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Appunti purgatorio Divina Commedia. Canti VIII-IX-X-XI-XII-XIII, Appunti di Italiano

Il riassunto e l'analisi del Canto VIII della Divina Commedia di Dante Alighieri, in cui si parla della dolcezza degli amici, della sacra rappresentazione e della presenza perenne della tentazione. Vengono inoltre presentati i personaggi di Nino Visconti e Corrado Malaspina, amici di Dante, e il loro discorso sul rammarico privato. Il tema centrale del canto è la dolcezza.

Tipologia: Appunti

2021/2022

In vendita dal 25/12/2022

anna-de-vio
anna-de-vio 🇮🇹

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Scarica Appunti purgatorio Divina Commedia. Canti VIII-IX-X-XI-XII-XIII e più Appunti in PDF di Italiano solo su Docsity! Canto VIII Dove: Antipurgatorio, nella valletta fiorita Anime espianti: i principi negligenti Personaggi: Dante, Virgilio, Sordello, Nino Visconti e Corrado Malaspina RIASSUNTO È l'ora del tramonto. Un'anima si alza, congiunge le palme e le leva verso il cielo. Poi, voltasi a oriente, comincia il canto liturgico Te lucis ante. Tutte le altre anime si uniscono al canto. Terminato il canto, tutte le anime guardano in alto, con un'espressione di ansiosa e timorosa attesa. Ed ecco infatti scendere due angeli con in mano due spade infuocate prive della punta che si pongono ai lati della valletta. Sordello spiega che sono a guardia dell'ingresso per impedire a un serpente di entrarvi, Dante si stringe impaurito a Virgilio. Sordello invita i due poeti a scendere nella valletta, dove Dante riconosce l'amico Nino Visconti. I due si salutano con grande affetto e quando Nino apprende, con meraviglia, che l'amico è vivo, invita un'altra anima a vedere il prodigio. Poi chiede a Dante di dire alla figlia Giovanna di pregare per lui, perché sua moglie, passata a seconde nozze, ha dimostrato di essersi dimenticata di lui Dante alza gli occhi al cielo e scorge, al posto delle quattro stelle viste la mattina, tre stelle. Virgilio gli dice che queste sono salite al posto delle altre, ormai tramontate. In quello stesso momento, Sordello indica a Virgilio il serpente che sta arrivando, strisciando nell'erba e leccandosi. In quell'istante, i due angeli si alzano in volo e il serpente, al solo fruscio delle ali, fugge. Gli angeli tornano ai posti di guardia. Durante tutto questo tempo l'anima che era stata chiamata da Nino Visconti per vedere il prodigio di un vivo in Purgatorio, non stacca gli occhi da Dante. Poi lo prega di dargli notizie della Lunigiana, presentandosi come Corrado Malaspina, signore di quella terra. Dante risponde con un alto elogio della famiglia dei Malaspina, conosciuti per il suo valore e per la sua cortesia in tutta Europa anche da chi come lui, non è mai stato in quei luoghi. Corrado gli profetizza che tra pochi anni potrà costatare di persona la verità di tale fama. IL TEMA CENTRALE DEL CANTO: LA DOLCEZZA In apertura del canto è rievocata la malinconia che il viaggiatore prova quando cala il tramonto la prima sera dopo la partenza. La nostalgia è uno stato d'animo comune a tutti gli uomini e a tutti i tempi e il poeta lo esprime scegliendo le parole più comuni inserite in un discorso dalla struttura colloquiale; termini più significativi sono in rima perché se ne diffonda l'eco da un verso all'altro. E in questo elenco delle "cose dilette più caramente", Dante inserisce anche gli amici. L'immagine del tramonto e quella della preghiera sono i due registri nei quali si sviluppa un unico tema, quello della dolcezza: la dolcezza degli amici sfocia infatti nella dolcezza del canto delle anime. su cui il poeta insiste, e che proprio per la