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Appunti Storia dell'Arte Medievale I - Riccioni, Appunti di Storia dell'arte medievale

Appunti di storia dell'arte medievale modulo I, Riccioni. Completi ed integrati di immagini e testi

Tipologia: Appunti

2020/2021

In vendita dal 25/05/2021

Noemi996
Noemi996 🇮🇹

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Scarica Appunti Storia dell'Arte Medievale I - Riccioni e più Appunti in PDF di Storia dell'arte medievale solo su Docsity! INTRODUZIONE Le opere medievali non sono opere che è possibile musealizzare, in quanto vivono all’interno del contesto speciale, rurale o urbano, in cui si trovano. Si tratta di opere che spesso vengono conquistate, basti pensare ai percorsi di pellegrinaggio, che molto spesso conducevano ad edifici spettacolari, portano il fedele ad una vera e propria teofania, ovvero alla rivelazione del divino. Edifici come la Cattedrale di Modena o Mont Saint-Michele intervenivano sull’impatto emotivo dello spettatore; con il passare del tempo questo elemento è stato perduto e sempre più spesso le opere vengono decontestualizzate. È importante, dunque, ricostruire il contesto di questi oggetti tramite lo spazio, il tempo, ecc. L’esperienza diretta, inoltre, ed il loro contesto ci donano delle percezioni diverse. Il termine Medioevo è un’astrazione storico culturale, un termine che gli umanisti hanno coniato per indicare un tempo di transizione (età di mezzo) tra la fine del mondo antico (età classica) ed il Rinascimento. La storiografia fino al XIX secolo considera in maniera negativa il periodo medievale, contrapponendolo all’età classica e la riscoperta di questa durante il rinascimento; interpretazione negativa che ci influenza ancora oggi. Durante il XVIII secolo studi eruditi e la riscoperta delle fonti storiche portano alla rivalutazione dei Padri della Chiesa e dei monaci copisti. È durante il XIX secolo con il Romanticismo, tuttavia, che questo periodo viene rivalutato positivamente, grazie anche alla nascita delle Nazioni e delle loro identità culturali che cominciano ad esaltare gli aspetti propri delle singole realtà nazionali; il Medioevo, dunque, rappresenterebbe l’origine, la culla, dell’identità nazionale (quella classica risulta un’epoca troppo distante). Un aspetto importante in questo sento è la nascita della scrittura e le diverse tipologie grafiche che si originano negli scrittoi medievali. Bisogna considerare, infatti, che la lingua latina non viene quasi più parlata e si scrive e si parla in modi molto diversi tra loro. Mentre durante l’Impero Romano la scrittura viene uniformata in tutto l’Impero, durante il Medioevo si verifica una frammentazione delle realtà locali e politiche, che portano, appunto, alla modifica della scrittura. Nonostante la maggior parte delle persone non sappia leggere o scrivere, la scrittura riveste un ruolo fondamentale durante il Medioevo, soprattutto in senso religioso e per le scritture miniate, che hanno un potere vocativo molto forte. Durante il Medioevo, inoltre, si verifica la diffusione delle università dove circolano monaci, intellettuali e studiosi; si tratta di una prefigurazione dell’unità politica e culturale europea. A livello scolastico abbiamo una periodizzazione del Medioevo: • Tarda antichità (IV-VI secolo): migrazioni di popolazioni germaniche/slave (410 sacco di Roma); 476 deposizione di Romolo Augustolo, ultimo imperatore d’Occidente; 565 morte di Giustiniano I, imperatore d’Oriente; affermazione del Cristianesimo • Alto Medioevo (VII-X secolo): regni romano-germanici (Carlo Magno imperatore, 800); incastellamento; espansione dell’Islam; nascita delle monarchie nazionali • Pieno Medioevo (XI-XIII secolo): affermazione del feudalesimo; conflitto tra Papato e Impero; scisma tra Chiesa d’Occidente e d’Oriente (1054); nascita dei comuni • Basso (Tardo) Medioevo (XIV-XV secolo): diffusione della peste nera (1347-51); Bibbia di Gutenberg (1452-55); caduta di Costantinopoli (1453); fine della Guerra dei cent’anni (1337-1453); scoperta delle Americhe (1492); affermazione delle monarchie nazionali Bisogna specificare che questa periodizzazione è riferita all’Italia, in quanto la fine del Medioevo per noi corrisponde all’inizio del Rinascimento ed artisti del calibro di Giotto, Ghiberti, ecc. In Germania, Francia e nelle Fiandre la cifra stilistica medievale in campo artistico si protrae fino al XVI secolo. La periodizzazione artistica italiana, dunque, è differente rispetto a quella di altri paesi, mentre la scoperta delle Americhe, la bibbia di Gutenberg, ecc, sanciscono la fine del Medioevo da un punto di vista storico che non corrisponde ad una nuova cifra artistica in altri paesi. Per quanto riguarda la periodizzazione dell’arte medievale: • Arte Paleocristiana (IV-VI secolo): Tarda antichità • Arte bizantina (IV-VI secolo): Tarda antichità • Arte delle migrazioni barbariche (VII-VIII secolo): Alto Medioevo • Rinascenze Carolingia e Ottoniana (VII-XI secolo): Alto Medioevo/Pieno Medioevo • Romanico (XI-XII secolo): Pieno Medioevo • Gotico (XIII-XV secolo): Basso (Tardo) Medioevo Per quanto riguarda lo stile dobbiamo distinguere tra: • pittura/miniatura: insieme di tratti formali (quali il disegno e la coloritura delle figure, l’organizzazione dello spazio pittorico, l’uso della prospettiva e del chiaroscuro) che caratterizza l’opera di un periodo storico, di una scuola o di un artista • architettura: insieme degli elementi strutturali e dei motivi decorativi che caratterizzano una costruzione o le costruzioni di un architetto o gli edifici di un dato luogo, popolo o periodo storico • arti applicate: insieme dei caratteri (quindi anche la forma, la decorazione, il materiale) che contraddistinguono mobili, suppellettili o oggetti d’uso in generale o che sono propri dell’arredamento o della decorazione stessa di un’età, di un luogo o di un ambiente sociale L’attribuzione è, invece, l’atto critico mediante il quale un prodotto artistico viene riconosciuto come appartenente ad un medesimo gruppo di altri prodotti analoghi, supposti opera di uno stesso autore. L’attribuzione giunge quindi anch’essa come atto conclusivo dell’analisi stilistica, cioè di quello che è lo strumento analitico specifico della storia dell’arte e ciò che la distingue dalle altre discipline storiche. Ma lo storico dell’arte è tale in quanto da un lato si avvale di quei particolari documenti storici che sono le opere d’arte e d’altro lato anche le altre conoscenze storiche è in grado di finalizzare alla ricostruzione della specifica storia delle arte figurative. L’iconografia è la “descrizione delle immagini”. L’indagine iconografica tende a definire le caratteristiche ed il valore originario di un determinato tema, a spiegarne le evoluzioni e mutazioni prodottesi nel passaggio da un’area culturale ad un’altra. In tal modo essa non solo chiarisce il senso riposto di immagini e figurazioni trasmessoci da tradizioni antichissime, ma scopre anche, attraverso la loro storia, rapporti e influenze tra artisti, epoche e civiltà diversi. Erwin Panoksky nei suoi studi di iconologia distingue tra: • significato primario o naturale: il significato naturale rientra nell’esperienza quotidiana; su questa base possiamo riconoscere un uomo, un fiore, ecc • significato secondario o convenzionale: è connesso al contesto culturale o artistico; una figura umana con due ali diventa un angelo • significato intrinseco o contenuto: comporta l’interpretazione di un’opera d’arte, quale segno prodotto dalla personalità di un’artista, ma anche, in termini più estesi, della cultura di un’epoca storica ARTE PALEOCRISTIANA LE CATACOMBE Siamo attorno al III secolo e l’Impero Romano vede un susseguirsi continuo di imperatori appartenenti alla dinastia di Severio. Dal IV secolo si assiste, invece, ad una serie di imperatori tra i quali emergono Diocleziano, Costantino e Teodosio. Le campagne ai confini orientali e settentrionali dell’Impero sono campagne che non producono una pace stabile e Roma perde il carattere della città centro del potere. Per quanto riguarda la religione si verifica la presenza di nuove forme di spiritualità, come il neoplatonismo ed il Cristianesimo. Quest’ultimo sarà l’elemento scatenante di una profonda rivoluzione, anche politica e sociale, all’interno dell’Impero. Questo periodo venne a lungo definito un periodo di decadenza, dalla prospettiva dell’Impero, nonostante questo tipo di visione sia stato da molto superato; ci sono sì periodi di crisi, ma nel senso greco del termine, che segnano dei grossi cambiamenti a seguito di eventi particolari, anche negativi, ma l’idea di caduta e apogeo viene largamente superata. Non esiste un’evoluzione darwiniana in arte che porti ad una successiva eccellenza, ogni momento storico deve essere studiato così com’è. Altro tema è l’Orante, questa figura che probabilmente è tratta dalle figure degli oratori dell’antichità, che nelle catacombe si trasformano in immagini di preghiera; preghiera che è consueta durante l’ufficio della messa, con le braccia aperte ad accogliere i fedeli. Questa immagine può essere ricondotta alla tradizione alessandrina, ad esempio. Queste figure togate si ripetono nelle pitture delle catacombe, come quella d Noè nell’arca. L’arca non è raffigurata come una vera e propria imbarcazione, ma come una sorta di parallelepipedo, un cubo rettangolare dal quale spunta Noè, mentre accoglie la colomba con il ramo di ulivo; si tratta del momento in cui il diluvio è terminato e Noè è in prossimità di avvistare la terra. La posizione evoca una posizione adorante e Noè ed il diluvio rappresentano una metafora della vita dopo la morte, la morte data dal diluvio universale e la vita che torna con l’ulivo portato dalla colomba. C’è poi un’arte fortemente simbolica, metaforica nel senso letterale del termine (di portare oltre); la metafora è un meccanismo che illustra una figura. Il pesce, in questo caso, diventa simbolo per il significato ad esso attribuitigli. Il pesce è uno dei simboli cristiani per eccellenza perché essendo un animale che vive sott’acqua ma senza annegare e quindi simboleggia Cristo, ma soprattutto perché il significato greco di pesce è “Gesù Cristo, figlio di Dio, Salvatore”. Quindi il pesce ricorrerà spesso nelle raffigurazioni dell’arte cristiana, soprattutto nel primo periodo, quando il Cristianesimo era fuori legge e si utilizzano dei codici che potevano riconoscere solamente i cristiani, ma allo stesso tempo evocativi. Un altro simbolo importante è l’ancora. Si tratta di una tipica ancora cristiana con l’asta e l’anello superiore e le due aste semicircolare. Spesso si aggiunge una traversa che è evocazione della croce. Un altro simbolo importante è il Chi Rho (monogramma di Cristo), che in questo caso osserviamo su una moneta. Il Chi Rho viene spesso affiancato con l’alfa e l’omega e simboleggia l’inizio e la fine del mondo sotto Cristo. Questo monogramma spesso si trova anche nelle tombe, come nel Sarcofago della Passione. SARCOFAGI PALEOCRISTIANI Grande è la produzione di sarcofagi in tema cristiano. Sarcofago di Giunio Basso, dal cimitero presso la confessione di San Pietro, IV secolo (Musei Vaticani) Il sarcofago di Giunio Basso ha una data nell’iscrizione che indica il 359 d.C., data non compatibile con il consolato di Giunio Basso, quindi non ci si riferisce a Giunio Basso console, ma probabilmente del figlio o di un omonimo. Il meccanismo narrativo avviene su due livelli. Nella parte centrale abbiamo il Cristo seduto sul tempo, ovvero su un trono che richiama la sella imperiale che si apriva e aveva due proti leoni simbolo dell’Impero; Cristo, dunque, viene ammantato con i simboli dell’Impero. La posizione centrale si rispecchia sotto con la figura di Gesù che entra in Gerusalemme. La decorazione è molto ricca, ci sono anche degli interstizi delle trabeazioni sopra le colonne, ciascuno con un significato simbolico preciso, anche se oggi di difficile interpretazione. Nella narrazione più importante troviamo una serie di scena, come: la cattura di Pietro e di Cristo; Daniele nella fossa dei leoni; Adamo ed Eva ed il peccato originale; Giobbe nel letamaio; Pilato con la passione di Cristo; Isacco ed il suo sacrificio; Paolo catturato. Le scene creano un collegamento tra la vita di Cristo e la cristianità. Nella composizione c’è una strana forma di corrispondenze tra queste scene in senso tematico legati ai singoli eventi, sempre vincolate al tema principale che è quello del Cristo come trionfatore sul tempo fino alla passione di Cristo e la sua fase finale mentre si dirige a Gerusalemme. Sarcofago con storie di Giona, fine III secolo (marmo, Museo Pio Cristiano-Città del Vaticano) Si tratta di un tema legato all’arte funeraria e che verrà sviluppato molto sui sarcofagi. La storia di Giona, uno dei dodici profeti minori dell’Antico Testamento, a cui viene ordinato da Dio di andare ad avvertire la città di Ninive della imminente punizione. Ninive era la capitale dell’Impero Assiro con il quale gli ebrei erano in guerra e Giona era un ebreo, quindi si tratta di un ordine particolarmente difficile da eseguire, infatti egli decide di andare nella direzione opposta, si imbarca, ma durante la navigazione scoppia una violenta tempesta. A questo punto Giona si rivela essere la causa della tempesta e si getta in mare, dove viene inghiottito da un grande pesce che lo tiene tra le sue fauci per circa due giorni, per poi venire rigettato sulle coste della Palestina. Viene poi convinto dal Signore a compiere il suo dovere e questo avverrà. Il libro di Giona sarà uno di quelli ad avere maggior successo tra i libri profetici perché ha un messaggio ecumenico, molto innovativo, tanto che l’immagine viene ripresa anche da Matteo nel Nuovo Testamento. Questo perché la figura di Giona viene assimilata a quella di Gesù Cristo, il quale fu posto sulla croce e dopo tre giorni risorge; Giona muore simbolicamente nel ventre del pesce e dopo due giorni rinasce simbolicamente nel momento in cui il pesce lo rigetta. Questa narrazione di morte e resurrezione simbolica, che nel sarcofago viene rappresentato con Giona che si getta nella bocca del mostro e poi viene rigettato sulle coste della Palestina, dove secondo la tradizione biblica riposa sotto le foglie di una pianta di ricino, ma c’è anche un’edera. La posizione in cui Giona viene ritratto è una diretta citazione di un tema pagano, anch’esso presente nei sarcofagi, quello della storie del mito di Endimione e Selene. Questo mito narra di un bellissimo fanciullo di cui Selene di innamora, Selene lo va a trovare tutte le notti, finché Endimione cade in un sonno profondo. Questa associazione, sia tematica a livello narrativo in quanto Endimione può essere associato al discorso della morte, ma anche il mondo di rappresentazione diventano un modello. Ancora una volta abbiamo il passaggio, la migrazione, di temi mitologici cristiani nell’iconologia cristiana, assumendo, però, un nuovo significato. Questo reimpiego dei temi sarà una caratteristica costante di tutto il Medioevo; molte delle chiese, inoltre, verranno costruite con spoglie della classicità romana. Le maestranze che vengono chiamate a realizzare queste opere sono le stesse maestranze che avevano lavorato ad opere pagane, quindi anche questo influenza. La storia di Giona, inoltre, viene anche dipinta in moltissime catacombe. Storia di Giona, prima metà IV secolo (mosaico pavimentale, Basilica di Teodoro-Aquileia) All’interno di questa chiesa, risalente alla prima metà del IV secolo, con un pavimento di quarto straordinario e ricchissimo, frutto anche dell’elergitismo locale (ogni settore aveva pagato un mittente). Giona viene raffigurato mentre viene inghiottito dal Cetus e poi rigettato. Arco di Costantino, 315 (marmo, Roma) Nel 315 il Senato dopo la vittoria su ponte Milvio decide di commissionare questo arco di trionfo. Si tratta di una prassi classica dell’Impero quella di costruire una memoria per i vincitori. Solitamente gli archi di trionfo erano costruiti in legno ed era prassi quella di passare con l’esercito vittorioso sotto di essi. In realtà quest’opera non viene costruita durante l’Impero di Costantino, ma si tratta di un ampliamento di un arco costruito precedentemente, probabilmente da Adriano o da Diocleziano. Le parti in bianco sono di Adriano, con gli otto tondi adrianei; quelle; le parti celesti sono quelle costruite sotto Costantino, dove vengono inserite delle nuove figure sulle colonne. L’attico, la parte sovrastante, viene tutta ricostruita; la materia mostra bene che la parte superiore è tutta un’aggiunta rispetto a quella sottostante. Il tema del reimpiego è già presente nella cultura tardo antica, anche se ancora imbevuta di cultura classica. Nella zona sottostante, sul lato ovest, vi un rilievo su marmo rappresentante la Vittoria e un prigioniero. Tale rilievo appartiene a Costantino e vede una Nike alata con il prigioniero, che richiama la sua vittoria. I meccanismi iconografici cambiano, come il prigioniero che è piccolo, e l’immagine monumentale della Nike; quel meccanismo mimetico di derivazione classico-ellenistica che esalta la visione della realtà si va perdendo, si ribalta completamente, sotto una luce nuova che introduce una visione simbolica della realtà. Tutta la rappresentazione