioni-, la cd. “legge Pinto” stabilisce che la parte lesa sotto questo profilo possa chiedere l’indennizzo in base alla stessa legge), il principio di terzietà ed imparzialità del giudice (il giudice deve essere terzo ed imparziale; gli strumenti per tutelare la terzietà ed imparzialità del giudice sono l’astensione e la ricusazione-reposizione), nonché l’obbligo di motivazione ex art. 111 co. 6 Cost. Art. 111 co. 6 Cost.: “Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati.” L’ art. 111 co. 6 Cost. sancisce l’obbligo di motivazione: i provvedimenti decisori del giudice non possono essere immotivati. In particolare, attraverso la motivazione, il giudice deve palesare il percorso logico che ha seguito per giungere ad una certa decisione, per verificare che abbia preso una decisione conforme alla legge, nonché per mettere la parte soccombente nelle condizioni di fare appello, potendo cogliere i profili della motivazione eventualmente viziati (e quindi per evitare le cd. impugnazioni al buio). Quindi, l’obbligo di motivazione consente l’effettivo esercizio del diritto di difesa ex art. 24 co. 2 Cost. Art. 111 co. 7 Cost.: “Contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge. Si puo' derogare a tale norma soltanto per le sentenze dei tribunali militari in tempo di guerra” L’art. 111 Cost. è stata modificata nel ’99 soprattutto per quanto riguarda il processo penale. Innanzitutto, la norma assicura con manto costituzionale la riccoribilità dei provvedimenti decisori in Cassazione. Il giudice di Cassazione è il giudice di nomofilachia, ha cioè il compito di garantire la corretta applicazione ed uniforme interpretazione delle norme, onde consentire il rispetto delle regole sulla cognizione. Come visto per l’obbligo di motivazione, il fatto che i provvedimenti siano sempre ricorribili in Cassazione per violazione di legge consente, attraverso l’impugnazione, l’effettivo esercizio del diritto di difesa. Al contrario, l’appello (una delle impugnazioni più frequentemente utilizzate) non è garantito dalla Costituzione, costituendo invece una prassi invalsa nel tempo. In questi casi, il legislatore può prevedere tale strumento, ma, se dovesse decidere di escluderlo, non farebbe nulla di incostituzionale. Infatti, ci sono casi (rari) in cui l’appello non è dato per legge (ad esempio, in materia esecutiva, il provvedimento che chiude l’opposizione agli atti esecutivi non è appellabile, mentre il ricorso in Cassazione è sempre ammesso – si tratta di un caso di ricorso per Cassazione straordinario (straordinario perché si tratta di un ricorso per un provvedimento non appellabile), che non è un’impugnazione straordinaria -). I mezzi d'impugnazione ordinari sono l'appello, il ricorso per Cassazione, la revocazione ordinaria e il regolamento di competenza. Sono mezzi d'impugnazione straordinari quelli che possono essere proposti anche contro sentenze passate in giudicato e sono la revocazione straordinaria e l'opposizione di terzo. Sebbene la norma parli di “sentenze” sottoponibili a ricorso straordinario in Cassazione, la Corte di Cassazione ne ha dato una particolare interpretazione: l’art. 111 Cost ha ad oggetto sia le sentenze, sia gli altri provvedimenti del giudice (decreti, ordinanze) aventi carattere decisorio (nel senso che incidono sui diritti soggettivi) e che non sono altrimenti impugnabili. 28/09/2023 – le tutele cognitive Le tutele cognitive Il processo è uno strumento di tutela del diritto, ma la nozione di processo si declina in vari modi, a seconda del tipo di tutela che si chiede (lo strumento giurisdizionale deve essere quello corretto, adattando la propria richiesta di tutela nell’ambito corretto). Oltre al processo di cognizione ci sono altre forme di processo (speciale, cautelare ect.), elencate nel Libro III (del processo di esecuzione) e IV (dei procedimenti speciali) del codice di rito. La Corte Cost. ha dato manto costituzionale alla tutela cautelare, il che evidenzia l’importanza che questa forma di tutela assume nell’ordinamento; nel caso di specie, si trattava di un procedimento dinanzi al TAR, sede in cui non è possibile richiedere provvedimenti d’urgenza. Sul punto, la Corte cost. ha dichiarato che la cautelarità va comunque garantita, altrimenti l’effettiva tutela giurisdizionale viene di fatto svilita. Ogni modello di tutela si riferisce a determinate regole pratiche e tecniche. In particolare, la tutela di cognizione, o dichiarativa, si articola in tre sottocategorie: tutela di mero accertamento, tutela di condanna, tutela costitutiva. La tutela di cognizione, o anche detta tutela dichiarativa, indica, da un lato, la tutela relativa alla conoscenza di un certo fatto da parte del giudice (“cognizione”); dall’altro è relativa all’atto finale da parte del giudice stesso (“dichiarazione”). TUTELA DI MERO ACCERTAMENTO La tutela di mero accertamento è una forma di tutela che si basa sul semplice accertamento o meno di un diritto vantato dalla parte. Nella decisione non c’è nient’altro che l’accertamento (si badi che, dal punto di vista logico, l’accertamento è previsto in ogni tipo di tutela. Infatti, la tutela di condanna e la tutela costitutiva postulano l’accertamento). L’accertamento esiste come categoria generale? La tutela di mero accertamento ha una valenza generale? In altri termini, c’è una norma generale che postula la tutela di mero accertamento? Nonostante l’ordinamento riconosca la tutela giurisdizionale (diritto fondamentale), non esiste una norma che espressamente sancisca la tutela di mero accertamento. Vi sono tuttavia situazioni di mero accertamento tipizzate dal legislatore: o L’actio negatoria, prevista dall’art. 949 c.c., mediante la quale il proprietario può agire per far dichiarare l’inesistenza di diritti vantati dalla controparte, è un esempio di tutela di mero accertamento negativo. (la domanda deve essere formulata in modo corretto: in questo caso, bisognerà domandare al giudice di accertare l’insussistenza di diritti vantati dal altri sulla cosa, e non invece di dichiarare la proprietà della cosa stessa). Art. 949 c.c. Il proprietario può agire per far dichiarare l'inesistenza di diritti affermati da altri sulla cosa, quando ha motivo di temerne pregiudizio. Se sussistono anche turbative o molestie, il proprietario può chiedere che se ne ordini la cessazione, oltre la condanna al risarcimento del danno. Ancora, innovativa è la sentenza della Cassazione n. 4833/2023, relativa all’accertamento dello status di portatore di handicap: in generale, la legge stabilisce che i soggetti portatori di handicap gravi, quando vogliono chiedere forme di tutela economica, devono preventivamente richiedere l’accertamento tecnico preventivo obbligatorio ai sensi dell’art. 445 bis c.p.c., in modo tale che un perito possa accertare quale sia il reale stato psico-fisico del richiedente. Una volta che questi si sia pronunciato, le parti possono opporsi alla perizia. In questo senso, relativamente ai giudizi di opposizione sulle perizie, diverse pronunce, anche della Cassazione, hanno ormai stabilito che, affinché la richiesta non venga dichiara inammissibile per carenza di interesse ad agire, non è sufficiente lamentare il mero fatto del giudizio, bensì è necessario precisare una parte della fattispecie (cioè, deve essere indicato l’obbiettivo giuridico cui mira quel tipo di accertamento). Diverso è il caso della Cassazione n. 4833/2023, in cui la domanda, nonostante non indicasse lo scopo cui mirava quel tipo di accertamento, non è stata dichiarata inammissibile per difetto di interesse ad agire, dato che la fattispecie era stata costruita come accertamento di uno status, e non di un mero fatto. L’accertamento di uno status porta con sé un elemento di accertamento di diritto e non, invece, di un puro elemento fattuale. Art. 100 c.p.c.: abuso del processo (meritevolezza) TUTELA DI CONDANNA Si tratta di una forma di tutela molto diffusa. Come nel caso della tutela di mero accertamento, anche in questo caso non ci sono norme generali che postulano la tutela di condanna. Tuttavia, tutto il Libro III del c.p.c. (del processo di esecuzione) postula la tutela di condanna. La tutela di condanna è diversa dalla tutela di mero accertamento, ma in parte quest’ultima si sovrappone, essendo presente in via prodromica in sede condannatoria. La tutela di condanna è tradizionalmente ancorata all’esecuzione forzata, essendo mirata a raggiungere tre benefici: la formazione di un titolo esecutivo; la possibilità di iscrivere ipoteca giudiziale ex art. 2818 c.c.; l’actio iudicati ex art. 2953 c.c. In altri termini, il proprium della tutela di condanna si dirama in tre direzioni, a precipua tutela del credito: a. il primo effetto principale della tutela di condanna è la formazione di un titolo esecutivo. Il titolo esecutivo è un documento cui l’ordinamento attribuisce una determinata efficacia, ossia il diritto di procedere ad esecuzione forzata per un diritto di credito che sia certo, liquido (determinato o determinabile) ed esigibile (non sottoposto a termini o condizioni). L’art. 474 c.p.c. (dell’esecuzione) elenca una serie di titoli esecutivi (sentenza di condanna, le cambiali, le scritture private autenticate ect.). Se la mia controparte permane nella situazione di inadempimento, quello che ho ottenuto in sede condannatoria potrà essere utile per vincere l’inerzia della controparte. Infatti, una volta ottenuto il titolo esecutivo dal giudice, se la controparte continua a rimanere inadempiente, potrò adire un’altra forma di tutela giurisdizionale, detta esecutiva, che si può articolare in vario modo a seconda del tipo di credito vantato (espropriazione, restitutio in integrum, pignoramento ect. - anzitutto, è prima necessario fare un’indagine sulla condizione patrimoniale del debitore -). La tutela di condanna, quindi, consente la formazione di un titolo esecutivo rappresentativo di un diritto di credito certo, liquido (determinato o determinabile) ed esigibile (non sottoposto a termini o condizioni). Il titolo esecutivo costituisce la condizione sine qua non per procedere l’azione esecutiva (esecuzione in forma specifica, dare, non dare, fare, non fare). Titolo esecutivo si ottiene “subito” (di fatto, dopo mesi o, peggio, anni). Originariamente, la sentenza di primo grado non era immediatamente esecutiva, ma bisognava aspettare che il diritto di appello terminasse (e tale termine poteva essere anticipato solo in presenza di particolare situazioni). Oggi, invece, le sentenze sono esecutive ex lege (v. art. 282 c.p.c. – “la sentenza di primo grado è provvisoriamente esecutiva tra le parti”). Ciò significa che, una volta ottenuto una sentenza di condanna, la parte ha subito un titolo esecutivo da poter (eventualmente) spendere nella tutela esecutiva. La ratio è quella di realizzare una reale tutela economica, data la irragionevole durata dei processi. L’efficacia esecutiva delle sentenze può essere inibita tramite l’azione inibitoria, attraverso la quale il titolo esecutivo viene momentaneamente sospeso. b. Il secondo effetto è la possibilità di iscrivere ipoteca giudiziale ex art. 2818 cc Art. 2818 c.c. Ogni sentenza che porta condanna al pagamento di una somma o all'adempimento di altra obbligazione ovvero al risarcimento dei danni da liquidarsi successivamente è titolo per iscrivere ipoteca sui beni del debitore. Lo stesso ha luogo per gli altri provvedimenti giudiziali ai quali la legge attribuisce tale effetto. I diritti reali di garanzia sono il pegno e l’ipoteca. L’ipoteca è un diritto che garantisce il mio credito e che grava sulla res (in generale, l’ipoteca si iscrive generalmente su beni immobili), nel senso che la garanzia circola con il bene. Per cui, in caso di trasferimento, insieme alla cosa viene trasferita anche l’ipoteca. Quindi, l’ipoteca è uno strumento di tutela creditoria particolarmente forte. Il titolo condannatorio dà diritto ad iscrivere ipoteca giudiziale. L’ipoteca giudiziale è una forma particolare di ipoteca, dato che si accompagna, come effetto secondario, ad una tutela di condanna. Infatti, oltre ad avere titolo esecutivo, la sentenza di condanna conferisce la possibilità (non l’obbligo) di iscrivere l’ipoteca in conservatoria, così da ottenere un’ulteriore forma di tutela creditoria (oltre ad attenuare gli effetti dell’accoglimento dell’azione inibitoria eventualmente richiesta dalla controparte). Il creditore può utilizzare questo strumento, in primis, se teme di perdere la garanzia del credito. Il creditore ipotecario ha infatti diritto di prelazione (l’ipoteca è causa legittima di prelazione), può cioè soddisfarsi prioritariamente rispetto ai creditori chirografari. Tuttavia, il creditore ipotecario sarà comunque tenuto soddisfarsi dopo altri creditori ipotecari, a seconda del proprio grado di iscrizione ipotecaria. Art. 2740 co.1 c.c. Il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri c. Il terzo effetto della tutela di condanna è l’actio iudicati ex art. 2953 cc. Art. 2953 c.c. I diritti per i quali la legge stabilisce una prescrizione più breve di dieci anni, quando riguardo ad essi è intervenuta sentenza di condanna passata in giudicato, si prescrivono con il decorso di dieci anni. Ciò significa che con una sentenza di condanna passata in giudicato tutti i quei crediti che normalmente hanno termini di prescrizione più brevi rispetto a quelli ordinari si prescrivono con i termini prescrizionali ordinari. Quindi, fino allo spirare del decennio (e salvo i casi interruzione della prescrizione), il creditore potrà agire esecutivamente anche su beni che nel frattempo si sono aggiunti al patrimonio del debitore. 29/09/2023 - la tutela di condanna: obbligazioni fungibili ed infungibili; le tipologie di condanna La tutela di condanna: le obbligazioni fungibili ed infungibili Secondo la dottrina tradizionale, c’è sempre stata una correlazione necessaria tra condanna ed esecuzione forzata (alla tutela di condanna puoi accedere quando hai degli strumenti per poter dar corso all’esecuzione forzata). Le cose nel tempo sono andate cambiando. Infatti, quando parliamo di condanne, titoli esecutivi ed esecuzione forzata pensiamo sempre a rapporti obbligatori fungibili (ad esempio, obbligazioni che hanno ad oggetto il pagamento di una somma di denaro). Tuttavia, possono esistere rapporti obbligatori infungibili (ad esempio, obbligazioni che hanno ad oggetto prestazioni specifiche da parte di un professionista). Quando la prestazione è fungibile ed il debitore rimane inadempiente il creditore può comunque soddisfarsi mediante un risarcimento pecuniario. Invece, le obbligazioni di carattere infungibile non erano, fino a qualche anno fa, suscettibili di esecuzione forzata. Per questo motivo si era parlato di una correlazione necessaria tra condanna ed esecuzione forzata (puoi ottenere la condanna se è eseguibile con gli strumenti esecutivi; invece, se non hai lo strumento esecutivo, la tutela di condanna rimane morta). Per questo motivo si è iniziato a guardare gli altri ordinamenti, in cui erano stati già introdotti diversi strumenti per fronteggiare le situazioni di infungibilità della prestazione Ad esempio, in Francia sono stati introdotti dei provvedimenti del giudice, aventi ad oggetto l’irrogazione di sanzioni che hanno un valore economico maggiore dell’adempimento stesso, finalizzati a stimolare l’adempimento spontaneo della prestazione. Nei paesi di common law, è prevista una sanzione economica per ogni giorno di ritardo (in Inghilterra è addirittura previsto un giorno di carcere per ogni giorno di ritardo). Tali misure sono definite strumenti di coercizione indiretta. In Italia, queste misure coercitive non erano previste. Un famoso processualcivilista, Andrea Proto Pisani, al tempo in cui ancora si parlava di correlazione necessaria tra condanna ed esecuzione forzata, aveva affermato che erano comunque presenti degli strumenti di coercizione indiretta atti a garantire l’adempimento di un’obbligazione di carattere infungibile. Tale meccanismo era quello di cui all’art. 650 c.p. Tuttavia, l’idea di evocare una sanzione penale per consentire l’adempimento di un’obbligazione infungibile non piaceva a molti garantisti. posti in essere cadono. Per cui, quando si agisce con una sentenza condannatoria che non ha la stabilità del giudicato bisogna stare molto attenti. La condanna sommaria La condanna sommaria è una tipologia condannatoria che prende in considerazione e adatta alcuni principi sul contraddittorio. In alcune situazioni, appunto quelle di tutela di condanna sommaria, il contraddittorio si presenta compresso. Un esempio è dato dal rito monitorio (art. 633 ss. c.p.c.), in base al quale, in presenza di determinate prove (soprattutto di carattere contabile), il creditore di una somma di denaro ovvero di cosa mobile o fungibile può ottenere una condanna per vie più brevi dell’ordinario: a tal fine, il creditore deposita un ricorso e allega ad esso la documentazione che le norme prevedono possa essere posta alla base di una richiesta monitoria. A quel punto, il giudice valuta, senza contraddittorio, quella situazione sottoposta con ricorso e, se la domanda è correlata dagli elementi provatori richiesti per legge, emette un decreto che contiene la parte condannatoria. Il ricorso ed il decreto vengono notificati al debitore, il quale avrà 40 gg di tempo per promuovere un giudizio di opposizione, in cui sarà formalmente attore, ma sostanzialmente convenuto (qui si apre il contraddittorio, che dunque non è soppresso, ma disarticolato nella sua dinamica). In mancanza di opposizione o di rigetto del giudizio di opposizione, il decreto diventa esecutivo, risparmiando di gran lunga i tempi di giudizio (il processo ordinario di cognizione ha una durata di almeno 2 anni), garantendo così una pronta tutela giurisdizionale. La condanna con riserva La condanna viene condizionata ad un elemento, che ne costituisce la riserva: un esempio in tal senso è dato dall’eccezione di compensazione (art. 35 c.p.c.). Art. 35 c.p.c. Quando è opposto in compensazione un credito che è contestato ed eccede la competenza per valore del giudice adito, questi, se la domanda è fondata su titolo non controverso o facilmente accertabile, può decidere su di essa e rimettere le parti al giudice competente per la decisione relativa all'eccezione di compensazione, subordinando, quando occorre, l'esecuzione della sentenza alla prestazione di una cauzione. L’eccezione di compensazione è il modo di far valere la compensazione dei debiti all’interno del processo civile. Il giudice non può rilevare d’ufficio (cioè, autonomamente) la compensazione dei crediti e dei debiti, essendo necessario che essa sia sollevata dalla parte che ne è interessata. L’eccezione di compensazione è dunque lo strumento processuale che consente di far valere un proprio controcredito. Ai sensi dell’art. 35 c.p.c., quando l’attore contesta/nega l’eccezione di compensazione allegata dal convenuto (e, quindi, nega l’esistenza di un proprio debito nei confronti del convenuto) e la verifica dell’esistenza di tale credito del convenuto non rientra nella competenza per valore del giudice di I grado, questi, qualora abbia verificato che la domanda dell’attore è fondata su un titolo/un fatto costitutivo non controverso/contestato tra le parti o facilmente accertabile (È l’ipotesi in cui l’attore ha allegato alla propria domanda dei documenti, per cui non è necessaria una lunga istruzione probatoria da parte del giudice), può pronunciare un provvedimento di condanna con riserva dell’eccezione di compensazione. In altre parole, il giudice di I grado può decidere solo se la domanda dell’attore è fondata o meno, rimettendo le parti al giudice competente solo per la decisione sulla compensazione. Ad esempio, se il convenuto eccepisce in compensazione un credito di 6 mila euro, il giudice di pace, che è competente per valore fino a 5 mila euro, può decidere se la domanda dell’attore che contesta il credito del convenuto è fondata o meno, rimettendo la sola decisione sulla compensazione al giudice competente per le cause superiori a 5 mila euro (il tribunale). In questo caso, il giudice pronuncia una sentenza di condanna senza esaminare le eccezioni proposte dal convenuto (L’eccezione è il tipico strumento difensivo del convenuto), pur avendo instaurato il contradditorio nei confronti del convenuto stesso (in quanto si tratta, comunque, di un procedimento ordinario di cognizione). Anche questo peculiare provvedimento di condanna può essere richiesto solo nei casi tassativamente previsti dal legislatore, perché, essendo la domanda dell’attore accolta dal giudice con riserva delle eccezioni, è un istituto potenzialmente lesivo del diritto di difesa del convenuto, che, di conseguenza, favorisce l’attore. Riepilogando, quindi, la finalità di quest’istituto è la seguente: si ha una sentenza che pronuncia una condanna a favore dell’attore solo sulla base della sua domanda - il che implica un esclusivo accertamento delle ragioni dell’attore, che sono non contestate o accertabili con facilità - ed una successiva sentenza, pronunciata da un altro giudice, in cui, essendo ormai già accertati i fatti costitutivi, è verificata solo l’eccezione del convenuto. La condanna in futuro Ci sono alcune situazioni (in particolare, quelle relative a prestazioni ripetibili, come per esempio il pagamento del canone di locazione) in cui il legislatore consente di ottenere oggi il titolo esecutivo in previsione del fatto che ci potrà essere una violazione reiterata nel tempo successivamente. In questo caso è possibile ottenere anticipatamente il provvedimento di condanna, che potrà essere eseguito solo alla scadenza dell’obbligazione ripetibile. Un esempio è dato dall’art. 664 co.1 c.p.c., in cui è possibile chiedere decreto ingiuntivo sia per i canoni scaduti che per i canoni che andranno a scadere, evitando di ricorrere nuovamente al giudice per ottenere il provvedimento condannatorio. Art. 664 co.1 c.p.c. – pagamento dei canoni Nel caso previsto nell'articolo 658, il giudice adito pronuncia separato decreto di ingiunzione per l'ammontare dei canoni scaduti e da scadere fino all'esecuzione dello sfratto, e per le spese relative all'intimazione. 