sua dolcezza richiama il canto di uno dei "dolci amici": Casella. LA SACRA RAPPRESENTAZIONE Avvicinandosi la notte, due angeli scendono dal cielo a guardia della valle perché il diavolo, sotto le spoglie del serpente che ha tentato Eva, sta per presentarsi ma basta il frusciare delle ali degli angeli perché si dilegui. Ovvio il significato allegorico-liturgico: la grazia di Dio, invocata nella preghiera, fuga ogni tentazione. Dante personaggio sa che il demonio sta per comparire, ma non sa da dove, per questo ha paura; allo stesso modo gli sfugge il movimento degli angeli. L'uomo cioè non sa da dove può venire il male, né quando e come verrà l'aiuto divino. Ma come mai le anime già salve temono l'assalto del tentatore? Le anime dell'Antipurgatorio non temono la tentazione per sé, ma per coloro che sono rimasti in Terra. La sacra rappresentazione si svolge in un ambiente fiorito da Paradiso terrestre, e il serpente volutamente simile a quello che tentò Eva: dunque non si tratta della tentazione di singole persone, ma assistiamo a un rito che ammonisce tutti gli uomini sulla presenza perenne della tentazione. I PERSONAGGI DEL CANTO: NINO VISCONTI E CORRADO MALASPINA Da quanto si dice nel canto desumiamo che Dante e il pisano Nino Visconti, uno dei capi del partito guelfo, fossero molto amici. L'incontri ricalca le linee di episodi precedenti: - Come gli scomunicati Nino si meraviglia quando apprende che Dante percorre da vivo i regni oltremondani - Lo slancio d'affetto è simile a quello degli incontri con Casella e con Belacqua - Come Buonconte, Nino è stato dimenticato dalla vedova e come Manfredi confida solo nelle preghiere della figlia - L'assoluzione nei confronti dell'amico, contro l'opinione comune, ricorda il caso di Manfredi: il poeta vuole riabilitarne la politica e la morale Questo è tuttavia un intento secondario perché tutto il discorso verte sul rammarico privato, di marito e di padre, del personaggio. Nella presentazione del personaggio e nel suo discorso non si fa il minimo accenno al passato. Qui è solo l'amico di Dante, e soprattutto il marito dimenticato dalla vedova risposatasi e il padre affettuoso di una bambina. Molte sventure erano seguite alle seconde nozze della moglie di Nino, Beatrice, e Dante sembra credere che in questo modo la donna avesse scontato l'infedeltà alla memoria di Nino. Il giudizio su Beatrice è assai duro e se Nino si esprimesse in tal modo contro la moglie, ciò sarebbe in disaccordo col distacco tipico degli spiriti del Purgatorio, oltre che con la "misura" tipica di ogni spirito nobile. In ogni caso emerge qui uno dei motivi principali della cantica, il dolore della dimenticanza: difficile e azzardato dire se questo motivo abbia origine autobiografica, cioè se Dante attribuisce questa dimenticanza a sua moglie Gemma che non lo seguì nell'esilio, ma certo egli da esule soffriva per essersi lasciato alle spalle una città che sembrava essersi dimenticata di lui. Questa affinità di situazioni fra Nino morto e Dante esule deve aver rafforzato l'antica amicizia. L'ultimo episodio del canto, quello di Corrado Malaspina, riprende i due motivi principali dei canti di Sordello: la decadenza della tradizione cavalleresca e l'esilio. Quando Corrado si presenta, il poeta si affretta ad assicurarlo solennemente che la fama di liberalità e di valore è meritata anche dagli attuali signori. Dante quindi vuole stabilire la continuità tra l'antica età e la nuova. Dichiarando che la famiglia dei Malaspina fa eccezione, Dante ribadisce, per contrasto, la condanna pronunciata nel canto VII dei principi contemporanei che avevano abbandonato la tradizione del buon tempo antico. A differenza di quelli "privati" di Nino, gli affetti familiari di Corrado sono impregnati di alte idealità che trascendono il fatto personale e familiare. La tradizione della famiglia è la tradizione stessa della cavalleria. Le lodi ai Malaspina, oltre che debito di gratitudine, sono un'ulteriore espressione della nostalgia per le virtù cavalleresche. Ma l'incontro con Corrado è anche un ritorno del tema dell'esilio sotto forma di dolorosa accettazione: il trittico dei canti di Sordello si conclude con l'accettazione del volere di Dio, anche nel male che esso reca. Canto IX dell'Annunciazione, lo invita a non fissare lo Virgilio, vedendo Dante assorto a contemplare 'altorilievo dell'Annunciazione, lo invita a non fissare lo sguardo solo su quello; il discepolo allora procede oltre per ammirare il secondo: vi è raffigurata la traslazione dell'arca santa. La perfezione dell'intaglio è tale che non solo a Dante sembra di sentire il canto delle stette schiere di popolo osannante, ma anche il profumo degli incensi. David è raffigurato mentre balla umilmente, con la veste succinta, davanti all'Arca, e dalla finestra di un palazzo, appare la moglie Micol sdegnata e indispettita per la troppa umiltà del marito. Dante prosegue per guardare un altro altorilievo, che si trova dopo quello di David. Vi è raffigurato l'imperatore Traiano a cavallo e al suo fianco una vedova piangente. Dante ascolta nel suo intimo un vero e proprio dialogo, nel quale la vedova chiede giustizia per l'uccisione del figlio e Traiano acconsente. Mentre Dante contempla le mirabili sculture della parete marmorea, Virgilio vede avanzare delle anime ed esprime la speranza di avere da quelle indicazioni sulla via da seguire. Dante si volge, ma solo a stento e, a seguito della chiarificazione di Virgilio, riesce a distinguere che si tratta di persone curve sotto gravi massi. Di fronte alla grave pena dei superbi, Dante apostrofa i cristiani, chiedendosi con stupore come essi possano dimenticare la vanità dell'orgoglio terreno, dal momento che, dinnanzi al Giudice supremo,andrà l'anima nuda, senza protezioni. I penitenti avanzano curvi sotto massi pesanti e somigliano alle cariatidi che vengono raffigurate nell'atto di reggere qualcosa che li costringe a piegarsi. Le anime sono più o meno schiacciate dal peso che portano e questo è relazione alla gravità del peccato; alcuni sembrano all'estremo della sopportazione. L'INGRESSO NEL PURGATORIO VERO E PROPRIO Con questo canto comincia la descrizione del Purgatorio propriamente detto. Oltre alle pene, quasi tutte regolate dal contrappasso, gli spiriti conquistano il Paradiso attraverso il dolore per il male compiuto, e meditando sulla bellezza della virtù opposta al vizio di cui si sono macchiati, e sulla bruttezza e punizione del vizio stesso, mostrate loro attraverso esempi. LA MATERIA DEL CANTO: LA PROPENSIONE ALLA SUPERBIA La superbia è per Dante la più grave delle propensioni peccaminose, per questo la si sconta nel primo girone del Purgatorio, il più lontano dal Paradiso. Ai superbi il poeta dedica uno spazio maggiore che a tutti gli altri peccatori. Negli altri gironi gli esempi di punizione sono generalmente due o tre: quelli di superbia sono ben tredici, e presentati con artifici stilistici ben elaborati. Un'apostrofe ai superbi "miseri lassi" precede la descrizione della loro pena ed è a sua volta preceduta da un'esortazione al lettore perché non si sgomenti di fronte alla gravità della pena. Nella peggiore delle ipotesi, la pena durerà solo fino al giorno del Giudizio, mentre la pena dei superbi non pentitisi durerà in eterno. I MOMENTI DEL CANTO Ai ww. 7-18 viene descritta la difficoltà di