delle opere, come ad esempio del fregio, di Costantino è una rappresentazione di tipo simbolica. Ad esempio nella rappresentazione Luna e Partenza di Costantino da Milano, campagna che poi lo porterà a Roma a combattere contro Massenzio, Costantino si trova sul carro seguito da questa Nike, vittoria alata, in una dimensione maggiore rispetto agli altri personaggi. Dal punto di vista formale possiamo vedere la differenza con i tondi adrianei. Nel lato sud, infatti, vediamo in uno dei tondi l’Assedio di Verona, città fortificata assediata dall’esercito di Costantino. La Nike, ed una figura che incorona Costantino e gli da l’ordine di attaccare la città. Vediamo come rispetto ai tondi Costantino sia sempre raffigurato con una dimensione maggiore rispetto agli altri personaggi. Sul lato sud è rappresentata anche la Battaglia contro Massenzio sul Ponte Milvio, un accatastarsi di figure che si incontrano e si scontrano su questo ponte e poi la vittoria. Sul lato est la scena continua con Sole e Entrata trionfale di Costantino a Roma. Sul lato nord abbiamo Costantino nel Foro romano che arringa i cittadini. Abbiamo una delle riproduzioni del foro romano con Costantino e la zona dei rostri, presi in battaglia dai Romani e murati su questo basamento (speroni di navi). Grazie alla scultura possiamo ricostruire il foro al momento di Costantino. Le immagini sono ormai codificate e possiamo distinguere i vari personaggi; come i senatori che hanno un certo tipo di abbigliamento e rendono omaggio a Costantino fisso, bloccato, statuario sul trono. La realtà è simbolo, funziona per l’esaltazione e la narrazione di un determinato messaggio. Costantino viene rappresentano, in questo modo, quasi come una divinità; egli si fa rappresentare come un Dio. Importante è anche osservare l’iscrizione, che dice: “All’imperatore Cesare Flavio Costantino Massimo, Pio, Felice, Augusto, il Senato e il popolo romano, poiché per ispirazione della divinità e per la grandezza del suo spirito con il suo esercito vendicò ad un tempo lo stato su un tiranno e su tutta la sua fazione con giuste armi, dedicarono questo arco insigne per trionfi”. La scrittura, ancora una volta, è parte dell’arte. Si tratta di un elemento molto importante soprattutto nell’arte medievale, in quanto l’arte medievale è largamente scritta, quindi le testimonianze grafiche non devono essere per nulla trascurate. Qui siamo in una cultura ancora profondamente classica e le lettere dovevano essere incastonate in bronzo. L’iscrizione ci parla dell’esaltazione dell’Imperatore Costantino, che evidenzia la posizione di Costantino nei confronti della religione cristiana e parlerebbe dall’apparizione della croce a Costantino prima della battaglia contro Massenzio. L’espressione, tuttavia, dell’ispirazione divina non è molto chiara; Costantino in questo momento sicuramente ha un atteggiamento benevolo nei confronti della religione cristiana perché vede nel monoteismo cristiana una base ideologica del culto imperiale, di una sola persona, quello del sol invictus. IL FORO ROMANO All’interno del Foro Romano troviamo la Basilica di Massenzio (309-312), una delle opere che Costantino fa ricostruire, o meglio la termina, cambiando l’ingresso. All’interno della Basilica, Costantino fa porre una sua statua. La statua viene realizzata nel 330 ca. in marmo e si trovava nell’abside della Basilica, mentre oggi essa è conservata all’interno del Museo Capitolino. Si trattava di una statua monumentale, ma quello che oggi ne rimane è quello realizzato in marmo; essa doveva essere decorata in avorio, bronzo e bronzo dorato che poi viene spoliato e fuso durante il periodo medievale. Il volto di Costantino viene ritratto secondo un codice prestabilito. Egli si fa ritrarre secondo una codifica che lo rende riconoscibile, così come accade nel culto di Costantino, che lui stesso alimenta nella sua persona, nella figura dell’Imperatore, ovvero quello del sol invictus. In questa scultura, Ritratto di Costantino del 325- 330 (bronzo con tracce di doratura, Belgrado- National Museum) possiamo osservare un diadema che circonda la sua testa, il quale evoca una raggiera dei raggi del sole. La divinità del Sol Invictus (“sole invitto”), per esteso Deus Sol Invictus, era un appellativo religioso per indicare diverse divinità del Tardo Impero. Diverse divinità, dunque, finiscono per essere assimilate in questo culto monoteista incentrato sul sole. Il culto nasce in Oriente, probabilmente in Siria o in Egitto, e si collega alle grandi festività per la rinascita del sole; si diffonde a Roma con l’Imperatore Eliogabalo, poi con Aureliano che costruisce un tempio al culto e la festività del culto che viene fissata al 25 dicembre. Il giorno della nascita del Sol Invictus veniva celebrato il giorno in cui la giornata cominciava ad aumentare dopo il solstizio; il solstizio avviene il 21 ed il 25 hanno la sensazione che il sole stia rinascendo. Questa associazione sulla simbologia solare è propria anche del Cristianesimo, che associa il Cristo alla luce, finisce per essere associata anche al Sol Invictus; c’è un transito dalla religione pagana a quella cristiana. La simbologia della luce è presente nel Nuovo Testamento, tuttavia il Cristo non viene mai al sole; questo avviene solamente nei primi culti cristiani. L’iconografia cristiana, quindi, utilizza sistematicamente questi temi pagani. ed il 314. La domus romana diventa sede papale e poi sede di importanti concili. La dedica ufficiale della Basilica del Santissimo Salvatore, primo nome assegnato alla basilica, fu compiuta da Papa Silvestro I nel 324, che dichiarò la chiesa ed il palazzo annesso “domus dei”, prima sede del papato. C’era anche un profondo legame, secondo diverse leggende, tra Silvestro I e Costantino. A questo periodo si fa anche risalire la Donazione di Costantino, che secondo la leggenda avrebbe donato il patrimonio della Chiesa, ovvero lo Stato del Vaticano; si tratta, tuttavia, di un falso storico. Sul primitivo aspetto della basilica ci sono note alcune descrizioni ricavabili da fonti storiche ed alcune informazioni relative alle avvenute costruzioni successive, che per un primo periodo si basavano sulla costruzione originale. La chiesa era nota come “basilica aurea”, tanto era ricca ed importante. L’origine della pianta è quella della basilica forense (come vediamo nell’assonometria di Waddy corretta da Lloyd, 1989), una pianta recuperata dagli antichi edifici della classicità, delle basiliche della Roma antica presenti nel Foro Romano. Qui l’edificio, tuttavia, viene orientato intenzionalmente; esso viene disposto secondo la direttrice est-ovest, tipica delle basiliche paleocristiane. Questo orientamento, la facciata verso Oriente e l’abside verso Occidente, era stata suggerita da Clemente I nel I secolo, il quale affermava “preghiamo Dio, che ascese sopra il cielo dei cieli, verso Oriente, ricordando l’antica passione per il Paradiso, posto ad Oriente, da dove il primo uomo disobbedendo a Dio persuaso dal consiglio del serpente fu cacciato”. L’Oriente, dunque, sarebbe il luogo del Paradiso, quindi verso l’Oriente doveva orientarsi la basilica. La primitiva basilica aveva una forma oblunga, con cinque navate che si riducono in grandezza dalla navata centrale (quasi il doppio) verso le navate laterali. Verso la fine veniva impostata un’altra navata che interseca la basilica, ovvero il transetto (in forme primitive) nel quale prendeva posto durante la celebrazione il vescovo, che si sedeva in un seggio rialzato centrale affiancato dai sacerdoti; un rituale di pura suggestione. Tra le navate ed il transetto vi sono due colonne che sostenevano un arco, detto arco trionfale (che vediamo nel disegno San Martino ai Monti, affresco della Basilica Lateranense di F. Gagliardi, 1650). Queste due imponenti colonne con l’arco a tutto sesto definisce, appunto, l’arco trionfale; da distinguere dall’arco absidale, retrostante. Metà della parte destinata all’altare, tra la navata centrale, vicino al vescovo, si trova una costruzione definita fastigium, che era una struttura su quattro colonne che fu l’antecedente di tutte le costruzioni simili, come pergole, iconostasi, ecc, ovvero le separazioni tra il clero ufficiante ed i fedeli. Le colonne in metallo dorato sostenevano poi un frontone e da qui si collocavano delle lampade dorate con delle statue. La Basilica nel 410 viene saccheggiata con l’arrivo dei Visigoti, nel 455 quando i Vandali di Genserico la saccheggiarono nuovamente. La Basilica era alle porte di Roma e totalmente isolata, quindi fu una facile preda di scorribande. Venne restaurata da Leone Magno intorno al 460 e poi successivamente arricchita da Ilario e ricostruita più e più volte fino al Settecento. L’elemento fondamentale, comunque, rimane il fatto che le basiliche costantiniane seguono la pianta delle basiliche forensi, alle quali aggiungono il transetto e l’abside, che esisteva anche nelle Basiliche precedenti romane, ma dove si trovava il giudice in posizione sopraelevata; questa funzione, ovviamente, si perde e l’abside diventa la zona della teofania, il momento della rivelazione ai fedeli ed esso verrà decorato di conseguenza. Solitamente nelle chiese ortodosse, l’abside viene decorato e coperto dall’iconostasi. Basilica di San Pietro, 319 (Roma) La Basilica di San Pietro viene iniziata per volere di Costantino tra il 317 ed il 322, durante il pontificato di Silvestro I in un’area fuori dalle mura della città, detta Villaggio del Vaticanus, dove si trovava il circo di Caligola ed una grande metropoli con imponenti monumenti sepolcrali, come tombe a camera e sepolture a fossa (come possiamo vedere dalla planimetria della Necropoli Vaticana). Tra questi monumenti troviamo anche quello alla memoria di San Pietro, un piccolo monumento costruito tra il 150 ed il 160 e poi inglobato nella Basilica. Si tratta di una memoria che si trasforma in luogo di venerazione e che da origine alla costruzione dell’edificio. Per costruire la Basilica tutta una parte del fianco del Colle Vaticano della Necropoli viene interamente spianato. Il colle, tuttavia, impedì l’orientamento della chiesa, in quanto è Occidentale, l’ordine è invertito rispetto all’orientamento tradizionale; questo accade per rispettare la collocazione della memoria di San Pietro all’interno dell’abside. La pianta della chiesa ci mostra come la memoria di San Pietro e la necropoli venga poi inserita all’interno della chiesa. Si impone a tutti gli effetti una modifica dell’orientamento; la memoria viene collocata come punto finale verso cui i fedeli si rivolgevano. La chiesa è costituita da un imponente transetto, che custodiva la memoria posta sulla corda dell’abside (linea ideale della curva absidale). La tomba di San Pietro viene isolata da una pergola e sovrastata da un baldacchino sostenuto da quattro colonne tortili, di ispirazione del tempio di Salomone. Oggigiorno possiamo vederle idealmente perché inglobate nel monumento del Bernini. Dobbiamo immaginare che sotto la chiesa ci sono le Grotte Vaticane, ovvero la necropoli che si estendeva sotto alle pendici del colle; la necropoli è in parte ancora visitabile. La struttura della Memoria di San Pietro, invece, viene costruita per esaltarla, ma anche nasconderla. C’è una pergola, questa trabeazione, alla quale vengono attaccati i velaria, delle tende, ed il tegurium, l’edicoletta che stava sopra alla tomba del Santo. In questa sistemazione costantiniana la pergola ed il tegurium erano sostenuti, come vediamo dalla ricostruzione, da sei colonne tortili. Riusciamo a ricostruire la struttura originale con una certa approssimazione, perché a Venezia, nel Museo Archeologico, abbiamo un coperchio, chiamato Traditio legis. Esso appartiene alla cosiddetta Capsella di Samagher (fine IV secolo), ovvero un cofanetto probabilmente realizzata da un’officina romana, che fu ritrovata a Pola e poi portata a Venezia. La decorazione di questo oggetto descrive lo stato dell’antica San Pietro; diverse sono state le interpretazioni riguardo i personaggi raffigurati sulla capsella. Il coperchio, sebbene lacunoso, mostra una mano, due personaggi ed un’altra mano in alto che tiene un rotolo, alla cui base vi sta una città con una porta dalla quale fuoriescono degli agnelli. Quelle che vediamo come righe sono identificati come i quattro fiumi del Paradiso, dove si trova Gesù, e le quattro palme. Si tratta di un’iconografia tradizionale che molto probabilmente raffigurava la Traditio legis. Probabilmente in basso si trovava anche la raffigurazione dell’agnello di Dio che sta sul monte paradisiaco. Questi motivi iconografici potrebbero essersi ispirati alle raffigurazioni musive, purtroppo perdute, del catino absidale della Basilica di San Pietro. Oltretutto abbiamo dei disegni rinascimentali della Basilica, anche se successivi alla Basilica originale, primitiva. La capsella, dunque, indica l’esistenza di un qualcosa che non c’è più; ci da la dimensione dell’esistenza della decorazione ormai irrimediabilmente perduta. La certezza di queste affermazioni deriva dal fatto che l’intera capsella rappresenti la zona absidale della Basilica di San Pietro. Sul lato anteriore troviamo l’Etimasia, il trono vuoto nell’attesa della seconda venuta di Cristo, così come Paolo la ipotizza, che è in ideale prosecuzione con il coperchio. La seconda venuta di Cristo preluderebbe al Giudizio Finale e che è anticipata dalla consegna della legge da Gesù a Pietro, dove si stabilisce il patto tra uomo e Dio. Il lato posteriore raffigura la Memoria Petri con Costantino e Elena in visita alla Basilica. I due personaggi vengono rappresentati come tali, ma si tratta di un’ipotesi. Quello che è importante è la raffigurazione del presbiterio dell’antica Basilica, che ci riconsegna la zona del monumento funebre di San Pietro. Questo doveva essere, quindi, lo status originario della Basilica. Il lato sinistro raffigura Galla Placidia con Valentiniano III in visita a Roma. Il lato destro raffigura Valentiniano III, sua moglie Licinia Eudoxia e la figlia Eudocia. Questo è un lavoro in legno con tavolette di avorio. Basilica di Sant’Agnese, 354 Altra tipologia di basiliche sono le cosiddette basiliche circensi, in quanto non hanno un transetto, sono spesso associate ad edifici funerari, a delle tombe o mausolei; al posto del transetto hanno un deambulatorio semicircolare che sostituisce anche l’abside. Si tratta di costruzioni di derivazione italica per la struttura circiforme, derivante dal circo, dunque una tradizione che si riferisce sia alla Grecia che alla Roma antica, laddove si celebravano i giochi per i defunti. La Basilica di Sant’Agnese riprende questa forma e vi viene annesso anche un mausoleo. Le colonne sostenevano delle arcate in muratura che giravano tutt’attorno, anziché avere una trabeazione continua, e le navate laterali erano coperte da capriate zoppe poggiate sul muro perimetrale con al di sopra delle finestre. Nascono con queste forme delle basiliche cimiteriali con il deambulatorio, grandi aree di culto a forma di circo; alcune di queste connesse con dei mausolei. La Basilica di Sant’Agnese rispetta queste caratteristiche e si trovava sulla Via Nomentana con annesso il mausoleo di Santa Costanza (o Costantina), ovvero la figlia dell’Imperatore Costantino; per alcune tradizioni leggendarie poi Costanza viene venerata come santa. La parte esterna è ricoperta di laterizio. Il mausoleo è composto da una pianta centrale con due giri di colonne; il terzo anello compone la parte centrale con una sorta di deambulatorio ed un ulteriore anello che è andato perduto. Il vano centrale è coperto da una cupola ed è illuminato da dodici finestre. Il vano centrale circolare sostiene delle arcature a tutto sesto tramite delle colonne binate che poggiano a loro volta su uno spezzone di trabeazione. Le dodici coppie di colonne binate sono disposte in senso radiale, disposte ad anello. Esse delimitano un deambulatorio, ovvero un corridoio anulare coperto da volte decorate a mosaici. Questa struttura crea degli spazi fortemente caratterizzati dal contrasto tra luci e ombre. Si tratta di una pianta che ha le sue origini nelle architetture romane, come i mausolei funebri o nei ninfei, che adottavano lo stesso tipo di pianta. All’esterno del deambulatorio correva un altro anello, oggi perduto (simile alla chiesa di Santo Stefano rotondo). Quando il mausoleo venne trasformato in battistero all’esterno fu realizzato un artece (AV), una costruzione quindi successiva al mausoleo. L’artece è una piccola costruzione, un piccolo atrio, absidato ai due lati che di fatto precede la chiesa vera e propria. All’interno si vedono ancora i basamenti della fonte battestimale. La decorazione interna è a mosaico, come ci mostrano le ricostruzioni; il mosaico si trova anche sulle nicchie e corre lungo tutto il deambulatorio. In questa nicchia vediamo un mosaico identificato come Traditio legis, ma che molto probabilmente è una Traditio pacem, elemento che possiamo dedurre dalla scritta che troviamo sul cartiglio. Si tratta di un’allusione dello stato della pace costantiniana, dovuta alla sua vittoria ed alla riunificazione dell’Impero. L’opera è stata molto restaurata. Le tessere non sono in pasta vitrea, ma sono di pietra colorata. Lo schema prevede Pietro e Paolo ai due lati. Come