02/10/2023 – la tutela costitutiva; la giurisdizione TUTELA COSTITUTIVA La norma che fa espressa menzione della tutela costitutiva è l’art. 2908 c.c. Art 2908 c.c. - Effetti costitutivi delle sentenze Nei casi previsti dalla legge, l'autorità giudiziaria può costituire, modificare o estinguere rapporti giuridici, con effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa [limiti soggettivi relativi all’incidenza di un provvedimento dell’autorità]. Rispetto alla tutela di mero accertamento e alla tutela di condanna, la tutela costitutiva prevede una tutela specifica a livello normativo (“nei casi previsti dalla legge”; come già visto, però, anche l’accertamento di un mero fatto può essere fatta solo in casi espressamente tipizzati). Ancora, rispetto alla tutela di mero accertamento (in cui il giudice si limita ad accertare o meno una certa situazione giuridica - l’accertamento è una componente presente in tutte le forme di tutela-), e alla tutela di condanna (in cui, oltre all’accertamento di una certa situazione giuridica, mediante il provvedimento di condanna si danno precise indicazioni per l’adempimento dell’obbligazione, nonché le forme di tutela strumentali e necessarie per ottenere tale adempimento), la tutela costitutiva è caratterizzata dalla circostanza che è lo stesso provvedimento giurisdizionale a costituire, modificare o estinguere un rapporto giuridico. Per comprendere cosa sia la tutela costitutiva dobbiamo fare riferimento alla nozione di diritto potestativo: il diritto potestativo consiste nel potere di incidere sulle situazioni soggettive altrui senza che il titolare delle situazioni cui si incide possa fare nulla per impedirlo. Il soggetto che subisce l’esercizio del diritto potestativo si trova in uno stato di soggezione. Un esempio di diritto potestativo è l’istituto del recesso convenzionale ex art. 1373 c.c., in cui il titolare del suddetto diritto può sciogliere unilateralmente il contratto, senza che la controparte debba o possa fare alcunché per evitare tale conseguenza. Ancora, ci sono norme che attribuiscono al datore di lavoro, sulla base di determinate circostanze, il potere di modificare le mansioni ovvero la sede di lavoro del lavoratore dipendente. Infine, nei contratti di locazione è prevista la clausola di adeguamento del canone all’indice ISTAT. Ci sono delle situazioni in cui il diritto potestativo può essere esercitato in sede stragiudiziale. In questo caso, il titolare di tale diritto lo esercita autonomamente ed unilateralmente, determinando una modifica delle situazioni soggettive altrui. Tuttavia, vi sono altre situazioni, aventi ad oggetto diritti potestativi non ad esercizio stragiudiziale ed unilaterale, che devono essere necessariamente portate innanzi al giudice Sotto questo secondo aspetto, un esempio era costituito dalle leggi in materia di separazione giudiziale e divorzio, in cui l’unica via per ottenere l’allentamento o la cessazione del vincolo matrimoniale era quella giurisdizionale (l’effetto giuridico si otteneva soltanto andando davanti al giudice), nell’ambito della quale si otteneva una forma di tutela costitutiva e modificativa della situazione dello status (oggi, invece, le modalità per far venire meno o allentare il vincolo matrimoniale sono state ampliate). Di norma, una situazione che si porta davanti al giudice è una situazione di contrasto, rispetto alla quale questi assume un provvedimento che può modificare, estinguere o creare una certa situazione giuridica. A) Un primo esempio di tutela costitutiva è l’art. 2932 c.c. (norma inserita nell’ambito dell’esecuzione forzata) in materia di conseguenze dell’inadempimento del contratto preliminare (esecuzione specifica dell'obbligo di concludere un contratto). anche ai radicali cambiamenti della domanda giudiziale, purché venga richiesta la medesima cosa oggetto della domanda precedente – domande complanari -. B) Un altro esempio di tutela costitutiva è dato dall’actio quanti minoris, oggi prevista dall'art. 1492 c.c., consistente nella rideterminazione del prezzo concesso al compratore contro il venditore, in alternativa alla risoluzione, nel caso in cui la cosa alienata presenti dei vizi che la rendano inidonea all'uso a cui è destinata o ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore. Non c'è possibilità di scelta, invece, nel caso di perimento della cosa consegnata per caso fortuito o per colpa del compratore (l’unica via è la riduzione del prezzo). Art. 1492 c.c. – effetti della garanzia Nei casi indicati dall'articolo 1490 il compratore può domandare a sua scelta la risoluzione del contratto ovvero la riduzione del prezzo, salvo che, per determinati vizi, gli usi escludano la risoluzione. La scelta è irrevocabile quando è fatta con la domanda giudiziale Se la cosa consegnata è perita in conseguenza dei vizi, il compratore ha diritto alla risoluzione del contratto; se invece è perita per caso fortuito o per colpa del compratore, o se questi l'ha alienata o trasformata, egli non può domandare che la riduzione del prezzo. C) L’annullamento del contratto per errore, violenza o dolo è un altro esempio di tutela costitutiva (in quanto modificativa di quella situazione giuridica). D) Ancora, la risoluzione giudiziale del contratto per inadempimento (art. 1453 c.c.) è una forma di tutela costitutiva. Art. 1453 c.c. Nei contratti con prestazioni corrispettive, quando uno dei contraenti non adempie le sue obbligazioni, l’altro può a sua scelta chiedere l’adempimento o la risoluzione del contratto, salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno. La risoluzione può essere domandata anche quando il giudizio è stato promosso per ottenere l’adempimento, ma non può più chiedersi l’adempimento quando è stata domandata la risoluzione. Dalla data della domanda di risoluzione l’inadempiente non può più adempiere la propria obbligazione. La tutela costitutiva ha quindi molte sfaccettature. La tutela costitutiva ha un’altra caratterizzazione che la distingue dalla tutela di condanna: infatti, mentre la sentenza di condanna di primo grado è immediatamente esecutiva (posso, cioè, chiedere l’esecuzione forzata per far valere il titolo esecutivo in caso di inadempimento della controparte, salvo accoglimento dell’azione inibitoria; in questo senso, la tutela di condanna si presta ad una pronta realizzazione dei risultati ottenuti-), la tutela costitutiva produce i suoi effetti (costitutivi, modificavi o estintivi) solo dopo che la sentenza sia passata in giudicato. La sentenza passata in giudicato (formale) è tale quando sono stati esperiti tutti i mezzi di impugnazione previsti dall’ordinamento ovvero sono scaduti i termini per la loro proposizione (i rimedi impugnatori ordinari sono l’appello, il ricorso in Cassazione, la revocazione e il regolamento di competenze). La tutela costitutiva ha bisogno di questa stabilità, date le situazioni giuridiche che regola. Dunque, la tutela costitutiva produce i suoi effetti solo una volta che la sentenza sia passata in giudicato. Nella pratica, i capi di sentenza possono mischiarsi: infatti, la situazione giuridica su cui il giudice deve pronunciarsi può essere variegata sotto il profilo delle tutele (quando, per esempio, viene richiesta insieme la tutela di condanna e la tutela costitutiva; ad esempio: se agisco ai sensi dell’art. 2932 c.c. il capo costitutivo è rappresentato dal trasferimento della proprietà del bene oggetto del contratto definitivo non concluso, mentre i capi condannatori sono il pagamento del prezzo da parte del promissario acquirente e il pagamento delle spese di giudizio). Ogni forma di tutela ha il suo modo di manifestarsi e il suo modo di funzionare: la tutela di condanna manifesta i suoi effetti sin da subito, mentre la tutela costitutiva produce i suoi effetti solo con il passaggio in giudicato. Quindi, i capi condannatori sono capaci di manifestarsi prima del passaggio in giudicato, il che può creare dei problemi rispetto ai capi costitutivi. Questa situazione ha iniziato a verificarsi con la modifica normativa degli anni ’90, in cui il legislatore ha riformato l’art. 282 c.p.c.., stabilendo che “la sentenza di primo grado è provvisoriamente esecutiva tra le parti”, nell’ottica di garantire una pronta tutela giurisdizionale, data la irragionevole durata dei processi. L’idea sottesa era che solo la sentenza di condanna fosse immediatamente esecutiva tra le parti (dato che, se la questione attiene ad uno status personale ovvero il trasferimento della proprietà di una cosa determinata, è bene che l’effetto traslativo, modificato o estintivo si verifichi solo con il passaggio in giudicato - non ha senso stabilire che in primo grado il bene è di tizio, mentre in appello si dice che è di caio-). Tuttavia, quando fu riformato l’art. 282 c.p.c. non fu specificato solo il riferimento alle sentenze di condanna. Ciò iniziò a creare dei grossi problemi, dato che dal tenore della norma si evinceva che tutte le sentenze potevano essere immediatamente esecutive. Inizialmente, la Cassazione aveva iniziato a seguire questo orientamento, salvo poi affermare che in presenza di sentenze sia costitutive che di condanna l’effetto costitutivo si produceva con il passaggio in giudicato, mentre quelli condannatori immediatamente. Così facendo, però, il sinallagma contrattuale (il rapporto di corrispettività fra le prestazioni: da un lato, il trasferimento della proprietà del bene (capo di carattere costitutivo); dall’altro, il pagamento del prezzo (capo di carattere condannatorio) viene completamente slegato. In generale, il sinallagma contrattuale è avulso dalle norme processuali (il processo deve rispettare il rapporto contrattuale, essendo in primis uno strumento di attuazione del diritto sostanziale). Alla luce di questa osservazione, la Cassazione è ritornata sul tema, stabilendo che, quando c’è una sentenza di tipo costitutivo, gli effetti della stessa si producono con il passaggio in giudicato. Se, invece, la sentenza costitutiva è legata da un rapporto sinallagmatico a capi condannatori, sia gli effetti costitutivi, sia quelli condannatori (che accedono alla tutela costitutiva) si produrranno solo con il passaggio in giudicato. Ancora, se il capo condannatorio è autonomo da quello costitutivo (ad esempio, il pagamento delle spese di giudizio), gli effetti della sentenza di condanna si producono immediatamente (quindi, prima del giudicato). La sentenza è fatta di tanti passaggi decisori, su cui il giudice si deve pronunciare. La sentenza presenta quindi tanti capi, alcuni dei quali hanno natura condannatoria ovvero costitutiva. Quando il capo costitutivo (trasferimento della proprietà) si accompagna (rapporto sinallagmatico) ad un capo condannatorio (condanna al pagamento del prezzo del bene), bisogna aspettare la stabilità del giudicato. La nozione di giurisdizione La nozione di giurisdizione va analizzata nella dimensione pratica ed in quella teorica. Una nozione teorica di giurisdizione è stata data da molti autori: ● Secondo Allorio, la giurisdizione ha l’attitudine di portare ad un giudicato. Questa definizione pone il focus sull’aspetto strutturale che porta al provvedimento giurisdizionale. Tuttavia, nonostante molti provvedimenti giurisdizionali siano strutturati per diventare stabili nel tempo, non si può affermare che tutti i provvedimenti siano di questo tipo (ad esempio, il provvedimento relativo all’ammontare dell’assegno di mantenimento cambia in base al reddito dell’obbligato). Ancora, ci sono provvedimenti inseriti nel codice (ordinanza anticipatoria) di cui si dubita relativamente all’attitudine del giudicato. ● Ancora, Segni definisce la giurisdizione come un’attività portata avanti da un soggetto imparziale. In questo caso, il focus verte sulle caratteristiche del soggetto giudicante. ● Infine, secondo Carnelutti la giurisdizione è da identificarsi nell’attività tesa alla composizione di una lite. Anche questa è una definizione parziale. Dal punto di vista globale, la giurisdizione è l’esercizio del potere giurisdizionale, ossia il potere di ius-dicere, di pronunciarsi (assumere ed affermare il diritto) di fronte ad una certa situazione giuridica. La giurisdizione va poi declinata nei diversi plessi giurisdizionali (esiste una giurisdizione penale, civile, tributaria, amministrativa ect). In particolare, la giurisdizione civile si occupa di tutelare i diritti soggettivi; essa viene ricava per via derivata da tutto ciò che non rientra negli ambiti giurisdizionali civili. Di fronte ad una richiesta di tutela, l’avvoca deve anzitutto scegliere l’ambito giurisdizionale nel quale inserire l’azione (ad esempio, se la situazione riguarda interessi legittimi, non posso rivolgermi al tribunale civile), misurandosi sia nei rapporti interni dell’ordinamenti (giudice ordinario o giudice speciale), sia negli ambienti esterni (tribunale estero). Concludendo, per scegliere l’ambito giurisdizionale corretto bisogna conoscere le diverse sedi giurisdizionali e quali competenze ciascuna di esse ha (la tutela di interessi legittimi va portata innanzi al TAR e non al giudice civile). Le regole sulla giurisdizione Di fronte alle parti di una controversia, giudice deve anzitutto verificare di avere la giurisdizione e la competenza, ossia la sussistenza o meno del potere giurisdizionale. La giurisdizione è un presupposto processuale, cioè un presupposto che condiziona la decidibilità della causa nel merito (e la competenza è una species del genus giurisdizione). Se del caso, il giudice deve dichiarare l’assenza di giurisdizione; a tal fine, emetterà un provvedimento declinatorio della giurisdizione (può darsi che la giurisdizione spetti ad un altro giudice dell’ordinamento interno ovvero debba essere assegnata ad uno estero; può altresì del provvedimento che ha attribuito la cittadinanza onoraria a Bolsonaro, argomentando che questo provvedimento leda l’immagine della città. A questo punto si costituisce in giudizio il comune, il quale eccepisce (pone, cioè, delle difese contrarie a quelle degli attori) il difetto assoluto di giurisdizione e, in subordine, il difetto relativo: in primis, secondo il comune ci sarebbe una situazione di difetto assoluto di giurisdizione, dato che il consiglio comunale ha dei poteri politici incensurabili, tra cui rientra l’attribuzione della cittadinanza onoraria; tuttavia, così facendo, chi si sente leso da questa situazione non avrebbe alcuna forma di tutela giurisdizionale, che è un diritto fondamentale ex art. 24 Cost. Quindi, se si ritiene che la giurisdizione sussista, questa spetta al giudice amministrativo (si profila quindi un difetto di giurisdizione relativo). Il gruppo politico dei verdi aderisce all’azione proposta dagli attori e, inoltre, si fa promotore di un regolamento di giurisdizione (il regolamento giurisdizione è uno strumento preventivo, disciplinato dall’art. 41 c.p.c.); il processo viene quindi portato alla Corte di Cassazione perché questa si pronunci sulla giurisdizione: gli attori si difendono dicendo di essere andati innanzi al giudice civile perché la cittadinanza onoraria ha una matrice privatistica; invece secondo il comune, ai sensi dell’art. 7 del codice del processo amministrativo, gli atti del governo che hanno natura politica sono insindacabili (non possono essere oggetto di esamina del giudice amministrativo; l’atto politico è quindi sottratto alla giurisdizione del giudice amministrativo e, per relationem, è sottratta anche a quella del giudice civile). La Cassazione, quando ragiona su questioni di giurisdizione, si pronuncia a sezioni unite. Anzitutto, la Corte si chiede se ci sia il giudice e se questi abbia giurisdizione. Viene poi data una definizione astratta di difetto assoluto di giurisdizione (il difetto di giurisdizione è assoluto quando la domanda non può formare oggetto di cognizione giurisdizionale. In questo caso, tutti i giudicii devono farsi da parte, non avendo il potere di cognizione di giurisdizione). Il difetto assoluto c’è quando si vanno ad erodere i poteri che spettano ad altri organi (autodichia); ci sono anche altre situazioni di ingiustiziabilità dovute alla mancanza di una norma, tra cui rientra anche il caso dell’atto politico. Dobbiamo però essere cauti nel definire l’atto politico, perché tanto più la definizione è estensiva, tanto più verrà erosa la tutela giurisdizionale (la nozione di atto politico è di stretta interpretazione e ha carattere eccezionale). Sulla base delle pronunce precedenti, l’atto politico viene visto come un atto avente due requisiti: uno soggettivo, nel senso che l’atto deve provenire da un organo di vertice; l’altro, oggettivo, nel senso che l’atto deve essere libero nel fine, cioè, deve essere preposto alla salvaguardia dei pubblici poteri. Sulla base di questa definizione, la Corte arriva alla conclusione che l’atto attributivo della cittadinanza difetta di questi requisiti, trattandosi di un’onorificenza attribuita ad una persona. Nondimeno, la Corte perviene al difetto di giurisdizione perché manca una norma che renda giustiziabile quella certa situazione (non ci sono norme che regolano l’attribuzione della cittadinanza onoraria). Essendo il giudice sottoposto solo alla legge (art. 100 co. 2 Cost.), e non essendoci norme sulla cittadinanza onoraria, il giudice si trova davanti ad una situazione di ingiustiziabilità. Oltre a mancare la norma, quali sono le modifiche nella sfera giuridica del destinatario della cittadinanza onoraria? nessuna. Ancora, chi ha dato quel provvedimento subisce delle modifiche nella propria sfera giuridica? La risposa è sempre no. Gli attori hanno tanti strumenti democratici (coinvolgere la stampa, indire petizioni ect.) per manifestare il proprio dissenso; tuttavia, manca una norma astratta che renda giustiziabile quell’atto, che peraltro è privo di conseguenze giuridiche, sia da parte di chi lo dà, sia da parte di chi lo riceve. A chiusura della sentenza, la Cassazione afferma che, anche a fronte di un’onorificenza che opera solo sul piano simbolico, non può escludersi la garanzia di giustiziabilità e l’intervento del giudice comune, quando sono finalizzati a sanzionare le conseguenze di carattere illecito (nel caso in cui, ad esempio, il comune decidesse di attribuire la cittadinanza onoraria ad un criminale di guerra, dato che l’ente pubblico si porrebbe in una situazione illecita). Questo caso è un esempio di relatività delle sentenze. Caso n. 2: immunità giurisdizionale degli Stati stranieri nell’esercizio delle loro funzioni iure imperii (consuetudine internazionale che viene riconosciuta dall’Italia ai sensi dell’art. 10 Cost.) – La giurisdizione italiana sussiste nei confronti dello Stato straniero quando questo esercita funzione iure privatorum (cioè, funzioni che hanno una componente privatistica). Fattispecie Ferrini, reduce dai campi di concentramento, decide di fare causa allo Stato tedesco, domandando il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali (raccontando le violazione dei diritti umani subite nei lager). La Germania si costituisce in giudizio e invoca l’immunità dello Stato (che tutela la sovrana eguaglianza tra gli Stati: tra pari non si giudica – par in parem non iuidcium-). L’immunità è una questione preliminare che impedisce il giudizio. Con la sentenza n. 5044/2004, la Cassazione afferma che, quando il crimine consiste in un crimine internazionale, in una grave violazione dei diritti umani, l’immunità dello Stato non può essere riconosciuta. Invece, l’immunità era stata pensata in origine per qualsiasi attività di natura pubblicistica, come per esempio la conduzione della guerra. La Cassazione afferma che tale regola cede in presenza della commissione di gravi crimini internazionali. La proposta normativa introdotta dalla Cassazione non fu accolta dagli altri Stati, restando così isolata: la Germania convenne l’Italia di fronte alla Corte Internazionale di giustizia, dal momento che i giudici nazionali, non riconoscendogli l’immunità, continuavano a condannarla (i giudici italiani danno ragione a Ferrini e a casi ad esso simili, pur a fronte dell’art. 10 Cost. e delle convenzioni internazionali che riconoscono l’immunità giurisdizionali degli Stati nell’esercizio delle loro funzioni iure imperii- tra cui rientrano anche quelle relative alla conduzione delle operazioni belliche -). Infatti, non si può non giudicare di fronte a gravi violazioni dei diritti umani. La Corte internazionale di giustizia, analizzando la prassi, e constatando che la tesi della Corte di Cassazione era rimasta isolata, e, dunque, che la norma non era cambiata, condanna l’Italia nel 2012. L’Italia viene condannata, e ai sensi dell’art. 94 della Carta dell’Onu, deve conformarsi alla sentenza. In particolare, vi ottempera attraverso una legge che dà ordine ai tribunali di applicare, in relazione a casi simili a quello di Ferrini, l’immunità e di dichiarare il difetto di giurisdizione (legge n. 5/2013). Un giudice del tribunale di Firenze, letto il provvedimento, solleva la questione di legittimità costituzionale in quanto contrastante con gli art. 3 e 24 Cost., letti in combinato disposto con l’art. 2 Cost., che riconosce e garantisce i diritti inviolabili della persona umana. La Corte costituzionale, con la sentenza n.238/2014 fa due mosse: una verso l’ICJ, e una seconda contro l’ICJ. La Corte avrebbe potuto ricostruire la consuetudine, come aveva già fatto l’ICJ, ma non lo fa, e si rimette alla ricostruzione operata dall’ICJ, assumendola come un dato (certo). La Corte però si smarca dalla sentenza dell’ICJ quando dichiara che l’immunità opera sul piano processuale, mentre la tutela dei diritti umani opera sul piano sostanziale; infatti, la Corte cost. dichiara che entrambi gli aspetti tutelano la dignità umana: il diritto di accesso al giudice è parte integrante del diritto alla tutela dei diritti (tutela giurisdizionale ex art. 24 Cost). I due aspetti sono l’uno funzionale all’altro. Quindi, la Corte dichiara l’incostituzionalità dell’art. 3 della legge n.5/2005. La Germania, ritenendo non eseguibili quelle sentenze, rimane inizialmente ferma; tuttavia, appena le sentenze di condanna vengono azionate esecutivamente sugli immobili tedeschi, deposita nuovamente ricorso all’AIA. L’Italia, il giorno successivo, emana il d.l. 32/2022, che introduce una soluzione politica, istituendo un fondo cui può accedere chi aveva fatto causa ed aveva ottenuto un provvedimento condannatorio passato in giudicato. In questo fondo c’è un eccezione rispetto alla tutela di condanna: infatti, mentre normalmente la sentenza di condanna è eseguibile immediatamente ex art. 282 c.p.c., in questo caso la domanda di accesso a questo fondo può essere fatta solo una volta che la sentenza di condanna sia passata in giudicato. L’accesso a tale fondo costituisce estrinsecazione del principio di effettività della tutela giurisdizionale. I limiti che derivano dalla giurisdizione I limiti trovano un pronto riscontro in dati normativi. Quali sono i limiti che incontra il giudice? I limiti possono riguardare il convenuto (giurisdizione straniera e giurisdizione italiana). Tali limiti sono fissati da convenzioni internazionali, regolamenti della UE e dalla legge n. 218/1995 (artt. 3,4,5,11). Non conta il fatto che il convenuto sia straniero, bensì: a) se esiste una convenzione internazionale attributiva della giurisdizione italiana; b) se esiste un regolamento che prevede, in date materie, la giurisdizione italiana; c) in mancanza di regolamenti e convenzioni, guardo la legge n. 218/1995 – il soggetto convenuto deve essere domiciliato ovvero essere residente in Italia ovvero avere rappresentante autorizzato a stare in giudizio. In questo caso, la giurisdizione non c’è sempre, dato che le parti potrebbero averla derogata ad un giudice straniero (la deroga può essere reciproca, cioè, sia a favore del giudice italiano, anche in mancanza di particolari presupposti, sia nei confronti di un giudice straniero). In presenza di una deroga, è richiesto un patto derogatorio scritto (tuttavia, ai fini dell’accettazione della giurisdizione italiana è prevista anche un’accettazione tacita). Il giudice dovrà eccepire d’ufficio la mancanza di giurisdizione in caso di contumacia (il convenuto non si è costituito); nell’ipotesi in cui la domanda abbia ad prime non può rilevare, successivamente, nel giudizio impugnatorio, il difetto di giurisdizione (principio di responsabilità – è l’attore che ha scelto di andare davanti a quel giudice, e ne deve patire le conseguenze – nessun soggetto processuale può cercare di portare a proprio vantaggio la nullità che lui stesso ha creato – principio di responsabilità). 