Dante nel salire uno stretto canalone tagliato nella montagna. Alla fine della salita Dante e Virgilio non sanno che direzione prendere perché, allegoricamente, il poeta vuole ribadire la difficoltà che l'uomo incontra a ogni importante tappa sulla via che lo libera dal peccato. Questo canto non ha personaggi né approfondimenti lirici o psicologici ed è dominato da una descrittività talmente particolareggiata da indicare con precisione la larghezza del girone o gli spostamenti che Dante fa per ammirare meglio gli altorilievi scolpiti sulla parete del monte. Questa minuzia descrittiva può sembrare eccessiva, anche perché non necessaria né dal punto di vista narrativo né da quello allegorico è un momento di ispirazione pacata, dove prevale l'intento di dare al lettore la sensazione di leggere una descrizione di cose ed eventi effettivi, misurabili e determinabili con assoluta precisione. Canto XI Dove: nella prima cornice Anime espianti: i superbi Personaggi: Dante, Virgilio, Omberto Aldobrandeschi, Oderisi da Gubbio, Provenzano Salvani RIASSUNTO Le anime dei superbi avanzano curve sotto i pesi e recitano il Pater noster. Nell'ultima parte si invoca l'aiuto di Dio contro la tentazione che i penitenti chiedono non per sé, ma per coloro che sono ancora vivi. Dante, colpito dal fatto che i defunti preghino per i vivi, osserva che questi dovrebbero fare altrettanto, aiutando le anime penitenti a raggiungere in fretta la purificazione e quindi la beatitudine eterna. Virgilio chiede alle anime la direzione per raggiungere la scala che porta alla seconda cornice e, qualora ve ne fosse più di una, qual è quella meno ripida, perché Dante è ancora vivo. Un'anima che Dante non riesce ad individuare, perché i penitenti sono curvi, risponde invitandoli ad andare con loro: troveranno una scala che anche chi è vivo è in grado di salire. Dopo aver risposto a Virgilio, l'anima aggiunge che vorrebbe vedere il vivo perché preghi per lui, ma il peso che porta non gli permette di guardarlo. Dichiara di essere Omberto Aldobrandeschi e di espiare qui la superbia, deplorando quella di tutta la sua stirpe. Per poter meglio ascoltare, Dante si è chinato all'altezza dei superbi, e un'altra anima, torcendosi a fatica sotto il peso, cerca di farsi riconoscere. Dante si accorge che è Oderisi da Gubbio e ne loda la somma perizia come miniaturista. Ma derisi, confessando di essere stato superato da Franco Bolognese, coglie l'occasione per sottolineare la vanità della fama terrena, che è come un vento che cambia nome col cambiare di direzione. Per confermare la vanità della fama umana, Oderisi indica un'anima il cui nome era stato celebre e famoso in tutta la Toscana e ora a Siena è appena ricordato. Dante, incuriosito, chiede chi sia l'anima additata da Oderisi e costui risponde essere Provenzano Salvani, che ebbe la presunzione di diventare signore di Siena. Dante si stupisce che Provenzano, pentitosi in punto di morte, non sia nell'Antipurgatorio, e Oderisi spiega che l'ingresso in Purgatorio l'ottenne per un atto d'umiltà compiuto quando era famosissimo chiedendo l'elemosina per il riscatto di un amico, prigioniero di Carlo d'Angiò. LA STRUTTURA DEL CANTO Lungo il primo girone avanzano faticosamente i superbi che pregano per sé e per i vivi. Il poeta commenta il dovere degli uomini di pregare per i defunti cui segue un raccordo narrativo, prima della presentazione di un superbo feudatario, Omberto Aldobrandeschi, e di un'ampia meditazione sulla vanità della gloria mondana pronunciata dal miniatore Oderisi da Gubbio: quest'ultima è la parte più importante del canto anche per i rimandi autobiografici, che diventano espliciti nell'episodio finale in cui Provenzano Salvani uomo potente in vita, è costretto ad elemosinare. Dante racchiude in questo girone diverse specie di superbia: - “Quella generata dall'orgoglio per l'antico sangue" -> Omberto - Quella alimentata dalla fama artistica e letteraria -> Oderisi - Quella che nasce dal potere politico -> Salvani LA PREGHIERA DEL PATER NOSTER Il Pater noster dei superbi traduce in parte letteralmente e in parte parafrasandola l'intera orazione insegnata da Gesù e riportata dal Vangelo di Luca e Matteo. Tuttavia, a ciascuno di essi Dante aggiunge qualcosa. Dante non pensò affatto di gareggiare col Vangelo ma voleva piuttosto attuare un esperimento d'arte, come già altrove, dando un saggio di quella specie di genere letterario fra dottrinale e retorico di moda nel Duecento, consistente appunto nella parafrasi di testi sacri e da cui nasce il dramma medievale. Dante sperimenta un esercizio poetico tanto più difficile in quanto eseguito su un testo incomparabile e a tutti noto. Chi recita una preghiera la "farcisce" con le sue meditazioni, la riempie dei suoi problemi, la volge ai propri bisogni. Così, il Pater noster di questo canto è la preghiera che rivolge a Dio, in una determinata situazione del poema, una determinata categoria di peccatori, quella dei superbi; è la preghiera che gli rivolge Dante in quanto superbo e ben consapevole di questo suo peccato. I PERSONAGGI DEL CANTO: OMBERTO, ODERISI E PROVENZANO Omberto Aldobrandeschi è un esempio di grande superbia, già punita in Terra, in lui e tutti i suoi. Molti commentatori pensano che della sua superbia resti traccia nel suo discorso, in particolare, nella qualifica di "grande" data da Omberto a suo padre, nella solennità con cui ne declina il nome e nella menzione dell'antico sangue" e delle "opere leggiadre" dei suoi avi. In realtà per Dante l'amore familiare è giusto e nobile se basato su autentiche virtù cavalleresche: in effetti Omberto s'inorgoglisce di tratti tipici della vita del cavaliere, lontano dalla viltà e da vizi, generosa e mansueta, composta e gioiosa dal consapevole esercizio delle virtù morali. Questo accenno di Omberto è un altro dei lamenti danteschi sulla decadenza contemporanea. Il vanto familiare di Omberto non ha in sé nulla di riprovevole. L'incontro con Oderisi da Gubbio occupa la parte più significativa del canto. A Dante che lo riconosce e menziona la sua gloria artistica, il celebre minatore risponde che essa è già finita, passata a un altro. Oderisi si sofferma così sulla vanità della fama e trae esempio dalla politica, quello di Provenzano Salvani. La conclusione è 'esplicita confessione di Dante, fatta attraverso le parole di Oderisi, di essersi liberato dalla superbia che gli veniva dalla sua gloria di poeta. Il sottofondo autobiografico nell'episodio è importante. Oderisi è un amico di Dante: un moto d'affetto li spinge uno verso l'altro. Con tutti questi amici Dante riprende vecchie abitudini per allontanarle da sé: in questo caso, allontana la superbia per l'eccellenza artistica. Ai vv. 103-108, si sottolinea come la gloria umana sia legata al tempo, misurato dagli uomini. Uno che muore vecchio sembra che abbia vissuto molto di più di un bimbo morto quando ancora balbettava le prime parole; eppure le vite di entrambi sono irrisoriamente brevi rispetto a un millennio. Così è per la fama: duri qualche anno o qualche secolo, è sempre breve. La fama, questa è la conclusione, è un niente, non solo rispetto a mille anni e all'eternità, ma anche nell'ambito della vita di un uomo: bastano pochi anni per distruggerla. E Dante non fa qui questione di valore personale, ma solo di fluttuare di gusti o di vicende politiche. Oderisi, come Dante, aveva già in vita saputo domare la propria superbia; anche Provenzano, di cui lo stesso Oderisi ci racconta la storia, riuscì almeno una volta a domarla, in circostanze clamorose, e ne ebbe da Dio singolare ricompensa: morì in battaglia, Poiché a Dante sembra di far oltraggio a quelle anime dato che le vede senza essere visto, si volge a Virgilio domandandogli consiglio. Questi, prima ancora che Dante apra bocca, gli risponde invitandolo a parlare e Dante chiede alle anime se ce n'è qualcuna italiana. Una risponde che sono tutte cittadine di una sola e vera città (la Gerusalemme celeste), ma hanno capito che Dante vuole domandare se qualcuna sia vissuta in Italia quando era sulla Terra. Dante vede un'anima che, con il mento levato come un cieco, atteggia il volto come se attendesse qualcosa. Si rivolge a lei, chiedendole chi sia. Risponde di esser stata la senese Sapia ("saggia") benché saggia non lo sia stata perché rosa dall'invidia al punto di aver desiderato la sconfitta dei suoi a Colle Val d'Elsa. Dichiara di non aver atteso nell'Antipurgatorio, pur essendosi pentita all'ultimo istante, grazie alle preghiere di un sant'uomo senese, Pier Pettinaio. Detto ciò, chiede a Dante chi sia, avendo comprese che non è un penitente. Dante risponde a Sapia di essere un peccatore e che un giorno dovrà espiare il suo peccato in quella cornice, ma forse per breve tempo. Teme molto di più la penitenza che dovrà scontare nella prima cornice,per la sua superbia, al punto che quasi gli pare di sentire sulle spalle il peso del macigno. Stupita, Sapia chiede chi l'ha condotto fin lì, e Dante dichiara di essere vivo e anche disposto a giovarle tornando sulla Terra. Stupita nell'udire che Dante è vivo, Sapia lo prega di "rinfamarla" presso i suoi, che egli potrà trovare tra quei "vani" senesi, che si perdono in assurde illusioni. LA MATERIA DEL CANTO Siamo nel girone degli invidiosi, la cui trattazione continuerà nei canti XIV e XV. Questo canto rappresenta un caso raro nella Commedia perché, salvo momenti isolati, appare caratterizzato da una scarsa concentrazione: Ai wv. 61-66 gli invidiosi sono paragonati a mendicanti ciechi seduti sulle soglie delle chiese: la perifrasi per designare la loro povertà ("a cui la roba falla") suona fiacca. Dopo aver detto che stanno lì nei giorni di grande affluenza, non sarebbe indispensabile aggiungere che lo fanno per "chieder lor bisogna", e che per chiedere l'elemosina cercano di suscitare pietà sia con i lamenti che con l'aspetto miserabile. Subito dopo, al v. 68, si dice che il sole non giunge "a l'ombre quivi" e sarebbe sufficiente; invece è apposto un superfluo "ond'io parlo ora" All'inizio del canto, non essendoci anime cui chiedere come salire, Virgilio, memore dell'insegnamento di Catone, si volge a procedere in direzione del sole rivolgendo all'astro un'ampia apostrofe la cui magnificenza oratoria mal di adatta alla tenue occasione narrativa e al generale tono dimesso del discorso. Caso analogo presentano i versi 82-93. Dante si sente a disagio tra le anime accecate poiché vede senza esser visto e chiese al maestro il permesso di rivolgersi ai penitenti per svelare la propria presenza. Virgilio gli raccomanda di essere "breve e arguto", ma il discepolo disubbidisce: la sua captatio benevolentiae, infatti, dura due terzine zeppe di preziosismi pesanti e inconsueti Altrettanto immotivatamente solenne è la domanda alle anime se fra esse ci siano degli italiani. Accanto a questi momenti insolitamente deboli, ne troviamo altri energici e incisivi: - Il livido paesaggio della cornice, con la sua aspra solitudine - La miseria e la mutua carità dei penitenti - Il ritratto del cieco che, aspettando, solleva il capo - Le rappresentazioni delle voci e delle palpebre cucite col fil di ferro, dove la descrizione è quasi "crudele" - La rappresentazione delle lagrime che premono I'"orribile costura", tanto il rimorso è forte, e riescono ad attraversarla, bagnando le gote LE ANIME DEL CANTO: GLI INVIDIOSI Gli invidiosi accecati si sorreggono a vicenda, e insieme si addossano alla parete. L'invidia è il contrario della carità: solo chi usa carità coi suoi simili, aiutandoli, può sperare di essere aiutato dall'amore di Dio. Tra qualche canto il poeta definirà l'invidia: l'invidioso è colui che ama il male altrui. L'invidia trae origine dall'amore per i beni mondani che l'invidioso non vuole dividere con altri; l'invidia consiste quindi nel ritenere il bene altrui una menomazione del proprio. Il primo degli spiriti invidiosi che s'incontrano, la senese Sapia, dice di essere stata assai più lieta dei danni altrui che delle proprie fortune (‡ superbi). UN PERSONAGGIO POCO RIUSCITO: SAPIA SENESE La lunghezza dei due discorsi di Sapia, con parecchie battute non essenziali, va ascritta al generale tono discorsivo del canto. L'intero episodio è poco incisivo perché Sapia è una figura non centrata, troppo eterogenea. Canto XIV Dove: seconda cornice Anime espianti: gli invidiosi Personaggi: Dante, Virgilio, Guido del Duca e Ranieri da Calboli RIASSUNTO Due spiriti, che hanno udito il colloquio tra Dante e Sapia, si domandano, stupiti, chi possa essere quel vivo, che si aggira per la loro cornice. Uno si rivolge direttamente al poeta chiedendogli chi sia e da dove venga. Dante risponde di venire dalla valle di un fiume indicato con una perifrasi, e di non voler dire il proprio nome, perché ancora poco noto. L'anima risponde di aver capito che si riferiva all'Arno. L'altra anima (Ranieri da Calboli) si volge stupita a Guido, chiedendogli come mai il loro interlocutore abbia taciuto il nome dell'Arno, come fosse una cosa ripugnante a pronunciarsi. Guido allora risponde di ignorarne il perché, ma aggiunge che è giusto tacerne il nome per l'indegnità di coloro che vi abitano. Poi enumera i vari abitanti della valle dell'Arno, indicandoli come animali, poiché hanno smarrito il senso della virtù: porci i casentinesi, botoli ringhiosi gli aretini, lupi i fiorentini, volpi i pisani. Guido continua profetizzando le stragi che tra quei lupi (i fiorentini) farà il nipote del suo compagno, Fulcieri; a quelle parole Ranieri da Calboli si turba. Le parole dell'uno e il volto rattristato dell'altro fanno sorgere in Dante il desiderio di sapere chi siano quelle due anime. A parlare è stato il romagnolo Guido del Duca, che dichiara di esser stato un grande invidioso e di pagare qui il fio del suo peccato. Guido indica poi nel compagno di espiazione Ranieri da Calboli, del cui valore nessuno della sua famiglia si è fatto erede. E purtroppo, aggiunge, così è avvenuto in tutta la Romagna, dove le virtù civili e cavalleresche sono del tutto scomparse. Guido seguita a enumerare i grandi uomini della Romagna e le famiglie in cui albergavano le migliori doti cavalleresche; alla fine, commosso e desideroso più di piangere che di parlare, congeda Dante. Virgilio e Dante riprendono il cammino in silenzio. Appena oltrepassato il gruppo degli invidiosi, improvvise voci aeree passano gridando esempi di invidia punita. Il primo è quello di Caino, il secondo quello di Aglauro. Dante, quasi spaventato, si accosta al maestro. Terminato il passaggio delle voci aeree e tornata silenziosa l'aria, Virgilio spiega che quelle voci sono freno, che dovrebbe tenere l'uomo entro i limiti che gli sono assegnati, e invitarlo e non volgere l'occhio ai beni mondani. Anche il Cielo, con le sue eterne bellezze, dovrebbe attirare a sé lo sguardo dell'uomo, ma questi ostinatamente guarda verso terra: perciò Dio lo punisce. IL TONO DEL CANTO Il canto XIV È il secondo canto dedicato agli invidiosi, e infatti fa seguire alle ultime parole di Sapia un dialogo del poeta con altri due invidiosi, Guido del Duca e Ranieri Calboli. Dal v. 16 comincia una risposta di Dante ai due penitenti in cui il corso dell'Arno e il suo bacino sono designati con una grande perifrasi geografico-scientifica, indubbio segno dell'importanza dell'invettiva che seguirà. Seguendo il corso del fiume che "si spazia" nel mezzo della Toscana Dante compie la rassegna dei popoli toscani: porci i casentinesi, botoli ringhiosi gli aretini, lupi i fiorentini, volpi i pisani; una progressione nella quale è stata vista la progressione di colpevolezza su cui è costruito l'Inferno o anche le tre fiere del primo canto. Queste rispondenze si possono ammettere o no, tuttavia c'è l'eco del linguaggio e della fantasia infernale. IL TEMA DEL CANTO: IL RIMPIANTO PER LE VIRTÙ CAVALLERESCHE Un tono diverso ha la rievocazione dell'antica Romagna. Sappiamo che uno dei motivi più importanti della Commedia è il rimpianto del buon tempo antico che, in termini politico- sociali, si traduce nel rimpianto per la società feudale-cavalleresca rispetto alla società contemporanea comunale-mercantilei cui attori principali sono indegni dei loro predecessori. In questo canto XIV Dante ricorre a un lungo elenco dei nomi propri e di famiglie (guelfe e ghibelline secondo la tecnica dell'enumeratio. Il poeta non si concentra su nessuno di questi personaggi; i nomi si affollano sotto la penna e ciascuno vale per sé, ma proprio in quanto elemento di una folla. Il tema qui non è il singolo, bensì una civiltà intera il cui pregio stava nella sua diffusione. Il tempo antico 'identifica con la cavalleria. Nella Romagna attuale, dice Guido, mancano le virtù intese "al vero e al trastullo", cioè il culto delle belle imprese intellettuali e civili congiunto all'esigenza di una vita ornata, cioè il "valore" unito alla "cortesia": è proprio della cavalleria ricercare e affrontare le fatiche e, insieme, dilettarsi di cultura e poesia, circondarsi di cose belle e di uomini valenti. Tutto ruota intorno a un'idea basilare: per essere davvero nobili occorrono le opere che ciascuno compie e non basta lo splendore dei propri avi. La cavalleria qui è sentita come "cortesia" dote comune di tutti i personaggi della rassegna; è liberalità e magnificenza, generosità. In particolare quella che, per essere davvero tale, non aspetta la richiesta ma viene incontro ai bisogni degli altri evitandone 'umiliazione; una generosità dunque fatta di intelligenza e di ratinato costume. La liberalità è l'aspetto del passato che Dante, esule bisognoso, più rimpiange. La decadenza investe tutte le parti d'Italia nelle quali egli quando scriveva la Commedia andò peregrino, quasi mendicando. Ciò tuttavia non deve indurre a ritenere lo sdegno di Dante nato da risentimenti privati, bensì da convincimenti politici e da profonde convinzioni morali- religiose, anche se l'esperienza del vivere quotidiano ha il suo peso. Perché il poeta fa pronunciare proprio a Guido la rampogna alla Toscana e poi questo alto elogio della cavalleria-cortesia della vecchia Romagna? Dalle antiche testimonianze non risulta che Guido fosse un personaggio particolarmente illustre, ma Dante vuole celebrare uno stile di vita, non singoli uomini o singole imprese: quindi le doti cavalleresche non sono
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