nel coperchio della capsella di Samagher abbiamo le due palme, gli agnelli e i fiumi che escono dalla collinetta, ci rende l’idea di come dovesse essere lo schema decorativo delle absidi che viene riproposto più volte. Sulla volta abbiamo un mosaico raffigurante le Scene di vendemmia. Si tratta dei più antichi mosaici sopravvissuti a Roma, diventando dunque delle testimonianze molto importanti della prima cristianità, collegata in particolare alle classi sociali più alte. Il tema della vendemmia viene recuperato dai culti pagani, infatti la trasformazione dell’uva in vino è tipica dei culti dionisiaci, che avevano una dimensione della trasformazione della vita e della morte. Nel caso del culto cristiano questo diventa una metafora della resurrezione, tema proprio per un mausoleo. Inoltre il tema della vigna riprende il passo che dice “io sono la vite e voi siete i miei tralci” della parabola di Cristo. Il mosaico vede una vigna con dei puttini che falciano le viti e stanno vendemmiando, l’uva viene portata nel carro e poi viene rappresentata la sua pigiatura. Al centro della volta abbiamo una Figura umana, per alcuni Costantina o addirittura Costantino stesso; non ci sono certezze, tuttavia, certezze sulla corrispondenza. Dal punto di vista formale possiamo dire che vi sono delle caratteristiche stilistiche della pittura della metà del IV secolo. L’iconografia della vendemmia si ripete anche nel Sarcofago di Costantina del 340 (Musei Vaticani), che si trovava all’interno del mausoleo. Si tratta di un sarcofago riccamente decorato in porfido, materiale molto difficile da lavorare e molto fragile, esclusivo appannaggio degli imperatori; il colore della porpora, del rosso, era imperiale e sono gli imperatori potevano indossarli, elemento che passerà anche alle gerarchie ecclesiastiche. Il rosso è anche il colore del martirio, che evoca una vicinanza simbolica al martirio di Cristo. Sul sarcofago c’è la vendemmia, richiamando le scene che vengono realizzate sulla decorazione della volta. Anche qui abbiamo dei puttini, questa volta alati, che spremono il vino. perpetuus augustus ob diem felicissimus X”, ovvero: “il nostro signore Teodosio perpetuo augusto nel giorno felicissimo del decimo anno di regno”. L’oggetto, dunque, viene realizzato in commemorazione al decimo anno di governo di Teodosio. L’Imperatore è posto al centro, in una serliana, circondato dai dignitari. La presenza del globo e dello scettro, che vediamo nei dettagli, sono attributi del potere dei suoi due co- imperatori. Teodosio non è un santo, ma sulla sua testa vi è una rappresentazione nimbata, ovvero una rappresentazione che diventa caratteristica dei dignitari, degli imperatori; si tratta di un disco di luce, tipico sia del Sol Invictus che dell’iconografia di Costantino. Si tratta di immagini di divinità o esseri divinizzati, attributo già presente nell’arte greca, che con Teodosio viene recuperata. Questo diventerà poi il nimbo diverso dall’aureola, in quanto il nimbo è una specie di nuvola. Questa sarà una caratteristica che nel corso del Cristianesimo con i santi. Altri attributi sono il diadema, il paludamento, la fibula, estremamente ricca. Nella parte sottostante troviamo l’immagine della terra, simbolo di prosperità dell’Impero e del suo respiro universale. Vediamo una donna sdraiata con la testa cinta da una corona di foglie e frutti che vengono offerti all’Imperatore, risultato della bontà della sua gestione imperiale. ROMA: IV-V SECOLO Flavius Teodosius (347-395) è l’ultimo imperatore dell’Impero Romano. Nel 380 il Cristianesimo diviene religione di Stato e nel 395 l’Impero viene diviso tra: • Oriente: Imperatore Arcadio con capitale a Costantinopoli • Occidente: Imperatore Onorio con capitale a Milano Nel 420 la capitale dell’Impero d’Occidente viene spostata da Milano a Ravenna. Nel 410 Roma viene saccheggiata dai Visigoti. Cristo in trono tra apostoli, 401-417 Innocenzo I (mosaico absidale, Roma-San Pudenziana) La Basilica di Santa Pudenziana a Roma è dedicata a Santa Pudenziana, sorella di Santa Prassede e figlia del senatore romano Pudente. Il mosaico absidale raffigura Cristo circondato dagli apostoli; una parte del mosaico venne distrutta durante i lavori di ristrutturazione da parte di Francesco Capriani, intaccando alcune figure degli apostoli e probabilmente un Agnus Dei, riportato da alcuni disegni cinquecenteschi. Il contesto storico di questi anni è molto particolare in quanto l’Imperatore Teodosio aveva dichiarato il Cristianesimo religione di Stato e nel 410 i Visigoti di Alarico assediarono, occuparono e saccheggiarono Roma. Nonostante ciò Roma era ancora una città straordinaria, ricchissima e con una grossa popolazione. Cristo tiene in mano un libro nel quale si legge Dominus Servator Ecllesiae Pudentianae, ovvero “il Signore ha salvato la chiesa di Pudente poiché l’edificio sacro non venne toccato dai Visigoti di Alarico”. Egli è rappresentato benedicente seduto sul trono di Costantino; si tratta del cosiddetto Cristo Pantocrator, ovvero il Signore dell’Universo. Gli apostoli sono vestiti da senatori romani e le due figure femminili che incoronano Pietro e Paolo vogliono celebrare le loro missioni di evangelizzazione; alcuni pensano che le due figure possano essere Santa Pudenziana e Santa Prassede. In secondo piano si vede un colle, che potrebbe essere il Calvario con la croce che vi pose l’imperatore Costantino; se così fosse, la città rappresentata alle spalle di Gesù e degli apostoli sarebbe Gerusalemme, ma potrebbe anche essere Roma. Santa Sabina, 422-432 (Roma) La basilica di Santa Sabina si trova a Roma sul colle Aventino e venne costruita nel V secolo sulla tomba di Santa Sabina. La chiesa venne costruita dal sacerdote Pietro di Iliria sotto il pontificato di Celestino I. La chiesa non ha facciata: essa è inglobata nell’atrio che ricalca la pianta dell’antico nartece, uno dei quattro bracci dell’antico quadriportico. Alla chiesa si accede tramite un portale, preceduto da un piccolo portico con tre arcate, situato sul lato destro. Tipiche dell’architettura paleocristiana, oltre alle paresti esternamente lisce, era la presenza di grandi finestre aperte nel cleristorio (la parte più alta della navata centrale). L’ingresso principale è chiuso da una porta lignea risalente al V secolo e raffigurante le Scene della Vita di Cristo. In origine la porta era costituita da 28 riquadri, ma oggi ne rimangono solamente 18, tra cui la Crocifissione, che è la più antica raffigurazione conosciuta di questo evento. La porta è di legno di cipresso e vi sono incise scene dell’Antico e del Nuovo Testamento, come: le storie di Mosè, di Elia, dell’Epifania, dei miracoli di Cristo, della Crocifissione e dell’Ascensione. Nella porta lignea operano due artisti molto diversi tra loro: uno di ispirazione classico-ellenistica e l’altro di ispirazione popolare tardo-antica, al quale appartiene anche la Crocifissione. Vediamo Cristo che è rappresentato con dimensioni maggiori rispetto agli altri personaggi, indicando la sua superiorità morale. All’interno la chiesa è costituita a tre navate, divise da dodici colonne doppie antiche, provenienti da un monumento tardo-imperiale, probabilmente mai messo in opera. La grande abside semicircolare è in corrispondenza della navata centrale. La parte superiore della navata centrale era originariamente rivestita da mosaici. Questa basilica è la prima del tempo in cui sulle colonne l’architrave venne sostituito da archi, posti tra colonne corinzie che separano le sale basilicali. Le arcate sono rivestite con marmi policromi, mentre l’arco trionfale ha dei medaglioni che seguono la forma dell’arco con Cristo nel mezzo ed una colomba che rappresenta lo spirito santo, i busti dei 12 cresciuto in virtù del [suo] sacro onore. Felice ha offerto al Signore questo dono, degno di un vescovo, che egli possa vivere nel più alto dei cieli”. RAVENNA LA TARDA ANTICHITÀ: GALLA PLACIDIA Siamo nel periodo della tarda antichità e questo condiziona largamente la produzione artistica di questo periodo. Siamo, però, in un periodo contrassegnato dalle migrazioni barbariche, migrazione naturale dei popoli alla ricerca di condizioni migliori o spinte da altre popolazioni ad allontanarsi dai propri territori. Questi spostamenti furono consistenti e condizionarono largamente la cultura dell’Impero, avviandola ad una sua trasformazione. L’Impero si è indebolito, i suoi confini più orientali non reggono la pressione di queste popolazioni agguerrite, armate, in cerca di condizioni di vita migliori, quindi molto motivate ad ottenerle. Ai confini dell’Impero queste popolazioni iniziano a sfondare e penetrare nell’Impero, sempre più in forma stanziale all’interno dei territori dell’Impero, mescolandosi con la popolazione autoctona. In questo primo periodo Galla Placidia si trova, con la sua vicenda esistenziale, ad incarnare questo tempo complesso, difficile, ma estremamente ricco di novità perché foriero di una trasformazione nella società; questo, tuttavia, non fu indolore, come tutti i processi di trasformazione. La figura di Galla Placidia, non a caso una donna, incarna tutte le sue contraddizioni. Galla Placidia nasce attorno al 390/392 come Aelia Galla Placidia, figlia di Teodosio I e sorellastra di Onorio. Nel 410 Roma viene saccheggiata e depredata dai Visigoti e Galla Placidia viene presa in ostaggio da Alarico; mai Roma avrebbe pensato di essere attaccata o espugnata. Successivamente Alarico, nel 414, la da in sposa ad Ataulfo, re dei Visigoti. Alla morte di Ataulfo, nel 415, Galla Placidia viene restituita ad Onorio; la figura della donna diventa quella di un oggetto. Nel 417 Galla Placidia viene data in sposa dal fratellastro a Flavio Costanzo; dal matrimonio nasce Placido Valentino (419). Nel 421 Costanzo III diventa imperatore e Galla Placidia diventa augusta; lo stesso anno ripara a Bisanzio per la morte del marito. Nel 425 torna in Occidente come reggente dell’Impero per conto del figlio Valentiniano II (fino al 437). Nel 450 muore a Roma. Le vicende esistenziali di Galla Placidia, una figura importantissima di cui poco si conosce ancora, si intrecciano alle vicende dell’epoca. Vi anche delle opere artistiche che fa realizzare o le vengono attribuite hanno un significato molto spiccato. Mausoleo di Galla Placidia, 450 ca (Ravenna) A Ravenna Galla Placidia fa realizzare un mausoleo, edificio che probabilmente era una pertinenza di Santa Croce a cui era collegato; l’edificio venne distrutto e rimase solo il mausoleo. Questo mausoleo, tuttavia, non raccoglie le spoglie di Galla Placidia. La data è orientativa in quanto collocata con la morte dell’imperatrice. La pianta è una pianta a croce latina, con il braccio centrale più lungo. È un edificio che ha subito il fenomeno della subsidenza, ovvero quel lento e progressivo abbassamento verticale del fondo di un bacino marino o di un territorio, motivo per cui l’edificio oggi è più basso di quello che doveva essere. L’esterno è estremamente semplice: un paramento in laterizio copre la cupola sopraelevata, che si trova sopra i due bracci della croce, con un tiburio a base quadrata, mentre i tetti spioventi coprono i bracci della croce. L’esterno è estremamente sobrio e semplice con arcate cieche ed i timpani che non sono decorati, se non nella parte di accesso. La mancanza dello zoccolo in basso è dovuta probabilmente al fenomeno della subsidenza. L’interno del mausoleo costituisce la parte più ricca e decorata dell’edificio, in contrasto con la semplicità esterna della fabbrica. Esso è, infatti, completamente ricoperto di mosaici in pasta vitrea, i quali riflettono la luce proveniente dalle finestre con un diaframma in alabastro, che quindi già modula la luminosità interna e che restituiscono all’osservatore un’impressione di totale immersione all’interno di questo edificio, interamente investito dalla luce. Nella cupola centrale troviamo una croce latina, a bracci patenti, circondata da ben 567 stelle dorate, disposte secondo un andamento circolare/concentrico. Sui pennacchi ci sono i quattro simboli degli evangelisti, rappresentati come tetramorfi secondo la visione apocalittica. Anche le nicchie sono riccamente decorate. Una di queste rappresenta i cervi che si abbeverano alla fonte, secondo il salmo XLI,2, il quale recita “Come il cervo anela alle fonti d’acqua, così la mia anima anela a te, o Dio”. Si tratta di un’immagine che richiama esplicitamente le decorazioni paleocristiane, dove il fedele è rappresentato dal cervo che bene alla fonte di Dio. Simile è una decorazione del Battistero di San Giovanni in fonte, nel pennacchio della cupola, risalente al V secolo. Si tratta di una decorazione largamente diffusa. Nel registro inferiore, accanto agli apostoli, figura anche una decorazione, detta il trono dell’etimasia, ovvero il trono preparato perché il Cristo vi si sieda nel momento della sua seconda venuta, del Giudizio. Secondo alcuni studiosi, tuttavia, l’iconografia sarebbe da intendere secondo il culto ariano e dunque starebbe ad indicare la natura corporea di Cristo e non divina, in quanto è presente il sudario ed il cuscino sul quale poggia la croce con un drappo purpureo, che rappresenta il sangue del martirio, un martirio umano. Questi temi decorativi si possono oggettivamente interpretare come corporeità e non divinità del Cristo in senso ariano. Battistero neoniano (degli Ortodossi), V secolo (450/458) (Ravenna) Possiamo confrontare il Battistero degli Ariani con il Battistero neoniano, che risale a circa cinquant’anni prima. La parte esterna è sempre su base ottagonale soggetta alla subsidenza, così come vi sono delle arcate cieche come nel mausoleo di Galla Placidia, esterno in laterizio e finestre con arco a tutto sesto. L’interno, tuttavia, è diverso rispetto al Battistero degli Ariani. Questo tipo di decorazione è ancora fortemente debitrice della cultura paleocristiana. Il fondo del mosaico è celeste e non interpreta in senso simbolico ed atemporale il fondo dorato, ma si tratta di un cielo nel quale campeggiano i dodici evangelisti. Manca il trono nella parte centrale della cupola, che contiene, come nel Battistero degli Ariani, il battesimo di Cristo, con Giovanni Battista in piedi e la personificazione del fiume Giordano. La parte più chiara del tondo è frutto di un rifacimento successivo, che mal interpreta il gesto del battesimo, in quanto esso avveniva con l’imposizione delle mani. Gli apostoli vestono tuniche e palli e vengono separati da dei candelabri, tipico sistema decorativo dell’età romana antica. L’interno è decorato con stucchi e delle colonne con archi a tutto sesto e decorazioni con tralci che echeggiano i tralci di vite, anche se in realtà sono acanto, che rimandano alla decorazione paleocristiana. Ci sono anche inserimenti di dischi di porfido, stucchi e marmi colorati, tipici della tarda antichità. Sant’Apollinare Nuovo, (Ravenna) Si tratta di un edificio estremamente significativo costruito durante il regno di Teodorico. La facciata non è più nelle sue forme originali, ma possiamo intuire nella parte sovrastante come fosse, con il tetto spiovente e l’esterno in laterizi; il campanile è successivo. La chiesa, inizialmente, fu consacrata da Teodorico come cappella palatina e fu consacrata al Salvatore. Successivamente alla sconfitta degli Ostrogoti ad opera dell’esercito di Giustiniano, la chiesa fu dedicata a San Martino. Nel IX secolo la chiesa prende il nome di Sant’Apollinare Nuovo dopo il trasferimento delle spoglie del santo al suo interno da Sant’Apollinare in Classe, che si trovava nella zona del porto, troppo esposta alle scorribande dei pirati. All’interno, l’abside è andato totalmente distrutto e si presenta, infatti, privo di decorazioni. Nella parete sud della navata centrale abbiamo una tripartizione della decorazione, dove è raffigurata la processione, che doveva partire dal palazzo di Costantino e proseguire con i dignitari, terminando nella figura del Cristo in trono. La processione che oggi troviamo con in testa San Martino seguito dai martiri, riguarda il periodo di Giustiniano, che con una dannatio memoriae cancella le decorazioni precedenti. Qui si trovano le storie della passione di Cristo. Lo stesso accade nella parete nord, che contiene le storie della vita di Cristo. Nel registro superiore c’è la vita di Cristo con i miracoli, in quello mediano i profeti, che si alternano alle finestre dalla quale proviene una luce molto intensa che illumina l’edificio, sulle quali campeggiano dei volatili, realizzati a coppie attorno alle figure. Lo stesso vale per l’alternanza dei quadri che narrano la vita di cristo che si alternano a queste nicchie sulle quali campeggiano due colonne che si raffrontano con la croce. Nel registro inferiore, invece, troviamo la processione dei dignitari sostituita in questo caso con la processione delle Vergini; la processione parte dal porto. Nelle zone in verde possiamo vedere lo schema della disposizione dei mosaici. Alcuni dettagli dei mosaici ci rivelano la cultura figurativa del tempo di Teodorico, che ancora risente grandemente della cultura tardo-antica, pienamente inserita ed imbevuta di citazioni classiche. Nella parete settentrionale, nel registro superiore, possiamo vedere un mosaico riguardante le Storie della vita di Cristo raffigurante