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Appunti psicologia dell'arte, Appunti di Estetica

appunti sugli aspetti psicologici dell'arte cinematografica

Tipologia: Appunti

2020/2021

Caricato il 02/06/2021

Davide131198
Davide131198 🇮🇹

4.7

(20)

7 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Appunti psicologia dell'arte e più Appunti in PDF di Estetica solo su Docsity! 1 Aspetti psicologici dell’arte cinematografica: come la mente dello spettatore entra in relazione con il film. INDICE INTRODUZIONE 2 CAPITOLO UNO LA PERCEZIONE CINEMATOGRAFICA TRA ILLUSIONE E REALTA’ 1.1 Un incontro tra due mondi: spettatore e film 5 1.2 Luce, colore, movimento e percezione del tempo 8 1.3 Sguardo, impressione di realtà e coinvolgimento dello spettatore 12 1.4 La percezione del montaggio e dei movimenti di macchina 14 CAPITOLO DUE L’INTERPRETAZIONE PSICOANALITICA DEI FILM 2.1 Un incontro interessante: la teoria psicoanalitica e la teoria del cinema 18 2.2 Analogie e differenze tra spettatore e sognatore 21 2.3 Come lo spettatore interiorizza il film: regime di credenza, effetto di fiction e regressione artificiale 23 2.4 Identificazione e proiezione spettatoriale 25 2.5 Effetto catartico ed effetto suggestivo: alcuni risvolti psicologici della censura 27 2.6 Il concetto di “romanzo familiare” e l’occultamento dell’autorialità filmica 29 2.7 Il film può parlare direttamente al nostro inconscio: attacchi di angoscia e resti diurni 32 CAPITOLO TRE IL FILM: UN VALIDO STRUMENTO ALL’INTERNO DI UN PERCORSO EVOLUTIVO DEL SOGGETTO 3.1 Prime sperimentazioni di impiego del film a scopo terapeutico 34 3.2 La cinelogia 35 3.3 MoviEmotions 41 3.4 La cinematerapia 42 3.5 Cinema e giovani spettatori 46 CONCLUSIONI 49 BIBLIOGRAFIA 51 SITOGRAFIA 52 2 INTRODUZIONE Perché andiamo al cinema? Cosa cerchiamo in esso? Cosa ci spinge ad assistere alla visione di una vita che non è la nostra? Sono queste le domande a cui cercherò di dare risposta e per farlo naturalmente ho deciso di parlare di cinema. Ma in una prospettiva psicologica. Questo perché ciò che mi interessa indagare è il punto di vista dello spettatore, è infatti soltanto da questa prospettiva che si possono capire i bisogni, le necessità e le richieste - magari anche inconsapevoli - che spingono le persone in una sala cinematografica a guardare un film. Se il cinema può essere definito come una produzione umana dal punto di vista artistico, culturale e storico e la psicologia invece come quella scienza che studia i meccanismi mentali e affettivi, è interessante vedere come ci sia un’innegabile legame tra le due discipline. Il cinema infatti mette in atto dei meccanismi psicologici mentre la psicologia stessa, a volte, dà notevoli spunti al cinema. Cinema e psicologia sono inoltre due materie “coetanee”: entrambe sono nate nella seconda metà dell’800 e la maggior parte degli studi psicologici sui film e sul cinema è stata condotta secondo l’impostazione della psicologia della Gestalt, scuola che sostiene che la realtà che noi percepiamo non sia frutto di una semplice combinazione di stimoli, ma sia costituita da oggetti costruiti grazie a dei principi di organizzazione che sono gli stessi che guidano anche i nostri processi di pensiero. Solo in tempi più recenti si è fatta sentire l’influenza della psicanalisi nell’interpretazione dei film. Per quanto riguarda l’interazione che si stabilisce tra film e spettatore vediamo come tra cinema ed individuo si instauri un dialogo che porta lo spettatore ad “entrare” nella pellicola identificandosi nei personaggi e spesso lo spettatore stesso cerca di trovare nei film situazioni ed emozioni che poi potrà portare “sulla scena” della sua vita arricchendo e definendo la propria identità e il proprio status sociale. Il cinema diventa così anche un mezzo per vivere infinite vite, per guardare la realtà da diversi punti di vista o per sognare, per esempio, la storia d’amore che non abbiamo mai vissuto o il viaggio che avremmo da sempre voluto fare. 5 CAPITOLO 1 LA PERCEZIONE CINEMATOGRAFICA: TRA ILLUSIONE E REALTA’. 1.1 Un incontro tra due mondi, spettatore e film Se uno spettatore qualsiasi si interrogasse sul perché va al cinema la risposta dovrebbe sicuramente tenere conto di motivazioni personali e sociali riconducibili al bisogno e al comportamento. Di fronte allo schermo lo spettatore può fruire un messaggio senza essere visto e senza esprimersi, applaudire o negare in silenzio uno spettacolo costruito per lui. Egli desidera vivere un’avventura intellettuale che gli permetta di compiere un viaggio oltre le soglie del reale, quasi come avviene nell’esperienza del sogno. Occorre inanzitutto considerare lo spettatore come un’entità variabile nei confronti del testo filmico - in quanto lo stesso film viene proiettato di fronte ad un certo numero di spettatori e in diverse sale cinematografiche - e il film come testo variabile nei confronti di una sola persona la quale fruisce diversi film. Le qualità che lo spettatore attribuisce al film sono dovute alle sue modalità di giudizio, di conseguenza sono legate alla sua personalità psicologica e sociale, anche se nella società in cui viviamo il cinema si trova nello spazio del “divertimento” c’è sempre un bisogno che spinge ad esso, un bisogno che ha tante sfaccettature ma che in generale conincide con un’esigenza comunicativa e di conoscenza, la ricerca di una sorta di trasformazione della visione del reale. Non bisogna sottovalutare l’ambiente in cui si trova letteralmente posto lo spettatore durante la visione del film, poiché è proprio questo che pone le premesse per l’ascolto e la visione. La collocazione spaziale degli spettatori nella sala, con lo schermo posto di fronte al pubblico e l’oscuramento dello spazio circostante, non favorisce certo l’intercomunicazione, bensì invita unicamente alla visione del film. E’ quindi lo schermo ad essere privilegiato come fonte di messaggi ed è proprio a causa della concentrazione dell’attenzione sullo schermo che lo spazio reale riservato agli spettatori, attraverso i processi di straniamento, può essere mentalmente sostituito dallo 6 spazio interno allo schermo durante la proiezione. Lo spettatore assiste più o meno consapevolmente a ciò che avviene sullo schermo, vuole allo stesso tempo capire ma anche lasciarsi andare, infatti si dice spesso di un film “mi ha preso” o “non mi ha preso” associando l’immaginazione alla percezione. Quando la nostra percezione si adatta al film lo fa in base a dei parametri spazio- temporali diversi da quelli adoperati per percepire la realtà: all’interno dei ventiquattro fotogrammi al secondo la metrica visiva si interseca alle parole, ai rumori, alla musica e tutto l’insieme raggiunge lo spettatore attraverso una sorta di “rottura sensoriale” imponendo il proprio ritmo alla sua percezione. Quello che accade allo spettatore in un certo senso è voluto dall’autore del film, infatti lo spazio dello schermo è in un certo senso già orientato in quanto lo sguardo dello spettatore può sì muoversi, ma lo può fare soltanto all’interno di uno spazio già scelto, soltanto attraverso una sorta di filtro posto da uno sguardo precedente che è quello deciso dal regista attraverso l’utilizzo della macchina da presa. Il film permette quindi al suo spettatore di spostarsi, attraverso dei passaggi spazio-temporali, in un mondo fittizio che conserva il carattere dinamico ed è proprio il bisogno di movimento uno dei motivi fondamentali che portano lo spettatore al cinema: “motion creates emotion” affermano gli americani. Inoltre è interessante considerare M. Merleau-Ponty (1962, p.69-70) quando scrive “ L’aspetto del mondo per noi sarebbe sconvolto se riuscissimo a vedere come cose gli intervalli fra le cose” e notare come proprio con la possibilità di riproduzione del movimento e di una diversa organizzazione spazio-temporale riusciamo finalmente a vedere gli “intervalli fra le cose” in un gioco di specchi che attraversa il reale cambiandone l’aspetto visivo e temporale al tempo stesso. L’oggetto cinematografico è un’assenza di realtà che si rivela ai nostri sensi come una presenza, quindi in virtù dell’assenza delle cose rappresentate, l’atteggiamento che uno spettatore assume nei confronti del film è di tipo ludico “Giocare” come dice M. Ponty (1965, p.190) “significa porsi per un momento in una situazione immaginaria, significa compiacersi di mutare ambito”. Il dialogo del soggetto con l’oggetto film parte da un certo orientamento iniziale che corrisponde alla scelta di assistere al film quindi agli interessi e alle attese che entrano in gioco ancor prima della fruizione, poi quest’indirizzo si trasforma, viene orientato dal film: è l’oggetto a prendere il sopravvento avvolgendo il soggetto in un mondo che gli 7 parla di se stesso. Ad un primo livello fisiologico, è sia un gioco comunicativo che una sorta di guerra di stimoli e risposte quello che si stabilisce tra il film e chi lo fruisce. Studiando l’interazione sensoriale è stato possibile mettere in evidenza, ad esempio, l’interdipendenza tra la