6/10/2023 – regolamento di giurisdizione Regolamento di giurisdizione La norma di riferimento del regolamento di giurisdizione è l’art. 41 c.p.c., che è vicina ad un'altra norma, l’art. 42 c.p.c., relativo invece al regolamento di competenza. Il regolamento di giurisdizione ex art. 41 c.p.c. è uno strumento di carattere preventivo lasciato alle parti al fine di chiarire il punto di giurisdizione in modo vincolante. Il regolamento di competenza ex art. 42 c.p.c. un normale meccanismo di impugnazione. Caso n.1 – cittadinanza onoraria all’ex presidente Bolsonaro I verdi si erano fatti portatori del regolamento di giurisdizionale, cioè, di un meccanismo preventivo mediante il quale il procedimento viene deferito direttamente in Cassazione affinché questa si pronunci direttamente sulla giurisdizione (infatti, la principale funzione della Corte di Cassazione è quella di dirimere i conflitti di giurisdizione). Art. 41 co.1 c.p.c. Finché la causa non sia decisa nel merito [finché la decisione non incide su diritti sostanziali] in primo grado, ciascuna parte può chiedere alle sezioni unite della Corte di cassazione che risolvano le questioni di giurisdizione di cui all'articolo 37. L'istanza si propone con ricorso a norma degli articoli 364 e seguenti, e produce gli effetti di cui all'articolo 367. Dalla semplice lettura della norma, appare chiaro che il regolamento di giurisdizione possa essere utilizzato prima della decisione nel merito (cioè, della decisione che si pronuncia sull’esistenza o meno del diritto sostanziale dedotto in giudizio); viceversa, il regolamento di giurisdizione sembrerebbe poter essere utilizzabile anche in presenza di decisioni di rito (che, cioè, riguardano l’andamento del processo; un esempio è la declinatoria di giurisdizione). Tuttavia, la Cassazione ha dato un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 41 c.p.c., in particolare, compatibile con il principio della ragionevole durata del processo. A tal fine, interpreta la norma nel senso che in presenza di qualsiasi tipo di decisione (sia di rito, sia di merito) non è possibile utilizzare il regolamento di giurisdizione. Il regolamento va quindi chiesto appena il processo è partito e appena si profila il problema del difetto di giurisdizione. Il regolamento di giurisdizione può essere chiesto da tutte le parti (il regolamento di giurisdizione è uno strumento preventivo riservato alle parti). Anche l’attore può chiedere il regolamento (nonostante il principio di responsabilità, per il quale l’attore non può lamentarsi del giudice che lui stesso adito; tuttavia, il principio di responsabilità impone che l’attore non possa lamentarsi del giudice adito solo in sede impugnatoria), dal momento che, quando sorge la controversia sulla giurisdizione, anch’egli potrebbe ritenere di non aver adito il giudice corretto. Ecco che allora si consente l’utilizzo dello strumento preventivo anche all’attore. Quando si propone il regolamento di giurisdizione possono succedere due cose: o il processo viene sospeso, oppure prosegue. Quando viene proposto il regolamento di giurisdizione, il giudice del merito (cioè, il giudice di primo grado investito della controversia e al quale viene proposto il regolamento di giurisdizione) decide se il suo processo si sospende oppure no. Invece, prima era sempre prospetta la sospensione automatica (ex lege) del processo di prime cure, in attesa che la Cassazione avesse statuito sulla giurisdizione, dal momento che la giurisdizione è un presupposto processuale. Se la Cassazione avesse prospettato il difetto assoluto di giurisdizione, il processo si sarebbe bloccato definitivamente; viceversa, se veniva prospettato un difetto relativo, la questione veniva trasferita ad un altro giudice; infine, il processo poteva proseguire se non veniva rilevato il difetto. Il regolamento di giurisdizione finiva però per utilizzato per prolungare oltre misura la durata del processo, soprattutto quando a chiederlo era l’avvocato della parte che aveva torto (finché la causa pende, la causa rende). Questo era un esempio di abuso del processo (così come il frazionamento del credito, finalizzato alla moltiplicazione delle parcelle dell’avvocato). Proprio per evitare un simile esito, il legislatore ha stabilito che sia il giudice del merito dove nasce la questione di giurisdizione a stabilire se il processo si ferma o meno, sulla base del giudizio prognostico da questi fatto in merito alla fondatezza delle motivazioni che stanno alla base del regolamento di giurisdizione; in altri termini, se il regolamento di giurisdizione è infondato, il giudice non fermerà il processo; viceversa, interromperà la sua attività (salvo provvedimenti d’urgenza) se le ragioni sono fondate. Tuttavia, se il giudice del merito decide di proseguire, arrivando ad una decisione di merito, e nel frattempo la Cassazione si è pronunciata, dichiarando che non c’è giurisdizione, la sentenza del giudice del merito decade. Quindi la scelta del giudice è sottoposta ad una condizione risolutiva che la Cassazione non si pronunci nel senso di rilevare un difetto di giurisdizione (tutta l’attività del giudice è condizionata dall’esito della Cassazione). Generalmente, il giudice del merito va avanti nel processo quando constata l’infondatezza delle motivazioni che stanno alla base della presentazione del regolamento di giurisdizionale. Per cui, la situazione sopradescritta appare difficile da verificarsi. Viceversa, se il giudice di cassazione arriva alla conclusione che la giurisdizione spetta ad un altro plesso giurisdizionale (difetto relativo di giurisdizione), avremmo la possibilità di trasferire il processo al plesso giurisdizionale corretto, attraverso lo strumento della translatio iudicii, con conseguente salvezza gli effetti del processo (sempre che sia stato riassunto nei tempi previsti dalla legge). Infine, se la cassazione statuisce che non c’è difetto di giurisdizione, il processo riprenderà presso il giudice del merito. Il regolamento di giurisdizione d’ufficio Il regolamento d’ufficio è entrato in auge con l’entrata in vigore la legge n .69/2009 e il codice del processo amministrativo, in relazione al problema della translatio iudicii. Prima di allora, i plessi giurisdizionali interni erano impermeabili, cioè, non comunicavano tra di loro (incomunicabilità). Oggi, invece, le giurisdizioni possono comunicare tra loro attraverso lo strumento della translatio iudicii. Per cui, se si va dinanzi al giudice giurisdizionalmente non competente, è possibile (in presenza di un difetto relativo) portare il processo istaurato malamente innanzi al giudice che ha giurisdizione, con salvezza degli effetti processuali e sostanziali della domanda. Tuttavia, il giudice adito successivamente dal precedente plesso giurisdizionale privo di giurisdizione potrebbe pensare a sua volta, motivandolo, di non avere la giurisdizione. In questo caso le prospettive sono due: a) il giudice adito successivamente può a sua volta declinare la giurisdizione; tuttavia, ciò non è possibile, sia con la giurisdizione, sia con la competenza. b) oppure, proprio per evitare le continue declinatorie di giurisdizione, il legislatore, utilizzando lo stesso meccanismo previsto per la competenza (regolamento di competenza), ha introdotto il regolamento di giurisdizione d’ufficio. Mediante questo strumento il giudice adito successivamente (cioè, quello davanti al quale è stata riproposta la domanda), quando ritiene a sua volta di non essere giurisdizionalmente competente, può chiedere alla cassazione di risolvere il problema della giurisdizione. “Ogni giudice è giudice della propria competenza”: un giudice di merito non può stabilire le competenze di altri magistrati (può esprimere delle opinioni, ma la decisione di un giudice di merito non vincola un altro giudice). Mentre il regolamento preventivo di giurisdizione ex art. 41 c.p.c. è riservato alle parti, il regolamento di giurisdizione d’ufficio, introdotto dalla legge n.69/2009 e dal codice del processo amministrativo, è uno strumento che può utilizzare solo il giudice che ritiene di non avere la giurisdizione. Il regolamento d’ufficio è chiesto dinanzi alla Corte di Cassazione. Se le parti sono d’accordo nel dire che la giurisdizione davanti ad un giudice non c’è, si potrà utilizzare lo strumento della translatio iudiciii, modellato sull’art. 50 c.p.c. (previsto per la competenza), portando il processo al giudice ritenuto giurisdizionalmente competente; e se il giudice adito avrà il dubbio di non avere la giurisdizione, potrà fare regolamento di giurisdizione d’ufficio. 9/10/2023 – la competenza La competenza è una frazione di giurisdizione: il giudice deve anche stabilire se ha una frazione del potere giurisdizionale detta competenza. Sul territorio abbiamo tanti giudici di merito, di pace e una sola Cassazione. Quando s’instaura una causa, dopo aver stabilito la sussistenza della giurisdizione, bisogna accertare la competenza. Come si determina la competenza? 3 criteri tradizionali ● Materia ● Valore ● Territoriale La competenza per materia e per valore è la prima da dover stabilire. In primo grado, rispetto alla controversia, da quale giudice potrei teoricamente andare? Giudice di pace o tribunale. In primo grado, la competenza spetta o al giudice di pace o del tribunale. Fino agli anni ’90 c’era anche la figura del pretore, organo che è stato abolito e le relative competenze sono passate in capo al tribunale. In base a cosa scelgo se andare dal giudice di pace o dal tribunale? Art. 22 c.p.c. È competente il giudice del luogo dell'aperta successione [456 c.c.] per le cause (1): 1) relative a petizione [533 c.c.] o divisione di eredità [12, 784 c.c.; 713 c.c.] e per qualunque altra tra coeredi fino alla divisione; 2) relative alla rescissione della divisione [763 c.c.] e alla garanzia delle quote [758 c.c.], purché proposte entro un biennio dalla divisione; 3) relative a crediti verso il defunto [752 c.c.] o a legati dovuti dall'erede [762 c.c.], purché proposte prima della divisione e in ogni caso entro un biennio dall'apertura della successione; 4) contro l'esecutore testamentario, purché proposte entro i termini indicati nel numero precedente. Se la successione si è aperta fuori della Repubblica, le cause suindicate sono di competenza del giudice del luogo in cui è posta la maggior parte dei beni situati nella Repubblica, o, in mancanza di questi, del luogo di residenza [43 c.c.] del convenuto o di alcuno dei convenuti (2). Art. 23 c.p.c. Per le cause tra soci [2247 c.c.] è competente il giudice del luogo dove ha sede la società [19; 46 c.c.] (1) (2) (3); per le cause tra condomini ovvero tra condomini e condominio, il giudice del luogo dove si trovano i beni comuni o la maggior parte di essi (4). Tale norma si applica anche dopo lo scioglimento della società o del condominio, purché la domanda sia proposta entro un biennio dalla Art. 25 c.p.c.: foro erariale Per le cause nelle quali è parte un'amministrazione dello Stato [solo l’amministrazione dello Stato, non quella comunale, regionale ect.] è competente, a norma delle leggi speciali sulla rappresentanza e difesa dello Stato in giudizio e nei casi ivi previsti, il giudice del luogo dove ha sede l'ufficio dell'Avvocatura dello Stato, nel cui distretto si trova il giudice che sarebbe competente secondo le norme ordinarie. Quando l'amministrazione è convenuta, tale distretto si determina con riguardo al giudice del luogo in cui è sorta o deve eseguirsi l'obbligazione o in cui si trova la cosa mobile o immobile oggetto della domanda Questo foro nasce per una ragione tecnica: le amministrazioni dello Stato sono difese dall’avvocatura dello stato. dato che l’avvocatura dello stato si trova solo nel capoluogo del distretto di corte d’appello, quando è parte un’amministrazione dello stato, potrebbe esserci uno spostamento per quanto riguarda l’individuazione del tribunale territorialmente competente (se normalmente il tribunale competente territorialmente è il tribunale di Monza, se la parte è un amministrazione dello stato, si va al tribunale di Milano). Questa disposizione è problematica, dato che si parla di tribunale; per cui, questa disposizione non si applica per i giudici innanzi il giudice di pace. Tuttavia, una decisione del giudice di pace, se non condivisa dal soggetto soccombente, può essere impugnata, e l’impugnazione si fa al tribunale. In questo caso, può venire in rilievo il foro erariale, e può capitare ch’esso sfugga. Per questo motivo, avverso le impugnazioni delle decisioni del giudice di pace, si fa comunque riferimento alla regola generale sulla competenza territoriale, anche quando una parte è un amministrazione dello Stato (in altri termini, in questo caso non si applica l’art. 25 c.p.c.). Deroghe alle regole sulla competenza È possibile derogare le norme di competenza? Ci sono forme di competenza territoriale che non possono mai essere derogate, e tale impossibilità è stabilità dalla legge. V. art. 28 c.p.c. La competenza per territorio può essere derogata per accordo delle parti, salvo che per le cause previste nei nn. 1, 2, 3 e 5 dell'articolo 70 [intervento in causa del pubblico ministero], per i casi di esecuzione forzata, di opposizione alla stessa, di procedimenti cautelari [la tutela cautelare trova la sua disciplina nel Libro IV del codice di procedura civile] e possessori, di procedimenti in camera di consiglio e per ogni altro caso in cui l'inderogabilità sia disposta espressamente dalla legge [ad esempio, il caso del foro erariale ex art. 25 c.p.c.]. Ad eccezione di queste materie, la competenza territoriale è derogabile. La competenza territoriale si divide, sotto questo aspetto, tra competenza territoriale forte (cioè, quella di cui all’art. 28 c.p.c. La competenza inderogabile è anche detta competenza territoriale funzionale) e competenza territoriale debole (ossia, derogabili). La deroga alle regole sulla competenza può riguardare solo il territorio (la materia ed il valore sono inderogabili), e la norma di riferimento è l’art. 29 c.p.c. Art. 29 c.p.c. L'accordo delle parti per la deroga della competenza territoriale deve riferirsi ad uno o più affari determinati e risultare da atto scritto. L'accordo non attribuisce al giudice designato competenza esclusiva quando ciò non è espressamente stabilito [altrimenti si aggiunge solo un foro facoltativo]. L’incompetenza La norma di riferimento è l’art. 38 c.p.c. Quando scegliamo il giudice competente ci atteniamo ad una serie di regole. Questo è il carattere statico della competenza. Invece, l’incompetenza attiene a profili dinamici, relativi cioè al caso in cui si va innanzi al giudice incompetente. Per comprendere l’art. 38 c.p.c. bisogna conoscere la dinamica del processo di cognizione. La dinamica del processo (in particolare in primo grado) è stata cambiata dalla riforma Cartabia; inoltre, questa riforma ha introdotto il rito semplificato (la causa deve essere instaurata in modo diverso a seconda che essa sia semplice o difficile). Le modalità di introduzione della domanda giudiziale sono due: atto di citazione o ricorso. L’atto di citazione è un atto introduttivo del giudizio, nel quale l’attore deve individuare alcuni elementi della causa (giudice competente, le parti, i fatti sulla base dei quali chiedo, cosa voglio, la vocatio in ius, sottoscrizione). La vocatio in ius è la chiamata in giudizio: quando l’attore cita in giudizio una persona, l’attore deve consentire al convenuto un arco temporale sufficientemente ampio (120 gg. Dal momento della notificazione dell’atto) per permettergli di organizzare la propria difesa. Se il convenuto non si costituisce, il giudizio si proseguirà in contumacia. Quindi, la vocatio in ius consente al convenuto di essere parte attiva nel processo. ● L’atto di citazione va notificato. Esso deve indicare la data di udienza, fissata dall’attore stesso (con un tempo di almeno 120gg). ● La riforma Cartabia ha cambiato le modalità di costituzione del convenuto, stabilendo che il convenuto debba costituirsi almeno 70 giorni prima della data indicata nell’atto di citazione. Il rito con ricorso è un procedimento di cognizione semplificato, cui il legislatore dedica 4 norme. Il ricorso ha una dinamica diversa rispetto all’atto di citazione; infatti, sebbene alcuni elementi siano simili a quelli dell’atto di citazione, il ricorso deve essere prima depositato presso la cancelleria del tribunale. A questo punto, il giudice fissa la data dell’udienza con decreto (nel ricorso manca la vocatio in ius). Solo a questo punto il ricorso ed il decreto del giudice vengono notificati al convenuto. Il rito semplificato si usa obbligatoriamente se la causa è semplice. Il convenuto dovrà costituirsi almeno 20 gg prima della data d’udienza. In presenza di un atto di citazione, la costituzione deve avvenire almeno 70 gg prima dell’udienza. In presenza di un ricorso, la costituzione del convenuto avviene 20 gg prima dell’udienza. Diverse possono essere le modalità introduttive; diverse possono essere le modalità di costituzione del convenuto. L’art. 38 c.p.c. va quindi pensato sia rispetto all’atto di citazione, sia rispetto al procedimento semplificato. L’art. 38 c.p.c. è stato riformato varie volte. Nel disegno originario, alcune forme di incompetenza potevano essere rilevate in ogni stato e grado del procedimento. Se il convenuto è citato in giudizio innanzi ad un giudice incompetente, questi deve segnalare l’incompetenza secondo una precisa tempistica, la quale è indicata nell’art. 38 c.p.c. nella maggior parte dei casi, il giudice può rilevare d’ufficio la propria incompetenza; tuttavia, i rilievi di incompetenza sono riservati nei primi atti del processo. In caso contrario, la causa rimarrà incardinata su un giudice astrattamente incompetente. Le nuove regole sulla competenza non violano il principio di cui all’art. 25 Cost., dato che il nuovo art. 38 c.p.c. non disconosce tale principio; tuttalpiù, in nome del principio del giusto processo e della ragionevole durata del processo, esso afferma che il difetto di competenza non può più essere rilevato dopo una certa tempistica. Art. 38 c.p.c. “L'incompetenza per materia, quella per valore e quella per territorio sono eccepite, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta tempestivamente depositata. L’eccezione di incompetenza per territorio si ha per non controversia). Le la domanda chiede una certa somma (pari, per esempio, a 9500 euro) più interessi e spese pregresse, vado dal tribunale (e non dal giudice di pace). Quindi, bisogna guardare non solo al capitale, ma anche agli interessi e alle spese pregresse. La competenza per valore segna anche la soglia massima richiedibile al giudice (il giudice di pace non può dare più di 10.000 euro ovvero 25.000 euro). Nei processi con una sola parte convenuta ed una sola parte attrice, questi può rivolgere nei confronti del primo più domande. Le singole somme richieste in ogni domanda si sommano tra loro, anche se le somme di ogni singola domanda sarebbe singolarmente di competenza del giudice di pace. Nei processi litisconsortili, in cui ci sono diversi soggetti che stanno insieme per una questione di connessione, le singole somme richieste (le domande) dall’attore per ciascun convenuto, anche con un unico atto, non si sommano, in quanto ci sono più soggetti convenuti. Tuttavia, le singole cause possono essere riunite in un unico processo (in altri termini, quando c’è ragione di connessione, più cause proposte in singoli processi nei confronti di soggetti diversi si unificano in un unico processo, ma le singole domande non si sommano perché proposte con atti diversi). In presenza di obbligazioni solidali, in cui ciascun debitore risponde per l’intera obbligazione, si rientra nei casi dell’art. 10 c.p.c. (le domande proposte, anche con un unico atto, nei confronti di più soggetti non si sommano) In presenza di obbligazioni parziari, in cui ciascun debitore è tenuto a pagare la propria quota parte (ad esempio, ciascun eredi risponde dei debiti del de cuius nei limiti della propria quota ereditaria), il valore si determina dall’intera obbligazione. Sempre rispetto alla competenza territoriale è rilevante il concetto di foro Foro esclusivo, che non è una competenza territoriale inderogabile; infatti, i fori esclusivi sono scelti a preferenza di altri fori, ma ciò non esclude un accordo delle parti I fori generali operano al di fuori dei casi dei fori esclusivi. Gli articoli di riferimento sono il 18 (convenuto persona fisica: il foro generale è la residenza o il domicilio, che sono fori concorrenti, mentre in subordine viene la dimora. Altrimenti, ha competenza il giudice del luogo in cui risiede l’attore) ed il 19 c.p.c. (convenuto persona giuridica: I fori facoltativi sono indicati nell’art.20 c.p.c.: “Per le cause relative a diritti di obbligazione è anche (1) competente il giudice del luogo in cui è sorta o deve eseguirsi l'obbligazione dedotta in giudizio”. Per determinare il foro di contratto in cui è sorta l’obbligazione si guarda l’art. 1326 c.c.: “Il contratto è concluso nel momento in cui chi ha fatto la proposta ha conoscenza dell'accettazione dell'altra parte”. In presenza da obbligazione da illecito si va a guardare l’art. 2043 c.c. Per determinare il luogo in cui deve eseguirsi l’obbligazione vado a vedere l’art.1182 c.c. “Se il luogo nel quale la prestazione deve essere eseguita non è determinato dalla