Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Appunti Psicologia dell'arte 2022-2023, Appunti di Psicologia Generale

Appunti del Corso di Psicologia dell'arte (DAMS e Arti Visive) dell'AA 2022-2023

Tipologia: Appunti

2022/2023

Caricato il 19/04/2023

francesca-lamberti-1
francesca-lamberti-1 🇮🇹

4.7

(33)

26 documenti

1 / 38

Toggle sidebar

Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica Appunti Psicologia dell'arte 2022-2023 e più Appunti in PDF di Psicologia Generale solo su Docsity! Psicologia dell’arte E. Gombrich, Freud e la psicologia dell’arte Primo libro in programma è di Ernst Gombrich che nasce a Vienna nel 1909 in un contesto di enorme fermento con personalità come Freud con la psicanalisi, Klimt, Schiele e altri. È in questo contesto che nasce la storia dell’arte, infatti, Gombrich è uno storico dell’arte che studia cose molto diverse tra loro e che ha sempre avuto un grande interesse per la psicologia, per la psicologia della percezione e anche per i legami tra arte e scienza. È allievo di Julius von Schlosser, esponente della cosiddetta “Scuola di Vienna”, storico dell’arte e conservatore del museo principale di Vienna (soprattutto per la sezione delle arti applicate) che si firmava con il nome italiano “Manino” in onore alla madre di origini italiane. Schlosser ha pubblicato un testo dal titolo “Storia della Letteratura artistica” nel 1924 ma il suo libro più interessante per la sua peculiarità è “Storia del ritratto in cera” del 1912 dove riflette sull’effetto che fanno i ritratti in cera. La cera è un materiale malleabile, viscoso che imita molto bene la carne umana, la texture e l’incarnato che si vede bene nei musei “pop” delle cere. Colpiscono perché non riusciamo a distinguere se si tratta di carne vera o se invece è qualcosa di sintetico. Questo tipo di rappresentazione è talmente speciale che ne dedica un testo intero perché è interessato a questo materiale che impedisce di distinguere il reale dal non reale tanto da farci vivere una sorta di incubo. Si occupa quindi di un’arte minore, considerata nell’ambito dell’artigianato e viene interessato da questo materiale che impedisce di comprendere cosa sia reale e cosa non lo sia. Proprio in questo contesto Sigmund Freud scrive un saggio molto celebre intitolato “Il perturbante” riguardo il tema della difficoltà di comprensione rispetto alla realtà o meno di alcune cose focalizzandosi sugli automi ma prendendo ad esempio anche il ritratto in cera. Nell’avvicinarsi a questi ambiti, rappresentazioni visive e visuali diverse rispetto ai capolavori tradizionali, Schlosser prende spunto da Aby Warburg e legato a questo contesto troviamo anche Ernt Kris. Kris è un altro allievo dello Schlosser ma invece di diventare storico dell’arte come Gombrich si avvicina sempre di più alla psicanalisi scrivendo “Ricerche psicanalitiche sull’arte” e fu direttore della rivista di psicanalisi applicata intitolata “Imago”. Questo ci permette di comprendere il clima nel quale si inserisce la figura di Gombrich carica di studi e interesse nei confronti della psicanalisi. Kris, infatti, parla dell’artista che quando crea è in preda a quella che chiama “regressione controllata” distinguendola da processi regressivi “patologici”. Nel momento della creazione, secondo Kris, l’artista allenta il controllo delle proprie componenti affettive, pulsionali (questa cosa gli è concessa durante il momento della creazione) e diventa altro rispetto a ciò che la civiltà vorrebbe. Questo gli permette di far emergere tutto ciò che fa parte della dimensione dell’inconscio, che Freud associa al “processo primario”, concetto presente nell’ “Interpretazione dei sogni” del 1899-1900 e nella “Psicopatologia della vita quotidiana” del 1901 e tutti questi concetti hanno a che fare con quello che Kris indica come “libero fluire di energia psichica”. Kris, quindi, dice che così come l’artista allenta questo controllo della dimensione affettiva attingendo alle parti più profonde del sé, anche inconsce o preconsce, il fruitore nel momento in cui fruisce di quell’opera in un certo senso fa la stessa cosa e riesce ad attingere ai livelli più profondi del sé combaciando con l’artista. Gombrich lascia l’Austria prima di Kris con l’avvento del nazismo, arriva a Londra pubblicando in inglese e insegnando Storia dell’Arte ad Oxford. Dal 1951 al 1976 ha diretto il Warburg Institute ovvero un centro importante specializzato soprattutto nello studio dell’influenza dell’antichità classica su tutti gli aspetti della società europea. L’istituto è intitolato ad Aby Warburg che nasce nel 1866 e muore nel 1929 ed è considerato il fondatore dell’iconologia ovvero un passo ulteriore rispetto all’iconografia che ricerca il significato più profondo, nascosto, con collegamenti culturologici e interdisciplinari la cui opera viene portata avanti soprattutto dagli studi di Erwin Panofsky e Fritz Saxl. Quindi Gombrich ha diretto a lungo un istituto intitolato ad una persona interessata all’iconologia e non alla storia dell’arte come fonte ma ai significati profondi delle varie espressioni artistiche; questo lo lega a doppio filo con il mondo della psicanalisi. Dobbiamo tenere sempre in considerazione che Aby Warburg, quindi, è una figura centrale e complessa e non è legato solo alla psicologia dell’arte (nonostante si definisse uno “psicostorico”) perché è una figura molto interdisciplinare. Nel 2021 è stato pubblicato un libro dal titolo “La guarigione infinita. Storia clinica di Aby Warburg” che parla della lunga malattia psichica di Warburg che è stato curato nella clinica dello psichiatra e psicanalista Ludwig Binswanger. Questo libro parla della psichiatria dell’epoca, del clima che si respirava. A Warburg, Gombrich dedica il libro intitolato “Una biografia intellettuale” ma i suoi studi più importanti hanno poco a che fare con la psicanalisi nonostante sia inserito in quel contesto. Al centro del suo interesse c’è l’idea di “metodo” ovvero il modo con cui si affrontano le questioni della storia dell’arte o il problema di come le persone affrontino il tema delle immagini, cosa è un’immagine? Lavora molto sul concetto di “tradizione” e “innovazione”, oltre che di “imitazione”. Rifiuta durante tutta la sua carriera un’idea di origine romantica che vede l’artista come un uomo isolato che crea in solitudine in una dimensione estraniata (quello di cui aveva parlato Kris). Gombrich vede l’artista collocato in un contesto, al centro di una rete con molti nodi di connessione e quindi, quando parla di Freud e di psicanalisi, o affronta il temine “simbolo”, lo fa criticando la vulgata psicanalitica che banalizza una teoria. Gombrich dice che l’arte nasce dall’arte quindi si discosta dal mito romantico dell’artista che si isola dal mondo attingendo da qualcosa di profondo al suo io per poter creare. Nel libro in programma “Freud e la psicologia dell’arte” sono presenti tre saggi riferiti a conferenze che Gombrich ha sostenuto di fronte a psicanalisti: - Freud e l’arte (titolo originale “L’estetica di Freud”) - Psicanalisi e storia dell’arte - Gli studi sull’arte, strumenti validi per lo sviluppo dei simboli Da ricordare anche che esistono due termini: - Psicanalisi - Psicoanalisi Sigmund Freud scrive a Carl Gustav Jung che la dicitura corretta è “psicoanalisi” ma non è comunque sbagliato dire “psicanalisi”. Nell’ambito scientifico, però, il termine psicanalisi fa riferimento solamente alla psicanalisi lacaniana mentre “psicoanalisi” fa riferimento a tutta la disciplina. Uno psicanalista lacaniano muove i suoi studi da Jacques Lacan. R. Arnheim, Arte e percezione visiva Il terzo libro in programma è di Rudolf Arnheim che è considerato il patriarca della psicologia dell’arte ed è molto distante dalla psicoanalisi. Nasce a Berlino e muore negli Stati Uniti, di famiglia ebraica formatosi alla scuola della Gestalt e allievo di Max Werthaimer. Inizia la sua carriera applicando interessi in ambito percettologico al cinema e ha come interesse centrale quello di sottolineare il carattere creativo, formativo, strutturante del nostro percepire in modo peculiare perché diventa un grande interprete della “psicologia della forma” ovvero la “Gestalt”. In questo senso negli anni ’30 pubblica il libro dal titolo “Film come arte” che scrive dopo essere stato in contatto con il Centro Cinematografia di Roma. Si diceva che il cinema fosse il mezzo che meglio rappresenta la realtà così come è e lui invece dice che il cinema è arte nella misura in cui dà forma ad un reale ma non lo rappresenta la realtà in maniera meccanica per come è. Facendo queste considerazioni dobbiamo tenere presente: - la mancanza del colore tipico del cinema dell’epoca - la mancanza del sonoro ancora poco diffuso - la riduzione su una superficie bidimensionale della realtà tridimensionale che ha bisogno di una “traduzione” della realtà e non una sua registrazione. Tuttavia, Arnheim dice anche che pian piano il cinema sente il bisogno di sfidare la realtà e soddisfarne le esigenze perché siamo nel momento in cui si ha a che fare con le grandi rivoluzioni delle avanguardie artistiche che destrutturano la forma e lui va in questa direzione. Il solo testo di Freud “Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio” presenta saggi tratti dalle opere di Freud che danno una visione complessa e confusa dei suoi studi perché è il risultato di un insieme di testi che Freud indica di raccogliere nel 1929 e di pubblicare. I saggi vanno dal 1883 al 1934 e, quindi, presentano argomenti simili ma in un’evoluzione del pensiero di Freud che li pongono in contrasto. Lui ha ottenuto anche un premio intitolato a Goethe nel 1930 che non è solo letterario e nemmeno scientifico. Molto a lungo la sua scrittura è stata centrale nell’attecchire delle sue teorie e lui diceva che i suoi testi si leggevano come dei romanzi, cosa che non gli piaceva molto perché voleva che venissero letti come casi clinici, scientifici. Cesare Musatti, curatore della collana di testi di Freud, è una figura che ci permette di comprendere come non ci sia un approccio univoco alla psicologia dell’arte. Nasce vicino a Venezia da padre di origine ebraica, si sposa quattro volte e inizialmente studia matematica prima con un filosofo tanto che poi passa a studiare filosofia e infine studia con uno psicologo sperimentale di nome Vittorio Benussi. Si è laureato con lui sulle geometrie non euclidee quindi una tesi in apparenza ben poco psicologica che sposava invece la matematica e la filosofia. Benussi lo coinvolge nelle pratiche di laboratorio e lo avvicina alla scuola della Gestalpsychologie ovvero la psicologia della forma avviata in ambito tedesco, soprattutto a Berlino, da Max Werthaimer e dai suoi allievi Koffka e Kohler. Loro studiavano i cosiddetti esperimenti stroboscopici come l’“effetto phi” ovvero un effetto di movimento apparente, un effetto di costanza percettiva (ad esempio ci sono mostrate delle luci che si accendono e si spengono in sequenza ma quello che percepiamo è il movimento di una luce bianca in maniera circolare). Gli studi di questo tipo sottolineano qualcosa che ha una portata non solo meccanica ma anche relativamente alla natura costruttiva della nostra percezione, quando percepiamo qualcosa non siamo passivi, la nostra mente è attiva ed è lei stessa a costruire la percezione. Ciò che vediamo non è ciò che è nella realtà ma ciò che costruiamo in base ad una serie di elementi che dipendono dalla nostra struttura cerebrale e dalla nostra esperienza. L’aspetto essenziale, quindi, è mettere al centro il concetto che il fruitore non deve essere passivo (è la stessa cosa che pensa anche la psicanalisi dell’arte). Ci sono punti di tangenza e continuità tra i vari filoni. Musatti coltiva la psicologia sperimentale, della percezione, all’università portando avanti la Gestalt e contemporaneamente, in privato, fa attività di terapeuta, scrive di psicoanalisi e cura l’opera di Freud. Ha due anime che danno vita a due approcci