vista e l’udito: i suoni modificano le immagini consecutive dei colori, un suono più forte li intensifica, l’interruzione del suono li affievolisce. Anche le risposte cutanee e muscolari sono connesse a quelle visive e uditive: lo stimolo viene integrato nel corpo come informazione e provoca un’interazione tra le varie risposte toniche (riferite al tono muscolare) e sensoriali vere e proprie (forme di ricezione che si riferiscono più propriamente ad uno solo dei sensi). Il concetto di sinestesia si basa su queste argomentazioni ed è diventato di fondamentale interesse nello studio del comportamento percettivo in genere. Esiste però una controversia riguardante l’orientamento percettivo rispetto all’organizzazione del film: alcuni come lo psicologo tedesco Arnheim (1974) sostengono che la risposta è generata dallo stimolo anziché dall’iniziativa del fruitore, altri studiosi invece sostengono la priorità del soggetto che osserva, affermando che l’attenzione dipende più che altro dall’orientamento del soggetto. Se è vero dunque che esistono degli indizi precisi inglobati nella tessitura testuale che propongono o impongono determinate esigenze di lettura è anche vero che la riorganizzazione del testo avviene principalmente attraverso l’orientamento soggettivo di chi fruisce. Si tratta quindi di una relazione biunivoca. Il supporto filmico è caratterizzato dalla bidimensionalità, anche se è possibile proiettarvi delle immagini che danno l’illusione della profondità, come vedremo in seguito in questo stesso capitolo. Lo schermo di proiezione è un rettangolo bianco, caratterizzato da una posizione fissa e collocato nella sala cinematografica di fronte agli spettatori. Tutti i cambiamenti che lo interessano sono dovuti alla proiezione della pellicola, che scorre attraverso il proiettore, riportando le immagini del film. All’interno del campo alcuni elementi, come i personaggi e le figure in movimento, risultano privilegiati mentre una parte del campo può essere considerata indistintamente come sfondo. Le ricerche sul risalto figurale trattato da D. Kahneman (1981) hanno dimostrato che è l’interesse dell’osservatore a privilegiare una parte del campo rispetto alle altre, anche se l’interesse a sua volta può essere orientato dal testo stesso. 10 successione spazio-temporale di più oggetti-stimolo fisicamente in quiete; più semplicemente è la percezione di un movimento apparente derivato dalla successione di immagini in rapida sequenza. Quest’impressione di movimento è inoltre più vivida se i due oggetti di una configurazione stroboscopica sono, per esempio, entrambi rossi piuttosto che uno rosso e uno blu e ancora di più se abbiamo due immagini umane rappresentanti per esempio due fasi distinte di un salto. Questa distinzione tra i due tipi di movimento è oggettiva ma quasi “magicamente” lo spettatore all’interno della visione cinematografica non la nota, infatti il cinema è uno dei più comuni esempi della perfetta equivalenza tra movimento reale e stroboscopico in quanto spesso questi si presentano contemporaneamente senza che lo spettatore noti la minima differenza. Nel 1912 Wertheimer pubblicò i risultati delle sue ricerche sul fenomeno phi. Egli aveva sottoposto dei soggetti alla visione di due linee luminose su uno schermo, in successione. Tra la presentazione della prima e della seconda linea vi era un intervallo sia di tempo che di spazio. Si è visto come la lunghezza dell’intervallo di tempo era di fondamentale imporatanza per la modalità di percezione del fenomeno, infatti se l’intervallo era superiore ai 200 sec/m il soggetto vedeva due linee in successione, se invece era inferiore ai 30 sec/m le due linee erano percepite come presenti simultaneamente. Quando l’intervallo era compreso tra questi due valori si verificava il fenomeno del movimento stroboscopico: il soggetto vedeva una sola linea muoversi da un posto all’altro. Inoltre, nella percezione cinematografica, accanto al movimento stroboscopico, interviene un altro tipo di movimento apparente definito “movimento indotto”. Se viene presentato un punto stazionario A circondato da una cornice rettangolare B, che si muove in uno spazio buio o comunque senza punti di riferimento, la cornice sembra ferma ed il punto sembra muoversi. Questo dimostra come oggetti che noi comunemente consideriamo mobili, come auto o aerei, tenderanno ad essere percepiti in movimento come mostra un famoso esperimento di Krolik del 1935 in cui veniva presentata una casa in movimento con accanto un’automobile ferma: si è visto come gli spettatori tendevano a percepire l’auto in movimento, in direzione opposta allo spostamento della casa. Nel cinema questo fenomeno ha numerose applicazioni, pensiamo per esempio ai casi in cui non è possibile essere fisicamente nel luogo che si vorrebbe rappresentare e si pone in studio un auto ferma mentre dietro di essa scorrono 11 le immagini del paesaggio in cui si vuole ambientare la scena. L’effetto sarà quello di un’auto che sta viaggiando. L’aspetto del movimento è importante per quanto riguarda la psicologia dello spettatore poichè quando i movimenti del film non sono seguiti correttamente la visione del film può trasformarsi in una visione sincretica come quella dei bambini o quella delle popolazioni non abituate al cinema. Lo sguardo dello spettatore segue dei percorsi particolari all’interno delle immagini, è sì guidato dall’interesse del singolo ma di solito il testo è già intessuto di direzioni privilegiate da seguire. Nella visione sincretica sono queste direzioni privilegiate che non vengono seguite e capite, cosicchè l’attenzione si ferma prima dell’aspetto organizzativo del testo, cioè solo sulle immagini. Non bisogna poi trascurare l’aspetto della rappresentazione cinematografica del tempo poiché, come si è detto già in precedenza, la percezione filmica è orientata da parametri temporali diversi da quelli utilizzati nella percezione della realtà. Sul piano psicologico è opportuno fare una distinzione tra il concetto di durata e quello di successione. Infatti nel cinema si assite, di solito, ad una successione di avvenimenti che non coincide con la loro durata. Un film che dura in media un’ ora e mezza può, per esempio, descrivere fatti avvenuti nel corso di molti anni, inoltre l’orientamento temporale cinematografico non rispetta necessariamente la direzione passato-presente-futuro tipica della vita reale e l’utilizzo del flash-back 1 ne è un tipico esempio in quanto può comportare delle “incursioni” del passato nel presente. Alberto Angelini, psicologo e studioso di cinema, nel suo libro “Psicologia del cinema” si è occupato di questi aspetti e riporta importanti osservazioni al riguardo: è stato infatti accertato che l’aumento della destrutturazione temporale riduce la passività dello spettatore, ma che allo stesso tempo ostacola progressivamente la memorizzazione. Inoltre si è scoperto che tanto più aumenta l’interesse per il film che si sta guardando, tanto più diminuisce la stima soggettiva della durata temporale. Quindi se un film ci piace lo percepiremo più breve rispetto alla sua durata effettiva. 1 Tecnica cinematografica che consiste nell’inserimento di scene che spezzano l’ordine cronologico del racconto per rievocare avvenimenti già trascorsi. 12 1.3 Sguardo, impressione di realtà e coinvolgimento dello spettatore Attraverso meccanismi organizzativi e selettivi uno spettatore riesce a percepire gli elementi del film (come le forme, i colori, la musica…) e con essi i significati interni alle cose. Egli interviene a completare ciò che percepisce con significati ulteriori e così entra nella rappresentazione organizzandola di nuovo. Lo sguardo di un possibile osservatore ha un’ampiezza - di circa 210 gradi - all’interno della quale il suo raggio visuale può essere indirizzato in modo selettivo. Nel campo visivo è possibile mettere a fuoco solo una piccola parte, mentre il resto risulta sfuocato e in genere lo sguardo viene indirizzato sui settori dell’area visiva che presentano una maggiore concentrazione di informazioni. La proprietà del campo, o di una parte di esso, di attirare l’attenzione viene definita attensity: un termine che si riferisce soprattutto all’intensità dell’attenzione. Da alcuni esperimenti di Kahneman si osserva come, se in un campo entra un solo oggetto, l’osservatore sia portato a seguirlo con lo sguardo, mentre, se ne entra più di uno, l’osservatore fissa solo quello rilevante. Si possono riferire queste osservazioni a una situazione scenica in cui ci sono, per esempio, due soggetti che conversano: di volta in volta lo spettatore volgerà lo sguardo verso la persona che parla e poi verso quella che risponde in quanto è in base all’azione del parlare che i soggetti acquistano alternativamente la maggior rilevanza. Non bisogna comunque dimenticare che l’attenzione può essere convogliata su uno stimolo piuttosto che su un altro sia in funzione dell’importanza che questo assume per il testo, sia di quella che vi attribuisce il fruitore. Può accadere che lo spettatore si trovi in una