convenzione, o dagli usi e non può desumersi dalla natura della prestazione o da altre circostanze, si osservano le norme che seguono. L'obbligazione di consegnare una cosa certa e determinata deve essere adempiuta nel luogo in cui si trovava la cosa quando l'obbligazione è sorta. L'obbligazione avente per oggetto una somma di danaro deve essere adempiuta al domicilio che il creditore ha al tempo della scadenza. Se tale domicilio è diverso da quello che il creditore aveva quando è sorta l'obbligazione e ciò rende più gravoso l'adempimento, il debitore, previa dichiarazione al creditore, ha diritto di eseguire il pagamento al proprio domicilio. Negli altri casi l'obbligazione deve essere adempiuta al domicilio che il debitore ha al tempo della scadenza”. L’art. 20 c.p.c. non è esaustiva, ma bisogna andare a guardare le norme del Libro II del codice civile. Il convenuto che vuole eccepire il difetto di competenza è l’art. 38 c.p.c. Anzitutto, questi deve essere tempestivo nel rilievo di competenza, nella primo atto difensivo (comparsa di costituzione nel processo di cognizione); in aggiunta, il convenuto deve costituirsi in termini (nel giudizio ordinario di cognizione almeno 70 gg prima della data d’udienza), nonché indicare il giudice che si ritiene competente, indicando, in presenza di difetti di competenza territoriale, tutti i possibili profili di competenza (affinché possa essere offerta l’opportunità, in presenza di un accordo con l’attore, di traslare il processo innanzi al giudice competente, salvando gli effetti sostanziali e processuali della domanda). La Cassazione interpreta la norma in molto rigoroso, nel senso che, se il giudice non rileva l’eccezione di incompetenza entro la prima udienza, la causa viene incardinata su di lui. Il giudice non può rilevare l’incompetenza per territorio semplice (derogabile, anche perché l’accordo di deroga può essere anche implicito, quando il convenuto, adito davanti al giudice incompetente, si difende nel merito senza fare l’eccezione di incompetenza), potendo rilevare solo l’incompetenza per territorio funzionale (cioè, quella complessa), per materia e per valore. Il regolamento di competenza Il regolamento di competenza è uno strumento che si lega alla competenza, ma ha una sua particolarità: è infatti un mezzo di impugnazione ordinario dei provvedimenti che concernono la competenza, se usato dalle parti (se ne fruisce il giudice, invece, perderà la natura di mezzo impugnatorio). Le norme di riferimento sono gli artt. 42,43,44,45 c.p.c. Regolamento di competenza come mezzo di impugnazione In questo caso distinguiamo due casi: regolamento di competenza necessario e un regolamento di competenza facoltativo. Regolamento di competenza necessario Quello necessario non è obbligatorio, bensì è l’unica via che la parte ha per contestare sulla competenza quel provvedimento. L’eccezione di incompetenza rilevata dalla parte può essere accolta dal giudice. In questo caso, il giudice emetterà una declinatoria di competenza, mancando un presupposto processuale. Quando si chiude il processo, il giudice utilizza lo strumento della sentenza. Tuttavia, se il giudice fa una declinatoria di competenza, emette un ordinanza, che chiude il processo. Se l’accordo derogatorio della competenza non viene raggiunto (e, quindi, non si addiviene alla translatio iudicii), l’attore può impugnare l’ordinanza con il regolamento di competenza. In questo caso, il regolamento di competenza diventa l’unico mezzo di cui la parte può disporre per dolersi della decisione del giudice. Sarà poi la Cassazione ha stabilire se sussiste o meno la competenza e la decisione della Suprema corte è vincolante. Regolamento di competenza facoltativo Quando viene sollevata una questione di incompetenza, il giudice non è tenuto a rispondere subito sulla stessa. Solo una volta entrato nella fase decisoria, il giudice, memore delle eccezione di incompetenza mossa dal convenuto, andrà ad analizzarla. Entrato nella fase di merito, emetterà la sentenza, che avrà contenuti plurimi (c.d. capi): il giudice si pronuncerà su ogni profilo (capo) che è stato proposto. La sentenza non decide solo sulla competenza, bensì su vari profili (tra cui rientra anche la competenza). In questo caso, la parte soccombente può dolersi di ogni profilo sui cui il giudice si è pronunciato. La parte soccombente potrebbe fare un impugnazione ordinaria in appello (se la sentenza è di primo grado) su qualunque capo della sentenza (anche quello relativo alla competenza). Tuttavia, se si sceglie di discutere della competenza in sede d’appello, si corre il rischio di prolungare ulteriormente i tempi del processo (con il rischio di arrivare in Cassazione e che questa dichiari l’incompetenza). Quindi, è possibile chiedere direttamente alla Cassazione di pronunciarsi sulla competenza. In questo caso, il regolamento entra in concorrenza con l’altro mezzo impugnatorio. Il regolamento di competenza deve essere fatto entro 30 gg dalla comunicazione del provvedimento (parte prima chi vuole fare il regolamento). Se la parte vuole dolersi solo della questione di competenza, questa non può fare l’appello, perché in quel caso si spendono altri profili della sentenza. Se ci sono altre questioni da risolvere, il regolamento di competenza prevarrà sulle altre questioni perché la competenza è un presupposto processuale. Restano sospesi i termini per impugnare gli altri profili della sentenza di cui l’altra parte vorrebbe dolersi. Infatti, se la Cassazione dichiara che non c’è competenza, non ci sarebbe, per l’altra parte, la necessità di proporre impugnazione, dato che la decisione della Cassazione travolge anche i capi di merito della sentenza (c.d. effetto espansivo interno della sentenza). Per impugnare bisogna avere interesse ad impugnare: se la sentenza dà torto nella competenza, ma dà ragione nel merito al convenuto, questi che interesse ha nel proporre il regolamento di competenza? È chiaro che, se ha avuto ragione nel merito, il convenuto si guarderà bene dal fare il regolamento di competenza. Ad impugnare sarà in quel caso l’attore, che farà un impugnazione ordinaria in appello (dato che ha perso nel merito). A questo punto, il convenuto, se pensa di avere torto nel merito, potrebbe andare in appello proponendo un impugnazione incidentale sulla competenza. Tuttavia, se il convenuto ha portato avanti l’eccezione di competenza solo per non discutere nel merito, questi farà il regolamento di competenza. In questo caso, il regolamento parte dopo rispetto all’impugnazione dell’attore. In questo caso, non si sospendono i termini di impugnazione ordinaria, bensì il giudizio di appello (per via dell’effetto espansivo interno della sentenza della Cassazione). L’impugnazione ordinaria potrà essere fatta quando all’eccezione di incompetenza si accompagnano anche questioni di merito. Quando si impugna bisogna avere interesse ad impugnare; cioè, bisogna impugnare nell’ottica che ciò metta la parte che si duole in una posizione migliore. non agisce direttamente la parte, bensì un altro soggetto, che compie atti processuali in sua rappresentanza (cioè, un soggetto agisce in nome – spendita del nome- e per conto del rappresentato, con la conseguenza che gli effetti giuridici degli atti posti in essere dal rappresentante si produrranno direttamente in capo al rappresentato). In questo caso, c’è una diversità immediata di soggetti. Quindi, bisogna guardare se l’atto è posto in essere nell’interesse del soggetto rappresentante o del rappresentato. Un’altra situazione problematica è rappresentata dal meccanismo della sostituzione processuale; di norma, si può agire in giudizio per tutelare una situazione giuridica propria. Tuttavia, ci sono rare situazioni in cui la legge, in casi espressamente tipizzati, consente ad un soggetto di tutelare una situazione giuridica altrui (la norma di riferimento è l’art. 81 c.p.c.). Quindi, nel caso della sostituzione di persona, si agisce in nome proprio per far valere un diritto altrui (non c’è la spendita del nome del rappresentato). Un esempio di sostituzione di persona è l’azione surrogatoria ex art. 2900 c.c. (quando un creditore, che è a sua volta debitore di un altro creditore, è inerte nel recupero del proprio credito, è possibile esercitare l’azione surrogatoria in sua vece – del debitore-). Art. 2900 c.c. Il creditore, per assicurare che siano soddisfatte o conservate le sue ragioni, può esercitare i diritti e le azioni che spettano verso i terzi al proprio debitore e che questi trascura di esercitare, purché i diritti e le azioni abbiano contenuto patrimoniale e non si tratti di diritti o di azioni che, per loro natura o per disposizione di legge, non possono essere esercitati se non dal loro titolare. Quando si fa riferimento al petitum e alla causa petendi (criterio oggettivo), la questione è più complessa. Il petitum si distingue a sua volta in petitum mediato ed immediato: il petitum immediato è il provvedimento che l’attore chiede al giudice (ad esempio, la consegna di una cosa, la condanna all’adempimento di una certa prestazione rimasta inadempiuta ect.); il petitum mediato viene definito da Chiovenda come il bene della vita oggetto di tutela, ossia l’oggetto di tutela (il diritto detto in giudizio; ad esempio, quella certa cosa oggetto della controversia che voglio venga consegnata, la prestazione rimasta inadempiuta ect.). In altri termini, l’attore chiede al giudice un certo provvedimento (petitum immediato) avente ad oggetto una certa tutela (petitum mediato). Infine, per causa petendi s’intendono le ragioni, in fatto ed in diritto, (fatti costitutivi) che l’attore pone alla base della propria richiesta di tutela. Tuttavia, dato che le ragioni di diritto non sono vincolanti per il giudice (la ricostruzione giuridica fatta dalla parte non è vincolante per i giudice), la causa petendi si concreta in fatto delle sole ragioni in fatto (che al contrario sono vincolanti per il giudice, dato che segnano il perimetro di quello che il giudice può riconoscere o meno). La norma di riferimento della causa petendi è l’art. 163 co.3 n.4 c.p.c. L’art. 163 co.3 n.4 c.p.c. L’atto di citazione deve contenere: 4.l'esposizione in modo chiaro e specifico dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda, con le relative conclusioni; Per aversi identità della causa, tutti gli elementi della litispendenza devono essere presenti, altrimenti si tratta di un caso di connessione. In presenza di un ipotesi di litispendenza, se due giudici si pronunciano su una fattispecie, è normale che possa verificarsi un ipotesi di contrasto di giudicati, con tutte le problematiche che ciò comporta. Inoltre, la litispendenza comporta uno spreco di attività processuale. Quindi, la ratio dell’art. 39 c.p.c. è l’evitare la duplicazione dei giudicati (il ne bis in idem), nonché uno spreco di attività processuale. Ai sensi dell’art. 39 c.p.c., la litispendenza è rilevabile sia dalle parti, sia d’ufficio con ordinanza. Il giudice successivamente adito, che può prendere il provvedimento e rilevare la litispendenza, è colui al quale viene notificato posteriormente lo stesso atto di citazione. Invece, se l’atto introduttivo è rappresentato dal ricorso, il dato rilevante ai fini dell’individuazione del giudice successivamente adito è la data di deposito. Il giudice successivamente adito, su istanza di parte o d’ufficio, dichiarerà la litispendenza (anche in questo caso) con ordinanza (che chiude il processo) e ordinerà la cancellazione della causa a ruolo (cioè, la cancellazione dal ruolo del giudice). Se l’atto introduttivo del processo è l’atto di citazione, la prima cosa da fare è portare a conoscenza il destinatario della citazione. Ciò avviene attraverso lo strumento della notificazione. Oggi, la notificazione può avvenire, in alcuni casi, attraverso modalità telematiche. Una volta notificato al destinatario (e, quindi, una volta che questi ne sia portato a conoscenza), l’atto di citazione viene poi depositato presso il tribunale; cioè, si chiede l’iscrizione della causa a ruolo (alla causa viene assegnato un numero). In quel momento, il cancelliere si fa carico dell’iscrizione chiesta dell’attore; sarà poi il presidente del tribunale, una volta individuata la sezione specializzata del tribunale, a nominare il giudice istruttore che se ne dovrà occupare. Può il giudice successivamente adito trattenere la causa se il giudice anteriormente adito è incompetente? o, in quanto, ai sensi del principio kompetenz- kompetenz, il giudice non può valutare la competenza di un altro giudice, dovendo invece solo stabilire se sussiste una situazione di litispendenza. Queste regole specifiche sulla litispendenza (la cancellazione della causa a ruolo) si applicano solo quando si hanno uffici giudiziari diversi. Invece, se l’ufficio giudiziario fosse uno solo, non si avrebbe una situazione di litispendenza, bensì di unione delle cause (il giudice unisce le cause e non si verifica il meccanismo di cancellazione previsto dall’art. 39 co.1 c.p.c.). La parte può lamentarsi del provvedimento del giudice sulla litispendenza? Sì, attraverso lo strumento del regolamento di competenza, che può essere utilizzato anche quando il giudice dichiara la litispendenza ovvero sospende il processo. La litispendenza interna è disciplinata dall’art. 39 co.1 c.p.c. possono tuttavia sussistere situazioni di litispendenza comunitaria (giudice italiano e giudice di uno stato membro dell’UE) o internazionale (giudice italiano e giudice estero). Nel caso della litispendenza internazionale, fino a qualche anno fa, ai sensi della regola sull’inderogabilità della giurisdizione, il giudice italiano non doveva dichiarare la litispendenza. Oggi, invece, il giudice può riconoscere la pendenza della causa presso un giudice straniero se c’è un eccezione di parte (e non anche una rilevazione d’ufficio, secondo quanto previsto per la litispendenza interna e comunitaria), nonché se il giudice straniero (non) ha declinato la propria giurisdizione o se il giudice italiano riconosce che il provvedimento straniero è idoneo a produrre effetti nell’ordinamento italiano (in caso contrario, il giudice sospende il giudizio; il mancato riconoscimento del provvedimento straniero si verifica quando, ad esempio, esso è contrario all’ordine pubblico). La norma di riferimento è l’art. 7 legge n.218/1995 sul diritto internazionale privato. Quando, nel corso del giudizio, sia eccepita la previa pendenza tra le stesse parti di domanda avente il medesimo oggetto e il medesimo titolo dinanzi a un giudice straniero, il giudice italiano, se ritiene che il provvedimento straniero possa produrre effetto per l'ordinamento italiano, sospende il giudizio. Se il giudice straniero declina la propria giurisdizione o se il provvedimento straniero non è riconosciuto nell'ordinamento italiano, il giudizio in Italia prosegue, previa riassunzione ad istanza della parte interessata, il giudizio in Italia prosegue, previa riassunzione ad istanza della parte interessata. Nel caso della litispendenza comunitaria, ossia quando la stessa causa pende presso un giudice di uno Stato membro dell’UE, si applica il regolamento UE del 2012 che stabilisce, a sua volta, negli artt.29 ss., delle regole in base alle quali, ad esempio, il rilievo della litispendenza può essere fatto anche d’ufficio. La domanda giudiziale L’identificazione della domanda giudiziale si trova in tanti aspetti. Nel codice civile c’è una norma, l’art. 2907 c.c., in base alla quale alla quale “alla tutela giurisdizionale dei diritti provvede l'autorità giudiziaria su domanda di parte e, quando la legge lo dispone, anche su istanza del pubblico ministero”. Questa norma si collega all’art. 99 c.p.c. (“Chi vuole far valere un diritto in giudizio deve proporre domanda al giudice competente”) L’attività giurisdizionale non si muove mai d’ufficio, bensì occorre sempre una specifica domanda. Il giudice non può mettere in moto in autonomia il meccanismo di tutela, ma, al contrario, questi è sempre sollecitato da un istanza di parte; solo in casi marcati da una radice pubblicistica (o anche privatistica), il giudice può agire su iniziativa del pubblico ministero. Questo è il principio dispositivo sostanziale di cui agli artt. 2907 c.c. e 99 c.p.c. il codice civile prevedeva originariamente un caso di tutela giurisdizionale d’ufficio; inoltre, anche la legge fallimentare prevedevano un meccanismo di tutela ex offcio. Oggi, ci sono provvedimenti, riguardanti la dichiarazione di inabilitazione e di interdizione, che il giudice può avviare d’ufficio, ma, rispetto ad essi, deve comunque sussistere una domanda dalla parte interessata. La domanda può essere contenuta nel ricorso, nell’atto di citazione e, anche, in atti diversi. Infatti, la domanda giudiziale può essere fatta dall’attore, dal convenuto in via riconvenzionale (domanda riconvenzionale, quando il convenuto fa a sua volta domanda giudiziale nei confronti dell’attore che l’ha citato in giudizio) e dall’interveniente. Per quanto riguarda la domanda, vale il principio dispositivo sostanziale, cioè essa deve provenire o dall’attore, o dal convenuto o dall’interveniente. Nei casi previsti dalla legge (art. 69 ss. c.p.c.), il pubblico ministero promuove l’azione ovvero interviene in un processo promosso da una parte. Identificazione della domanda (profilo soggetti e profilo oggettivo) Identificare la domanda è di fondamentale importanza per tutta una serie di fattori. Ad esempio, ai sensi dell’art. 112 c.p.c., sul principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di sulla base della domanda ex art. 10 c.p.c.; ancora, la domanda diventa referente preciso nel caso dell’art. 112 c.p.c.). I tre elementi identificazione della domanda segnano il perimetro entro il quale il giudice può muoversi, identificando il tipo di tutela che si va chiedendo: se la parte chiede un certo tipo di tutela, il giudice non può concedere qualcosa di diverso, di meno o di maggiore (configurando, in questo caso, un vizio di ultra petizione); e quel qualcosa di diverso, di maggiore, di meno viene valutato sulla base della domanda. Diritti autodeterminati e diritti eterodeterminati ● Sono autodeterminati i diritti reali (non i diritti reali di garanzia) e i diritti assoluti in generale. Al moltiplicarsi delle fattispecie costitutive, il diritto non si moltiplica (non si può essere proprietari di uno stesso bene due volte). Gli elementi identificatori del diritto autodeterminato sono il titolare del diritto, il bene che ne costituisce oggetto e il tipo di utilità garantita dall’ordinamento L’identificazione di un diritto è un’attività che si fa all’inizio della fase processuale. Un conto è l’identificazione, ma, ai fini dell’accoglimento della domanda, è altresì necessario indicare anche i fatti costitutivi (altrimenti, la domanda non verrà accolta, sebbene il diritto sia stato individuato). ● Sono eterodeterminati i diritti obbligatori aventi ad oggetto prestazioni ripetibili (ogni volta che ripeto, la prestazione è diversa), in quanto necessitano, ai fini della loro indicazione, della precisa indicazione dei fatti costitutivi. In questo caso, il moltiplicarsi dei fatti costitutivi determina il moltiplicarsi dei diritti. Gli elementi identificatori dei diritti eterodeterminati sono quindi l’oggetto e la fattispecie costitutiva del diritto. In presenza di diritti che si ricollegano a diritti potestativi (ad esempio l’annullamento del contratto), l’identificazione della domanda è fondamentale. Il diritto potestativo è il potere di modificare la sfera giuridica di un altro soggetto senza che questa possa fare nulla per impedirlo; a volte, il diritto potestativo è ad esercizio stragiudizialmente; altre volte, tale diritto è ad esercizio giudiziale. Non tutti identificano il diritto potestativo allo stesso modo. Ad esempio, rispetto al diritto all’annullamento del contratto per dolo, violenza, errore si possono configurare tre diversi orientamenti: ● Secondo un primo orientamento, il diritto potestativo si identifica da ciascuna fatto storico, ciascuno dei quali integra il motivo di annullamento (dolo, violenza, errore). Il diritto potestativo si identifica attraverso l’episodio storico concreto. Questo orientamento consente di non dare alla pronuncia di rigetto una portata eccessivamente preclusiva. Infatti, se si accetta questa soluzione, rigettata la domanda di annullamento per dolo fondata su un certo fatto storico, si può proporre un’altra domanda di annullamento per dolo fondata su un altro fatto storico, dato che ciascun fatto storico identifica un diverso oggetto del processo. ● Secondo un secondo orientamento, il diritto potestativo si identifica con il motivo giuridico di annullamento (dolo, violenza, errore). L’annullamento del contratto può essere prodotto da tre diritti potestativi. In questo caso, i singoli fatti storici si cumulano tutti insieme per determinare un solo diritto potestativo per errore, violenza e dolo (i singoli fatti storici hanno la stessa portata della fattispecie costitutiva dei diritti autoindividuati). Questo è un orientamento intermedio: infatti, se è rigettata la domanda di annullamento fondata, ad esempio, sul dolo, non sarà possibile riproporre un’altra domanda di annullamento fondata sul dolo, quand’anche vengano allegati fatti storici diversi da quelli allegati nella prima domanda, dato che essi si cumulano tutti insieme per determinare un solo diritto potestativo (uno per errore, uno per violenza e uno per dolo). Viceversa, sarà possibile proporre un’altra domanda di annullamento fondata sulla violenza o sull’errore. ● Secondo un terzo orientamento, il diritto potestativo si identifica con l’effetto giuridico che produce (l’annullamento, il quale produce lo scioglimento del contratto). Il diritto è unico ed è il diritto all’annullamento, identificato sulla base dell’effetto che produce e rispetto al quale non hanno rilevanza né i fatti storici che lo integrano, né i motivi giuridici che lo producono. Questo orientamento impedisce la ripetizione della domanda rigettata (maggiore è l’oggetto del processo, maggiore è la preclusione) ; infatti, in base a questo orientamento, se enuncio solo alcuni fatti storici (ad esempio, di dolo), il giudice non può dire nulla su quelli che non vengono citati (sempre di dolo, oppure di violenza ed errore), anche se non sono stato esaminati ed anche se integrano lo stesso effetto giuridico (l’annullamento), perché, in virtù del principio del ne bis in idem (“non si ripeta ciò che è stato già deciso”), ormai sulla pronuncia di rigetto si è formato il giudicato. In altri termini, il rigetto della domanda impedisce di proporne una successiva, anche se fondata su fatti storici non addotti nel primo processo (analogamente a quanto accade per i diritti autodeterminati); il fatto non allegato è inesorabilmente precluso, ancorché non sia stato esaminato. gli effetti della domanda giudiziale Gli effetti della domanda giudiziale si dividono in effetti procedimentali, effetti processuali in senso stretto ed effetti sostanziali. Gli effetti che incidono sul diritto sostanziale – l’interruzione della prescrizione Con il processo si tutela il diritto sostanziale. Il diritto sostanziale ha una disciplina di carattere sostanziale (che deve essere considerata ancora di più nell’arena processuale). Gli effetti della domanda che incidono sul diritto sostanziale sono definiti, appunto, effetti sostanziali. Il primo effetto sostanziale è l’interruzione della prescrizione. La prescrizione è l’estinzione del diritto se lo stesso non è utilmente esercitato dal suo titolare entro un preciso arco temporale stabilito dalla legge. I diritti della personalità ed il diritto di proprietà sono imprescrittibili (la proprietà può essere persa perché altri la usucapiscono). L’interruzione della prescrizione si ha quando il titolare di un diritto manifesta la volontà di volerlo esercitare, il che può avvenire, in alcuni casi, sia attraverso atti stragiudiziale che atti giudiziali ovvero, in altre ipotesi, solo per mezzo di atti giudiziali. In questo caso, il tempo trascorso si azzera ed il termine prescrizionale ricomincia a decorrere ex novo. La norma sostanziale di riferimento sull’interruzione della prescrizione è l’art. 2943 c.c. art. 2943 c.c. La prescrizione è interrotta dalla notificazione dell'atto con il quale si inizia un giudizio, sia questo di cognizione ovvero conservativo o esecutivo. [effetto interruttivo istantaneo] È pure interrotta dalla domanda proposta nel corso di un giudizio. L'interruzione si verifica anche se il giudice adito è incompetente. La prescrizione è inoltre interrotta da ogni altro atto che valga a costituire in mora il debitore e dall'atto notificato con il quale una parte, in presenza di compromesso o clausola compromissoria, dichiara la propria intenzione di promuovere il procedimento arbitrale, propone la domanda e procede, per quanto le spetta, alla nomina degli arbitri. La disciplina sostanziale stabilisce l’attitudine delle domande giudiziali ad interrompere la prescrizione. In alcuni casi, la domanda giudiziale è necessaria per interrompere il termine prescrizionale. In particolare, ciò vale per i diritti reali, dato che ad essi non si applica il quarto comma dell’art. 2943 c.c. La prescrizione è interrotta dalla domanda. Anzitutto, per domanda s’intende l’atto introduttivo (atto di citazione, ricorso). Tuttavia, la domanda può essere inserita anche in atti diversi (ad esempio, nei casi di domanda riconvenzionale e di domanda riconvenzionale della riconvenzionale). Anche in questi casi, la domanda è idonea ad interrompere la prescrizione. Quindi, ogni atto che contiene una domanda è idoneo ad interrompere la prescrizione. L’effetto interruttivo istantaneo (effetto sostanziale della domanda prodotto dalla presentazione) e l’effetto interruttivo permanente (effetti sostanziali prodotti dall’accoglimento della domanda) L’effetto interruttivo istantaneo si produce dalla notificazione della domanda (art. 2943 c.c.). Inoltre, rispetto agli stragiudiziali, la domanda giudiziale non solo è idonea ad interrompere la prescrizione con effetto istantaneo, ma è idonea altresì ad interromperla con effetto interruttivo permanente (l’art. 2945 co. 2 c.p.c. non utilizza il termine “sospensione della prescrizione”, dato che tale istituto si applica solo in situazioni straordinarie, come la guerra). Ciò significa che, durante tutto il processo, fino a quando la sentenza non è passata in giudicato, la prescrizione non corre. La norma di riferimento è l’art. 2945 co.1 e 2 c.c. Art. 2945 co. 1 e 2 c.c. Per effetto dell'interruzione s'inizia un nuovo periodo di prescrizione. Se l'interruzione è avvenuta mediante uno degli atti indicati dai primi due commi dell'articolo 2943 [ossia, mediante domande giudiziali], la prescrizione non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio. Tuttavia, ai sensi dell’art. 2945 co.3 c.c., “se il processo si estingue, rimane fermo l'effetto interruttivo e il nuovo periodo di prescrizione comincia dalla data dell'atto interruttivo”. In caso di errore in vocatio in ius (ad esempio, un errore nella fissazione della data d’udienza), la domanda è comunque idonea a produrre effetti interruttivi. Quindi, c’è errore ed errore. Bisogna vedere se l’errore viziante può essere compatibile con il mantenimento o meno degli effetti interruttivi (istantanei e/o permanenti). L’art. 163 c.p.c. (i cui nn. 3 e 4 riguardano, rispettivamente, il petitum e la causa petendi), individua le ipotesi testuali di nullità della domanda, nonché i casi di sanatoria (ove possibile). In alcuni casi, la sanatoria opera fin dal momento della proposizione della domanda viziata (la sanatoria opera con effetto retroattivo - ex tunc-). In altri, la sanatoria non ha questa capacità (la sanatoria non opera con effetto retroattivo - ex nunc-). Se manca la causa petendi la sanatoria opera ex nunc. L’art. 164 c.p.c. dice che, in questo caso, la sanatoria è possibile, ma opera ex nunc e “restano salvi i diritti quesiti [del convenuto]”; cioè, la sanatoria mantiene integri i diritti del convenuto; quindi, questi può eccepire la prescrizione del diritto se, ad esempio, l’atto di citazione era stato male notificato e tra il periodo della notificazione viziata e la sanatoria è intervenuta la prescrizione del diritto. Il vizio insanabile o insanato impediscono al processo di giungere ad una decisione di merito; esso deve essere chiuso in rito. In questo caso, seguendo l’interpretazione della giurisprudenza dell’art. 2945 c.c., non si manifesta l’effetto interruttivo permanente, ma rimane solo quello interruttivo istantaneo. 23/10/2023 – gli effetti sostanziali della domanda: la modificazione della domanda, la trascrizione della domanda giudiziale; modificazione della domanda; giudicato e limiti del giudicato sostanziale: limiti oggettivi) Effetti sostanziali della domanda giudiziale – l’effetto interruttivo istantaneo e l’effetto interruttivo permanente (ripasso) L’effetto interruttivo permanente ex art. 2945 c.c. si aggiunge all’effetto interruttivo istantaneo ex art. 2943 c.c. L’effetto interruttivo istantaneo si verifica all’istante (i termini prescrizionali tornano a computarsi ex novo una volta compiuto l’atto interruttivo. L’effetto interruttivo istantaneo è prodotto non solo dalla domanda giudiziale, ma anche da atti stragiudiziali, cioè gli atti di diffida e messa in mora). L’effetto interruttivo permanente significa che la prescrizione non solo è interrotta, ma anche che essa non corre dal momento della notificazione dell’atto introduttivo sino al passaggio in giudicato della sentenza (cioè, quando sono stati esperiti tutti i mezzi di impugnazione ordinari ovvero sono decorsi i termini per la loro proposizione). In particolare, se la sentenza si è pronunciata sul merito (cioè, sul diritto sostanziale dedotto in giudizio), allora essa è idonea ad interrompere la prescrizione con effetto permanente. Tuttavia, secondo un orientamento giurisprudenziale prevalente, se le sentenze che hanno chiuso il processo sono di rito, l’effetto interruttivo permanente non si produce; in questo caso, il diritto è sì protetto contro la prescrizione, ma se il processo si ferma prima di arrivare al merito (perché, ad esempio, ho sbagliato la giurisdizione, la competenza ect.), allora si mantiene solo l’effetto interruttivo istantaneo (se la legittimazione al diritto non c’era, il giudice non va avanti a decidere sul merito). Ciò espone a pregiudizio la parte che ha proposto la domanda (soprattutto se il diritto da questi dedotto in giudizio ha termini prescrizionali brevi). Questo orientamento giurisprudenziale si scontra con la concezione per cui la prescrizione si lega all’inerzia del titolare del diritto, il che di certo non si verifica se questi chiede (seppure malamente) la tutela giurisdizionale. Un possibile rimedio consiste nel porre in essere atti interruttivi stragiudiziali (atti di diffida e messa in mora) L’effetto interruttivo permanente non opera in caso di estinzione del processo (art. 2945 co.3 c.c.). Una soluzione di questo tipo è coerente; infatti, in questo caso dobbiamo presumere che la morte del processo sia dovuta ad una situazione di inerzia delle parti, che sono inattive e non compiono gli atti processuali richiesti (l’estinzione si può verificare anche perché le parti rinunciano agli atti quando trovano un accordo stragiudiziale). La domanda giudiziale è altresì idonea ad impedire la decadenza del diritto. Effetti sostanziali della domanda giudiziale – la modificazione della domanda Art. 1453 c.c. – risoluzione del contratto Art. 1453 c.c. – risoluzione del contratto Nei contratti con prestazioni corrispettive, quando uno dei contraenti non adempie le sue obbligazioni, l'altro può a sua scelta chiedere l'adempimento o la risoluzione del contratto, salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno. La risoluzione può essere domandata anche quando il giudizio è stato promosso per ottenere l’adempimento, ma non può più chiedersi l'adempimento quando è stata domandata la risoluzione. Dalla data della domanda di risoluzione l'inadempiente non può più adempiere la propria obbligazione. La situazione di cui all’art. 1453 c.c. è importante per quanto riguarda gli effetti della domanda e, in particolare, per quanto riguarda il tema della modificazione della domanda Sotto il secondo profilo, in linea tendenziale, non è possibile proporre una nuova domanda, essendo soltanto possibile correggerla. Tuttavia, vi sono delle eccezioni, una delle quali è proprio quella di cui all’art. 1453 c.c. Se ho fatto azione giudiziale chiedendo l’adempimento ho scelto quale azione far valere, producendo così un chiaro effetto (ciò che si chiede di far produrre al giudice con il suo provvedimento – in questo caso, l’adempimento). Tuttavia, nell’ambito della stessa azione è possibile chiedere la risoluzione. Non è invece possibile fare il contrario. Abbiamo due possibilità (chiedo l’adempimento/ chiedo la risoluzione): se ho chiesto prima l’adempimento, ho sempre la possibilità di chiedere la risoluzione, senza che il giudice rigetti la domanda perché nuova. Invece, non è possibile chiedere la risoluzione e poi l’adempimento e ciò per una questione di carattere sostanziale, dato che il creditore manifesta la chiara intenzione di non tenere legato il debitore all’obbligazione. Art. 1492 c.c. Art. 1492 c.c. – effetti della garanzia Nei casi indicati dall'articolo 1490 [vizi della cosa venduta] il compratore può domandare a sua scelta la risoluzione del contratto ovvero la riduzione del prezzo, salvo che, per determinati vizi, gli usi escludano la risoluzione. La scelta è irrevocabile quando è fatta con la domanda giudiziale. Se la cosa consegnata è perita in conseguenza dei vizi, il compratore ha diritto alla risoluzione del contratto; se invece è perita per caso fortuito o per colpa del compratore, o se questi l'ha alienata o trasformata, egli non può domandare che la riduzione del prezzo. Diversamente dal caso di cui all’art. 1453 c.c., nel caso di vizi della cosa oggetto del contratto di compravendita, il compratore può agire o con l’azione estimatoria (risoluzione) o con l’azione quanti minoris e, se la scelta è fatta con domanda giudiziale, la scelta è irrevocabile. Art. 1286 c.c. Art. 1286 – facoltà di scelta La scelta spetta al debitore, se non è stata attribuita al creditore o ad un terzo. La scelta diviene irrevocabile con l'esecuzione di una delle due prestazioni, ovvero con la dichiarazione di scelta, comunicata all'altra parte, o ad entrambe se la scelta è fatta da un terzo. Se la scelta deve essere fatta da più persone, il giudice può fissare loro un termine. Se la scelta non è fatta nel termine stabilito, essa è fatta dal giudice. Nel momento in cui agisco giudizialmente, la scelta diventa irrevocabile (ho una chiara produzione di effetti) Un altro effetto sostanziale della domanda è l’anatocismo, ossia la produzione di interessi su interessi. Effetti sostanziali della domanda giudiziale – l’effetto prenotativo della trascrizione della domanda giudiziale Il sistema pubblicitario basato sulla trascrizione vale sia per atti di natura sostanziale, sia atti che hanno natura processuale. La trascrizione rende opponibile l’atto a terzi. In particolare, la trascrizione di un atto serve a rendere conoscibile lo stesso ai terzi e a renderlo ad essi opponibile. La trascrizione ha la funzione, tra le tante, di risolvere le controversi tra più acquirenti di uno stesso bene: ad essere proprietario non è colui che ha acquistato il bene per primo, bensì colui che ha per primo trascritto l’atto di compravendita. Per cui, se il proprietario vende lo stesso immobile più volte, risulterà essere il nuovo proprietario solo colui il quale abbia trascritto per primo il contratto di compravendita, e non colui al quale è stato venduto per primo il bene. La trascrizione non ha funzioni ulteriori, nel senso che non attribuisce diritti maggiori di quelli che sono derivati, sul piano del diritto sostanziale, dall’atto trascritto. Per cui, un acquisto fatto a non domino, anche se trascritto, resta sempre un acquisto a non domino. La trascrizione dell’atto di acquisto a non domino non dà luogo ad un acquisto efficace (la trascrizione non può dare più di quello che si ha sul piano del diritto Il giudicato formale si riferisce a quella irretrattabilità della decisione, che si cristallizza e diventa immutabile. L’art. 324 c.p.c. si lega alla formazione del giudicato formale: sentenza diventa (tendenzialmente) immutabile quando non è più assoggettabile ai mezzi di impugnazione ordinari ovvero sono vanamente decorsi i termini per la loro proposizione. ● I mezzi di impugnazione ordinari sono il regolamento di competenza, appello, ricorso in cassazione, revocazione (solo per due motivi – nn. 4 e 5 art. 395 c.p.c.) ● I mezzi di impugnazione straordinari sono la revocazione (per altri motivi – nn. 1,2,3 e 6 art. 395 c.p.c.) e l’opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c. (l’opposizione di terzo all’esecuzione non è un mezzo di impugnazione e riguarda la tutela esecutiva). Il fatto che la sentenza non possa più essere messa in discussione produce degli effetti preclusivi. In una decisione possono esserci tanti capi (decisioni), alcuni dei quali possono dare ragione all’attore ovvero al convenuto, e viceversa. Se c’è un solo soccombente su tanti profili della sentenza, bisogna stare attenti a cosa si impugna, perché tutto ciò che non si impugna rimane stabilizzato; quindi, il giudicato può formarsi anche perché un certo capo della sentenza non è stato impugnato; infatti, se un soggetto tiene un comportamento che è incompatibile con la volontà di impugnare, si forma la c.d. acquiescenza, e l’acquiescenza porta al giudicato (identificare i comportamenti acquiescenti è complicato: ad esempio, se ho un giudizio in cui il locatore ha chiesto il rilascio dell’immobile, è sicuramente un comportamento acquiescente quello del conduttore che fa richiesta dell’indennità di rilascio). La stabilità della decisione si forma in relazione al giudicato formale. La sentenza passa in giudicato formale quando non è più assoggettabile ai rimedi impugnatori ordinari ovvero sono decorsi i termini per la loro proponibilità. Il giudicato formale riguarda tutte le sentenze, sia di merito che di rito. Queste ultime possono passare in giudicato formale, ma in ragione del loro contenuto, non producono un giudicato sostanziale. Limiti oggettivi del giudicato Qual è la portata dell’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato? Il giudicato formale impedisce di tornare sulla decisione. Tuttavia, ci sono pronunciamenti che non sono vincolati; le decisioni di rito non sono sottoposte agli effetti sostanziali della cosa giudicata (sicuramente sono sottoposte agli effetti formali, dato che sono previsti rimedi impugnatori), nel senso che non fa stato ad ogni effetto di legge (ad esempio, le questioni di giurisdizione e competenza, salvo che non si sia pronunciata la cassazione). Cosa viene coperto dell’autorità di cosa giudicata? Qual è l’accertamento che vincola altre situazioni che sono legate alla sentenza passata in giudicato? La sentenza si fonda sul quid decisum, cioè sulla decisione del giudice in relazione alla domanda. Stabilire il perimetro del giudicato non è semplice. ● Se il perimetro del giudicato è circoscritto rispetto alla domanda, tutto quello che sta al di fuori della domanda (il rapporto giuridico obbligatorio) non è coperto dalla stabilità, e, quindi, può essere oggetto di impugnazione. ● Se l’area coperta dal giudicato riguarda anche l’intero rapporto giuridico cui si ricollega il diritto dedotto in giudizio, allora l’accertamento su tale rapporto non potrà più essere messo in discussione. ● Rispetto ai diritti autoindividuati, secondo l’opinione maggioritaria tutte le possibili cause petendi (fattispecie costitutive) sono coperte dall’autorità di giudicato. Non c’è uniformità di vedute. Rispetto alle conclusioni cui si può giungere, il perimetro del giudicato può essere più o meno ampio. (rapporto di pregiudizialità) Ai sensi dell’art. 2909 c.c., l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato ad ogni effetto. Da ciò ricaviamo che la sentenza passata in giudicato si espande verso il diritto dipendente. In altri termini, l’art. 2909 c.c. si applica in presenza di un rapporto di pregiudizialità tra l’oggetto della sentenza passata in giudicato e l’oggetto del secondo processo (cioè, quando la sentenza passata in giudicato ha ad oggetto la questione pregiudiziale - il rapporto di parentela - ed il secondo processo ha ad oggetto la situazione dipendente -il diritto agli alimenti-) le parti ed il giudice del secondo processo sono vincolate a ciò che è stato deciso sulla situazione pregiudiziale (l’effetto della sentenza passata in giudicato si espande verso il basso, cioè verso la situazione dipendente). (rapporto di dipendenza) L’art. 34 c.p.c. (accertamenti incidentali) è stata presa a riferimento per individuare i limiti oggettivi della cosa giudicata, onde evitare il ne bis in idem. Art. 34 c.p.c. – accertamento incidentale Il giudice, se per legge o per esplicita domanda di una delle parti è necessario decidere con efficacia di giudicato una questione pregiudiziale che appartiene per materia o valore alla competenza di un giudice superiore, rimette tutta la causa a quest'ultimo, assegnando alle parti un termine perentorio per la riassunzione della causa davanti a lui L’accertamento con efficacia di giudicato può nascere da un’esplicita domanda di parte ovvero da un imposizione di tipo normativo (ad esempio, l’art. 124 c.c. sul vincolo del precedente matrimonio) Questione pregiudiziale: antecedente logico che sta prima (è prodromico) della questione dedotta in giudizio. La situazione pregiudiziale va a condizionale quello che segue (ad esempio, il diritto agli alimenti potrà essere riconosciuto solo se c’è un rapporto di parentela – in altri termini, il rapporto di parentela tra l’alimentatore e l’alimentando, che non è un mero fatto, bensì un situazione giuridica, costituisce una questione pregiudiziale del diritto agli alimenti -). Se la legge stabilisce che la questione pregiudiziale deve essere decisa con efficacia di giudicato, il giudice deve decidere su quella questione anche se non gli è stato chiesto dalla parte. C’è qui un necessario allargamento dell’oggetto del processo, dato che glielo impone la legge (per ragioni di logica). È quell’accertamento si proietta verso il futuro, verso le situazioni legate ad essa da un nesso di pregiudizialità e, ancora, verso le domande ad essa collegate (se ho domandato gli alimenti rispetto ad un matrimonio, questione pregiudiziale, dichiarato nullo, allora tale diritto non sussisterà). La questione pregiudiziale è decisa con efficacia di giudicato anche quando vi è un esplicita domanda di parte, la quale, quindi, segnano il perimetro del giudicato. Se non c’è stata esplicita domanda di parte, allora il giudicato sulla questione pregiudiziale non si forma. Quindi, le parti sono signore nell’individuare la domanda iniziale e nel segnare il perimetro. Se viene a sorgere una questione pregiudiziale, quella questione deve essere decisa con efficacia di giudicato solo se è prescritto dalla legge ovvero l’accertamento è esplicitamente richiesto dalle parti. Ai sensi dell’art. 34 c.p.c., nelle ipotesi di dipendenza tra l’oggetto della sentenza passata in giudicato e l’oggetto del secondo processo (cioè, quando la sentenza passata in giudicato ha ad oggetto la situazione dipendente ed il secondo processo ha ad oggetto la situazione pregiudiziale), la sentenza passata in giudicato (sulla situazione dipendente) espande i suoi effetti sulla situazione pregiudiziale (oggetto specifico del secondo processo) solo se la decisione con efficacia di giudicato della questione pregiudiziale sia espressamente richiesta dalla legge ovvero quando le parti l’abbiano esplicitamente domandato. Tuttavia, non tutti la pensano così: Salvatore Sarta distingue tra pregiudizialità tecnica e pregiudizialità logica. ● La pregiudizialità tecnica si verifica quando un diritto, autonomo, (il rapporto di parentela) è pregiudiziale rispetto ad un altro diritto (il diritto agli alimenti), in quanto è un elemento della sua fattispecie costitutiva. ● La pregiudizialità logica si ha quando la questione pregiudiziale è costituita dal rapporto giuridico (una figura di diritto sostanziale che ha la funzione di unificare una pluralità di effetti giuridici – ad esempio, il rapporto di lavoro subordinato-) cui è ricollegato uno degli effetti, cioè uno dei diritti che da quel rapporto scaturiscono, dedotti in giudizio (il diritto alla tredicesima). Secondo Sarta, l’art. 34 c.p.c. si applica solo quando la questione pregiudiziale è costituita da un diritto autonomo. Invece, nei casi di pregiudizialità logica, bisogna verificare se il giudice, per decidere sul diritto dedotto in giudizio, ha dovuto anche statuire sull’esistenza, inesistenza o modo di essere del rapporto giuridico (in caso affermativo, il giudicato copre anche l’accertamento del rapporto giuridico). Analogamente a quanto detto da Sarta, Benchini afferma che la domanda di parte serve solo per ciò che è pregiudiziale in senso tecnico, mentre ciò che riguarda il rapporto giuridico come fascio di diritti (effetti) ad esso ricollegati attiene alla pregiudizialità in senso logico. Secondo Benchini e Sarta, il giudicato va inteso in senso più ampio, nel senso che l’art. 34 c.p.c. si applica solo quando la situazione pregiudiziale è un diritto, inteso come una situazione sostanziale autonoma attributiva di un bene della vita; invece, quando la situazione pregiudiziale è un rapporto giuridico non si applicano le regole ● Se il primo giudice, per decidere del diritto (effetto) dedotto in giudizio (situazione dipendente), si è dovuto anche occupare dell’esistenza, inesistenza o modo di essere del rapporto giuridico (situazione pregiudiziale) cui tale diritto appartiene, il giudicato in merito a tale rapporto si forma. Quindi, il secondo giudice, rispetto al quale si pone la questione pregiudiziale (il rapporto giuridico) è vincolato rispetto a quanto statuito nella sentenza passata in giudicato del primo giudice in merito al rapporto medesimo. In questo caso, il giudicato ha quindi un’estensione molto ampia. ● Se, per decidere del diritto, il primo giudice non si è dovuto anche del rapporto giuridico cui tale diritto è ricollegato, allora il giudicato non si forma. Per cui, il secondo giudice, cui è posta la questione pregiudiziale (il rapporto giuridico), non sarà vincolato dalla sentenza passata in giudicato relativa al diritto dipendente. Tanto più si allarga il perimetro del giudicato, tanto meno domande potranno essere proposte (e, quindi, maggiore sarà la preclusione) Cosa comporta il giudicato? (gli effetti che si correlano all’accertamento del giudicato sostanziale) Rispetto al giudicato penale, in cui vi è un rapporto di identità, nel diritto civile il giudicato sostanziale ha manifestazioni più ampie, relative non solo al ne bis in idem, che si ha nei casi di identità oggettiva (effetto negativo preclusivo). Infatti, in alcune situazioni le statuizioni successive devono conformarsi alla decisione precedente passata in giudicato (effetto positivo conformativo). effetto negativo preclusivo – ne bis in idem (rapporto di identità) Il giudicato si forma sul quid decisum (oggetto della sentenza) e non sul quid disputatum (oggetto della domanda). Normalmente, i due aspetti coincidono, ma non è sempre così. Se quello che viene proposto nel secondo processo è uguale a quello che è stato proposto nel primo processo (e su tale oggetto il giudice si è pronunciato con sentenza passata in giudicato), il giudice del secondo processo dichiara inammissibile la seconda domanda per ne bis in idem, essendo tale principio un presupposto processuale. La statuizione del giudicato sostanziale è sì immutabile e non può più essere oggetto di modificazione per mezzo di impugnazioni ordinarie (appello, regolamento di competenza, ricorso in cassazione, revocazione nei casi di cui ai nn. 4,5 art. 395 c.p.c.). Tuttavia, ci sono delle situazioni eccezionali che possono intaccare il giudicato ed esse danno luogo ad impugnazioni straordinarie (opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c. e revocazione nei casi di cui ai nn. 1, 2, 3 e 6 art. 395 c.p.c.), che si possono proporre rispetto ai c.d. vizi occulti Effetti positivi conformativi (rapporto di pregiudizialità-dipendenza) Gli effetti postivi conformativi consistono nel fatto che il giudice successivo deve conformarsi alla decisione precedente passata in giudicato. Ad esempio, se nel primo processo la statuizione ha riguardato il riconoscimento dello status di figlio e nel secondo processo si propone una domanda inerente ad una questione dipendente allo status di figlio (ad esempio, il diritto agli alimenti), il giudice del secondo processo non potrà mettere in discussione la statuizione sullo status di figlio, potendo invece decidere sulla sussistenza di altri fatti costitutivi. Limiti cronologici del giudicato Il giudicato copre il dedotto ed il deducibile, cioè quello che sia quello che si è detto, sia quello che si poteva dire e non si è detto (rilievi di rito e di merito). Fino a quando si può dedurre qualcosa? Quando non si può più dedurre qualcosa? Quando si può dedurre qualcosa nonostante il giudicato? L’attore ottiene nei confronti del convenuto una sentenza di condanna al pagamento di una certa somma di denaro. Se prima di giungere alla sentenza di condanna, il convenuto paga, il giudicato copre il dedotto ed il deducibile? L’attore potrà agire esecutivamente (dato che ha la sentenza di condanna ottenuta costituisce titolo esecutivo), nonostante sia intervenuto l’adempimento in pendenza del giudizio? Il giudicato copre sì il dedotto ed il deducibile, ma la linea preclusiva del giudicato non matura con la sentenza, bensì prima [all’udienza di rimessione in decisione]. La decisione si forma con riferimento alla realtà di fatto esistente nel momento dell’udienza di rimessione in decisione. In ordine al principio di preclusione o, meglio, al principio di effettività che si fonda sul concetto di preclusione, introdotto con la riforma degli anni ’90, le regole processuali sono piene di preclusioni che impediscono di svolgere determinate attività una volta decorsi i termini previsti dalla legge. Ciò valeva per il dedotto. Per il deducibile, in relazione a delle situazioni che sopravvengono dopo (c.d. sopravvenienza), la barriera preclusiva non vale, salvo però segnalare la sopravvenienza tempestivamente. La sopravvenienza intervenuta in pendenza del processo è in grado di vincere le barriere preclusive. Tuttavia, se essa interviene in una fase del processo nella quale il giudice non ha tutto sotto controllo (e, quindi, per il giudice non è più possibile venire a conoscenza della sopravvenienza), per la parte non è più possibile comunicare la sopravvenienza medesima. La preclusione del dedotto e del deducibile indica il fatto che non è possibile far valere in successivi processi fatti che già avevano prodotto effetti giuridici al momento dell’udienza di rimessione in decisione e che quindi potevano essere dedotti e fatti valere nel processo precedente che ha portato alla pronuncia passata in giudicato. Quindi, la linea preclusiva non matura con la sentenza, bensì, fino alla riforma Cartabia, al momento dell’udienza di precisazione delle conclusioni (le sopravvenienze potevano essere dedotte fino all’udienza di precisazione delle conclusioni, mentre ciò che sopravveniva dopo non poteva più essere dedotto – quindi, in questa fase valeva la regola che il giudicato copre il dedotto ed il deducibile-). Oggi, secondo la giurisprudenza più autorevole, la linea preclusiva si fissa nell’udienza di rimessione in decisione, superata la quale c’è la zona grigia, nella quale, cioè, le parti non possono più mettere in discussione la quaestio facti. Invece, (gli effetti giuridici che si producono in virtù di) fatti che si verificano dopo l’udienza di rimessione in decisione (nella zona grigia) non sono di per sé coperti dall’autorità di giudicato e, quindi, sono in grado di vincere il giudicato stesso. I limiti cronologici non si applicano al momento della sentenza, dato che è possibile per la parte portare fatti sopravvenuti (che già hanno prodotto effetti giuridici) che il giudice non conosce e, se tali fatti sono spesi (cioè, comunicati al giudice) entro l’udienza di rimessione in decisione, essi saranno idonei a vincere il giudicato in successivo processo. Se tali fatti (che hanno prodotto effetti giuridici al momento dell’udienza di rimessione in decisione) non sono spesi il giudicato non potrà essere scalfito; se, ad esempio, il convenuto ha adempiuto ma non ha fatto valere l’adempimento nel processo e, riconosciuto esistente il suo debito, è stato condannato, non potrà far valere il fatto sopravvenuto “adempimento” in un successivo processo. Riprendendo l’esempio precedente, se l’adempimento è avvenuto successivamente all’udienza di precisazione delle conclusioni (oggi udienza di rimessione in decisione), il fatto sopravvenuto del convenuto non potrà vincere il giudicato. Tuttavia, il diritto sostanziale dà comunque dei rimedi: in caso di indebito pagamento, la parte soccombente potrà fare un’azione per chiedere la restituzione di quanto ha dovuto dare indebitamente (perché aveva già adempiuto, sebbene non avesse comunicato al giudice la sopravvenienza di tale fatto), ovvero potrà esperire un’azione di opposizione agli atti esecutivi, in cui risulterà formalmente attore, ma di fatto sarà convenuto. Se, invece, l’adempimento è avvenuto prima dell’udienza di rimessione in decisione, la sopravvenienza potrà vincere il giudicato della sentenza di condanna se comunicato entro l’udienza di rimessione in decisione. 27/10/2023 – il giudicato sostanziale: i limiti soggettivi La norma di riferimento è l’art. 2909 c.c.: “l'accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa.” È chiaro che la sentenza passata in giudicato abbia effetto tra le parti. Le parti sono i soggetti che hanno partecipato ovvero sono stati messi in grado di partecipare (infatti, il convenuto è libero di non costituirsi in giudizio, essendo importante soltanto il fatto che questi sia venuto correttamente a conoscenza della notificazione dell’atto introduttivo -atto di citazione o ricorso-. In questo caso viene dichiarata la contumacia e la sentenza sarà comunque efficacie nei suoi confronti). La sentenza produce effetti anche nei confronti degli eredi e aventi causa. L’art. 2909 c.c. considera eredi sono quelli che sono divenuti tali dopo il passaggio in giudicato della sentenza deposito (pubblicazione) della sentenza. Le posizioni giuridiche sono in larga misura trasmissibili, sia dal punto di vista attivo, sia dal punto di vista passivo. La situazione che si è verificata nel processo si trasmette agli eredi se nel momento in cui c’è la sentenza una delle parti viene meno (se a venire meno è l’attore, il suo erede potrà giovarsi della sentenza di condanna che costituisce titolo esecutivo). Coloro che diventano eredi durante il processo non sono considerati eredi ai sensi dell’art. 2909 c.c. Quando una parte del processo viene meno per morte, il processo è proseguito dagli eredi, che acquistano la qualità di parti del giudizio, anche se la successione è avvenuta a titolo particolare. La prima impostazione risale all’idea chiovendiana, in cui si distingueva tra presupposti processuali (condizioni che devono sussistere prima affinché il processo possa giungere ad una decisione nel merito) e condizioni dell’azione, in cui rientravano, appunto, la legittimazione ad agire e l’interesse ad agire, che venivano qualificate così proprio per riferirle alla titolarità del diritto di azione, azione che Chiovenda concepiva in senso concreto (in particolare, intesa in senso concreto, la legittimazione ad agire, inteso come individuazione delle giuste parti del processo (cioè, titolare del diritto che è dedotto in giudizio e di cui si chiede la tutela), è una condizione affinché il giudice possa esaminare la sua domanda e, constatato che egli ha la titolarità di quel diritto di azione, possa concedergli una sentenza di merito favorevole – la legittimazione ad agire e l’interesse ad agire devono permanere fino alla fine del giudizio, cioè, fino alla sentenza di merito). Questo tipo di impostazione porta a risultati di tipo diverso. Se l’azione è intesa in senso concreto, quando si verrà a sapere se la persona è legittimata, cioè se è titolare o meno del diritto dedotto in giudizio? La teoria chiovendiana determina un ribaltamento delle cose. Infatti, il giudice stabilirà se il soggetto è meritevole di una sentenza di merito che accolga le sue domande solo una volta valutato il tutto nel suo complesso. Quindi, ci poniamo nella fase terminale del processo, cioè, nella fase di merito, dopo aver svolto tutta la fase istruttoria. Tuttavia, se bisogna valutare di per sé la legittimazione di un soggetto che chiede tutela, è più consono verificarla nelle fasi iniziali del processo. Ecco allora che il concetto di azione inteso in senso concreto inizia ad essere criticata (la legittimazione ad agire in senso concreto non può essere valutata all’inizio per stabilire se quel soggetto avrà diritto ad una sentenza favorevole o meno, ma solo alla fine) Quindi, è necessario cambiare il registro di impostazione nel senso di valutare l’azione in senso astratto (in particolare, legittimazione ad agire in senso astratto è intesa come l’affermazione di un soggetto di essere la giusta parte titolare del diritto che è dedotto in giudizio e di cui si chiede la tutela, nell’aspirazione di avere una sentenza che sarà favorevole solo nelle aspettative di chi la chiede, ma questo aspetto - di accoglimento o soccombenza - verrà valutato dopo, nella fase di merito). Lo sposamento del focus sul profilo astratto non comporta più una valutazione di merito, bensì di rito, essendo la legittimazione ad agire decisa al pari degli altri presupposti processuali (se la legittimazione non sussiste, il giudice emetterà una pronuncia di rito, che si sottrae al giudicato sostanziale – che a sua volta si ricollega alla principio del ne bis in idem -, ma, in ogni caso, non al giudicato formale ex art. 324 c.p.c.). La legittimazione ad agire e la legittimazione straordinaria Secondo la dottrina più moderna, la legittimazione ad agire (e l’interesse ad agire) è qualificata presupposto processuale. La legittimazione ad agire è l’affermazione di un soggetto di essere giusta parte del processo, cioè di essere titolare del diritto che è dedotto in giudizio e di cui si chiede la tutela. Questa definizione di legittimazione ad agire si ricava in negativo dal concetto di legittimazione straordinaria ex art. 81 c.p.c. (“Fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, nessuno può far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui” [qui non si fa riferimento all’ipotesi della rappresentazione, che contempla la spendita del nome del rappresentato]). Questo articolo consente di identificare a contrario quelle che affermano di essere le giuste parti del processo, ossia coloro che agiscono in nome proprio per tutelare un diritto di cui affermando di essere i titolari (se il soggetto afferma di essere il titolare legittimato sta affermando, da un lato, che quel diritto dedotto giudizio fa capo a lui; dall’altro, dal punto di vista passivo, che a quel diritto corrispondono dei doveri che fanno capo al soggetto che ho evocato in giudizio). Il giudice chiuderà il processo in rito per difetto di legittimazione ad agire quando, al di fuori dei casi di legittimazione straordinaria, il soggetto affermerà di far valere in nome proprio un diritto altrui Ai sensi dell’art. 81 c.p.c., se non c’è la legittimazione ad agire perché la persona afferma che agisce in nome proprio per far valere un diritto ad altrui, ma ciò è consentito dalla legge, allora colui che agisce è legittimato straordinario. Altrimenti, se la legittimazione straordinaria non è prevista dalla legge, il giudice chiude il processo in rito per difetto di legittimazione ad agire. Tradizionalmente, un soggetto difetta di legittimazione quando il giudice, esaurita la questione, gli ha dato torto nel merito. Questa concezione della legittimazione concepita come legata al merito è legata all’idea chiovendiana di diritto di azione inteso in senso concreto. Tuttavia, in questo caso si parla di legittimazione ad agire in senso improprio, nel senso che quel soggetto non ha la titolarità e siamo già legati alla vicenda di merito (Il giudice afferma, con la sentenza, che la domanda è infondata – la legittimazione ad agire si determina sulla base della domanda; sarà poi il processo a stabilire se l’affermazione della parte è veritiera; infatti, se sulla base delle contestazioni del convenuto e dell’istruttoria effettuata il giudice, questi si convince che l’attore non è il titolare del diritto fatto valere rigetta nel merito la domanda). La legittimazione ad agire in senso tecnico identifica quelle situazioni in cui un soggetto agisce in nome proprio per far valere un diritto altrui (al di fuori dei casi di legittimazione straordinaria); in questo caso, il giudice chiude il processo con una sentenza di rito. Un conto è parlare di legittimazione ai fini del rito; un altro conto è parlare di legittimazione ai fini dell’accoglimento. Esempio di legittimazione straordinaria - Azione surrogatoria ex art. 2900 co.1 c.c. Un primo esempio di legittimazione straordinaria è dato dall’azione surrogatoria ex art. 2900 c.c., in cui si attribuisce ad un soggetto (il creditore – soggetto surrogante-), la possibilità di agire in nome proprio per far valere un diritto altrui (il credito del debitore inerte – soggetto sostituito-). I presupposti dell’azione surrogatoria sono: il credito inadempiuto da parte del debitore, la patrimonialità del diritto del debitore (non si può esperire l’azione surrogatoria per far valere diritti assoluti) e l’inerzia di quest’ultimo nel farli valere. Art. 2900 co.1 c.c. Il creditore, per assicurare che siano soddisfatte o conservate le sue ragioni, può esercitare i diritti e le azioni che spettano verso i terzi al proprio debitore e che questi trascura di esercitare, purché i diritti e le azioni abbiano contenuto patrimoniale e non si tratti di diritti o di azioni che, per loro natura o per disposizione di legge, non possono essere esercitati se non dal loro titolare. Ai sensi dell’art. 2900 c.c., il creditore ha la legittimazione straordinaria ad esercitare il diritto patrimoniale spettante al debitore e che questi omette di esercitare. La ratio è quella di cui al principio della responsabilità patrimoniale ex art. 2740 c.c. (ai sensi della quale “il debitore risponde dell’adempimento delle proprie obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri”), che attribuisce al creditore il diritto di agire perché il credito del debitore venga recuperato. Infatti, il creditore agisce perché ha interesse alla tutela del suo credito, rispetto alla quale usa indirettamente la tutela di un diritto altrui. n.b. non confondere l’azione surrogatoria ex art. 2900 c.c. con la surrogazione sostanziale, in cui il soggetto che adempie l’obbligazione al posto del debitore si surroga nella posizione del creditore (diventa, cioè, creditore). Infatti, quando il surrogante agirà in giudizio affermerà che il diritto è suo proprio, essendo subentrato nella posizione del precedente creditore. Invece, nell’azione surrogatoria il creditore surrogante che agirà in giudizio affermerà che il diritto spetta al debitore. Legittimazione straordinaria e litisconsorzio necessario ex art. 2900 co. 2 c.c. Art. 2900 co. 2 c.c. Il creditore, qualora agisca giudizialmente, deve citare anche il debitore al quale intende surrogarsi Il litisconsorzio è una situazione nella quale, per ragioni di carattere sostanziale e processuale, ci sono più soggetti attivi e più soggetti passivi. In particolare, nel caso della legittimazione straordinaria legata all’azione surrogatoria, il creditore surrogante può agire per far valere un diritto altrui, ma, quando lo fa, deve citare in giudizio anche il soggetto al quale si va a surrogare (sostituire). Legittimazione straordinaria e litisconsorzio necessario In generale, alla legittimazione straordinaria si accompagna una situazione di litisconsorzio necessario, ma non è sempre così. ad esempio, l’art. 1676 c.c. attribuisce legittimazione straordinaria ai dipendenti dell’appaltatore nei limiti della somma che il committente deve all’appaltatore, ma non è previsto il litisconsorzio necessario. In questo caso, la ratio di chiamare in giudizio anche il debitore inerte (soggetto sostituito) è dovuta: ● in primis, al rispetto del principio del contraddittorio e del diritto di difesa, dal momento che gli effetti della sentenza andranno a colpire la situazione sostanziale del debitore (ciò che conta è che questi sia stato posto correttamente nella condizione di partecipare e, quindi di potersi difendere; sarà il debitore inerte a scegliere, eventualmente, di non volersi difendere nonostante sia stato posto correttamente nella condizione di partecipare). L’oggetto del processo resta sempre il diritto altrui (quello del debitore inerte) e la relativa sentenza potrà avere effetti riflessi per il legittimario straordinario (il creditore). Il titolo esecutivo ottenuto con l’azione surrogatoria si forma a favore del debitore inerte. Nel caso che questi rimanga ancora inerte, il creditore surrogante potrà sempre agire esecutivamente in via di surroga - quindi, sempre in via di un’elencazione dei titoli, di natura sia giudiziale che stragiudiziale, che possono avere natura di titoli, e tra questi vi è anche la cambiale. Poiché l’interesse ad agire è legato al concetto di utilità dell’azione giudiziale (“bisogno di tutela giurisdizionale”), in questo caso l’interesse non sembrerebbe sussistere, essendo già esistente il titolo esecutivo. In verità, in questo caso l’utilità derivante dalla tutela giurisdizionale consiste nella possibilità di iscrivere ipoteca giudiziale ex art. 2818 c.c. (il solo titolo cambiario non attribuisce questo diritto). Quindi, l’elemento che giustifica l’interesse ad agire consiste nella possibilità di iscrivere ipoteca giudiziale ex art. 2818 c.c. Invece, l’interesse ad agire non sussiste in presenza di un’ipoteca cambiaria, non essendoci un utilitas da poter ricavare dalla tutela giurisdizionale. Cambiale ipotecaria è una forma di garanzia del credito che mette insieme la forza della cambiale (possibilità di agire in forza del titolo cambiario e dell’azione causale) e la forza dell’ipoteca. Quando viene emessa una cambiale ipotecaria viene iscritta ipoteca sull’immobile e viene fatta un’annotazione particolare sul titolo cambiario (che rivela che si tratta di ipoteca cambiaria). Per cancellare l’ipoteca dalla cambiale ipotecaria non basta il mero assenso del creditore, come avviene normalmente, essendo anche necessario l’esibizione e la restituzione del titolo cambiario al conservatore (se si perde il titolo, è necessario una procedura di ammortamento). Quindi, L’interesse ad agire è un elemento che permette di scremare le azioni giudiziarie, stabilendo i casi in cui è possibile accedere alla tutela giurisdizionale e i casi in cui ciò non è possibile. Come si manifesta l’interesse ad agire si manifesta in relazione alle diverse tipologie di tutela dichiarativa ● Nella tutela di mero accertamento, l’interesse ad agire si manifesta quando il soggetto che richiede l’accertamento di una certa situazione giuridica allega anche l’elemento della contestazione della stessa. può il datore di lavoro andare in giudizio e chiedere l’accertamento dei presupposti di legge per il licenziamento di un suo dipendente? In questo caso, la giurisprudenza dice no, invocando la norma sull’interesse ad agire, dato che rientra nei poteri formativi del datore di lavoro quello di licenziare il lavoratore (nei casi in cui recesso datoriale è ammesso). La tutela sussiste quando il lavoratore domanda la reintegrazione, ma in questo caso ci sarà una forma di tutela maggiore, ossia la tutela di condanna. Può il datore di lavoro chiedere l’accertamento dei presupposti del licenziamento tenuto conto delle gravi conseguenze in caso di licenziamento illegittimo? La giurisprudenza afferma che il datore di lavoro non può chiedere di accertare i presupposti perché difetta dell’interesse ad agire, dal momento che occorre l’elemento della contestazione da parte del lavoratore licenziato. ● Nella tutela di condanna, l’interesse ad agire consiste nell’elemento della lesione. Colui che agisce deve allegare la sussistenza dell’inadempimento. Alcune azioni speciali di condanna, espressamente tipizzate, possono omettere l’inadempimento. In questo senso, sono emblematici i casi di condanna in futuro, in cui, pur non sussistendo l’elemento dell’attualità della lesione, il legislatore consente di ottenere il titolo esecutivo in previsione del fatto che ci potrà essere una violazione reiterata nel tempo successivamente. In questo caso è possibile ottenere anticipatamente il provvedimento di condanna, che potrà essere eseguito solo alla scadenza dell’obbligazione ripetibile. Un esempio è dato dall’art. 664 co.1 c.p.c., in cui è possibile chiedere decreto ingiuntivo sia per i canoni scaduti che per i canoni che andranno a scadere, evitando di ricorrere nuovamente al giudice per ottenere il provvedimento condannatorio. Infatti, se così non fosse, sarebbe necessario fare una domanda giudiziale ogni volta che matura l’inadempimento. Quindi, onde evitare una reiterazione delle azioni giudiziarie, in deroga dalla regola generale, l’ordinamento ritiene sussistente l’interesse ad agire anche quando non c’è l’attualità della lesione. Ancora, nel caso della licenza per finita locazione, il locatore può chiedere la formazione del titolo esecutivo al rilascio dell’immobile prima del termine della locazione, deviando ancora una volta dalla regola generale, onde evitare che, al momento della scadenza del contratto, il locatore debba ottenere una tutela esecutiva successivamente (evitando così le lungaggini del processo), quando il conduttore non rilascia effettivamente l’immobile e non paga i canoni. ● Nella tutela costitutiva, normalmente l’interesse ad agire è nell’ordine naturale delle cose (l’interesse è in re ipsa nell’esercizio dell’azione). In particolare, nei casi in cui le azioni costitutive sono necessarie per ottenere una certa modifica non c’è da indagare sulla sussistenza dell’interesse ad agire. Ad esempio, fino a qualche anno fa, il divorzio e la separazione potevano essere ottenuti solo attraverso il ricorso alla tutela giurisdizionale (oggi non è più così). L’interesse ad agire sussiste per il solo fatto che per ottenere quel certo effetto (la separazione o il divorzio) devo adire l’autorità giurisdizionale. Ancora, un soggetto aveva proposto l’azione giudiziaria per ottenere l’accertamento della falsità della firma del testamento senza che il suo autore fosse morto ovvero nei casi in cui la delazione ereditaria ex lege coincidesse con quella testamentaria. In queste situazioni, il giudice ha dichiarato che un’azione di questo genere difetta dell’interesse ad agire. Il concetto di interesse ad agire è sì enunciato normativamente, è sì contestato, ma è un concetto che serve a fare un’operazione di scrematura di cause inutili, cioè, di cause che danno luogo ad una richiesta di tutela che non dà una utilità aggiuntiva a chi la chiede (non c’è bisogno di tutela giurisdizionale). Il concetto di interesse ad agire è stato aggiornato nel concetto di “meritevolezza della tutela giuridica” e ciò ha aperto alla tematica dell’abuso del processo. 2/11/2023 – interesse ad agire e abuso del processo; interesse ad agire come “meritevolezza della tutela giuridica” Interesse ad agire (ripasso) La norma di riferimento dell’interesse ad agire è l’art. 100 c.p.c.: “Per proporre una domanda [attore] o per contraddire [convenuto] alla stessa è necessario avervi  interesse”. Per interesse ad agire non s’intende un interesse di carattere economico, bensì, secondo un certo orientamento, il “bisogno di tutela giurisdizionale”. Questo concetto è altresì inteso sotto il profilo dell’utilità: se il processo dà utilità ulteriori sussiste l’interesse ad agire; altrimenti, se l’agire con il processo non comporta alcuna utilità, non c’è l’interesse ad agire. L’interesse ad agire svolge la funzione di filtro tra cause utili ed inutili, al fine di non sovraccaricare l’attività giurisdizionale (che è pur sempre una risorsa rara). L’abuso del processo L’abuso del processo indentifica casi in cui l’art. 100 c.p.c. interviene per sanzionare chi ha proposto una certa domanda giudiziale. Fino a qualche anno fa, illustri rappresentanti della dottrina avevano definito l’abuso del processo un’entità astratta (si tratta infatti di un concetto contrastato dalla dottrina); infatti, se ci sono strumenti che vengono offerti e di cui si può fruire perché bisogna parlare di ipotesi distorsive? La giurisprudenza parte dal concetto di “abuso del diritto”, in cui determinate situazioni vengono utilizzate in modo diverso da quello prefigurato dal legislatore. Dall’abuso del diritto si passa all’abuso del processo, inteso come utilizzo di uno strumento processuale, di per sé lecito, non in senso proprio, bensì per finalità distorsive rispetto a quanto previsto dallo strumento processuale stesso. Inizialmente, il regolamento di giurisdizione, strumento lecito e molto utile, dato che consente di arrivare subito in Cassazione, era stato utilizzato in modo abusivo per ottenere la sospensione automatica del processo, il che consentiva alla parte soccombente di guadagnare tempo, in violazione del principio per cui il processo non deve andare a danno della parte che ha ragione. Inoltre, la reiterazione di questa pratica ha determinato un intoppo sia in Cassazione, piena di regolamenti di giurisdizione, sia dei Tribunali ordinari, i cui processi erano sospesi. Ancora, il principio della domanda (principio dispositivo sostanziale) è utilizzato in modo distorto quando la parte domanda solo una parte del credito. Da un lato, ciò consente al patrocinante di ottenere un onorario per ciascuna frazione del credito. Dall’altro lato, però, questa situazione determinerebbe, per la parte soccombente, un aggravio nelle spese (deve pagare il consulente per ogni processo; deve pagare le spese di ogni giudizio), mentre per il tribunale un aggravio nello svolgimento della sua attività (violazione del principio di economia processuale). Proprio con riguardo al frazionamento del credito si inizia a discutere se il processo sia usato in modo abusivo, punto sul quale la dottrina aveva ritenuto che il concetto di abuso del processo non si rinveniva né in norme codicistiche né in norme costituzionali, rilevando solo dal punto di vista deontologico. Tuttavia, la Cassazione, In alcune situazioni, il litisconsorzio necessario è determinato da una scelta normativa: in alcuni casi, per ragioni di opportunità, il legislatore stabilisce che ci sia litisconsorzio necessario; in altri, la ragione per cui il legislatore stabilisce la necessità del litisconsorzio è determinata dalla tipologia del rapporto sostanziale dedotto in giudizio (se il rapporto sostanziale è unico e plurisoggettivo, le modificazioni di quel rapporto, che possono legarsi -anche- alla domanda proposta da uno dei suoi titolari, comporta che nel processo ci siano tutti i soggetti titolari di quel rapporto). L’art. 102 c.p.c. è “norma bianca”. Le situazioni che possono dare luogo ad un litisconsorzio necessario sono individuate sulla base di interpretazioni giurisprudenziali ovvero in forza di scelte normative, dettate, in alcuni casi, da ragioni di opportunità, ovvero in base alla tipologia del rapporto sostanziale dedotto in giudizio. La ratio del litisconsorzio necessario La ratio del litisconsorzio necessario consiste nel dare una disciplina unitaria, mediante un’unica sentenza, ad una situazione sostanziale unitaria (fenomeno sostanziale), con la conseguenza che gli effetti che l’attore chiede al giudice di produrre con il suo provvedimento incidono necessariamente sulla sfera giuridica di tutti i titolari della situazione unitaria (e, quindi, per il principio del contraddittorio, tutti devono essere chiamati a partecipare al processo). Viceversa, se la sentenza non ha effetti nei confronti di tutti i litisconsorti, l’attore non ottiene quello che vuole. Litisconsorzio necessario e principio della domanda La valutazione della necessità del litisconsorzio necessario è fatta dal giudice non sulla scorta di elementi estrinseci alla domanda dell’attore, ma sulla base della sessa domanda, ed in particolare degli effetti che l’attore con essa richiede. Gli effetti non sono scelti dal giudice e quindi il provvedimento con il quale si dispone l’integrazione del contraddittorio non produce una modificazione della domanda. L’integrazione del contraddittorio è prevista dall’art. 102 c.p.c. nell’interesse dell’attore. CASI DI LITISCONSORZIO NECESSARIO ● (legittimazione straordinaria e litisconsorzio necessario) Un esempio di litisconsorzio necessario è l’azione surrogatoria ex art. 2900 co. 2 c.c., in cui la legge richiede la presenza sia del soggetto surrogante (il creditore), sia del soggetto sostituito (debitore inerte), oltreché del terzo. Il creditore, per assicurare che siano soddisfatte o conservate le sue ragioni, può esercitare i diritti e le azioni che spettano verso i terzi al proprio debitore e che questi trascura di esercitare, purché i diritti e le azioni abbiano contenuto patrimoniale e non si tratti di diritti o di azioni che, per loro natura o per disposizione di legge, non possono essere esercitati se non dal loro titolare Il creditore, qualora agisca giudizialmente, deve citare anche il debitore al quale intende surrogarsi. In questo caso, la ratio di chiamare in giudizio anche il debitore inerte (soggetto sostituito) è dovuta: ▪ In primis, al rispetto del principio del contraddittorio e del diritto di difesa del debitore inerte, dal momento che gli effetti della sentenza andranno a colpire la situazione sostanziale di quest’ultimo (ciò che conta è che questi sia stato posto correttamente nella condizione di partecipare e, quindi di potersi difendere; sarà il debitore inerte a scegliere, eventualmente, di non volersi difendere). L’oggetto del processo resta sempre il diritto altrui (quello del debitore inerte) e la relativa sentenza potrà avere effetti riflessi per il legittimario straordinario (il creditore). Il titolo esecutivo ottenuto con l’azione surrogatoria si forma a favore del debitore inerte. Nel caso che questi rimanga ancora inerte, il creditore surrogante potrà sempre agire esecutivamente in via di surroga – quindi, sempre in via di legittimazione straordinaria- nei confronti del terzo con il titolo esecutivo intestato al debitore. ▪ In secondo luogo, un’altra ragione per cui sia chiamato in giudizio anche il debitore sostituito è data dai limiti soggettivi del giudicato. Infatti, se non fosse prevista una situazione di litisconsorzio necessario nel caso dell’azione surrogatoria ed il creditore surrogante risultasse soccombente, il debitore inerte non chiamato in giudizio non sarebbe toccato dal giudicato, che, ai sensi dell’art. 2909 c.c., “fa stato ad ogni effetto tra le parti, eredi e aventi causa”, (e non anche nei confronti del terzo, quale è, in questo caso, il debitore inerte); per cui, il debitore potrebbe comunque agire a tutela del suo credito nei confronti del terzo. Quindi, la ratio della chiamata in giudizio del debitore inerte è quella di evitare per il soggetto terzo una reiterazione delle azioni. Legittimazione straordinaria e litisconsorzio necessario In generale, alla legittimazione straordinaria si accompagna una situazione di litisconsorzio necessario, per il rispetto del principio del contraddittorio. Tuttavia, non è sempre così: ad esempio, l’art. 1676 c.c. attribuisce legittimazione straordinaria ai dipendenti dell’appaltatore nei limiti della somma che il committente deve all’appaltatore, ma non è previsto il litisconsorzio necessario. La “legittimazione straordinaria” è genus della species “sostituzione processuale”, che si caratterizza per la mancanza del litisconsorzio (il legittimato ordinario non è litisconsorte necessario). ● Un esempio di litisconsorzio necessario derivante da un rapporto sostanziale unico e plurisoggettivo è lo scioglimento della comunione ex art. 784 c.c., in cui i comunisti (i contitolari della comunione) sono litisconsorti necessari. Art. 784 c.p.c. Le domande di divisione ereditaria o di scioglimento di qualsiasi altra comunione debbono proporsi in confronto di tutti gli eredi o condomini e dei creditori opponenti se vi sono. Nella contitolarità la regola è che ciascun contitolare ha diritto pieno su tutto il bene, ma tale diritto è limitato dal medesimo diritto degli altri contitolari (ciascun comunista ha un diritto pro quota sull’intero) . La divisione opera nel senso che ciascun contitolare ha diritto pieno sulla porzione di bene a lui assegnata, senza che esso sia limitato dal diritto degli altri; in compenso, ciascun contitolare non ha diritto sulle porzioni assegnate agli altri contitolari. Perché un soggetto possa avere un parte del bene tutta per sé è necessario che agli altri contitolari sia tolto il loro diritto sulla parte di bene assegnata al soggetto in questione. Ciascun contitolare deve concentrare il proprio diritto sulla parte di bene a lui assegnata; a tal fine, deve togliere il proprio diritto da tutte le altre parti, assegnati agli altri contitolari. Finché gli altri contitolari non tolgono il loro diritto su una certa porzione di bene, il contitolare cui è stata assegnata quella porzione non ha una proprietà esclusiva. Una divisione, se non è efficace nei confronti di tutti i contitolari, non è una divisione, bensì una cessione o spostamento di quote tra contitolari. Per cui, se il giudizio divisorio non è efficace nei confronti di tutti i contitolari non si ha divisione, dato che il contitolare rispetto al quale la sentenza non è efficacie continua a conservare il proprio diritto sulle porzioni di bene assegnate agli altri contitolari. n.b. l’unitarietà della situazione soggettiva è una condizione necessaria, ma non sufficiente, perché ci sia litisconsorzio necessario, dal momento che è altresì necessario che sussista l’elemento del tipo di tutela richiesta al giudice (petitum immediato); in particolare, il litisconsorzio necessario si ha quando l’attore ha chiesto un provvedimento efficace nei confronti di tutti i titolari della situazione plurisoggettiva, quando sussiste un interesse concreto e reale a tal fine (ad esempio, le obbligazioni solidali, pur essendo rapporti sostanziali unitari, non generano litisconsorzio necessario, in quanto l’adempimento può essere chiesto solo ad uno dei condebitori solidali, ovvero l’adempimento può essere fatto solo nei confronti di uno solo dei concreditori solidali). Altri casi di litisconsorzio necessario: ● L’espropriazione contro il terzo proprietario ex art. 602 c.p.c., in cui la legge richiede la presenza sia del soggetto responsabile per debito proprio, sia del soggetto responsabile per debito altrui. Quest’ultimo è responsabile per debito altrui quando, per esempio, ha dato garanzia di adempimento (ad esempio, nel caso di datori di ipoteca); oppure, nel caso in cui sull’immobile acquistato gravi un credito ipotecario (in questo caso, l’acquirente risponde di un debito altrui e, se non adempie il credito, il creditore potrà espropriare il bene). ● Art. 247 co.1 c.c. (disconoscimento della filiazione) Art. 247 co. 1 c.c. Il presunto padre, la madre ed il figlio sono litisconsorti necessari nel giudizio di disconoscimento Se un soggetto chiede il disconoscimento della sua qualità di padre, il processo deve svolgersi nel contraddittorio del padre disconoscente, della madre e del figlio. Il disconoscimento si produce solo se opera anche nei confronti del rapporto tra madre e figlio. ● Costituzione di servitù coattiva su un fondo servente in comproprietà ● Un altro esempio è l’espropriazione contro il terzo proprietario ex art. 602 c.p.c., in cui la legge richiede, per ragioni di contraddittorio e diritto di difesa, la presenza sia del soggetto responsabile per debito proprio, sia del soggetto responsabile per debito altrui ● Ancora, un altro esempio è dato dall’art. 140 del Codice delle assicurazioni, in cui è previsto, ove ci siano una pluralità di danneggiati, che l’assicurazione risponda nei limiti del massimale e, se il danno supera il massimale, il risarcimento per ciascun danneggiato è ridotto proporzionalmente. In quest’ultimo caso, la norma prevede una situazione di litisconsorzio necessario, che impone al singolo danneggiato che agisce nei confronti dell’assicurazione di individuare tutti gli altri soggetti danneggiati. Quindi, sulla base di quest’ultimo esempio l’idea originaria che il litisconsorzio sussiste solo in presenza di azioni di tipo costitutivo risulta smentita, dato che quest’azione non è di tipo costitutivo. Le norme sul litisconsorzio necessario individuate dal legislatore sono poche. Tuttavia, in via giurisprudenziale sono emerse una serie di situazioni litisconsortili necessarie in assenza di norme che esplicitamente lo prevedevano. In particolare, si tratta di rapporti che, dal punto di vista processuale, impongono la necessità del litisconsorzio (ad esempio, in alcuni casi di liti condominiali si impone la necessità del litisconsorzio quando il singolo condomino agisce nei confronti dell’amministratore di condomino). Litisconsorzio necessario passivo e attivo Quando la domanda deve essere proposta contro più soggetti, l’attore conviene in giudizio tutti i litisconsorti. Viceversa, nel caso di più attori litisconsortili necessari, è sufficiente che uno solo di essi proponga la domanda contro il convenuto e contemporaneamente chiami i suoi litisconsorti, attori, a partecipare al processo. L’instaurazione del contraddittorio nei loro confronti ha valore di notizia dell’avvenuta instaurazione del processo (vocatio in ius). L’atteggiamento degli altri litisconsorti incide sul merito; quindi, occorre stabilire, ai fini dell’accoglimento della domanda, i casi in cui il diritto sostanziale stabilisce il consenso di tutti i litisconsorti ovvero quando basta la volontà della maggioranza o anche solo di uno di essi. Il difetto di contraddittorio Nelle prime battute del processo, il giudice deve verificare la regolarità del contraddittorio, il che significa, tra le tante cose, verificare che i litisconsorti necessari siano presenti. Il rilievo che il giudice può fare sul punto è d’ufficio. L’integrazione del contraddittorio costituisce un presupposto processuale, il cui difetto può essere rilevato d’ufficio o su eccezione di parte, in ogni stato e grado del processo, salvo che sia intervenuto il giudicato formale. Il difetto di contraddittorio può essere sanato, in primis, dall’iniziativa del litisconsorte pretermesso, che può intervenire volontariamente in tutta il corso del processo (sia di primo che di secondo grado). Se risulta mancante un litisconsorte necessario, il giudice deve, anzitutto, verificare le ragioni della pretermissione: in particolare, se vuole dichiarare la contumacia, deve verificare che il litisconsorte assente sia stato correttamente posto nella condizione di partecipare al giudizio e, se vi sono vizi di tipo notificatori o dell’atto introduttivo, può disporre la rinnovazione della notifica. n.b. La mera presenza fisica in un processo è differente dalla costituzione in giudizio: ai fini della regolare costituzione, è necessaria la presentazione tecnica innanzi all’ufficio giudiziario. Invece, se la pretermissione non dipende da vizi notificatori o dell’atto introduttivo, il giudice dovrà ordinare la chiamata del litisconsorte pretermesso, che può avvenire ad opera di una qualunque delle parti, trattandosi di un mero atto di impulso processuale. Se il vizio del contraddittorio non è sanato, il processo si estingue (art. 307 co. 3 c.c.). Estinguendosi il processo, si può determinare anche l’estinzione del diritto, se questo ha termini prescrizionali brevi (dato che in questo caso opera solo l’effetto interruttivo istantaneo ex art. 2943 c.c.). L’estinzione è un effetto immediato. C’è una figura di intervento in causa che assomiglia ad una situazione di litisconsorzio necessario: si tratta dell’intervento coatto su istanza del giudice ex art. 107 c.p.c. L’elemento comune tra l’art. 102 c.p.c. e 107 c.p.c. è l’ipotesi estintiva in caso di mancata chiamata, ma i due meccanismi di estinzione funzionano diversamente: ● Nel caso dell’art. 107 c.p.c. il meccanismo di estinzione è mediato: se le parti non ottemperano all’integrazione del contraddittorio, il processo entra in una fase di quiescenza, ed entro tre mesi può essere riassunto. Se il processo è riassunto entro tale termine, esso prosegue (è lo stesso processo che prosegue e quindi che rimane vitale). ● Nel litisconsorzio necessario ex art. 102 c.p.c., se il giudice ordina la chiamata, dà un ordine perentorio e, se le parti non vi ottemperano, il processo si estingue. Per cui, se il termine non viene rispettato, non è più possibile proseguire e rivitalizzare quel processo (con la conseguenza che verranno persi gli effetti sostanziali della domanda), pur essendo possibile instaurarne un altro (nel quale si manterranno solo alcuni profili del precedente processo: infatti, l’art. 310 c.p.c. afferma che le prove raccolte acquistano un efficacia mediata ed eventuali sentenze di merito emesse conservano la loro efficacia). Se il difetto di contraddittorio è stato pronunciato in secondo grado, il giudice dell’impugnazione deve annullare la sentenza impugnata e rinviare la causa al giudice di primo grado (art. 354 co. 1 c.p.c. e 383 c.p.c.). Il processo può essere riassunto al giudice di primo grad, e riprende dall’inizio. Il giudice di appello non fa la sanatoria, ma tale vizio è talmente grave da comportare la rimessione della causa al giudice di primo grado (si ricomincia tutto da capo). Art. 354 c.p.c. Il giudice d'appello, se dichiara la nullità della notificazione dell'atto introduttivo, riconosce che nel giudizio di primo grado doveva essere integrato il contraddittorio o non doveva essere estromessa una parte, oppure dichiara la nullità della sentenza di primo grado a norma dell'articolo 161 secondo comma, pronuncia sentenza con cui rimette la causa al primo giudice. Nei casi di rimessione al primo giudice, le parti devono riassumere il processo nel termine perentorio di tre mesi dalla notificazione della sentenza. Se contro la sentenza d'appello è proposto ricorso per cassazione, il termine è interrotto. Se il giudice d'appello riconosce sussistente la giurisdizione negata dal primo giudice o dichiara la nullità di altri atti compiuti in primo grado, ammette le parti a compiere le attività che sarebbero precluse e ordina, in quanto possibile, la rinnovazione degli atti a norma dell'articolo 356. Se non c’è stata pretermissione, l’art. 331 c.p.c. (impugnazione di cause inscindibili) stabilisce che, se un giudizio è litisconsortile in primo grado e c’è impugnazione, il giudizio di appello deve essere anch’esso litisconsortile (le impugnazioni devono quindi essere unitarie). Art. 331 c.p.c. Se la sentenza pronunciata tra più parti in causa inscindibile o in cause tra loro dipendenti [e tra questi casi rientra anche la causa litisconsortile], non è stata impugnata nei confronti di tutte, il giudice ordina l'integrazione del contraddittorio fissando il termine nel quale la notificazione deve essere fatta e, se è necessario, l'udienza di comparizione. L'impugnazione è dichiarata inammissibile se nessuna delle parti provvede all'integrazione nel termine fissato [ciò comporta il passaggio in giudicato formale della sentenza di primo grado]. La sanatoria del difetto di contraddittorio opera retroattivamente al momento della proposizione della prima domanda, e non dal momento in cui il vizio è sanato Cosa succede se, in presenza di tanti litisconsorti necessari, uno di essi fa eccezione di incompetenza ? Le norme tacciono sul punto. La giurisprudenza affermava che, se l’eccezione di incompetenza non è proposta da tutti i litisconsorti necessari, tale eccezione si considera come non proposta. Dato che tale orientamento era troppo invalidante, la giurisprudenza ha cambiato orientamento, sostenendo che, se l’eccezione di incompetenza è proposta solo da un litisconsorte necessario, tale eccezione si estende anche agli altri. L’istruzione probatoria e litisconsorzio necessario Le prove non sono tutte uguali tra loro: ● (prove legali) alcune di esse producono effetti vincolanti (ad esempio, la confessione, dato che chi confessa lo fa in relazione ad un fatto a sé sfavorevole; stesso discorso vale per il giuramento); Esempio di connessione oggettiva impropria Diversi lavoratori della stessa azienda, ma di uffici diversi, hanno problemi retributivi, ma ognuno per i fatti propri (infatti, i problemi di ognuno non sono collegati ai problemi di altri). Tuttavia, essendo le questioni identiche (anche se non collegate tra loro – ad esempio, sono tutte le gate all’interpretazione di una certa clausola del contratto collettivo loro applicabile), è possibile risolverle in un’unica soluzione litisconsortile (facoltativa, in quanto per risolvere la questione non è necessario che ci siano tutti i soggetti interessati eventualmente legati da una connessione). L’art. 33 c.c. prevede delle regole flessibili per quanto riguarda le regole della competenza territoriale, ed in particolare nei casi di fori generali ex artt. 18 e 19 c.p.c. In particolare, tale articolo prevede che le più cause possano essere proposte davanti al giudice del luogo di residenza o domicilio di una delle persone convenute, per essere decise nello stesso processo. Tale deroga è possibile solo nei casi di litisconsorzio facoltativo proprio (connessione oggettiva propria), mentre non è possibile nei casi di litisconsorzio facoltativo improprio. Art. 33 c.p.c. – cumulo soggettivo (o connessione debole o per coordinazione) Le cause contro più persone che a norma degli articoli 18 e 19 dovrebbero essere proposte davanti a giudici diversi, se sono connesse per l'oggetto o per il titolo possono essere proposte davanti al giudice del luogo di residenza o domicilio di una di esse, per essere decise nello stesso processo L’art. 33 c.p.c. è stato utilizzato per finalità distorsive. Un esempio emblematico in tal senso è dato dai casi di convenuto fittizio. Qui, la finalità distorsiva consiste nel fatto che l’attore cita in giudizio un soggetto, rispetto al quale non si pretende alcunché (infatti, questo soggetto non si costituisce), al solo fine di poter scegliere un giudice a lui gradito. Questa forma di abuso del processo è spesso utilizzata quando ci sono scostamenti interpretativi (ad esempio, in relazione al risarcimento per danni da sinistro, ciascun tribunale articolava autonomamente le tabelle di liquidazione. Per cui, l’attore era incentivato a portare la causa innanzi al foro che liquidava di più). La circostanza che la connessione possa essere forte o debole influisce su come possono svilupparsi le dinamiche processuali: così come si può stare insieme, si può avere l’ipotesi inversa; in questo senso, l’art. 103 co. 2 c.p.c. stabilisce che “Il giudice può disporre, nel corso della istruzione o nella decisione, la separazione delle cause”. In particolare, oltre all’instanza di tutte le parti, il giudice può decidere discrezionalmente di sciogliere una situazione litisconsortile facoltativa quando vi costano esigenze processuali, indipendentemente dalla volontà delle parti, quando il mantenimento del cumulo rende più gravosa la trattazione delle cause connesse. Ad esempio, se, in presenza di un obbligazione pro-quota, i debitori pro quota riconoscono entrambi il proprio debito in cause distinte contro il creditore, il giudice può stabilire la separazione delle causa quando abbia la necessità di porre in essere attività istruttoria relativa solo ad una delle cause (ad esempio, l’accertamento della remissione del debito che il creditore ha fatto nei confronti di uno dei debitori). Nei casi di obbligazioni solidali, che non danno mai luogo a litisconsorzio necessario, ci sono una serie di passaggi di carattere sostanziale articolati e particolari (giudicato inutilibus, interruzione della prescrizione, remissione del debito ect.) che possono influire sullo scioglimento. Ad esempio, nel caso di remissione del debito, se il creditore rimette in parte il debito per uno solo dei condebitori solidali, l’intero credito dovrà essere ripartito tra gli altri condebitori solidali (qui, la comunanza è più forte, essendo sia per titolo che per oggetto, trattandosi di un’unica obbligazione). 13/11/2023 – il litisconsorzio facoltativo (art. 103 c.p.c.) (ripasso), litisconsorzio unitario L’art. 103 c.p.c. stabilisce la possibilità di instaurare un processo litisconsortile facoltativo, a condizione che le cause siano connesse per l’oggetto e/o per titolo (connessione oggettiva propria) ovvero quando si rende necessaria la risoluzione di identiche questioni (connessione oggettiva impropria). In linea generale, il legislatore favorisce il processo simultaneo, anche quando ci sono solo due parti; infatti, di fronte alla domanda dell’attore, il convenuto può rispondere con la domanda riconvenzionale (a sua volta l’attore può replicare quest’ultima con la domanda riconvenzionale della riconvenzionale). Ogni volta che si cumula una domanda, si allarga l’oggetto del processo. Il legislatore non disdegna il processo cumulato, neanche quando il cumulo determina un incremento dei soggetti partecipi, ciò perché è possibile risolvere più cause in un solo contesto, svolgendo una sola istruttoria. La connessione (per l’oggetto o per il titolo) è l’elemento che consente il cumulo soggettivo. La connessione è blanda nei casi di litisconsorzio facoltativo improprio (necessità di risolvere identiche questioni), mentre è più forte tanto più elementi comuni ci sono (tanto l’oggetto, quanto il titolo). Quando la connessione è semplicemente logica (connessione impropria), il legislatore consente la trattazione comune, ma non consente la deroga alla competenza territoriale dei fori generali di cui all’art. 33 c.p.c., che stabilisce che le più cause cumulate (connesse per l’oggetto o per i titolo – connessione propria-) possano essere decise presso il giudice del luogo di domicilio o residenza di una delle parti convenute. Qualora invece ci fossero fuori esclusivi, bisogna fare riferimento a quelli, i quali, peraltro, portano all’identificazione di un solo foro che attrae le diverse cause (per cui, non si pongono problemi). Allo stesso modo, la deroga non è mai prevista nei casi di competenza territoriale inderogabile (o funzionale). L’art. 33 c.p.c. può essere utilizzato per finalità distorsive (configurando delle ipotesi di abuso del processo); un esempio emblematico in tal senso è dato dalla creazione del convenuto fittizio. La Cassazione punisce tali condotte mediante sanzioni dal punto di vista delle spese processuali. Litisconsorzio quasi necessario o unitario È vero che il cumulo può avvenire; è altresì vero che ogni causa cumulata ha una sua autonomia (principio dell’autonomia delle cause); infine, è altrettanto vero che le cause, così come possono essere riunite, possono essere anche essere sciolte. In particolare, lo scioglimento permette di mettere in luce come la connessione si proponga diversamente. Infatti, ci sono situazioni in cui lo scioglimento è facile ovvero casi in cui lo scioglimento non è affatto scontato; sotto quest’ultimo profilo, ci sono situazioni in cui la connessione è talmente forte è la causa nasce come litisconsortile facoltativa, ma negli sviluppi successivi diventa assimilabile ad un litisconsorzio necessario: questa è la figura del litisconsorzio unitario (o litisconsorzio quasi necessario). Il litisconsorzio unitario è una figura intermedia tra il litisconsorzio facoltativo (connessione propria) ed il litisconsorzio necessario. In particolare, si ha litisconsorzio unitario quando ciascuno degli interessati è legittimato a dedurre in giudizio l’intera situazione sostanziale controversa, senza che sia necessaria la partecipazione al processo degli altri (il litisconsorzio unitario è facoltativo quanto all’instaurazione: i più soggetti, come nel litisconsorzio facoltativo e al contrario del litisconsorzio necessario, non sono parti necessarie del processo). Tuttavia, se la pluralità di parti si realizza, il litisconsorzio è necessario quanto alla prosecuzione: la decisione deve essere necessariamente unica per tutti i litisconsorti. Infatti, dato che gli effetti della decisione si producono, secondo la previsione normativa, anche nei confronti di chi non ha partecipato al processo, non sono possibili due decisioni di merito che abbiano ad oggetto l’unica situazione sostanziale. Nei casi di litisconsorzio unitario non è possibile la separazione delle cause di cui all’art. 103 c.p.c. Un esempio di litisconsorzio unitario è dato dagli art. 2377 e 2378 c.c., che stabiliscono che l’impugnativa di una delibera assembleare di una s.p.a. possa essere assunta dai singoli soci che siano stati assenti, astenuti o dissenzienti. Trattandosi di una situazione il cui esito deve essere unitario per tutti (la delibera costituisce un oggetto unitario che postula una decisione unitaria – la delibera non può essere valida solo per alcuni), se più soci impugnano in distinti processi la medesima delibera, la riunione delle cause è un elemento necessario. In linea generale, ai sensi dell’art. 274 c.p.c., quando più cause connesse vengono proposte separatamente davanti allo stesso ufficio giudiziario, il giudice provvede alla loro riunione. Se le più cause connesse pendono innanzi ad uffici giudiziari diversi o a sezioni diverse del medesimo tribunale, sarà il presidente del tribunale a decidere se disporre la riunione. Art. 274 c.p.c. - Riunione di procedimenti relativi a cause connesse Se più procedimenti relativi a cause connesse pendono davanti allo stesso giudice, questi, anche d'ufficio, può disporne la riunione Se giudice istruttore o il presidente della sezione ha notizia che per una causa connessa pende procedimento davanti ad altro giudice o davanti ad altra sezione dello stesso tribunale, ne riferisce al presidente, il quale, sentite le parti, ordina con decreto che le cause siano chiamate alla medesima udienza davanti allo stesso giudice o alla stessa sezione per i provvedimenti opportuni Nel caso dell’impugnativa delle deliberazioni dell’assemblea di s.p.a., c’è una connessione intensa, dato che è sia per l’oggetto (la delibera), sia per titolo (la causa petendi può essere la medesima, nel senso che i soci che impugnano la delibera possono addurre a sostegno dell’impugnazione i medesimi motivi in fatto). In questo caso, la separazione delle cause di cui all’art. 103 co. 2 c.p.c. non è possibile. La connessione delle cause rimane tale anche in sede di impugnazione. Infatti, quando si impugnano cause che hanno carattere cumulativo, bisogna verificare cosa succederà, cioè se la causa è inscindibile (art. 331 c.p.c.) o scindibile (art. 332 c.p.c.) ● L’art. 331 c.p.c., che fa riferimento alla situazione litisconsortile necessaria (tipica situazione inscindibile), stabilisce che “se la sentenza pronunciata tra più parti in causa inscindibile o in cause tra loro dipendenti, non è stata impugnata nei confronti di tutte, il giudice ordina l'integrazione del contraddittorio fissando il termine […]. L'impugnazione è dichiarata inammissibile se nessuna delle parti 16/11/2023 – intervento in causa del terzo (artt. 105, 106 e 107 c.p.c.) L’intervento in causa del terzo Il fenomeno litisconsortile può realizzarsi in vari modi, non solo all’inizio del giudizio (come nel caso del litisconsorzio necessario e facoltativo), ma anche in itinere: in quest’ultimo caso, ci troviamo di fronte a quelle situazioni che vedono l’entrata in scena di un interventore. Le norme di riferimento sull’intervento in causa del terzo sono gli artt. 105, 106 e 107 c.p.c. L’elemento comune a queste tre fattispecie di intervento è data dalla circostanza che è il soggetto terzo che, sua sponte e per motivi diversi, decide di immettersi in un processo che è stato iniziato da altri soggetti: ● Nel caso dell’art. 105 c.p.c., l’iniziativa di intervenire è assunta dallo stesso interventore. ● Nel caso dell’art. 106 c.p.c., l’inziativa per far arrivare il terzo nel processo è assunta dalle parti originarie (l’attore o il convenuto, già presenti nel giudizio, assumono l’iniziativa di chiamare in causa un soggetto terzo). ● Nella caso dell’art. 107 c.p.c. il giudice, qualora ne ravveda l’opportunità, ordina alle parti già presenti nel processo la chiamata in causa di un soggetto terzo. L’Intervento volontario ex art. 105 c.p.c. “Ciascuno può intervenire in un processo tra altre persone per far valere, in confronto di tutte le parti o di alcune di esse, un diritto relativo all'oggetto o dipendente dal titolo dedotto nel processo medesimo.” “Può altresì intervenire per sostenere le ragioni di alcuna delle parti, quando vi ha un proprio interesse” Nell’art. 105 c.p.c. vengono individuate tre figure di intervento: le prime due sono disciplinate nel primo comma, mentre la terza è disciplinata nel secondo comma. a) Intervento principale o ad excludendum La prima figura di intervento volontario è definita intervento principale o ad excludendum: l’interventore principale è colui che interviene in processo per far valere un proprio diritto, relativo all’oggetto o dipendente dal titolo dedotto nel processo medesimo, nei confronti di tutte le parti presenti nel giudizio, e non di alcune solo di esse. L’interventore principale è un soggetto che si fa portatore di una propria domanda, è titolare di un proprio diritto che vuol far valere nei confronti di tutte le parti presenti nel giudizio. La ragione per cui un terzo interviene nel processo per far valere un suo diritto nei confronti di tutti sta in ciò: posto che la sentenza “fa stato a ogni effetto tra le parti, gli eredi o aventi causa” (art. 2909 c.c.), mentre i terzi sono estranei alla pronuncia della decisione, l’ordinamento vuole evitare che il terzo sia pregiudicato in via di fatto dal giudicato pronunciato tra le parti originarie. All’interno di un processo A e B stanno litigando a proposito della proprietà di un certo bene. C interviene in via principale ad excludendum rivendicando la proprietà di quel bene. Se C non intervenisse, il giudicato vincolerebbe solo A e B, e non C, dato che questi sarebbe terzo estraneo. Tuttavia, sebbene in base ad un principio giuridico quel giudicato non sia in grado pregiudicare C, questi potrebbe comunque essere pregiudicarlo in via di fatto (la sentenza impedisce di fatto al terzo che non è intervenuto di far valere il suo diritto – rispetto al caso dell’esempio, non ha l’effettiva disponibilità del bene-). Proprio in questi casi l’ordinamento consente ad un terzo di far valere il proprio diritto all’interno del processo, onde evitare che risulti pregiudicato in via di fatto. Il terzo fa valere una propria domanda in cui chiede la tutela di un proprio diritto che ha delle caratteristiche di: - Autonomia, dato che è un diritto proprio dell’interventore che, sebbene sia connesso con quello già dedotto in causa, questi fa valere con una propria domanda, - Incompatibilità, nel senso che il diritto del terzo è fatto estintivo del diritto dell’attore, e viceversa. Per cui, una volta riconosciuto il diritto del terzo, la domanda dell’attore deve essere rigettata. - Prevalenza, nel senso che il diritto dell’interventore è in una posizione di prevalenza rispetto al diritto originariamente dedotto in giudizio. ciò significa che, sebbene l’incompatibilità fra i due diritti sia potenzialmente reciproca, l’efficacia impeditiva opera in via di fatto a favore del diritto dell’interventore (in altri termini, il diritto del terzo sopravvive, mentre quello dell’attore si estingue) Se il terzo interviene, diventa parte (e quindi sarà soggetto al giudicato) e, quindi, avrà tutti i poteri processuali delle parti (potrà giurare, allegare fatti ect.). Tuttavia, quando s’interviene, si soggiace alle preclusioni. b) Intervento litisconsortile (o adesivo autonomo) Si ha intervento litisconsortile o adesivo autonomo quando l’interventore fa valere nei confronti di alcune delle parti originarie un diritto relativo all’oggetto o di dipendente dal titolo dedotto nel processo medesimo. La fattispecie è analoga a quella del litisconsorzio facoltativo, con la sola differenza che in questo caso la plurisoggettività si realizza in corso di causa. In questo caso, il terzo si affianca alla posizione della parte che lamenta le stesse sue doglianze, perché vi ha un proprio interesse e non per far valere un proprio diritto autonomo, prevalente ed incompatibile. Un esempio è dato dall’impugnativa delle delibere assembleari da parte dei soci, in cui un socio (assente, dissenziente, astenuto) può affiancare le proprie doglianze a chi ha già proposto la domanda. Se si fosse proposta la domanda in un separato processo, il giudice avrebbe ordinato la riunione dei procedimenti (o ai sensi dell’art. 40 oppure ai sensi dell’art. 274 c.p.c.). c) Intervento adesivo dipendente Si ha intervento adesivo dipendente quando l’interventore partecipa in via adesiva al processo (cioè, in relazione ad una situazione sostanziale altrui), senza proporre una propria domanda, al fine di ottenere una sentenza favorevole ad una delle parti. L’interventore adesivo dipendente è colui che “intervenire per sostenere le ragioni di alcuna delle parti, quando vi ha un proprio interesse ” (art. 105 co. 2 c.p.c.). L’ interesse cui si riconnette la possibilità di intervento ai sensi dell’art. 105 co. 2 c.p.c. viene collegato a rapporti di dipendenza permanente (ad esempio, può intervenire in via adesiva dipendente il subconduttore rispetto alla causa tra locatore e conduttore, dato che, ai sensi dell’art. 1595 c.c., subisce gli effetti indiretti di quel giudicato). L’interventore adesivo dipendente non fa valere un suo diritto, dato che interviene a sostegno di una situazione sostanziale altrui; per questo motivo l’interventore non può compiere atti dispositivi (non può rinunciare alla causa, non può giurare né confessare), pur potendo allegare fatti, presentare prove ect. Secondo l’interpretazione maggioritaria, possono intervenire in veste di interventori dipendenti i titolari di subcontratti (che hanno una relazione di pregiudizialità permanente rispetto al diritto dedotto in giudizio). Invece, secondo un’altra impostazione, potrebbero intervenire in via adesiva dipendente anche i titolari di un diritto proprio autonomo (ad esempio, il fideiussore può intervenire nel giudizio tra il debitore ed il creditore per sostenere le ragioni del debitore, e quindi non questioni relative alla sua posizione fideiussoria). L’intervento su istanza di parte ex art. 106 c.p.c. “Ciascuna parte può chiamare nel processo un terzo al quale ritiene comune la causa o dal quale pretende essere garantita” Il terzo può essere chiamato da una delle parti originarie qualora vi sia una comunanza di lite di causa, oppure quando una parte pretende di essere garantita dal terzo (emblematico esempio di chiamata in garanzia è quello dell’assicuratore da parte dell’assicurato) Le ragioni per cui può essere opportuno chiamare in causa un terzo possono essere esemplificate in questo esempio: Tizio, che percorre tranquillamente un'autostrada, investe una pecora. La pecora muore e Tizio subisce dei danni. Avendo pagato il pedaggio, Tizio chiama in causa la società autostradale perché questa avrebbe dovuto garantire l'autostrada libera da animali. La società si costituisce, si dichiara non responsabile del danno e attribuisce la responsabilità ad un pastore che, per far prima a passare da una pane all'altra, ha fatto un buco nella rete e una sua pecora è rimasta sull'autostrada. Il giudice ritiene fondata la difesa del convenuto, e rigetta la domanda. La sentenza diviene definitiva. Tizio propone allora la domanda di risarcimento nei confronti del pastore, individuato dalla sentenza come vero responsabile. Questi si costituisce e si dichiara a sua volta non responsabile (questi è stato estraneo al primo giudizio e quindi il giudicato non lo vincola); anzi specifica che, a causa dell'incuria della società autostrade nel mantenere la recinzione, ha subito il danno della perdita di una pecora, e per questo si riserva di proporre domanda contro la società autostradale per il risarcimento del danno. La difesa del convenuto viene accolta, la domanda è rigettata, e la sentenza anche qui diviene definitiva. Quindi Tizio si trova di fronte a due pronunce che, in astratto, riconoscono che ha un diritto risarcibile, nessuna delle quali, però, in concreto, gli dà il risarcimento del danno. Per cui, se il convenuto contesta l’effettiva titolarità dell’obbligo (la difesa del convenuto in questione è definita contestazione della legittimazione passiva, da intendersi come individuazione del vero obbligato), l’attore, chiamando in causa anche
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved