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Appunti Storia del teatro, prof. Testaverde, Appunti di Storia del Teatro e dello Spettacolo

Appunti presi a lezione sulla storia del teatro e sulla storia del costume teatrale dal teatro greco al teatro del 1700. Accenni sul teatro greco, latino e medioevale e approfondimenti a partire dal teatro del 1500 fino alla riforma teatrale di Carlo Goldoni del 1700.

Tipologia: Appunti

2019/2020

In vendita dal 11/07/2020

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Scarica Appunti Storia del teatro, prof. Testaverde e più Appunti in PDF di Storia del Teatro e dello Spettacolo solo su Docsity! 1 IL COSTUME TEATRALE IN GRECIA Per quanto riguarda l’edificio teatrale antico, noi non possiamo che lavorare sui reperti archeologici. Per quanto riguarda la drammaturgia, invece, abbiamo la fortuna di avere i testi dei tre grandi tragediografi, ma anche dei commediografi più significativi, che sono stati tramandati con la coscienza di lasciare alla memoria storica le testimonianza di un’epoca gloriosa, dove parte la nostra civiltà teatrale occidentale, il V secolo a.C. Questa tipologia di fonti si accompagna inoltre ad una serie di altre fonti, che possono essere ricavate ad esempio da vasi, sculture e bassorilievi, e che possono essere utilizzate come testimonianza e documentazione. Questo vale soprattutto per i costumi: essi, infatti, non sono rimasti, quindi le informazioni vanno cercate nei testi, qualora ci fossero (ma non ci sono), o nelle fonti iconografiche indirette che, se ben lette, ci forniscono le testimonianze di quelle nozioni che ci sono giunte. Le indicazioni sul costume teatrale, in particolare, ci arrivano da fonti posteriori, che noi dobbiamo fare nostre e leggere come didascalie di immagini e testimonianza iconografiche che noi traiamo dai manufatti archeologici. “L’abito fa il monaco”: questo detto sta ad indicare il fatto che nella cultura teatrale greca l’abito identifica il personaggio. Attraverso il costume scenico, infatti, ogni persona del pubblico era in grado di identificare il personaggio, poiché l’abito era coerente alla storia, alla vicenda e al personaggio che entrava in scena. ➔ Gli attori nel mondo greco indossavano degli indumenti che non possiamo considerare propriamente un costume di finzione, ma un costume connotante l’identità del personaggio: non era un costume di fantasia, ma corrispondeva esattamente all’identità (il vecchio, il giovane, il re, la cortigiana..). Il costume teatrale era quindi un mezzo di comunicazione anche nel mondo greco, in stretto rapporto con il corpo in movimento di chi lo indossava, e stava perfettamente a svolgere il ruolo di comunicare allo spettatore le funzioni e il carattere di chi entrava in scena. Esistono 3 diverse tipologie di costume: ● Costume metonimico: è il costume in cui basta un elemento per rinviare a dei significati, a dei rinvii concettuali (un cappello militare, ad esempio, per indicare la divisa militare). Questo avviene anche nel costume greco: spesso viene utilizzato un solo elemento che sta a simboleggiare il personaggio stesso. ● Costume metaforico: è il costume che viene messo in relazione con una certa situazione o con un’altra epoca. Questo vale per un costume teatrale successivo, non con quello greco. ● Costume anacronistico: è il costume che ha un significato universale assoluto, quindi da non identificare con il costume teatrale greco. QUALI SONO LE TESTIMONIANZE ARTISTICHE CHE POSSIAMO UTILIZZARE PER RICOSTRUIRE IL COSTUME GRECO? 2 Da tempi davvero primordiali, ad esempio dalla società micenea, una statuetta come quella della Sacerdotessa dei Serpenti rinvia ad un indumento e un costume che difficilmente si può immaginare indossato da una donna quotidianamente, ma che invece ha a che fare con un’azione performativa rituale, quindi indossato da una sacerdotessa con dei forti significati metonimici. È un costume che non corrisponde ad uno status sociale, ma rinvia ad esempio al mito, o a qualcosa che non è corrispondente all’uso dei costumi quotidiani. Diversamente, nell’indumento indossato dalle Cariatidi, che fa parte dell’ornamento dell’Eretteo sul Partenone di Atene, già si vede un indumento di quotidiano utilizzo: una tunica semplice dove la ricchezza viene data da un panneggio, da un modo di indossare la tunica che era tipico di certi indumenti femminili, ma anche maschili, del mondo greco. La tunica e l’arte del drappeggio La tunica caratterizza sia gli indumenti quotidiani, ma anche quei costumi teatrali che, proprio perché connotanti tipologie sociali, l’attore greco indossa. Questo semplice ma ricco peplo di tessuto, in particolare di lana, andava indossato secondo delle precise modalità di indossarlo, ma anche di drappeggiarlo. La tunica era costruita sul corpo di chi la indossava, ed era l’indumento connotante sia l’uomo sia la donna, distinto a seconda delle tipologie con un vocabolario ben specifico. - Chitone = veste corta maschile - Imation = una sorta di mantello - Clamide = tipo di tunica drappeggiata A far parte del costume ci sono anche le barbe posticce, certi tipi di cappelli, e i sandali. QUALI SONO LE FONTI PRINCIPALI ATTRAVERSO LE QUALI STUDIARE? Una fonte fondamentale è un trattato, ovvero l’Onomasticon di Giulio Polluce scritto nel II secolo d.C. e che riferisce nei dettagli tutta una gamma tipologica di costumi di scena del mondo teatrale greco del V secolo. Pur essendo posteriore, questo trattato ci restituisce una testimonianza anteriore. Accompagnando questa fonte testuale con la visione dell’iconografia contenuta nella pittura vascolare, possiamo le informazioni sul costume. Anche nel teatro c’era una sorta di costumista, una persona che si interessava di far indossare coerentemente all’attore quegli indumenti specifici che lo individuavano nel suo ruolo maschile o femminile, accompagnandosi anche all’uso della maschera, che nel mondo greco diventa un elemento molto caratterizzante. ➔ La maschera serviva sia per identificare i personaggi in scena, ma soprattutto era una sorta di vero e proprio megafono per amplificare la voce dell’attore. Il costume teatrale greco si distingue attraverso 3 tipologie pienamente corrispondenti alle 3 tipologie drammaturgiche del teatro greco: 5 Anche gli attori del coro indossavano dei costumi di scena: essi indossavano tutti lo stesso costume, e accompagnavano con movimenti e danze. Ci sono alcuni vasi che sono fondamentali per la testimonianza del coro e che rafigurano ad esempio un gruppo di tre uomini, dei cavalieri, che cavalcano quelli che sembrano dei cavalli. Il flautista alla sinistra indica il fatto che si tratta di un coro tragico che è immortalato con i propri costumi di scena, accompagnato dall’unico personaggio che non porta i loro costumi. Nei cavalli si vede il viso degli attori, sotto la testa del cavallo: l’attore, dentro il costume di scena del cavallo, era un performer che si univa ai cavalieri e portava costumi connotanti. Esistono poi altre testimonianze, come quella del coro degli uccelli. LA COMMEDIA Anche la commedia presentava una propria struttura: - prologo: spiega la situazione iniziale - parabasis: ode corale - komos: scena finale con riconciliazione dei personaggi Essa prevedeva un numero maggiore di attori, che andavano da 4 a 5, come maggiore era anche la composizione del coro, composto da 24 membri. Del costume della commedia antica ci informa il più grande scrittore di commedie del mondo greco, cioè Aristofane, che ad esempio nella Lisistrata parla dei personaggi virili che usavano, oltre all’himation, anche il tribonion, un mantello corto di stoffa molto rozza. Sempre nella Lisistrata parla di un abbigliamento femminile, che consisteva in un chitone, probabilmente giallo, stretto da una cintura in vita e da un mantello, l’himation, con bordo purpureo: così si traveste da donna Nisorato, personaggio di una commedia di Aristofane. Per la prima volta uno scrittore fornisce delle indicazione indirette sul costume di scena; noi quindi possiamo identificare anche per la commedia alcuni indumenti - tunica corta (o esomide) - mantello corto (clamide) - mantello lungo (himation) - elemento comico tipico della commedia che la differenzia dalla commedia: il posternidion nella commedia nuova, un’imbottitura che esaltava il posteriore dell’attore - poiché gli indumenti erano per lo più corti, importanti erano gli stivaletti: non più delle calzature che dava imponenza all’attore, ma delle scarpe più agili, che si adattavano meglio alla tunica corta. Poiché la commedia parlava di personaggi della vita quotidiana, e non di re e regine tipici della tragedia, l’abito indossato dagli attori si avvicina molto di più a quello della vita quotidiana, anche se ridicolizzati da certi elementi. Anche le maschere svolgono un ruolo fondamentale, ma avevano un’espressione assolutamente differente rispetto a quelle della 6 tragedia: erano varie e esageravano o accentuavano certe caratteristiche umane in maniera comica, ad esempio la calvizia, l’espressione della fronte e della bocca. La bocca spalancata della maschera comica non è quella spaventata e addolorata della tragedia, ma è piuttosto un ghigno, atteggiata allo scherno, alla risata. Tutti questi elementi si ritrovano in quei reperti archeologici che ci forniscono dei riferimenti al mondo scenico, ma ad un mondo che non è quello della tragedia: vengono rappresentati dei personaggi comici, con delle maschere. Gli attori spesso ostentavano anche dei falli di cuoio: sotto le tuniche cortissime si vedevano i genitali, che venivano accentuati nella forma e nelle dimensioni. Questo elemento accresceva il ridicolo e il divertimento, molto adatto alla rappresentazione comica. IL DRAMMA SATIRESCO Il dramma satiresco derivava dal nome dei membri del coro, i satiri, ed era la terza tipologia drammaturgica della cultura teatrale greca, con tematiche sempre connesse alla tragedia ma trattate in senso o mitologico o comico: era una drammaturgia che serviva a stemperare la tragicità delle tragedie rappresentate, riproponendo magari gli stessi temi e personaggi, presentati in maniera più leggera e comica. Quindi la gestualità dell’attore, il linguaggio e il costume dovevano essere coerenti: era una sorta di contaminazione tra la drammaturgia tragica, di cui recuperava i personaggi e le trame, e la drammaturgia comica, recuperando dei costumi che accentuavano la comicità e raggiungevano l’obiettivo di far smaltire al pubblico la gravità della rappresentazione. L’abito allora era chiamato nebride o issale, ed era composto da una maschera diversa da quella della tragedia e della commedia, soprattutto per la parte inferiore del volto, con un’accentuazione della bocca larga. Gli attori vestivano un chitone, una tunica molto corta, con una calzamaglia attillata color carne che simulavano la realtà del corpo dell’attore; portavano dei perizomi o dei falli di pelle, che accompagnavano l’indumento scenico, e accentuavano il carattere drammaturgico. Ci sono molte scene di dramma satiresco con queste caratteristiche. STORIA DEL COSTUME ROMANO Gli spettacoli romani Per affrontare la storia del costume romano è necessario soffermarsi sulla diversa e articolata tipologia di attori nella cultura spettacolare romana rispetto a quella presente nella cultura teatrale greca. ➔ Lo spettacolo romano non si limitava esclusivamente al tipo rappresentativo del testo e al teatro legato esclusivamente alla recitazione, ma la spettacolarità romana fu il frutto di un interesse di massa legato più a obiettivi di visione e divertimento che si compartecipazione emotiva e politica, che era l’essenza del teatro greco. Lo spettacolo romano, proprio perché visto come una sorta di potenziale pericolo per la società romana, non affonda le sue radici in un rito religioso legato al culto di qualche 7 divinità, ma si basa sulla performance di attori, interpreti, performer che facevano un’esibizione legata alle abilità personali e alla corporeità più che alla recitazione vera e propria. La spettacolarità romana era quella dei giochi circensi, dei gladiatori, delle corse con le bighe o delle battaglie navali: tutto era legato alla pompa e al trionfo della potenza romana, era una celebrazione della propria potenza, non uno spettacolo legato a un autore. L’organizzazione degli spettacoli Esistevano anche delle differenze strutturali degli edifici romani e greci: nel mondo romano esisteva una gamma di edifici per gli spettacoli molto più ampia, che comprendeva le arene, gli ippodromi, l’odeon. In coerenza con la varietà degli spettacoli, lo spettacolo romano vede anche varietà di strutture architettoniche adibite per i corrispettivi spettacoli. Esso era un fenomeno molto forte, con un numero straordinario di periodi nell’arco dell’anno dedicati a feste non solo di tipo religioso ma anche di celebrazione personale: aveva perciò un’articolazione molto ampia nell’arco dell’anno. Questo presuppone una funzione di distrazione e divertimento per il grande pubblico maggiore rispetto a quello greco, che era limitato solo ad alcuni periodi dell’anno: la spettacolarità romana è diffusa, abbracciava un largo spazio di tempo e quindi coinvolgeva grande pubblico. Sull’organizzazione del teatro romano abbiamo alcune spiegazioni: esistevano delle vere e proprie compagnie, chiamate “greges”, che erano capeggiate da un attore, da una guida chiamata “dominus gregis”, che era il capocomico e il primo attore (“egregio” = “ex gregis” = colui che esce dal gregge, che si fa notare e primeggia). Gli attori erano per lo più gli schiavi e non i cittadini romani: l’attore romano, infatti, proprio per gli obiettivi che si proponeva, come la spettacolarità, era considerato in maniera negativa, ed era privato anche dei diritti civili e politici del cittadino romano. Proprio nel mondo romano si matura però al tempo stesso il fenomeno del divismo (si pensi ad esempio a Roscio, il più famoso attore romano, rimasto nella storia per la gloria e la fama che ha acquisito). L’attore romano L’attore latino, a seconda della tipologia di spettacolo di cui si occupava, acquisiva una denominazione distintiva, con differenti funzioni: - Cantor = colui che principalmente cantava - Actor = da “ago, agis” = “agire”, era l’attore vero e proprio, che faceva uso della parola e che recitava - Istrio = termine di derivazione etrusca, era colui che agiva sulla scena e si dedicava a degli spettacoli più fisici e corporei, e che prevarrà sugli altri L’actor era considerato un interprete di maggior livello, mentre l'istrione era accomunato invece ad un personaggio di minore importanza, svolgeva parti comiche e grottesche e si dedicava soprattutto alla satira. La parola “istrione” rimane a lungo nel mondo teatrale, tanto che nel Rinascimento con il termine “istrione” si indica quel comico dell’arte che veniva condannato, poiché era considerato l’attore di minor moralità. 10 sotto l’ascella destra, veniva appoggiata sulla spalla destra e, dopo essere passata dietro le spalle, veniva trattenuta dal braccio sinistro. Questa tecnica richiedeva una certa conoscenza e distingueva nel modo del drappeggio anche la posizione sociale occupata: se la toga era piegata simmetricamente in ordine per evidenziare le bande purpuree designava il magistrato, se era legata in vita assumeva un carattere militare, se stretta indicava i cittadini di un certo livello, se con il lembo portato sulla testa era invece un indumento sacrale, e quindi distingueva i sacerdoti. ➔ Ogni cittadino ambiva ad indossare una toga ben drappeggiata ed occorreva un personaggio che aiutasse il cittadino ad indossarla: questo personaggio era uno schiavo detto “vestiplicus”. L’abito femminile La tunica e la toga appartenevano all’abbigliamento maschile. L’abito femminile consisteva sempre in una tunica, che si differenziava a seconda delle occasioni: per la cerimonia nuziale, ad esempio, la donna indossava una tunica con velo e delle scarpe gialle, mentre le matrone romane indossavano sopra la tunica la palla, cioè un mantello di forma rettangolare. La stola, invece, era una sorta di mantello, poteva essere corto o lungo fino ai piedi, e stava ad indicare la castità e la fedeltà matrimoniale; veniva di solito legata in vita e drappeggiata in maniera piuttosto complessa. Il corrispondente maschile della palla era il pallium. Le calzature Le calzature erano molto importanti anche come tratto distintivo per l’attore in scena. Si va dai sandali fatti di strisce di cuoio a sandali più specifici, ad esempio la caliga adatta per i militari. L’importanza degli accessori Oltre alla tunica e alla toga si faceva uso anche di cappelli, di diversetipologie: - il pileus era il cappello a forma conica - il cucullus era portato da certi tipi di attori Si portavano poi anche delle parrucche, esistevano gli onkos, con capelli posticci, che diventano un accessorio fondamentale della tragedia, mentre non era utilizzata per la commedia. Gli abiti e i vari generi drammaturgici Le varie tipologie drammaturgiche prendono il nome dagli abiti che i personaggi indossavano e che le caratterizzavano. Con il termine “fabula” si intendeva genericamente sia la tragedia sia la commedia, e ne esistevano di 4 tipi: ● Fabula cothurnata: era una tragedia di argomento greco in cui gli attori indossavano le tipiche calzature elleniche alte, cioè i coturni. ● Fabula praetexta: era una tragedia di ambito romano (introdotta da Nevio) che prendeva il nome dalla fascia di porpora che ornava la tunica bianca dei magistrati romani. 