situazione di ambiguità tale da provocare in lui un conflitto tra le diverse risposte di decodifica ad uno stimolo, in tal caso la sua capacità selettiva gli permetterà di valutare la situazione e di scartare ciò che è irrilevante; tuttavia anche gli stimoli cosiddetti irrelevanti possono provocare delle risposte sottosogliari, ossia a livello non cosciente. Uno dei fattori principali che da sempre ha generato l’interesse dello spettatore per il cinema è l’impressione di realtà dovuta al coinvolgimento dei sensi. Anche le passioni sono un fatto reale e il cinema ha la possibilità di provocarle. E’ vero che una 15 all’occhio dello spettatore Mozzuchin, caso per caso, esprimeva - rispettivamente alle tre immagini - fame, tristezza e gioia, pur non avendo in realtà mai cambiato espressione. Questo dimostra come nel cinema il regista sia in grado di creare uno spazio e un tempo che nella realtà non esistono e come la risposta dello spettatore a ciò che sta guardando dipenda più dal montaggio finale che dalla singola inquadratura. Non bisogna poi trascurare, sempre all’interno della scuola sovietica, il contributo di Ejzenstejn, regista che ha teorizzato il montaggio delle attrazioni : secondo lui le varie sequenze all’interno del film non dovevano essere collegate per creare una maggiore comprensibilità drammatica ma piuttosto dovevano essere poste in conflitto l’una con l’altra. Infatti il montaggio delle attrazioni è diretto a fini astratti, collega due azioni per esprimere un concetto e opera in forza di un principio dialettico. Alla base di questo tipo di montaggio c’è un procedimento conflittuale, i pensieri si incontrano e si scontrano producendone di nuovi, più concretamente questo significa che un’inquadratura “A” sommata ad un’inquadratura “B” può dare come risultato un significato “C” e quindi vediamo come il montaggio, sottoponendo lo spettatore al conflitto tra vari elementi, lo spinga a creare un concetto nuovo. Inoltre bisogna precisare che con il termine attrazione Ejzenstejn intende qualsiasi momento aggressivo che esercita sullo spettatore un effetto sensoriale e psicologico, tale da produrre scosse emotive. Ma vediamo con un esempio concreto cosa significa: nella parte finale del film Sciopero del 1925 dello stesso Ejzenstejn c’è un’inquadratura di un ufficiale che abbassa violentemente i pugni quando ordina il massacro degli scioperanti alternata con l’inquadratura delle mani di un macellaio che con un coltello si abbassano su di un toro per ucciderlo. Quest’utima inquadratura rappresenta un inserto non diegetico in quanto rappresenta un tempo e uno spazio che non hanno legami con gli eventi rappresentati nel film. Tutta la sequenza si sviluppa alternando le scene della morte dell’animale con quelle dell’attacco agli scioperanti. L’alternanza di queste due scene, non vuole suggerire simultaneità tra i due eventi ma l’intenzione del regista è quella di creare un’analogia che orienti la risposta emotiva dello spettatore. Lo spettatore stimolato emotivamente da questo conflitto, vissuto attraverso lo schermo, coglie l’intenzione dell’autore che è appunto quella di sottolineare la violenza dell’ufficiale che tratta gli scioperanti come se fossero delle bestie al macello. 16 L’esperienza percettiva dello spettatore è inoltre orientata dai movimenti di macchina e dalle inquadrature in quanto ad ogni movimento di macchina, o tipo di inquadratura corrispondono diversi toni emotivi e il regista sceglie in che modo effettuare la ripresa in base ai particolari effetti psicologici che desidera provocare nello spettatore. Quest’ aspetto è ben affrontato da Angelini, già citato in precedenza, che ci fornisce una descrizione precisa delle diverse caratteristiche emotive che corrispondono a determinati movimenti della macchina da presa. Vediamoli nello specifico: una panoramica 2 da sinistra verso destra è percepita dallo spettatore come un movimento naturale, come uno spostamento da un luogo ad un altro, in quanto ricorda lo scorrere regolare della lettura di un testo (nel nostro sistema di lettura ovviamente). Al contrario una panoramica da destra verso sinistra è un movimento più forte, ha un effetto drammatico e suggerisce una situazione di contrasto e conflitto. Le panoramiche dal basso verso l’alto rappresentano una sensazione di esaltazione, si slancio, di liberazione da un peso, quelle dall’alto verso il basso, invece, danno un senso di pericolo o di un peso interiore che opprime, soprattutto se effettuate rapidamente. Riprese con movimenti diagonali rendono più acuta la drammaticità della scena, bisogna però distinguere il tipo di diagonale: una panoramica dal basso verso l’alto e da sinistra a destra suggerisce un movimento psicologico ascendente, mentre una panoramica sempre da sinistra a destra ma dall’alto verso il basso una drammaticità discendente. Un movimenro incrociato suggerisce forze opposte che si contrastano, un movimento a zig-zag da’ un senso di minaccia. Una panoramica con movimento curvo denota paura, un movimento circolare tende ad evocare il ritornare degli eventi o la giostra e può quindi suggerire gioia e allegria. Infine un movimento interrotto bruscamente risveglia l’attenzione dello spettatore in quanto rompe la continuità e l’armonia del racconto riproponendo inoltre un meccanismo che avviene frequentemente nella realtà quando il nostro sguardo si sofferma su qualcosa che vogliamo analizzare più nello specifico. In generale, comunque, un movimento verso il pubblico aumenta l’interesse di ciò che sta accadendo sulla scena, mentre un movimento che si allontana dal pubblico lo fa calare e a volte suggerisce la chiusura di un episodio. 2 Ripresa cinematografica ottenuta mediante il movimento orizzontale, verticale o combinato della macchina da presa ruotante su se stessa. 17 Non bisogna poi dimenticare il grande valore psicologico del primo piano 3 , che viene utilizzato quando si desidera convogliare l’attenzione dello spettatore sulle caratteristiche emotive del personaggio. In conclusione, tutte queste osservazioni ci fanno vedere come la nostra percezione sia effettivamente guidata da degli archetipi psicologici che intervengono affettivamente nel cogliere il movimento, archetipi che possono essere eridatari o influenzati dall’ambiente socio-culturale in cui viviamo, ma che in entrambe i casi, la maggior parte delle volte, appartengono alla sfera dell’inconscio. 3 Le inquadrature hanno nomi diversi a seconda delle parti della figura umana che delimitano: il primo piano contiene la testa e le spalle del personaggio inquadrato. 20 modo preponderante in funzione del destinatario ed è in questo senso che ogni film è una costruzione del suo spettatore, anche perché ogni persona interpreta il film in modo differente, secondo la propria personale soggettività. “Cinema e psicanalisi: il significante immaginario” di Metz del 1980 è il testo fondante della teoria psicoanalitica del cinema, testo in cui l’autore mostra come il cinema mobiliti tecniche dell’immaginario per poter assicuare il funzionamento dell’apparato cinematografico, creare le condizioni di ricezione dello spettatore cinematografico e produrre la qualità prettamente fantasmatica 4 della significazione cinematografica. Per Metz “immaginario” è da intendersi in tre accezioni, tutte riguardanti l’esperienza filmica: la prima rimanda al senso originario della parola “fittizio” in quanto i film sono storie immaginarie rappresentate da immagini presenti di oggetti e persone assenti. Il secondo significato si riferisce al “senso di assenza” che pervade la rappresentazione cinematografica in quanto, come abbiamo visto nel primo capitolo, il cinema dipende da un alto grado di attività percettiva (la visione, il suono, la percezione del movimento ecc...) ma da una scarsa concretezza, poiché le immagini filmate e gli spettatori non condividono lo stesso spazio e tempo; come scrive Metz (1980 pp. 48-49) nel cinema sono le immagini a “rendersi così presenti nella modalità dell’assenza” offrendoci “un’insolita ricchezza percettiva, ma insolitamente segnata dall’irrealtà”. Il terzo significato è più strettamente psicoanalitico e si riferisce specificatamente all’ ”immaginario” secondo Lacan, ossia il luogo di costruzione dell’io antecedente al momento edipico 5 che contiene tutte le relazioni tra fantasia e desiderio del “nucleo iniziale dell’inconscio”. 4 Derivante dalla sensazione, da un’impressione sensoriale. In accezione più strettamente psicoanalitica, il termine “fantasmatico” si riferisce a quanto è prodotto dai fantasmi presenti nel mondo interiore. 5 Tecnicamente il complesso edipico indica il corpus organizzato di desideri, sia amorosi che ostili, che il bambino prova nei confronti dei suoi genitori. In Freud, che ha definito la situazione edipica “il complesso nucleare di tutte le nevrosi”, esso è un punto cardine per la strutturazione della personalità e per l’orienatamento del desiderio umano, poichè determina l’emergere dell’identità sessuale. R. Stam, R. Burgoyne,S. Flitterman-Lewis, 1992 p. 173. 