molto distanti tra loro e soprattutto si avvicina alla psicoanalisi attraverso temi molto astratti, filosofici, che possiamo chiamare “metapsicologici”. La metapsicologia è un termine formato da “meta” che in greco significa “al di là”, “dopo” e viene da una rivisitazione del termine “metafisica” e quindi una scienza di ciò che trascende le cose naturali, qualcosa che va al di là dei loro confini. La metapsicologia è la psicologia nella sua dimensione più teorica, astratta e difficile. Nella psicoanalisi dell’arte abbiamo a che fare anche con la dimensione metapsicologica perché si trattano argomenti astratti, filosofici, teorici (ad esempio il termine della sublimazione tramite la creazione di opere d’arte che è un tema centrale ma mai chiarito). Musatti si occupa di psicologia della percezione dando vita ad un eponimo (ovvero un nome posto sopra qualcosa, un soprannome) che gli ha permesso di soprannominare una sua teoria, dandogli il suo nome ovvero “Effetto Musatti” che ha a che fare con il contrasto simultaneo. La sua legge dice che se ci sono tanti quadrati colorati con un quadrato più piccolo grigio al loro interno (superficie indotta e superficie inducente) in base al colore il grigio avrà un’intensità differente. Leggi di questo tipo non sono state inventate da Musatti ma già nell’Ottocento ci sono studi sul colore come la ruota di Chevreul e il cerchio cromatico con colori complementari (quando la loro somma dà come risultato il bianco). Questo espediente viene molto utilizzato in pittura in modo spontaneo ma comincia anche ad essere studiato in maniera precisa e scientifica confluendo nelle sperimentazioni puntiniste di Georges Seurat che accosta puntini di pennello o piccole tessere di colore “puro” lasciando al nostro occhio la riunione di essi per dare idea di cromia generale. All’interno di queste teorie c’è l’idea di dinamica del fruitore che non è passivo ma, anzi, attivo. Infatti, c’è una differenza tra ciò che è nella realtà e ciò che noi percepiamo come elaboratori attivi quindi si ragiona filosoficamente su cosa significhi rappresentare la realtà, imitare la natura o astrarre dalla realtà (in questo senso il ruolo della nostra mente è al centro della fruizione). Ad esempio, nel triangolo di Kanizsa abbiamo delle linee spezzate, dei cerchi neri da cui manca una “fetta” e il resto è solo sfondo bianco: in questo caso abbiamo a che fare con qualcosa che dal punto di vista fisico è diverso da ciò che percepiamo ovvero due triangoli equilateri, il secondo dei quali è molto più luminoso dell’altro. Questo funziona per tutte le persone che fanno uno sforzo nel ricercare le linee spezzate perché è più naturale vedere i due triangoli anche se nessuno dei due è realmente disegnato e nella realtà non esistono (scientificamente si tratta di profili soggettivi o illusori). Questo accade per diverse ragioni, tra cui il fatto che noi abbiamo una tendenza innata ad articolare ciò che vediamo secondo un’articolazione figura-sfondo, tendiamo a replicare un modello standard anche quando ci sono margini inesistenti perché ne abbiamo bisogno per orientarci nel mondo e quando non c’è lo ricreiamo in maniera illusoria. In questo contesto subentra anche la probabilità ovvero la mente percepisce sempre il cerchio nero sotto il triangolo bianco perché è più probabile che qualcosa copra qualcos’altro. Questo tipo di psicologia si occupa quindi della nostra percezione, di ciò che appare distinguendo realtà e fenomeno (che deriva dal greco e significa “apparire”) e, al contempo, ci suggerisce di credere che quelle proprietà dell’esperienza (colore, forma, dimensioni) dipendano solo in piccola parte da ciò che sono realmente nella realtà (quindi dalle proprietà del mondo) ma, così facendo, subiamo il realismo ingenuo ovvero l’idea del dare per scontato che ciò che percepiamo sia la realtà. Questo ha a che fare con il nostro modo di vedere il mondo e di esperirlo e nel momento in cui ci accorgiamo che realtà e percezione sono due cose diverse capiamo di essere di fronte alle illusioni ottiche. Gombrich scrive un testo su questi temi intitolato “Arte e illusione” in cui abbiamo l’idea di che cosa sia l’illusione in senso molto ampio, si chiede cosa voglia dire “astrarre” o “rappresentare”: si tratta quindi di filosofia della percezione. 1) La psicoanalisi dell’arte La psicologia dell’arte la potremmo considerare una filosofia della mente inaugurata da Sigmund Freud che è nato in una città dell’attuale Repubblica Ceca da una famiglia di origine ebraica e subito sorge un dubbio perché la religione ebraica è una religione aniconica, che non deve avere a che fare con le immagini. Il rapporto che un uomo colto di formazione ebraica poteva instaurare con le immagini era diverso da quello che possiamo avere noi crescendo in un paese di religione cattolica; infatti, molti fanno riferimento alla difficoltà di Freud di leggere e interpretare le immagini proprio per questo motivo. La sua figura si inserisce in un clima di grande fermento che coinvolge soprattutto l’ambiente viennese e si inizia a percepire la caduta imminente dell’impero austroungarico. Secondo Giovanni Jervis che insegnava psicologia dinamica (che nasce dalla psicoanalisi di Freud) e che scrive il testo “Freud” insieme a Giorgio Bartolomei dove leggono a loro volta in chiave psicoanalitica il periodo di Freud: il momento di enorme fermento culturale e vivacità intellettuale era una sorta di grande meccanismo di difesa di massa percependo la caduta dell’impero e si coglie la concentrazione di energie creative che hanno portato a moltissime innovazioni in pochi anni. Quella che noi chiamiamo “Secessione Viennese” è una delle correnti nate in questo periodo che comprendono anche il mondo della letteratura o della musica. Arthur Schnitzler era stato molto apprezzato da Freud tanto che c’è uno scambio tra i due e Freud gli dice di aver sempre temuto di scrivergli perché pensava di trovare un suo doppio, che gli somigliasse troppo, che fosse arrivato alle sue stesse conclusioni attraverso un percorso diverso. Se parliamo di letteratura troviamo anche Zweig con “Il mondo di ieri” oppure “Il doppio sogno” di Schnitzler o il film “Eyes wide shut” Kubrick. La psicoanalisi dell’arte è quella che ha avuto un maggiore successo tra tutti i filoni e ha influenzato maggiormente le poetiche degli artisti parallelamente alla fama della psicoanalisi stessa tanto che Freud è diventato un personaggio “pop”. Tutto questo ha portato in tempi più vicini a noi ad un discredito delle teorie freudiane pur tuttavia ripercorrendone le teorie ci permette di comprendere cosa hanno lasciato nel mondo. Freud non è un filosofo perché studia medicina, quindi è un medico di formazione piuttosto conservatore. Le sue prime ricerche muovono dall’interesse per la malattia sulla quale si esercitava la nascente neurologia ovvero l’isteria con alcuni pazienti celebri, tra cui Anna O. il cui vero nome è Bertha Pappenheim. Al principio Freud e il suo collega con cui collaborava ovvero Josef Breuer prima usavano l’ipnosi e poi si rivolgono alla tecnica delle libere associazioni e che contraddistingue ancora oggi il metodo psicanalitico. L’altro metodo chiaro e potente, caratterizzante la psicoanalisi, è l’interpretazione dei sogni. Rispetto all’arte la psicoanalisi è stata “psicoanalisi applicata” perché è una teoria in cui gli assunti della psicoanalisi vengono applicati al mondo dell’arte secondo due vie: - Psicobiografia che porta alla patografia (focus sull’artista) - Psicoanalisi dell’opera (focus sull’opera) Il fruitore in questo caso non è interessato da questi studi, almeno nei tratti più tradizionali. Quasi sempre la psicobiografia è la parte predominante: gli psicoanalisti sono arrivati a farne addirittura una caricatura quando si avvicinano all’arte perché lo fanno con gli stessi strumenti con cui si avvicinano al paziente. Quello che è al centro dell’interesse è spesso il significato profondo delle cose e possiamo immaginare che è l’elemento che ha affascinato profondamente. 1A) Psicobiografia (patografia) Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci, Sigmund Freud, 1910 L’esempio madre della psicobiografia è il Leonardo di Freud, testo del 1910 in cui si concentra su quello che è il mistero del carattere del personaggio di Leonardo da Vinci. La fama di Leonardo era in quegli anni all’apice perché nel corso dell’Ottocento, soprattutto alla fine, era stato oggetto di ereditata” à questo è il problema centrale della storia dell’arte ovvero distinguere ciò che è culturale e ciò che è individuale e come si possa leggere la figura del genio. Questo è il problema più serio negli sbilanciamenti della psicanalisi dell’arte quando le conoscenze storico artistiche non sono abbastanza forti nello psicanalista. Per esempio, Schapiro ci ricorda che Freud non conosceva il culto di Sant’Anna arrivato all’apice negli anni di gestazione dell’opera di Leonardo, quindi, non è così strano che l’artista gli dia molta importanza inoltre c’è un legame con il mito dell’Immacolata Concezione, un concetto, una dottrina dibattuta molto spesso nella storia della religione cattolica e posta al centro delle controversie religiose del XV secolo à si ritiene che, così come Maria ha concepito Gesù senza peccato, anche lei è stata concepita senza peccato dalla madre Anna. Proprio perché Maria è stata concepita senza peccato, può concepire a sua volta senza peccato. Sant’Anna, quindi, non è solo madre, non è qualcuno che sta alle spalle di Maria, ma in questo caso è anche una figura centrale perché è l’origine delle immacolate concezioni. Freud sembrava non rendersi conto della centralità di questi temi nella cultura del tempo. La festa di Sant’Anna fu voluta da Papa Sisto IV che ha commissionato la Cappella Sistina nel 1481 dedicata alla Vergine concepita senza macchia. Poco prima della realizzazione del cartone preparatorio di Leonardo il culto di Sant’Anna riceve ulteriore stimolo dall’Abate Thritemius che scrisse un testo in latino poi voluto in tutta Europa con le lodi per Sant’Anna. Le preghiere per la santa venivano diffuse su fogli in cui la Vergine e la madre erano sempre vicine quindi non è solo l’infanzia di Leonardo ad aver inciso sulla realizzazione dell’opera ma anche la cultura nella quale era inserito. Shapiro ci dice che questo tipo di iconografia non è invenzione di Leonardo, che la Sant’Anna Metterza non ha solo un tipo di rappresentazione (rigida, piramidale) e, soprattutto, che la sua figura nell’Europa Occidentale del tempo, aveva assunto un ruolo importante in tutta l’Europa cattolica del XV secolo. Nel suo testo Schapiro ci dice che, contrariamente all’opinione di Freud, la giovinezza di Anna si può leggere come qualcosa legato all’idealizzazione di una figura santa che diventa un doppio della figlia Maria per creare un equilibrio per la fede e devozione dei cattolici, è anche un elemento tipico dell’arte medievale e rinascimentale di rappresentare le donne virtuose come belle e giovani. Ci dice anche che la rappresentazione più diffusa è quella di Masolino e Masaccio degli Uffizi ma che ce ne sono molte altre di iconografie e fa riferimento ad una più antica di una statua lignea che si trova al Bargello dove Sant’Anna tiene in braccio, sorregge, sia Maria che il bambino à non è una madre austera posizionata dietro, come uno sfondo. Infatti, troviamo spesso un gesto affettuoso che lega Anna e Maria ed è questa circolazione di affetti ad essere alla base del dipinto di Leonardo. In un’opera di Durer addirittura la Vergine ci dà le spalle e le due donne giocano con il bambino che si trova tra le loro braccia in un esterno indicato da pochi elementi. Freud non aveva in mente tutta la rassegna di opere con varietà di iconografia ma solo quella di Masaccio. Un altro elemento analizzato è il sorriso à mentre Freud è esaltato dal sorriso delle due donne che ricorda quello della Gioconda, Shapiro sottolinea che non è unicamente appannaggio di