11 ● Fabula palliata: era una commedia di ambito greco che faceva riferimento al pallium, il mantello forse di origine greca. ● Fabula togata: era una commedia di ambito romano che prendeva il nome dall’indumento romano per eccellenza, cioè la toga. In sintesi: - abito per la tragedia: era connotato da alti coturni, era un abito adatto a personaggi reali e importanti. Gli attori indossavano una maschera con “onkos” e accessori come la corona. - abito per la commedia: era caratterizzato dall’utilizzo di maschere con una bocca deformata ma priva di “onkos”. Gli attori indossavano costumi vivaci e variegati, con una scarpa bassa (socco) e vari accessori. - abito per l’Atellana (una farsa di gusto tipicamente italico): gli attori dovevano vestire come i contadini e i popolari, con una tunica succinta e brache aderenti lunghe poco oltre il polpaccio. Queste brache non erano un indumento di tipo comune, ma erano di origine orientale ed erano utilizzate da questi comici. Completavano l’abbigliamento un cappuccio, il cucullus (un copricapo a punta tipico dei viandanti), e una maschera grottesca. Alle Atellane risalgono le prime maschere e le prime connotazioni dei tipi: esse erano legate a un personaggio, sul genere di quelle della commedia dell’arte. Si trattava di personaggi tratti dalle popolazioni latine, ciascuno con un proprio nome, ed erano i personaggi tipici della comicità (quelli che usa Plauto): il maccus (il contadino astuto), il pappus (il buon vecchio), il buccus (un ghiottone dalla bocca molto larga) e il dossenus (un gobbo astuto e malizioso). Erano tipi con tratti marcati e lineamenti volgari per accentuare la comicità. I colori delle vesti Le toghe della tragedia erano per lo più bianche, mentre nella commedia i colori diventano vistosi e ben differenziati, in modo da far comprendere il personaggio che entrava in scena. - color porpora: per i personaggi importanti - colore giallo: colore delle eteree - colori scuri: adatti a chi rappresentava schiavi e popolani - colore bianco: per gli esiliati (come nel mondo greco) - colore nero: indice di lutto L’abito del mimo L’abito del mimo era adatto alla tipologia di spettacolo: il mimo giocava più sulla volgarità che sulla parola, quindi non portava la maschera e indossava un indumento più agile (“archimimus”), una tunica corta che lasciava intravedere l’elemento comico accentuato anche nel costume greco, cioè il fallo costruito con imbottiture o cuoio. L’abito del secondo mimo (“centunculus”, una sorta di buffone), invece, era una tunica corta variopinta. A differenza di altre tipologie di attori, il mimo in scena o indossava delle scarpe leggere, o addirittura recitava a piedi nudi: in questo modo era più agile nei movimenti e nelle danze. 12 IL COSTUME MEDIEVALE Per la prima volta nella storia del costume, il giullare diventa il prototipo dell’attore che assume un indumento fortemente connotante: il suo abito non è più legato alla moda e agli stili degli indumenti quotidiani, ma è un vero e proprio costume scenico, con elementi e accessori fortemente identificatori. Tutti questi elementi si conoscono soprattutto tramite l’iconografia. IL CONTESTO STORICO L’Alto Medioevo è un periodo compreso tra il VI secolo d.C. e il XII-XIII secolo. Con la caduta dell’Impero romano, la capitale da Roma si era spostata a Bisanzio e a questo evento seguì poi un travagliato e intenso periodo di invasioni barbariche, cioè di popolazioni che nell’Impero romano d’Occidente si mescolano con le popolazioni latine; le influenze di queste popolazioni si uniscono alle abitudini di vita e di abbigliamento della cultura latina. Iniziano periodi di regressione economica, di economia per lo più agricola e cambi di vita notevoli, in quanto non esiste più un unico centro di governo. Fu quindi un periodo di grande disorganizzazione. La “spettacolarità diffusa” nel Medioevo Per quanto riguarda gli spettacoli, gli attori si trovarono in una condizione di grande disagio economico e sociale, e si unirono a quei grandi gruppi di viaggiatori e pellegrini che per trovare sostentamento viaggiavano per tutte le strade dell’ex Impero Romano d'Occidente. ➔ Questo tipo di vita costringe ad una ricerca costante di elementi di sopravvivenza, che nel mondo dello spettacolo significano anche un cambiamento delle regole del gioco di una tradizione nata in Grecia, affermatasi nel mondo latino, e che, pur puntando ad una spettacolarità molto elaborata e legata all’esibizione corporea, vedrà, in questa forma di spettacolarità tanto condannata dalla chiesa, i suoi eredi per tutto il Medioevo. Il Medioevo avrà varie tipologie di spettacolarità, quella che Luigi Allegri chiama “spettacolarità diffusa”, ovvero variegata, che si lega all’abilità fisica del performer, alle sue capacità (canto, danza, contorsionismo..) e anche al recupero della recitazione, ma in ambito diverso e non laico: il teatro legato alla recitazione, infatti, avrà luogo proprio nel contesto religioso che tanto ha condannato il mondo del teatro, cioè il mondo ecclesiastico. ➔ Ad un certo punto ci si rende conto che il sistema del teatro aveva una valenza di comunicazione e di attrazione fortemente accattivante, tanto da poter essere utilizzata per raccontare e far vedere: era quindi uno dei sistemi migliori per insegnare, educare, e quindi anche convincere. In questo ambito allora si maturano nuove forme di recitazione, di teatro e di nuovi costumi scenici adeguati. L’ABBIGLIAMENTO DELL’UOMO MEDIEVALE Nell’Alto Medioevo la maggior parte delle persone vestiva con semplicità: gli abiti servivano a ripararsi dal freddo e dovevano essere comodi. Mosaici, miniature e sculture 15 Alla fine del Medioevo, la tecnica tintoria utilizzava soprattutto 5 colori di base: azzurro (“biavo”), rosso, giallo, fulvo e nero, che, combinati tra loro, davano origine ad altre tinte. ● L’azzurro si otteneva attraverso una complessa lavorazione di una pianta piuttosto diffusa, tanto che l’azzurro diventa un colore dominante nel vestiario, anche ad esempio per la biancheria da letto; da un punto di vista simbolico, indicava il cielo promesso. ● Altro colore molto amato era il verde, che si otteneva con una base di azzurro e con un’applicazione del giallo, grazie all’uso ad esempio della liquirizia o del rame, altro colore molto diffuso nel Medioevo. Il verde era il colore simbolico della gioventù e delle feste legate alla celebrazione dell’inizio della primavera. Il vestito della sposa era blu o rosso; i medici vestivano di rosso, e poi di nero; il colore sarà importante perché sarà proprio esso a identificare ogni professione e condizione sociale, per distinguere i cavalieri, i giudici, i notai, i medici, e poi i meno privilegiati. ➔ Sono quindi colori che dal XIII secolo, quando la tecnica tintoria fu in grado di produrre colori molto più efficaci e destinati a fissarsi sul tessuto, procurarono una gamma tale di colore che servivano a classificare gli indumenti e identificare le varie classi sociali, o i momenti di particolari cerimonie. Il blu intenso e brillante era il colore delle vesti principesche, ma anche quello del manto della Madonna e degli abiti da cerimonia. La triade rosso, nero e bianco visti fino ad ora si arricchisce del blu e di tutti i suoi derivati. Questo valeva anche per le calze, che potevano essere di vari colori: chi le portava, spesso portava anche ricamato uno stemma araldico. Il vistoso accostamento di colori contrastanti rimase a lungo di moda, almeno fino alla fine del XV secolo, ed è un elemento fortemente connotante gli indumenti. Il pluricromismo diventa un elemento caratterizzante gli indumenti del Medioevo, che stavano acquistando caratteristiche specifiche, soggette ad un cambio di struttura e costruzione. ● Il colore giallo diventa un elemento connotante la tipologia della meretrice: la benda gialla si abbinava ad un panno bianco indossato con un sonaglio. Il sonaglio attaccato al cappuccio venne imposto alle meretrici nel 1384 come elemento di richiamo, ma anche per avvertire della presenza e allontanare; inoltre, si imponeva ad esse l’uso del guanto e del velo in testa. La prostituta, quindi, indossava un sonaglio che pendeva dalla clamide sovrapposta ad altri panni, e il capo era velato di colore giallo, indossato sopra una gonna di tela bianca lunga fino ai piedi; un segno delle meretrici era anche il vestito senza regola a loro concesso. Pur avendo questi elementi connotanti la loro condizione, avevano la possibilità di indossare abiti non rigorosamente legati alle normative suntuarie, concessione che aveva un duplice scopo: - renderle distinguibili - costringere tutte le altre donne a rispettare le indicazioni di una normativa suntuaria, con pena il rischio di essere scambiate per meretrici 16 Quindi nessun limite era imposto a chi era ai margini della società: ad un certo punto, quindi, il diverso e quello non inquadrabile all’interno dei ranghi sociali, poteva indossare qualcosa di diverso che lo distingueva, o non indossarlo. GLI ATTORI MEDIEVALI Proprio nell’età tardo-romana il degrado dello spettacolo, che era condannato dalla Chiesa, era visto nell’uso del proprio corpo per fare spettacolo; la demonizzazione del teatro aveva portato al permanere di un tipo di spettacolarità legata a competizioni atletiche che saranno i discendenti degli attori del tardo impero. Sopravvivono questi tipo di professionalità attoriche che, però, diventeranno turbe girovaghe emarginate, attori che dovranno adattarsi a trovare il pubblico per la strada e per le piazze. Ai margini della società, senza una definizione sociale, ci saranno soprattutto queste tipologie di performer che affidano al proprio corpo e alle loro abilità (danzatori, giocolieri, cantanti, ammaestratori di animali, acrobati..) il proprio spettacolo. ➔ Questo è il modo in cui viene portata avanti la condizione del teatro del mondo antico. L’attore dell’Alto Medioevo era accomunato alla prostituta, perché nel guadagnare e sopravvivere con il proprio corpo era considerato una sorta di meretrice: anche lui vendeva se stesso per ricavare da vivere. Questi attori saranno i mimi, gli istrioni, i praestigiatores, i funamboli, i joculatores e joculares: persone che cercano pubblico mostrando se stessi, non recitando. L’attore medioevale è un professionista dell’esibizione di se stesso, e non della rappresentazione di un testo drammaturgico. Accanto al giullare c’è però anche un altro tipo di attore che viene recuperato o che si adatta all’introduzione di forme drammaturgiche vere e proprie utili al Cristianesimo: accanto all’attore del teatro laico ci sarà quindi l’attore del teatro religioso. IL GIULLARE e il suo costume Il giullare è un soggetto nomade e senza status sociale, stipendiato nel migliore delle ipotesi da una corte o da una città. Egli possiede un proprio nome d’arte che prende da certe sue deformazioni, da caratteristiche del suo carattere o da certe sue abilità. Con il tempo, questo giullare prende delle caratteristiche che via via porteranno ad altre categorie di performer: i giullari, a seconda della loro ubicazione, assumeranno delle distinzioni che si ripercuoteranno anche sul tipo di indumento indossato. L’abito del giullare sarà quindi un abito estroso, che non sta nelle norme, riconoscibile e stravagante, che esalta magari certe sue caratteristiche e deformità fisiche per far ridere il pubblico. Era un abito dove la varietà dei colori e la tipologia del tessuto saranno gli elementi specifici, ma anche le righe, le pezze, i tagli, che lo avvicinano al demoniaco per le tinte accese e la stravaganza. Il suo abito sarà anche rappresentato dalla nudità, che indica la sua povertà, ma sarà anche un modo per mostrare se stessi, per far ridere. LA FIGURA DEL GIULLARE 17 Il costume della drammaturgia religiosa deriva sicuramente dall’abbigliamento rituale sacerdotale, poiché gli autori dello spettacolo erano gli stessi uomini di chiesa. Con l’apparizione degli autori eredi della multiforme spettacolarità del tardo impero, che sono il patrimonio che ci è giunto dal mondo classico, tra il VI e il XIII-XIV secolo, l’abbigliamento cambia. ➔ Con essi si diffonde un intrattenimento di vario genere nelle città di tutta Europa, ma anche in quelle che diventeranno le corti dell’Umanesimo e del Rinascimento. Essi erano personaggi contrassegnati dall’essere girovaghi, non appartenevano ad alcuna classe sociale poiché reietti dalla chiesa ed erano considerati ai margini della società: per questi motivi viaggiavano per le varie città. Il loro essere girovaghi ha un riflesso non solo nell'attività performativa (che è esclusivamente legata alle capacità personali dell’individuo), ma anche nel loro indumento. ➢ Il loro è un indumento molto vario, e la tipologia e la colorazione di questo loro abbigliamento starà poi ad indicare la loro non collocazione sociale. Essi vestono panni che li identificano ma che non corrispondono a una tipologia esemplare tratta dagli indumenti quotidiani connotanti certe tipologie umana: la tipologia umana da loro rappresentata deve essere quella del diverso, di quello che non sta nei ranghi sociali e che quindi non veste i panni e gli indumenti che caratterizzano le categorie sociali. Luigi Allegri, storico del teatro medievale contemporaneo, riportando una citazione di uno storico dei primi del 1900, dà una definizione esemplare di chi era il giullare: “Il giullare è un essere multiplo, è un musico, un poeta, un attore, un saltimbanco, è una sorta di addetto ai piaceri alla corte del re e principi, è un vagabondo che vaga per le strade e dà spettacolo nei villaggi. È il suonatore di ghironda che a ogni tappa canta le canzoni di gesta alle persone, è il ciarlatano che diverte la folla agli incroci delle strade, è l’attore-autore degli spettacoli che si danno ai giorni di festa all’uscita della chiesa; è il conduttore delle danze che fa ballare la gioventù, è il cantimpanca, il suonatore di tromba che scandisce la marcia delle processioni, è l’affabulatore, il cantore che rallegra i festini, le nozze e le veglie. È il cavallerizzo che volteggia sui cavalli, l’acrobata che danza sulle mani, che fa giochi coi coltelli, che attraversa i cerchi di corsa, che mangia il fuoco, che fa il contorsionista, saltimbanco sbruffone e imitatore, il buffone che fa lo scemo e che dice scempiaggini. Il giullare è tutto ciò e altro ancora.” Il termine “giullare” deriva da “joculatores” e da “iocus” = gioco, ed indica tutti quegli artisti che tra la fine della tarda antichità e l’avvento dell’età moderna si guadagnava da vivere esibendosi davanti a un pubblico con spettacoli di vario genere. LE ACCUSE DELLA CHIESA AGLI SPETTACOLI GIULLARESCHI I giullari e tutti questi personaggi che facevano divertire il pubblico erano stati avversi dalla Chiesa stessa e dalla cultura colta con delle accuse ben precise, le accuse di essere: 20 rimandavano alla figura del diavolo: si riteneva che fosse il diavolo a travestirsi, in modo da attirare a sé le persone. Ciò che affascinava nel loro abbigliamento era la vistosità: essi davano spettacolo di loro stessi proprio attraverso i costumi, con mantelli e copricapi multicolore, tali da caratterizzare il loro aspetto, suscitando magari delle ilarità e della comicità. Era una diversità comica, come se il vestito dovesse mostrare il ridicolo, la comicità. Si utilizzavano quindi abiti a righe colorate, abiti bipartiti (chiamato bigarratus) nel senso della lunghezza: questo abito si diffuse tra i giullari, poi tra i buffoni di corte, mentre in tempi più antichi era vietato. Furono proprio i decreti e le norme suntuarie a proibire che i chierici poi indossassero abiti bipartiti, rigati o a scacchi, mentre le leggi suntuarie li imponevano a boia e prostitute. ➔ Queste tipologie di abiti, quindi, non dovevano essere elementi connotanti gli indumenti alla moda. I COLORI DEGLI INDUMENTI Nel tardo Medioevo si fa strada una nuova immagine del giullare, dove è l’uso dei colori tipici che li identifica: questi colori erano soprattutto il giallo e il verde, tinte negative nel Medioevo poiché erano percepite come segni di ambiguità sociale e morale. Erano considerate le tinte della pazzia e della marginalità: - il giallo era il colore dello zafferano, che si riteneva avesse delle influenze malefiche e agisse sul sistema nervoso provocando un riso incontrollabile. Era anche il colore delle meretrici, che indossavano un velo giallo, e poi passa ad essere il contrassegno anche degli ebrei. - il verde era il colore emblema della rovina, del disonore, il colore del diavolo, dell’Islam, una colorazione assolutamente specifica connotante che, se abbinata alla rigatura e alla pezzatura delle vesti, definisce le caratteristiche di questi performer. Erano quindi vesti bipartite e di colori specifici, segni di trasgressione, vesti non comuni, ma che comunque servivano ad indicare una professione. ➢ Per la prima volta si possono individuare una serie di elementi costumistici che definiscono le immagini dell’intrattenitore. Spesso vengono ritratti a piedi nudi. Altro elemento connotante era ad esempio il cappuccio, che poi diventa con tre corni. Esso era una caratteristica dell’abito giullaresco, e andava ad indicare le orecchie d’asino: applicare le orecchie d’asino, che potevano essere anche di altri animali, era il massimo del richiamo di questi performer. Pur indossando magari delle tuniche semplici, questi cappucci così derisori e connotanti rappresentavano un codice di indumento degradante. LA NUDITÀ e alcuni accessori del giullare Anche il non indossare l’abito sarà una connotante dell’uomo emarginato: una caratteristica ricorrente è il personaggio con il cranio rasato. L’uso di radere i capelli ad esempio ai pazzi era attestato in tutta l’Europa Occidentale: il cranio rasato rinvia ad una connotazione negativa, come cancellazione di un elemento estetico naturale. Nella 21 mentalità medievale la perdita dei capelli era ritenuta una diminuzione del proprio potere e della propria personalità: rasare i capelli identificava l’immagine dello stolto, del pazzo. Il cranio rasato, il corpo nudo e un mantello semplice che lo avvolgeva per coprire parzialmente le nudità accompagnano la figura del giullare, il quale inizia a portare in mano una sfera e una sorta di clava, un bastone. Il drappo svolazzante che accompagna queste immagini dello stolto, che copre parzialmente la nudità, sta quindi ad indicare un emarginato, qualcuno al di fuori delle regole: spesso queste figure venivano rappresentate al fianco del re, per contrapporle alla saggezza della figura reale. Per traslazione, queste caratteristiche dell’insipiens (il pazzo, lo stolto) passano anche nell’iconografia del giullare. Il bastone diventa quella che si chiama “marotte”: essa diventa un vero e proprio accessorio spettacolare del giullare con una funzione pratica. Essa era la derivazione dalla trasformazione della clava dell’insipiens che, da semplice bastone, diventa un accessorio funzionale agli indumenti del giullare e del buffone. ➔ Indossa allora un cappuccio a sonagli, per richiamare e distanziare il pubblico, con la marotte, il costume bicolore e i colori tipici del giullare. La morette terminava spesso con l’immagine riflessa del giullare stesso, e diventa un accessorio poiché instaurerà con il giullare una sorta di dialogo, in una vera e propria forma di drammaturgia divertente. L’ATTORE DEL TEATRO RELIGIOSO e il suo costume Il primo teatro che compare nel Medioevo è l’ufficium, che si svolgeva in occasione di feste religiose a cura dei sacerdoti: l’ufficio era un rito dialogato che si svolgeva tra il celebrante e uno dei due interlocutori. Il costume di scena era rappresentato dagli abiti ecclesiastici: il diacono continuava a vestirsi come un diacono. Accanto ai costumi usati dai chierici, che spesso consistevano nella “dalmatica”, si usavano delle lunghe tuniche dalle maniche ampie, in tessuti di lino e di seta, dove ognuno aveva un suo colore (dominava il bianco). Questi erano gli abiti dei celebranti: chi impersonava gli attori erano gli stessi celebranti. Le informazioni diventano più dettagliate quando l’ufficium si trasforma in ludus, e quando si parla di sacre rappresentazioni nel XIV-XV secolo. Già alla fine del XII secolo certi testi portano delle note esplicative sul modo di vestire e recitare: sull’abito indossato da Maria durante le passioni, ad esempio, le indicazioni diventano di determinata rappresentanza, con la veste, il velo e il manto nero. Nelle rappresentazioni gestite dalle Confraternite c’erano alcuni elementi determinanti, come il manto azzurro per la Madonna. Nei documenti di archivio delle Confraternite c’erano grandi annotazioni riguardo ai vestiti da indossare: oltre al nero, verde e azzurro erano i colori del lutto, mentre le vesti della Madonna erano di manto nero, senza alcun decoro. 22 ➢ I costumi teatrali, quindi, rispondono ad un realismo e a una consuetudine: inizialmente erano gli stessi indossati dai celebranti e religiosi, poi rispondono a consuetudini sociali che venivano riprodotte sulla scena. IL TEATRO MEDIEVALE Il teatro medievale aveva visto due grandi percorsi di sviluppo: - uno di derivazione dal mondo tardo antico, dalla caduta dell’Impero, e che aveva visto proprio nei giullari i diretti eredi di quella spettacolarità diffusa che non prevedeva più edifici teatrali tradizionali sui quali gli attori potevano recitare, ma che aveva visto questi performer dedicarsi a spettacolarità legate a tecniche corporee e abilità personali. Era una spettacolarità che non aveva più niente a che fare con il testo recitato della drammaturgia classica, ma che è comunque durata per lunghi secoli; - uno religioso: esso diventa un elemento trainante e di recupero per certi aspetti, affidato a quel teatro recitato di parola e rappresentazione. Ad un certo punto, infatti, la chiesa porta dentro l’edificio ecclesiastico stesso il teatro. Lungo il Medioevo, sia che si tratti di un teatro giullaresco sia che si tratti di un teatro religioso, gli spazi sono i luoghi teatrali: questi luoghi possono essere le strade, le piazze, le chiese, dei luoghi chiusi ma non strutturati e non con la funzione di essere esclusivamente riservati alla rappresentazione teatrale o allo spettacolo. ➔ Ogni spazio in cui temporaneamente si riunisce il pubblico poteva essere uno spazio in cui un giullare o un uomo di chiesa portava agli occhi degli spettatori qualcosa di performativo che poteva essere per divertire (teatro giullaresco) o per educare (teatro religioso). IL DRAMMA SACRO Dal XII secolo inizia a prendere forma un tipo di rappresentazione che viene definito dramma religioso o dramma sacro che, a differenza del dramma liturgico che si teneva all’interno della chiesa dove gli stessi uomini di chiesa erano gli artefici di questo rito, si svolgeva invece nello spazio della città. In questo modo si legittima come uno spazio simbolico, un’immagine raffigurante un’ideale di Gerusalemme celeste. Le messinscene erano realizzate da artigiani, dagli abitanti delle città o dalle corporazioni, ed erano interpretate sia dai giullari stessi, sia dai cittadini della comunità; erano in lingua volgare e si ispiravano ai testi dei Vangeli e alle Vite dei Santi. La storia di questi drammi sacri è di lunga durata: fino a tutto il XVII secolo saranno forme di drammaturgia ancora molto seguite e molto avvertite dalla comunità. L’idea di edificio teatrale, quindi, è estranea alla cultura medioevale; la messinscena non ha alcuna intenzione illusionistica, ma si tratta di una narrazione dialogica di episodi conosciuti in cui l’uso dello spazio e degli elementi scenici, anche quando esce fuori dalla chiesa per essere rappresentato sulla piazza, diventa lo spazio simbolico allusivo e didascalico. 25 all’uso di spazi diversi, che tuttavia non arrivano ancora alla definizione e alla restituzione dell’edificio teatrale. ➢ Il Quattrocento sarà quindi l’epoca di una nuova organizzazione strutturata dello spazio prospettico della rappresentazione, ma ci sarà anche un percorso parallelo che guarda al passato, riscoprendo attraverso le Accademie e le Università la drammaturgia del mondo classico. La domanda sarà: ma la commedia e la tragedia greco e latina dove veniva allestita? Dove si mettevano in scena tragedie e commedie? Qual era lo spazio della rappresentazione? Com’era fatto l’edificio e il palcoscenico? Questo sarà il passaggio dall’Umanesimo al Rinascimento. BRUNELLESCHI E LA FESTA DELL’ANNUNCIAZIONE (1439) Agli inizi del 1400, quindi, Filippo Brunelleschi viene incaricato di allestire degli spettacoli in cui lui utilizza tutta la sua tecnologia e la sua carica innovativa nella messa in scena della drammaturgia religiosa di tradizione. L’occasione è la Festa dell’Annunciazione fiorentina, che fissava a Firenze la data di inizio dell’anno: fino all’avvento della riforma del calendario voluta nel 1582, il 25 marzo fu per Firenze una data importante perché iniziava l’anno civile, calcolato dalla ricorrenza liturgica dell’Annunciazione, l’angelo che annuncia a Maria che dopo 9 mesi, il 25 dicembre, sarebbe nato il figlio. Alla Basilica della Santissima Annunziata fu dedicata una basilica santuaria fondata nel 1250 che diventa il luogo di culto privilegiato quando il frate Bartolomeo, affrescando un’immagine dell’annunciazione, diventa un’immagine di venerazione, soprattutto degli sposi. La leggenda narrava infatti che il volto della Vergine fosse stato dipinto dagli angeli sulla parete, dove il pittore aveva raffigurato la scena senza riuscire a portarla a termine. ➔ Alla metà del 1400 proprio questa chiesa vide in uno dei personaggi della famiglia Medici, Piero de Cosimo dei Medici, un uomo devotissimo a questa immagine, tanto da far costruire all’interno di questa chiesa all’architetto Michelozzo un tempio in marmo che ancora oggi protegge questa sacra icona. Il 25 marzo, per celebrare il capodanno, il clero e le magistrature cittadine si recavano in processione a questa basilica, portando offerte in cera: era una ricorrenza considerata festiva. All’episodio dell’Annunciazione si riconduce anche la tradizione festiva che risale agli anni ‘20 del secolo XV: in questa chiesa annualmente veniva allestita una rappresentazione che non si svolgeva il 25 marzo per non interferire con altre celebrazioni, ma qualche giorno dopo. La fortuna di questo spettacolo si lega alla storia della famiglia Medici. Secondo Giorgio Vasari, fu proprio Brunelleschi l’inventore dei macchinari scenici per questa annuale festa dell’Annunciazione, che si teneva principalmente in San Felice in piazza, ma, secondo attribuzioni più recenti, fu responsabile anche degli ingegni scenici di un altro festeggiamento, legato all’Ascensione festeggiata ogni anno in un’altra chiesa, Santa Maria del Carmine. 26 1439, Festa dell’Annunciazione: questo è un anno cruciale, perché a Firenze si conclude il concilio per l’unione della chiesa di Roma e le chiese ortodosse, cominciato 25 anni prima a Basilea, proseguito a Ferrara. Il capostipite Cosimo de Medici il vecchio, con un’abile manovra diplomatica e religiosa riesce a portare in città questo concilio facendo convergere a Firenze grandi personalità religiose che trovano nella città la possibilità di giungere ad un’unione tra le chiese e a concludere con un evento straordinario. Nella Chiesa della Santissima Annunziata, il 25 marzo del 1439, vi fu una rappresentazione che ebbe come attento cronista un prelato russo, Abramo di Suzdal, che descrive nei suoi diari uno spettacolo al quale aveva assistito, consentendo a noi una ricostruzione dell’ingegno. I luoghi della rappresentazione e l’ingegno brunelleschiano L’azione scenica di Brunelleschi si concentra su due luoghi: - in una tribuna costruita sopra la porta d’ingresso della Vergine era collocato l’Empireo con i cieli e il padre eterno in gloria; - nel tramezzo, una struttura architettonica ad arcate (un pontile presente in alcune chiese e che separava i religiosi dal pubblico), era collocata la cella della Vergine, dove avveniva la disputa dei profeti e la scena dell’annuncio. Questi due punti erano collegati da alcuni canapi tesi e sui quali scorreva un fanciullo che, in figura di angelo annunciante, simulando il volo dal cielo alla Vergine, attraversava l’intera navata sopra la testa degli spettatori. Terminata la scena dell’Annuncio, l’angelo rientrava nell’Empireo. Questo effetto scenografico aveva un grande impatto sul pubblico, che si sentiva pienamente coinvolto. Il protagonista di questi ingegni era l‘uso spaziale longitudinale della navata: lo spettacolo viene utilizzato tridimensionalmente usando due unici luoghi deputati. Erano quindi due mansiones che delimitavano un enorme palcoscenico, spostando l’occhio dello spettatore unicamente in un punto di visione. ➔ Tutto era organizzato secondo una dimensione prospettica: anziché una molteplicità di spazi simultanei e paratattici tipici della rappresentazione medievale, Brunelleschi predispone nello stesso spazio della Chiesa due unici spazi, organizzando l’intero spazio della navata secondo una dimensione prospettica dello sguardo. L’ANNUNCIAZIONE NELLA CHIESA DI SAN FELICE IN PIAZZA Anche nella chiesa di San Felice in Piazza l’Annunciazione è lo spettacolo che Brunelleschi rappresenta in quegli anni. Gli interpreti di questo spettacolo erano soprattutto i giovani appartenenti alla compagnia dell’Orciolo, e questa festa durò per tutto il XVI secolo. In questa chiesa, l’organizzazione dello spazio è completamente diverso rispetto a quello della chiesa della Santissima Annunziata, dove lo spazio in senso orizzontale e verticale era di enormi dimensioni. Brunelleschi in questa chiesa si trova invece ad usare uno spazio di 27 ridotte dimensioni, a navata unica e dove tutto converge nella parte intorno all’altare maggiore. La messa in scena dell’Annunciazione, allora, deve sfruttare lo spazio in maniera diversa: non c’era la possibilitá di collocare due mansiones. L’architetto allestisce una macchina teatrale all’altezza dell’altare maggiore in fondo alla chiesa; era costituito da una cupola di legno collocata tra le capriate del tetto e ruotante su se stessa, e rappresentava la volta celeste, con il colore azzurro e le luci che simulavano le stelle. 12 fanciulli, assicurati all’imboccatura dell’emisfera, fingevano una danza di angeli cantori; al centro della cupola era poi presente un ulteriore ingegno chiamato il “mazzo”, scheletrato a cupola di ferro, che reggeva dei fanciulli di statura inferiore ai primi, e dal centro del mazzo, che restava sospeso in aria, scendeva un sostegno a forma ovale (mandorla), contornata da luci dove stava un giovane che raffigurava l’angelo Gabriele, che recitava l’annuncio. La mandorla scendeva sul pavimento, veniva bloccata da un sistema che consentiva di far scendere agevolmente il personaggio: l’angelo scendeva, faceva il suo annuncio, poi tornava dentro e risaliva verso l’alto della cupola. In questo caso, Brunelleschi aveva quindi uno spazio ridotto, che gli impone l’uso di uno spazio verticale con una scansione dello spettacolo in una scala bidimensionale: gli spettatori si pongono in posizione frontale non più partecipativa, ma di spettatori che guardano quello che succede in questo palcoscenico. All’apertura della zona circolare dove stava il padre eterno, calava il mazzo. Lungo il perimetro della mandorla erano presenti dei lumini che venivano azionati da un meccanismo nella discesa, accesi o spenti dal personaggio stesso. L’ASCENSIONE NELLA CHIESA DI SANTA MARIA DEL CARMINE Anche nel caso dell’Ascensione di Cristo nella chiesa di Santa Maria del Carmine Brunelleschi si trova in una condizione strutturale di edificio ben diversa: si trattava infatti di una chiesa molto ampia, a navata unica. Anche qui decide di utilizzare non tanto lo spazio longitudinale e orizzontale, ma quello verticale: predispone un palcoscenico in fondo alla navata, dove era costruito un tramezzo, costruendo la città di Gerusalemme sulla sinistra, e il monte da cui Cristo sarebbe poi asceso verso il cielo. Essa si svolge in 3 luoghi deputati posti di fronte agli spettatori: - due luoghi erano sul tramezzo (la città di Gerusalemme e il Monte degli Ulivi); - sopra il tramezzo, sospesa, c’era una tribuna che conteneva il cielo con il padre e gli angeli esultanti. Colui che rappresentava Gesú, dopo aver distribuito agli apostoli i doni simbolici, si avviava verso la collina e, assicuratosi ai cavi che lo collegavano alla tribuna, simulava l’ascesa al cielo. I meccanismi predisposti al di sopra issavano questo personaggio e facevano discendere 2 angeli che lo scortavano nell’ascesa. Un’improvvisa oscurità occultava allora la manovra tecnica del passaggio del Cristo, dove appariva poi seduto alla destra del padre. Gli spettatori rimanevano in una posizione statica. La novità portata dagli ingegni brunelleschiani 30 ma essa si colloca nel momento della celebrazione festiva e vive accanto a altre forme di festeggiamento (mascherate, le danze, i tornei, i caroselli, i banchetti..). Questa presenza di tanti generi finirà anche con l’intromettersi nella rappresentazione drammaturgica. ● Non c’è compartecipazione collettiva: lo spettacolo viene offerto al pubblico e gli stessi committenti, il principe e la corte, sono loro stessi spettatori. LA RINASCITA DEL TEATRO CLASSICO La rinascita della cultura classica e del teatro si imposta secondo due linee di tendenza: - Linea filologico vitruviana: era attenta e coerente all’interpretazione e alla restituzione dei testi o della struttura architettonica. Il riferimento principale per la rilettura dell’edificio teatrale classico sarà il De Architectura di Vitruvio, un architetto del mondo latino che nel suo trattato mette in confronto teatro greco e latino. Essa era una linea coerente che porterà ad una sperimentazione che vedrà nel Teatro Olimpico di Vicenza costruito da Andrea Palladio il suo epilogo. - Linea della pratica romanza: essa mette a frutto e eredita tutto il patrimonio del Medioevo, sia per quanto riguarda la tecnologia, sia nelle applicazioni della scenografia, sia nelle tecniche legate più all’attore, ovvero alla performance tecnica tipica dell’attore medievale. In ambito popolare, la riscoperta del teatro classico porta all’affermazione di un nuovo attore, ovvero l’attore professionista: questo non avviene all’interno degli ambiti ristretti delle elite di corte, ma con l’affermazione di un fenomeno parallelo, che noi conosciamo come commedia dell’arte, e che sarà fondamentale per dare vita alla nuova figura dell’attore. ➔ Questo attore non reciterà più come un dilettante, ma farà dell’arte recitativa e attorica il proprio mestiere e professione, che porterà a cambiare il concetto di teatro e ad affermare l’idea mercantile: si fa spettacolo e si viene pagato per ciò che si dà al pubblico Tutto questo, comunque, avverrà al di fuori delle élite ristrette delle corti, e porterà anche all’organizzazione degli attori in compagnie che dovranno procacciarsi il pubblico. COME LA RAPPRESENTAZIONE TEATRALE DIVENTA OGGETTO DI RIFLESSIONE E SPECULAZIONE Nella festa di corte, la rappresentazione teatrale non era l’elemento principale, ma uno dei tanti momenti che componevano il festeggiamento. I primi grandi autori di commedie italiane furono soprattutto letterati o traduttori della drammaturgia del passato. La riscoperta del testo di Vitruvio viene accostata alla riscoperta della poetica di Aristotele che, dagli anni ‘40, diventa al centro di un dibattito teorico: tutti cercarono di capire di cosa parlava Aristotele e quali fossero i principi cardine della drammaturgia che tramandava e che furono presi in considerazione dai primi autori. Questi principi cardine erano: 31 - il concetto di verosimiglianza - l’idea che i princìpi ispiratori delle trame dovevano essere impostati su un insegnamento morale e etico - i caratteri universali dei personaggi - la definizione dei generi drammaturgici - le normative organizzative del testo drammaturgico, ovvero le 3 famose unità aristoteliche (unità di luogo, unità di azione e unità di tempo) che saranno i cardini fondamentali per gli scrittori della drammaturgia del Rinascimento. Soprattutto quest’ultimo punto riguardante le 3 unità venne molto rispettato: nelle opere teatrali non era possibile cambiare il luogo nella narrativa, né lo spazio dell’azione, né fare dei salti di tempo cronologici. Questo porta ad alcuni autori che, partendo da queste definizioni di Aristotele, scrivono sulle modalità di comporre tragedie e commedie sul modello classico. Aristotele restituisce agli uomini del Rinascimento le tipologie drammaturgiche chiave: - la tragedia: opera seria e di una certa estensione, con un linguaggio e personaggi di rilievo, adatta a suscitare pietà e paura, sentimenti di purificazione. - la commedia: imitazione di soggetti quotidiani, personaggi del mondo di tutti i giorni, dove il riso, la comicità e il ridicolo sono gli elementi connotanti. - il dramma satiresco: il Rinascimento, nel tentativo di interpretare questo genere, restituisce la pastorale, cioè un genere misto definibile anche tragicommedia, o pastorale di ambientazione bucolico, e a lieto fine. Grazie ad Aristotele, quindi, si restituiscono dal passato le tipologie drammaturgiche di base. DALLA COMMEDIA CLASSICA DI MATRICE PLAUTINA E TERENZIANA ALLA COMMEDIA ERUDITA RINASCIMENTALE Nella struttura drammaturgica, gli autori recuperano e fanno attenzione alle unità aristoteliche, ma allo stesso tempo utilizzano la lingua volgare e un’ambientazione contemporanea. Le tematiche rimangono invece quelle tratte dalla drammaturgia plautina: gli amori, le rivalità tra vecchi e giovani, le beffe… Le categorie dei personaggi sono quelle tratte proprio da Plauto e Terenzio. La commedia è la prima a restituire la coscienza della drammaturgia classica; saranno infatti altri testi ad aiutare nella riscoperta, come l'Onomasticon di Polluce, oltre alla riscoperta di commedie plautine a Colonia che si consideravano perdute. LA REINTERPRETAZIONE E LA SPERIMENTAZIONE DELLA COMMEDIA ● LUDOVICO ARIOSTO (Ferrara) Il primo autore che si innesta in questo filone di forme drammaturgica classica rinnovata è Ludovico Ariosto, personaggio attivo e autorevole figura di uomo di corte. Egli svolse all’interno della corte di Ferrara anche una funzione di regista e forse anche di attore. Nel 1508 porta in scena La Cassaria, prima commedia originale in lingua italiana: egli si cimenta nell’allestimento di una sua opera e, riprendendo il modello delle commedie 32 antiche, sposta l’attenzione dentro la cornice cittadina e borghese. L’autore stesso nel prologo presenta questa commedia come nuova, con la piena consapevolezza di proporre una trama originale, certamente non inferiore ai modelli greci, ma consapevole che il riferimento sia Plauto ad esempio (richiama infatti con il titolo La Aulularia, La Cistellaria..) nella scansione degli atti e nella tipologia dei personaggi. ➢ Ariosto da un lato recupera il patrimonio classico, ma introduce una novità, cioè l’uso del volgare: in realtà la sua era una lingua ibridata, una sorta di gergo (motivo per cui Machiavelli lo accusava di aver introdotto una lingua lontana dal volgare parlato, quindi inesistente). Il passo successivo sarà poi l’innesto di tematiche diverse, cioè tratte dalle novelle ad esempio di Boccaccio, che portano a una nuova drammaturgia comica, come nel caso dei Suppositi che nel 1509 porta in scena a Ferrara: nell’opera rivendica i principi della contaminatio della trama, mentre l’originalità è il recupero di Boccaccio nella novella di Tancredi e Ghismunda. La sua produzione comica darà avvio alla critica della società contemporanea, in corrispondenza agli obiettivi degli umanisti, che consideravano la commedia specchio della vita quotidiana. ● CARDINALE BERNARDO DOVIZI DA BIBBIENA (Urbino) Bibbiena fu l’autore di una delle più fortunate commedie del tempo, La Calandria, che fu rappresentata per la prima volta nel 1513 al palazzo di Urbino, considerata il capolavoro capostipite della storia del Rinascimento, memorabile anche per l’uso di scenografie affidate a Girolamo Genga, un architetto allievo di Raffaello, e anche perché lo spettacolo fu allestito per iniziativa di un letterato al servizio della corte, il vassal Castiglione. La commedia sviluppa il tema classico della gemellarità di Plauto, ma gioca su una comicità ambigua, sul travestimento e sull’androginia, preludendo a tematiche assolutamente di grande successo che la drammaturgia rinascimentale farà sue, e proposte fino alla drammaturgia della commedia dell’arte. Nella trama inserisce la beffa al personaggio di Calandrio, una figura ispirata a un personaggio sciocco di una novella del Decameron, dal quale Bibbiena recupera situazioni e dialoghi. ➔ Nella commedia, Bibbiena rivendicava l’uso del volgare come lingua drammaturgica, la più naturale e l’indipendenza ormai dal modello plautino. Fu apprezzata come commedia assolutamente nuova dai contemporanei anche per le allusioni alla vita di corte, e anche per l’uso di un elemento spettacolare, cioè l’intermezzo: tra un atto e l’altro della commedia furono inseriti 4 intermezzi a carattere allegorico- mitologico che sarà un elemento scardinante la tradizione di derivazione classica, rigorosamente impostata sui canoni aristotelici. ➢ Il successo di questa prima produzione drammaturgica accompagnata da allestimenti sempre più impegnativi confermerà l’esistenza di un incessante circolazione di esperienze in un continuo affinamento della forma sia drammaturgica sia scenografica. 35 rappresentazione medievale e traccia un percorso che arriverà poi alla definizione del teatro moderno. Dal momento che la commedia sia greca sia latina era ambientata nel contesto urbano, i letterati, gli uomini di cultura, ma anche gli architetti e i pittori del Rinascimento che affrontarono la questione, si chiesero quale fosse la collocazione scenica di questa drammaturgia, e la risolsero inventando una scena di città urbana, scena che richiedeva però di essere inserita a sua volta all’interno di un adeguato spazio di rappresentazione, in un adeguato edificio teatrale. Alla radice della sperimentazione pratica della scena, quindi, si collocano le speculazioni teoriche del libro caposaldo del mondo classico e del Rinascimento, il De Architectura Libri Decem di Lucio Vitruvio Pollione. Vengono sviluppate attorno due tematiche fondamentali: 1. Riguardante la struttura dell’edificio teatrale, dello spazio del palcoscenico 2. Riguardante l’interpretazione di un passo di Vitruvio riguardante le 3 scenografie usate nel mondo classico e corrispondenti ai rispettivi generi della composizione drammaturgica (tragedia, commedia e dramma satiresco) In entrambi i casi, una buona parte dei problemi connessi con l’interpretazione dei testi di Vitruvio dipendeva dal fatto che le illustrazioni, presenti nel trattato originario, ma che non giunsero nel Rinascimento, dovevano essere un’esemplificazione: mancando queste immagini, la speculazione portò a sperimentazioni più o meno chiare. ● Nel 1414, nel Monastero di Montecassino, si riscopre il De Architectura di Vitruvio. ● Nel 1426, a Colonia, il cardinale Giordano Orsini, il delegato del papa in Germania, conosce il filosofo Niccolò Cusano, per lui esplora la biblioteca del duomo di Colonia e porta alla luce 20 commedie di Plauto, di cui 12 assolutamente sconosciute all’epoca. ● L’initio princeps di questa drammaturgia è il 1472, con l’editore Giorgio Merula a Venezia. ● Tra il 1472 e i primi decenni del 1500, vi furono moltissime edizioni a stampa delle commedie di Terenzio e tentativi di allestimento, e quindi anche una conoscenza dei testi drammaturgici, una sperimentazione all’interno di spazi che cercheranno di restituire quelle informazioni lette e interpretate nel testo di Vitruvio. ● Nel 1480 personaggi come Poliziano dedica un corso universitario allo studio e alla lettura dell’Andria di Terenzio, dove egli spiegava le norme compositive della commedia. Nel 1400, quindi, avviene la riscoperta della drammaturgia classica, la sperimentazione del luogo teatrale adatto a sperimentare quella drammaturgia, sperimentazione al suo interno della scenografia fissa adeguata ai 3 generi performativi. Gli allestimenti furono sempre legati a sperimentazioni all’interno di avvenimenti di rilievo al contesto della corte. Le corti erano infatti luoghi di cultura all’interno delle quali l’inventio e la restitutio del teatro classico viene trattata da un punto di vista sia teorico sia 36 pratico: Ariosto stesso lavora e produce una drammaturgia proprio all’interno della corte di Ferrara. Sarà proprio Ferrara l’ambiente che già in precedenza aveva maturato tutti i presupposti che già alla fine del 1400 aveva portato a sperimentazioni pratiche di messe in scena. LA RESTITUZIONE SPECULATIVA DELL’EDIFICIO TEATRALE E LA PROSPETTIVA Per quanto riguarda la scena, sulla base della rilettura di Vitruvio ci sarà una frase chiave di un’interpretazione di Alberti che testimonierà la necessità di trovare una sintesi, una mediazione tra l’idea di scena classica all’interno di un adeguato edificio teatrale e l’idea umanistica di scena di città, scena costruita prospetticamente, scena che si riferiva ad una città ideale, ovvero l’immagine della città di Roma. ➔ Era necessario trovare quindi una sintesi tra queste due idee. I luoghi teatrali Nel Medioevo non esisteva più un teatro medievale, ma si doveva parlare piuttosto di luoghi teatrali, che continuano anche per tutto il 1400 e 1500: essi erano spazi urbani, o chiusi all’interno di palazzi, che erano usati come luoghi di rappresentazione della drammaturgia classica in modo che in quell’ambito si potesse restituire un’idea dello spazio della rappresentazione classica. Le modalità seguite erano varie, ma poi proseguiranno due processi speculativi differenti: 1. Percorso più attento e interprete dei reperti archeologici e del testo di Vitruvio 2. Percorso che matura una pratica scenica più legata ad una tradizione fatta di usi di luoghi dove macchineria, scenografia ricordano ad esempio gli ingegni brunelleschiani: si tratta di una pratica di tipo romanza che porterà ad una evoluzione e restituzione interpretativa del mondo classico decisamente più innovativa. È all’interno degli ambienti di corte che si rappresentano allora le prime commedie latine, spettacoli inseriti nell’ambito della festa, che era un grande contenitore di cui la rappresentazione teatrale era uno degli elementi cardini del festeggiamento. Le sperimentazioni ferraresi Alla fine del 1400, è soprattutto Ferrara ad essere la prima corte sperimentatrice di questa sintesi e rilettura del mondo classico. A Ferrara Guarino Veronese lavora sulle riletture di Plauto e Terenzio, e sarà Plauto ad essere messo in scena per la prima volta nella corte. Nel 1486 il duca Ercole I d’Este fa mettere in scena la commedia più famosa del mondo latino, ovvero i Menechini di Plauto, all’interno del cortile del palazzo ducale. Viene utilizzato un testo latino molto celebre, lo si riscrive in italiano, lo si mette in scena all’interno del palazzo, nel cortile, facendo un allestimento che in qualche modo 37 richiamasse la struttura di un teatro: fa erigere dei palchi per gli spettatori, ponendoli di fronte a una sorta di palcoscenico frontale con una sorta di scenografia adeguata all’allestimento della commedia. Le testimonianze descrivono la scena dei Menichini di Plauto, costituita da una scenografia che rappresentava una città costruita in legname con elementi praticabile: queste testimonianze sono fondamentali per la ricostruzione dell’allestimento. ➔ Questa stessa struttura di città costruita su un palcoscenico viene usata nel 1487 in occasione di un’altra festa in un cortile con un palcoscenico che appariva come un castello, per rappresentare il Cefalo di Niccolò da Correggio e l’Anfitrione di Plauto. Ferrara non userà come luogo teatrale esclusivamente il cortile, ma nel 1491 si parla ad esempio di una festa in cui viene rappresentato l’Anfitrione di Plauto all’interno della sala del principe. ➢ Lo spettacolo viene portato all’interno, ma non si può ancora parlare di teatro: esso è ancora un luogo teatrale, cioè un luogo temporaneamente adibito alla rappresentazione teatrale. La dislocazione paratattica si ritrova in realtà fino al 1547, ad esempio nella Passione di Valenciennes: essa conferma un uso paratattico di mansiones, ma inserite in un palcoscenico di tipo rinascimentale. I DUE ITINERARI Il passaggio da luogo teatrale a edificio teatrale segue due itinerari, due linee: 1. Linea filologico-vitruviana: è la linea più teorica e meno sperimentale che si fonda sull’interpretazione del De Architectura di Vitruvio che vedrà in Leon Battista Alberti e altri gli architetti che interpreteranno e studieranno l’edificio teatrale classico e ne forniranno o un’interpretazione teorica, o una sperimentazione in un vero e proprio edificio teatrale (come Andrea Palladio). ➔ Questa linea era quindi attenta sia all’interpretazione del testo di Vitruvio, sia all’interpretazione dei ritrovamenti archeologici esistenti all’epoca. 2. Linea sperimentale romanza LA LINEA FILOLOGICO-VITRUVIANA ❖ Leon Battista Alberti Il suo trattato De re aedificatoria costituisce sicuramente la codificazione del primo pensiero interpretativo su Vitruvio. Il capitolo dedicato al teatro ha un’importanza fondamentale, poiché rappresenta la base di confronto alla quale si rifaranno negli anni successivi: più che Vitruvio, verrà letto il testo di Alberti. La riscoperta dei 10 libri della sua opera determina quindi un rinnovato interesse per l’edificio teatrale che porterà a una lunga serie di commenti e alla definizione, per quanto 40 Sono quindi presenti gli elementi di base dell’edificio classico: lo spazio della visione è separato dallo spazio della rappresentazione, l’orchestra. Si vede inoltre la grande novità: il palcoscenico era pendente, con una degradazione, l’impianto prevedeva 4 casamenti formati da due quinte parallele ma messe anche obliquamente, e un fondale dipinto in fondo. Era quindi una scenografia costruita già prospetticamente: scena fissa su un palcoscenico costruito secondo le modalità e la prospettiva, grande riscoperta, innestata su un palcoscenico e su una struttura teatrale che guardava al classico, ma inserito ancora in un luogo teatrale, nel cortile. ➔ Era la prima vera sintesi teorica e pratica dell’architettura rinascimentale: la sua opera rappresenta il bilancio di un’epoca. È sempre lui che codifica definitivamente la scenografia sulla base dei generi drammaturgici: stabilisce quale sia la scenografia adeguata ai 3 generi. Le categorie scenografiche sono 3, e corrispondono ai 3 generi: - commedia: essa parla di personaggi della vita di tutti i giorni, quindi la scenografia deve rappresentare una città con edifici che stanno a riferirsi a personaggi quotidiani. Essa è strutturata con un palcoscenico, era parzialmente costruita, con un fondale forse dipinto, e costruita prospetticamente. - tragedia: scena urbana ma con palazzi con riferimenti a struttura di un certo tenore e che ricordano l’architettura classica per eccellenza, con un arco di trionfo che chiude la fuga prospettica del palcoscenico e un obelisco di memoria romana. Gli edifici si rifanno quindi all’architettura classica. - dramma satiresco: la scena satirica è una scena arborea, pastorale e agreste dove ci sono non strutture architettoniche sontuose né della città quotidiana ma piccole case di personaggi agresti, in un contesto naturale. Lui suggerisce non di dipingerle ma di farle in seta, per rendere più naturali gli elementi. Serlio rappresenta il punto chiave di passaggio che avvia al culmine del percorso di linea vitruviana. L’esito sarà la sperimentazione di Andrea Palladio nel Teatro Olimpico di Vicenza, dove si porterà all’estrema conseguenza questa rilettura. La storia del teatro rinascimentale consiste nel passaggio da quello che veniva chiamato “luogo teatrale” a una forma architettonica stabile e unitaria, cioè l’edificio teatrale vero e proprio, inserito all’interno dell’urbanistica di una città. Anche la storia dei diversi rapporti tra la scena e il pubblico, quindi, passa da una visione compartecipativa del pubblico che partecipava attivamente allo spettacolo, a un rapporto di frattura tra una zona destinata alla visione (quella del pubblico, predisposto frontalmente rispetto al palco) e una zona destinata alla finzione della rappresentazione, cioè il palcoscenico dove agiscono gli attori. 41 Questo avviene attraverso varie fasi di sperimentazioni che seguono dei percorsi non lineari ma che tenderanno, alla fine del 1500, a concludersi e a sintetizzare la coerenza della messa in scena performativa. L’evoluzione individua le due linee portanti di sintesi: - linea filologico-vitruviana: è quella più erudita e teorica, interessata al recupero attento alle norme dei modelli architettonici del mondo antico (facendo riferimento al testo di Vitruvio e alla visione dei monumenti superstiti) - linea romanza: legata alla prassi degli allestimenti scenici, dove si innestano le teorie e la ricerca di una morfologia di una scena sempre più coerente e adeguata anche alle innovazioni drammaturgiche Quindi, da Vitruvio si ricavavano informazioni relative all’edificio antico e all’allestimento per ogni genere drammaturgico, che Serlio codifica. A fronte di una speculazione per lo più teorica, però, non mancarono dei progetti e dei tentativi concreti di restituzione del teatro all’antica. Questo non fu comunque esente dalle contaminazioni e da una pratica scenica e di innovazioni dell’arte figurativa, che non appartenevano al passato: a fronte di una teoresi rigorosa, per alcuni elementi dell’edificio teatrale, proprio lo spazio della scena avrà elementi di contaminazione con la cultura contemporanea. Anche Serlio ad esempio, pur leggendo Vitruvio, aveva fatto uso nella ricostruzione della drammaturgia di un elemento di ricostruzione dello spazio, ovvero la prospettiva, strumento di riproduzione della realtà tratto dalla figura del tempo. IL TEATRO OLIMPICO DI VICENZA, ANDREA PALLADIO Il Teatro Olimpico di Vicenza fu il frutto di una committenza accademica aristocratica: Vicenza apparteneva al dominio della Serenissima di Venezia, non c’era una corte, ma nella città di Vicenza erano comunque presenti delle famiglie aristocratiche che erano solite riunirsi in un’accademia che rifletteva sulla cultura classica. La committenza di questa accademia vede nell’opera di Andrea Palladio la realizzazione di un teatro. Palladio era perfettamente in linea con Daniele Barbaro, un umanista ricordato per la sua traduzione dei 10 libri di architettura di Vitruvio nell’edizione del 1556; egli fu anche un architetto che dette alle stampe un importante trattato dedicato alla scienza dei pittori, dal titolo La pratica della prospettiva: egli commenta questo testo e lo correda con i disegni di Andrea Palladio. ➢ L’edizione di Barbaro risulta quindi la prima che mostra una totale comprensione del testo di Vitruvio, e fino al XVIII secolo costituisce un elemento indispensabile. Barbaro e Palladio avviarono quindi una collaborazione che costituisce un elemento di grande portata, di cui il Teatro Olimpico di Vicenza rappresente l’esplicitazione. Anche per il trattato di Barbaro, egli esplicita con chiarezza la relazione tra la concezione vitruviana e la nuova scenografia prospettica, elementi che si trovano nella costruzione dell’edificio del teatro di Palladio. Il Teatro Olimpico fu il primo e unico edificio teatrale impostato sulle regole vitruviane, correttamente reinterpretate, e esemplifica l’ideologia rinascimentale della rivisitazione 42 del mondo classico unita alla nuova visione antropocentrica della recente invenzione della prospettiva: fu il primo teatro rinascimentale costruito come edificio permanente all’interno di una città totalmente indipendente dalle corti signorili. L’Accademia Olimpica di Vicenza, da cui prende il nome il teatro, commissiona l’edificio tra il 1580 e il 1585: stabilisce uno spazio già esistente, il Palazzo del Territorio, un’antica fortezza medievale, e lo affida alla progettazione di Andrea Palladio. Palladio imposta un impianto teatrale basato su una complessa ricostruzione geometrica la cui matrice risale proprio agli studi classici di Vitruvio come li aveva interpretati Daniele Barbaro. Il 3 marzo del 1585 questo teatro fu portato a conclusione; nel frattempo Palladio venne a mancare e i lavori di costruzione vengono diretti prima dal figlio e poi da un architetto di Vicenza, Vincenzo Scamozzi. Questo teatro conteneva tutti gli elementi che ricordano il teatro classico, ma in realtà era una ricostruzione all’interno di un ambiente svuotato. Un teatro impostato sulla rilettura di Vitruvio non poteva che essere pronto per portare in scena una forma di drammaturgia del mondo classico, una tragedia: la riscrittura dell’Edipo Re di Sofocle affidata al volgarizzamento di Orsatto Giustiniani. I protagonisti furono i grandi attori dell’epoca, con la regia e l’allestimento di Angelo Ingegnere, un uomo di cultura che di lì a poco, nel 1596, avrebbe scritto un trattato sulla rappresentazione scenica dando indicazioni su come allestire uno spettacolo nei suoi dettagli, indicazioni anche di storia del costume. A imitazione dei teatri romani, l’edificio era dotato di un’ampia cavea semi-ellittica, sormontato da una galleria, il porticus, che alterna colonne e statue; lo spazio dell’orchestra e una scaenae frons imponente dove la rappresentazione avviene sul proscenio. Era quindi una grande scena prospettica costruita sul ricordo dei frons scaenae dei teatri classici, con le 3 porte e quella centrale costruita secondo la costruzione del teatro classico. Il soffitto a cassettoni non corrispondeva all’originale, che probabilmente era un velarium dipinto a imitazione di un cielo (come nei teatri classici che erano spazi all’aperto). ➢ Se tutti gli elementi sono corrispondenti all’edificio classico, c’è qualcosa di diverso: dietro le porte si può vedere una prospettiva a tre fuochi che crea un’illusione di grande profondità, 3 prospettive inserite dietro le 3 porte. Questo inserimento prospettico non fu realizzato da Palladio ma da Vincenzo Scamozzi, che porta a termine la costruzione dell’edificio installando le costruzioni in legno e stucco finalizzate alla messa in scena della tragedia di Sofocle: esse volevano rappresentare le 7 vie di Tebe, la città dalle 7 porte e dai 7 templi dove è ambientata la tragedia. Sono quindi scenografie costruite prospetticamente. La via regia si sviluppa con un effetto di grande profondità grazie agli artifici adottati da Scamozzi: la finta strada che è soggetta ad una forte pendenza. È un elemento che non ha niente a che fare con la scenografia del mondo classico, perché costruita prospetticamente e tridimensionalmente, non dipinta come forse era nel passato. 45 a che fare con il recupero del frons scaenae, ma lo sostituisce con un palcoscenico allestito e organizzato secondo una concezione prospettica teorizzata da Serli. EVOLUZIONE DEL LUOGO TEATRALE L’evoluzione del luogo teatrale a edificio vero e proprio, quindi, porta alla sua estrema conclusione l’esegesi vitruviana che, se in Palladio è ancora corretta, già in Sabbioneta cambia. Essi sono i due esempi chiave, dove termina un percorso: sono due teatri che vengono poi utilizzati poco, poiché le esigenze della scena portano su altri percorsi, percorsi di contaminazione e sperimentazione. La linea romanza, soprattutto, viene impostata sul proseguimento di una pratica scenica che deriva dall’esperienza dello spettacolo di derivazione medievale che traccia dei percorsi sperimentali che portano a nuove tipologie strutturali, ma partendo sempre da condizioni materiali dove si svolge lo spettacolo: un cortile, una sala, e poi si evolve. ➔ Alla base di quello che diventerà il teatro moderno c’è soprattutto l’evoluzione della scena prospettica, con degli episodi di interpretazione molto articolate che portano a delle sperimentazioni molto variate. Ferrara, Cassaria Ferrara è una città che sperimenta la drammaturgia classica. La scena della Cassaria di Ariosto era composta da tele dipinte con case, torri e campanili, con una scena fissa invariata per tutti gli atti che rappresentava Ferrara. Questa scenografia poteva essere la scena di fondo di una delle prime forme di drammaturgia regolare esemplate sull’antico. LOGGIA CORNARO A PADOVA Altre sono anche le esperienze, ad esempio quella dell’uso della loggia come prototipo architettonico che può ricordare la frons scaenae del teatro classico. Questa loggia rappresenta questa soluzione: Alvise Cornaro commissiona un complesso di edifici e giardino, sull’idea della villa romana classica e fa costruire una loggia. La loggia è una novità soprattutto per l’uso che ne fa fare: commissiona una sorta di loggiato che intendeva essere un fondale in pietra per essere cornice agli spettacoli da lui commissionati. Era un’idea di teatro all’antica che fosse lo scenario di una rappresentazione drammaturgica che niente aveva a che fare con la drammaturgia classica: Angelo Beolco detto il Ruzante è il drammaturgo che esprime una drammaturgia comica assolutamente inusuale usando il dialetto pavano e portando in scena le classi subalterne dei contadini. ➔ Questo complesso architettonico recupera l’idea del teatro classico del frons scaenae ma per fare recitare una drammaturgia non certo tratta dal mondo classico. All’interno delle porte, o sul davanti, probabilmente recitavano gli attori. 46 Accanto c’era invece un Odeon, edificio recuperato dall’architettura classica, e che veniva utilizzato per la musica. Angelo Beolco aveva realizzato una sorta di schizzo sulla scenografia, composta da tre case disposte non prospetticamente. Forse dei fondali dipinti inseriti all’interno delle cinque arcate che compongono la scena classica. Dal luogo teatrale, che per secoli è stato lo spazio della rappresentazione, si passa alla definizione di un innovativo progetto architettonico che darà vita al “teatro all’italiana”, cioè il teatro a palchetti con elementi strutturali ben definiti e che vede la maturazione nei primi 50 anni del 1600. L’occhio del principe Alla base del teatro moderno c’è quindi la sperimentazione sulla scena prospettica. Questa innovazione si attua in Italia all’inizio del 1500 nell’applicazione della prospettiva alla scenografia sui palcoscenici e sarà alla base del teatro moderno perché imporrà una costruzione dello spazio della visione impostata sulle leggi matematiche che implicano la contrapposizione all’interno di un certo ambiente tra il pubblico frontale rispetto allo spazio dove si rappresenta il dramma. Il punto di vista del pubblico che guarda lo spazio della rappresentazione determina la linea dell’orizzonte ideale, il punto di fuga in cui convergono idealmente tutte le linee della scenografia. Da questo ne nasce un principio fondante per un nuovo modo di rappresentare: uno spettatore immobile guarda frontalmente disponendosi in un punto privilegiato, guarda un’immagine delimitata e inquadrata, costruita con i mezzi della prospettiva, cercando di ottenere una similarità tra la rappresentazione e la visione umana della realtà. La condizione indispensabile è quindi la designazione di un punto di vista che coincide con un punto specifico della sala e che è il miglior punto di visuale della scena, cioè l’occhio di uno spettatore ideale che viene identificato nell’occhio del principe, di colui che ha commissionato quell’allestimento. Quell’occhio è l’esito di un processo ideale di quel committente che consente questa sperimentazione. ➢ Nella scena teatrale, l’occhio del principe vede riflesso l’ordine e la stabilità della città reale che egli domina e regge politicamente. Nella scena prospettica c’è un unico fuoco, un unico punto centrale dal quale si dipartono in successione tutte le linee della prospettiva, come la città ha un unico centro di potere: quello del principe. La storia del teatro all’italiana, allora, è la storia di un esito: l’integrazione del corpo dell’attore nella finzione dello spazio rappresentato in prospettiva. LE FASI DEL PASSAGGIO L’architettura del teatro all’italiana è strettamente legata all’evoluzione della scenografia. In questo processo complicato della scena di città regolata secondo prospettiva, e che sul palcoscenico riflette urbanisticamente la città rinascimentale ideale per eccellenza, costruita secondo un ordine che riflette un concetto politico e filosofico legato alla 47 centralità del principe, sono confluite tutte le componenti culturali che non sono riconducibili ad un unico percorso. Negli stessi anni in altre coorti e altre aree geografiche, in particolare nella corte di Firenze, si compiva un passo che si rivela più sperimentale rispetto agli altri, poiché riuscirà a far sì che il primato dell’invenzione della scena prospettica si connetta all’idea di passaggio da luogo teatrale a edificio teatrale. Il primato dell’invenzione prospettica tridimensionale viene attribuito ad un architetto, Baldassarre Peruzzi, per aver ideato un modello di impianto scenico che attribuiva al palcoscenico una maggior profondità spaziale. La scenografia di Peruzzi segna un momento di passaggio della scena da un fondale dipinto a una scena sviluppata in profondità. LUOGO TEATRALE DEL GIARDINO - CORTILE L’esperienza teatrale avviene all’interno del contesto del primato della famiglia Medici a Firenze. Alla fine del 1500, a Firenze si vede proprio la costruzione di un teatro, il Teatro Mediceo, che diventerà la struttura di corte più celebre e conosciuta della spettacolarità italiana ed europea, che aprirà alla strada della costruzione di una nuova tipologia di edificio. Il 1539 rappresenta un anno importante per la città di Firenze: è l’anno in cui si svolgono le nozze del duca Cosimo I de Medici con Eleonora di Toledo figlia del viceré di Napoli. Questa famiglia, che viveva nel Palazzo Medici Riccardi, stabilisce un legame politico con la Spagna attraverso queste nozze: si tratta di episodi nuziali che diventano momenti particolarmente significativi nella cultura spettacolare del Rinascimento, perché all’interno di essi vediamo degli spettacoli veri e propri. Nel cortile della residenza di Palazzo Medici, chiuso da una cinta muraria merlata, esisteva un giardino di memoria medievale che era uno spazio protetto e usato con una funzione ludico-festiva. La storia dell’evoluzione teatrale ha in questo evento il suo punto di partenza: il cortile sarà considerato dagli apparatori incaricati di allestirlo in una sala teatrale come uno spazio della sala: gli apparatori, Aristotele da Sangallo con l’aiuto di Giorgio Vasari, si trovano a dover allestire e dare sembianze di teatro a questo cortile. La trasformazione del cortile in spazio teatrale Il modello ci propone un’ipotesi di costruzione: un apparente soffitto di stoffa ricopriva il vano del cortile, racchiudendolo come uno spazio concluso. I gradoni degli spettatori erano disposti ai lati del cortile per ospitare le donne, impostando la disposizione di una forma ad U della cavea, determinata dall’area rettangolare dello spazio prescelto. Alle pareti grandi quadri e tappezzerie illustravano le storie della famiglia Medici. L’ambiente era illuminato da lumiere che rappresentavano amorini con fiaccole in mano. Il duca e la corte sedevano su un padiglione collocato sul lato breve del cortile, sul lato opposto rispetto a dove era eretto il palcoscenico: erano posti frontalmente per assistere alla rappresentazione de Il Commodo, commedia di Antonio Landi. L’organizzazione della scena 50 Per le nozze si allestisce allora un vero e proprio spazio teatrale a forma di giardino. Nel 1589, sposandosi il futuro granduca Ferdinando, che sostituisce Francesco I, con Cristina di Lorena, nipote della prima regina di Francia Caterina de Medici, fa allestire nuovamente all’interno del Salone degli Uffizi un teatro, di diversa struttura ma pur sempre affidato a Buontalenti. Buontalenti coniuga gli elementi del modello teatrale antico con le nuove sperimentazioni architettoniche in una connessione tra gli spazi della rappresentazione di tipo provvisorio e le recenti sperimentazioni scenotecniche. Il teatro, essendo realizzato in un salone, mantiene di questo la pianta rettangolare e la disposizione del pubblico posto sui lati lunghi; lo spazio della rappresentazione si duplica, essendo possibile sfruttare sia la zona centrale della sala sia un enorme palcoscenico costruito in profondità. Al centro della gradinata viene posizionato il palco granducale, un palco sopraelevato posto frontale alla scena come luogo di visuale migliore, poiché in questo teatro viene posto il pavimento della sala in pendenza verso il proscenio. ➔ Questo teatro, quindi, fa proprio una sintesi dell’impostazione di una sala di memoria classica, con gli innesti della nuova tecnologia. La commedia rappresentata nel 1589 è La Pellegrina. Per questa commedia, Buontalenti porta grandi innovazioni in ambito scenografico, superando l’impostazione della scena fissa con l’introduzione della scena mutevole realizzata per mezzo di macchinari ripresi da modello dei periaktoi e uniti all’invenzione dei fondali prospettici. L’immagine della scena di città era sempre prospettica e urbana, ma estremamente diversa: non è più monofocale ma trifocale, ci sono 3 prospettive. Per i singoli intermedi, invece, Buontalenti progetta cambi di scena complessi ed elaborati. ➢ Il 1589 diventa l’episodio simbolo per l’evoluzione seicentesca del teatro europeo: non ci sarà scenografo e architetto che non guarderà a questo episodio come modello. Ognuno dei 6 intermedi metteva in scena un’azione drammaturgica a se stante: ognuno rappresenta un certo episodio. Lavorando su temi mitologici tratti dal mondo classico, l’architetto Buontalenti e il letterato Bardi predispongono una macchina attrezzata con botole sul pavimento, argani che consentissero cambi di scena e stupefacenti soluzioni tecnologiche che sono l’esito conclusivo di quelle tecnologie che Firenze aveva visto realizzati quasi due secoli prima da Filippo Brunelleschi. ➔ Tutti questi meccanismi erano realizzati per gli intermedi, non per la commedia che presentava invece una scena fissa. Per la prima volta abbiamo una documentazione molto ampia di questo spettacolo: abbiamo i bozzetti per i costumi scenici, con le indicazioni sul nome del personaggio che li doveva indossare. Inoltre, si possono capire i meccanismi che consentivano alcuni movimenti, come la discesa di alcune nuvole. Essi sono i primi bozzetti di costumi scenici nella storia del teatro italiano. Alcuni decenni dopo, infatti, la trattatistica seicentesca descrive le macchina di discesa e di cambi di scena che presumibilmente già Buontalenti aveva utilizzato a Firenze. 51 Costumisti e allestitori successivi come Inigo Jones recuperarono e presero ispirazioni da questi bozzetti di costumi scenici per gli spettacoli successivi. Il teatro mediceo resta aperto fino agli anni ‘40 del 1600, e la documentazione su di esso diventa sempre più ricca e articolata IL SEICENTO - Verso l’edificio teatrale vero e proprio È il 1600 che porta a nuove strade, matura gli esiti sulla riflessione dell’istitutio e reinventio del patrimonio classico e diventa una drammaturgia tutta costruita su quegli esiti visti nel teatro di corte del 1589 nella città di Firenze. L’episodio è stato determinante e dura nello spazio di 50 anni; esso è sempre un luogo teatrale, è un teatro che rimane permanente ma che nasce dall’allestimento di una sala in origine destinata alle assemblee dei magistrati, ed è il primo esempio di teatro di corte stabile. Diventa una sala esclusivamente riservata alla rappresentazione teatrale. Il salone dei Cinquecento che lo aveva preceduto rappresentava invece il passaggio dal luogo teatrale a questa definizione di teatro, poiché solo temporaneamente fu allestito per la rappresentazione teatrale, per poi tornare a svolgere le funzioni di origine. La sperimentazione tecnologica di Buontalenti e dei seguaci interesserà tutti gli architetti e ingegneri seicenteschi europei, che guardano sempre a quel momento; e la scuola fiorentina, almeno nei primi decenni del 1600, sarà la scuola portante. L’esperienza fiorentina che si basava su questa grande impresa spettacolare viene quindi esportata in tutta Europa. Viceversa, anche gli architetti e ingegneri stranieri (come Inigo Jones in Inghilterra), nel loro viaggio in Italia, soggiornando a Firenze, imparano queste tecnologie e, tornando nei loro paesi, esprimono questo patrimonio e lo ripensano, producendo degli eventi che sono fortemente condizionati dall’esperienza della pratica scenica fiorentina. Inigo Jones ad esempio si interessa soprattutto alla costumistica, e riprende i costumi che aveva visto e copiato. Questo aspetto tecnologico vedrà una prima e unica codificazione in una sorta di manuale che sarà edito a Venezia per opera di un ingegnere e architetto di Urbino, Niccolò Sabatini, che dal 1637 dà alle stampe tutti i segreti tecnologici della scena. Nel suo trattato porta a compimento un’esperienza di pratica scenica: è come se fornisse una sorta di manuale di istruzione per montare macchine, palcoscenici.. Queste macchine si ritrovano anche nei trattati di Furttenbach che, come Inigo Jones, aveva fatto visita a Firenze e aveva riportato l’esperienza teatrale e scenica fiorentina in Germania; egli, alla fine del 1600, nel suo trattato si riferisce alla tecnologia fiorentina usando un lessico italiano e spiegando in tedesco macchinerie e organizzazioni di palcoscenico. ➢ Il 1600 sarà un secolo attraversato dalla definizione di codici architettonici, costumistici e scenografici che proprio tra la fine del 1500 e il 1600 sono arrivati a pieno compimento e maturazioni, e che vedrà un lento avvicinamento ad un nuovo progetto teatrale, ovvero un edificio in grado di ospitare tutto questo. 52 I percorsi, però, non sono mai lineari,ma ci sono molte sperimentazioni intermedie che consentiranno il lento avanzamento verso una sperimentazione di un edificio. LE SOLUZIONI INTERMEDIE ● TEATRO FARNESE - Parma (1617-18) Agli inizi del 1600 l’esperienza fiorentina continua, ma nel 1618 a Parma Ranuccio I, il duca di Parma e Piacenza, per festeggiare la sosta di Cosimo II de Medici a Parma, che aveva programmato un viaggio per visitare a Milano la tomba di San Carlo Borromeo, vuole costruire un teatro all’altezza della situazione fiorentina proprio nel suo palazzo, il Palazzo della Pilotta, la residenza della famiglia ducale dei Farnese. Commissiona quindi ad un architetto di Ferrara, Giovan Battista Aleotti detto l’Argenta, la costruzione di un teatro. ➔ Si tratta di uno dei maggiori esempi di luoghi teatrali permanenti costruito dentro il palazzo nobiliare, proprio come il Teatro Mediceo di Firenze. Il progetto di questo teatro, affidato a Aleotti, si colloca tra il 1617 e il 1618, e il suo impianto è strutturalmente collocabile tra l’impostazione degli spazi rinascimentali e quelli della futura sala barocca: conserva la disposizione degli spettatori sulle gradinate ai lati della sala, ma la grande novità è la costruzione di un grande palcoscenico. All’interno di questo palazzo c’era un enorme ambiente, la Sala d’Armi, dove si praticava il gioco della pelota basca, e che dà il nome al palazzo. L’azione scenica si estende per la prima volta nell’enorme palcoscenico che crea una netta frattura tra il luogo della rappresentazione e il luogo della visione. Il proscenio monumentale era di tipo classico, con nicchie originariamente decorate da statue in stucco, e separa il palco dalla cavea. La profondità del palcoscenico, con 40 metri di lunghezza e con un’apertura di 12 metri, era provvisto di quinte e attrezzato con una complessità di macchine destinato a quegli effetti meravigliosi del teatro degli Uffizi. La separazione tra lo spazio della platea e quello della finzione scenica viene accentuato dall’arco scenico che inquadra l’azione; Aleotti si era ispirato al progetto di Palladio del Teatro Olimpico di Vicenza, ma per ottimizzare la visuale nei confronti del palcoscenico conferisce alla cavea una forma a U allungata, adeguandola alle imponente altezza di 22 metri del salone, sovrapponendo due ordini di gallerie composte da colonne e statue, proprio come nei teatri di Vicenza e Sabbioneta, ma con altra dimensione. ➔ Realizza un palcoscenico di una dimensione tale che apre la strada alla struttura dei teatri barocchi, concepiti per ottenere un complesso apparato di macchinari scenici. Pur essendo stato completato nel 1618, il teatro per 10 anni non viene mai utilizzato: la sua inaugurazione avviene solo nel 1628 con uno spettacolo messo in musica dal compositore Claudio Monteverdi, che comprendeva un finto torneo e diversi intermedi danzati dai nobili della corte. Nel corso dell’opera veniva allagato lo spazio antistante la cavea, per inscenare una naumachia, cioè un finto combattimento natale, di memoria romana. Era quindi un teatro concepito per una spettacolarità di pura visione. ➔ Date le dimensioni, il pubblico non poteva sentire bene la rappresentazione di una commedia, poiché la dimensione avrebbe disperso il suono: vi è quindi un passaggio 55 nuovo genere, che sarà il genere di spettacolo di grande successo che si apre immediatamente al pubblico che potrà pagarsi questo spettacolo. La Camerata dei Bardi (o Camerata Fiorentina) La Camerata dei Bardi prende il nome dal conte Giovanni Bardi, che era stato il progettista degli intermezzi di quel Teatro degli Uffizi del 1589. All’interno di questo gruppo accademico e culturale, si riflette sull’idea della musica all’interno della tragedia greca. Nel 1581 un personaggio di questo gruppo, Vincenzo Galilei, padre di Galileo Galilei, scrive un testo, Il dialogo della musica antica e moderna, nel quale afferma che la polifonia, la forma musicale in voga, era diventata ormai un elemento che apparteneva al passato e che bisognava rinnovare; quindi il musicista moderno doveva tornare a quella che lui pensava fosse l’antica monodia, accompagnata da quello che definiva il “recitar cantando”. Alcune forme di intermezzo si stavano già sviluppando verso quello che sarebbe stato poi il melodramma: erano forme in cui la musica, la poesia, la scenografia si fondevano in un unico avvenimento. ➔ La ricerca di forme teatrali musicali nuove operata a Firenze si realizza quindi nel pensiero di un ritorno all’antichità e nella riproposta di un rapporto tra la parola e la musica che questi intellettuali supponevano esistesse nella drammaturgia greca, e che volevano riportare in vita. Allora si pensava che la tragedia greca fosse un genere interamente cantato. Partendo dall’intenzione di riscoprire l’antico, quindi, si finì per creare un genere teatrale del tutto nuovo che prese il nome di melodramma. I primi esperimenti nascono sia all’interno della Camerata dei Bardi, ma portarono anche alla nascita di un’esecuzione memorabile, L’Euridice di Francesco Rinuccini, in occasione di un festeggiamento nuziale della famiglia Medici: le nozze di Maria de Medici con Enrico IV di Francia nel 1600. All’interno delle feste nuziali si sperimenta la prima rappresentazione melodrammatica che viene portata al pubblico della corte. Venezia e i teatri pubblici a pagamento Questo genere ebbe subito un enorme successo, e questo successo, in altre città italiane, porterà ad un innesto singolare: nel 1637 il melodramma esce dal chiuso delle corti ed entra invece nel circuito del teatro pubblico. ➔ Un genere drammaturgico nuovo si apre immediatamente ad un pubblico ampio che ha il piacere di vedere quelle scenografie e quelle macchine che fino ad allora erano restate al chiuso dei teatri privati. Nel 1637, per iniziativa di una famiglia veneziana, si apre il Teatro di San Cassiano, di proprietà della famiglia Tron, e che era stato in precedenza un teatro usato dai comici della commedia dell’arte: era un teatro che veniva affittato da queste compagnie che a pagamento offrivano il proprio spettacolo. A seguito di un incendio del 1629 il teatro dovette essere ristrutturato, e la famiglia Tron pensa di riutilizzare questo teatro per aprirlo a questo nuovo genere drammaturgico di 56 grande successo. Il teatro si inaugura nel 1637 con L’Andromeda con musica di Francesco Manelli, la prima opera in musica rappresentata a Venezia. A Venezia in quella data si edificano una serie di teatri esclusivamente aperti al grande pubblico, ma dove si fa esclusivamente melodramma. Si apre allora una nuova epoca che vedrà la necessità di strutturare un edificio teatrale che sintetizzi le necessità di accesso del grande pubblico, una sintesi che ha bisogno di spazi particolarmente organizzati e predisposti per questa esperienza. Il melodramma trova proprio nell’apertura dei teatri pubblici la sintesi di tutti i fenomeni precedenti. LA COMMEDIA DELL’ARTE Questo teatro è determinato da: - un cambio di mentalità - un nuovo modo di concepire la rappresentazione - un allargamento al pubblico più ampio Se per il Rinascimento si parla di sperimentazioni soprattutto all’interno delle corti per quanto riguarda il recupero di un’idea di teatro che poi si concretizza in un edificio teatrale, al di fuori dalle corti il teatro si continuava lo stesso a fare, anche nel senso di rappresentazione di un testo. La commedia dell’arte è un fenomeno che costituisce uno dei tanti generi, che abbraccia circa due secoli di storia europea e che influenzerà anche tutti i generi del teatro contemporaneo, dalla commedia letteraria al melodramma. La commedia dell’arte dilaga in tutta Europa e lascia delle influenze profonde, maturandosi parallelamente al procedere di altri generi: la drammaturgia religiosa, il teatro di corte, l’intermezzo, il melodramma. Essi sono infatti fenomeni teatrali che coesistevano nella società. Cosa vuol dire “commedia dell’arte”? La formula è relativamente tarda: il primo a usare questo nome fu un letterato giornalista, Giuseppe Baretti, che il 15 marzo del 1764 nel recensire il primo volume delle commedie di Carlo Goldoni utilizza questo termine. Questo inciso può far pensare a una sorta di neologismo, ma la sua incertezza nell’usare questo termine dipende dal fatto che per lui era inusuale: lui sembra accusare Goldoni di utilizzare un termine gergale. Il termine “commedia dell’arte”, in effetti, viene usata da Goldoni nel 1750 in una sua commedia, Il teatro comico, che si può considerare la commedia-manifesto della sua riforma drammaturgica, riforma della commedia dell’arte. Goldoni in questa commedia intendeva proporre un nuovo genere drammaturgico costruito sul carattere e sulla psicologia dell’attore, con un testo scritto e imparato a memoria dagli attori, quindi secondo modalità completamente diverse rispetto a quanto accadeva ai suoi tempi. ➔ Nel suo teatro, Goldoni simula un gioco incentrato su una compagnia di comici dell’arte, abituati ad un sistema affermato, che viene invitata dal capocomico ad 57 affrontare una nuova drammaturgia, tutta scritta e imparata a memoria, per la quale gli attori non sono pronti e che considerano una novità faticosa. Goldoni quindi usa questo termine per distinguere un genere di commedie in cui comparivano le maschere, e che erano in netta contrapposizione con la sua riforma drammaturgica: lui pensava infatti ad una drammaturgia costruita sul carattere, sulla personalità dell’attore, ma non sulla maschera. Ancora oggi “essere in arte” o “essere figli d’arte”, “avere un nome d’arte” significa esercitare il mestiere dell’attore: significa quindi svolgere una professione, far parte di una categoria e di una corporazione (come nel Medioevo l’arte della lana, l’arte della seta, una corporazione che raggruppava proprio le stesse categorie di persone che lavoravano). ➔ La commedia dell’arte, allora, è la commedia di coloro che praticano lo stesso mestiere, ovvero l’arte della recitazione. “Arte” è un termine che bisogna fare attenzione ad utilizzare: la cultura idealista con questo termine indica un’attività creativa superiore e di natura estetica, cosa che è falsa. Pur non escludendo il talento della persona che pratica arte, in realtà il termine “arte” significa esclusivamente “mestiere”: quindi corporazione di chi esercita esclusivamente un mestiere. Già il filosofo Benedetto Croce, nell’opera Intorno alla commedia dell’arte, interpreta questo fenomeno come un fenomeno professionale, come la pratica di un mestiere. Il giudizio di Croce viene poi confutato nel 1969 dall’inglese Allardyce Nicoll che nel libro Il mondo di Arlecchino la intende come concetto artistico e estetico. ➢ Sono due giudizi antitetici che possono anche avere un valore ambivalente: arte non va intesa solo come concetto di “bello estetico”, ma è legata anche alla professione. L’arte, in quanto tecnica, si basa su una serie di norme conoscitive che consentono di praticare quel mestiere. Nel corso del Seicento questi comici non si chiamano ancora “comici dell’arte”, ma venivano indicati con varie espressioni che si riferiscono soprattutto al modo della rappresentazione: - Commedia all’improvviso (o all’impronta) - Commedie mercenarie: cioè commedie vendute come merce - Commedie degli zanni: commedia praticata da una tipologia di attore, lo zanni, che ebbe grande successo e che era il tipo, la maschera intorno al quale ruotava la drammaturgia - Commedie a soggetto - Commedie degli istrioni IL TEATRO DIVENTA UNA PROFESSIONE La novità sta proprio in questo: chi la pratica, la pratica per professione. Mentre prima, ad esempio con i giullari, il teatro era un momento di svago e di divertimento, ed era quindi praticato da dilettanti, qui diventa una vera e propria professione. 60 da una locanda in prossimità della zona portuaria di Firenze. Questa locanda documenta quindi la presenza di un teatro stabile per i comici dell’arte. I documenti testimoniano anche qui un sistema di controllo che prevedeva il pagamento dell’affitto a vantaggio di un ospedale, secondo una pratica ormai diffusissima in tutta Europa, secondo la quale l’elemosina riabilita il peccatore (cioè l’attore). Era quindi un’usanza documentata ovunque. L’ORGANIZZAZIONE INTERNA DELLE COMPAGNIE Questo nomadismo porta ad organizzare in maniera specialistica e con una costanza il gruppo di attori. Il teatro di professionisti nasce per trovarsi un lavoro, ma anche dalla necessità di strutturarsi, di stare insieme, di affrontare questi viaggi e poter essere in grado di offrire uno spettacolo fondato sulla solidarietà, su un gruppo che condivide non solo gli aspetti materiali della vita, ma anche una modalità di fare teatro in cui era necessario che ci fossero certi attori che svolgevano certe tipologie di maschere, e che quindi formassero un gruppo, una compagnia solida. Queste compagnie dovevano essere basate su regole di rispetto costituite da diritti e doveri che consentissero al gruppo di rimanere saldo fino a tutto il periodo in cui durava questa stagione teatrale. ➔ Per far sì che questo gruppo non si sciogliesse, bisognava creare un vincolo, che si crea attraverso un atto legale, cioè la costituzione di un contratto stipulato davanti ad un notaio, che fonda una piccola società in cui interessi reciproci possono essere portati avanti nel pieno rispetto di una serie di norme. Al 1545 risale la prima compagnia di attori, ma essa è solo la prima testimonianza che possediamo di un contratto stipulato da una compagnia di attori. L’atto notarile, trovato alla fine del 1800, è conservato nell’archivio notarile di Padova ed è l’atto di una compagnia che un gruppo, capeggiato da un capocomico, stipula davanti ad un notaio di Padova. Si stabilisce di restare uniti, di seguire la volontà del capocomico, di non abbandonare la compagnia, di sostenere le eventuali difficoltà del singolo, di condividere il denaro solo alla fine della stagione teatrale.. Perché stabilire i contratti di associazione? - per motivi di sopravvivenza all’interno di quel grande movimento di migrazione che portava a dover organizzare e selezionare i luoghi - per distinguersi dalla grande massa di saltimbanchi che venivano percepiti nel XVII secolo come aspetti di uno stesso fenomeno Gli stessi attori mostravano un certo disprezzo per i livelli più bassi come quelli dei saltimbanchi intesi come venditori di spettacolo e artifici giusto per attirare con spettacoli di bassa qualità il pubblico. LE FONTI CHE DOCUMENTANO LA COMMEDIA DELL’ARTE La commedia dell’arte è uno dei fenomeni meglio documentati della storia del teatro occidentale: ha lasciato infatti molte documentazioni, tra cui un corpus iconografico esteso e fonti testuali di vario tipo. 61 - poesie in lode delle attrici (la donna entra nelle compagnie) - scritti di condanna dei religiosi che colpivano questa drammaturgia con l’accusa di scarsa moralità - scritti dei comici, materiali che stanno emergendo in questi ultimi decenni negli archivi e che mostrano ad esempio i rapporti tra questi attori e i committenti - scritti teorici che la seconda generazione di comici dell’arte scriverà in difesa della propria arte Altre fonti sono anche gli scritti drammaturgici; i testi drammaturgici, però, non erano testi dialogici con battute e didascalie, ma erano solo una traccia, una scaletta narrativa composta solo da appunti e didascalie che formano una sorta di riassunto di quello che dovevano portare in scena. Ricostruivano cioè lo scheletro della vicenda. Il canovaccio indica lo straccio da cucina fatto da una tela a trame larghe: la traccia drammaturgica è proprio uno scheletro delle indicazioni nel quale si può costruire ciò che si vuole. Uno scheletro della scena narrativa che contiene delle tracce sulle quali gli attori improvvisano: nel canovaccio era indicato solo quello che gli attori dovevano fare in scena. LA COMMEDIA DELL’ARTE LE FONTI TESTUALI E LE FONTI ICONOGRAFICHE Le fonti sulla commedia dell’arte sono quindi moltissime: si tratta infatti di uno dei fenomeni meglio documentati per la storia del teatro. Il corpus iconografico è molto esteso, con documenti di varie tipologie e che risalgono più o meno agli anni ‘70 del 1500. Le fonti testuali sono di vario tipo: le poesie in lode degli attori/attrici, i sonetti, i necrologi, le stesse scritte di condanna dei religiosi. Ci sono poi anche gli scritti dei comici stessi: lettere, suppliche, materiali che stanno emergendo negli archivi e che ci confermano le relazioni tra queste compagnie e principi, segretari, personaggi che potevano dare loro la possibilità di portare i loro spettacoli anche all’interno dei loro teatri privati di corte. Ci sono poi gli scritti teorici dei comici: molti degli attori della seconda generazione delle compagnie dell’arte, quelle dei primi decenni del 1600, dettero alle stampe i propri materiali drammaturgici come un riscatto della propria professione. Dare alle stampe uno scritto personale significa entrare nel rango dei letterati e distinguersi da quella massa di attori di strada con i quali spesso venivano uniti nell’immaginario collettivo. Ci sono quindi anche altri tipologie di materiali: prologhi, i generici, quei cavalli di battaglia di ogni singola maschera che gli attori davano alle stampe per lasciare traccia di un loro mestiere. Ci sono poi le scalette drammaturgiche: i canovacci, testi drammaturgici non regolari ma su cui imbastivano l’azione drammaturgica. C’erano anche i contratti notarili, accordi per la stipulazione di diritti e doveri, regole del vivere e della professione stipulati tra gli attori stessi. Molto numerose sono anche le fonti iconografiche, cioè tutta una serie di immagini che fin in età tarda ci documentano immagini di comici dell’arte ben identificabili attraverso costumi scenici e maschere, ma ritratti su un semplice palcoscenico in una piazzetta, quindi 62 identificati in una ciurma di ciarlatani che nel XVIII secolo continuavano a fare spettacoli di bassa levatura nelle piazze. Le primissime testimonianze iconografiche sono contenute in due raccolte: nel 1550 una bottega di artisti aprì una propria attività vicino a un celebre teatro dove recitavano comici dell’arte. Essi erano specializzati nel comporre un disegno su tavole di legno che successivamente venivano scolpita da incisori; ebbero una composizione molto varia e verso il 1580, quando le incisioni iniziarono a vagare per l’Europa, a Parigi erano già passate compagnie dell’arte. Proprio in quegli anni appaiono i primi documenti iconografici realizzati da questa bottega. ● Raccolta Fossard: conservata nel Museo Nazionale di Stoccolma. Fossard, grande appassionato di spettacolo, aveva iniziato a raccogliere questi disegni e stampe, suddividendole e organizzandole, e poi un architetto svedese aveva tentato più volte di acquistarla senza successo. Furono poi acquistate dal figlio tra il 1738 e il 1742. Questa raccolta è stata recentemente identificata come prodotta da una bottega italiana, la bottega romana di Lorenzo Baccaio, ispirata a una piccola compagnia ancora a metà tra i ciarlatani e gli attori: gli spettacoli sono scenette violente, rapide, comicamente volgari che sono le tracce di un primo periodo di compagnie erranti ancora legate alla ciarlataneria di strada. ● Seconda Raccolta Fossard: questa seconda raccolta, uscita da quella bottega francese, è composta da 16 incisioni relative a uno spettacolo di comici italiani che hanno ricostruito la trama di una commedia. Il tema riguardava le disgrazie amorose di Arlecchino innamorato di Franceschina. Ci sono alcune didascalie in italiano e francese che illustrano l’azione scenica: sono azioni comiche, volgari, pesanti. Le didascalie sono anche relative al nome d’arte degli attori che formavano questa compagnia. Alcuni sostengono che si tratti della più antica compagnia dell’arte che conosciamo, quella dei Gelosi, che raggiunsero una certa fama e che furono immortalati in una sorta di album fotografico in queste illustrazioni francesi. Questa capacità informativa delle istruzioni è basata sia sull’illustrazione sia dalle didascalie. I costumi scenici sono già codificati: si vedono i costumi pezzati identificatori dell’Arlecchino che entra nella fama europea del tempo. Sala dei buffoni in Austria, 1578 testimonia la presenza nel castello di Trausnitz di una compagnia italiana di comici dell’arte. Questa scala reca tutta una pittura alle pareti molto interessante sia come testimonianza della memoria di questa compagnia comica passata e rimasta a lungo nel castello, sia per la freschezza dei colori e per l’originalità. Riportano inoltre degli sketch drammaturgici significativi della drammaturgia di questa compagnia. Altre fonti sono per esempio i ritratti lasciati dagli attori di se stessi, come il Ritratto di Giovanni Gabrielli detto il Sivello, realizzato da Agostino Carracci. LE TIPOLOGIE DEGLI ATTORI DELLA COMMEDIA DELL’ARTE 65 Abbigliamento: il costume non era rigorosamente stabilito perché era una caricatura del costume militare. I CANOVACCI La commedia dell’arte è quindi una drammaturgia che trova la sua corrispondenza con una tipologia di gruppo compositivo di attori; era quindi una drammaturgia costruita esclusivamente sull’attore, che riesce a inventare la trama scenica appoggiandosi sulla traccia di uno scenario, di uno schema. Il canovaccio era una traccia narrativa, una traccia che veniva elaborata proprio per rammentare agli attori le azioni principali, ma non per indicare delle battute, dei dialoghi, dei prologhi: dava soltanto l’idea di che cosa si dovesse fare. ➔ Abbiamo una testimonianza di un canovaccio, dato alle stampe dall’attore Flaminio Scala in arte Flavio (faceva l’Innamorato), che ad un certo punto della sua carriera, proprio perché si trattava di una drammaturgia tratta da qualsiasi tipo di commedie, tragedie, favole pastorali, storie o memorie, rivendica il suo diritto al copyright e dà alle stampe i suoi canovacci. Si tratta dell’unica edizione a stampa nel 1611. Tutte le altre superstiti sono dei manoscritti, anche difficili da comprendere. Il canovaccio in questo testo indica la composizione, la presenza di quelle parti fisse, e poi venivano fissati gli elementi necessari di “arredo” alla messinscena: valigie, cesti.. Il testo è di difficile comprensione: non si comprende chi pronuncia certe frasi, delle vicende si racconta solo la trama e le indicazioni di quello che sta succedendo. Si tratta infatti di testi costruiti sullo scheletro della vicenda, non sulla parola scritta e sui dialoghi: è riportato solo il contenuto del dialogo. Di sera in sera, quindi, gli attori potevano costruire il senso del discorso utilizzando parole e frasi completamente diversi. Il canovaccio era solo una struttura di appoggio, sulla quale ogni attore costruiva la sua parte. Il generico e i lazzi Il “generico” è il repertorio adatto ad una parte: un patrimonio costruito in modo che chi sostiene quella parte deve agire ricordando letture, frasi, indovinelli, canzoni adatte a quella parte, che lui memorizza come suo bagaglio e che tira fuori nel momento dell’azione scenica secondo una sua estemporaneità di decisione, secondo come risponde il pubblico. ➔ Il generico era quindi una struttura di appoggio fondamentale perché era la raccolta dei lavori del singolo attore che redigeva una specie di catalogo di temi relativi a situazioni, e poteva poi alimentare in modo sempre nuovo. Altri strumenti importanti per gli attori erano i lazzi: la vicenda narrata faceva uso di questi momenti scenici definiti lazzi, che sono degli scherzi, delle scenette. Lazzo ha un’etimologia incerta: può voler dire “laccio”, o “azione”, “laccio” cioè uno scherzo che serve da gancio tra un’azione drammaturgica e l’altra, un sistema per catturare l’attenzione del pubblico. Erano frammenti comici, che servivano a dare una pausa alla scena, che servivano per cambiare o per dare tempo all’azione scenica successiva. 66 L’IMPROVVISAZIONE DEGLI ATTORI L’improvvisazione era un’abilità che permetteva all’attore di inventare gli scherzi e l’intero dialogo all’interno delle commedie. In realtà, sicuramente era una tecnica che si opponeva a quella premeditata, cioè recitata a memoria: è una tecnica sicuramente innovativa per il tempo, quindi si potrebbe pensare che l’assenza di un testo scritto avrebbe evitato all’attore l’obbligo della recitazione. L’improvvisazione, però, era la base di una tecnica recitativa che implicava una perfetta memorizzazione di quei generici, di quel repertorio molto ampio che definiva il tipo fisso. Sulla struttura del canovaccio, gli attori innestavano questo bagaglio, ma dando l’impressione di improvvisazione, tirando fuori secondo l’occasione parte di quel bagaglio che avevano memorizzato e che in scena si allenavano ad utilizzare. Senza imparare a memoria, la recitazione era il frutto di un proprio training che li abituava a costruire di volta in volta le proprie parti. ➔ Loro imparavano a ripetere battute e dialoghi a seconda di un insieme di fattori: a seconda del rapporto con l’altro attore, a seconda del ruolo e del pubblico che avevano di fronte. In questo modo erano in grado di costruire lo stesso spettacolo con diverse varianti. Dovevano inoltre rendersi comprensibili a pubblici che utilizzavano lingue diverse: era quindi essenziale che certi gesti e battute fossero interscambiabili. LA FIGURA DI ARLECCHINO Arlecchino è un nome d’arte che fu reso famoso da Tristano Martinelli: egli era un attore nato a Mantova e morto a Mantova nel 1630. Aveva trascorso tutta la sua giovinezza a seguito del fratello Drusiano facendo l’acrobata e recitando parti comiche; probabilmente era presente a Parigi negli anni 1584-85, forse portando per la prima volta questo nome d’arte di Arlecchino. Questo nome viene utilizzato da Tristano proprio nelle sue tournée a Parigi, utilizzando un nome che era di una figura demoniaca di origine nordica, ritenuta adatta a individuare il suo personaggio comico. Lui prende allora il nome di Arlecchino, conduce una vita tra Italia e Francia e nel 1601 viene nominato come capocomico per le nozze di Maria de Medici e Enrico IV di Francia. In quell’occasione compone la sua unica opera a stampa, che è un libro composto per lo più da pagine bianche con qualche xilografia, che dà alle stampe con il titolo Compositions de Rhétorique. Il libro è singolare perché contiene 70 pagine per lo più bianche, con alcune incisioni che lo ritraggono con altri personaggi come il Capitano, il Magnifico, altri personaggi della commedia dell’arte: è un vero proprio testo arlecchinesco dedicato a Maria de Medici, testo che lo rende famoso. Dal 1618 risiede per lo più a Mantova, dove acquista un mulino e termina la sua vita nel 1630, lasciando una bella eredità sia materiale (aveva molti fondi), sia come memoria storica: molti furono gli attori a riprendere il nome d’arte Arlecchino. Alla fine del 1800, nel 1862, Georges Sand dà alle stampe il suo testo Masques et Bouffons, che rappresentava i personaggi delle commedie dell’arte, le maschere che sono ormai da noi 67 ampiamente adottate ma che sono l’estrema tipizzazione di un’immagine che all’inizio aveva molte varianti. LA COMMEDIA DELL’ARTE IN FRANCIA La documentazione iconografica è molto ampia, per lo più francese. La Francia fu la seconda patria della commedia dell’arte, e questo non solo ci testimonia la diffusione del fenomeno in Europa, ma anche l’affermazione di queste compagnie che in Francia trovarono un teatro stabile e fino alla fine del 1700 videro teatrini dove si recitavano questi tipi di commedie. Inoltre, sta anche a testimoniare la funzione politica- diplomatica delle compagnie attoriche: l’innesto di queste compagnie al servizio delle varie coorti, ha funzionato storicamente come un collante culturale, in quanto veicoli di un messaggio di alto valore simbolico, usati come strumento di governo e di unificazione politica. Esse costituirono proprio un sistema di costruzioni e di reti ad esempio tra principi e segretari politici italiani con quelli stranieri. I rapporti tra Maria de Medici e la sua corte, ma anche in altre, ci porta a rilevare come nel 1600 le compagnie dell’arte non solo erano ampiamente affermate, ma avevano trovato anche una sorta di stabilità e di protezione presso alcune dinastie, tanto che nel 1600 si trovano ad esempio la Compagnia del duca di Modena, una compagnia al servizio del Granducato Fiorentino ecc. Il fatto di diventare una compagnia “residenziale”, ma pur sempre itinerante, consentiva a questi gruppi la circolazione continua, la possibilità di farsi conoscere, di stabilire relazioni diplomatiche per il proprio mecenate o principe, quindi di ampliare anche il pubblico. In particolare a Parigi fin dal 1614 la compagnia di Tristano Martinelli prende in affitto la sala dell’Hotel de Bourgogne (un teatro appartenuto alla Confraternita della Passione che lo affittava ai comici italiani). In breve tempo, la compagnia italiana a Parigi diventa famosa come “Commediante del re”, proprio per la protezione e il favore che i re francesi gli avevano concesso. Gli attori italiani nel 1600 in Francia formarono una vera e proprio colonia culturale e influenzarono fortemente anche drammaturghi come Molière, che aveva come modello Scaramuccia. Nel corso del XVII secolo e anche nel XVIII, l’emigrazione dei comici in Francia divenne un fatto molto importante. Si formarono nel teatro degli italiani a Parigi molti attori, nacquero per il pubblico francese esclusivamente alcune maschere, e continua ad esserci quell’Arlecchino importato in Francia da alcuni attori. Proprio a queste compagnie che diventano importanti a Parigi e in forte rivalità con le compagnie locali francesi, però, succede che ad un certo punto, nel 1697, dopo varie generazioni di comici dell’arte italiani francesizzati, durante la messinscena della commedia ispirata alla figura dell’amante di Luigi XIV, l’attore italiano Angelo Costantini fece delle pesanti allusioni con le sue buffonerie da Zanni, allusioni all’amante che risultarono sgradite al re, chiuse il teatro dei commedianti italiani e li cacciò. 70 Il teatro diventerà poi un edificio che corrisponde alle aspettative dello stesso sistema politico e culturale della città stessa. IL TEATRO DELLA PERGOLA A FIRENZE È un teatro storico di Firenze, uno dei più antichi e più ricchi di storia di tutta Italia. Esso è il primo grande esempio di sala all’italiana che fu eretto con una struttura lignea nel 1656 da Ferdinando Tacca, figlio dello scultore Pietro Tacca, su incarico dell’Accademia degli Immobili presieduta da sostegno economico del cardinale Giovan Carlo de Medici a partire dal 1652. Viene inaugurato durante il carnevale del 1657 con la prima assoluta dell’opera Il podestà di Colognole di Jacopo Melani. Nel 1658 continua ad aprirsi ad altre rappresentazioni, pur non essendo terminati i lavori di costruzione, che terminano nel 1671, quando il teatro celebra le nozze del futuro granduca Cosimo III con Margherita Luisa d’Orleans con lo spettacolo L’Ercole in Tebe di Jacopo Melani. ➔ Alla fine del 1600, Firenze è la città in cui il sistema spettacolare di corte aveva visto l’evoluzione all’interno della residenza familiare, con le tappe che portano al teatro di corte e poi a questo tipo di teatro, tappe che vedevano negli eventi spettacolari festivi, soprattutto nuziale, i loro momenti focali. E proprio alla fine del 1600 la rappresentazione teatrale proposta per celebrare ancora i festeggiamenti nuziali, esce dalla dimora granducale per entrare in un teatro vero e proprio: non in una sala apparata a teatro, ma in un nuovo edificio teatrale. La struttura del teatro Esso è considerato il primo grande teatro a ordini di palchi sovrapposti, mentre fino ad allora si era sempre seguita la tradizione delle gradinate semicircolari o delle sovrapposizioni di ordini in quei teatri per tornei. Si sperimenta per la prima volta anche la forma ovale della platea, una forma di maggior resa acustica. Il teatro era in struttura lignea, dorato e dotato di un ampio palcoscenico, con un elegante arco scenico, e gli ordini di palchi erano 3: essi erano in realtà una loggia che sosteneva tre ordini di gallerie suddivise da tramezzi che ricordano molto certe sperimentazioni dell’organizzazione dei teatri a torneo. Quindi una loggia che si apre sulla platea ma che sostiene tre ordini di gallerie, che sono ancora non palchetti veri e propri ma settori delimitati da balaustre che tenevano separato il pubblico. Al centro della sala si affacciava il palco con il trono del cardinale protettore, Giovan Carlo de Medici. Questa novità dei palchetti fu molto apprezzata, quindi diventa un modello da seguire e da continuare a mantenere in vita, tanto che nelle successive trasformazioni del teatro sarà proprio questo spazio che tende a perfezionarsi. I successivi cambiamenti ● 1688: con la chiusura del colonnato sottostante, si ricava un quarto ordine di palchi, e il teatro inizia ad acquistare sempre di più la struttura del teatro a palchetti. 71 ● Nel 1700: il teatro è destinato ad ulteriori migliorie, con interventi di architetti famosi, tra cui Antonio Galli Bibbiena, uno degli appartenenti a una grande dinastia di scenografi che ha costruito quasi tutti i teatri europei di quel secolo. ● Ad un certo punto, il teatro da struttura lignea diventa un teatro a muratura: i pericoli dell’illuminazione, ancora affidata al fuoco delle candele, porta ad un progetto di miglioramento strutturale e di consolidamento. Non molti accetteranno tra i teorici la costruzione di edifici a muratura, per problematiche di acustica. ● 1912: il quarto e quinto ordine vengono demoliti per creare un grande loggione, ma lasciando gli altri tre ordini. ● Nei secoli si sono aperti altri saloni laterali per adattare nel tempo il teatro a delle funzioni sociali di intrattenimento e di raccolta di pubblico per funzioni non solo legate alla rappresentazione, ma di incontro, di scambio: nel tempo il teatro stesso all’italiana, ampliandosi nelle strutture, diventa un luogo di incontro della società delle varie categorie che possono usufruire anche di spazi usati ad esempio per il gioco, il gioco del biliardo, il ballo, la musica.. ● Il teatro nel 1900 era passato di proprietà all’Ente Teatrale Italiano e poi dal 2010 era un teatro sotto la tutela dello Stato. È quindi un teatro storico che, proprio per essere rimasto così poco trasformato, è da ritenere uno dei modelli seicenteschi e settecenteschi. La maggior parte dei teatri costruiti tra 1700 e 1800 risponde proprio al modello del Teatro all’Italiana, di cui il Teatro della Pergola era il più noto. Tutti gli edifici realizzati in Europa tra il 1700 e il 1800 trovarono proprio nel modello italiano un riferimento che porta ancora oggi a considerarlo il modello fondamentale: nel 1600 si impone una struttura architettonica di un edificio che nasce da mutate esigenze di fruibilità dello spettacolo, dal grande successo dell’opera in musica e che poi nel 1700 sarà l’espressione di una funzione del teatro diversa per la società. Se la disposizione degli spettatori in questo teatro all’italiana resta per lo più invariata, muterà profondamente la destinazione della sala, che diventa un incontro sociale destinato a ospitare ogni genere di manifestazione, e non solo la rappresentazione. Ogni città allora costruisce il proprio teatro. La partecipazione di un pubblico sempre più vasto imporrà poi la definizione di settori, con diversi ordini di posti (posti d’onore, logge, palchi, posti comuni per la piccola borghesia in platea..). Questa tipologia si afferma proprio perché capace di soddisfare le nuove esigenze di rappresentanza della nascente borghesia, che nel 1700 e 1800 trova il suo punto di riferimento. LE SPERIMENTAZIONI TEATRALI NEL 1700 Nel 1700, il Teatro all’Italiana a palchetti diventa un edificio molto significativo e quindi ci sarà la necessità di costruire all’interno delle città degli edifici, soprattutto in muratura. Si tende a costruire ambienti sempre più grandi e solidi, e si va ad abbandonare la pianta a U allungata: essa era studiata per contenere un pubblico numeroso ed era adatta a iscriversi a 72 una base rettangolare, ma avrebbe creato difficoltà al pubblico per la disposizione dei palchetti (la visione laterale non è infatti ottimale). ❖ TEATRO FILARMONICO (Verona) Il Teatro Filarmonico è un esempio di teatro con pianta a campana: ricostruisce la forma a campana con l’apertura corrispondente all’imboccatura dell’arco scenico. Questo schema è stato reso celebre dalla famiglia di scenografi Bibiena. Verona necessitava di un teatro stabile, di cui era sprovvista, quindi su iniziativa di un marchese si decide di costruire un edificio teatrale affidandolo a Francesco Galli Bibiena. I lavori iniziano nel 1716, durano per 13 anni e portano alla definizione di questa sala. Il teatro in principio era concepito con questa pianta a campana, con 5 ordini di palchi molto decorati che avevano la caratteristica di essere degradanti verso il palco, per dare una buona visuale a tutti gli spettatori. Dopo un incendio nel 1749, tuttavia, subì delle modifiche: venne ridotto il proscenio chiudendo le aperture laterali, e si aggiunsero i palchi di proscenio, eliminando la caratteristica degradazione originale (i palchi di proscenio sono quei palchi che si aprono direttamente sul palcoscenico). Questa pianta a campana era anche detta “eufonica”, cioè era considerata adatta per recepire bene la voce e il suono dal palcoscenico, ma fu anche il bersaglio di molti teorici, che prendevano in giro questa forma. ● Teatro Comunale (Bologna) ● Teatro Scientifico (Mantova) Questo è un altro esempio molto particolare, realizzato da un altro appartenente della famiglia Bibiena. In questo teatro si stava sintetizzando un’idea di teatro a palchetti ma che ricorda in un certo modo una partizione dei loggiati, cioè dei cortili di memoria rinascimentale: è quindi un teatro settecentesco decisamente all’italiana, ma che ricorda soluzioni precedenti. I vari ordini di loggiati sono sostenuti da una sorta di galleria al piano che è molto simile alla galleria del Teatro della Pergola. ● Teatro Regio (Torino) Altro esempio di modifiche del teatro all’italiana è quello definito a pianta ellittica: la pianta ad ellisse troncata si ottiene disegnando un’ellisse troncata ad un terzo della sua estensione con la linea di proscenio. Il Teatro Regio di Torino, costruito da Benedetto Alfieri, è un esempio di pianta di buona visibilità del palcoscenico: i palchi, infatti, sono ben impostati verso la scena. ● Teatro San Carlo (Napoli) Tra il XVIII e il XIX secolo si afferma invece quella che si chiama pianta a ferro di cavallo: essa è una pianta che rispetto a quella a campana subisce un lieve restringimento del boccascena con la curvatura verso l’interno. In questo tipo di edificio, invece, si amplia la profondità del palcoscenico e si alza la capienza del retropalco per ospitare macchinerie sempre più complesse. 75 degli scenari, ai generici ormai collaudatissimi perché impostati sulla conservazione della drammaturgia dei luoghi, e le compagnie erano rimaste legate a dei cliché che non consentivano una maturazione artistica. Le compagnie dei comici dell’arte, in realtà, avevano limitato il loro repertorio alla prosa comica, ma accanto alle maschere, gli attori erano specializzati anche in recite di diversa natura, come tragedie pastorali, canto e musica: si erano formate anche compagnie miste, e accanto agli attori del canovaccio c’erano anche attori in grado di abbracciare anche l’altro genere in gran voga, cioè il melodramma. LE PRIME RIFORME ATTUATE DAI LETTERATI A causa di tutto questo, furono molti i letterati che tentarono di proporre i primi germi di una riforma che riguardava il teatro di prosa comico, la tragedia e anche il melodramma. ➔ Ad un certo punto del 1700, la riforma teatrale diventa assolutamente urgente e porta gli intellettuali e gli uomini di lettere a prendere atto anche di quali sono le cause di questo rallentamento di sviluppo della drammaturgia italiana. L’ascesa del melodramma aveva evidentemente travolto tutti i generi di spettacoli, ed era diventata una forma di spettacolo che si era imposto ovunque, sia nell’ambito delle corti sia nei teatri pubblici a pagamento fin dal 1637 a Venezia. All’interno di questo clima, furono proprio gli intellettuali a maturare delle imprese di rinnovamento; essi, inoltre, presero atto dell’opportunità di recare un proprio contributo per il rinnovamento del concetto stesso di cultura, e decisero di assumersi il compito di portavoci di un nuovo ruolo civile nella società del tempo. Le novità che caratterizzano il secolo, quindi, sono contraddistinte da una tendenza di movimenti culturali che passano dalla speculazione filosofica e scientifica alle problematiche concrete riguardo all’economia, l’amministrazione e i problemi della società: si fa avanti un nuovo modo di concepire l’uomo all’interno della società e una tendenza a voler tradurre in pratica queste riflessioni. ➢ Per quanto riguarda il teatro, il percorso di riforma e di rifondazione del teatro inizia proprio quando si prende coscienza che esso può diventare un veicolo di comunicazione sociale: il teatro stesso inizia a riflettere sulla realtà sociale, si pone degli interrogativi e diventa per l’intellettuale uno strumento adatto per la comunicazione non soltanto artistica ma anche etica, morale e filosofica della società. Gli illuministi, quindi, sottolineano la necessità di: - dare al teatro il compito di riflettere sulla società contemporanea - cambiare le regole dei generi drammaturgici, puntando ad una drammaturgia rinnovata - dare una coscienza critica allo spettatore - riflettere sui confronti pratici dell’allestimento scenico e della recitazione, ma anche sul ruolo svolto dall’attore stesso Nasce quindi la nuova civiltà teatrale moderna. 76 La storia delle riforme del 1700 si può suddividere in 2 grandi periodi: ● Prima metà del 1700: si riformulano e si riflette sulla definizione dei generi drammaturgici e quindi sulla necessità di uno svecchiamento. ● Seconda metà del 1700: ci si occupa soprattutto della teorizzazione, dell’architettura e dell’organizzazione. Nel cuore della città, l’edificio teatrale era diventato un centro polifunzionale dove il pubblico di varie classi sociali ha la possibilità di incontrarsi, usare una sala per il ballo, una in cui fare affari, una in cui dedicarsi al gioco.. Nel 1700, quindi, si punta a una progettualità concreta: gli intellettuali individuano in questi spazi architettonici lo spazio per mutare la mentalità del pubblico e proporre il teatro con una funzione sociale e di comunicazione che non aveva mai avuto. ➔ Le riforme, quindi, vengono attuate nell’ottica di una funzione civile del teatro. E il soggetto a cui viene rivolto questo pensiero non sarà più l’aristocrazia, la corte cinquecentesca e il chiuso elitario, ma il nuovo modello di pubblico al quale tutto questo pensiero si rivolge, cioè la nuova classe in ascesa, la borghesia, che diventa l’oggetto stesso speculare del teatro. Questo non sarà solo un fenomeno italiano: ogni area culturale punta su una concezione del teatro e della professione al servizio di una diversa speculazione. Ad esempio dal punto di vista tecnico dell’attore sarà la Francia ad assegnargli un ruolo culturale e sociale rinnovato, perché si inizia ad indagare anche sulle tecniche stesse: questo vuol dire vedere nell’attore un artista, riconoscergli un’autonomia che ne motiva la funzione nei confronti del pubblico. Quindi gli intellettuali, gli attori e i letterati escono nel 1700 da quella bolla di solitudine, di studio isolato e di pensiero elitario per affrontare una nuova società. ● LA RIFORMA DEL TEATRO IN MUSICA (il melodramma) La prima grande riforma viene attuata sul dramma in musica, che aveva avuto un successo dilagante: il grande successo di quest’opera aveva tratto tematiche e spunti dalla drammaturgia straniera per quanto riguarda il testo: aveva rimesso in musica opere spagnole e modelli tragici francesi, cioè opere redatte molto frettolosamente a vantaggio della musica e dei cantanti. Il primo vero riformatore del melodramma sarà Apostolo Zeno, un letterato e autore che si impegna nella composizione dei testi per il teatro in musica: scrive 66 opere, puntando soprattutto alla tradizione alta della tragedia e la sua fama fu immediata. Nel 1718 viene invitato a Vienna dall’imperatore Carlo VI come poeta e storiografo. ➔ La sua azione di riforma consiste nell’avvicinare il libretto a un vero e proprio testo letterario, all’insegna del recupero del testo tragico. Il riformista del melodramma più famoso, però, è Pietro Trapassi detto il Metastasio, personaggio che tenta di conciliare il testo musicale con quello poetico. La vicenda 77 personale lo vede formarsi a studi classici sempre più evoluti ma anche avvicinarsi al mondo del teatro per motivi strettamente personali, perché sposa una celebre cantante che lo induce a scrivere testi per melodrammi. Il suo più grande successo fu La Didone abbandonata del 1724. Questo successo lo porta anche alla corte di Vienna,e il suo ambiente di maturazione è quindi quello alto e imperiale, dove non poteva che lavorare su opere “serie” e spettacoli nobili. Pone quindi in musica tutti i suoi drammi all’insegna di questa alta protezione. ➢ Metastasio si pone il problema di dare una dignità artistica e un rigore morale al genere che aveva avuto grande successo ma che era stato anche screditato presso i letterati, cioè il melodramma: esso era stato caratterizzato da atteggiamenti ridicoli dei cantanti, da un genere drammaturgico incerto che mescolava il comico e il tragico, dalla sovrabbondanza della scenografia che aveva portato al piacere della visione esclusivamente legato alla macchineria e ai cambi di scena. La riforma del melodramma in Metastasio, quindi, consiste nel distinguere nettamente la poesia dalla musica, e privilegiare soprattutto il testo, facendo sì che la musica fosse un commento del testo, e non viceversa. Imposta quindi vicende su storie eroiche, dove i protagonisti sono sempre aristocratici, recuperando quindi gli eroi tradizionali della cultura classica greca. Non segue però le regole di unità aristoteliche. ➔ La riforma del melodramma, quindi, porta a recuperare questo genere tragico, a innestarlo nella novità del dramma in musica, facendo sì che le vicende che ne emergono siano all’insegna di storie che rappresentino passioni e situazioni tali, pur con personaggi elevati. La riforma di Metastasio fu dettata non dalle esigenze del letterato, ma dalla scena; la sua riforma diventa poi un riferimento. LA RIFORMA DELLA TRAGEDIA DI LUIGI RICCOBONI Proprio sull’onda del recupero della tragedia, anche questo genere fu rinnovato. Fu il marchese Scipione Maffei a costituire il punto di equilibrio e collegamento tra il passato e il futuro, e fu uno dei protagonisti del rilancio tragico del teatro del 1500 e 1600. Lui voleva recuperare le opere del passato, in particolare recupera la drammaturgia italiana. La sua amicizia con un comico, Luigi Riccoboni, lo spinge a comporre una tragedia nuova all’insegna della riforma, e la fa portare in scena; Luigi Riccoboni era un capocomico di una compagnia di professionisti che gli consente di vedere la sua opera più famosa, La Merope. Questa opera ha una vita breve, finché Luigi Riccoboni resta in Italia: egli era quel comico che agli inizi del 1700 viene richiamato in Francia dopo la diaspora dei comici dell’arte allontanati per aver offeso un’amante del re. Quando Luigi Riccoboni viene richiamato in Francia, si trova in una situazione ben diversa da quanto stava sperimentando in Italia: il pubblico francese aveva ancora molto viva l’immagine della commedia dell’arte come genere spettacolare idealizzato, e quindi quando Filippo duca d’Orleans si rivolge al duce di Parma, chiede una compagnia che fosse all’altezza della tradizione scenica italiana a Parigi. Arrivando in Francia, Riccoboni pensa che i francesi fossero interessati a cogliere il complesso movimento riformista che andava 80 filosofia dell’Illuminismo, quindi il mondo culturale veneziano entra presto in conflitto con il sistema politico, che frenava le riforme e i cambiamenti. ➔ Questo clima di ottimismo la porta ad acquisire un ruolo significativo nel pensiero innovatore italiano di forte presa sugli intellettuali e gli artisti, quindi non può non influenzare la vocazione e l’opera di Goldoni, che presenta un itinerario progressivo che fornisce tutta la matrice fondamentale per l’evoluzione della drammaturgia moderna. Tutto questo percorso viene affidato e spiegato soprattutto nei Memoirs scritti da Goldoni tra il 1783 e il 1784 a Parigi: nella biografia scritta alla fine della propria vita e a conclusione della sua sperimentazione precedente, i Memoirs sono letti come la fonte principale per la ricostruzione passo dopo passo della riforma della commedia. Le tappe della vita di Goldoni e della riforma Carlo Goldoni nasce a Venezia nel 1707, e nel 1731 ottiene la laurea in giurisprudenza all’Università di Padova; nello stesso periodo inizia a perseguire una collaborazione con un capocomico del teatro San Samuele a Venezia, Giuseppe Imer, diventandone il poeta di compagnia. ● 1732: inizia l’apprendistato teatrale nell’ambito degli stili della “commedia dell’arte” Le esigenze della vita, però, non gli consentono di condurre in maniera lineare questa funzione: si sposta a Genova dove svolge la sua carriera legale, e dal punto di vista teatrale non fa solo esperienza della commedia, ma giunge alla commedia lavorando anche a melodrammi, canovacci, libretti per musica, scenari, spesso fa adattamenti di romanzi.. Si dedica dopo alla commedia, ma alla drammaturgia seria arriva per gradi. ● 1738: anno del suo vero e proprio debutto, segnato dal testo drammaturgico il Momolo Cortesan. Questa è la prima commedia che denota un cambiamento: in essa, infatti, Goldoni scrive interamente la parte del protagonista. Il testo drammaturgico, quindi, è ancora scritto sotto forma di canovaccio, ma la parte del protagonista è differente. Goldoni, che continuava ancora a scrivere di tutto, nel 1738 tenta la via della commedia e scrive per l’attore Antonio Sacchi il Momolo cortesan, poi il Momolo sul Brenta e il Mercante fallito: scrive una sorta di trilogia impregnata sul personaggio del mercante. Sono quindi ancora dei canovacci, con l’unica parte interamente scritta che è quella del protagonista; inoltre, inizia a cambiare il linguaggio, che non è più il dialetto tipico delle maschere della commedia dell’arte, ma una lingua per metà veneziana e per metà italiana. Con questa trilogia tenta quindi di mantenere in vita la comicità della commedia dell’arte, ma con uno slittamento nella rappresentazione della vita contemporanea. ● 1744: va in scena la prima commedia di Goldoni interamente scritta, cioè La donna di garbo. Scrive per intero tutta la commedia e non solo la parte della protagonista. La storia potrebbe essere quella di una commedia dell’arte: narra di una donna abbandonata dall’innamorato, non amata abbastanza, che conquista la benevolenza dei 81 parenti di lui fino ad ottenere il matrimonio. Goldoni prosegue nell’opera di riabilitazione della commedia dell’arte, ma passa dal tipo al carattere, da una drammaturgia di contenuti della commedia dell’arte a una drammaturgia costruita sul carattere: l’arbitro della vicenda diventa la donna, ritratta come personaggio complesso e come conduttore di tutta l’azione. ➔ La donna, sempre relegata nelle parti di giovane innamorata, capovolge la situazione: diventa il personaggio principale e acquisisce una sua psicologia, diventando la conduttrice di tutta la vicenda. La situazione da lui descritta punta sull’approfondimento del tema dell’autocoscienza nella figura della protagonista femminile, Rosaura, che sa dominare gli altri personaggi, è consapevole di se stessa e fa sì che dalla sua consapevolezza derivi l’intera vicenda. ● 1745: Antonio Sacchi, autore che già conosceva, gli chiede dei soggetti e lo spinge a comporre la prima versione di Il celebre servitore e i due padroni. Il testo che noi possediamo è più tardo; all’origine le parti scritte erano solo 3 o 4 per atto, e per il resto era rimasto canovaccio: lui scrive quindi secondo le esigenze, alternando. In questa commedia tiene in piedi ancora tutta la struttura della commedia dell’arte, compresi i suoi personaggi, ma con un diverso affinamento razionale. Successivamente, Cesare Darghes, un attore che impersonava la parte di Pantalone, gli chiede di scrivere una commedia; egli faceva parte della compagnia di Girolamo Medebach, quindi consente la conoscenza tra Goldoni e Medebach. Tra i due si stabilisce subito un accordo per lavorare insieme a partire dall’anno seguente: Goldoni abbandona il suo lavoro di avvocato e lavora al suo fianco. ● 1748: Goldoni stipula un contratto di quattro anni con Medebach nel Teatro di Sant’Angelo, contratto che lo obbliga a comporre 8 commedie e 2 melodrammi per stagione e ad avviare quindi un lavoro di assistenza alla compagnia nel corso della tournée. Assumendo il ruolo ufficiale di poeta comico, tutto l’ambiente cittadino entra in fermento: la compagnia Medebach, infatti, aveva molti rivali invidiosi, e inizia una vera e propria battaglia aperta che porta a polemiche e a numerose parodie di queste opere teatrali. ➔ Questa stagione teatrale veneziana lo vide al centro di un dibattito molto conflittuale. ● Carnevale 1748: Goldoni scrive La putta onorata, a cui segue poi La vedova scaltra e La scuola delle vedove. La putta onorata è proprio la prima commedia del tutto senza maschere, che è stata premiata da 30 repliche ma che è anche stata oggetto di polemiche. Goldoni, infatti, ricostruisce il testo lavorando sul ritratto psicologico che gli viene dettato dalla conoscenza della tecnica artistica e del carattere della moglie di Medebach. La sua ricerca sul carattere da trasportare sul personaggio, quindi, si imposta sulla conoscenza diretta di quel materiale umano delle attrici e attori con cui viveva costantemente. La sua ricerca ormai tendeva verso la caratterizzazione individuale e l'abbandono del tipo da 82 commedia dell'arte, e ripone come centro della drammaturgia comica la figura della donna, figura che si è resa complessa. Continua quindi a scrivere molte commedie ponendo la donna al centro, fino al 1750. ● 1750: Goldoni compone Il teatro comico in cui, in una sorta di gioco metateatrale, espone il manifesto della sua riforma, basata soprattutto sulla distruzione dei canoni della tecnica recitativa dell’improvvisazione. In questa commedia finge una compagnia di comici tradizionali che viene chiamata a lavorare su una drammaturgia riformata proposta dal capocomico: era un modo di raccontare la sua riforma per bocca degli attori. Viene quindi presentato un gruppo di attori in difficoltà nell’abbandonare la tecnica fino ad allora usata, ovvero quella dell’improvvisazione. Di fronte a un nuovo tipo di testo, che non era più un canovaccio ma un testo scritto per intero, doveva cambiare necessariamente anche la tecnica di recitazione degli attori, che non potevano più improvvisare: gli attori dovevano imparare la loro parte a memoria. ● 1749 - 1750: Goldoni scrive l’opera La famiglia dell’antiquario, dove sposta l’obiettivo sul carattere del vecchio, sulla figura maschile, ma facendogli acquisire delle connotazioni diverse. Pantalone, il vecchio, in virtù di una riflessione sulla situazione economica ed ascesa della classe mercantile, diventa un personaggio che riflette tutti i pregiudizi e le virtù di una classe che raggiunge una posizione di rilievo nella borghesia e che tende ad imitare nella moda, nella lingua. Pantalone non è più il vecchio che sentenzia ma è il vecchio che agisce come mercante, per impedire la rovina della sua famiglia; perde i connotati del protagonista assoluto, non è più tipo ma diventa carattere. ● 1753: l’apice del successo è La Locandiera, che porta al massimo grado il raffinamento del carattere della protagonista. La vicenda parla di Mirandolina, la locandiera che gioca con i personaggi maschili, una locandiera di carattere, che dipana tutta la vicenda ponendosi al centro di rapporti amorosi e facendo innamorare il famoso cavaliere di Ripafratta nemico delle donne, che disdegnava le attenzioni della giovane. Mirandolina, artefice dell’azione giocata sul piacere dell’inganno, porta al matrimonio con il giovane cameriere Fabrizio, al quale era già stata promessa in sposa. La parte inizialmente era stata assegnata proprio a Teodora Medebach, che per Goldoni era il personaggio adatto, ma poi era passata ad una giovane servetta della compagnia che era alle prime esperienze sceniche: l’intera situazione riflette una problematica nata dietro le quinte della compagnia. Nella Locandiera, quindi, c’è tutta una rivalutazione della figura della donna e dei ruoli. ● 1756: Goldoni mette in scena l’opera Il Campiello, opera in cui, oltre ad occuparsi della tipologia psicologica del singolo, sposta l’azione su una comunità, sui caratteri di un coro e non di un singolo.
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