21 2.2 Analogie e differenze tra spettatore e sognatore La teoria psicoanalitica del cinema si fonda sull’equivalenza tra lo spettatore e il sognatore: l’esperienza filmica, infatti, è ritenuta molto simile al lavoro del sogno, ovvero la produzione immaginaria delle fantasie inconsce. In primo luogo, sia il cinema che il sogno inducono l’individuo a sperimentare una situazione diversa da quella propria della vita reale. Inoltre, in entrambe le situazioni, ciò è possibile solo se l’individuo sospende temporaneamente il corso della vita normale. Il sogno avviene durante il sonno, quando il contatto fisico con l’ambiente esterno è molto limitato e analogamente anche nella situazione cinematografica i contatti con l’ambiente circostante vengono limitati. Per questo si spengono le luci, si evitano i rumori e si cerca di offrire allo spettatore una situazione comoda e confortevole. Sia il sogno che il cinema rappresentano delle forme di evasione dal mondo reale ed entrambi si dimenticano e si modificano nella memoria con facilità proprio perché hanno scarsi agganci con elementi concreti della realtà. Secondo l’orientamento psicoanalitico i sogni proprio perché si verificano durante una sospensione dell’attività psichica cosciente, cadono sotto il dominio dei processi psichici inconsci, infatti possono essere definiti come appagamenti simbolici di desideri inconsci e quindi come “testi” strutturati che possono essere analizzati a un duplice livello: il contenuto manifesto, ossia la storia raccontata nel sogno, rappresenta il primo e consente di accedere al secondo, definito contenuto latente, che corrisponde al desiderio del sogno, cioè quel desiderio inconscio e proibito che genera il sogno stesso. Gli impulsi e le fantasie insoddisfatte, durante la veglia, per il controllo cosciente che esercitiamo su noi stessi, si manifestano durante il sonno all’interno dell’elaborazione onirica, ovvero tramite i sogni. Per questo i sogni accolgono, a volte in modo esplicito, esigenze e desideri che non ammetteremmo nella vita reale e proprio a questo proposito si verifica una forte analogia con la situazione cinematografica. Infatti, anche se gli spettatori non realizzano personalmente i film a cui assistono, la loro tolleranza nei confronti delle situazioni illustrate cinematograficamente è molto maggiore di quella che potrebbero avere nei confronti di fatti reali, a cui fossero costretti a partecipare, o anche, semplicemente ad assistere. La forza dell’analogia tra cinema e sogno nella 22 teoria del film deriva quindi dal fatto che il film - in un certo qual modo - costruisce lo spettatore come un sognatore. Quindi la teoria psicoanalitica del cinema esamina sia il significato del testo filmico (l’enunciato) sia la produzione di quel testo (l’enunciazione), considerando tanto il regista quanto lo spettatore corresponsabili di quella produzione. In questa prospettiva l’autore e lo spettatore vengono concepiti non solo come individui che compiono scelte di tipo cognitivo per produrre interpretazioni consce, ma anche come processi nella formazione di una soggettività desiderante. Quindi lo spettatore cinematografico è uno spettatore desiderante in quanto la psicoanalisi ritiene che sia le condizioni di fruizione del film, sia il testo filmico in quanto tale mobilizzino le strutture della fantasia inconscia. Più di ogni altro mezzo il cinema è in grado di avvicinarsi alla struttura e alla logica dei sogni e dell’inconscio. Secondo Freud il termine “fantasia” si riferisce alla produzione psichica costruita sulla base di un desiderio inconscio attraverso una scena immaginaria in cui il soggetto/sognatore, che sia presente o meno, è il protagonista. E’ necessario inoltre fare alcune puntualizzazioni riguardo alla nozione di fantasia: inanzitutto questo termine non si riferisce semplicemente ad un contenuto immaginario che ha origine nella mente del regista, è piuttosto il risultato di un rapporto interattivo tra il film e lo spettatore in cui quest’ultimo costruisce la fantasia e allo stesso tempo è costruito da essa. Questo avviene perché la fruizione del film innesca contemporaneamente una proiezione - in cui impulsi specifici, desideri e aspetti del sé si immaginano collocati in un oggetto esterno al sé - e un’identificazione - in cui vi è l’estensione di un’identità in un’altra, un prendere in prestito l’identità di un altro oppure una confusione/fusione di un’identità con un altro -. In secondo luogo la fantasia non coincide pienamente con la soddisfazione sfrenata di un desiderio ma è anche una “formazione di compromesso” in cui idee represse trovano espressione solo dopo aver subito una certa censura e distorsione, cosa che avviene anche nell’attività onirica. Infine la fantasia è presente più che altro nella continua procastinazione del desiderio piuttosto che nel suo appagamento, in quanto coincide più precisamente con la rappresentazione dell’appagamento e non con l’appagamento stesso. Bisogna comunque tenere in considerazione anche il fatto che film e sogno sono profondamente diversi: perché lo spettatore cinematografico diventi il soggetto di una 25 ulteriormente assicurato quando il soggetto sintetizza in un tutto coerente e significativo le molteplici prospettive che si susseguono nel lavoro di montaggio. 2.4 Identificazione e proiezione spettatoriale. Lo spettatore è il nucleo della descrizione psicoanalitica dell’esperienza cinematografica in quanto, come abbiamo visto fino ad ora, il significato del film esiste solo grazie alla partecipazione psichica del suo spettatore. La teoria psicoanalitica del cinema interpreta la spettorialità in termini di circolazione del desiderio anche alla luce del fatto che vede lo spettatore non come una persona in carne e ossa, ma come un costrutto prodotto e attivato dall’apparato cinematografico. Forse la questione più complessa all’interno della teoria dello spettatore è quella dell’identificazione. Non solo vi è una distinzione tra identificazione primaria e secondaria, sia in psicoanalisi che nella teoria del cinema, ma esistono differenze di interpretazione tra Freud e Lacan, ma anche tra Baudry e Metz, i due teorici che utilizzano di più questo termine. In psicoanalisi c’è identificazione quando un soggetto ne assimila un altro, interamente (come nel caso dell’identificazione con un individuo) o parzialmente (come nel caso dell’assunzione di un tratto o di una caratteristica). L’identificazione è uno dei meccanismi di base della costituzione immaginaria dell’Io - ha quindi una funzione fondativa - e allo stesso tempo rappresenta un prototipo di un certo numero di processi psicologici attraverso cui l’Io, una volta che si è costituito, continua a differenziarsi - ha quindi anche una funzione di matrice -. Secondo Freud l’identificazione primaria implica un modo primitivo di costruzione dell’io sul modello di un’altra persona, è quindi una forma primitiva di relazione affettiva con un oggetto, prima che si crei la consapevolezza della distinzione tra l’io e l’oggetto. E’ un tipo di identificazione diversa da quella dello “stadio dello specchio” di Lacan, perché per Lacan è proprio lì che viene riconosciuta la differenza tra l’io e l’altro. Sia per Freud che per Lacan, però, le identificazioni secondarie permettono al soggetto di costituirsi all’interno dell’ambito del Simbolico (l’ambito del linguaggio e della cultura) e allo stesso tempo di stabilire la propria singolarità, la propria identità in relazione agli altri sul piano culturale. Quella che comunemente chiamiamo 26 “identificazione”, ossia la relazione empatica nei confronti dei personaggi di un film, viene presa in esame all’interno dell’ambito psicoanalitico delle identificazioni secondarie, poiché riguarda un soggetto già costituito, un soggetto che si è già evoluto rispetto all’indifferenziazione della prima infanzia. Ma l’empatia che sentiamo a livello conscio ha ben poco a che fare con l’identificazione in senso psicoanalitico, infatti quest’ultima riguarda i processi inconsci della psiche e non i processi cognitivi della mente. La differenza si potrebbe porre in questi termini: il concetto di empatia corrisponde a “so come ti senti” e quindi le sue categorie strutturali sono il sapere e la percezione; l’identificazione corrisponde a “vedo come vedi tu, dalla tua posizione” in questo caso entrano in gioco visione e collocazione psichica. Non bisogna comunque dimenticare che la sfera cognitiva e l’inconscio sono di fatto in relazione tra loro in quanto i desideri motivano pensieri consci e a volte viceversa. Per Metz l’identificazione cinematografica primaria è l’identificazione dello spettatore con l’atto stesso del vedere e questo tipo di identificazione viene considerato primario perché è ciò che rende possibili tutte le identificazioni secondarie con i personaggi e gli eventi sullo schermo. Questo processo, sia percettivo, lo spettatore vede l’oggetto, che inconscio, lo spettatore partecipa in modo fantasmatico o immaginario, è allo stesso tempo costruito e diretto dalla macchina da presa. Metz mette inoltre in relazione questo tipo di identificazione con lo stadio dello specchio - già accennato in precedenza - ossia con quel momento in cui il bambino comincia a distinguere gli oggetti come diversi da se stesso e così facendo inizia a differenziare il sé. Il bambino davanti allo specchio e lo spettatore davanti allo schermo hanno in comune il fatto di essere entrambi affascinati e quindi spinti a identificarsi con un ideale immaginario, guardato a distanza. Su questa analogia si basa la corrispondenza, stabilita dalla teoria del cinema, tra l’identificazione cinematografica primaria e lo stadio dello specchio. In questa prospettiva parte del fascino del cinema deriva dal fatto che , mentre consente la temporanea perdita dell’io, in quanto lo spettatore si identifica in qualcun altro, allo stesso tempo lo rinforza in quanto invoca lo stadio dello specchio, il primo momento fittizio di identificazione e di formazione dell’identità. In un certo senso quindi lo spettatore perde e contemporaneamente trova se stesso. C’è una seconda anologia tra lo stadio dello specchio e la situazione spettatoriale: l’illusione di coerenza e di controllo suggerita dalla costituzione immaginaria dell’io corrisponde all’illusione di controllo dello 27 spettatore. Baudry ritiene che il cinema riproduca la stessa trasformazione del soggetto che si verifica durante lo stadio dello specchio: da un’immagine frammentata del corpo all’immagine di una totalità, unità e coerenza. Da questo pensiero deriva l’idea di cinema come risposta al nostro desiderio di pienezza, esso infatti offre mondi stabili, coerenti e non contraddittori in cui è il soggetto ad essere la fonte del significato. “ Lo specchio è il luogo dell’identificazione cinematografica primaria. L’identificazione con il proprio sguardo è secondaria rispetto allo specchio […] ma essa è alla base del cinema e quindi primaria quando si parla di cinema” (Metz 1980 p. 59). 2.5 Effetto catartico ed effetto suggestivo: alcuni risvolti psicologici della censura I fenomeni di identificazione e proiezione provocano degli ulteriori effetti sul pubblico. Questi effetti sono fondamentalmente di due tipi: catartici e suggestivi. Il termine catarsi deriva dal greco e significa “purificazione”, in psicoterapia il metodo catartico persegue appunto l’effetto di una “purificazione” attraverso una cura che consente al soggetto di rievocare e perfino di rivivere gli eventi traumatici ai quali sono legati certi sentimenti pericolosi per la sua salute psichica e di liberarli. La scarica emozionale liberatoria può essere in particolare provocata con l’ipnosi. Storicamente il metodo catartico risale al periodo che va dal 1880 al 1895, in cui la terapia psicoanalitica prese gradualmente forma a partire, appunto, da trattamenti effettuati sotto ipnosi. Per suggestione si intende, invece, il processo mediante cui una persona viene influenzata al punto da accettare idee altrui, credenze o modi di pensiero. La suggestione, pur non fornendo una spiegazione completa dell’ipnosi, gioca un ampio ruolo in essa. Non è un caso che fenomeni propri dell'ipnosi compaiano nella situazione cinematografica: il buio della sala e lo stato oniroide in cui si verifica la visione del film favoriscono analogie psicologiche. Avviene, in pratica, che per l’effetto catartico lo spettatore sperimenta un appagamento psichico volto a ristabilire quell’equilibrio che le inconsce pulsioni insoddisfatte tendono ad alterare. Dall’altro lato, per l’effetto suggestivo, lo spettatore è anche indotto ad accettare più facilmente quegli elementi violenti ed erotici proposti sullo schermo, la cui ricerca potrebbe conseguentemente 30 Un altro elemento fondamentale nella costruzione dello spettatore cinematografico è collegato all’autorialità e al suo occultamento. Per poter dare allo spettatore l’impressione di essere lui a produrre il fantasma filmico, è necessario nascondere il “vero sognatore”, vale a dire l’autore implicito del film, il soggetto del desiderio. Lo spettatore deve essere messo in condizione di dimenticare che ciò sta vedendo è una finzione esterna, proveniente da una fonte di desiderio diversa da se stesso. A questo proposito Metz (1980 p. 58) afferma” Io assumo lo sguardo del cineasta (senza di che non sarebbe possibile nessun film)”. La teoria psicoanalitica del cinema ricorre al concetto di “enunciazione” per descrivere questo complesso processo di slittamento e, in quanto tale, l’enunciazione è allacciata al sognare, ovvero a un’operazione fantasmatica, inconscia e non a un processo cognitivo. All’interno di questa disciplina quindi tale concetto descrive sia l’origine della fantasia del film (luogo di autorialità) sia la sua appropriazione (luogo di spettatorialità). Si intuisce quindi il carattere di reciprocità dell’enunciazione, in quanto non solo le immagini dello schermo provengono da una fonte desiderante, ma esse vengono anche restituite a una fonte egualmente desiderante perché questa se ne impossessi, ossia lo spettatore. Metz ci spiega molto bene quel meccanismo per cui affinchè la finzione filmica possa produrre e mantenere viva la fascinazione dello spettatore, deve apparire come se le immagini sullo schermo fossero l’espressione del desiderio dello spettatore, in altre parole la figura del regista deve sparire dietro il film così che la figura dello spettatore possa prendere il suo posto nella costruzione del discorso filmico: “Se il cinema tradizionale tende a sopprimere tutte le marche del soggetto dell’enunciazione, questo è perché lo spettatore possa avere l’impressione di essere egli stesso quel soggetto, ma un soggetto vuoto e assente, una pura capacità di vedere” (Metz 1980 p. 24). Quindi alla luce di queste osservazioni si spiega come una delle operazioni primarie del film narrativo classico sia l’occultamento di quelle marche dell’enunciazione che indicano il lavoro di selezione e ordinamento delle inquadrature, ossia gli indicatori testuali che rivelano la mano del regista. Il film, un discorso costruito che proviene da una fonte specifica, si fa passare per storia, una narrazione impersonale, che in quanto tale ogni spettatore può sentire come propria. Le regole della continuità sono state sviluppate nel cinema per mantenere l’impressione di una coerenza immaginaria, consentendo allo 31 spettatore di credere nell’integrità dello spazio, nella sequenza logica del tempo e nella realtà dell’universo fittizio. La capacità dello spettatore di costruire mentalmente uno spazio e un tempo continuo, a partire da immagini frammentarie, è basata su un intreccio e su un gioco di sguardi: - dal regista/enunciatore verso l’evento profilmico, ossia la scena osservata dalla macchina da presa; - tra i personaggi all’interno della finzione filmica; - dallo spettatore allo schermo. Questi sguardi vincolano lo spettatore in una posizione di attribuzione di senso, di credenza e di potere nei confronti del film. Ci sono alcuni particolari mezzi che vengono utilizzati affinchè lo sguardo dello spettatore si inserisca all’interno della finzione filmica, per esempio il campo/controcampo 6 implica un’alternanza di sguardi tra vedente e visto ed è una struttura che consente allo spettatore di diventare una sorta di mediatore invisibile tra il gioco di sguardi che si stabilisce tra i due dialoganti nella fanatsia del film. Anche la soggettiva 7 - che può essere marcata da un minor o maggior grado di distorsione rispetto all’oggettività del reale - lega l’immagine fruibile al campo visivo e alla prospettiva di uno dei personaggi. Lo spettatore quindi non mantiene più una prospettiva di sguardo strettamente personale, ma è come se il suo sguardo fosse filtrato attraverso la soggetività di un’altra persona, seppur fittizia, in quanto appartenente al film. Un altro concetto fondamentale nella teoria psicoanalitica del cinema è quello di sutura teorizzato da Oudart, egli infatti ritiene che i processi psichici responsabili della 6 Il campo-controcampo è una tecnica utilizzata durante la fase di montaggio di un film, articolata in due distinte inquadrature speculari, tra le più usate nel linguaggio cinematografico. Solitamente nella prima inquadratura è mostrato un personaggio che osserva qualcosa, e nella seguente, con un punto di vista soggettivo (come se vedessimo con gli occhi del personaggio) o semi-soggettivo (con la macchina da presa posta in un punto dietro il personaggio in modo da vedere sia lui sia ciò che gli sta davanti) l'oggetto del suo sguardo. Nello spettatore il collegamento spaziale tra i due elementi, soggetto e oggetto, all'interno della stessa azione è immediato e automatico. Questa tecnica è anche una delle più abusate nei dialoghi, in cui si alternano le inquadrature di due personaggi che si fronteggiano, tanto da non essere più ben vista da taluni registi o critici. 7 Con “soggettiva” si indica una tecnica di ripresa cinematografica che consente allo spettatore di calarsi nei panni di un personaggio, permettendogli di vedere le cose con i propri occhi: appunto, in soggettiva.
 In questo modo lo spettatore ha una visione maggiormente aderente alla realtà, nel senso che è messo nella condizione di percepire tutto quello che sente, prova e vede in quel preciso momento il personaggio sullo schermo. 32 costruzione della soggetività siano reiterati nel cinema dal processo che lega lo spettatore alla coerenza della finzione filmica, vale a dire la struttura del campo/controcampo. Per Oudart l’immagine sullo schermo offre allo spettatore una pienezza immaginaria che richiama l’esperienza dello specchio per il bambino. Questo appagamento tuttavia è immediatamente frammentato dall’ansia prodotta dalla consapevolezza dello spazio fuori campo. Questo smarrimento è attenuato dal controcampo che “rispondendo” all’assenza evocata dallo spazio vuoto, con la visione del personaggio che si trovava fuori campo “sutura” lo spettatore in quell’esperienza originaria di soddisfazione immaginaria. Poiché gli spettatori e gli attori non condividono mai lo stesso spazio, il registro su cui si può discutere la soggettività della visione è molto più intimamente collegato agli intricati processi dell’inconscio che non a tutte le altre forme di rappresentazione basate sull’invocazione delle pulsioni percettive. 2.7 Il film può parlare direttamente al nostro inconscio: attacchi di angoscia e resti diurni Esistono numerosi argomenti che provano la capacità del film di parlare direttamente all’inconscio dello spettatore: la psicoanalisi e la psichiatria hanno descritto, da tempo, quel fenomeno specifico costituito dagli attacchi di “angoscia cinematografica”, intendendo con questo termine dei momentanei stati di paura, non collegati ad oggetti specifici, che si accomapagnano a sensazioni di grande rischio e di catastrofe imminente. Sul piano psicoanalitico è noto che l’angoscia, come stato psichico, può essere determinata da situazioni conflittuali che agiscono a livello inconscio, senza che il soggetto se ne renda conto. Si è constatato che, a volte, i primi attacchi di angoscia in un soggetto ansioso si sono prodotti durante la visione di un film; allo stesso modo alcune persone, soggette ricorrentemente a simili disturbi, sperimentano con maggiore frequenza i loro attacchi durante le proiezioni cinematografiche. Alcune persone sviluppano una vera e propria fobia del cinema fino al punto di evitare le sale cinematografiche per timore di essere colte da altri attacchi. Inoltre bisogna tener conto del fatto che non necessariamente questi film ansiogeni sono gli stessi che la maggior 35 alla riflessione su se stessi e la propria esistenza, inviare spunti per un dialogo, che produrrà mutamenti in coloro che ne sono coinvolti. La strumentalizzazione del film a fini terapeutici è piuttosto recente, le prime sperimentazioni risalgono alla seconda metà degli anni ’60. E’ in questi anni che nell’ospedale psichiatrico di Limbiate lo psichiatra Max Beluffi condusse una prima esperienza al fine di mettere a punto una metodologia di supporto per il trattamento dei soggetti psicotici che prese il nome di “antropoanalisi di gruppo cinecondizionata”: la motivazione ispiratrice era capire in che misura il cinema d’arte potesse essere impiegato in gruppi psicoterapeutici per tematizzarne e stimolarne la dinamica di svolgimento. Quasi contemporanea, nel 1967, è stata la nascita del Cinedebate a Cuba, nel primo ospedale “General Calixto Garcia” di La Habana. Qui lo psichiatra Carlos Acosta Nodal, facendo riferimento ai principi della psicoanalisi, sperimentò un metodo originale di terapia di gruppo rivolto a qualsiasi tipo di paziente psichiatrico. Il Cinedebate è un metodo psicoterapeutico di gruppo che si realizza attraverso la proiezione di un film e immediatamente dopo, la sua discussione da parte dei pazienti con la guida dello psicoterapeuta. L’aspetto più originale della tecnica è che la relazione medico/paziente viene mediata dal linguaggio cinematografico. 3.2 La cinelogia Per certi aspetti simile al Cinedebate, come setting, ma diversa per principi e finalità è la cinelogia elaborata dallo psicoterapeuta Antonio Meneghetti a partire dal 1980. Questa tecnica si basa su alcuni presupposti fondamentali. L’oggetto di studio, da prendere in considerazione, è la cosiddetta situazione cinematografica, cioè il complesso costituito dallo schermo, dalla sala e dallo spettatore, dove si avviano quei processi che fanno paragonare la partecipazione filmica all’attività onirica. Analizzando i meccanismi della percezione e della memorizzazione del messaggio, si arriva a comprendere che, nella psiche, c’è qualcosa di radicato che influenza gli spettatori prima ancora che sperimentino l’impatto con l’immagine. Si rivela cioè la presenza di un meccanismo di difesa o meglio di un “filtro”, che 36 impedisce il passaggio alla coscienza di tutti gli stimoli in arrivo, facendo arrivare solo quelli che sono approvati dai meccanismi psicologici attivati al momento della percezione. Esiste cioè una forma di selettività costante e continua che porta ognuno a scegliere l’esposizione ad una certa comunicazione e non ad altre. In base a questi meccanismi selettivi ciò che rimane, alla fine della proiezione o dopo un lasso di tempo, è un ricordo stereotipato, quindi non conforme alla realtà di ciò che si è visto. Il processo della memorizzazione quindi non è uguale per tutti, ma è condizionato dai processi emozionali attivati dalle sequenze filmiche. Per rispettare l’oggettività scientifica, è stata attuata la misurazione delle alterazioni fisiologiche che intervengono nello spettatore (frequenza respiratoria, battiti cardiaci..) alla ricerca di una base empirica della correlazione tra immagine ed emozione e si è visto come la memorizzazione di alcune scene sia in correlazione con l’intensità dell’emozione sperimentata. Il contenuto del film è quindi vissuto e ricordato in base alla predisposizione del soggetto. Considerando, da un lato il film come fonte di informazione e dall’altro lo spettatore che ne è il ricevente, diventa interessante incentrare l’analisi sulle operazioni mentali che egli mette in atto nel recepire l’informazione e nell’interpretarla. Le mappe cognitive che lo spettatore possiede gli permettono di mettere insieme le informazioni, selezionarle e decifrare la situazione che gli si presenta. Esistono quindi degli schemi mentali attraverso i quali viene ricostruito il film nella mente, anche se in modo parziale. La cinelogia è uno degli strumenti per entrare nel vivo dell’azione psicologica umana, è un metodo che consente di ampliare a livello sociale gli strumenti della psicoterapia. Attraverso il film si fa vedere uno stile di vita rappresentativo della maggioranza umana, quindi sempre attraverso di esso si può compiere un lavoro di introspezione e di risoluzione. Il gioco della cinelogia è quello di strumentalizzare il film di un regista allo scopo di mettere in evidenza istinti e desideri sottostanti in ciascuno degli spettatori, per cui il vero oggetto di questa analisi non è il film - in quest’ultimo caso si avrebbe una sorta di cineforum - mentre la terapia si fa su ciò che il film ha attivato negli spettatori, da cui esce un altro film. Lo scopo della cinelogia non è quello di insegnare o di fare critica cinematografica, bensì di utilizzare il film per analizzare i fruitori di quelle immagini: dove lo spettatore participa, lì si identifica, come abbiamo già visto in 37 precedenza. Per applicare la cinelogia può andar bene qualsiasi film, ma in particolare sono utili quei film che hanno un riscontro ampio, che esercitano un certo fascino di attrazione sul pubblico, poiché in questi casi è meglio individuabile quella forza chiamata “coefficiente emozionale” che porta il film ad avere un grande successo. Quella di cui stiamo parlando è una tecnica che cerca di dare risposta a domande come “Perché ti piace questa immagine?”, “Perché ti appassiona?”, “Perché la detesti?”; di conseguenza l’immagine diventa l’occasione di esposizione dell’introversione e il susseguirsi di immagini ben sincronizzate, ossia il film, consente di cogliere le forze emotive che vengono provocate e che agiscono sullo spettatore. Come afferma Antonio Meneghetti infatti “ Attraverso un processo di immagini, noi cogliamo l’esposizione dell’intenzionalità dell’inconscio” (1980-1999, p. 210). Non bisogna inoltre dimenticare che il film, nel suo complesso, è programmato per una finalità di divertimento, ha una capacità di estrovertere gli spettatori, ”diverte” e quindi etimologicamente parlando “fa uscire fuori”: attraverso il film c’è l’esporsi dell’inconscio. Questo comporta il fatto che quando ci si trova davanti al film - in un contesto di questo tipo - non bisogna porsi di fronte ad esso con un semplice spirito di godimento, ma bisogna voler sapere qualcosa di più su se stessi, durante il processo della cinelogia è quindi importante cogliere da che cosa si è “presi”, in quanto, se io sono preso da quella situazione allora io sono senz’altro qualche aspetto di quella situazione. Lo svolgimento della cinelogia è un processo che si attua nello spazio continuo di quattro/sei ore con un numero eterogeneo di partecipanti da un minimo di cinque ad un massimo di duecento. In una prima fase lo psicoterapeuta presenta il film, esponenedo in sintesi la tematica, contestualizzando la visione e fornendo alcune indicazioni per la lettura del film, quindi predispone gli spettatori alla cinelogia. Lo stesso psicoterapeuta insiste inoltre affinchè i successivi interventi dei partecipanti siano il più possibile immediati, diretti e irrazionali. In seguito viene proiettato il film. Dopo un quarto d’ora di intervallo dalla fine prende la parola lo psicoterapeuta invitando chiunque dei presenti ad esporre quei passaggi del film dove si è più emozionato e questa seconda fase è costituita di conseguenza dalle reazioni degli spettatori. L’azione filmica e la risposta interattiva dei partecipanti costituiscono la base fondante di tutto il lavoro cinelogico, infatti proposto un film, il materiale da terapeutizzare è riferito al tipo di intervento dello spettatore. E’ come se, dopo la visione 40 mette insieme questi tre concetti: essere, anima e teoria. Meneghetti ci spiega come sulla base dell’esperienza di qualsiasi tipo di cultura, l’attuale umanità sconti un’impossibilità di comprendere e di individuare le cause di dolori e perdite, quindi l’uomo subisce una realtà di cui non conosce l’origine. Questa incapacità viene continuamente giustificata e celata dietro i concetti di “impossibilità”e di “mistero” considerati costitutivi dell’esistenza umana. L’ontopsicologia invece parte da quel presupposto per cui se sono io a gestire la mia realtà esistenziale, se mi trovo dentro ad essa, non è possibile che, in quanto essere intelligente, io debba essere escluso dal mio principio. Proprio per questo l’ontopsicologia cerca, con metodo e razionalità, di giungere al primo fondamento di ciò che muove l’uomo; con semplicità parte dal fatto che se sono un uomo e ho un problema ne sono contemporaneamente il gestore e il gestito. “Dal momento che sono, dal fatto di essere, si costituisce il diritto di sapere, perché nessuna autorità di alcun genere può esimermi dal sapere ciò che sono, perché nessuna cosa al mondo - al di fuori del mio intimo - può dar pace, forza e riuscita al senso della mia vita” (A. Meneghetti, 1980-1999, p. 8). Di conseguenza stiamo parlando di un metodo che opera nel luogo delle cause, che indaga il principio causale per cui l’uomo si muove e agisce. Una volta entrato nella causalità di ciò che mi costituisce divento più consapevole e responsabile di ciò che sono. Quindi vediamo, in riferimento alla cinelogia, come sia proprio la teoria ontopsicologica in grado di cogliere il valore ed il significato dello spostamento emozionale che si determina nell’impatto dello spettatore con la visione filmica, risalendo alle cause. Come abbiamo visto un’immagine è visualizzata emotivamente in diversi modi dallo spettatore e fare cinelogia significa utilizzare il film per cogliere le differenze - date dai differenti complessi - degli spettatori per poi iniziare una psicoterapia basata sulle loro percezioni differenziate. Di conseguenza il valore della cinelogia è in rapporto agli spettatori: il vero film è quello che lo spettatore vive e agisce, non tanto il film in sé. Il film diventa quindi uno strumento dialettico di confronto che consente di entrare in profondità nell’inconscio umano. Per questo anche la cinelogia riconosce la vicinanza tra proiezione filmica e proiezione onirica che abbiamo affrontato nel capitolo precedente.
 41 3.3 MoviEmotions Esistono altre interessanti esperienze nelle quali il film viene utilizzato all’interno di gruppi moderati da psicoterapeuti. Ad esempio, il Dottor Fabrizio Marcolongo, psicoterapeuta e psichiatra, ha introdotto la tecnica da lui definita MoviEmotions. Anch’essa è costruita sulla base dei principi psicoanalitici.
 In un primo momento i partecipanti assistono, a casa propria, alla proiezione di un film, precedentemente concordato, su videocassetta.
 In seguito la proiezione viene ripetuta, alla presenza del terapeuta, con gruppi di 20-25 persone e viene interrotta in concomitanza con le scene più emotivamente significative, al fine di discutere quanto visto. Vengono analizzati tutti quegli elementi che costituiscono la realtà scenica, quali: la storia, l’inquadratura, il dialogo, l’espressione dei volti, la postura corporea degli attori. Non si tratta di critica cinematografica, ma del tentativo di analisi e discussione della rappresentazione di una realtà “altra” da quella vissuta quotidianamente, in prima persona, al fine di elaborare i vissuti di gruppo. Marcolongo riporta risultati positivi in termini di aumento della capacità di cogliere e decifrare le emozioni da parte dei presenti. In questa tecnica infatti il film viene utilizzato come strumento di alfabetizzazione emozionale come aiuto per quelle persone che fanno fatica a tradurre in parole le proprie emozioni e quelle degli altri. Bisogna però precisare che questa tecnica non è assolutamente da confondersi con un nuovo modo di fare terapia, lo stesso Marcolongo tiene a precisare che MoviEmotions consiste nella visione di un film con uno psicoterapeuta che guidi l’esperienza di visione per far scoprire ai partecipanti cose nuove che non sarebbero state osservate o lette se quella visione fosse stata fatta da soli. Questo perché lo stesso Marcolongo è consapevole del fatto che sono necessarie ancora ulteriori ricerche volte ad individuare se, come e in che misura si può verificare il processo terapeutico attraverso la visione filmica. Le ricerche attuali, infatti, vanno nella direzione di una integrazione di tale percorso con quello di una psicoterapia vera e propria, più che di una sostituzione d’essa. Esattamente come nel caso della cinelogia, che abbiamo affrontato in precedenza. 42 3.4 La cinematerapia. Negli ultimi anni si è spesso sentito parlare di cinematerapia, infatti circa una decina di anni fa, negli Stati Uniti è nata una nuova modalità d’approcio alla visione di una pellicola cinematografica. Purtroppo la maggior parte delle volte il suo effettivo significato non viene esaustivamente illustrato e di conseguenza ci si è fatti un’idea erronea, spesso considerandola un metodo di cura alquanto bizzarro, di questa nuova metodologia. In realtà la cinematerapia propone il film non più soltanto come mezzo di intrattenimento, ma come uno strumento, come una sorta di mezzo di trasporto per giungere nella sfera dell’intimità umana e sciogliere nodi strutturali anche abbastanza complessi. Tuttavia non si può considerare la cinematerapia una psicoterapia o una metodologia clinica e neppure assomiglia lontanamente alla psicoanalisi; infatti il suo scopo non è quello di curare patologie, ma piuttosto quello di agevolare e di accompagnare dei processi trasformativi, di migliorare la consapevolezza e di aiutare le persone a prendere decisioni importanti. La cinematerapia utilizza solo alcune parti dell’opera cinematografica, concentrandosi sull’evolversi emotivo della vicenda ed escludento tutti gli elementi sociologici, culturali e legati alla tecnica cinematografica. Molte volte si rischia di trascurare la sostanziale differenza che sussiste tra il concetto di cinema e quello di cinematerapia e più volte ancora si crede che dietro alla cinematerapia ci sia la pretesa - totalmente infondata - di poter guarire qualcuno attraverso la “somministrazione” di film. In