Leonardo perché la tipologia di sorriso è la stessa che è già presente in Verrocchio, maestro di Leonardo. Quindi, grazie a queste correzioni capiamo come non si debba considerare invenzione di Leonardo l’invenzione di un’iconografia di Maria e Sant’Anna che non sia rigida e severa e nemmeno il sorriso che è già presente nel suo maestro. Freud invece legava l’arte di Leonardo al complesso di Edipo e ci troviamo di fronte ad una scrittura primo novecentesca anche nella terminologia. Questo caso, comunque, è estremamente difficile perché Leonardo è molto famoso ma di lui, ancora oggi, si sa molto poco quindi Freud è consapevole di aver anche esagerato nella sua visione delle cose. Freud dice che Leonardo comprime nelle sue opere un’estrema pulsione e ha sublimato la sua brama di sapere in arte e scienza à c’è qualcosa di fronte alla quale la psicoanalisi si ferma perché non sa dire, date determinate premesse, cosa fa si che questi elementi facciano nascere un artista in un certo modo (perché lui ha sublimato mentre un altro non sarebbe stato in grado di fare e avrebbe eliminato). Le pulsioni e le loro trasformazioni sono il dato ultimo che la psicoanalisi può indagare poi cede il passo alla ricerca biologica. Perché sulle basi organiche si eleva l’edificio psichico e mette quindi in relazione cervello e mente quando gli studi si stavano distinguendo (psichiatri vs neurologi). Riassumendo, nel suo testo Freud è consapevole dei limiti della psicoanalisi dell’arte, scrive un testo che si legge come un romanzo psicoanalitico e lo ha fatto con enorme passione (quindi fa psicoanalisi applicata, in particolare, psicobiografia). Ci sono vari temi psicoanalitici in questo testo: - Complesso di Edipo (Tre saggi sulla teoria sessuale e altri scritti, 1900-1905) à parla di un legame, un rapporto strano, morboso e allo stesso tempo naturale nei confronti della madre. Il complesso di Edipo è un desiderio inconscio e rimosso di ogni bambino di unirsi al genitore dell’altro sesso (nel caso di bambina con il papà si chiama Complesso di Elettra). Tutti i bambini attraversano questa fase che ha un ruolo nello sviluppo sessuale del singolo. Nel caso di Leonardo la questione si fa più complessa perchè lui non avrebbe superato questo complesso. - Salute/nevrosi (Psicopatologia della vita quotidiana) à la non separazione netta tra i due termini è molto importante quando parliamo degli artisti. L’inconscio non si fa sentire solo nelle nevrosi, nella malattia, ma anche nel lapsus, nelle sviste, nelle disattenzioni, nella vita quotidiana e nell’arte che non hanno a che fare con la malattia. La centralità dell’inconscio per Freud fa si che ci debba essere un’articolazione tra salute e nevrosi perché occupa vari aspetti della nostra vita. - Condensazione (L’interpretazione dei sogni, 1899) à fusione tra elementi che si concretizza nello scarabocchio assoluto di figure intricatamente legate fra loro e che Leonardo usa come schizzo. Anna e Maria si fondono insieme ed è molto presente nei disegni preparatori dell’opera di Leonardo. Sono fusa insieme come “figure oniriche mal condensate così che risulti difficile capire dove finisca l’una e inizi l’altra e quello che sembra un difetto di composizione si riscatta nell’analisi rimandando al significato segreto ovvero le due madri della fanciullezza si uniscono in una sola figura”. Nell’interpretazione dei sogni la condensazione è la fusione di diversi elementi visivi ma non solo ed è uno dei principali meccanismi del sogno così come ci compare nel suo contenuto manifesto. Le figure che, attraverso il sogno, vengono condensate devono avere qualcosa in comune e questo elemento deve emergere nelle sedute psicanalitiche. Questo è qualcosa che visivamente è molto simile a ciò che avviene se scattiamo varie fotografie sulla stessa lastra (esempio delle fotografie surrealiste). - Sublimazione à concetto complesso e irrisolto che la psicoanalisi ha fatto emergere. Siamo in piena metapsicologia in questo caso specifico della psicoanalisi. Freud parla della tendenza di Leonardo di sublimare le pulsioni con eccezionale capacità. Questo termine è usato anche in chimica e fisica e si intende la transizione di una sostanza dallo stato solido a quello gassoso senza passare dallo stato liquido. Il linguaggio di Freud è sempre molto legato all’ambito chimico-fisico quindi questo non sorprende. In italiano, francese e inglese si usa lo stesso termine anche in ambito psicologico e non è un caso che in tedesco le due parole siano diverse ma con radice uguale. È la deviazione di una pulsione sessuale o aggressiva verso una meta non sessuale o non aggressiva, ciò consente una valorizzazione delle pulsioni a livello sociale. È attestato con significato “morale”, cioè come “elevazione spirituale” già dai primi del Trecento. Attraverso la sublimazione prendono vita i contributi umani nei confronti della cultura e della società, quindi, è un meccanismo che sposta e trasforma, nozione complicata che ha a che fare con la metapsicologia e che viene considerata nel dizionario della psicoanalisi una delle lacune maggiori dell’apparato teorico concettuale della psicoanalisi. È qualcosa che non viene mai spiegato fino in fondo e quindi ogni volta che emerge non viene mai risolto. Nasce il problema perché nella maggior parte dei casi si ha a che fare con elementi teorici quindi se un concetto non viene spiegato non si riesce ad usare se non considerandola come assunto, dato. Freud e gli altri definiscono l’arte come una “sublimazione riuscita” perché ciò che è pulsionale si eleva e dunque l’arte nasce da pulsioni che vengono sublimate ma non si capisce cosa spinga un artista a sublimare e cosa no quindi l’essenza dell’arte è inaccessibile alla psicoanalisi. Ignoriamo per quale ragione Leonardo non abbia fatto uso della rimozione che lo avrebbe portato ad essere un nevrotico ma ha sublimato in maniera corretta. L’errore del nibbio-avvoltoio fu fatto notare per la prima volta da uno storico dell’arte di nome Matt Lagan direttore del Victoria and Albert Museum attraverso un articolo su un giornale molto famoso nel 1923 quando Freud era ancora in vita. Inoltre, nella Madonna della Gatta di Giulio Romano troviamo una Sant’Anna messa di tre quarti ma dietro, sullo sfondo della composizione con un gioco di intrecci particolare. In tutto quello che è stato detto emerge un fatto molto importante per la psicoanalisi dell’arte perché in Freud esistono molte asserzioni e affermazioni di ineffabilità dell’arte che portano a sospendere, a non poter definire a parole e che ha un filo stretto nell’intendere l’arte in maniera romantica. Questi sono anche artifici retorici di Freud che permettono di fare psicoanalisi applicata dando voce ad un punto di vista tutto interno alla psicoanalisi. Ne “Il poeta e la fantasia” del 1907 si parla di alcuni temi riguardo i profani su cui ha sempre esercitato attrazione il fatto di capire da dove tragga la propria materia poetica (artistica) l’artista e come egli riesca a trasformarla in modo tale da avvincerci suscitando in noi commozione, interesse o altro sentimento. Tutte queste cose prima dell’inizio della visione non ci saremmo creduti capaci. Per quanto riguarda l’artista, Freud ipotizza un’analogia tra l’attività del gioco del bambino legato al “principio di piacere” e l’attività del fantasticare dell’adulto. La fantasticheria degli adulti, materia base grezza dell’artista, nasce dritta dal gioco dei bambini. Il mondo degli artisti è regolarmente intessuto dalle fantasticherie che nascono da sogni irrealizzabili e insoddisfatti. Come l’artista trasforma tutto ciò che sogna? Lo fa addolcendo, alterando o velando il carattere della sua fantasticheria che risulta meno alterata. Ci presenta la materia alterata in una forma che produca un godimento estetico rendendo tollerabili gli elementi che la coscienza dell’uditore rifiuterebbe se non ci fosse questa forma adeguata, addolcita. 1B) (Psico)analisi dell’opera Il Mosè di Michelangelo, 1913 Esiste un testo differente che non si occupa di psicobiografia ma di analisi dell’opera e questo è raro perché nell’ambito dei testi di Freud è un unicum. Si tratta del saggio intitolato “Il Mosè di Michelangelo” del 1913 che parla della scultura di Mosè realizzata nel 1513-15 da Michelangelo. Non è un saggio che parla in maniera psicoanalitica della figura del Mosè o di Michelangelo ma è una sorta di saggio su una relazione intima, confidenziale perché ci parla delle impressioni dello stesso Freud di fronte a questa specifica rappresentazione di Mosè così come Michelangelo l’aveva fissata nel marmo 400 anni prima. Parla di ciò che la statua gli suscita procedendo ad un’analisi attenta dell’iconografia e che Freud, che si definisce profano di arte, dimostra di saper fare in maniera molto precisa. Alessandro Serra diceva che con questo saggio Freud dimostra di essere stato la prima vittima nota della cosiddetta sindrome di Stendal perché andava molto spesso a vederla, ne era quasi ossessionato. Nella lettura di Freud troviamo qualcosa di molto esplicito ovvero la sua interpretazione della posizione della statua in modo diverso da come ci viene raccontata nel testo biblico e da cui prende le distanze. Nella Bibbia e nell’Esodo si parla di Mosè dicendo che lui si trova sul Monte Sinai mentre parla con Dio che gli affida le tavole della legge con i 10 comandamenti, tavole di pietra scritte dal dito stesso di Dio. Nel frattempo, il popolo ebraico che aspettava ai piedi del Monte Sinai non vede tornare Mosè e si preoccupa perché rimane più giorni e il popolo ebraico chiede ad Aronne, suo fratello maggiore, di forgiare loro un Dio che cammini alla loro testa. Aronne decide di raccogliere i gioielli d’oro del popolo ebraico, fonderli e formare il vitello d’oro ovvero una statua che gli ebrei cominciano ad adorare. 1C) Contributi sul linguaggio o sulle “qualità del sentire” Gli ultimi due testi di Freud che sono “Il perturbante” del 1919 e “L’umorismo” del 1927 hanno a che fare con delle sensazioni, qualcosa che Freud definisce “qualità del sentire”, modi del sentire insieme a contributi che riguardano il linguaggio come elemento centrale nella terapia psicanalitica (linguaggio logico discorsivo) come nelle opere d’arte (linguaggio grafico estetico). Il perturbante, 1919 Il titolo originale del saggio è “Das Unheimliche”, temine che ci spiega molto bene il significato profondo dell’intero saggio cosa che il termine italiano non fa. Il saggio può essere letto tenendo in mente la sensazione che provoca nello spettatore la letteratura fantastica, il film fantastico o certa tipologia di arte che tocca le corse del fantasioso. La parola si divide in: - Un = un, negazione - Heim = home, casa à negazione di ciò che è casa, domestico e famigliare - Lich = ly, sostantivizzazione Questo termine non ha una traduzione specifica e univoca in altre lingue nemmeno nella sua lingua parente che è l’inglese dove viene tradotto in “the uncanny” che vuol dire “prodigioso”, “straordinario” ma che non è la stessa cosa perché si lega alla “conoscenza” e indica qualcosa che va al di là della nostra conoscenza (ha un legame con il termine “know” à la traduzione corretta dovrebbe essere “unhomely” che non esiste. In francese troviamo “inquietante estraneità” mentre in italiano si è deciso di utilizzare il termine “perturbante” che significa qualcosa che provoca un grande turbamento, una grande confusione e deriva dalla parola latina “perturbare” dove il “per” ha un significato rafforzativo. In questo modo il termine definisce l’effetto e non la causa invece tipica nel termine tedesco. In italiano è stato proposto anche di abbandonare questa traduzione per usare il termine “spaesamento” che ha un suo senso più coerente perché “heim” è legata alla parola “haimat” che ha il significato di “casa”, “paese”, “patria” e quindi spaesamento avrebbe un più corretto senso perché indicherebbe la sensazione che si prova quando ci si trova fuori dal proprio paese, da un luogo che sentiamo vicino a quello di casa, domestico, conosciuto. La definizione data da Freud è “il perturbante è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è famigliare” à la parola unheimlich indica il contrario di heimlich ovvero famigliare, tranquillo, confortevole, fidato, intimo, appartenente alla casa (confort zone) e quindi significa anche inconsueto, estraneo, non famigliare e solitamente è ciò che non è famigliare suscita paura (l’altro, il diverso). Tuttavia, non tutto quello che è insolito o nuovo provoca spavento o perturbamento à secondo Freud perché qualcosa susciti perturbamento deve avere altre caratteristiche e rileva un altro significato della parola tedesca ovvero il fatto che il termine heimlicht vuol dire anche qualcosa che è così famigliare che deve rimanere nascosto. Quindi, da una parte abbiamo un concetto di confort zone e dall’altro qualcosa che deve rimanere nascosto, i cosiddetti “affari di famiglia”. Quindi se questo emerge, ci turba. Il perturbante indica l’effetto causato dall’emergere di questi elementi famigliari che devono essere tenuti nascosti e che ci causano turbamento. Questo lo diceva anche il filosofo Schelling, che, molti anni prima, nel 1842, infatti, diceva “è detto unheimlich tutto ciò che avrebbe dovuto restare segreto, nascosto e che invece affiorato” à è un altro dei concetti tipicamente tedeschi dell’Ottocento che Freud fa propri. Ci porta ad una sorta di dualismo affettivo perché ha caratteristica di famigliarità ed estraneità allo stesso tempo e che viene tradotta in italiano con “perturbante”. Abbiamo a che fare con il ritorno del rimosso, intendendo qualcosa che è nascosto nel nostro intimo tanto intimo che deve rimanere nascosto nel nostro io. A sua volta, Freud che era molto abile nel cogliere i vari suggerimenti dai suoi contemporanei, prende spunto anche dall’articolo di uno psichiatra tedesco di nome Ernst Jentsch che lega la sensazione di perturbamento all’incertezza e chiama in causa il dubbio irrisolvibile tra animato e inanimato (un oggetto animato di qualsiasi tipo è sempre un oggetto vivo?, un oggetto inanimato possiamo considerarlo dotato di una vita autonoma?). Tutto ciò che genera dissonanza cognitiva ci provoca perturbamento e Jentsch indica anche l’impressione data dalle figure in cera che sono molto verosimili, gli automi o i pupazzi mobili à analizza il racconto “L’uomo della sabbia” di Hoffmann del 1815 in cui viene caratterizzata la bambola Olimpia indicata come elemento perturbante del racconto. Nel 1919 gli automi erano tornati alla ribalta e lo sono ancora oggi anche se hanno cambiato nome. Pietro Ponte si occupa dell’iperrealismo degli oggetti richiamando anche il ritratto in cera di Schlosser. Il saggio di Ponte si chiama “In carne e in cera” e, alcuni anni fa, sulla rivista PsicoArt ci parlava del perturbante portando esempi differenti rispetto a quelli di Freud o Schelling. Ce ne parlava attraverso le vicende di un ingegnere giapponese di nome Masahiro Mori che, nei primi anni ’70, aveva scritto un articolo chiamato “The uncanny valley” à ci parla di quei robot che non sembrano robot ma richiamano a uomini con microchip e cavi o ferraglia varia nascosta sotto materiali siliconici particolarmente simili alla cera e alla pelle umana. Più la macchina somiglia all’uomo più questo avrebbe fiducia. Secondo l’ingegnere sarebbe stato necessario agevolare la somiglianza tra uomo e macchina per fare in modo che le persone si possano fidare come se i robot fossero persone. Questo ingegnere giapponese si è convinto che le cose non fossero così semplice e che l’equazione tra la cosa tanto più famigliare quanto più simile all’uomo non era una cosa lineare, quindi, traccia un grafico mettendo sui due assi la somiglianza all’uomo e la familiarità. Inizialmente man mano che la somiglianza all’uomo cresce, il grafico sembra confermare l’assunto secondo cui un robot industriale risulta meno familiare rispetto a un robot umanoide, il problema è che secondo Mori la relazione tra somiglianza e familiarità non è perfettamente bilanciata perché ad un certo punto succede che alla crescita di livello della somiglianza non corrisponda più una crescita di livello di familiarità che crolla in certi specifici momenti. Da empatia positiva si trasforma in empatia negativa e nel grafico si trasforma in un crollo della linea del grafico. Un robot risulta tanto più familiare quanto più simile all’uomo ma quando la somiglianza è molto elevata si può verificare un contraccolpo che crescerà di nuovo quando sarà quasi identico all’uomo eliminando la differenza minuscola che crea un turbamento. Per Freud tanti sono gli elementi che causano perturbazione tra cui: - Automa - Sosia (“doppio”) = tema che prende da un altro psicanalista Otto Rank indicando come crei dissonanza perché non si riesce a distinguere una cosa dall’altra - Ripetizione di avvenimenti simili = anche questo causa dissonanza come i déjà-vu o i lapsus - Realizzazione di “presentimenti” - Malattia psichica (e la stessa psicoanalisi) Cosa c’entra tutto questo con l’arte? Freud dice che il perturbante ha a che fare con l’esame di realtà e che molte cose che sarebbero perturbanti nella realtà non lo sono nell’arte. Pensando al tema del perturbante possiamo leggere una buona parte della cinematografia fantastica dove non distinguiamo gli elementi, o l’utilizzo del doppio, certi momenti performativi dell’arte visiva o l’iperrealismo. Ci sono molti modi per applicare il tema del perturbante nel mondo dell’arte in generale. L’umorismo, 1927 Per capirlo bene bisogna fare una premessa: un testo scritto da Freud nel 1905 è “Il motto di spirito” che ha una caratteristica peculiare e non era presente nell’antologia di Freud à la battuta e la sua relazione con l’inconscio è un saggio molto interessante se letta in tedesco ma è pieno di giochi di parole non sempre traducibili o comprensibili da altre lingue o culture. Il motto di spirito è l’insieme di battute e distingue tra: - Battute innocenti dove la scarica di piacere è dovuto alla tecnica verbale, alla pura forma - Battute tendenziose (“battutaccia”) dove i motivi principali sono l’aggressività e l’oscenità e che si basano sulla triangolazione tra emittente, destinatario e bersaglio Al centro del discorso sta il linguaggio dell’inconscio perché Freud sostiene che nel motto di spirito la battuta tendenziosa attinge dall’inconscio con analogie, condensazioni, metafore ed ellissi. La battuta manifesta una riduzione delle inibizioni e un emergere dell’inconscio che consente di liberare l’energia psichica. Ovviamente, benché sia l’inconscio ad essere il motore la battuta deve essere espressa attraverso il processo secondario, traduzione a parole. Perché la battuta farebbe ridere? Secondo Freud fa ridere perché quando l’ascoltatore sente la battuta, che nasce dal processo primario e viene trasformata dal processo secondario, lui riesce a fare il passaggio al contrario in una sorta di regressione automatica e inconsapevole come se gli inconsci si parlassero tramite il ponte del processo secondario. Per poter apprezzare la battuta occorre che ci sia sintonia tra le due persone e bisogna appartenere alla stessa battuta, alla stessa lingua etc… Quindi, c’è tanto elemento trasgressivo pulsionale trasformato grazie al processo secondario e che coinvolge lo spettatore in modo non aggressivo e pulsionale. Il motto di spirito ci dice quale contributo l’inconscio dà alla comicità. Quando nel 1927 Freud pubblica l’umorismo a parlare è un Freud diverso, abbiamo già accennato alle topiche freudiane: - Prima topica = inizio ‘900 à la parola “topica” dal greco significa “localizzazione” quindi la psiche ha i suoi luoghi ciascuno dei quali deputato ad una certa funzione con una propria organizzazione precisa. Secondo la psicoanalisi queste diverse localizzazioni sono in relazione dinamica tra loro (inconscio, preconscio, conscio) - Seconda topica = anni ’20 à non parliamo di localizzazioni ma di istanze o diversa sistemazione della psiche dove troviamo l’Es (Id – terza persona singolare) ovvero il polo pulsionale di ogni tipo (inconscio e preconscio), l’Io ovvero l’istanza che è rappresentazione totale della personalità ed è anche questo parzialmente inconscio, Super-Io chiamato anche Ideale dell’Io e che svolge un ruolo assimilabile a quello di un giudice dell’intera psiche ed è l’istanza censoria (anche lui è in buona parte inconscio) Al centro del saggio sull’Umorismo è il SuperIo ma come fa un’istanza censoria a diventare qualcosa che in qualche modo stimola qualcosa di gradevole come l’umorismo? Freud dice che l’umorismo va intanto distinto dal comico perché l’umorismo non viola la regola del vivere assieme dando sfogo a qualcosa di pulsionale ma gioca a violarla (differenza tra comicità e umorismo). Se la comicità implica una regressione comportamentale, l’umorismo ha altre caratteristiche tra cui emergere soprattutto in situazione di difficoltà e disagio. L’umorismo è una specie di meccanismo di difesa che emerge nell’individuo adulto soprattutto in presenza di un Io stabile che sa gestire le tensioni tra Es e Super Io e che serve tanto a dare sollievo nei momenti di difficoltà. Il processo umoristico può compiersi in diversi modi, coinvolgendo più persone e il saggio si allontana parecchio dalla vulgata pop di Freud. L’umorismo ha qualcosa di “grandioso e nobilitante” ed esprime un sentimento di sfida (trionfo dell’io e del principio di piacere che si afferma a dispetto delle reali avversità), esprime un rifiuto della sofferenza. Freud dice che se esaminiamo la situazione di chi assume verso gli altri in una situazione di umorismo sembra che si avvicini all’altro come un adulto fa con un bambino sminuendo e sorridendo ai suoi problemi. L’umorista deriverebbe la propria superiorità prendendo il posto del padre e riducendo gli altri a ragazzini, bambini. Sappiamo che il Super Io rappresenta l’eredità dell’istanza parentale e che quello che fa umorismo è un Super Io gonfiato, grande e robusto. Dobbiamo dire che alla base dell’umorismo sta il Super Io che ha anche un aspetto di sollievo, come lo possono avere i padri che possono dire ai figli che il mondo è così à il Super Io non solo è necessario dinamicamente in relazione con le altre parti ma anche perché è consolatorio, sensibile, che benignamente va in soccorso dell’Io. turbando anche il fruitore. La forma in questa concezione è poco più che un involucro per contenuti inconsci che il visitatore libererebbe scartandolo. Solo la messa in forma, attraverso l’arte, può far si che l’inconscio o il preconscio possa essere artistico; in caso contrario l’espulsione dell’inconscio incontrollato è pura follia. L’arte non è sogno, non è fantasticheria, occorre che perché una fantasticheria diventi opera d’arte occorre che l’artista sia capace di staccarsi dagli elementi personali, staccandosi dalla dimensione dell’inconscio mentre nelle opere surrealiste si carica l’idea di inconscio. Gombrich dice che quello che spesso negli epigoni, seguaci, di Freud possiamo trovare è che il contesto in cui l’artista opera è assolutamente centrale (lo dice anche Schapiro); in tutta l’arte occidentale c’è un elemento che possiamo chiamare l’elemento della culla di spago ovvero il gioco del ripiglino dove passando le dita si cambiano figure fino a comporre un racconto. L’arte nasce dall’arte, il giovane artista subentra nel gioco ai predecessori introducendo variazioni. Nelle società occidentali l’arte è diventata un gioco e lo schema che emerge ad ogni cambio di gusto deve alle mosse compiute in passato e alle ingegnose modifiche del giocatore del presente. Spesso gli artisti parlano di “problema” di fronte al quale si deve trovare una soluzione (problema del tempo, di spazio) ma per i giocatori sono problemi reali che fanno parte della realtà e sono imposti dal contesto artistico ma non dalla vita del singolo individuo. Quindi, Gombrich nel primo saggio racconta del Freud