la Moltiplicazione dei pani e dei pesci. Cristo è vestito con un pallio, mentre i pani ed i pesci vengono sorretti dagli apostoli che lo affiancano ed il fondo è dorato. Qui troviamo un rinnovamento, presente anche nel Battistero degli Ariani, ovvero un fonto atemporale. Sempre nella stessa parete e registro troviamo Gesù davanti a Pilato. Si tratta della tradizionale scena in cui Caifa introduce Cristo a Pilato, un funzionario romano, che si lava le mani della vicenda. Da notare è questa accelerazione in senso simbolico rispetto ad una tradizione classica/tardo- antica/naturalistica, che vede la figura di Cristo troneggiare sulle altre, sottolineando la sua importanza rispetto agli altri personaggi. Lo stesso vale per la rappresentazione dell’Ultima Cena, mosaico collocato nella parte meridionale, sul registro superiore, ovvero la scena prima dell’abside. Secondo uno schema tradizionale vi sono gli apostoli sdraiati ed al centro il pesce, che secondo la simbologia paleocristiana è l’acronimo di Gesù figlio di Dio Salvatore. Anche in questo caso i pesci sono sovradimensionati rispetto a quello che ci saremo potuti attende da un’immagine “realistica” della scena. Sempre sulla parete meridionale, nel registro inferiore a destra, troviamo il mosaico del palazzo di Teodorico. Il palazzo è ben riconoscibile dall’iscrizione palatium, presente sotto l’architrave del timpano, rappresenta il palazzo di Teodorico con edifici cupolati e la città di Ravenna, murata. Il palazzo aveva la caratteristica particolare di essere abitato dai dignitari di corte, che invece il lavoro di cancellazione della memoria di Teodorico ha eliminato, ma come spesso accade nell’arte una dettagliata osservazione ci rivela degli elementi significanti. Sulle colonne vediamo ance delle mani e parti di braccia e abitavano questo palazzo, con al centro probabilmente la figura di Teodorico. Nella parete settentrionale, sul registro inferiore a sinistra, vi è il mosaico del Porto di Classe, raffigurato come murato e protetto, con un’iscrizione che non lascia dubbio sull’interpretazione di questa costruzione, ma anche in questo caso vi sono delle scene cancellate, come la porta dove si vede un’ombra dove doveva esserci una figura. diventa una metafora che risponde alla costruzione di uno spazio atemporale dominato dalla luce che ben si colloca nell’arte bizantina. Sant’Apollinare Nuovo (Ravenna) Abbiamo già visto Sant’Apollinare Nuovo con Teodorico, che l’aveva costruita come cappella palatina. Giustiniano interviene radicalmente nell’edificio e lo modifica cancellando le presenze del palazzo e del porto di classe, inserendo delle teorie di sante. Termina con i Re magi che offrono i loro doni alla Vergine in Trono. Sull’altro lato troviamo la Processione dei Santi con in testa San Martino. Si tratta di mosaici parietali dove ormai risulta evidente la mutazione dell’arte in senso bizantino. Le figure sono fisse, ormai si è perduto l’interesse per la raffigurazione fisiognomica; sono realizzate come se dovessero essere del tutto atemporali. Sono figure riprodotte in modo paratattico, con dei modelli, dei pattern, che prevedono solo alcune lievi modifiche per distinguerle, ma che sostanzialmente riproducono sempre lo stesso schema. Le figure, inoltre, si stagliano contro uno sfondo dorato, sfondo che non costituisce più alcuna indicazione spaziale. San Vitale, 547 ca (Ravenna) San Vitale è l’altro esempio capitale dell’arte bizantina a Ravenna. L’edificio fu iniziato già nel 525 con il vescovo Ecclesio, finanziato da Giuliano Argentario, ricchissimo banchiere. Esso fu terminato nel 547 dopo sette anni la riconquista di Ravenna da parte dell’Impero e consacrato dal vescovo Massimiano. L’opera può essere definita una summa dell’architettura ravennale. La pianta è una pianta ottagonale. L’edificio è rivestito in laterizio. La pianta ottagonale ha un significato intrinseco, in quanto l’otto simboleggia la resurrezione. L’edificio inoltre è a pianta centrale e non basilicale. La cupola è inglobata all’interno dell’alto tiburio che è sorretto da un sistema di contrafforti interno, non visibili all’esterno. L’esterno è in laterizio e nasconde anche la parte di accesso di questo nartece che si imposta sullo spigolo di uno dei lati dell’ottagono, creando un ingresso solamente sul lato destro, con una porta assiale rispetto all’abside, mentre sull’ingresso laterale crea una sorta di spaesamento accedendo direttamente al deambulatorio, che a sua volta porta nella parte centrale. Questo non essere tangente al lato frontale, ma disposto in modo obliquo, è un gioco che in qualche modo nega quella che era l’assialità delle basiliche cristiane. La pianta con il deambulatorio ottagonale è a due piani e racchiude un ambiente centrale che rispecchia più o meno lo stesso disegno ottagonale. Il rapporto tra il deambulatorio a due piani e l’ambiente centrale è una sezione aurea. Nel passaggio tra un ambiente e l’altro si trovano delle esedrie traforate da un doppio ordine di arcatelle, racchiuse dentro grandi archi, sostenuti a loro volta da pilastri angolari, che producono un’espansione radiale dello spazio che va in più direzioni. Su questi pilastri angolari si imposta la cupola. Nell’ambiente centrale, di fronte alla zona del coro, possiamo osservare questo moltiplicarsi dello spazio sui pilastri sui quali a loro volta si imposta la cupola. Questo effetto di moltiplicazione dello spazio, di spaesamento ma anche alleggerimento, è anche offerto per l’uso del pulvino (elemento architettonico sovrapposto al capitello con funzioni strutturali, ovvero di sostegno del piedritto dell’arco, ma talvolta anche decorative), un elemento tronco- conico tra il capitello e l’arcata. Inoltre i capitelli non sono di forme classiche, ma sono capitelli traforati a cesto molto ricchi nella decorazione, ma che risultano molto leggeri; questo sistema alleggerisce tutto il sistema architettonico. Tutto l’interno è volto all’alleggerimento delle masse strutturali. Sebbene la chiesa non sia particolarmente alta, quindi si ha la sensazione di una particolare leggerezza. Ai lati del presbiterio troviamo la parte più riccamente decorata della chiesa, ornata con mosaici. I temi decorativi in gran parte alludono alla Trinità. In particolare sui due lati del coro abbiamo la rappresentazione dell’Ospitalità di Abramo che si associa al Sacrificio di Isacco. Sull’altro lato abbiamo la vicenda del Sacrificio di Melchisedec. Questi temi alludono alla morte di Cristo. In particolare la scena dell’Ospitalità di Abramo, rappresenta la Trinità, la sua prefigurazione. Le scene di sacrificio insieme alla raffigurazione della Trinità vogliono ribadire la contestazione dell’Arianesimo, il quale mette in dubbio la Trinità. Nella calotta absidale abbiamo la Teofania, ovvero la manifestazione di Dio. Dio siede su un globo celeste con un rotolo in mano, ovvero il rotolo della legge, mentre porge la corona del martirio a San Vitale, introdotto da un angelo, mentre dall’altra parte abbiamo il vescovo Ecclesio che offre il modellino della chiesa a pianta centrale così come viene realizzata poi effettivamente. La figura di San Vitale, al quale la chiesa viene dedicata, si deve alla credenza che il Santo fosse morto a Ravenna, mentre invece muore a Bologna. Il fondo del cielo è sostituito dall’oro anche se permangono delle nuvole, ovvero la tradizione paleocristiana naturalistica, anche se in una dimensione atemporale. I personaggi calcano un prato con dei fiori che sono frutto di una mediazione con l’arte paleocristiana. Sul sottarco abbiamo delle cornucopie intrecciate. Nella zona delle pareti del coro abbiamo delle decorazioni molto famose che rappresentano Giustiniano ed il vescovo Massimiano tra chierici e soldati. Giustiniano viene rappresentato, dunque, con il corteo di militari e Massimiano, il cui nome è chiaramente scritto sopra la sua testa; accanto probabilmente c’è Giuliano Argentario. Quello che colpisce, che stupisce, in questa decorazione è l’assoluta frontalità dei personaggi; a questo punto l’immagine diventa assolutamente simbolica. Il fondo dorato non da alcun tipo di indicazione spaziale e temporale; le immagini sono talmente fisse e piatte che i personaggi sembrano pestarsi i piedi tra loro. Chiaramente Giustiniano domina la scena ed è lui che pesta per primo i piedi ai sopraggiunti, sottolineando la sua predominanza. Con Teodosio abbiamo visto gli attributi che vestiva l’Imperatore che qui vengono riprodotti; fibula sul mantello, diadema e il nimbo (Giustiniano non è santo ma permane la presenza del nimbo). La stessa situazione è riscontrabile sulla decorazione sull’altro lato della parete, rappresentante Teodora e la corte. La moglie, la regina, è riccamente vestita all’interno di questa cupola che più che denotare uno spazio, fornisce una sorta di cornice; la tenda può essere obliqua, il braccio lunghissimo, la fontana è incongrua, ecc. Le figure sono tutte allineate e l’unico elemento che le distingue è l’abbigliamento che denota la Si tratta di un’opera complessa, composta da 26 pannelli in totale per due cicli narrativi. Nei pannelli dello schienale ci sono 16 pannelli, decorati fronte-retro, che narrano le scene della vita di Gesù. Possiamo vedere qui la presentazione di Gesù bambino. Le scene si distendono anche sullo schienale posteriore, anche se molti sono andati perduti. I braccioli sono composti da 10 pannelli che reggono il ciclo di Giuseppe. Nella parte frontale abbiamo i quattro evangelisti, con al centro San Giovanni Battista con l’agnello. Le differenze stilistiche sono abbastanza evidenti tra la parte anteriore e quella posteriore, quindi probabilmente vi furono due botteghe al lavoro. Con grande probabilità l’opera venne direttamente da Bisanzio e poi assemblata su un’impalcatura di legno. La decorazione è fitomorfa, con questi tralci di vite, che simboleggiano la chiesa e la presenza di Cristo; simbologia classica Cristiana. Dittico Barberini, VI secolo (avorio, Parigi-Museo del Louvre) Il dittico molto probabilmente rappresenta Giustiniano, mentre secondo altri si tratterebbe di Anastasio I. La decorazione è simbolo del trionfo dell’Imperatore, rappresentato con una picca, una lancia, piantata a terra, sormontato da due angeli che sostengono un clipeo con la figura d Cristo vincente con la croce tra il sole e la luna. Cristo scende direttamente sull’Imperatore, con diadema, corazza, mantello e la tunica che spunta sotto la corazza. La fibula richiama quella che Giustiniano aveva nei mosaici di San Vitale. L’Imperatore è affiancato da una vittoria alata che gli porge un alloro e copre questa figura con una tunica pesante, probabilmente un persiano. La terra che sorregge Giustiniano è un seno abbondante, simbolo di prosperità (figura vista anche nel Missorium). Alla base dell’avorio c’è una teoria di personaggi che recano doni all’Imperatore vestiti all’Orientale e la vittoria alata. Accanto, alla destra, c’è un militare, un generale, vestito con la tunica, la corazza e il paludamento, la fibula, ecc. che reca la vittoria alata. L’Imperatore a cavallo simboleggia il trionfo di Giustiniano che è riuscito a riunificare l’Impero di Oriente ed Occidente. Viene impiegata una doppia tecnica, l’altorilievo ed il bassorilievo superiore. L’ARTE DELLE MIGRAZIONI BARBARICHE I LONGOBARDI Parlando di migrazioni longobarde in realtà si parla di popolazioni che si trovavano a vivere poi in forma stanziale, sia ai confini che all’interno dell’Impero. La provenienza di questa popolazione è sicuramente l’Ascania, sulle pendici più meridionali della Svezia. Il processo di migrazione longobardo è un processo che avviene in un arco di tempo abbastanza lungo, quindi non necessariamente frutto della pressione da parte di altri popoli. I Longobardi entreranno sicuramente in conflitto con altre popolazioni, ad esempio quella dei Vandali, ma non è questo l’unico motivo per cui si spostano fino a giungere in Italia. Il termine Longobardi deriva da langbardi, ovvero “barba lunga”. Il percorso dei Longobardi arriva fino in Pannonia, dove vengono assoldati da Bisanzio, dall’Impero, durante la guerra greco-gotica. In Italia sono presenti prima della cosiddetta invasione. Nel 568, alla fine della guerra greco-gotica, Alboino guida i Longobardi in Italia, conquistando dei territori a Nord, tranne i possedimenti bizantini (Ravenna e Esarcato, la Romagna, il Sud Italia, Napoli, Amalfi Paestum e Roma fino al Lazio settentrionale). La penisola italiana si trova, dunque, divisa tra Longobardi e Bizantini. I Longobardi suddividono il territorio in ducati: • Langobardia Maior: Italia del nord e ducato di Tuscia • Langomardia Minor: Ducati di Benevento e Spoleto Abbiamo un’Italia divisa sostanzialmente in due. Il primo regno è guidato da Alboino, che guida la spedizione di conquista. Tra il 580 ed il 590 abbiamo il Regno di Autari, primo marito di Teodolinda. Alla morte di Autari Teodolinda sposerà Agilulfo, che regnerà dal 590 al 616. Agilulfo sarà uno degli epicentri della conversione cristiana dei Longobardi, avvenuta anche per effetto del papa Gregorio Magno (590-604), personaggio molto lungimirante e significativo anche in ambito artistico. Nella seconda fase abbiamo il Regno di Rotari (636-652) che di fatto acquisisce la legislazione romana con l’Editto di Rotari, la prima raccolta scritta delle leggi longobarde. L’Editto è scritto in latino, con frequenti elementi in lingua longobarda, e si tratta di uno dei più importanti documenti per l’evoluzione della lingua longobarda e contiene una sintesi della legislazione longobarda innestata direttamente su quella romana. Questo editto, dunque, ha sia un valore legislativo ed organizzativo, ma anche un valore culturale in quanto significativo della capacità dei Longobardi di assimilare un’altra cultura, quella romana, convivendo con essa e sostituendosi con la popolazione dell’Impero. Questo è il motivo per cui i Longobardi riescono a creare un regno che ha una certa stabilità, intervenendo in modo significativo sulla costituzione delle istituzioni, che poi saranno anche le istituzioni medievali. Succede il Regno di Liutprando (716-744), che vede una fase di produzione culturale ed artistica caratterizzata da un certo ritorno all’antico. Liutprando si allea con i Franchi, attraverso un patto, adottando simbolicamente il giovane Pipino il Breve, per garantire una certa tranquillità politica nei confronti di una popolazione abbastanza aggressiva sui confini italiani. Nel 726 Liutprando si impadronisce di diverse città dell’Esarcato, diventando una sorta di protettore dei cattolici, al punto che questo suo ruolo culmina con la Donazione di Sutri. Si tratta di un atto legale che attribuisce un potere temporale al papato, che avrebbe poi costruito lo Stato della Chiesa. Una volta occupata questa cittadina vicino a Roma, Liutprando decide di consegnarla al pontefice, uno dei primi atti fondatori dello Stato Pontificio. La finta Donazione di Costantino voleva, dunque, consolidare atti come questo. La morte di Liutprando registra la disgregazione del Regno, fino alla sconfitta dei Longobardi a Desiderio nel 774 da parte di Carlo Magno, ponendo definitivamente fine al regno del nord, entrando nella penisola italiana. Sopravvive più a lungo il regno dell’Italia centro-meridionale, che termina nel 1053 con la conquista di Benevento, l’ultimo Ducato longobardo in Italia, da parte di Roberto il Guiscardo. Il periodo di dominazione longobarda, tuttavia, è abbastanza lungo da incidere sulla produzione artistica e culturale del periodo, nonché sulle istituzioni. l L’Impero Bizantino ormai si trovai ai margini, anche se rimane comunque, fino all’avvento dei Normanni, in Sicilia, Calabria, Puglia e Napoli. Per quanto riguarda Venezia, essa è formalmente sotto il governo di Bisanzio, anche se con una certa autonomia; essa rientra in modo marginale per quanto riguarda la difesa dai Longobardi, ma con l’avvento dei Carolingi possiamo dire che essa segua l’orientamento carolingio. PRODUZIONE ARTISTICA La produzione longobarda è una produzione tipica delle popolazioni nomadi, quantomeno in principio, che affinano le loro capacità artistiche su prodotti facilmente trasportabili, come: lavori di oreficerie, di piccola o media taglia, lavori di intaglio, lavori con pietre dure, ecc. Sono lavori che hanno una loro ricchezza intrinseca molto sviluppata. Possiamo osservare qui una fibula del VII secolo (oro, argento e pietre dure, Cividale del Friuli-Museo Archeologico Nazionale). La lavorazione delle pietre è una lavorazione che prevede un taglio, abbastanza semplice. Qui abbiamo una pietra tagliata a cabochon, ovvero un taglio privo di sfaccettature, mediante il quale si ottiene una sommità convessa e la base piatta. Un taglio che veniva largamente praticato dalle popolazioni lombarde; si trovano delle testimonianze anche nelle sepolture. Caratteristica è anche la lavorazione degli smalti; in questo caso abbiamo degli alveoli ricavati all’interno della fibula dorata, all’interno dei quali vengono fusi questi smalti colorati. Il tipo di decorazione è una decorazione animalistica; queste fibule riprendono temi che sono tratti dall’osservazione, dall’astrazione, di temi animali. Possiamo confrontare questi elementi con una pagina riccamente decorata dell’Evangelario di Durrow del VII secolo (Dublino-Trinity College). Non si tratta di un’opera di derivazione longobarda, ma insultare. Anche qui, tuttavia, è presente una tradizione decorativa animalistica, che si sviluppa tra il IV ed il V secolo. Questi temi si ricollegano ai bronzi con incisioni a tacche, ornati con elementi zoomorfi stilizzati, che venivano utilizzati come guarnizioni per le cinture, largamente diffuse nelle province dell’Impero. Questo stile si evolve accentuando la stilizzazione degli elementi zoomorfi, creando un gioco di intrecci, di sviluppi inestricabili e di motivi a nastro. Come nel caso di queste fibule del VII secolo (oro, argento e pietre dure, Cividale del Friuli-Museo Archeologico Nazionale). Tempietto del Clitunno (Chiesa a forma di tempio corinzio), secolo VII (Campello sul Clitunno) Il Tempietto del Clitunno è uno degli esempi di recupero della tradizione dell’arte classica. Per molto tempo si è discusso per molto tempo della sua cronologia, pensando che fosse un’opera tardo antica (IV-V secolo), ma non è così. Si tratta di un’opera del VII secolo e ne abbiamo la prova anche dalle testimonianze epigrafiche. Il Tempietto ha una fronte di tempio corinzio. Sull’architrave reca un’iscrizione che recita: “Sanctus Deus Angelorum Qui Fecit Resurectionem”. Il tipo di scrittura è una scrittura che imita la capitale classica. Gli altri lati del tempietto recano le iscrizioni: “Dio santo degli angeli che ha effettuato la resurrezione” e “Dio degli apostoli che ha effettuato la remissione dei peccati” e “Dio dei profeti che ha effettuato la redenzione”. Siamo, dunque, di fronte ad un tema profondamente cristiano, che conferma la biculturalità dell’opera. Sul retro abbiamo una croce fiorita dalla quale partono elementi vegetali ed un tralcio di vite, che indica la chiesa. L’edificio è costituito da un basamento accessibile da un portale nella parte frontale e nella parte superiore a forma di tempietto. La parte sottostante del basamento era coincidente con i resti di un edificio pagano più antico, mentre la parte frontale conserva la facciata in antis con quattro colonne corinzie scanalate a spirale, con due pilastri che sorreggono la trabeazione ed il frontone. Si tratta di elementi architettonici tipici dell’antichità, un sistema trilitico (colonne e trabeazione). L’accesso alla parte superiore avveniva attraverso due scalinate laterali, con pronai, queste strutture in aggetto. In origine queste due scalinate erano precedute da un loro pronao (spazio tra la cella e le colonne antistanti nei templi antichi), che però è stato demolito nel XVIII secolo per riutilizzarlo. All’interno troviamo una cella coperta da una volta a botta ed all’estremità un’edicola che inquadra l’abside. L’abside è decorata con affreschi del VII secolo, raffiguranti Il Salvatore tra i santi Pietro e Paolo. Dal punto di vista stilistico si sono trovati degli elementi tangenti con la chiesa di Santa Maria antica. Lastre di Pluteo, inizio VIII secolo (marmo lavorato ad altorilievo, Pavia-Museo civico Malaspina) Siamo in un periodo, detto la Rinascenza Liutprandea (inizio VIII secolo), che in modo deciso recupera i temi presi dall’antichità. Queste sono due lastre di Pluteo, provenienti dall’oratorio di San Michele alla Pusterla, raffiguranti: Pluteo con creature marine e Pluteo con Pavoni. Le lastre ci forniscono altri elementi di riflessione sulla natura culturale dell’arte longobarda. Il recupero dell’antico, in Pluteo con creature marine, si vede nelle due creature fantastiche e nel tralcio di vite che funziona da cornice del Pluteo. Ma anche il sistema rigorosamente simmetrico con una decorazione simmetrica dove spuntano due teste di grifoni sul cosiddetto albero della vita. Si tratta di un tema caratteristico dell’arte persiana/orientale; l’arte longobarda, dunque si caratterizza anche per quegli elementi orientali che introduce nella cultura della penisola italiana. Questi animali alati con la coda a spirale da drago marino, sono stati identificati come elementi orientali ma in realtà li troviamo anche nella cultura della Roma classica antica e sono quelle figure chete che solitamente si trovano nel corteo del Dio Dioniso. La cornice, invece, dal punto di vista decorativo è tipicamente romana. L’artigiano che ha scolpito questa lastra ha rielaborato e fuso assieme più elementi di diversi ambienti culturali. Un esempio di albero della vita, elemento già più propriamente orientaleggiante è un’opera in seta, Albero della vita e leoni alati, risalente al primo periodo islamico (VII secolo, Iran National Museum). Il Pluteo con pavoni vede dei pavoni che si abbeverano da questo cantaro, anche questo di derivazione romano-pagana. Interessante è anche l’elemento dell’horror vacui, questo riempimento degli spazi vuoti realizzato con l’inserimento di elementi decorativi, che denotano l’esigenza di riempire lo spazio privo di decorazione. Lastra con Pavone, VIII secolo (Brescia-Museo di San Giulia) La lastra con Pavone è quella che più ci da la dimensione dell’attenzione dei Longobardi all’antico e soprattutto le raggiunte capacità tecnico/artistiche da parte degli artigiani. Il tema della vite che circonda il pavone è realizzato con questo sapiente intaglio, in contrasto con il piumaggio vario disteso sul corpo del pavone; il piumaggio cambia a seconda dell’area del corpo del pavone. Si tratta di un lavoro di intaglio estremamente sofisticato e di grande maestria. Esso potrebbe risultare quasi classico se non fosse per l’uso spiccato del trapano, nelle piume della coda del pavone o di alcune foglie, dove si creano dei decisi chiaroscuri che alternano la luce che invece sul resto del corpo del piumaggio scorre con una morbidezza straordinaria. Siamo a metà dell’VIII secolo, quindi non possiamo più parlare di un’arte longobarda di intaglio, di pietre preziose, di decorazione animalistica astratta, ecc. Il percorso di questa cultura lo ha portato alla integrazione con la popolazione italiana ed alla realizzazione di opere più vicine ad una cultura di carattere classico. CIVIDALE DEL FRIULI Cividale del Friuli fu elevata a livello di Forum Julii nel I secolo da parte di Giulio Cesare, poi diventa uno degli avamposti dei Longobardi. Il Forum Julii viene concesso da Alboino a Gisulfo, suo nipote, prendendo poi il nome di Cividale. Qui troviamo delle opere artistiche di grande interesse e grande rappresentatività della cultura longobarda. Battistero di Callisto, VIII secolo (pietra calcarea, Cividale del Friuli) Il battistero ha una forma ottagonale, numero legato alla Resurrezione, sormontato da un tegurio (edicola ottagonale ad archi sorretti da piccoli pilastri e colonne), composto da ampi archi a tutto sesto sostenuti da colonne corinzie. Il materiale dell’opera è pietra calcarea bianca. Gli archi sono ornati da iscrizioni e motivi vegetali, animali e geometrici. Nella parte bassa troviamo una decorazione composta da due lastre scolpite, con figure simboliche legate al sacramento del battesimo. La lastra di Paliotto di Sigoaldo in pietra calcarea e scolpita ad altorilievo, fu collocata presso la balaustra del ciborio (tabernacolo a quattro colonne sovrastante l’altare delle basiliche cristiane) in un tempo imprecisato, forse tra il 756-86 in quanto Sigoaldo fu patriarca nel corso di questi anni, elemento attestato dall’iscrizione. La lastra fu probabilmente una mezza d’altare oppure una lastra di una recinzione presbiteriale, anche se non possiamo sapere l’originale collocazione. La decorazione è distribuita con una rigorosa simmetria rispetto all’asse mediano, delimitato dalla croce, decorata a matassa, e da un albero della vita con con il panno sottostante decorato con testine leonine e sotto dei grifoni. Nel listello (sottile elemento con funzione di riempimento o rinforzo, nonché di ornamento) abbiamo la dedica che divide orizzontalmente la lastra; essa è dedicata a Sigoaldo che fa realizzare l’opera dedicandola a Giovanni Battista. Sui quattro lati ci sono i simboli degli evangelisti. Anche in questo caso, sebbene qui la eredità di quella decorazione di oggetti di oreficeria, che decoravano interamente gli oggetti in questione. Ancora una volta l’intaglio è estremamente preciso. Gli elementi caratteristici dal punto di vista figurativo sono: il gioco lineare dei panneggi, che annullano il corpo, il corpo umano disarmonico e deforme, con gli arti irregolari, gli occhi sgranati ed enormi e le figure che sembrano galleggiare nell’aria. Tempietto longobardo (oggi Santa Maria in Valle, Cividale del Friuli) Qui abbiamo l’altro versante dell’arte longobarda, quello che guarda con maggiore attenzione all’arte classica. La resa plastica e formale sono più equilibrati negli stucchi, una tecnica di decorazione estremamente caratteristica del periodo Longobardo e Carolingio. Lo stucco è un materiale molto più semplice da modellare, che non necessita un intaglio, ma si modella con mani e stampi, quindi la forma riesce ad essere più morbida nella sua resa. Queste figure sono in aggetto, ma è un aggetto moderato rispetto alla superficie; le figure fanno ancora pienamente parte della superficie, manca una volontà di emancipazione. La volontà è quella di essere parte del sistema architettonico, dell’arredo, quasi un disegno a rilievo. La resa, tuttavia, è in questo senso di grande efficacia, anche da un punto di vista plastico. Questi modellati, anche sui volti, sono più regolari, a parte l’occhio grande e sgranato, molto profondo, ma le proporzioni non sono così deformi, più vicine alla sensibilità classica. Questa è l’ala occidentale, rialzata e coperta con una volta a crociera, decorata in controfacciata con delle decorazioni dipinte incorniciate da cornici di fiori stellati che si trova nella parte sovrastante. Sono sei figure femminili, probabilmente regali, che fiancheggiano la nicchia centrale. La produzione scultorea coeva offre veramente pochi termini di confronto con queste figure. Dal punto di vista naturalistico esse sono veramente fresche, confrontabili solamente con questo tralcio vitineo in stucco che incornicia il dipinto. Si tratta di un arco con cornice in stucco e decorazione pittorica a fresco. L’arte longobarda, quindi, ci offre quel percorso estremamente significativo nella rottura prima con la tradizione tardo-antica, che comunque fino a Teodorico e Giustiniano si era verificata, estendendo la tarda antichità fino a tutto il VI secolo. Dopo il VI secolo, dopo la vittoria di Giustiniano, avvengono i Longobardi che spezzano questa continuità con il passato; continuità che si spezza solo nel primo periodo. Una volta che resta in contatto con la cultura della penisola italiana, l’attenzione verso l’antico, di equilibrio, si fa strada nella produzione artistica, andando di pari passo con la pacificazione con la popolazione franca. Appare una forma d’arte che è espressione di questa dimensione non più nomade, ma una forma stanziale. L’ARTE DEI REGNI BARBARICI IL IX SECOLO: LA RINASCENZA CAROLINGIA I Longobardi, con Liutprando, trovano un’iniziale situazione di pace con i Franchi che premevano sui loro confini. Dopo la morte di Pipino III, re dei Franchi, nel 741, il regno viene diviso tra Carlomanno e Carlo. Nel 771 muore Carlomanno e il regno viene riunificato sotto il re Carlo Magno. Egli inizia una campagna militare volta all’ampliamento del Regno; egli estende la dominazione franca alla Spagna (Barcellona) e all’Aquitania. Nel 774 Carlo Magno sconfigge i Longobardi del Nord. La notte di Natale dell’800, Carlo magno viene incoronato imperatore del Sacro Romano Impero da papa Leone III, stringendo, dunque, una solidissima alleanza con il papa ed il clero. Alla morte di Carlo Magno, nell’814, l’Impero viene ereditato dal figlio Ludovico il Pio, che muore nell’840. Dopo la sua morte l’Impero, secondo il Trattato di Verdun (843), verrà diviso tra i tre figli di Ludovico il Pio. La caratteristica del Regno Carolingio è quella di voler ricostruire l’Impero Romano, basandosi sulla ormai stretta alleanza con il papato. La stessa denominazione di “Sacro Romano Impero” unisce l’idea di tornare alla Roma antica, ma anche un Impero fondato sulla Chiesa e le sue istituzioni ecclesiastiche, anche in termini di gestione delle regioni dell’Impero. È Carlo Magno che nomina gli abbati, ad esempio. Egli trova, quindi, il sistema per controllare il territorio basandosi sulle istituzioni ecclesiastiche; questo sistema condizionerà molto la Chiesa nei secoli successivi, in quanto anche i vescovi saranno nominati ed eletti dall’Imperatore. Questa unione forte tra le istituzioni laiche e quelle ecclesiastiche serve in questa fase per consolidare ed ampliare il regno, ma produrrà problemi poi nella gestione della Chiesa. Il tratto fondamentale dell’arte carolingia è l’attenzione all’antico, inteso principalmente come tardo- antico cristiano. Per quanto riguarda l’esame storico artistico si pone il problema dell’individuazione dei modelli dell’arte carolingia. In campo architettonico, abbiamo ad esempio la Cappella Palatina di Aquisgrana, che si rifarebbe alle costruzioni costantiniane a pianta centrale, sia in senso imperiale che cristiano. La miniatura, l’avorio e l’oreficeria, arti tipiche di queste popolazioni (come con i Longobardi) nella prima fase di nomadismo. La renovatio, questo recupero dell’antico, costituisce per i Franchi, che vogliono consolidare il regno e trasformarlo in Impero, una sorta di autorità al quale riferirsi e di ricavare visivamente una sorta di patente per l’Impero. In questo primo periodo dominato da Carlo Magno si innesta una disputa molto importante e lacerante per la cristianità stessa, ovvero la cosiddetta iconoclastia. Il termine iconoclastia deriva dal greco “distruzione delle immagini” e viene motivata dalla lettura dei passi biblici Esodo 20, 4-5 e Deuteronomio 4, 15-19. Si tratta di una fase che prevalentemente trova espressione nell’Impero Romano d’Oriente. Il primo periodo di iconoclastia si verifica tra il 730-787, quando le icone vennero bandite da Leo III Isaurico e Costantino V, imperatori dell’Impero d’Oriente, sollevando le sommosse degli iconoduli, coloro che ritenevano che le immagini dovessero essere adorate ed utilizzate. Si tratta di una ribellione sostanzialmente politica, ma che nasce da questa fondamentale opposizione nella concezione e ricezione delle immagini. Nel 787 il Secondo Concilio di Nicea condanna l’iconoclastia e legittima la venerazione delle icone, ma non la loro adorazione. Le immagini non potevano essere adorate in quanto divinità; l’adorazione dell’idolo viene comunque condannata dalla religione cristiana, posizione, ad esempio, di Gregorio Magno. La stessa esposizione dell’Imperatore, che siede su questo trono sopraelevato, in modo tale da essere visto dal basso da parte dei sudditi. Il trono si trova nella zona superiore, al livello del deambulatorio, rendendolo più visibile da chi entrava sotto. L’Imperatore, tra l’altro, era vestito con i colori dell’Impero; Carlo Magno fece infuriare l’Imperatore d’Oriente in quanto osò indossare la porpora, essendo in fondo un barbaro che si autoelegge Imperatore, ma non apparteneva alla dinastia imperiale e non aveva ereditato legittimamente l’Impero da nessuna gerarchia o sangue imperiale. Nella loggia occidentale, dunque, Carlo Magno sedeva quasi come mediatore tra Dio ed il suo popolo, visualizza immediatamente questo concetto di autorità derivante direttamente da Dio. Questo è il carattere volutamente imperiale della Cappella Palatina. Abbazia di Corvey, 873-885 (Germania) Il sistema di esposizione dell’Imperatore e di sede riservata all’Imperatore viene poi adottato anche nei monasteri. Il controllo diretto di Carlo Magno sui monasteri che fa restaurare e dove elegge persone di sua fiducia come abati, ecco che nella porta di accesso alla chiesa del monastero, si ricava uno spazio. Si tratta delle cappelle del Salvatore, che si trovano nella parte occidentale dell’edificio. La costruzione si definisce westwerk, ad indicare il corpo occidentale. È una costruzione che vede una massiccia struttura architettonica affiancata da due torri campanarie, dove al piano superiore si trova l’ambiente riservato all’Imperatore. Qui avevano luogo le liturgie che coinvolgevano l’Imperatore e la sua cerchia. Sempre nel westwerk si trovano le reliquie dei martiri e dei santi. I due piani superiori, quindi, comprendevano entrambi una sala molto ampia dove era situato il trono; quando l’Imperatore assisteva alla liturgia faceva da contraltare alla zona absidale dove si trovava il coro e l’epifania di Cristo. Dio, dunque, in qualche modo dialoga con l’Imperatore e viene posto al suo stesso piano. Nel momento in cui l’Imperatore fosse assente il fatto che rimanesse lì il trono voleva dimostrare simbolicamente la sua presente. La struttura del westwerk è la struttura che meglio rappresenta l’architettura carolingia di quest’epoca. Qui aveva luogo la liturgia del Salvatore e tutte quelle che coinvolgevano l’Imperatore. Questa parte dell’edificio eludeva alla rotonda dell’anastasi di Gerusalemme, ovvero al santo sepolcro, dove si trova il luogo di sepoltura di Cristo. Questa struttura era tipica delle architetture monastiche, che in età carolingia assumono una notevolissima estensione. Qui abbiamo una pianta dell’abbazia di San Gallo (818-830), in realtà una sorta di progetto di un monastero che non venne mai realizzato; si discute ancora se si tratti di un reale progetto o se si tratti di una elaborazione ideale di come dovesse essere un monastero, come un’indicazione programmatica. La pianta, comunque, ci da delle informazioni estremamente importanti dell’organizzazione dello spazio e dunque anche della vita dei monaci, ma anche dell’attenzione che in questo periodo si aveva nei confronti della vita monastica. Il monastero diventa il centro del potere per Carlo Magno. Di fatto lui richiedeva per se stesso la fedeltà, mettendo in secondo piano l’osservanza della regola benedettina, oltre al fatto che era lui stesso ad eleggere l’abate. Il monastero assume le forme di un impianto edilizio estremamente elaborato e complesso; una vera e propria città monastica del tutto autosufficiente. Dalla pianta si vede come gli spazi comprendessero: l’alloggio dell’abate, la scuola, l’infermeria. La maggior parte della vita monastica si svolgeva all’interno del chiostro, dove avveniva la preghiera. Esso era annesso alla chiesa con doppia abside, tipico del periodo carolingio in quanto si elabora una liturgia stazionale, ovvero una liturgia itinerante all’interno dello stesso edificio che prevede una serie di altari; a seconda della liturgia che si svolgeva in quel giorno e a seconda della festività si sviluppava una specifica liturgia che si svolgeva attorno e dall’altare specifico. La preghiera e la meditazione si svolgeva all’interno del chiostro, un’area quadrata, porticata e semiaperta (uso del giardino, suono dell’acqua come astrazione e meditazione); in senso orario i monaci leggevano e pregavano a bassa voce, ripetendo la preghiera come un mantra. Bisogna tenere conto che questi erano luoghi vissuti da una pratica e con estensioni temporali diverse. Affianco al chiostro abbiamo il refettorio, dove si mangiava in silenzio e tutti insieme, mentre qualcuno leggeva le letture; questa dimensione di silenzio con una voce narrante produce una certa forma di astrazione. Il monastero deve essere pensato come una sorta di microcosmo autosufficiente e come una realtà isolata rispetto al resto. Il chiostro, dunque, è lo snodo della vita monastica. Le zone periferiche sono la zona di lavoro e lo scrittorio con annessa biblioteca. Nello scrittorio si lavorava con la luce del sole, evitando che con la luce artificiale i manoscritti potessero essere rovinati. Nello scrittorio il lavoro era diviso secondo cinque tipi di scribi: i calligrafi (che realizzavano i libri preziosi), i copisti (che copiavano il testo), i correttori (che controllavano il libro), i miniatori (si occupano delle decorazioni) ed i rubricatori (si occupavano delle lettere evidenziate in rosso). Abbazia di Lorsch, 774 (Germania) Anche nell’Abbazia di Lorsch possiamo osservare il portale monumentale. Gli elementi decorativi sono chiaramente ripresi dall’antico, come i pilastri che sono di fatto delle semicolonne con dei capitelli fogliati e ionici, ma all’interno di una struttura tipica delle costruzioni in legno dell’Europa del Nord, anche con questo paramento policromo che decora la struttura. La struttura inferiore è costituita da tre fornici, mentre quella superiore ha un’aula che funge da sala del trono e per lo svolgimento delle liturgie; c’è sempre la zona sopraelevata nei monasteri riservata all’Imperatore. Il paramento di queste pietre rosse e bianche è disposto secondo dei motivi geometrici che ricoprono tutta la superficie muraria. Centula di Saint Riquier, 800 ca Il complesso monastico della Centula di Saint Riquier, riedificato da Angilberto, amico di Carlo Magno, che gli dona questo complesso monastico. Angilberto conduce una vita estremamente mondana, ma dopo essere guarito da una brutta malattia decide di dedicarsi alla ristrutturazione dell’abbazia ed alla piena osservanza della religione Cristiana. Egli ricostruisce il complesso, di cui possiamo vedere solo dalle piante, con le tre chiese principali: Saint Riquier, Santa Maria e San Benedetto. La chiesa maggiore è quella principale, con due strutture che si raffrontano, l’ingresso e l’abside. Anche qui abbiamo uno spazio riservato all’Imperatore che affronta lo spazio absidale riservato a Cristo. Abbiamo poi un ampio portico, che collega gli altri due edifici che sono parte dello stesso complesso dinastico e degli stessi usi liturgici; la liturgia si svolge in modo itinerante. L’abbazia viene consacrata nell’801 e diventa una delle più importanti del regno. Tutte le sue parti sono funzionali alla liturgia stazionale e munite degli elementi essenziali alla vita monastica: cinque cappelle, le tre chiese. Le processioni partivano dalla chiesa e si svolgevano anche nel territorio circostante, toccando anche le altre chiese. La liturgia, comunque, si svolgeva anche all’interno dell’edificio con la stazione in prossimità dei vari altari. Nella zona della cappella del Salvatore vi era il trono sopraelevato dell’Imperatore. Nella parte absidale abbiamo l’altare di Saint Riquier, nonché gli altari dedicati ai santi martirti, onorati con un culto specifico. Queste informazioni le abbiamo da alcuni manoscritti che ci descrivono questa forma di liturgia. La chiesa si sviluppa longitudinalmente. Le torri cilindriche, formate da un tamburo cilindrico, coronato da una lanterna a tre piani, sono disposte simmetricamente alle estremità della navata principale. Esse costituiscono un vero e proprio modello della struttura architettonica carolingia, in quanto in questa costruzione, una volta entrati dalla porta principale, si entra in una struttura molto più complessa, un ambiente ricco di colonne e di pilastri, collegati da volte a crociera. Si tratta di una struttura chiamata cripta salvatoris; questa zona è di fatto un reliquiario, che diventerà un precedente importante per la costruzione di cripte in età romanica. Le volte in questa struttura sostenevano una tribuna superiore, attraverso cui si accedeva tramite queste torri scalari, dove si trovava il trono dell’Imperatore. La zona di accesso occidentale assume un grande valore simbolico proprio per la presenza delle reliquie; il westwerk come struttura importantissima e caratteristica dell’architettura carolingia. Queste strutture finiranno per essere utilizzate anche al di fuori della Francia, fino a Venezia e la zona adriatica; l’uso e la funzione culturale che si fa di queste strutture poi le connota. LA MISSIONE MANOSCRITTA Guardando questo codice manoscritto vediamo degli strumenti scrittori; dove scrivere, Matteo che sta scrivendo, ecc. Il foglio veniva organizzato con delle rigature, il liber, il codice (da tronco d’albero), viene riferito all’uso antico di scrivere sulle tavolette di legno cerate. La cera poteva essere incisa, ma poteva anche essere fusa e riutilizzata. Nel tempo questo sistema antico, già conosciuto dagli egiziani, fa evolvere il termine come unione di più di queste tavolette, e quindi di fogli. L’insieme di fogli rilegati insieme costituisce il codex Nella Roma antica i codici erano redatti da schiavi colti, mentre in epoca Medievale essi sono redatti negli scrittoria dai monaci. La grande produzione di questi codici, dunque, è sostanzialmente monastica. In questo periodo, inoltre, si da un forte impulso alla riproduzione dei testi classici ed antichi. Quest’opera fondamentale di copiatura diventa un’opera di trasmissione, ma anche di selezione della memoria; essa viene selezionata sulla base della riproduzione dei grandi del passato, come Aristotele ad esempio, mentre al cose vanno perdute. Il Medioevo attraverso questa attività di trasmissione della memoria ricopre un ruolo veramente importante, a maggior ragione lavorando oggigiorno con strumenti digitali molto più fragile rispetto a quelli del passato, a cui noi oggi affidiamo la nostra memoria. La rivoluzione fatta in questi anni con la costruzione del codice, il suo recupero ed il suo incremento, ci ha consentito di farci arrivare determinate informazioni e libri. La bibbia diventa il libro per eccellenza, il Medioevo si fonda sulla parola, anche la sua tradizione artistica. La parola scritta diventa simbolo di Dio, quindi la grande enfasi per la produzione dei brani deriva da questo. Anche il modo in cui si scrive ha un suo valore. I Carolingi elaborano una scrittura, oltre a dare una nuova forma al manoscritto; la rivoluzione dell’età carolingia si deve anche a questa nuova scrittura. Elaborano una scrittura che si chiama scrittura carolina, che recupera la littera antiqua, ovvero la scrittura romana antica. Viene recuperata sia la maiuscola, una scrittura libraria, sia la capitale. La carolina è una tipologia grafica libraria, ma minuscola; la differenza è che una scrittura inserita in un sistema bilineare è detta maiuscola, mentre una inserita all’interno di un sistema quadrilineare è detta minuscola. Questo tipo di scrittura era veloce, ma stacca il tratto, non crea nessi o legature, in modo posato. Queste due tipologie classiche, quindi, sono quelle con cui vengono scritti questi manoscritti. I Carolingi, dunque, recuperano il libro, ne danno grossa diffusione e poi recuperano la scrittura classica. I libri prodotti sono molto ricchi. Nell’esempio vediamo i Vangeli di Godescalco con una miniatura su pergamena raffigurante gli Evangelisti Marco e Luca, risalente al 783. I modelli adottati in questi manoscritti sono modelli greco-bizantini, elaborati con un linearismo molto accentuato, sebbene questi motivi delle cornici, ad intreccio, rivelino la formazione di maestri educati in territorio franco. Un altro codice molto ricco è l’Evangelario di Lorsch con una miniatura su pergamena e l’incipit del Vangelo di San Matteo, risalente alla prima metà del IX secolo (810-820). Si tratta, dunque, di un vangelo miniato che possiamo definire come uno dei capolavori di natura carolina. La definizione di codex aureus deriva dalle modalità di decorazione, che vede delle lettere ad inchiostro dorato su fondo purpureo. Possiamo osservare il recupero della capitale, recuperata secondo la tradizione carolina; fusione delle lettere, inserimento di lettere, alternanza di modulo, rapporto tra grandezza e larghezza delle lettere, ecc. La pagina del libro è ricchissima anche semplicemente nella raffigurazione delle lettere. Sempre nel Vangelo di Lorsch abbiamo una miniatura che rappresenta l’Evangelista Matteo all’interno di un arco a tutto sesto basato su colonne. L’evangelista Matteo sta scrivendo quello che l’angelo gli sta dettando, tra l’altro suo simbolo tetramorfo. La costruzione di questa pagina, decorata per intero, è una costruzione che ha chiaramente delle influenze tipicamente classiche ed occidentali, ma senza rinunciare alle influenze bizantine. Nello stesso evangelario abbiamo anche la miniatura dell’Evangelista Giovanni. La coperta dell’evangelario è realizzata in avorio intagliato (Victoria and Albert Museum). Si tratta della copertura del codex, solitamente in legno, vede la Madonna con il bambino circondata dai santi e le storie della natività di Cristo. Esse sono un chiaro richiamo alla tarda-antichità, elemento che possiamo trovare anche nelle altre due coperte (l’evangelario ha subito una dispersione tra l’Inghilterra e la Biblioteca Apostolica di Roma). Il modello al quale guardare è, ad esempio, la Cattedra di Massimiano. Qui abbiamo Cristo che calpesta il drago, con la stessa disposizione paratattica della cattedra. Abbiamo poi l’Evangelario di San Medardo di Soissons, con una miniatura su pergamena de La Fontana della vita, risalente ad inizio IX secolo. Qui è rappresentata la fontana della vita, dalla quale si abbeverano tutti gli animali, una costruzione poligonale, ma coperta da un tegurio con colonne e capitelli; costruzione che echeggia i motivi paleocristiani, tema stesso poi della bibbia, simbolo del paradiso e della redenzione. I Vangeli dell’Incoronazione, detti anche i Vangeli di Carlomagno (Vienna-Shatzkammer, Kunsthistoriches Museum) provenienti da Aachen e risalenti all’800-810 circa. Qui abbiamo una miniatura su pergamena di San Matteo. Questi Vangeli sono esempio di manoscritti decorati da artisti greci o romani, educati nelle scuole greche, realizzato per Carlo Magno per l’occasione dell’incoronazione ad Imperatore. Ci sono dei modi edonistici, come il panneggio, il chiaroscuro, forme molto solide su fondo purpureo ed una cornice che tradisce la presenza di artisti occidentali. Questi manoscritti vennero trovati da Ottone III sulla tomba di Carlo Magno ad Aquisgrana nell’anno Mille. Le ultime testimonianze ci sono fornire dai Vandeli di Ebbone di Reims, risalenti all’816-835 circa (Epernay-Biblioteca Mucipale da Hautvillers, miniatura su pergamena). Qui il movimento è molto più accentuato e nervoso, la figura riecheggia le forme plastiche, ma questa cifra stilistica è quasi più espressionista. Ebbone è consigliere di Ludovico il Pio e sono caratterizzate da un’accesa caratteristica espressiva con un segno grafico molto dinamico, virtuoso e mosso. Qui tutte le iscrizioni accompagnano le scene lungo una incorniciatura che, come tradizione, afferma come sia sempre la parola che guida la corretta interpretazione, elemento fondamentale dell’arte medievale. Lungo la incorniciatura, appunto, corre una lunga iscrizione che ammonisce l’osservatore a non farsi abbagliare dalle gemme e dall’oro, ma di ammirare il vero splendore, ovvero quello nascosto, del contenuto delle reliquie. Qui abbiamo la scena iniziale raffigurante il miracolo delle api e la partenza di Ambrogio. Il panorama è abbastanza essenziale, molto semplice, in qualche modo stilizzato ed austero; esso si avvicina, in qualche modo, agli avori ravennali del VI secolo, che avevano proposto le medesime caratteristiche formali. LA PRODUZIONE MANOSCRITTA DELLE BIBBIE: L’ULTIMA ARTE CAROLINGIA La Prima Bibbia di Carlo il Calvo, detta anche Bibbia di Vivien (846), segue la tradizione inaugurata da Carlo Magno quando nell’Abbazia di San Martino aveva commissionato la prima versione illustrata della Bibbia carolingia. È probabilmente opera di un miniatore che aveva avuto modo di visionare le unità provenienti da Reims ed era attivo anche a Tour. Queste scene sono rappresentate come una fascia continua non interrotta da elementi architettonici o da riquadri, come nel caso delle Scene della vita di San Girolamo. La decorazione, la narrazione, è più piana e meno movimentata. La Seconda Bibbia di Carlo il Calvo, realizzata tra l’871-873, vede un’accelerazione verso la geometrizzazione, come vediamo nell’Incipit della Genesi. Si tratta di un’opera più tarda, segnata da una rivoluzione, involuzione, per l’assenza della narrazione figurata ed il ritorno di un tipo aniconico (priva di immagini), ma solamente da decorazioni geometriche. La geometria è armoniosa e raffinata ed echeggia le modalità del secolo precedente. Osserviamo la stessa cosa sulla Lettera incipit, che riprende una decorazione di tipo animalistico, astratto, geometrico, che si rifà alle pagine tappeto. Le bibbie carolinge fanno, poi, il loro ingresso anche a Roma, come la Bibbia di San Paolo fuori le mura, risalente all’870 ca. Si tratta di un manoscritto realizzato a Reims, su commissione di Carlo il Calvo e donato a Papa Giovanni VIII per l’incoronazione di Carlo il Calvo come Imperatore, la notte di Natale dell’875. L’opera è importante in quanto fu poi consegnata all’abbazia benedettina di San Paolo fuori le mura da Gregorio VII. Essa contiene il testo della vulgata dell’Antico e del Nuovo Testamento e sarà poi uno dei modelli per le Bibbie Atlantiche. Come possiamo vedere dal Frontespizio della Genesi, la narrazione avviene su un nastro continuo, senza interruzioni, sebbene le vicende siano scandite da più elementi. Abbiamo: la creazione dell’uomo; la creazione della donna; il peccato originale; la cacciata dal Paradiso. Al di sotto vi sono di nuovo delle iscrizioni che descrivono le scene. L’ARTE DEI REGNI BARBARICI IL X SECOLO: ARTE DEGLI OTTONI La dinastia degli Ottoni inizia con Ottone I, che nel 951 si proclama Rex Francorum et Langobardum, ovvero re dei Franchi e dei Longobardi, annettendo il Regnum Italiae. Nel 962 viene incoronato Imperatore da papa Giovanni XII. Nel 973 egli muore e si ha il matrimonio di Ottone II con la principessa bizantina Teofano; questo sarà un evento importante dal punto di vista culturale, in quanto avvicinerà gli Ottoni alla cultura greca. Dal 973 al 983 si ha il Regno di Ottone II. Nel 983 diventa re Ottone III, che verrà coronato Imperatore nel 996 e regnerà fino al 1002, anno della sua precoce morte; il suo Impero fu segnato dalla brevità della sua vita. Nel 1002 Enrico II succede ad Ottone III, concludendo la dinastia degli Ottoni. Enrico II appartiene alla dinastia salica, ma proseguono l’arte che era stata avviata durante l’Impero ottoniano, con delle caratteristiche ereditate dall’arte carolingia, con delle sostanziali differenze. Nel 1004 Enrico II sconfigge Arduino, mentre Venezia domina la Dalmazia fino a Zara. L’arte ottoniana è un’arte di corte, in connessione con l’arte carolingia, ma non c’è continuità tra gli elementi storico-artistici. Con gli Ottoni si instaura un’autorità imperiale, che è insieme romana e carolingia. Con la dinastia Sassone si verifica una rinascita del concetto imperiale, ma in un contesto diverso da quello carolingio, in quanto si tratta del tempo della nascita delle Nazioni. L’Impero ottoniano non ebbe nemmeno l’estensione di quello carolingio, esso fu più tedesco che universale e quindi più coerente con la dinastia Sassone, espressione dei suoi imperatori. Nuova fu la prospettiva del rapporto con l’Impero Bizantino, grazie appunto al matrimonio con la principessa Teofano. Questo esempio, il Paliotto d’altare di Magdeburgo. Si tratta di una formella proveniente dall’altare, una produzione di avorio, che per il materiale richiama modelli antichi. L’opera venne realizzata in occasione della solenne traslazione delle reliquie di San Maurizio, da Milano a Magdeburgo, che era urbis regis, con un convento annesso di fondazione imperiale. Esprimeva la fondazione della chiesa, anche dal punto di vista geografico, lo spostamento ad Oriente, ovvero nel cuore della Sassonia, del centro di gravità dell’Impero. Quest’opera, dunque, ha un significato molto profondo nelle ragioni strategiche dell’Impero, volendo quasi legittimare l’autorità Imperiale di Magdeburgo, incarnata dalla città stessa che voleva essere quasi come Aquisgrana per l’Impero carolingio. Dell’altare rimangono sedici placchette in avorio, da quello che probabilmente era un Paliotto, una cattedra smontata già in antichità ed andata persa. La commissione fu assegnata alle botteghe milanesi, che non avevano interrotto una tradizione che risaliva fino ai primi secoli. Questa formella rappresenta la Maiestas Domini e Ottone I (962-973, avorio intagliato a bassorilievo, NY-Metropolitan Museum of Art). Vediamo Ottone I che offre il modellino della cattedrale a Cristo, seduto in centro su una sfera, assistito ed introdotto da San Maurizio. La scena si collega a quando Magdeburgo fu elevata a sede vescovile nel 968. Il fatto storico si ricollega alla visione trascendente di Cristo, come lo descrive il profeta Isaia: seduto sul trono celeste rappresentato da un setto a mo di ghirlanda, con i piedi che poggiano su un piccolo arco trasverso che rappresenta la terra. Rapporti tra la situla e gli altri avori visionati li troviamo anche nella Situla Basilewskij, risalente al 980 ca, in avorio intagliato a bassorilievo (Londra-Victoria and Albert Museum). Essa è sicuramente di produzione lombarda e contiene le dodici storie della Passione, che la ricordano sulle due facce, i due livelli di cui è composta. Nella parte superiore troviamo la crocifissione di Cristo. Anche qui la situla è largamente iscritta; le iscrizioni corrono lungo queste cornici circolari in modo continuo. In questo caso esse contengono testi rielaborati dal Carmen Pascale di Setulio, ovvero testi che si rifanno ad una fonte autorevole. Le descrizioni dedicatorie, invece, si riferiscono ad un Ottone: “Possa il Padre, che aggiunse tre volte cinque agli anni di Ezechiele, concedere molti lustri all'augusto Ottone. Con reverenza, Cesare, il vaso della sacra unzione aspira a essere ricordato per l’arte”. La situla potrebbe essere stata realizzata tra il 980 ed il 981, in occasione della visita di Ottone II a Milano, con la moglie Teofano ed il figlio Ottone III. Essa contiene le dodici scene della passione e della resurrezione di Cristo, secondo due registri sovrapposti ed con una narrazione che viene scandita da sottili cornici che separano una scena dall’altra. Qui possiamo vedere anche la parte sommitale, chiusa. Sant’Ambrogio, 972 (fine X secolo, Milano) La parte interessante di quest’opera è l’apparato decorativo disposto nella parte sommitale con dei rilievi in stucco. Ogni scena reca un omaggio a Cristo. Sul lato ovest, verso la navata, troviamo la Traditio legis, con porta, la consegna delle chiavi a San Pietro e del libro a San Paolo. Lo stucco è decorato e colorato, soprattutto tra i piedi di Pietro e Paolo e sopra Cristo; rimane parte di una decorazione celeste che probabilmente doveva ricoprire tutto lo sfondo della scena. Sul lato est, verso il coro, abbiamo Sant’Ambrogio tra i santi martirti Gervasio e Protasio e adorato da Arnolfo I e un religioso; Arnolfo I è vescovo di Milano tra il 970 ed il 974. Il lato sud vede Sant’Ambrogio adorato da Ottone I e Ottone II. Sul lato nord abbiamo la Vergine adorata da Adelaide e Teofano. Questa decorazione, come osservato da Peroni, sottolinea il parallelismo tra potere religioso e civile, ed insieme la dipendenza del secondo verso il potere religioso. Non si tratta di una precisa dichiarazione di autonomia del potere imperiale, semmai una unione tra i due poteri. Tutti questi personaggi si inseriscono con grande equilibrio nei i campi trapeizoidali che vengono ricavati dalla sommità del ciborio. Dal punto di vista tecnico-stilistico c’è una grande vicinanza con le placchette in avorio; il sistema decorativo viene desunto da quell’arte plastica. San Michele, 1001-1033 (Hildesheim) Si tratta di una chiesa fatta costruire dal vescovo Bernoardo, precettore di Ottone III tra il 1010 ed il 1033. Essa riprende dei temi già noti al mondo carolingio, ma aggiornandoli, modificandoli. L’impianto dell’edificio si ricollega alla struttura bipolare vista a Centula, ovvero una strutta architettonica che imposta la sua struttura sulla corrispondenza di parti uguali poste alle estremità dell’edificio. Abbiamo due corpi di fabbrica, uniti da un corpo basilicare a tre navate, formate da tre vani uguali, che è poi unito con la zona absidale da un transetto. Si tratta di una costruzione estremamente ordinata, ritmata da un sistema definito alternanza sassone: due pilastri che contengono al loro interno due colonne. Questi sono elementi che contribuiscono a rendere il movimento molto ritmato all’interno dell’edificio. La differenza con l’architettura carolingia, come a Centula dove era presente il westwerk, è che questa soluzione non viene riproposta; quel corpo massiccio occidentale affiancato da due torri non ricopre più la funzione di westwerk. Queste due strutture che sembrerebbero evocare il westwerk, di fatto non hanno più la funzione di esposizione dell’Imperatore, anche perché l’ingresso, l’asse dell’edificio è spostato. Non si entra più dall’asse longitudinale, ma le entrate sono laterali. Questo comporta una percezione dello spazio completamente diversa; entrando da uno dei due lati l’attenzione non è più attratta dall’altare, ma da una varietà di prospettive che non sono più suggerite da un andamento assiale. È una percezione dello spazio molto più dinamica. L’esperienza comincia ad affermarsi con sempre più evidenza basandosi sulla ricchezza degli elementi architettonici, che si associano anche a quelli decorativi. L’elemento importante di questa costruzione è la presenza della cripta, che presenta un deambulatorio, anticipando così le soluzioni delle chiese di pellegrinaggio, che diventeranno poi largamente diffuse durante l’età Romanica. Mancano le tribune e le finestre si trovano al piano superiore. Veduta ovest Veduta est La miniatura su pergamena raffigurante l’Evangelario di Ottone III, risalente alla fine del X secolo (Monaco-Bayerische Staatsbibliothek), ha una composizione più rigida, ma è più evidente l’elemento simbolico. L’Imperatore, vestito di rosso, tiene in mano il globo, lo scettro, la corona, anche i due protomi che sporgono dalla sella, citano una seduta dell’Imperatore dell’antichità. I capitelli hanno perso la loro dimensione anticheggiante, anche se il tetto spiovente è un richiamo della dimensione antica. Ottone III è circondato dai dignitari della corte; da una parte dalle gerarchie ecclesiastiche, mentre dall’altra parte vi sono i militari. La pagina che affianca questa è quella che rappresenta le Province sconfitte che rendono omaggio all’Imperatore Ottone III. Sempre all’interno dell’Evangelario di Ottone III, troviamo una miniatura su pergamena rappresentante Luca evangelista e risalente alla fine del X secolo. Qui possiamo vedere come la figura dell’evangelista si sia trasformata: non abbiamo più l’uomo seduto intento a scrivere il vangelo, bensì è una sorta di visione, che al suo interno contiene il simbolo di Luca. Si tratta di una costruzione più sofisticata rispetto alle precedenti, che va in una direzione estremamente simbolica, tema che sarà caratterizzante nella raffigurazione ottoniana. L’arte ottoniana arriva fino ad Enrico II ed Enrico III, a metà dell’XI secolo. Qui vediamo una miniatura su pergamena nell’Apocalisse di Enrico II, rappresentante il Drago che minaccia la donna vestita di Sole, risalente al 1020 circa (Bamberga-Staatsbibliothek); si tratta dell’illustrazione del capitolo XII dell’Apocalisse (versetti 1-2). La donna è illuminata dal sole e coronata da dodici stelle. Qui vediamo sempre il Drago che minaccia la donna vestita di sole, con datazione identica e facente parte dello stesso libro, che viene bene descritta in quest’altra illustrazione. Si tratta di una figura celeste. Il drago, invece, è una figura terrestre che va contro alla donna celeste ed è suo persecutore; il drago, quindi, si identifica con satana. La maggior parte delle esegesi interpretano la figura come donna celeste ed il figlio sarebbe il Messia. La tradizione cattolica, invece, specifica che la donna deve essere interpretata come Maria, ovvero come la madre di Gesù. La dinastia degli Ottoni, quindi, a livello artistico si concentra sulla riproduzione e la valorizzazione del simbolo, un simbolo che è estremamente complesso. ARIBERTO DA INTIMIANO A Milano Ariberto da Intimiano succede al vescovo Arnolfo II, nel 1018. Sarà un lungo vescovato che confermerà la chiesa di Milano come interlocutrice politica con l’Impero. Egli partecipa alle sorti dell’impero e lega il suo nome a diverse opere d’arte. Le commissioni più significative sono nel campo dell’oreficeria, probabilmente in virtù del suo accresciuto potere politico, per l’appoggio ad Enrico II e a Corrado il Salico, che Ariberto accompagna a Roma in occasione dell’incoronazione che avvenne nel 1027. Croce del vescovo Ariberto, post 1018 (lamina metallica lavorata a sbalzo, Milano-Museo del Duomo) Si tratta di una croce eseguita in lamina metallica lavorata a sbalzo. La croce risale al periodo finale, nel momento in cui Ariberto non si trova più all’apice del suo potere. Le decorazioni trilobate all’estremità della croce sono più tarde, e non centrano nulla con la croce dell’XI secolo, ma si tratta di un’aggiunta trecentesca. La croce, come la Croce di Geronte (976, Colonia- Duomo), riporta l’iconografia trionfale dell’aulica compostezza della figura, che è però rappresentata morta. Cristo è potentemente sbalzato sul metallo, ma defunto. Lo stesso avviene per la croce di Ariberto, ed è una scelta povera, che rispecchia forse il tramonto del Vescovo nel suo ultimo periodo. Ariberto si fa raffigurare ai piedi della croce, come offerente alla chiesa di San Dionigi di Milano, con la sua firma. Gocce di sangue appaiono simili a dei semi dorati. Queste croci hanno un’importanza centrale nella decorazione che si avvia a quello che sarà il Romanico. Il rapporto con la divinità, con la sua rappresentazione in forme che diventano sempre più plastiche, esercitandosi sulla restituzione del corpo di Cristo, su superfici che di fatto non riescono più ad inglobare la figura; c’è di fatto un tentativo di emancipazione della figura per restituire una fisicità al corpo del Cristo. Basilica di San Vicenzo a Galliano Ariberto da Intimiano fu anche il custode della Basilica di San Vicenzo a Galliano ed il committente della decorazione dipinta sull’abside, raffigurante il Cristo in Mandorla e risalente al 1007-1018. Vediamo la monumentale figura di Cristo, una delle poche e più importanti testimonianze della pittura ottoniana, con la Maiestas Domini, tra le figure degli arcangeli Gabriele ed Ezechiele a destra, mentre a sinistra gli arcangeli Michele e Geremia. Purtroppo la decorazione è stata in parte perduta, ma abbiamo delle testimonianze ottocentesche che ci restituiscono l’intera decorazione. Nella parte bassa, sotto alla calotta dell’emisfero, abbiamo le scene del martirio di San Vincenzo e gli episodi della sua vita; egli fu condannato da Daciano, governatore di Saragozza nel IV secolo, dapprima alla flagellazione (scena a sx), poi alla tortura del piombo fuso. San Vincenzo poi sarà gettato in mare con una pietra al collo e rinvenuto su una spiaggia da alcuni cristiani, che gli resero una sepoltura più degna, come vediamo nella scena. Vediamo il santo che viene posto all’interno di una sepoltura. L’impaginazione degli episodi richiama in qualche maniera quella vista a Mustair, con l’impaginazione tipica delle scene. Le vesti degli arcangeli sono di origine bizantina, con la presenza di decorazioni Il profeta Geremia Ariberto da Intimiano che offre la chiesa Il martirio con il piombo fuso fedeltà. Sulla metà dell’XI secolo la Chiesa comincia a considerare insostenibile questa situazione, portando alla lotta per le investiture e la cosiddetta Riforma della Chiesa. Quando si parla di Riforma della Chiesa, non possiamo parlare di Riforma Gregoriana, in quanto questo termine è filologicamente errato; essa, in quanto tale, è la riforma di Gregorio VII. Gregorio VII è il papa più significativo per la lotta per le investiture, ma il percorso di Riforma della Chiesa, che investe anche tutta l’arte romanica, nasce prima di Gregorio VII e finisce dopo, attorno alla metà del XII secolo, più o meno con il Trattato di Worms (1123); anche dopo se consideriamo il fenomeno su scala europea. La storia dell’arte vede la Riforma della Chiesa come elemento centrale tra i secoli XI e XII, anche se ultimamente vi sono molti pensieri contrastanti tra loro; esistono, infatti, tanti fenomeni di esigenze riformatrici all’interno della Chiesa che trovano un eco artistico enorme anche al di fuori della penisola italiana. Vi sono addirittura dei grossi dibattiti che contestano l’esistenza di un’arte riformata all’interno della Chiesa. Il periodo romanico è caratterizzato dall’esigenza della Chiesa di rinnovare le forme della comunicazione visiva. Dobbiamo considerare, inoltre, che la gran parte dell’arte prodotta in questo periodo nasce all’interno dei contesti religiosi ed ecclesiastici; non si può quasi parlare di arte laica, anche perché il termine laico non esiste ancora in questo periodo. Questo non significa che tutti fossero praticanti o osservanti, ma questo periodo è comunque largamente imbevuto e condizionato dalla cultura cristiana. Anche chi era all’interno della Chiesa non è detto che rispettassero tutti i dettami a loro imposti. I chierici erano fortemente coinvolti nella gestione mondana delle terre, e quindi anche a tutte le attività mondane. La Riforma della Chiesa si verifica in quanto gli abati erano potenti, ricchi, mangiavano a dismisura e molto meglio di quelli che sfruttavano, avevano una liberissima frequentazione con il genere femminile e talvolta anche figli; le regole degli ordini monastici venivano riscritte ogni anno, mostrandoci come esse venissero spesso infrante. Questo mondo che emerge sembra molto meno lontano del nostro, elemento che viene consolidato anche attraverso la lettura dei documenti; da essi emergono tutta una serie di informazioni che prima magari non venivano nemmeno considerati. Un esempio in merito è la storia delle donne, dalla quale emergono numerose figure femminili nel Medioevo, periodo che si pensava fosse ostile ad esse. In questo periodo abbiamo anche l’incastellamento dei centri signorili e la progressiva autonomia dei monasteri, secondo l’affermazione del modello cluniacense. L’arte romanica si caratterizza per il rinnovamento delle forme artistiche, sia in architettura che in scultura, l’affermazione di un linguaggio romanzo, basato sulle comuni radici latine e poi declinato sulla base delle diverse comunità locali, la riscoperta dell’antico in generale, ma soprattutto delle tecniche costruttive romane (differenziate da regione a regione) ed la progressiva rinascita della scultura. Cluny, 910 L’abbazia benedettina diCluny è uno dei passaggi più sintomatici all’arte romanica. Essa viene fondata nel 910 da Guglielmo il Pio, duca di Aquitania e conte di Alvernia, dichiarandola esenta da ogni giurisdizione civile o ecclesiastica e soggetta alla sola autorità del papa. Della prima chiesa (Cluny I) non restano testimonianze. La seconda costruzione (Cluny II) avviene tra il 995/60 ed il 981 per mano degli abati Aimardo e Maiolo. Tra il 1088 ed il 1130 abbiamo la terza costruzione della chiesa (Cluny III), voluta dall’abate Ugo. Essa interpreta, dal punto di vista architettonica, quella che è la grandezza dell’ordine dei cluniacensi, che nasce con esigenze di libertà dal potere temporale, ma che poi viene posto direttamente sotto l’autorità pontificia, finendo progressivamente per sottostare al sistema dei regni dell’Impero. La terza Cluny è significativa perché costruisce il modello dell’arte romanica. Purtroppo rimane molto poco di questa costruzione, in quanto viene distrutta durante la Rivoluzione Francese, vendendo i possedimenti e vendendo archivi, biblioteca e le strutture originali (che emerge da alcuni scavi solo per l’8%). L’abbazia era composta da cinque navate, di cui la centrale più alta, con il matroneo sopra, un doppio transetto ed un affaccio all’ingresso che echeggiava il quadriportico, che poi di fatto è la rielaborazione della antica idea del westwerk. La costruzione al suo apice culmina con un’abside circolare costellata da piccole cappelle laterali. L’opera non aveva uno slancio particolarmente alto, come possiamo dedurre dalla pianta e dalle ricostruzioni; un aspetto abbastanza massiccio, con probabilmente anche un matroneo esterno. Quando l’edificio viene concluso siamo già in una fase che si avvicina al Gotico. All’ingresso abbiamo una doppia torre massiccia, che inquadra in qualche modo l’intera architettura. Abbiamo delle fonti che ci raccontano della ripresa dell’arte nell’XI secolo, motivo per cui si può parlare di rinascita vera e propria. Molte fonti ci sono pervenute da Rodolfo il Glabro, un cronista del tempo nato in Borgogna, che scrive una cronaca che va dal 900 al 1044. Egli parla anche dell’ordine di Cluny, che cambia in parte la regola benedettina, cambiano per il ruolo dato alla preghiera; essi erano particolarmente dediti alla preghiera ed allo studio, prediligono il lavoro intellettuale al posto di quello manuale. La preghiera dell’ordine è una preghiera volta al ritorno di una chiesa delle origini; già con l’ordine cluniacense c’è la volontà di svincolare gli abati ed i monaci al diretto controllo dell’Imperatore o delle autorità signorili per essere posti direttamente sotto il controllo del papato. Questa fastosa costruzione contempla la presenza di moltissimi altari e cappelle dalle quali si poteva ufficiare il rito senza interruzioni. TRADIZIONALI ELEMENTI DELL’ARCHITETTURA ROMANICA Gli studi ottocenteschi hanno poi individuato come tradizionali elementi dell’architettura romanica: • copertura a volta a corciera costolonata (ma anche copertura a soffitto in legno) • rapporto 1:2 tra campata della navata centrale e campate delle navate laterali • scansione delle murature esterne mediante lesene e sequenze di arcate cieche Questi erano gli elementi linguistici comuni all’architettura romanica, quindi un linguaggio che comportava una sorta di associazione alla nascita delle autonomie nazionali. Questo concetto di romanico compare ad inizio Ottocento, con riferimento alle lingue romanze che saranno riferimento delle varie lingue nazionali. Il termine romanico, dunque, nasce con un’accezione negativa, era quasi come un latino degradato, che però nonostante questo aspetto di corruzione richiamava l’antichità. Questo aspetto, basato sull’esame della lingua, nel corso dell’Ottocento delinea le varie autonomie nazionali. È interessante questo slittamento da un punto di vista della storia della lingua a quella dell’arte, delle forme visive, che assumono un’identità dal punto di vista del significato; possiamo, infatti, parlare di linguaggio visivo. La volta a crociera costolonata è una costruzione formata da quattro archi contrapposti, sormontati da due archi perpendicolari tra loro. Ne derivano quattro triangoli sferici, i cosiddetti tasselli, che vengono murati. La volta a crociera si basa su un arco a tutto sesto (tondo). La volta a crociera si imposta su un pilastro, di più derivazioni, sul quale si impostano degli archi a tutto sesto che poi costituiscono la volta vera e propria. I pilastri possono essere costolonati o con delle nervature. In alcuni casi prima si costruiva la nervatura e poi si riempiva la vela. Poi abbiamo gli archi trasversali, che sostenevano la vela. Vi era poi la costruzione del matroneo, luogo che doveva ospitare le matrone; gli uomini e le donne dovevano seguire la liturgia separatamente. Non è vero, però, che i matronei abbiano solamente questa funzione; a volte essi non sono presenti oppure fungono da semplice decorazione. All’interno della chiesa, comunque, è vero che i fedeli erano divisi, ma prevalentemente tra ecclesiastici e fedeli; tra fedeli di alto e basso rango; tra uomini e donne. Le aperture che fornivano la luce all’interno degli edifici romanici, sono aperture strette/limitate (es: monofora); l’illuminazione, dunque, è contenuta. finestre della facciata, mentre i matronei, che non sono calpestabili bloccano la luce più che alimentarla, come nella parte finale che sembra quasi giocare con un più intenso rapporto con le ombre. L’effetto che se ne ricava è l’accentuazione delle potenti masse strutturali, dove è maggiore appunto l’ombra. LE VIE DI PELLEGRINAGGIO Le migliori condizioni di vita, la ripresa dell’economia e della qualità della vita stessa portano alla ricerca di una dimensione spirituale, collegata al culto dei santi, in un periodo in cui la Chiesa, motivata dalle esigenze di rinnovamento al suo interno, propone dei modelli da seguire, ovvero i santi, gli apostoli ed i santi, coloro che avevano dato la loro vita per Cristo. Il modello viene proposto attraverso le prediche, ma anche attraverso queste nuove costruzioni funzionali al rapporto con i fedeli, producendo un massiccio spostamento della popolazione sulle vie di pellegrinaggio. Si tratta di percorsi esistenziali affrontati da gruppi sempre più numerosi di fedeli; esse si moltiplicano. L’Europa viene riccamente attraversata da questi percorsi. Le tre destinazioni principali sono: Santiago de Compostela, Roma e Gerusalemme. Esse sono costellate, lungo il percorso, dai cosiddetti centri minori, dove si rendeva omaggio alle spoglie dei santi ed agli eventi sacri, dove ci si fermava. I percorsi venivano fatti prevalentemente a piedi, quindi faticoso dal punto di vista fisico, e lo stesso cammino era fisicamente un percorso spirituale, di espiazione; soprattutto per l’arte medievale il rapporto diretto con l’opera d’arte è uno degli strumenti principali per la loro comprensione, non si tratta solamente di una mera contemplazione estetica. L’ammirazione delle opere era unita al percorso, che aveva, dunque, al suo vertice la visione, l’epifania dell’opera d’arte. Si arrivava tramite un tortuoso cammino, faticoso, per cui arrivare in un luogo dove si veniva ospitati (refettori, dormitori, posti dove ci si poteva lavare, ecc). Ogni meta ha un suo significato. Gerusalemme era la meta del sepolcro di Cristo; uno dei modi per arrivare in Palestina era imbarcarsi da Venezia o dai porti della Puglia. Roma era il luogo dei Santi e degli Apostoli, come Pietro e Paolo e degli altri martiri. Per andare a Roma si utilizzava la via romea o francesca (Francigena). Poi abbiamo Santiago de Compostela, forse una delle mete più visitate durante il periodo del Romanico, dove si andava a visitare l’apostolo Giacomo. Ci si arrivava mediante quattro cammini principali che portavano ad un unico cammino che giungeva a Santiago. Qui, secondo la leggenda, il vescovo Teodomiro guidato dall’apparizione di una stella, da cui prende il nome il luogo, avrebbe trovato una zona cimiteriale dove erano raccolti i resti dell’apostolo Giacomo, il primo che giunto in Galizia avrebbe subito il martirio sulle coste dell’Atlantico. Si tratta di una figura importante e sintomatica per la lotta contro l’Islam; nella Reconquista Santiago de Compostela diventa un cavaliere denominato “uccisore di mussulmani”, grazie ad una seconda Percorsi dei pellegrinaggi a Santiago de Compostela leggenda che lo voleva comparso su un cavallo bianco per incitare le truppe cristiane contro i mussulmani. Queste due versioni della geografia di Santiago, di Giacomo, ne alimentano il mito ed il percorso del pellegrinaggio. Stare sulle vie del pellegrinaggio significava avere anche dei grandi benefici dal punto di vista commerciale. Su questi assi, dunque, si produce l’arricchimento di questi centri che si trovavano sulle vie di pellegrinaggio, motivo per cui cercano a loro volta di acquisire reliquie per diventare a loro volta delle tappe intermedie. È in questo modo che nasce uno straordinario commercio delle reliquie, molte delle quali costruite ad arte in questo periodo. Attorno a questo commercio si creava anche l’alimentazione di un culto, che muoveva non solo le anime e l’economia, ma anche l’arte; venivano chiamati artisti per ricostruire numerosi edifici e costruirne nuovi per ospitare le reliquie. Tra il 1070 ed il 1180 a Tolosa viene ricostruita la monumentale chiesa di Saint Sernin (abside e transetto 1096 ca completati). La volta viene costruita a botte con i matronei. Vézelay è un altro luogo di percorso verso Santiago di Compostela, con la Chiesa di Sainte-Madeleine (1120-1190). Nella zona absidale abbiamo un orientamento decisamente gotico con queste cappelle radiali, ma nella parte centrale abbiamo la dimensione romanica. La navata centrale è moderatamente alta con un impianto di luce che gioca molto sulle ombre, contrasto violento con appunto la zona absidale che è completamente illuminata. Tolosa Vézelay IMMAGINI TEOFANICHE NELLA LUNETTA DEL PORTALE La cultura romanica è una cultura di maggiore raccoglimento e contenimento in termine di religione e di una concezione della divinità che è ancora opprimente. Sul timpano centrale del nartece di Vèzelay (1125-1130) possiamo vedere una teofania. Qui Cristo è raffigurato nel momento di affidare la missione di evangelizzazione agli apostoli; queste figure sono spezzate nella penombra della costruzione. Nella parte sovrastante vediamo i segni zodiacali, lo scorrere del tempo, che vengono associati ai lavori, interpretati dai mesi. Nello scomparto centrale abbiamo un uomo con una sirena ed un animale, figure che sono ripiegate su se stesse quasi a formare un anello, simbolo della perfezione del tempo in moto. La concezione del tempo in età romanica è una concezione che segna un percorso di espiazione attraverso il lavoro imposto all’uomo dalla condanna del peccato originale e solo attraverso esso può esservi espiazione. Cristo ha le braccia aperte, ma con delle gambe quasi spezzate, sottili ed inquietanti, e viene rappresentato come dominatore del tempo che si dipana attorno a questo arco. Tempo dei lavori dell’uomo, ma anche tempo dell’anno liturgico e segna l’accesso verso il tempo dell’eternità. Questa simbologia che troviamo sempre più frequentemente, anche nel periodo gotico. Il portale di Saint-Lazare (Autun) della prima metà del XII secolo (1130- 40) sul timpano vede una scultura ad altorilievo che rappresenta il Giudizio Finale. La figura della divinità è una figura inquietante, un Cristo giudice. Anche qui sopra abbiamo i segni zodiacali, quasi ad incorniciare e dettare il tempo astrologico sulla terra. Ai lati viene anche rappresentata l’intercezione di Maria e Giovanni per i defunti, i quali si risvegliano e vengono richiamati dopo la morte dalle trombe del giudizio degli angeli, portati al cospetto di Cristo. Intercessione La Basilica di San Michele a Pavia, risalente tra la fine dell’XI secolo ed il 1155, è forse una delle costruzioni più caratterizzanti del periodo romanico. Essa si caratterizza per una pianta a croce latina, un edificio massiccio che rispetta in parte questa alternanza della navata centrale, che è quasi il doppio di quelle laterali, costruito in pietra arenaria; quest’elemento è curioso in quanto solitamente questi edifici sono costruiti in pietra o in cotto. La pietra arenaria è una pietra abbastanza fragile e quindi non propriamente adatta per costruzioni di questo tipo. Il transetto è un transetto consistente, discretamente sviluppato e molto sporgente rispetto al corpo longitudinale del fabbricato ed è dotato di una facciata ampia sul lato settentrionale; sul lato opposto vi è una finta abside ed una volta a botte, diversa dalle volte a crociera che coprono la restante parte della chiesa. All’interno possiamo vedere come questo transetto costituisca quasi un corpo separato dal resto. Vi sono tre navate, ciascuna delle quali corrisponde ad un portale in facciata (di accesso). Guardando dal lato settentrionale vediamo la navata maggiore con quattro campate come nelle navate laterali; le volte che noi vediamo oggi sono un’opera quattrecentesca, ma originariamente dovevano esservi due volte a crociera. Sul transetto si alza una cupola che internamente raggiunge i 30 m di altezza. Le navatelle laterali sono sovrastate dai matronei, che hanno una funzione formale, di decorazione, ma assolvono anche un compito statico, ovvero arginare le forze laterali per evitare che la chiesa crolli. Questa funzione del matroneo non è unica; esso nasce formalmente per ospitare le donne, anche se in realtà questa funzione non viene quasi mai assolta continuamente, si tratta più di un discorso ideale. Esso dunque finisce per essere utilizzato come elemento architettonico adibito a scaricare le forze verso l’esterno, quasi una sorta di arco rampante interno all’edificio. La facciata ha un profilo a capanna, lungo gli spioventi è decorato con una loggetta di 21 arcatelle ed i contrafforti sono costituiti da pilastri a fasce, che scandiscono in senso verticale la superficie della facciata. La facciata è poi decorata da una ricchissima serie di sculture, sempre in arenaria, prevalentemente a tema sacro, ma anche a tema profano; purtroppo gli agenti atmosferici hanno corroso molte di queste opere, anche se alcuni temi iconografici si vedono ancora bene, molti dei quali affidati al mondo animale (bestiario). Sulla facciata si aprono cinque bifore, tre sulla navata centrale ed una per navata laterale, e tre monofore che si collocano nella parte superiore e più in alto ancora una croce racchiusa tra due oculi. La disposizione, però, è una ricostruzione ottocentesca, infatti la decorazione originaria prevedeva solamente un grosso finestrone circolare, probabilmente anch’esso non originale; l’ipotesi ricostruttiva ottocentesca ha voluto provare a ripristinare quella che era la probabile configurazione originaria. La sottospecie di “capitelli” che affiancano i portali vedono delle sculture a tema orrifico, con creature fantastiche di varia natura, alcune che raccontano delle storie, mentre altre hanno un valore simbolico intrinseco; un’enciclopedia della natura che serviva all’uomo medievale per interpretare il mondo spirituale. L’osservazione della natura nel Medioevo non è un’osservazione scientifica, ma un’osservazione del mondo filtrata dalla religione e dai testi sacri, volta ad una interpretazione di carattere moraleggiante; nella natura si vede lo specchio del mondo, dell’uomo, ma soprattutto di Dio. Da questo momento cominciano i vari trattati, enciclopedia e gli specula, intesi come specchio di Dio. La facciata era il luogo per antonomasia liminale, il passaggio da una dimensione mondana ad una sacra, che costituiva una sorta di monito per chi entrava nella chiesa. Ecco che la porta assume un significato simbolico fortissimo, sulle porte si descrivono e si riportano le storie dell’Antico e del Nuovo Testamento, ma anche le storie dei santi, l’alternanza tra il bene ed il male, ecc, delle vere e proprie visioni teofaniche. Bisogna ragionare anche sullo spazio che ospita queste popolazioni, questi pellegrini, l’arte medievale funziona nello spazio in cui viene concepito, avvolgendo totalmente lo spettatore. Lo stesso vale per il quadro medievale, che stava in un punto preciso dell’altare, inoltre inizialmente le liturgie venivano tenute con il sacerdote che dava le spalle ai fedeli, quindi il fedele vedeva solamente queste teofanie. È un meccanismo di nascondere e mostrare che segna un percorso di rivelazione. Queste scene sono all’interno del portale, quindi bisogna fermarsi per cercare di capire cosa significassero; l’arte medievale non è un’arte da museo, ma funziona nello spazio. Un altro esempio è San Michele in Foro a Lucca, chiesa ristrutturata a partire dal 1070 per volontà di papa Alessandro II, poi la costruzione prosegue fino al XV secolo. Qui abbiamo un’altra tipologia del romanico, non c’è un solo linguaggio. Questo edificio è rivestito di marmi colorati, mentre l’interno richiama le basiliche, ma appesantendone i moduli. La luce è volutamente soffusa, di rivelazione per certi versi. La chiesa si compone in tre navate, i capitelli sono dei capitelli corinzi e compositi; nel XII secolo la costruzione era già a buon punto. L’abside è un’abside semicircolare e la copertura è una volta a botte lunettata e sotto l’altare troviamo le cripte. La facciata è estremamente decorata, con questo forte slancio verticale, esaltato dalla sovrapposizione di queste quattro logge su queste colonnine molto ravvicinate nella parte inferiore, con arcate cieche a tutto sesto. L’alternanza tra il pieno della parte inferiore ed il vuoto nella parte superiore da una leggerezza, uno slancio, a quest’architettura. Le cornici hanno un aggetto molto marcato e separano decisamente le logge; sotto abbiamo dodici archi, mentre nella parte superiore sei. Il tetto a capanna aumenta lo slancio, con gli archi che aumentano in altezza. La superficie della facciata è completamente ricoperta da tarsie marmoree, che danno una forte accentuazione alla soluzione cromatica adottata. I temi sono ancora una volta temi animalistici; qui prevalgono le scene di lotta tra gli animali. Abbiamo decorazioni sostanzialmente bicrome con creature fantastiche, nonché dei sagittari, degli animali di decorazione classica (coda arricciata), un lupo che atterra, un combattimento con l’animale con la coda avvolta e serpentiforme, ecc. Sicuramente si tratta di un panorama che ha un significato, ancora non del tutto svelato.
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