realtà bisogna fare una netta distinzione e non confondersi tra l’effetto del cinema e l’effetto della cinematerapia. I due effetti sono diversi proprio perché diversi sono gli obiettivi e le finalità a cui essi tendono: il cinema nasce come luogo di intrattenimento, in alcuni casi anche di tipo culturale, ma sicuramente sempre molto lontano dagli effetti trasformativi che la cineterapia intende perseguire. Questo tuttavia non significa che guardare un film in una sala cinematografica non comporti degli effetti, anzi. Alcuni recenti studi scientifici americani hanno voluto indagare la quantità di ormoni presenti nel sangue di alcuni volontari che si sottoponevano alla visione di diversi tipi di pellicole e si è visto come la quantità di ormoni variasse dopo la visione del film. Partire però da questo risultato per 45 constatazioni fini a se stesse oppure possono avere un riscontro utile e di utilizzo pratico. Macroarea 1ma misurazione - (prima del Seminario) 2da misurazione - (dopo il Seminario) Variazi one Perc. Conoscenza profonda delle proprie emozioni 11,00 11,55 + 5% Percezione di sentimenti negativi 30,19 23,05 - 24% Percezione di sentimenti positivi 45,33 48,91 + 8% Capacità di entrare in contatto con l'Altro 18,86 20,41 + 9% Elucubrazione mentale 16,48 13,69 - 17% QuickTime™ e un decompressore TIFF (Non compresso) sono necessari per visualizzare quest'immagine. 46 3.5 Cinema e giovani spettatori Negli ultimi anni si è discusso inoltre del rapporto tra cinema e giovani spettatori e del possibile utilizzo del film a scopo didattico nelle scuole. L’argomento è stato ampiamente trattato all’interno del Convegno Nazionale di Formazione per l’avvio del Piano Nazionale per la promozione della Didattica del Linguaggio Cinematografico ed Audiovisivo nella Scuola, svoltosi a Roma nel febbraio del 2000. E’ emerso che la finalità di tale utilizzo del film è da un lato creare spettatori più consapevoli e con un gusto estetico più maturo e dall’altro aiutarli a crescere come persone, attraverso il cinema e il dialogo con l’opera d’arte cinematografica Un approcio simile è adatto inoltre anche per i formatori e per gli insegnanti, che partono non tanto da una competenza specialistica sul cinema ed il suo linguaggio, quanto da un interesse formativo ed educativo. Dal loro punto di vista è importante capire sia come il film e il prodotto audiovisivo cercano di entrare in rapporto con lo spettatore, sia come lo spettatore giovane si avvicina al testo, vi entra in rapporto e gli dà un senso. In particolar modo la struttura del racconto insita nel film può essere utilizzata positivamente, in ambito educativo, per evocare il progetto personale profondo tra la sua umanità e quella dell’autore, sui temi fondamentali della vita, che stanno sempre dietro e dentro l’opera d’arte, anche se essa non li affronta esplicitamente e sembra raccontare piccole storie e aspetti minori dell’esistenza. La possibilità di utilizzare il film a scopo didattico si basa su alcuni presupposti di fondo: inanzitutto i giovani non si accostano al film del tutto impreparati, mancano di un’educazione scolastica, ma ne hanno una forte che deriva dal “contesto” ossia dal mercato e dalla pratica televisiva. Sono però, proprio per questo, privi di una strategia consapevole di rapporto e di dialogo con l’opera. Inoltre hanno una forte disponibilità, anche per le caratteristiche psicologiche tipiche della loro età, a farsi catturare dal film, cioè dai meccanismi di identificazione proiettiva propri del linguaggio cinematografico. Questo non è solo un pericolo ma anche un potenziale positivo, che può evolvere in un rapporto profondo con l’opera. Oltre a ciò i giovani cercano nel film spunti e suggestioni utili da trasportare nella loro vita. In particolare gli adolescenti cercano, più o meno consapevolmente, elementi per la costruzione della loro identità e del loro ruolo 47 sociale. Tutto questo è confermato anche da una delle poche indagini esistenti sul rapporto cinema e giovani a cura del Censis e del Museo del Cinema di Torino. Ciò che è ritenuto importante è sia l’aspetto ludico e di evasione, non solo in senso passivo, ma anche nel senso attivo di esperienza immaginativa concreta di altri mondi possibili e soprattutto la capacità del cinema di offrire situazioni e problemi su cui riflettere, di far rivivere allo spettatore tensioni e sentimenti della propria esistenza e di fabbricare storie che possano aiutare a capire e ad affrontare meglio la vita. Infatti il linguaggio cinematografico non è indipendente, non appare mai da solo, ma è sempre accompagnato da altri sistemi di significazione: culturali, stilistici e percettivi. Proprio per questo nel rapporto tra film e spettatore si attivano processi che interessano ambiti diversi: percettivi, cognitivi, emozionali, culturali ed etici. Quindi nel rapporto educativo insegnante/studente non si tratta soltanto di insegnare e imparare a decodificare il linguaggio cinematografico, ma anche di rielaborare le modificazioni psicologiche e culturali nate dal dialogo con il film. Bisogna tener presente che occorre evitare il rischio di concentrarsi esclusivamente sull’opera sotttovalutando le risposte dello spettatore in rapporto all’opera medesima. Inoltre per la nascita di un rapporto fecondo con l’opera filmica è necessario liberare i processi sensoriali ed emotivi del soggetto da schemi cognitivi ed emozionali interferenti, insegnando, per esempio, a non pretendere di capire subito, a sospendere il giudizio (che se prematuro è un pre-giudizio) lasciandosi andare inizialmente alla semplice esperienza di contatto sensoriale ed emotivo e spiegando che non si tratta di “spegnere il cervello” ma anzi di lasciarlo lavorare in modo più libero e più ampio. Questo è un aspetto fondamentale in quanto è proprio su questa partecipazione emotiva che vanno innestati gli elementi cognitivi nuovi e le conoscenze dei codici linguistici, i quali aprono nuovi orizzonti alle possibilità di comprensione semantica, favorendo la nascita di schemi mentali più ampi e adeguati a un livello di gusto estetico più maturo. In questo modo può gradualmente svilupparsi quella capacità di attenzione flessibile e fluttuante nella visione del film, che rende liberi di scegliere e di oscillare tra l’immedesimazione e il distacco, che è necessaria allo spettatore consapevole. L’utilizzo del film a scopo didattico offre quindi al giovane spettatore una sorta di “alfabetizzazione emotiva” e permette di insegnare a distinguere e a riconoscere le diverse sfumature delle emozioni trasmesse dal film. 50 Questo rivela un importante paradosso che mette in luce come il cinema sia allo stesso tempo luogo di falsificazione ma anche specchio della realtà ed è forse questo aspetto dicotomico che rende il cinema così affascinante: si rifà alla realtà per agganciarci e per apparire familiare ai nostri occhi e poi ci conduce in mondi sconosciuti. Il film è una non-realtà che può servire per comprendere meglio la realtà della nostra anima. Infatti è in questa direzione che si stanno muovendo molti studiosi per capire se effettivamente il cinema può essere di aiuto all’interno di un percorso evolutivo e di crescita umano. Il cinema inoltre presenta numerose sfaccettature e permette all’individuo di prendere parte, seppur in maniera immnaginaria, a infinite vite, è come avere in mano un caleidoscopio e guardare attraverso questo la realtà sempre in modo diverso e da punti di vista differenti. Ma ciò che è più importante tener presente è che: “Il cinema ci racconta la storia umana superando le forme del mondo esteriore, vale a dire spazio, tempo e causalità, e adattando gli eventi nelle forme del mondo interiore vale a dire attenzione, memoria, immaginazione ed emozione.”(H.Munsterberg) 51 Bibliografia Albano L. Lo schermo dei sogni, chiavi psicoanalitiche del cinema, Marsilio Editori, Venezia, 2004. Angelini A. Psicologia del cinema, Liguori Editore, Napoli, 1992. Anolli L. e Legrenzi P. Psicologia generale, Il mulino, Bologna, 2001. Atti del convegno internazionale “Film e integrazione psicologica nei rapporti sociali“, Società editrice Vita e Pensiero, Milano. 1957. Barbera A. e Turigliatto R. 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