privato e dei suoi gusti artistici tradizionali e dice quale fosse la sua posizione nei confronti del surrealismo ricordandoci che se vogliamo parlare di psicoanalisi dell’arte dobbiamo tenere presenti i traumi infantili del singolo. Psicanalisi e storia dell’arte Il titolo richiama una conferenza pronunciata di fronte a psicanalisti e pubblicata su un giornale di psicoanalisi. Nei primi anni della psicoanalisi l’interesse maggiore era rivolto all’analogia tra opera e sogno ma puntualizza che l’analogia, il legame, è molto più efficace in letteratura che nell’arte visiva. Dice quasi subito che la determinante personale dell’artista è qualcosa che è fuori discussione ma bisogna capire come si inserisce nella produzione artistica. I tentativi che ci sono stati di attraversare l’abisso di secoli servendosi delle notizie passate non può essere altro che un esercizio, gli storici dell’arte possono dimostrare che le informazioni indispensabili per gli analisti non sono recuperabili ma senza di queste l’analista non può procedere; in questo caso ci troviamo di fronte ad un muro. Per gli analisti il significato privato, personale e psicologico del dipinto sembra essere l’unico vero, l’unico da trasmettere al visitatore. Se l’opera d’arte ha le caratteristiche di un sogno condiviso con lo spettatore bisogna chiarire che cosa viene realmente condiviso e per evitare la generalizzazione vuole porre il problema in maniera concreta parlando di Picasso. La colomba della pace di Picasso in una litografia del 1950 è presente anche nel testo di Gombrich fatto su richiesta di rappresentare un simbolo della pace à traccia la sagoma rapida di una colomba e viene subito detto che questo simbolo della pace creato da Picasso era proprio come quelle colombe della sua infanzia a Malaga. Gombrich dice che se si vuole parlare di contenuto manifesto per quanto riguarda questa opera è chiaro a livello sociale e politico perché la colomba è simbolo convenzionale della pace e lo si deve al fatto che la si crede un animale mito. In realtà sappiamo che colombe e piccioni sono molto cattivi ma questo non ha importanza, Ernst Jones gioca dicendo che è evidente che ci possa essere un significato fallico nella colomba passando in rassegna elementi psicanalitici relativi alla colomba. Gombrich si chiede se tutto questo sarebbe altrettanto efficace se la stessa opera fosse esito di un artista minore, non così famoso. In quegli stessi anni erano stati pubblicati scritti sull’infanzia e giovinezza di Picasso da parte di un suo amico che, trovandosi sotto la vulgata psicanalitica, dice che un’opera di questo tipo richiama disegni e dipinti che vedeva da bambino. Sarebbe cresciuto insieme a disegni di questo tipo come quelli del padre Josè Ruiz y Blasco specializzato nella rappresentazione di uccelli. Tutto sarebbe stato condensato nell’opera celebre di Picasso. La domanda di partenza rimane senza risposta: è possibile scorgere questo significato personalissimo nelle colombe di Picasso? Sulla base di questo solo cartellone si potrebbe pensare la stessa cosa non avendo avuto informazioni sulla sua età? Gombrich ne dubita perché nessun segno esteriore rimanda al significato personale e profondo dell’opera. Siamo nel bel mezzo di una rivoluzione, si comincia a parlare di arte come comunicazione e Gombrich crede che sia il significato personale e inconscio a comunicarsi al pubblico è un fraintendimento. Esiste un significato intersoggettivo e che si possa discernere il significato dell’opera avendone la chiave non per forza legato alla vita dell’artista. Prende ad esempio le Damoiselles d’Avignon à siamo ben informati sul significato privato del dipinto, sul contenuto manifesto che esso ha per l’artista: - Titolo = invenzione di un mercante di quadri - Damoiselles = sono delle prostitute che lavoravano nel bordello che si trovava a calle d’avignone vicino alla casa di Picasso a Barcellona à anche questo aspetto sarebbe ignoto se nessuno ce lo avesse detto Gombrich dice che un’opera del genere che ha svoltato le sorti dell’arte, che ha avuto immense ripercussioni e origine del cubismo e dell’arte moderna non è l’esito della persona di Picasso ma sono gli elementi formali che sono al centro dell’interesse. Il quadro ha acquisito significato differente in un ambito diverso, nell’ordine dell’istituzione che chiamiamo “storia dell’arte”, non nella biografia di Picasso. Ci dice altri aspetti come la tradizione che influisce sempre sul modo in cui noi percepiamo qualcosa e racconta che è risaputo che tanti pittori inglesi del ‘700 uscivano nella campagna inglese e rientrassero con qualcosa di diverso à ciò che l’artista vede lavora sull’immaginario dell’artista. Questo ci spiega anche perché l’arte ha una storia, una serie di stili, a differenza delle fantasticherie o dei sogni che non hanno stile. A partire dalla rappresentazione della donna come ce l’ha data Picasso possiamo dire che, se guardiamo le cose dal punto di vista storico, anche il simbolo della donna non nasce da una copia pedissequa del corpo della donna ma a partire da un simbolo questo si evolve. Gombrich fa anche alcuni esempi perchè ci parla del modo di rappresentare i corpi andando indietro di molti secoli come Adamo ed Eva che sono rappresentazioni concettuali ed Eva si distingue da Adamo solo per la presenza appena accennata di due piccoli seni e anche Botticelli non rappresenta dei corpi in maniera realistica. Ci può anche essere un’evoluzione nel modo di rappresentare il corpo femminile come la Galatea di Raffaello o il Ratto d’Europa di Tiziano à abbiamo sempre a che fare con una scelta di tipo concettuale. Cosa può sembrare strano o cosa possiamo ritenere gradevole o sgradevole in determinate epoche? L’esempio più chiaro che Gombrich fa è la Nascita di Venere di Bouguereau del 1879 al Musee d’Orsay. Soprattutto alla metà del ‘900 opere come queste erano considerate la cosa peggiore che ci potesse essere e ancora oggi non le troviamo nei manuali anche se sono stati rivalutati a partire dagli anni ’80 del ‘900. Gombrich comincia a dare qualche idea agli psicanalisti: l’artista utilizza l’accorgimento meccanico della fotografia per restituire l’immagine convincente di una modella nuda. Tuttavia, è evidente che questa opera sia stucchevole perché non siamo di fronte ad un’opera d’arte ma siamo di fronte ad una pin-up à l’erotismo del dipinto è tutto in superficie, la lettura dell’immagine è fin troppo facile e lo dice in un periodo in cui trionfa l’espressionismo astratto, la materia pittorica torna ad essere centrale nel suo utilizzo concettuale. Soprattutto, per chi è particolarmente attento all’opera d’arte degli anni ’50 si pensa che questo tipo di opere possa andare bene per il volgo. Quello che ci vuole dire è che il modo in cui leggiamo l’opera è sempre legato al contesto di evoluzione degli stili e comunica non un inconscio privato ma va oltre. La seduzione del dipinto ha a che fare con elementi di caramellosità ed estrema semplicità che richiama l’importanza dell’appagamento orale del bambino. Si parla anche dell’artista e dei suoi colori come “la cucina dell’artista” quindi un richiamo al gusto bilanciato, all’ambito del mangiare. Quindi, opere contemporanee piacciono ad un gusto maturo mentre opere più tradizionaliste si accordano ad un gusto non istruito, volgare e basso. Gombrich da suggerimenti agli psicanalisti dicendo che in termini di evoluzioni del gusto la psicanalisi potrebbe dare intuizioni all’ambito della teoria dell’arte e del gusto. Crede che mentre l’opera in sé si presta poco ad essere analizzata in termini psicologici si potrebbe invece spostare l’attenzione verso il fruitore e potrebbe essere interessante per la psicoanalisi analizzare l’evoluzione del gusto. Fa un altro esempio di arte ufficiale dicendo che Le tre grazie di De Bonnencontre è un “obbrobrio” ma si può giocare con il proprio gusto provando a guardarle attraverso un vetro ondulato e il quadro diventa più accettabile perché il dispendio di attività per ricostruire l’immagine è maggiore e siamo abituati a considerare più interessante ciò che richiede un maggiore dispendio di energia à più sforzo permette di avere l’idea di far parte di un gusto corretto, contemporaneo (ribellione all’accademismo). Gombrich gioca in senso abile con i termini e il linguaggio della psicanalisi per parlare di arte in maniera differente da come la psicoanalisi dell’arte più volgare faceva à dice che il piacere semplice è diventato il taboo dell’intellettuale di oggi, il suo Super Io estetico lo ammonisce di non comportarsi da bambino inducendolo solo a badare alla forma. Questa frase è interessante perché ci fa leggere lo sviluppo del gusto in una rete sociale che ci fa leggere differentemente l’arte e la cultura di massa o la cultura elevata. Quindi, quello che noi riconosciamo come bello è strettamente legato al periodo in cui ci troviamo. Gombrich, poi, torna a parlare delle Demoiselles d’Avignon di Picasso dicendo che questa opera ci riversa l’aggressività e la ferocia come se si fosse davanti ad un processo primario che deriva unicamente dall’inconscio che emerge ed esplode. Se effettivamente questo ragionamento ha senso quello che conta è che Picasso nell’esprimere queste cose si sia trovato in una situazione in cui i suoi eventuali conflitti privati hanno avuto un significato artistico à senza i fattori sociali le necessità private di un artista non potrebbero trasformarsi in arte. Questa cosa è estremamente chiara ed esplicita, lui vuole dare uno schiaffo al modo corrente di usare male la psicoanalisi dell’arte. Alla fine del saggio fa una considerazione dicendo che un dipinto cubista può piacere più di uno accademico proprio perché è di maggiore difficoltà di comprensione; di fronte ad un dipinto troppo semplice ci troviamo un Super Io che ci ammonisce indicandoci che non ci può piacere in quanto estremamente semplice da comprendere, poco dispendioso. Quando lui parla di gusto ci parla di quello dell’artista e del fruitore, quindi, sembra dirci che il legame tra due elementi del triangolo della psicologia dell’arte è riduttivo e fuorviante se invece allarghiamo l’argomento focalizzandoci su come viene fruita un’opera in un determinato periodo possiamo avere maggiore margine di comprensione. Ricordiamo che Gombrich parla a psicanalisti usando forme e termini della psicanalisi provando però a far vedere le cose in una prospettiva differente rispetto alla via per cui l’artista riversa nell’opera ciò che sente all’interno di sé stesso perché è una visione romantica ma non è solo questo. Gli studi sull’arte, strumenti validi per lo sviluppo dei simboli (fino a p. 87 poi 97-fine) a) Iconologia e psicologia Gombrich dice che la simbologia viene considerata un ramo della psicologia e lo stesso viene indicato nel campo della storia dell’arte per quanto riguarda l’iconologia. Lo studio dei simboli era al centro del suo interesse e ci chiede cosa sia realmente un simbolo. La cosa che immediatamente pensiamo è qualcosa di sottostante, non immediatamente affiorante, un contenuto latente. Dice che a quel tempo tutto il campo dell’allegoria e della rappresentazione allegorica era diventato argomento di moda e si andava a caccia del significato simbolico a tutti i costi come se fosse una moda scientifica (come nella vulgata psicoanalitica). Lui invita gli psicologi a ragionare in maniera differente dicendo che se guardiamo alla storia dell’arte il simbolo, quasi sempre, non è qualcosa che ci è ignoto, che nasconde qualcos’altro, ma nell’etimologia greca le due cose sono già chiare e manifeste nella loro prima manifestazione à Tendiamo a scomporla in più immagini in maniera da averne una versione semplificata à non ricordiamo un poligono irregolare fatto di infiniti pezzi ma tendiamo a smontare una figura irregolare nelle sue componenti regolari più semplici possibili. Gli esempi in tal senso possono essere tanti come lo smile J che è una forma pregnante che riconosciamo come un tutto, nasce nel 1982 nel corso di un seminario sullo humor virtuale dove si diceva che a distanza qualsiasi tipo di comunicazione fosse estremamente difficile da veicolare grazie a Scott E. Fahlman e ad oggi è riconosciuta in quanto tale anche dagli smartphone o dai computer che la raddrizzano automaticamente. Questi studi riguardano la semplicità e permettono la nascita di diverse teorie come quella di Irving Biederman che è un neuroscienziato americano specializzato negli studi sui processi mentali che sottostanno all’abilità che noi abbiamo di riconoscimento delle forme e dei volti che riconosciamo in maniera olistica, come un tutt’uno, come una buona forma. Questo avviene nel cervello grazie alla presenza di una FFA ovvero un’area fusiforme facciale che ci permette di processare delle forme del volto che avvengono in maniera unitaria, come una configurazione globale. I neuroscienziati hanno quindi individuato questa area del cervello che è quella che si attiva nel lobo temporale quando riconosciamo un volto e non per altri oggetti. Biederman ha messo a punto una teoria poi molto attaccata ma interessante chiamata teoria del riconoscimento per componenti ovvero il fatto che ogni oggetto che percepiamo lo percepiamo come consistente in una serie di componenti più semplici che chiama ioni geometrici o geoni e ne comincia a parlare nel 1985. Lo ione è quella parte del gruppo atomico dotato di carica elettrica, quindi, indica ioni geometrici delle figure che immediatamente percepiamo come componenti di una determinata raffigurazione. A suo modo di vedere ci sarebbero 36 geoni la cui combinazione potrebbe creare una forma sintetica pressoché infinita di forme e oggetti à esempio opposto alla Gestalt perché in questo caso riconosciamo i vari componenti di una forma più complessa: queste due teorie sono a contrasto. Questa teoria ha incuriosito anche per la sua semplicità perché è molto semplice da comprendere. Tuttavia, ci sono molte cose che una teoria così estrema non prende in considerazione come il fatto che gran parte delle nostre azioni di riconoscimento avvengono anche in funzione dell’orientamento dell’oggetto oppure le pareidolie ovvero la tendenza a vedere ciò che non è o a trovare delle forme conosciute in ciò vediamo ma che non conosciamo. - Teoria dell’espressione = nell’arte a differenza di altri ambiti connessi con il mondo del visivo esistono delle qualità espressive specifiche che comunicano dei contenuti e dei significati. Secondo la teoria della Gestalt un oggetto trasmette queste caratteristiche direttamente, in maniera non mediata senza necessitare di una spiegazione. L’oggetto attraverso la sua gestalt, forma armonica, armonizzata, ha di per sé una sua propria espressività datagli dalla sua forma o dalla relazione tra le sue forme. Siamo agli antipodi della disciplina visto fino ad ora, non si tratta di contenuto ma di forma. Le forme si organizzano in base a dinamiche intrinseche alle forme stesse. Noi costruiamo nella mente un movimento che nella realtà non c’è ed è in questo senso che la gestalt si interessa alla discrepanza tra realtà fisica e realtà apparente. Il periodo in cui Wertheimer scrive è il 1912 quando i futuristi inaugurano la loro prima mostra e ci sono opere che trattano di movimento (modificazione fisica del corpo nello spazio) e dinamismo (attribuzione dell’idea di movimento ma questo non avviene realmente). Le teorie di questo tipo interessano in ambito psicofisiologico nello stesso arco di tempo. Nel manifesto tecnico della pittura futurista del 1910 i futuristi avevano scritto che “il gesto è la sensazione dinamica eternata come tale” à tutto si muove, tutto corre, appare e scompare. Nel testo c’è anche l’idea di amalgama che richiama l’equilibrio di una forma che contiene continue forze dinamiche diverse all’interno di essa. Già nell’Ottocento immagini di questo tipo erano molto diffuse come ad esempio il taumatropio ovvero un pezzo di carta con due disegni che girando sembrano un’immagine unica. La spiegazione dei dipinti di questo periodo relativi al dinamismo dei corpi è in parte riconducibile agli studi che parallelamente stava compiendo la psicologia della Gestalt. Nella Bambina che corre sul balcone di Balla del 1912 vediamo in azione due leggi tipiche della Gestalt perché Balla cattura il dinamismo di una bambina e ci dice anche che corre sul balcone à riconosciamo facilmente la bambina, meno le grate della ringhiera. Vediamo una serie di figure geometriche, quadratini colorati con angoli smussati e irregolari ma il nostro sistema visivo organizza e articola tutti gli elementi come fattori che fanno parte di un tutto, come qualcosa che si unisce in una forma unica. Wertheimer ha teorizzato anche due leggi fondamentali per la psicologia della Gestalt: - Legge della somiglianza à dice che quando gli elementi figurali che stimolano la nostra percezione sono composti da elementi misti noi tendiamo ad accumunare e articolare in maniera specifica creando unità percettive tra elementi simili tra loro. Nel caso della bambina che corre sul balcone di Balla gli elementi che noi accomuniamo riguardano le diverse cromie e che formano il corpo della bambina. - Legge della vicinanza à riusciamo a riconoscere le inferriate, riusciamo a percepire una ritmicità delle configurazioni verticali che formano unità distinte rispetto al resto della raffigurazione. Questo riconoscimento è più difficile ma avviene grazie alla regolarità come se si trattasse di tanti fotogrammi uno dietro l’altro, come se si trattasse della traduzione dinamica dell’immagine in sequenze presentate in maniera simultanea una dietro l’altra. 2A) Arte e percezione visiva, Rudolf Arnheim Rudolf Arnheim inizia il suo testo dicendo che l’arte sembra sempre di più essere stata sommersa dalle chiacchiere perché ci sono tanti articoli, saggi, libri e discorsi che ci dicono cosa è arte e cosa non lo è. In questo modo abbiamo fragilizzato il corpo dell’arte quando in realtà abbiamo a che fare con qualcosa di strettamente materiale (non materialistico), stiamo trascurando il dono di comprendere le cose avvalendoci solo di ciò che i sensi dicono. I nostri occhi si sono ridotti a meri strumenti con cui identificare e misurare, per cui dando poca importanza agli occhi e sminuendo l’importanza della percezione non possiamo che avvalerci delle parole che sormontano con la forza retorica ciò che andrebbe letto attraverso la percezione. Troppe persone visitano i musei senza avere accesso all’arte, senza comprenderla a pieno. La capacità innata di comprendere attraverso gli occhi si è assopita e deve essere risvegliata à vuole una nuova centralità della percezione e di ciò che ha a che fare con la comprensione dell’arte. Lui dice di essersi sempre sentito vicino all’arte grazie ai suoi studi di psicologia e aggiunge che molti teorici dell’arte fanno affidamento agli elementi e agli aspetti della psicologia ma che la psicologia spesso si è interessata all’arte come semplice scandaglio della personalità. Se davvero questo fosse l’arte non si vedrebbe che differenza ci sarebbe tra un’opera d’arte o una macchia di Rorschach ovvero un test psicodiagnostico proiettivo diventato popolare nel secolo scorso e che nasce da un’idea romantica. Hermann Rorschach era allievo di Justinus Kerner, poeta romantico e veggente, che faceva delle Klesografie ovvero immagini prodotte poggiando una goccia di inchiostro sul foglio, piegandolo e riaprendolo. Di fronte ad un’immagine di questo tipo si chiede al paziente che cosa ci vede e si ascolta il suo racconto. Il test funzionava anche se il suo autore non sapeva spiegare perché succedesse questo riconoscimento. Il successo, comunque, è immediato e diventa “pop” tanto che Gombrich e Arnheim sottolineano che l’arte non può essere considerata al pari di questo metodo à fare scandaglio della personalità dell’artista tramite l’opera d’arte è ingenuo. Arnheim poi riassume gli obiettivi del suo testo come “ridiscutere alcune delle qualità della visione e rinfrescarle” soprattutto circa la scrittura, il disegno e la pittura e “descrivere quali meccanismi percettivi siano sottesi ai fatti visivi”. Non vuole mettere in luce il ruolo dell’artista nella società, l’incidenza della sua professione o della psicologia del consumatore ma si limita a focalizzarsi su questi elementi dall’alto livello di astrazione che diventa un metodo filosofico attraverso cui guardare l’arte. Inizia citando il motto della Gestalt “il tutto è più della somma delle singole parti” e dice che è qualcosa che gli artisti hanno sempre saputo tanto che anche Christian von Ehrenfels in un suo libro del 1890 intitolato “Sulle qualità formali di una struttura” fa comparire in modo significativo la parola Gestalt à c’è un passo molto famoso che dice che se 12 persone ascoltano uno solo dei 12 suoni di una melodia la somma delle loro esperienze non corrisponderebbe a ciò che è stato percepito da chi ha ascoltato la melodia per intero. L’unità della melodia è un esempio di unità organizzata nella buona forma e ci serve per spiegare lo stesso concetto anche nell’arte visiva. Quello che verrebbe a mancare sarebbe l’organizzazione, la gestalt e la sua qualità formale in quanto struttura armonica e unitaria costitutiva della melodia. Dopo Arnheim dice che “ogni percezione è anche un pensiero, ogni ragionamento è anche intuizione, ogni osservazione è anche invenzione” à il percepire è anche un comprendere, le due cose sono un tutt’uno. Percepire un’immagine è già comprenderla e allo stesso tempo la comprensione è una funzione della percezione. Intuizione e intelletto era proprio il titolo di una pubblicazione di Arnheim che sottolineava come ci fosse una connessione tra percezione e pensiero ed è funzionale ad una comprensione rinfrescata della realtà. La visione non è una registrazione meccanica degli eventi ma è la nostra capacità di afferrare delle strutture significanti. Questo vale non solo per l’arte ma per molti aspetti della nostra vita ed è per questo che esistono i terapeuti della Gestalt, al di là della semplice percezione. Possiamo dire che abbiamo sempre uno scambio vicendevole tra oggetto e fruitore, tra oggetto e osservatore, la relazione è biunivoca. In questo caso resta fuori l’artista e Arnheim sa di non interessarsi a questo aspetto della psicobiografia che deve interessare gli storici dell’arte. Lui si scusa con gli storici dell’arte dicendo che quando si cerca di mettere assieme due cose sono indispensabili molti adattamenti e devono essere provvisoriamente trattate delle ipotesi basandosi sulla propria percezione a causa dei problemi dell’interdisciplinarietà. Dice poi che questo libro parla di quello che può essere visto da ognuno e tratta di ciò che può essere letto solo per quel tanto che è servito a lui e ai suoi studenti per “vedere meglio” à Arnheim va contro il cosiddetto “realismo ingenuo” che dice di vedere le cose per come sono. Si contrappone il realista critico che ha una conoscenza sul fatto che quello che noi percepiamo è una costruzione attiva alla quale contribuiscono sia l’ambiente fisico, gli stimoli, sia al nostro sistema percettivo. La percezione del realista critico fa capire che la percezione è il risultato di una serie di processi di mediazione tra ciò che è fisico e ciò che è fenomenico, ciò che appare. Quindi, abbiamo un’idea di visività come ciò che è percepibile direttamente con gli occhi e che via via che percepiamo diventa realista critico senza confondere ciò che appare (fenomeno) con ciò che è (realtà). Sempre più spesso si pensa che l’arte sia qualcosa di astratto e che ha a che fare con lo spirito ma in realtà è la cosa più concreta che esista perché si basa su questioni che hanno a che fare con il nostro modo di percepire. Il testo di Arnheim è composto da dieci capitoli definiti “trappole per topi” perchè non permettono di dare risposte esaustive ma sollevano, piuttosto, molte questioni. Se un insegnante qualsiasi usasse il suo libro per spiegare Matisse parlerebbe di “macchie rosse” ma l’opera d’arte va affrontata nella sua globalità e bisogna imparare tutto il possibile del soggetto, cosa l’artista sapesse di quel soggetto, capire le strutture principali attraverso cui ha cercato di dare significato al soggetto con quella specifica forma à interesse indiretto nei confronti dell’artista. Matteucci, docente dell’Università di Bologna dice che Arnheim elabora una psicologia generale a contatto con l’arte anziché applicare all’arte una teoria psicologica. Nel 2004 si è tenuto un seminario a Palermo curato da Lucia Pizzo Russo che insegnava Psicologia dell’Arte e le relazioni di questo seminario sono stati pubblicate in un unico volume. In fondo a questo volume si trova una conversazione tra Arnheim e Lucia Pizzo Russo non frutto di conversazioni di quell’anno ma soprattutto nella prima metà degli anni ’80 in occasione di un suo soggiorno in Italia. La figura-sfondo è la struttura minima di qualsiasi percezione visiva ed è un concetto che si applica bene alla dinamica tra organismo e ambiente, tra soggetto e contesto quindi ha a che fare con le relazioni umane che si esperiscono nella quotidianità. intensità e plasticità. Le prime dichiarazioni di questo tipo sono state date a ottobre del 2022 al Guardian e la cosa si è espansa a livello internazionale. Un articolo del 2 novembre 2022 uscito sul The New Yorker dal titolo “The case of the upside-down Mondrian” dice che la disputa sull’opera gli ricorda un sapore antico rispetto al senso profondo e alla feroce importanza delle opere d’arte mettendolo insieme al fenomeno degli attivisti del clima à vedere Mondrian ribaltato ci ricorda e sottolinea l’importanza di guardare Mondrian per quello che è, guardare lo stesso artista con occhi nuovi, in maniera fresca (richiamo ad Arnheim). Capitolo 2 – Configurazione (Shape) Ribadisce che vedere significa afferrare le caratteristiche principali di un oggetto e che pochi segni al posto giusto, che si appartengono reciprocamente, possono essere sufficienti a rappresentare la cosa nel modo più efficace possibile (ad esempio il volto umano si afferra come insieme unitario, come schema globale). Quello che ci ricorda anche nella psicologia dello sviluppo il bambino vede la “faccità”, il fatto di avere a che fare con la rappresentazione di una faccia, prima di distinguere una faccia da un’altra à fa eccezione il volto della madre o di persone conosciute. Si familiarizza poco alla volta con le cose e anche nello sviluppo di crescita abbiamo un processo di questo tipo. Fig. 20 à c’è un piccolo gioco che ci permette di comprendere che percepiamo le forme in relazione ad un determinato contesto. In questo caso la forma “d” è un triangolo adiacente ad una linea ma se lo osserviamo in successione alle figure precedenti lo percepiamo come quadrato che si sta nascondendo dietro la parete. Questo effetto è dato dal contesto spaziale dove “a”, “b”, “c” si susseguono come fasi di un film di animazione in successione e l’effetto si ha perché ogni immagine ha degli elementi comuni che riconosciamo anche se si affievoliscono man mano. Rimane comunque coerenza e somiglianza. Fig. 21 à La stessa cosa vale per questa immagine dove la forma cambia se ci viene detto che rappresenta una giraffa che passa davanti alla finestra perché la descrizione verbale richiama tracce di memoria relativamente al tipo di maculatura del manto dell’animale. È la descrizione, in questo caso, a permetterci di vedere le cose in maniera completamente diversa. Dopo aver associato questa immagine al collo di una giraffa non riusciamo più a staccarci da questa interpretazione. Legge della semplicità à la semplicità può essere definita come l’esperienza e il giudizio soggettivo di un osservatore che non trova difficoltà a capire ciò che gli viene presentato. In una serie di figure quale si riconosce più facilmente, quale è più facile da descrivere a parole? La semplicità non è dovuta al numero di elementi ma dal numero delle caratteristiche strutturali. La linea retta tratteggiata è la versione veloce per mettere in comunicazione i punti “a” e “b” ma è talmente diversa dal punto di vista strutturale rispetto al cerchio che i due punti vengono uniti dal nostro occhio attraverso la parte di cerchio tratteggiata. Questo avviene perché il nostro sistema percettivo, il nostro cervello, organizza una ricchezza di significati e di forme dentro un sistema globale. Questa maniera di organizzare una struttura complessa in qualcosa di più semplice lo possiamo chiamare “ordine” ed è qualcosa che è coerente ad un altro concetto fondamentale della Gestalt ovvero “l’isomorfismo” che è la corrispondenza tra una struttura, una forma tangibile, e il suo significato: corrispondenza strutturale tra significato e forma. Legge della pragnanz à di fronte a due figure che possiedono lievi ambiguità perché hanno elementi leggermente differenti, l’osservatore ha due reazioni che servono per semplificare perché questa lieve ambiguità è molto dispendiosa a livello di energia: - Livellamento = la lieve ambiguità è risolta eliminandola, tutto diventa simmetrico (classicismo) - Accentuazione = la lieve ambiguità diventa grande differenza (espressionismo) Entrambe le soluzioni rispondono alla legge di semplicità o buona forma o pregnanz attraverso l’eliminazione dell’ambiguità. Tutto questo può essere trasposto nell’arte attraverso delle spiegazioni precise come il grande molto grande, il piccolo molto piccolo, ombre accentuate. Legge della segmentazione à quando percepiamo le cose abbiamo a che fare con un tutt’uno e ci sono diversi modi per approcciarci a questo concetto. Noi vediamo le cose come masse indivise e compatte e ci fa l’esempio degli Amanti di Brancusi del 1907 in cui le due figure abbracciate costituiscono un blocco unito. In questo caso l’unità del tutto predomina sulla segmentazione dei due esseri umani. Nel Bacio di Rodin del 1882, invece, il soggetto è lo stesso ma l’idea è resa in maniera assolutamente diversa perchè Brancusi crea una forma perfettamente coerente con il suo significato, siamo di fronte ad un isomorfismo (corrispondenza tra significato e forma tangibile). Arnheim dice anche che il simbolismo evidente nell’opera di Brancusi è in netto contrasto con l’interpretazione di Rodin dello stesso soggetto dove l’indipendenza delle due figure è indomabile e trasmette la futilità del conato della non unione totale. L’aspetto di ogni parte dipende dalla coerenza del tutto e i particolari non sono mai autosufficienti. Fa anche l’esempio delle teste frammentarie della statuaria antica che sono deludenti perché da sole ci dicono poco, se fossero state espressive da sé non sarebbero state pensate come parte di un tutto più complesso e completo. Nel Guernica di Picasso troviamo una prima fase di elaborazione dove i volti sono estremamente espressivi mentre nella forma finale questi stessi volti hanno delle forme più purificate, meno espressioniste. Questo si inserisce all’interno di un dipinto con una grande forza serve e serve a bilanciare al meglio le forze nella struttura complessiva. Questo concetto viene approfondito nel testo di Arnheim “Guernica. Genesi di un dipinto”. Principio della coerenza formale o della buona continuazione à in questo caso viene fatto un esempio molto semplice con sagoma approssimativa ricavata dai corpi di Picasso. Fig. 59 à la gamba destra, interrotta dalla gamba sinistra, ci appare ovviamente come una forma continua. Quello che non funziona mai quando leggiamo Arnheim è l’ “ovviamente” che esiste soltanto per coloro i quali hanno già rinunciato al realismo ingenuo e hanno già riflettuto sul fatto di rinfrescare la nostra visione. Fig. 67 à Un altro esempio è La parabola dei cechi di Pieter Bruegel il Vecchio del 1568 dove troviamo il ruolo svolto dalla relazione tra le parti. L’opera viene letta da sinistra verso destra quindi le teste e i corpi formano una curva discendente e abbiamo gli stadi successivi di un solo processo. La somiglianza delle figure non è data dalla ripetizione, non sono figure tutte uguali, i colori sono omogenei ma differenti, ma sono una sola figura ed è la rappresentazione perfetta del detto biblico. Questo principio è cinematografico ed è applicato ad un’opera d’arte bidimensionale. Capitolo 3 – Forma (Form) Con “forma” intendiamo la configurazione visibile di un contenuto ovvero la forma è il contenuto visibile di quella forma, cosa rappresenta, cosa è, perché è riconoscibile in quanto tale e a quali condizioni la forma deve sottostare per essere riconosciuta. In questo contesto è importante l’orientamento nello spazio perché non tutte le configurazioni si comportano nello stesso modo e dipende dal loro scheletro strutturale rispetto al quale una determinata inclinazione incide o meno sulla forma e sul significato. Se un triangolo o un rettangolo sono inclinati ci appaiono come inclinati, non diventano un oggetto nuovo ma appaiono come un triangolo o un rettangolo appoggiato sul vertice e ci danno sensazione di instabilità. Per il quadrato non è la stessa cosa perché vediamo un rombo e non ci dà la stessa idea di instabilità à assume anche un nome differente perché è talmente sufficientemente stabile da costituire una nuova figura a sé stante, tanto da chiamarsi rombo. Il volto è un esempio molto particolare perché se visto dal basso lo continuiamo a riconoscere come volto ma diventa qualcosa di mostruoso, impressionante. Ovviamente dobbiamo tenere in considerazione lo scopo pittorico anche se ci sono configurazioni insufficienti o inadeguate per poter dare idea di contenuto chiaro. Due cerchi uno dentro l’altro à si tratta della più semplice rappresentazione possibile di un messicano che porta sul campo un immenso sombrero. È del tutto inadeguata perché non riesce a creare una distinzione tra messicano, macina da mulino o ciambella. Questo perchè lo schema è troppo scarsamente in relazione al suo contenuto per essere una buona forma. Cosa bisogna rappresentare di un oggetto perché sia soddisfacente? Fig. 83 à sedia in proiezione ortogonale dove ogni vista rende le varie viste (dall’alto, di fronte, laterale, dal basso) ma la vista migliore è l’assonometria. Le quattro informazioni le riusciamo a rendere in un’unica immagine? È molto difficile perché dobbiamo scendere a compromessi. Ci parla anche del cosiddetto metodo egiziano partendo con una citazione di un filosofo, fisico di nome Ernst Mach che si occupava di fisiologia della percezione e guardando le immagini degli antichi egizi è come se avessero pressato le figure sul piano come pressate su un erbario. Arnheim precisa che per molti secoli le figurazioni come quelle degli egizi furono viste come immagini imperfette mentre in pieno Novecento questo concetto decade perchè anche il modo di rappresentazione degli egizi è una soluzione ai problemi che sempre abbiamo quando si tratta di trasporre un’immagine tridimensionale su un piano bidimensionale. Fig. 85 à L’esempio riportato da Arnheim trae spunto da rappresentazioni realmente esistenti (Fregio dalla tomba di Ankmahor, Saqqara, 2200 a.C.) nella cultura egizia e si tratta di due scultori che stanno scalpellando una statua: le spalle sono rese secondo la convenzione egizia; quindi, perfettamente frontali anche se sono di profilo, mentre la statua è resa con una veduta di lato che concepiamo prospetticamente esatta quindi si tratta di scelte e convenzioni rappresentative. La scelta fatta in questo caso è quella di utilizzare elementi più vicini alla realtà per rappresentare elementi di maggiore rigidità. Questo è un dei tanti metodi possibili ed è considerato isomorfico nel loro modo di vedere e rappresentare il mondo. Nel Novecento le Avanguardie procedono in questa direzione e Arnheim prende l’esempio di Oskar Schlemmer legato alla Scuola del Bauhaus fondata a Weimar nel 1919 da Walter Gropius per In questo caso si deve tralasciare tutto ciò che è inutile e ci si deve concentrare solo su ciò che è indispensabile e chiaro. Ogni riproduzione è in realtà sempre un’interpretazione visuale e talvolta è necessario allontanarsi dalla rappresentazione fotografica. Ricorre, anche, alla mappa della metropolitana di Londra che per essere efficace deve rinunciare a tutti i particolari di tipo accidentale e fermarsi alle proprietà pertinenti riducendo percorsi a linee rette a 90 o 45 gradi. Questo perché ci deve essere coincidenza isomorfica tra configurazione e contenuto. Capitolo 4 – Sviluppo (Growth) Parla soprattutto della produzione grafica dei bambini che ha analogie con alcune fasi dell’arte primitiva. Ci dice che per tutta una prima fase di prove di rappresentazione grafica il bambino ha bisogno di poco per rappresentare la figura di un uomo. A questo proposito ritroviamo l’ideogramma cinese “ren” (già affrontato nel capitolo precedente) che Arnheim lega ad alcune rappresentazioni artistiche di “uomo”. Tuttavia, questo tipo di esempio potrebbe portarci fuori strada e ci mette in guardia dal fatto di rivedere la teoria intellettualistica secondo cui i bambini disegnerebbero “simboli” ovvero “concetti astratti”. Secondo lui, basandosi sugli studi di pedagogisti, la vita intellettuale dei bambini dipende dalle loro esperienze sensoriali ed è a partire da questo che loro rappresentano delle cose. Idea di differenziazione à l’opera di un bambino è meno differenziata di quello di un adulto o di un artista perchè il bambino disegna ciò che vede e che la sua percezione non parte dai particolari ma da un’idea generale. I bambini vedono più di quello che disegnano e quando si rappresenta con cerchi o segmenti lo fa perché quello schema risponde alle esigenze del bambino stesso. La rappresentazione del corpo viene spesso data da un unico cerchio da cui escono delle linee che rappresentano le braccia e le gambe. Arnheim distingue ciò che è “percetto” da ciò che è “raffigurazione” à vedere la sagoma della testa significa vedere la rotondità quindi per rappresentarla devo trovare o inventare una forma che dia veste materiale a quel carattere visivo che ho percepito, all’idea di rotondità e a questo il bambino arriva dopo molti tentativi. I primi scarabocchi dei bambini sono anche degli effetti del loro modo di muoversi e il loro è un movimento di tipo descrittivo (descrivono nel momento in cui si muovono). La prima cosa che un bambino cerca di realizzare è il “cerchio primordiale” ovvero la forma più semplice perché ha una simmetria in tutte le direzioni, pertanto, anche l’adulto usa spesso il cerchio o la sfera per rappresentare convenzionalmente una configurazione di cui non si ha un ritratto particolare, che si vuole convenzionalmente rappresentare come un essere generico. Il cerchio è una buona gestalt, una buona forma, e il bambino lo ricerca. Il bambino ricorre, poi, alla forma circolare per rappresentare la “cosità” ovvero “qualsiasi cosa sia una cosa” perché ha l’idea di qualcosa di compatto che occupa spazio in uno spazio più ampio (idea di tadpoles che spesso sono chiamati gli uomini girino con testa molto grande, uomini cefalopodi con braccia e gambe). A partire dalla figura circolare il bambino fa evolvere il cerchio primordiale differenziandolo. Ci sono due modi di arricchirlo: - Contenimento = una forma circolare che contiene altre forme circolari - Raggiatura = cerchio con serie di elementi che lo circondano, raggi o altri cerchi Leggi della differenziazione: - Ogni forma resta indifferenziata fintanto che lo permette l’idea che il disegnatore ha dell’oggetto di cui mira alla rappresentazione, cioè fintato che la forma non differenziata basta ad esprimere ciò che vuole il disegnatore - Finché una caratteristica visiva non è ancora differenziata, l’intera gamma delle sue potenzialità viene rappresentata à inizialmente il cerchio non rappresenta solo ciò che è circolare ma qualsiasi cosa; quando nella rappresentazione iniziano, poi, a subentrare altre forme oltre al cerchio, la forma circolare torna a rappresentare ciò che è circolare, prima rappresenta una totalità di cose. Arnheim parla anche della difficoltà di conquistare la linea retta e riporta una frase di Delacroix che dice che la linea retta è qualcosa che non esiste ed è difficile da rappresentare; addirittura, dove l’uomo la usa la natura via via la rode via. Nei bambini più piccoli la linea retta rappresenta tutti gli elementi allungati. L’interesse di Arnheim per il pattern orizzontale e verticale non è casuale perché è qualcosa di molto importante per la riflessione sull’immagine nel Novecento. Diversi anni fa Stefano Bartezzaghi, laureato DAMS con Umberto Eco, ha scritto “L’orizzonte verticale” dove intende il cruciverba come un enorme simbolo di ciò che è stato il nostro modo di concepire il secolo scorso, il Novecento. L’autore ricorda che la griglia orizzontale e verticale era già, come aveva sostenuto Rosalind Krauss, una forma tipicamente novecentesca e ci sono molti esempi a partire da questa sollecitazione, emblema del modernismo. Se abbiamo a che fare con un’idea di una conquista sempre più esplicita del dinamismo, una dimensione vettoriale, arriviamo ad una conquista molto difficile per il bambino che è l’obliquità perché è un arricchimento consapevole della convenzione rappresentativa e la si percepisce come deviazione dall’idea di griglia e che quindi dà movimento, che esce dalla fissità. Fig. 128-129 à rappresentazione della giraffa da parte della stessa bambina a qualche anno di distanza. Nella seconda figura la giraffa cammina in maniera molto più libera e coerente. Dopo aver detto che l’aspetto essenziale è quello di non forzare la conquista dell’obliquità e che l’esigenza della differenziazione arrivi solo a tempo debito, Arnheim ci dice che anche nel mondo degli adulti la conquista dell’obliquità non è scontata. Per molti anni abbiamo avuto a che fare con tavoli fatti con angoli retti e riporta un’immagine di alcuni tavoli di una Corporation americana che all’epoca erano innovativi e che avrebbero aiutato molto a creare un clima di lavoro più dinamico accostati danno vita a configurazioni interessanti (cluster 120°). Nelle questioni pratiche come l’arredamento restiamo ancora ancorati a forme rette anche se negli uffici di ora troviamo cluster differenti, open space con separazioni per la privacy. Cosa vuol dire adesso rinunciare ad un’immagine di questo tipo? Serie tv chiamata “Severance” che si svolge in un ufficio distopico dove le forme utilizzate sono solo quelle squadrate, ad angolo retto. Quindi, per la rappresentazione di un ufficio chiuso, con scissione e non comunicabilità si ricorre ad una convenzione antecedente che, ora, assume un significato differente perché è cambiato il nostro livello di adattamento. Un altro argomento affrontato da Arnheim è quello della grandezza degli oggetti e ne parla relativamente allo sviluppo del disegno infantile. Per quanto riguarda la legge della differenziazione le dimensioni restano uguali fintanto che non sentiamo la necessità di diversificare le forme (la casa e l’amico hanno la stessa dimensione). Perché si inizia a dare una dimensione diversa agli oggetti rappresentati? La gerarchia consente di dare un’importanza dimensionale a ciò che rappresentiamo (es. arte egizia con faraoni giganti e sudditi piccoli). Arnheim cita anche un’immagine tratta dalle Favole di Esopo nell’edizione volgarizzata in veneziano del 1491 che illustra il corvo e la volpe. Il corvo è un animale che prende nel proprio becco un pezzo di carne e va su un albero e comincia a lodare la propria prodezza, ai suoi piedi si ferma una volpe che, astutamente, fa molte lodi al corvo incitandolo a cantare. Il corvo, quindi, per orgoglio, decide di cantare e aprendo la bocca lascia cadere la carne dal becco che viene presa dalla volpe (la morale è una presa in giro della stoltezza umana). Volpe e corvo in Esopo hanno lo stesso peso, hanno un dialogo costante senza gerarchia di importanza, dialogano tra pari e, quindi, Arnheim loda chi in una rappresentazione di questo tipo, pur avendo già in se le competenze di rappresentazione dimensionale in prospettiva, sceglie di rappresentarli nella stessa dimensione. Anche nella rappresentazione medievale un uomo può avere la stessa dimensione di una città, di un palazzo. Siamo pieni di rappresentazioni che ci dicono che le dimensioni mettono su uno stesso piano l’importanza in una storia o narrazione di oggetti anche diversi tra loro. Arnheim parla poi della difficoltà di rappresentare la terza dimensione nella bidimensione, rappresentare uno spazio volumetrico e fa riferimento ad un libro dal titolo “Flatlandia” di Edwin A. Abbott dove, già dal titolo, la parola fa capire che si tratta di un paese piatto. È un libro scritto nel 1882 da un pedagogo inglese che conduce il lettore, attraverso la geometria, in un viaggio fantastico dove la vita scorre in maniera regolare ma sulla superficie piana. Il suo cicerone, il narratore, è un quadrato; quindi, è una novella narrata da un quadrato. In questo mondo gli abitanti sono delle figure geometriche ma non sono tutte uguali perché ci sono delle gerarchie e le persone vivono piatte e non possono alzarsi. La legge naturale di questa città fantastica vuole che i figli maschi abbiano un lato in più del padre quindi avendo più lati possono raggiungere la nobiltà fino ad arrivare a diventare sacerdote che è un cerchio (es. il figlio di un quadrato può essere un pentagono). I triangoli isosceli non possono/possono molto raramente generare una progenie con lati in più e qui notiamo che si tratta anche di una rappresentazione folle dello spazio con satira sociale. Le donne sono segmenti potenti e temibili, sono degli spilli. Quello che vuole dirci Abbot è che siamo schiavi dei nostri pregiudizi dimensionali e anche il lettore tridimensionale parte dall’idea di superiorità ma il libro si chiude con l’idea di una quarta dimensione che avrà la sua esplosione nella teoria della relatività di Einstein. Arnheim usa questo esempio per analizzare le case del paese di Flatlandia che hanno pareti che sono semplicemente dei segmenti e quindi potremmo considerare “aperte”. Questo concetto viene legato alla rappresentazione infantile di una casa con un uomo dentro e che è del tutto in maniera coerente con la sua concezione di casa protetta. I bambini vivono in un certo senso in Flatlandia e non è detto che quella convenzione sia sbagliata ma è una filosofia diversa dell’immagine. Legato a questo tipo di rappresentazione rileva questo modello anche in un artista che conosceva bene la prospettiva come Durer e dice che le facciate seguono lo stesso principio che permette il funzionamento del palcoscenico. I bambini non fanno disegni radiografici ma mettono nel loro sviluppo le loro figure in una bidimensione non banale, non retrograda perchè è una scelta. Il bambino gioca anche con il pongo, quindi Arnheim parla anche della rappresentazione tridimensionale e trova nella palla quell’elemento primordiale che rappresenta la “cosità” e cita la Venere di Willendorf conservata al Natural History Museum di Vienna. Come per l’evoluzione grafica, anche qui, il bambino conquista la linea retta in maniera faticosa iniziando a fare dei salsicciotti che mette in orizzontale, verticale o in obliquo. Nella figura micenea di un bue troviamo varie parti che sono dei bastoncini attaccati ad un corpo a salsicciotto. Anche l’evoluzione scultorea avviene in base alle stesse leggi della rappresentazione grafica. Il corpo, infatti, si rappresenta in maniera sempre più squadrata e il riferimento è alle grandi immagini dei kuroi della scultura greca sul quale la stessa storia dell’arte usa proprio la parola “squadrati”. Anche qui, come nell’ambito bidimensionale, si fatica a trovare la buona composizione tra le diverse facce. Lo dimostrano i leoni a custodia dei palazzi assiri come quello del British Museum che se guardiamo di fronte vediamo un leone con due
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved