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Appunti storia dell'arte moderna Cristiano Giometti, Appunti di Storia dell'Arte Moderna

Appunti, storia dell'arte moderna 6 CFU Giometti

Tipologia: Appunti

2019/2020

Caricato il 08/05/2020

pietro-lanza
pietro-lanza 🇮🇹

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Scarica Appunti storia dell'arte moderna Cristiano Giometti e più Appunti in PDF di Storia dell'Arte Moderna solo su Docsity! 24/02/2020 Testo: un manuale di storia dell’arte a scelta tra ‘’Storia dell’arte italiana’’ Bertelli-Briganti, oppure ‘’Arte nel tempo’’ De Vecchi-Cerchiari. Cosa studiare? Dal concorso del 1401 fino a tutto il periodo Barocco (tutto il 600); arrivare intorno all’inizio del 700. Inoltre conoscenza slide e appunti. Inoltre lettura ‘’Ritratto e società in Italia. Dal Medioevo all’avanguardia’’ Castelnuovo, in cui si attua un’analisi della ritrattistica italiana. Dobbiamo inoltre visitare almeno due dei seguenti musei e edifici religiosi (vedi slides); molte delle opere che si trovano all’interno di questi musei o edifici saranno argomento di lezione. Importante è vedere le opere nel loro contesto originario (unico modo per comprenderne a pieno il significato). Ritratto di Lorenzo Lotto, probabilmente un orefice per via della scatolina con delle gioie. Triplice ritratto: stessa tela con un orefice rappresentato perfettamente di profilo, frontalmente e di tre quarti. Alla fine di ogni lezione faremo 10 minuti di letture d’opera; il prof ci mostrerà un’opera a caso e insieme cercheremo di capire cos’è e cosa rappresenta. Un opera di questo genere (ritratto di Lotto) forse non è solo da appendere in casa dell’orefice, ma ha un’altra funzione: la triplicità e l’inserimento della mano (che connota il personaggio da un punto di vista professionale) è dovuta al fatto che questo ritratto doveva forse servire ad uno scultore per fare un busto ritratto (questo quadro è importantissimo perché è il primo utilizzato con questa funziona). Si pensi al fatto che Bernini doveva fare un ritratto del re d’Inghilterra, ma viveva a Roma mentre il re viveva a Londra, così Van djck fece un ritratto al re Carlo I e lo mandò a Bernini. I Il concorso del 1401 La storia dell’arte moderna ha una cronologia data ex post (nel 1900). Mai dire ‘’il pittore si inserisce nel barocco’’. I pittori non si inseriscono da nessuna parte, siamo noi che li inseriamo. A Firenze nel 1401 si fa un concorso importantissimo per realizzare la seconda porta bronzea del Battistero; cade a pennello per la periodizzazione della storia dell’arte moderna e del Rinascimento. Fino a quel momento si era parlato un linguaggio goticheggiante tardo medievale; nei primi 20 anni del 400 il nuovo stile e il vecchio convivono; per accogliere un nuovo gusto bisogna prima educarsi ad esso, magari qualche committente avanguardista apprezzava la novità, ma molti rimanevano fedeli all’arte precedente. Vedremo pale diversissime di autori diversi dello stesso periodo. È tutto un lento affermarsi di nuove proposte artistiche. Nel concorso del 401 ci sono Ghiberti e Brunelleschi: la seconda formella era molto più all’avanguardia, il sacrifico di Isacco è molto più fremente, la prima è molto più classicheggiante e infatti vinse. Pallini del prof: 3 date, l’anno di morte di Raffaello 1520 (segna un passaggio fondamentale, perché Raffaello aveva creato una bottega così perfetta che riusciva a gestire cantiere giganteschi ideando le decorazioni e poi facendole fare ai suoi collaboratori che erano delle sue vere e proprie estensioni; quando muore questi grandi artisti perdono il proprio faro; la sua bottega va un po’ avanti perché Raffaello aveva lasciato disegni e cartoni, istruzioni su come procedere, si pensi alla Sala di Costantino in Vaticano; finiti questi lavori in corso questi artisti cominciano a cercare altre committenze e il principale allievo di Raffaello, Giulio Romano è il primo a lasciare Roma nel 1524 (altra data fondamentale). Poi prende il via la diaspora degli artisti in concomitanza con il sacco di Roma del 1527 (il papa è in assedio e non commissiona nulla, perciò gli artisti iniziando ad andarsene). Giulio Romano che va via nel 1524, va a Mantova dove porto i residui raffaelliani e da dove prende il via il manierismo (anche con l’avvio della costruzione di palazzo The). Quindi date fondamentali 1520 morte Raffaello, 1524 viaggio di Giulio Romano, 1527 diaspora degli artisti. Torniamo al concorso del 1401, bandito a Firenze, un concorso internazionale cui parteciperanno artisti provenienti da altre città (Siena, contado fiorentino). Il concorso viene bandito dall’arte di Calimana: le corporazioni (o arti) di artigiani e lavoratori si riuniscono per salvaguardare i propri interessi (orefici, medici speziali… i nostri sindacati diciamo, che avevano al tempo un potere economico elevato ed erano i massimi committenti artistici, i motori del mercato dell’arte). Una di queste corporazioni appunto bandisce un concorso per la realizzazione di una porta bronzea a due ante per il battistero (consideriamo che le 3 porte di ora sono tutte delle repliche, perché le originali sono state restaurate ed è tornato fuori il bronzo scuro e le dorature e sono state esposte al museo dell’Opera del duomo). La porta del 1401 era la seconda, una prima esisteva già ed era del 300, realizzata da Andrea da Pontedera (noto come Andrea Pisano) che la realizza tra il 1329 e il 1336, in bronzo parzialmente d’orato. Ogni formella è inquadrata da una cornice rettangolare in cui si hanno le virtù e le raffigurazioni. All’interno delle cornici si hanno altre cornici polilobate, molto fiorentine. Anche nella seconda porta si riprenderanno queste cornici polilobate, per volontà dell’arte di Calimana. Torniamo alla porta di Andrea Pisano: originariamente sul portale est oggi sul portale sud; anche essa era stata commissionata dall’arte di Calimana, arte molto ricca che si occupava del commercio di panni di lana: gli acquistava grezzi nelle fiandre e poi li lavorava in maniera da renderli più vestibili e poi li colorava pure; diventavano quindi raffinati e costosi ed erano infatti ricchissimi. Quando si parla di arte bisogna sempre pensare ai materiali: per fare una porta di bronzo bisogna essere ricchissimi, e farla ha anche un forte valore simbolico e di potenza nella società. L’arte di Calimala si pone dunque come la prima tra le arti fiorentine per ricchezza. Cosa vuol dire Calimala: può avere 2 significati: forse la strada dove lavoravano puzzava per le materie usate e veniva chiamata calle mala, o forse viene da callos mallos (ossia lana buona). Nel 1329 l’arte di fondere il bronzo a Firenze era andata perduta e quindi l’arte di Calimala dovette istruire un orafo, Piero di Iacopo, e gli disse, prova a fare una porta con l’anima di legno e mettiamoci delle formelle; Piero fa una prova ma non va abbastanza bene, quindi l’arte dice a Piero di andare a vedere coi suoi occhi le porte di bronzo esistenti, e quindi lo mandano a Pisa, dove nel duomo ci sono due porte bronze realizzate da Bonanno Pisano (ora ce n’è una sola perché una è andata distrutta nell’Incendio di Pisa del 1500). Quella rimasta è la porta di San Ranieri del 1181. Realizzata da Bonanno Pisano, artista di fama internazionale che lavorò anche in Sicilia. Questa porta era fatta da formelle in cui si raccontano le storie e in cima si ha la madonna e gesù in trono attorniati dagli angeli, e in fondo si hanno gli apostoli. Bonanno nelle formelle ci racconto il nuovo testamento, la storia della vita di Cristo; le rosette servono per abbellire le cornici ma hanno un compito funzionale: le formelle sono ricoperte da una struttura laminale di bronzo (sennò costava più del duomo intero) e le rosette servono per nascondere i chiodi che servono per tenere attaccata la lamina alla porta. Vedi su slide i dettagli delle scene sulle formelle (le scene sono tantissime e dunque bisogna mettere nella stessa formella più scene; come per esempio la nascita il lavaggio l’asinello e il bue nella caverna… oppure la scena dei magi che arrivano a cavallo alla capanna di gesù bambino separata da una scena inferiore in cui le figure sono sottodimensionate in cui si rappresenta la cacciata dal paradiso terrestre, più piccola perché secondaria ai fini della storia principale). Insieme a Piero di Iacopo che va a Pisa, c’è un altro che viene mandato a Venezia, Andrea Pisano, dove la tradizione del bronzo era ancora viva. Realizza 28 formelle che si leggono anta per anta e non orizzontalmente, mentre le virtù si vedono in sequenza perché non raccontano una storia. 20 scene della vita del battista (battistero dedicato al battista), poi dal 21 al 23 abbiamo le virtù teologali, al numero 24 l’umiltà e dal 25 al 28 le virtù cardinali. La porta di Andrea va conosciuta perché è il punto di partenza per la porta del concorso. Guardiamo qualche formella: la nascita del battista (cornice polilobata al cui interno si ha la natività del battista, con la madre nel letto rappresentata come una statua classica, il bambino piccino e le ancelle che portano l’acqua per lavare, una scena molto limpida e pulita che trae spunto dall’arte gotica, basata sulla purezza delle linee) il battesimo di Cristo (difficile perché deve essere rappresentata l’acqua e le rappresentazioni naturali molto semplici, gli alberi non in prospettiva ovviamente, ma molto raffinati; Cristo ha una rappresentazione anatomica fedele alla realtà e l’acqua è rappresentata in maniera sublime) la danza di Salomè (verso l’epilogo della storia, si compie un tentativo di dare una rappresentazione contestuale della storia, con il banchetto in cui si ha il tavolo il pavimento e il drappo, con una ricerca di profondità e prospettiva) Salomè ed Elodiade (la stanza viene sezionata come se un muro cadesse lasciandoci vedere ciò che c’è dietro, il senso della profondità è dato anche dall’arco con cui si entra nella stanza, in cui si può infilare il dito). Inizia ora e poi prosegue nel 400 la tendenza a far si che l’opera invada il nostro spazio (si pensi al piede di Salomè che sporge dal pavimento o la veste nell’altra formella che ricade nel nostro mondo). Andrea finisce la sua porta nel 1336, e l’anno dopo muore Giotto e Andrea diventa capomastro. Nel 1348 scoppia la peste nera quindi tutti i progetti dopo il risultato della porta di Andrea sono bloccati (se ne voleva fare subito altre, ma non si può, l’economia è bloccata). Ecco perché il concorso si fa nel 401, perché l’economia riprende e la peste è debellata. L’arte di Calimala istituisce una giuria di 34 giudici tra i personaggi più Calimala stipula un secondo contratto più vincolante che spinge Ghiberti a fare più veloce: chiedono a Ghiberti un diario, un resoconto quotidiano del lavoro; poi gli si chiede di lavorare solo ed esclusivamente per la porta fino alla conclusione della porta stessa; poi a vantaggio di Ghiberti si dice che può aumentare il numero degli aiutanti, che da 11 diventano 25, sparisce Donatello che prende una strada autonoma e arriva Paolo Uccello, che noi conosciamo come pittore ma che inizia proprio qui. Questo nuovo contratto porta ad una nuova fase che contribuisce a cambiare la struttura delle formelle. In questa seconda fase Ghiberti sembra fare un passo indietro rispetto alla scene affollate e in cui l’elemento architettonico e naturale convivono, e si torna ad uno stile tardo-gotico, elegante, simmetrico, con composizioni armoniche e di lettura più semplice, e lo si fa anche per risparmiare tempo: la crocifissione (bella, elegante, gotica soprattutto, simmetrica con la croce che divide a metà la composizione, da un lato la Madonna e dall’altro san Giovanni, e bilanciati sono anche gli angeli nel loro arco innaturale ma bellissimo dal punto di vista formale) padre della Chiesa San Marco (figura possente dalla corporatura di un vegliardo molto corpulento, ma tale corpulenza è annullata dal manto drappeggiato che quasi nega il corpo sottostante che noi percepiamo dalla sporgenza del ginocchio; la scrivania su cui scrive Marco sembra quasi un tempietto all’antica) San Giovanni (che è quasi un corpo che viene giù sotto la pesantezza dei drappi e dei panni che cadono in maniera elegante). In questa seconda fase è come se Ghiberti riguardasse la fine del secolo precedente dando vita a formelle tardogotiche. Abbiamo poi una terza fase, piuttosto breve 1415-1416, in cui i lavori devono procedere in maniera rapidissima: Ghiberti esplode, si sente più libero e sicuro e dà vita a scene ricche e complesse, con tanti personaggi e ambientazioni architettoniche e naturali ricchissime: la cacciata dei mercanti dal tempio (Cristo alza il braccio e crea una sorta di onda di personaggi in movimento; il tutto è inquadrato dal tempio) l’entrata a Gerusalemme (tantissimi personaggi; l’asino guarda verso l’osservatore; si fonde l’elemento naturale, rocce ed alberi, all’elemento architettonico della città sulo sfondo). Poi si ha la quarta fase, quella finale 1416-1424, in cui Ghiberti torna ad una semplificazione: la flagellazione (la simmetria organizza lo spazio all’interno di una griglia architettonica molto ben definita; i due aguzzini che stanno per sferrare il colpo hanno due movimenti opposti ma simmetrici, un chiasmo di due movimenti opposti che si fondono perfettamente; il piede del Cristo irrompe lo spazio della rappresentazione). Vedi dettagli della cornice in fregio continuo, con foglie che si intrecciano le une con le altre, con scarafaggi e lucertole. Il retro della porta ha delle formelle non decorate, con al centro una cornice tondeggiante in cui si rappresenta una testa leonina in vari atteggiamenti. Il 30 di marzo del 1423 tutte le formelle della porta sono completate e vengono dorate tutte insieme; nello stesso anno si conclude anche la cornice e si montano le testine. Il 19 di aprile del 1424 la porta viene issata sui cardini della facciata. È nel cantiere della porta nord che si formano gli artisti cardine del Rinascimento (Donatello, Paolo Uccello), anche se il risultato finale è sostanzialmente tardogotico. Manca la terza porta, che si decide di far fare proprio a Ghiberti perché la seconda ebbe grandissimo successo. È la porta est, detta poi porta del paradiso, iniziata subito nel 1425 e conclusa nel 1452. Si ingrandisce lo spazio della formella e dunque le formelle saranno meno; inoltre si eliminano le cornici polilobate; si chiede a Ghiberti di lavorare sull’antico testamento, su scene scelte da Leonardo Bruni. Il retro della porta est ci testimonia che inizialmente si voleva fare una porta la cui struttura era uguale a quella nord, ma poi Ghiberti stesso suggerì di ampliare lo spazio della rappresentazione (Ghiberti aveva moltissima libertà adesso, aveva carta bianca). Abbiamo 10 formelle invece di 28. Anche in questo caso ha diversi aiutanti, tra cui Vittore e Tommaso, suoi figli, Michelozzo, architetto, Luca della Robbia, Benozzo Gozzoli… i vari artisti al cantiere hanno poi formazioni differenziate. All’interno di una stessa formella Ghiberti agisce in maniera autonoma, rinnovata e narrativa. Si vede la storia di Adamo ed Eva (in cui si ha la creazione dei 2, e la cacciata dal paradiso terrestre) Noè (tutti gli animali, la chiamata di Dio) Salomone e la regina di Saba (architettura simmetrica e perfetta, insieme di figure in vari atteggiamenti e pose, alcune danno addirittura le spalle, altre giocano). La cornice diventa molto più complessa, si ha l’inserimento di nicchie in cui sono inserite figure altrettanto decorate; inoltre si hanno le classiche testine (tra cui c’è anche Ghiberti). 28/02/2020 Donatello e l’invenzione dell’umano: la scultura all’inizio del 400 (tra fine 300 e inizio 400) è l’arte principe, l’arte motore delle innovazioni. Tutto ciò che accade di nuovo accade prima di tutto in scultura, poi nel resto dell’arte. Noi spesso siamo portati a pensare che l’arte sia pittura, ma non è così, ci sono anche casi in cui l’arte maggiore è quella dei fermagli per tenere fermi i mantelli (VII-VIII secolo). La fucina di Ghiberti è un luogo fondamentale in questo senso. Qui c’era, nella prima fase, anche il giovanissimo Donatello, che comincia dunque la sua carriera come orafo e fonditore. Partiamo dal giovane Donatello e a ciò che realizza negli anni in cui lavora alla fucina di Ghiberti. La prima opera di Donatello (che nasce orafo ma è anche sin da subito scultore; egli è un grande sperimentatore, usa il bronzo, il marmo, la terracotta, che è considerato un materiale vile, ma essendo molto malleabile permette di riprodurre delle opere; inoltre la terracotta e lo stucco possono essere dipinte e sono più leggere ed economiche; ci sono anche delle opere di legno, di cartapesta, di pezzi di vetro, di pezzi di corda; questa sua voglia di sperimentare ci fa capire come mai mentre lavorava con Ghiberti e il bronzo, decise di lavorare anche sul marmo). Vengono commissionati due profetini per i due contrafforti laterali della porta della mandorla del Duomo di Firenze, questi profetini vengono attribuiti a Donatello l’uno e a Nanni di Banco l’altro (che aveva già fatto l’Ercole per la porta); Nanni è più grande di Donatello ed è già molto formato. Il profetino di Donatello è quello di sinistra, che prendeva in mano lo scalpello per la prima volta, e infatti gli fa una faccia da fesso impressionante. Lo si attribuisce a lui perché si ha un contratto del 1406 che attribuisce un pagamento a Donatello per la realizzazione di un profetino di marmo. Donatello riprende alcune soluzioni formali dal maestro Ghiberti, e infatti questa figura è più verso il gotico internazionale che verso lo stile rinascimentale. Si veda l’elemento decorativo del panneggio, molto dettagliato ma molto poco attinente alla struttura fisica del profetino. Il profetino ha anche qualcosa di donatelliano, ha un piede in avanti, incede, è una figura in movimento. L’espressione è priva di intensità, le statue future di Donatello saranno tutte concentrate, in atto di compiere un gesto importante o di riflettere. Se guardiamo le figure delle formelle della porta di Ghiberti vediamo come Donatello riprenda Ghiberti nelle pieghe delle vesti, molto più decorative che realistiche. Il profetino di Nanni è molto più maturo, Nanni era molto più consapevole e conosceva bene il materiale, aveva già lavorato il marmo, che invece per Donatello è un materiale nuovo. C’erano dei richiami tra i 2 profetini, ma quello di Nanni è più moderno, che potremmo definire proto-rinascimentale: la figura è più solida, ben piantata nel basamento con una gamba che sorregge il peso e l’altra che segue l’andamento del corpo; inoltre c’è un dettaglio fondamentale, c’è un buco tra il braccio e il corpo, cosa virtuosistica perché serviva per fare un buco una lavorazione complessa con il rischio di rompere il marmo; anche l’espressione è molto più intensa). I due scultori sono quelli che dettano le innovazioni nel campo della scultura, anche perché le loro opere sono esposte in mezzo alle strade di Firenze. Donatello e Nanni si contendono il campo dell’innovazione, della creazione di un linguaggio nuovo. Nanni morì nel 1421 e la nostra conoscenza delle sue opere è influenzata dalle fonti, spesso non degne di fede; nel 500 Vasari, che ha scritto le Vite (testo fondamentale, del 1550 e poi del 1568, per tutti gli storici dell’arte) non è stato imparziale e fa un uso strumentale della vita di Nanni di Banco per far emergere la figura di Donatello. Vasari è dunque di parte e dice che Nanni di Banco è peggio di Donatello, anche per far risplendere ancora di più Donatello stesso. Ormai siamo in grado di vedere che quella di Vasari è un’opinione; se prendiamo il ‘’De pictura’’ di Alberti, l’autore (che era contemporaneo di Nanni al contrario di Vasari) ci dice che Nanni era il campione della scultura di quel periodo. Dunque non dobbiamo prendere ciò che dice Vasari come verità assoluta. Vasari descrive Nanni come ‘’tardetto’’, uno un po’ duro di comprendonio. Vasari ci presenta Nanni come un riccone che non sa che fare e quindi si dedica alla scultura, poi ci dice anche che Nanni era discepolo di Donatello (non è vero, Nanni quando fa il profetino era già scultore autonomo, al contrario di Donatello che era ancora considerato allievo). A leggere cose del genere uno storico dell’arte decide di studiare Donatello e di non guardare nemmeno le opere di Nanni. Nanni e Donatello continuano a lavorare in tenzone e guardandosi l’un l’altro; inoltre lavorano anche in commissioni congiunte. Sempre per la cattedrale di Santa Maria del Fiore (contrafforti laterali della facciata del Duomo di Firenze, che è dell’800, ora non ci sono più infatti) realizzano Nanni l’Isaia e Donatello un primo David. Anche in questo caso i due si misurano su delle figure giovanili; quella di Nanni è nuovamente solidamente impostate, con una gamba che sorregge l’intero corpo e l’altra che segue l’andamento del corpo, che sorregge una testa forse leggermente sottodimensionata, ma importante per la perfezione della capigliatura; le teste delle sculture di Nanni sono tutte all’antica. Quello di Donatello è il primo David di una lunga serie, completato nel 1409 e nella facciata del Duomo ci sta solo 7 anni, poi viene spostato a Palazzo Vecchio nel 1416, a rappresentare la municipalità di Firenze (100 anni dopo sarà sostituito da quello di Michelangelo). Il David è sinuoso e perfettamente composto nonostante abbia appena ucciso Golia, la cui testa con un sasso piantato nel mezzo sta ai piedi dello stesso David, insieme alla fionda. Donatello ci fa vedere molti dettagli, tra cui per esempio il laccio che lega la parte superiore del corpetto di pelle a quella inferiore (che tra l’altro in origine non poteva assolutamente essere visto, perché la statua era in alto); inoltre l’espressione del David è più intensa, come se ancora fosse concentrato nell’atto di uccidere il gigante. Il David è uno spartiacque tra l’abbandono della sperimentazione del linguaggio tardo gotico e l’invenzione dell’umano. Donatello abbandona la bottega del Ghiberti e diventa maestro autonomo. L’opera del duomo gli commissiona il San Giovanni Evangelista, che occuperà Donatello dal 1408 al 1415; uno degli altri 4 evangelisti viene assegnato a Nanni, e quindi nuovamente i due gareggiano, in questo caso su figure diverse, su due vegliardi seduti, figure colossali destinate alla fiancata ovest della cattedrale. Gli evangelisti di solito sono accompagnati dall’animale simbolico, che qui scompare (occupa spazio ed è costoso); tutto si concentra dunque sulla figura, che Donatello rappresenta in maniera perfetta, nell’intensità dell’espressione del volto e anche nelle mani, che diventano elemento fondamentale per caratterizzare psicologicamente il personaggio. (questa statua è un po’ fisicamente strana, mani grandi, busto lungo… perché gli artisti al tempo avevano considerato la collocazione e il punto di vista da cui sarebbe stata vista). Le pupille dell’evangelista sono incise con l’iride (prima non si aveva), le ciglia sono aggrottate in segno di concentrazione e pensiero, si ha molta attenzione alla capigliatura e alla barba, una citazione dell’antico che ancora non è completamente assimilata da Donatello e sembra dunque un po’ sovrapposta al resto della scultura. Dettaglio della profondità della figura: a noi vista di fronte, sembra molto profonda, molto espansa nello spazio, ma in realtà se la guardiamo di profilo ci rendiamo conto che tale profondità in realtà non c’è, il marmo è poco spesso e Donatello rende una profondità enorme dove essa non c’è. Nanni di Banco negli stessi anni (1408-1415) licenzia il suo ‘’San Luca’’, figura possente, plasticamente solida, ben impiantata nello spazio, molto paludata (si gioca con il panneggio, molto ricco ma allo stesso tempo anatomicamente corretto), ma ciò che colpisce di più è lo studio e il richiamo all’antico, che si rivede in particolare nella testa, nell’espressione intimamente assorta, con l’occhio semiaperto e la capigliatura e la barba citate da prototipi della scultura di ritratto dell’età imperiale romana (esempio della scultura di Marco Aurelio che ora si trova a Venezia). La modernità di Nanni è superiore a quella di Donatello, egli vuole emulare l’antico riproducendolo in maniera perfetta, Donatello invece cerca di inserirlo in un contesto nuovo. Anche in questo caso la profondità è resa in maniera incredibile sfruttando una lastra di marmo non troppo profonda. Da qui in poi Donatello inizia a ricevere moltissime commissioni; mentre lavora al suo San Giovanni, Donatello riceve una commissione da Or San Michele (in cui ogni nicchia era dedicata ad un’arte). I linaioli (produttori di panni di lino) vogliono che Donatello realizzi San Marco (loro santo protettore). Chi passava di lì doveva capire che quella era la nicchia dei linaioli; si elimina l’animale (il leone), che viene recuperato nella predellina. Donatello fa un’operazione molto raffinata; nel suo San Marco il corpo si vede benissimo, nonostante il pesante panneggio e ciò che colpisce di più è l’espressione del santo, concentrato e che guarda distante, attento e assorto (Donatello dopo secoli di un’arte astratta e bizantineggiante, torna a guardare e a tradurre l’espressione e la vitalità dell’intensità dell’emozione umana); c’è una cosa estremamente moderna e dirompente in questa scultura: sotto i piedi di San Marco c’è un cuscino (in onore dei linaioli che ricoprivano i cuscini di lino), e il santo affonda i piedi in questo cuscino; la difficoltà è molto elevata, Donatello sceglie la soluzione più complessa e virtuosa. Inoltre Donatello rende il volto del Santo un po’ leonino attraverso la capigliatura e la barba (si vede poi il leone realizzato in futuro da Donatello stesso). Oggi possiamo vedere i retri delle sculture, che spesso presentano delle cose sorprendenti. Il cantiere di schiacciato. ARTE DEI FABBRI: Sant’eligio 1417-21 nanni di banco protettore dei fabbri. questo è un santo vescovo che ha una testa che può sembrare sotto dimensionata rispetto al corpo ma dentro la nicchia è perfetta. nanni torna a ragionare sul classico, mantello fermato con bellissima spilla opera di orificeria del 300. l’attrezzo della fusione è dipinto nella nicchia. il dietro della statua che nessuno avrebbe mai visto è grezzo. Espressione molte concentrata e di nuovo il volto è con barba classica. Predella con posizione strana, non perfettamente rettangolare a mò di podio perché il santo è rialzato. Racconta un miracolo di sant’eligio che riceva la visita di un viandante nella sua bottega di fabbro, al quale si era rotta la zampa del cavallo, lui gli rifà lo zoccolo e il cavallo si ripiglia tutto. in questa predella cerca di recepire quello che aveva fatto donatello lavorando meno sulle figure in un tentativo di semischiacciato. fu restaurato dall’opificio delle pietre dure e fu riscontrato dell’oro nella barba e dei brani di blu oltre marino nel mantello. ARTE DEL CAMBIO 1419-23 quando è quasi finita la porte nord e ghiberti poteva sciogliersi dal vincolo con calimala infatti il cambio gli commissiona questo san matteo, protettore dei porta valute che non erano proprio un’arte ma approfittano del decadimento dell’arte dei fornai di cui apparteneva la nicchia che abbandona la nicchia e la prende il cambio che era un gruppo sindacale abbastanza forte. chiamano ghiberti e chiedono di superare se stesso e di fare più bello del suo san battista. /san matteo 272 cm, san battista 255 cm) lo vogliono veramente più grande, questo implica una maggiore spesa, una prima fusione del 21 va male, nel 22 la rifonde con successo. da intensità allo sguardo inserendo della pasta di argento per crare il bianco introno all’iride VERROCCHIO, ben più avanti 1467-83, incredulità di san tommaso. san tommaso non crede che cristo sia risolto e lo vuole toccare, cristo mostra il braccio e san tommi alza il braccio per toccare la ferita. verrocchio è veramente un maestro a 360 gradi (pittore, sculture). lui lavoro molto dopo nanni di banco, donatello e ghiberti, anni in cui ormai lo spettatore era parte attiva nella rappresentazione. Cristo è su un piedistallo di bronzo, san tommaso più in basso appoggia sulla nicchia (posto al nostro livello, quello di san tommaso è il gesto che faremo noi per toccare il cristo). Lui dice ai suoi committenti che uscirò pochissimo bronzo infatti guardando il dietro si capisce che sono praticamente delle lastre di bronzo. CHIARA YEZZA Orsanmichele, rapporto dialettico tra arte e spettatore, cambia il sistema della percezione dell'arte e in particolare della scultura. Maggiori novità del '500 provengono dagli scultori, si supera lo stilema tardogotico. 1399 'Madonna con bambino' commissionata a Tedesco> Mdonna con bambino in trono, mantello e panni che occludono il corpo sottostante; il bambino è la parte piu graziosa della composizione. Vergine pensosa e bambino sorridente. Il cromatismo: le sculture erano policrome e la bordura celestina della veste del bambino dimostra l'esistenza di inserti colorati. 1406 il consiglio soprintendeva alla formazione delle nicchie, così si innesca una gara perché chi viene dopo vuole superare il maestro. Verrocchio chiuderà in pieno Rinascimento con una produzione nuova e rivoluzionaria. Donatello e la commissione dei Linaioli (San Marco in piedi sul cuscino). 1412 arte di Calimala commissiona San Pietro a Brunelleschi e Donatello, Vasari ci racconta che l'opera fu commissionata a Brunelleschi e Donatello ma che fu realizzata quasi per intero da Donatello, gli studi successivi smentiscono la collaborazione attribuendo la maggior parte del lavoro a Brunelleschi. La nicchia è decorata con giochi prospettici, decorazioni geometriche che danno un senso di profondità, accentuazione dell'aspetto prospettico che potrebbe far pensare sia stato Brunelleschi a decorare la nicchia e a intervenire maggiormente alla realizzazione dell'opera. La testa diventa simmetrica quasi letterale rispetto ad un'opera antica, la barba e i capelli realizzati con lo strumento dell'orafo. La mano è studiata anatomicamente, si notano i tendini. 1412 San Giovanni Battista commissionato da Calimala a Ghiberti da realizzare in bronzo (materiale più costoso rispetto al marmo), fusa in quattro parti poi congiunte insieme, molto apprezzata da Vasari e utilizzata come esempio di modernità. La figura è estremamente raffinata, preziosità delle iscrizioni. Orsanmichele funziona perché crea una competizione pubblica tra arti e artisti, ci si aspetta sempre qualcosa di nuovo e moderno, riuscendo a plasmare le composizioni anche della stessa pittura. Paolo Uccello, Jacopo da Todi pittura che si trova a Prato e riprende le nicchie di Orsanmichele. Idea dei vasi comunicanti: prendendo una fiancata di Orsanmichele la si può far comunicare con un polittico di Giotto che si trova agli Uffizi. Rapporto di dimensioni tra scultura e posizione, più problemi di lettura di queste figure. In alcuni casi lo spazio al di sotto della nicchia può essere utilizzato discorsivamente, così anche lo spazio della predella(tavoletta rettangolare, spesso dipinta a più riquadri, che corre lungo la base di un polittico o di una pala d'altare) diventa uno spazio attivo. 1409- 1417 Maestri di Pietra e Legname commissiona a Nanni di Banco l'opera 'I Santi quattro coronati', gli otto anni della composizione sono giustificati dalla copiosità dell'opera. Complesso il lavoro di inserimento di quattro figure nella nicchia, un pò più grande delle altre ma non troppo, i santi coronati erano quattro e giustramente li volevano tutti. All'epoca di Diocleziano vengono martirizzati perché si rifiutano di scolpire dei pagani quando questi erano cristiani. Per sfruttare al meglio lo spazio decide di inserirli a semicerchio, figure togate uscite da uno statuario antico, buchi di trapano presenti nella testa dei quattro santi coronati (vedi statua di Caracalla presente ai musei vaticani). Nanni fa un lavoro eccezionale ma Vasari continua a raccontarci della sua figura disprezzandola soprattutto rispetto a Donatello, dice infatti che a fine lavoro non ci entravano tutt' e quattro le statue nella nicchia così Donatello rimediò all'errore di Nanni in cambio di una cena con tutti i suoi giovani di bottega. Innovazione della disposizione semicircolare immediatamente recepita dai pittori, come per esempio Masaccio. Scena del tributo della moneta di Masaccio, figure posizionate a semicerchio intorno a Cristo, Ecco il dialogo tre scultura e pittura, come i pittori più smart recespisono le innovazioni nella scultura e le trasportano nella pittura. I corazzai hanno come santo protettore San Giorgio, l'opera è commissiona a Donatello. Oggi è al Bargello non come le altre a Orsanmichele. San Giorgio è un soldato chiamato a salvare una principessa soggiogata da un mostro. Donatello eccede in percezione, idossa l'armatura in studio e la ricrea esattamente uguale, ogni dettaglio e lavorazione delle varie parti di essa, simulando l'effetto del metallo. Una mano è sullo scudo e l'altra è in basso chiusa in un pugno semiaperto come se avesse qualcosa nella mano, ci misero infatti una spada vera d'argento che minacciosamente sorprendeva nella camminata chi vi passava vicino. L'altro aspetto che cerca di superare è il vincolo della rigidezza, quindi deve farci capire che dentro c'è un uomo vivo, che sta per agire, nessuna parte è in asse, le gambe sono lievemente ruotate rispetto le anche e idem le spalle e la testa, la figura risulta così estremamente mobile. Il volto è concentratissimo (l'uccisione del drago) e mostra anche la sua fragilità nello sguardo preoccupato, forza espressiva nuova che fa prevalere l'aspetto umano sulla citazione dell'antico. Predella completamente diversa da quella di Nanni, questi faceva spiccare le figure dal fondo del marmo, Donatello fa il gioco opposto, l'oggetto è minimo, misurato, con una profondità di pochissimi centimetri. Nuova tecnica: SCHIACCIATO, quasi disegnando sulla lastra di marmo portando avanti un discorso meramente grafico. Simmetria nella composizione, grotta, drago alato, il santo a cavallo, la principessa e il porticato rinascimentale(vedi porticato dell'ospedale degli innocenti di Brunelleschi) alle sue spalle, crea anche effetti atmosferici che si percepiscono nella parte retrostante, vi sono degli alberi battuti dal vento (ricordano l'arte giapponese). Arte dei Fabbri commissiona Sant'Eligio a Nanni di Banco, 1417- 1421(anno della morte di Nanni), opera della parte finale della sua vita. Testa che assume la sua perfetta misura e prospettiva nella nicchia, sempre il riferimento all'antico, mantello fermato da una spilla. La scultura è lavorata fino ad un certo punto e dietro è lasciato il marmo grezzo, si ferma per un motivo economico non per negligenza. Predella di Sant'Eligio, non è rettangolare, andamento a mo' di podio visto che il santo è un pò rialzato, è raccontato un miracolo del santo: questi era un fabbro che ad un cderto punto riceve un viandante che arriva con un cavallo con la zampa spezzata che viene ferrata dal santo e il cavallo guarisce. Nel restauro della scultura si trovarono tracce dorate nella barba e nei capelli e dei drami di blu ultramarino nella veste. 1419-1423, Ghilberti scolpisce San Matteo commissionatogli dall'Arte del Cambio. San Matteo è il santo protettore del cambio valute. Chiedono a Ghilberti di superare il San Giovanni Battista, infatti il San Matteo è più grande e ciò implica una maggiore spesa dunque l'impegno di Ghilberti è complesso. Una prima fusione della scultura va male, ciò vuol dire perdere il bronzo che è costosissimo. nel '22 la rifonde e la termina con successo. Anche qui si trovano delle dorature sulla veste e nel libro che tiene in mano. L'effetto dell'occhio conferisce intensità allo sguardo inserendo la pasta di argento per creare il bianco dell'cchio (vedi Seneca conservato a Napoli). Sperimentazione artistica che intorno al 1470 arriva a Verrocchio che realizzerà nel 1467-1483 l'Incredulità di San Tommaso, bronzo nella nicchia di Orsanmichele, utilizza però dei metodi più moderni. Verrocchio per coinvolgere il guardante all'interno della rappresentazione posiziona Cristo su un piedistallo e San Tommaso poggia un piede sulla nicchia, l'escamotage del piede che esce è il gesto che faremo noi per salire sulla nicchia è quindi questo il coinvolgimento in questo momento di Rinascimento maturo. Il retro ci svela che sono lastre e il bronzo usato è pochissimo e ovviamente economico. Lettura d'opera: dipinto della prima metà del '600 (Roma e Bologna) di Guido Reni, famosissimo classicista del seicento. 03/03/2020 Ieri abbiamo chiuso il ciclo delle sculture di orsanmichele, fondamentali per gli artisti e per l’educazione del gusto di una città intera, per via della possibilità di confrontarsi direttamente con le opere d’arte, esposte pubblicamente per le strade. L’apporto maggiore lo da Donatello (e anche Nanni di Banco, che però muore presto). Una delle caratteristiche fondamentali dell’arte donatelliana è la grande attenzione alla sperimentazione delle tecniche e dei materiali; dall’altro lato egli cerca di lavorare sugli aspetti maggiormente realistici delle rappresentazioni, cosa ben lontana dalle opere gotiche e tardo-gotiche. Si tratta dell’attenzione all’umano, al lato psicologico ed espressivo (oltre che a quello fisico e del movimento). Oggi parliamo della ‘’Cantoria’’ della cattedrale di santa maria del fiore. Le cantorie servono ad ospitare il coro che canta durante la messa. Il duomo di firenze ha due cantorie, una di fronte all’altra. Quello che prendiamo noi in considerazione è di Donatello, che fa a gara, ancora una volta, con la cantoria precedente della cattedrale, realizzata da Luca della Robbia che la realizza dal 1431 al 1438, mentre Donatello la fa dal 1433 al 1440. Nel commissionare l’opera dicono a Donatello che se avesse fatto un’opera più bella gli avrebbero dato 40 fiorini in più per ogni pannello (erano presenti in quello di luca della robbia, ma in donatello non ci saranno). I committenti dell’opera del duomo dunque volevano una cantoria simile a quella che già c’era, per motivi di simmetria. La cantoria di donatello è molto complessa e molto decorata, dove si ha una corsa di putti e una decorazione all’antica, anche nella parte sottostante della cantoria, con putti musicanti e all’interno delle specchiature due teste di bronzo all’antica sporgenti. Torniamo al rapporto dialettico tra le due cantorie. Luca della Robbia negli anni 30 è già uno sculture affermato, capostipite di una dinastia di scultori che ebbero una fortuna immensa (maestri della invetriatura della terracotta); Luca realizza questa cantoria con dei pannelli, in cui sono presenti dei cantori; i pannelli sono separati da due colonnine attaccate; ci sono anche qui dei puttini che danzano, che creano una iconografia vicina alla musica. Viene pagato 382 fiorini. I puttini hanno tutti la bocca aperta perché cantano. L’opera è composta, elegante e corretta nella rappresentazione della struttura architettonica, però elude alcuni problemi, che invece Donatello prende in considerazione, come il movimento. Infatti donatello sperimenta nella cantoria il movimento, cosa che aveva già fatto nel pulpito del duomo di Prato, che è decorato con dei putti danzanti. L’opera di Prato è del 28; tutti gli elementi che esplodono nella Cantoria sono già presenti nel pulpito di prato, ma la divisione dello spazio è diversa: nel pulpito di Prato lo spazio è diviso da dalle colonnine, come in Luca, e dunque i putti sono limitati dai pilastrini nei loro movimenti; lo sfondo del seta commissiona a Brunelleschi la ristrutturazione dell’edificio preesistente che noi conosciamo come l’ospedale degli innocenti; Brunelleschi ne riorganizza gli spazi e ne realizza una facciata che si apre allo spazio viario esterno. L’ospedale degli innocenti era un orfanotrofio, il primo d’Europa, dove le madri che non potevano garantire una vita al figlio, lo lasciavano su una ruota. Ciò che ci interessa è l’intervento che fa nella facciata, in cui si ha una innovazione assoluta. Brunelleschi fa un’operazione semplice e legata all’architettura classica, di cui ripete gli elementi: fa un porticato in facciata aperto verso la città, dove chi vuole può entrare (entrare nell’architettura era una cosa inconcepibile prima); sceglie di usare delle colonnine con dei capitelli corinzi tutti uguali, sceglie dunque dei moduli (facciata modulare: gli elementi sono inseriti in maniera simmetrica); utilizza delle proporzioni virtruviane: l’altezza delle colonne è 18 volte il diametro, il rapporto tra altezza e distanza delle colonne è di 2 a 3. Pietra serena per le strutture portanti (nervatura dell’architettura), tutto il resto intonaco bianco; Brunelleschi è un po’ anti-decorativo; ci sono però dei clipei (o tondi) con all’interno dei bambini: essi sono realizzati da Andrea della Robbia nel 1487 e furono commissionati per far capire quale era il ruolo dell’ospedale; in un dipinto noi vediamo che all’epoca di Brunelleschi all’interno dei tondi non c’era niente, erano grigi. Solo 10 tondi sono originali, quelli più esterni sono stati realizzati nell’800. LEZIONE 6 Riprendiamo da Brunelleschi. Avevamo visto la strutturazione dell’Ospedale degli Innocenti. La novità dell’architettura, nuova perché aperta verso la città. La facciata di questo orfanotrofio è nuova, perché c’è un portico che si apre verso la piazza. Tutti i fiorentini che avessero voluto interagire con l’architettura potevano tranquillamente entrare all’interno della facciata. Aspetto importante della modularità: ogni struttura è ripetibile all’infinito, con rapporti schematici di proporzioni. Questo schema era ricavato dall’architettura classica e dai testi vitruviani. Brunelleschi inventa una nuova modalità di rappresentazione architettonica. Aveva scelto un ordine corinzio perché la colonna corinzia è più esile. La decorazione dei tondi robbiani di Andrea della Robbia è posteriore, a partire dal 1487, che dunque esula dalla volontà di semplicità imposta da Brunelleschi, che aveva scelto solo il grigio della pietra serena per il porticato e la delimitazione degli elementi portanti e il bianco per tutto il resto. Il celstrino viene inserito dopo da Andrea. Questa opera ha un impatto fortissimo sulla fantasia artistica fiorentina. Anche questo porticato diventa un tema di discussione nel mondo artistico fiorentino. Alcuni degli artisti, anche i più legati al gusto tardo gotico, attingono dal porticato dell’ospedale. Vedi dipinto della predella del 1423 di Gentile da Fabriano che rappresenta Gesù al tempio: vediamo un tempio aperto al centro, una città medievale, con le abitazioni e gli edifici a bugnato rustico, ma sulla destra vediamo una struttura porticata, con archetti e portici tutti uguali; sono una citazione goticheggiante di Gentile da Fabriano del portico di Brunelleschi. L’impatto di questa architettura fiorentina è tale che lo troviamo in altre opere: vediamo la porta del Paradiso di Ghiberti per il battistero di Firenze; abbiamo l’incontro tra Salomone e la regina di Saba, formella in cui compare un’architettura, un grande edificio con un loggiato che si ripete modularmente; le finestrine sono un chiaro riferimento all’ospedale degli Innocenti. Altri ancora citano il Brunelleschi: si pensi all’annunciazione del 1440 di Filippo Lippi (opera molto importante perché presenta una forma quadrangolare che è un dettame brunelleschiano, è una regola imposta da Brunelleschi nella decorazione delle pale; ogni pala d’altare dovrà avere una forma quadrangolare); elementi gotici eliminati e rigoroso schema geometrico quadrangolare; questa annunciazione si svolge sotto un porticato, e quelli dietro alla scena si susseguono alla maniera di Brunelleschi, anche le finestrine sono un riferimento (interessante per la pittura di luce, di cui parleremo più avanti; retaggio della pittura fiamminga; Lippi qui moltiplica e complica le fonti di luce: luce naturale e luce frontale, ombre e virtuosismi. La cappella martelli è importante perché si trova all’interno di San Lorenzo, di fronte all’ingresso della sagrestia vecchia di San Lorenzo, possiamo ora passare a Brunelleschi all’interno di San Lorenzo, come architetto della Sacrestia vecchia. Pianta della Sagrestia vecchia, uno spazio chiuso e quadrato coperto da una cupola. Ancora una volta Brunelleschi usa gli elementi tipici della sua architettura: progettazione classica e sottolineatura delle strutture portanti dell’edificio con la pietra serena. Sagrestia Vecchia ideata da Donatello: la pietra serena segnala i pilastri con i capitelli corinzi, la cornice, gli arconi e la base su cui imposta la cupola. Come abbiamo visto per la facciata dell’ospedale, Donatello rompe con la tradizione anche nella decorazione vecchia di una cappella come era la Sagrestia Vecchia. Prima si decorava con affreschi, mentre ora abbiamo la pietra serena e l’intonaco bianco; le decorazioni sono bandite e gli elementi architettonici scandiscono lo spazio. Le decorazioni che vediamo dipendono dal fatto che collabora con Brunelleschi Donatello, che inserisce questi elementi che disturbano le serenità delle scansioni spaziali di Brunelleschi. L’unica pensata da Brunelleschi è quella nella trabeazione: i tondi. Interviene Donatello che fa 8 tondi: 4 storie di Giovanni Evangelista, 4 tondi con gli evangelisti e le edicole con i santi Cosma e Damiano e Stefano e Lorenzo. La volticina celeste fu dipinta da Giuliano D’arrigo: c’è un cielo che ha una simbologia importante. La grande cupola centrale a spicchi presenta degli spicchi non decorati. I tondi di Donatello sono un momento importante della sua produzione: non sono ovalini piccoli, ma tondi grandi, dal diametro di 2 metri. È modellato in stucco policromo, perché questi tondi (motivo che mise in subbuglio il rapporto tra Donatello e Brunelleschi) sono policromi, mentre Brunelleschi voleva una rigida bicromia. Vengono modellati in sito, sulle impalcature Donatello modella queste scene, fatti con strati di stucco sovrapposti. L’aggetto delle figure è dato dalla presenza di chiodi inseriti per delimitare il perimetro della figura, poi ricoperti di stucco. Queste composizioni sono efficaci da un punto di vista della prospettiva (si veda resurrezione ritrusiana, dove ci si ispira alle terme romane; o il San Giovanni nel deserto, in cui si rappresenta le scene naturali con grande attenzione; o ancora la scena del martirio, con le linee che fanno proseguire la scena nel nostro spazio, il corrimano scende fino a noi idealmente, alcune figure sono viste a metà e noi ne intravediamo solo il busto, lo scudo o la testa, come se fossimo noi stessi che saliamo verso la scena; o ancora l’ascensione di San Giovanni, con queste bellissime figure sottostanti che cercano di vedere cosa sta succedendo, di cui una cerca di arrampicarsi per vedere la scena e quindi valicare gli spazi della rappresentazione; queste sono le scene dei pennacchi). Invece per i tondi nelle lunette, sempre di 2 metri, ci sono i 4 evangelisti, figure di uomini maturi intenti nello studio e nella scrittura dei vangeli: San Luca che appoggia il suo libro su un’ara antica, come all’antica è il trono su cui è seduto; San Giovanni che è impressionante, un vecchio saggio che si appoggia pensoso su un’ara antica su cui si facevano i sacrifici degli animali, il tutto su stucco bianco con alcune parti d’orate per gli effetti di luce. Donatello realizza anche i rilievi sopra le porticelle: in uno i protettori dei medici Stefano e Lorenzo, nell’altro Cosma e Damiano, sempre santi medici; dunque legati alla dinastia medicea. Le figure bianche su sfondo scuro, con alcuni elementi d’oro, mentre nella cornice laterale abbiamo delle piante stilizzate che nascono da due anfore. Le teste di questi santi presentano lineamenti esasperati per sottolineare l’effetto drammatico, così importante per Donatello. Sono modellate anche queste in loco, dipinte di bianco e con dettagli dorati. Lo sfondo scuro suggeriva le soluzioni della terra cotta invetriata che Luca della Robbia aveva elaborato. I colori sono sgargianti e tutto questo disturba Brunelleschi, che critica l’operato di Donatello. Questo provocherà una rottura tra i due artisti, che non lavoreranno più insieme. Donatello realizza le porticine laterali alla zona dell’altare, nel terzo decennio del 400. Sono due porticelle bronzee con 5 riquadri per anta. Quindi Donatello si mette a lavorare anche alle porticelle di bronzo. La formula di queste porte è un po’ diversa rispetto a quelle che abbiamo visto fino adesso. Presenta la cornice continua intorno alle formelle, che sono però quadrangolari, e all’interno ci sono 2 figure in movimento, che discutono, che si rivolgono le spalle… in diverse posizioni. Nella forma stretta e lunga della porticina Donatello testimonia la conoscenza dei dittici consolari romani e paleocristiani in avario (Dittico di Stilicone a Monza). Donatello presenta all’interno delle formelle delle figure, ma non frontalmente come nei dittici tardoantichi, non simmetriche, ma mentre discutono e con delle posizioni da farle risultare quasi caricaturali. Questa scelta la vediamo nella porta degli apostoli con dettaglio e nella porta dei martiri con dettaglio. Questa scelta di presentare due figure per formella in posizioni concitate e vivaci, fu criticata al tempo di Donatello, in particolare dall’Alberti, che sembra riferirsi a queste figure quando nelle pagine del De Pictura scrive parole di critica: dice che un filosofo agisca come un filosofo e sia rappresentato con la severità dei costumi di un filosofo, non che mostri di saper fare di scherma (le palme del martirio tenute in mano dalle figure sembrano spade). L’intento di Donatello non è quello di dileggiare le figure rappresentate, ma di movimentare questo contesto così tranquillo proprio con una concitata discussione tra i protagonisti delle formelle. Il lavoro di Donatello nella Sacrestia Vecchia non finisce qui. C’è un altro elemento realizzato da lui, fondamentale ma meno considerato. È una parte costitutiva della cappella stessa, che vuole essere anche una cappella funebre: il Mausoleo di Giovanni dei Medici e di sua moglie Piccarda. È nascosto sotto il tavolo di marmo al centro della cappella, e quindi si nota poco. Sul tavolo c’è un medaglio tondo di granito; è il tavolo da sacrestia, un elemento fondamentale perché serve per posare gli abiti che i preti utilizzeranno durante le messe e le suppellettili sacre. Non è un altare, ma un tavolo da sacrestia! Sotto questo tavolo c’è il monumento di Giovanni de’ Medici. Perché il fondatore della dinastia Medici ha un monumento così defilato? Quasi nascosto? Giovanni è padre di Cosimo il Vecchio, fondatore della dinastia, e muore a Firenze nel 1429. Il suo esecutore testamentario è Cosimo, che nel 1433 paga Donatello e il Buggiano per l’esecuzione di questa tomba. La tomba è molto interessante perché è un sarcofago all’antica, e viene scelto sulla base di un modello precedente che Donatello aveva già eseguito per la tomba di Baldassarre Costa nel Battistero di Firenze (papa Giovanni XXIII, un antipapa eletto a Pisa nel 1410 e poi deposto 5 anni dopo). Perché c’è la tomba di un anti papa a Firenze? Perché questo papa aveva favorito Firenze e i Medici. Sono i medici ad occuparsi dell’erezione di questa tomba nel battistero. È una tomba a più strati: il sarcofago è a metà, sopra si ha il cataletto e sopra ancora una nicchia con la madonna con il bambino. Il tendaggio sotto cui si svolge la scena è aperto. Il sarcofago presenta una coppia di angeli intenta a svolgere una pergamena con una incisione. La cosa interessante di questo sarcofago è lo svolgimento dell’azione degli angeli, che è qualcosa che accade mentre noi guardiamo (proprio come sembra che il cortinaggio si apra mentre noi entriamo nel battistero). Torniamo alla sagrestia vecchia e al monumento di Giovanni, vediamo anche qui i due angeli che srotolano la pergamena su cui c’è l’iscrizione che descrive il committente e l’uomo deposto all’interno del monumento. Anche dall’altro lato due angioletti tengono una tavoletta all’antica con un’iscrizione in versi. Questa targhetta è trapezoidale, come se si volesse facilitare la lettura in prospettiva. Questa facciata della tomba era la prima immagine che si aveva della tomba entrando nella sagrestia. L’ingresso di oggi è falsato (quello originale è bloccato da una tomba di Verrocchio). C’è un altro elemento fondamentale di questa tomba: entrando nella sagrestia siamo attratti poco dal tavolo e dal monumento, ma sul lato lungo del tavolo c’è un qualcosa di scuro, un’invenzione donatelliano straordinaria: due colonnine che si trovano su suo gesto delicato. Importanza degli angeli: sono di spalle perché si rivolgono alla madonna. Non vediamo il loro volto ma un profilo perduto: vediamo la tempia e la guancia e i capelli biondi, freschi e arricciati, che sembrano tratti da una scultura di Donatello. Altra opera: a 4 mani, Masolino e Masaccio nel 1424, data in cui Masaccio inizia la sua collaborazione con Masolino, pittore armato di una buona pratica. I due lavorano insieme nell’impresa della cappella Brancacci, molto importante. Prima vediamo Sant’Anna me Terza, del 1424, tempera su tavola alta un metro e 75. Qui si vede come le due concezioni artistiche (Masolino più arcaico e Masaccio più innovatore) messe sulla stessa tavola siano stridenti; sono due stili giustapposti che non si fondono. Sant’Anna sta con la vergine e il bambino. Masolino che era il maestro più affermato si tiene per sé la figura di Sant’Anna e lascia al giovane la vergine. Sant’Anna insieme agli angeli che tengono il drappo dietro di lei, è una figura rigida, non si capisce bene come tra le gambe di Sant’Anna si possa accovacciare la figura solida della Madonna masaccesca. La Santa è quasi caricaturale nella sua rigidezza, quasi una scultura lignea. Mentre la Madonna è solida, tridimensionale, plastica. Vediamo gli angeli: rigidi e tardo gotici. Vediamo il bambino e la madonna: solida, con un’espressione ferma e consapevole, stringe forte il bambino con le mani, bambino forte e cicciottello, con una corporatura erculea e plasticamente rivelata. Dietro questa Santa. Questa tavola rivela come Masaccio fosse assolutamente avanti al suo maestro. Vasari dice che le figure di Masaccio sono reali, escono dalla tela, mentre le altre si vede che sono pitture. Dopo questa prova insieme a Masolino, Masaccio riceve delle commissioni in autonomia. Ora vediamo una delle commissioni più importanti della sua carriera: il polittico di Pisa. Perché lo vediamo in una ricostruzione? Perché si trovava presso la chiesa del Carmine ma nel 600 fu smembrato. Questa è una ricostruzione di un’opera di cui non abbiamo neppure più tutte le parti, ma solo quelle che vediamo qui. È importante da un punto di vista storico: Pisa era stata conquistata da Firenze nel 1406 e dopo che i fiorentini avevano depauperato la città anche da un punto di vista culturale (per abbassarne l’orgolio patriottico), Pisa inizia a riprendere vita e anche artisti fiorentini lavoreranno per la città. Il polittico è commissionato da ser Giuliano di Colino degli Scalzi, un banchiere rappresentante dell’arte dei medici a Pisa. A lui si suole assegnare anche altre commissioni importanti, come la Madonna dell’Umiltà di Gentile da Fabriano. Come vediamo commissione un’opera modernissima a Masaccio e un’opera tardo gotica a Gentile da Fabriano. Questa Madonna è umile perché prega davanti al suo bambino: l’impostazione delle figure è all’interno di un ambiente ricco e raffinato; le vesti e il tappeto sono ricche e d’oro, come il lenzuolino su cui è sdraiato il bambino. Il rapporto tra i due è molto meno diretto rispetto alle opere di Masaccio. Il bambino è rigido e meno naturale. In questa madonna con bambino prevale un aspetto goticheggiante, sottolineato dalla poca caratterizzazione tridimensionale dei corpi e dalla ricchezza delle dorature. Cosa bella di questa opera è l’aureola della vergine, dentro cui c’è un versetto del corano (non è una blasfemia, ma questi caratteri elegantissimi della scrittura cufica vengono privati del loro significato reale, sono semplici termini visivi e non come termini legati a un significato). Questa tavola serviva per la devozione privata. Pisa in questi anni comincia a riprendere campo, perché contemporaneamente lavorano per la città Masaccio e Donatello, che realizza un monumentale sepolcro destinato ad essere inviato a Napoli: monumento del cardinale Rainaldo Brancaccio, scolpito in città e poi inviato a Napoli pezzo pezzo. Poi c’è a Pisa anche Brunelleschi, chiamato a Vico pisano a progettare la fortificazione di Vico pisano (punto estremo del contado). Torniamo al polittico: è un polittico con la madonna con bambino e santi che nella tavola centrale presenta la madonna con bambino (oggi è alla national gallery di Londra). Le parti del polittico sono in giro per il mondo, a Pisa c’è solo la figura di San Paolo. Come vediamo la figura della vergine si incurva per tenere il bambino, con un atteggiamento molto protettivo, su un trono semplice, perfetta costruzione architettonica con un punto di vista ribassato perché Masaccio tiene di conto del punto di vista dello spettatore. Anche qui continua il fondo oro, ma serve per rendere ancora più tridimensionali e staccate dal fondo le figure della madonna, del bambino e degli angeli musicanti. Il basamento su cui si poggiano le figure sono decorate con onde (strigilatura, citazione dall’antico, che Masaccio ha visto in uno dei sarcofagi che si trovavano dispersi sopra il prato dei miracoli intorno al duomo di Pisa). Masaccio guarda anche all’antico e non solo allo studio del vero. Inserisce così questa citazione di un sarcofago strigilato. Torniamo alle figure: effetto straordinario perché il bambino è ancora più erculeo e naturale. Con una mano tiene l’uva che la madre le porge e con l’altra se ne porta dei chicchi alla bocca creando un effetto di assoluta verità. L’aureola della vergine e degli angeli sono diverse da quella del bambino, che è vista di scorcio; Masaccio vuole dare una prospettiva anche all’aureola. Masaccio cerca di coinvolgere lo spettatore non solo con la vista, ma anche con altri effetti: con l’udito (angeli musicanti, vicini a noi) e con il gusto (il bambino mangia l’uva). Si vuole creare un effetto coinvolgente di tutti i sensi. Passiamo alla Crocifissione del Polittico di Pisa, che si trovava sopra la madonna col bambino. Raggiunge l’acmè drammatico della rappresentazione stessa. Non ci sono elementi architettonici ma sono le figure che determinano la spazialità della scena. Oggi l’opera è a Capodimonte, posta all’altezza del riguardante, ed emerge una disarmonicità della figura di Cristo, la cui testa sembra incassata nel corpo. Ma non è un errore di Masaccio: la tavola doveva stare in alto e quindi egli crea questo effetto che sarebbe stato perfetto nella posizione originaria. Masaccio elimina ogni orpello decorativo: chi guarda deve concentrarsi solo sull’effetto drammatico. Niente paesaggio, solo una striscia di terreno che fa da piattaforma ai tre dolenti. La madonna è di profilo, il San Giovanni evangelista giovane, la Maddalena con i lunghi capelli biondi che esondano sul mantello, inginocchiata ai piedi della croce in un momento di incredibile dolore. Non ne vediamo il volto ma capiamo la sua drammaticità. Nell’assenza di raffigurazione drammatica del volto riesce comunque a darci l’estrema forza del dramma. Precedenti altrettanto forti si possono ritrovare solo nel Compianto di Giotto alla cappella degli Scrovegni a Padova. Dunque riprendiamo partendo drammaticità della maddalena, che avevamo paragonato al compianto di Giotto della cappella degli Scrovegni: ambientazione naturalistica e drammaticità delle figure; San Giovanni con le braccia spalancate sopra il cristo, e la Maddalena bellissima piegata ai suoi piedi, che li tiene con espressione di estrema drammaticità. Altre figure del polittico sono quella del San Paolo, che si trova a Pisa: nonostante il fondo oro la figura è tridimensionale, plasticamente definita. Sant’Andrea ora a Los Angeles, malinconico e dalla grande espressività. Il polittico era molto complesso: aveva molte pale di varie dimensioni e aveva una predella in cui erano raccontate delle scene importanti: l’adorazione dei magi al centro, la crocifissione di San Pietro a testa in giù a sinistra e a destra la recollazione del Battista. Queste 3 parti si trovano a Berlino. Poniamo l’attenzione sull’adorazione dei magi: nello stesso periodo in cui Masaccio dipinge questa parte, si ha un’altra importante adorazione dei magi commissionata a Firenze a Gentile da Fabriano, del 1423, oggi agli Uffizi. Fu dipinta per Palla Strozzi per essere messa nella cappella di famiglia in Santa trinita. È una tempera su tavola e ha ancora la struttura a polittico a più scomparti, anche se le colonnine che dividono i vari scomparti non sono presenti e quindi lasciano maggiore campo alla composizione. Ha una predella e una cornice tardo gotica originale, con ramoscelli erbe e fiori che si rifanno a un gusto squisitamente tardo gotico. L’opera è firmata. L’artista qui fa un capolavoro del tardo gotico (ormai negli anni 20 del 400). Il racconto della venuta dei magi in alto a sinistra, per poi continuarlo nelle lunette successive e farlo terminare in primo piano. Dettaglio dei magi nella prima lunetta, che vedono la stella cometa. Vediamo al centro il corteo dei magi che piano piano arrivano di fronte alla porta urbica. C’è una minuzia descrittiva straordinaria: piccoli ponti, animali accasciati (scimmie, elementi che danno il senso della ricchezza del corteggio). Fino a che il corteggio non arriva in primo piano, dove si svolge l’incontro con la sacra famiglia. Il senso della povertà è espresso dai muri un po’ diroccati, ma abbiamo una vergine elegantissima; la figura più umile è quella di Giuseppe, mentre ai piedi del bambino si assiepano i 3 magi, dei veri principi ricchissimi negli abiti, in un tripudio di oro, lavorato finemente con la tecnica dell’orafo. Spade, corone, speroni, sono mondani, ricchi, dorati. Ci sono colori vivaci: le carni madreperlacee, le vesti rese con molta attenzione (vesti della moda fiorentina). Gentile da Fabriano rispetta i dettami del committente, visto che Palla Strozzi era un mercante di stoffe. È uno straordinario capolavoro del tardo gotico. Pochi anni dopo, nel 1426, Masaccio interpreta lo stesso tema nella predella del polittico di Pisa, in uno spazio riservato appunto al racconto. L’episodio è integralmente calato sulla terra: la scena è perfettamente ricostruita in un contesto prospettico, le figure sono solide e tangibili, tanto che proiettano le ombre sul terreno (studio della luce). Lo spazio è reso da uno scalare in profondità delle figure. Lo scenario diventa misurabile. Le figure, gli animali e il paesaggio hanno la stessa scala. La capanna è una vera capanna, ombrosa e ricostruibile dal punto di vista prospettico, e i magi si avvicinano con i loro doni e le loro corone, ma si muovono in un ambiente perfettamente reale. Le figure che stanno dietro: i cavalli, due astanti che assistono alla scena e che sembrano fiorentini del tempo. Poi la sacra famiglia: madonna seduta su una cella curialis (citazione all’antica) che porge il bambino. Rappresentazione che non ha nulla a che vedere con il tipo di rappresentazione tardo gotica. Dunque Masaccio non vuole rappresentare in forma rituale il dogma religioso, ma vuole rappresentare un fatto realmente accaduto. C’è una differenza epocale fra la ricchezza, la bellezza e il fasto per Palla Strozzi, e dall’altro una rappresentazione reale, dove tutto è tangibile in quella di Masaccio. Lasciamo il polittico di Pisa e spostiamoci in un’altra chiesa del carmine, quella di Firenze, nella cappella Brancacci al carmine. In questa cappella vengono rappresentate le storie di San Pietro, commissionate da Felice Brancacci, uomo politico, ricco mercante della seta. Si sceglie di rappresentare la vita di San Pietro perché era il santo protettore della famiglia. Dobbiamo sempre leggere le opere in relazione al tempo, dobbiamo analizzare questa cappella di tutti i rimaneggiamenti che si sono fatti nel tempo. Il testo che noi vediamo è modificato rispetto all’originale: per esempio del 600 si apportano modifiche, per aggiornare la cappella al gusto barocco. Nel 700 si hanno le modifiche maggiori: nella cappella c’era una cupola dipinta dal Masolino con i 4 evangelisti. Nel 700 è fuori moda, viene distrutta e viene sostituita con un affresco di Vincenzo Meucci che raffigura la Madonna che consegna lo scapolare. È un’opera terminata nel 1748. A Meucci si devono un po' di interventi maldestri, ma che al tempo erano ritenuti legittimi. Nel frattempo si smantella anche la bifora gotica della parete di fondo, distruggendo anche parte degli affreschi, per inserirvi un massiccio tabernacolo marmoreo all’interno del quale c’era questa madonna detta del popolo. I restauri degli anni 80, attuati da Umberto Baldini e da Ornella Casazza, hanno rimosso il tabernacolo e recuperato alcuni piccoli affreschi di gusto tardo gotico. I lavori nella cappella Brancacci iniziano sul finire del 1424, a seguito del ritorno di Felice da un’importante ambasceria e della fine dei lavori di Masolino ad Empoli. Iniziano i lavori, in cui Masolino e Masaccio lavorano congiuntamente, fino al 1425, quando Masolino parte per l’Ungheria. Quindi Masaccio porta i lavori avanti da solo, fino al 1427 circa, quando poi partirà per Roma. Nel 1940 Roberto Longhi in ‘’Fatti di Masolino e di Masaccio’’, parlava dei rapporti tra i due in suo mantello giallo, sta battezzando un giovane, che si è spogliato e inginocchiato. Masaccio è attentissimo nella rappresentazione dei dati naturali: percepiamo l’acqua che scorre, dove è immerso il neofita, e l’acqua arriva anche dalla bacinella di San Pietro, che rendono bagnati i capelli del giovane (noi lo percepiamo perfettamente). La resa anatomica di questo corpo forte e virile nella sua gioventù è magnifica. Emerge il pelo pubico dalle mutande che ricoprono le pudenda del giovane. C’è un’attenzione dei dettagli naturali incredibile. Dietro ci sono altri neofiti: uno si sta spogliando e che è per metà nudo, con un corpo ancora acerbo; un altro, più maturo, che ha freddo e incrocia le braccia al petto, in un gesto naturalissimo che si fa quando si ha freddo. Masaccio è attento alla rappresentazione del reale. Altra scena della parete di fondo, a destra dell’altare, è la Distribuzione dei beni e morte di Anania di Masaccio. Si svolge in un’ambientazione cittadina, architetture fiorentine, alcune rinascimentali (quella bianca) e altre più goticheggianti (quella con la base a bugnato, turrita). Sullo sfondo di nuovo le montagne in un digradare lento e misurabile. Le figure si assiepano in primo piano, dove San Pietro e San Paolo stanno distribuendo le monete ai poveri. Pietro dà delle monete a una madre con il bambino in braccia. Nella stessa scena si ha la morte di Anania, che aveva venduto un terreno e aveva tenuto per sé i proventi; per questo viene punito e muore ai piedi dei due santi. Interessante è l’attenzione al dato naturale: la madre che tiene in braccio il bambino seminudo, che vediamo dal retro e fa dei gesti naturalissimi. Emerge il sederino del bimbo che poggia sul braccio della madre. Interessante è l’attenzione alla ritrattistica, allo sguardo sulla fisionomia dei fiorentini del suo tempo. I volti che vediamo nella scena sono volti di persone che probabilmente Masaccio conosce, a cui conferisce l’aura dell’antico e anche una forza espressiva veramente straordinaria (è l’invenzione dell’umano che Donatello aveva realizzato in scultura e che Masaccio traduce in pittura). Masaccio non può che aver guardato con rispetto i santi 4 coronati di Nanni di Banco. I volti delle statue sono stati utilizzati per i volti della cappella Brancacci. Le soluzioni di Or San Michele sono evidentemente state fondamentali per lo sviluppo rinascimentale della pittura! Altra opera di Masaccio, San Pietro risana con l’ombra, sulla parete di fondo a sinistra dell’altare. San Pietro e san Paolo passano per la strada di una città (che sembra uno squarcio di un palazzo fiorentino, forse palazzo Strozzi con bugnato rustico) in cui si assiepano degli storpi. Di nuovo l’utilizzo della luce per tracciare un’ombra sul pavimento, che diventa salvifica. Vediamo poi gli storpi, che sono sicuramente ritratti di storpi che Masaccio vede intorno a sé. I lavori alla cappella Brancacci si interrompono nel 27 quando Masaccio va a Roma. I lavori rimarranno fermi fino agli anni 80 del 1400, quando si procede al completamento, chiamando Filippino Lippi, artista in qualche modo legato a Masaccio e al suo lavoro nella cappella Brancacci. Filippino ha studiato molto di più e ha visto molte più cose: è passata la pittura di Paolo Uccello, del padre Filippo Lippi, di Beato Angelico, di Domenico Veneziano… il suo vocabolario pittorico è estremamente più ricco rispetto a quello di Masaccio. Vediamo la scena con la resurrezione di Teofilo e San Pietro in Cattedra: questa scena di Filippino è molto dibattuta dagli storici; c’è chi dice che la parte destra con San Pietro in Cattedra sia stata realizzata da Masaccio. In particolare la figura che ci guarda è ritenuto il ritratto di Masaccio stesso. Dunque forse Filippino Lippi è intervenuto dopo per completarla. Conclusione dei lavori nella cappella Brancacci: intervento di Filippino Lippi negli anni 80. Scena di San Pietro in Cattedra e resurrezione di Teofilo. Eventi narrati nella leggenda aurea. Teofilo arresta San Pietro ad Antiochia, e San Paolo va a visitarlo e poi supplica Teofilo perché lo liberi. Teofilo dice che lo libera ponendogli una sfida: solo se lui riuscirà a resuscitare il figlio morto. Pietro va alla tomba e dalle ossa ai piedi del terreno lo resuscita. In seguito a questo evento la popolazione di Antiochia si converte al cristianesimo e viene eretta una chiesa con una cattedra, dove San Pietro si siede poi per predicare. A Roma poi ci sarà la fondazione della basilica di San Pietro e la vera cattedra del santo. Parte di questa rappresentazione probabilmente era stata realizzata da Masaccio prima della partenza per Roma. Tra le figura intorno a San Pietro vediamo forse il ritratto di Masaccio stesso, che ci guarda direttamente e non di profilo come le altre. Passiamo all’ultima scena, realizzata interamente da Filippino Lippi: linguaggio ormai totalmente rinascimentale, dove tutti gli stilemi del rinascimento (oltre alla prospettiva) sono presenti: natura sullo sfondo. In questa scena si ha due storie: la disputa con Simon mago e la crocifissione di San Pietro. Occupa il registro inferiore della parete destra. Si svolge fuori dalle mura di Roma, e si vede la piramide ci Caiocestio (tutt’ora visibile). Sulla destra vediamo la disputa tra Simon mago e i santi Pietro e Paolo di fronte a Nerone. La sfida viene vinta da San Pietro e l’imperatore fa cadere a terra l’idolo pagano, simbolo della sconfitta di Simon mago, figura vestita con le manicone simbolo del mago. A sinistra si ha la crocifissione, effettuata a testa in giù. Piedi da cui sgorga il sangue, con la fatica degli aguzzini che lo stanno issando sulla croce (anche loro caratterizzati in senso fisiognomico). Nell’85 circa i lavori si concludono alla cappella Brancacci (poi verrà modificata con l’eliminazione del tabernacolo originario e poi con l’eliminazione della volte celeste del Masolino, per l’inserimento della Madonna che consegna lo Scapolare a San Simone di Vincenzo Meucci nel 700). Torniamo a Masaccio, al fatto che nel 1427 i testi della cappella Brancacci sono disponibili allo studio dei pittori. La pittura si affranca da una certa arretratezza nei confronti della scultura. Tutti iniziano a guardare cosa ha fatto Masaccio. Negli anni 30 la pittura inizia un nuovo corso, molto complesso, che deve dare conto dell’acquisita capacità di rappresentare lo spazio, ma che deve porre anche il problema della luce. L’importanza della luce è per Masaccio fondamentale: le figure proiettano un’ombra per terra. Dagli anni 30 il problema della luce diventa fondamentale. Nel 1987 a Firenze viene fatta una mostra che si chiama pittura di luce. Che cosa si intende per pittura di luce? Le cause che generano l’attenzione verso questo fenomeno sono tante: l’esperienza di Masaccio e il suo studio da parte dei successori; ma anche perché a Firenze iniziano ad arrivare opere di artisti fiamminghi. Questa pittura è basata sul dettaglio e sull’attenzione alla luce e ai suoi riflessi; un’altra causa è la pubblicazione nel 1435 del De Pictura di Leon Battista Alberti, che era a Firenze con la corte pontificia. Alberti codifica delle tecniche che fino a quel momento erano rimaste segmentate. Dà scientificità al problema della luce e alla sua rifrazione sui colori diversi. Questi elementi insieme contribuiscono allo sviluppo a Firenze di una pittura particolarmente attenta al problema della luce. Gruppo di pittori in particolare che studiano questi problemi. Chi sono? Beato Angelico, Domenico Veneziano, Paolo Uccello e Piero della Francesca. Artisti di grandissimo rilievo per la pittura di epoca rinascimentale. Tra loro Bellosi (autore della mostra) esclude Filippo Lippi: perché? Vedremo che anche lui (e forse nella maniera più compiuta) può essere annoverato tra i pittori di luce. Ma andiamo con ordine, partiamo dalle opere di Beato Angelico. Tabernacolo dei linaioli del 1433-1435. Beato Angelico è molto interessante, fino a poco fa si riteneva che fosse più anziano di Masaccio di almeno 15 anni; in realtà nacque intorno al 1400, quindi poco prima di Masaccio. Dunque sin da subito percepisce le novità di Masaccio. Ha assorbito con originalità lo stile di Masaccio, seguendo la sua sensibilità e i suoi fini espressivi, senza rinunciare alle inflessioni cromatiche e a una plastica luminosità. Beato Angelico figura importantissima della pittura rinascimentale fiorentina. Coevo a Masaccio, ha recepito con rapidità le sue novità. Era un frate domenicano e per un po’ anche il priore del convento domenicano di San Domenico a Fiesole. Papa Nicolò V lo voleva nominare arcivescovo di Firenze. Angelico dipinge per rendere gloria al signore. Le sue opere dovevano servire alla meditazione, non appagare le smanie di lusso dei committenti. Si chiamava Guido di Pietro, ribattezzato Giovanni come frate. L’appellativo ci fa capire come i contemporanei giudicassero pura la sua arte, specchio di una vita sempre pura e casta. È un artista che seppe, a differenza dei più tradizionali e miti (Monaco, Fabriano, Ghiberti) essere interprete delle novità di Masaccio e Brunelleschi, che inserisce tra i suoi dipinti. Teniamo presente la relazione dei suoi dipinti con la pittura di luce. Tabernacolo dei Linaioli del 1433-1435; tabernacolo, quindi struttura architettonica complessa e interessante, perché il disegno di questa architettura fu realizzato da Ghiberti. La commissione di questa opera fu fatta dall’arte dei linaioli nel 1433. C’è una collaborazione tra Ghiberti e Beato Angelico. È un tabernacolo che può avere le ante aperte e chiuse. Quando sono aperte c’è al centro la madonna con bambino, attorniata da San Giovanni battista e da San Giovanni evangelista. Quando è chiuso abbiamo il San Marco con il leoncino e il San Pietro. Cambia anche lo sfondo: aperto risplende il fondo oro dei due santi e dell’oro che adorna il trono della vergine, mentre quando è chiuso lo sfondo è scuro e le loro aureole risaltano. Opera interessante per questa convivenza di tradizione e modernità: piena conoscenza di Masaccio perché le figure sono ben tornite, nella vergine e negli evangelisti si vede la struttura corporea. I mantelli non occludono la lettura delle parti sottostanti. Anche i volti denunciano la conoscenza della pittura masaccesca, per l’intensità delle espressioni. I personaggi poggiano i piedi su un terreno reale e non quella vacua presenza di terra così come accadeva nelle figure di Masolino. Il riferimento a Ghiberti è cogente: vediamo il San Giovanni battista di Ghiberti e quello del Beato; in particolare le pieghe delle loro vesti. Guardiamo un dettagli della convivenza del moderno e del tradizionale: plastica figura di San Giovanni battista, sia nella resa corporea che nella caratterizzazione del volto. Poi vediamo gli angeli che fanno da cornice, squisitamente goticheggianti, in cui la figura è elegante, circonfusa d’oro, aggraziata, assorta in una meditazione lontana tipica della pittura tardo trecentesca. Il tabernacolo è significativo perché ci fa capire cose Beato stesse assimilando le novità e come utilizzasse ancora alcuni dettami della tradizione tardo gotica. Altra opera, sempre legata al circolo di San Marco e ai domenicani. Pala di san Marco, grande pala di 2 metri e 20 per 2 metri e 27, realizzata tra il 1438-1440. Tavola quadrangolare, che rispetta i dettami delle nuove pale d’altare come Brunelleschi l’aveva codificata. Non più polittici ma opere tutte uguali. Quest’opera viene donata da Cosimo de’ Medici: riferimento ai Medici dato dai santi inginocchiati, Cosma e Damiano, santi protettori della casata. La madonna sul trono è sopraelevata rispetto ai santi, su un trono posto in una sorta di arco trionfale all’antica che li inquadra e chiude questo spazio interno al di là del quale si apre una natura, un bosco, una pineta che rappresenta lo spazio naturale al di là del quale si svolge la sacra conversazione. Siamo di fronte a una serie di santi, disposte quasi a semicerchio intorno alla vergine con bambino, in conversazione. Siamo idealmente chiamati a conchiudere questo semicerchio. Questa rappresentazione è complicata dall’utilizzo della prospettiva: possiamo misurare perfettamente questo spazio, perché il tappeto raffinatissimo ci permette con le sue riquadrature di delimitare lo spazio entro cui la rappresentazione si svolge. Aspetto della luce: luce quasi notturna dello sfondo, ma anche luce frontale che illumina la scena. Dominanza di rossi (mantelli) e oro, che consente di far vibrare la luce che batte sopra questo dipinto. Altri dettagli interessanti: i volti, come quello di San Cosma. Guardiamo l’inserimento di questa piccola crocifissione che segna il limite della rappresentazione e anche il limite dell’altare (su cui la sacra conversazione doveva stare). Il sacrificio di Cristo sulla croce che si incarna poi sull’ostia (vicina per la presenza del calice sull’altare). Vergine con il bambino che è l’inizio della storia, crocifissione di Cristo che è la fine della storia, e che ritorna poi nell’ostia consacrata. Questa pala era inserita in una cornice di santi e di storie presenti nella predella. quando l’opera arrivò, che fu portata presso la chiesa di Sant’Egidio, all’ospedale di Santa Maria Nuova, appartenente proprio ai Portinari. È rappresentata l’adorazione dei pastori: madonna inginocchiata di fronte al bambino, in una capannuccia diroccata, con il bue e l’asinello, san Giuseppe, gli angeli intorno a loro. Trattamento della luce molto complesso. Nelle due ante vediamo, a sinistra San Tommaso e sant’Antonio Abate, mentre a destra ci sono Santa Margherita e Santa Maria Maddalena. Torniamo alla luce: vediamo come la luce sia diretta e naturale, che inonda la composizione, che dialoga dalla pala centrale alle due tavole laterali. C’è però anche la luce divina: il bambino illumina le figure che gli stanno intorno; un angelo è per una parte scuro e per l’altra colpito dalla luce divina del bambino. Ricchezza di dettaglio straordinaria: le due sante e la natura morta dei fiori messi in dei vasi, colti nei campi e donati al bambino. Questa opera divenne di grande attenzione per i pittori fiorentini, e i più sensibili ne ripresero delle parti compositive. Si veda l’Adorazione dei pastori di Domenico Ghirlandaio, che dopo soli 2 anni cita letteralmente le figure dei pastori, che tornano nelle stesse posizioni. Questo nostro percorso ci ha portato alla seconda metà del secolo per vedere quanto fosse stata importante l’influenza della pittura fiamminga sui contemporanei pittori italiani. Torniamo al Beato Angelico e ai pittori degli anni 30. Beato Angelico, Madonna col bambino del 1440 (Madonna di Torino); siamo proprio a dieci anni dallo scoppio della moda della pittura fiamminga. Studio della luce evidente. La madonna in trono, composto da un baule dorato con un cuscino prezioso. Sullo sfondo c’è una sorta di nicchia che non è addossata alla vergine; tra di loro c’è uno spazio reale, che viene illuminato da una fonte di luce. La vergine è illuminata frontalmente, per altro il bambino tiene tra le mani un cartiglio su cui si legge (ego lux mondi). Luce dunque anche simbolica. La stanza retrostante la vergine è illuminata da una fonte di luce interna. Dietro al drappo dorato sulla sinistra c’è la base di una finestrella, che serve proprio a inondare di luce la parte retrostante. La luce è fondamentale anche per Filippo Lippi. Le opere di Lippi sono parte integrante della schiera dei pittori di luce. Anzi, lui è forse il più attento a questo problema. Madonna di Tarquinia del 1437 di Filippo Lippi, pittore molto libero nel prendere tutte le fonti stilistiche che vede e a rielaborarla in modi originali. Libertà stilistica che richiama la libertà della sua vita: era un religioso, nel 1421 aveva preso i voti e viveva nel convento fiorentino del carmine. Stava a contatto con la cappella Brancacci di Masaccio. Nel 1432 lascia il convento e va a Padova. Quando torna mantiene il titolo di monaco secolare. Diventa cappellano del convento di Santa Margherita a Prato, dove conosce una suora, Lucrezia Buti, che posava per lui. Si innamorano e fuggono. Hanno un figlio, Filippino. Questo avvenimento fa scandalo e Lucrezia deve tornare in convento, ma fugge di nuovo. Nel 1461 Filippo viene sciolto dai voti e la coppia può essere legalizzata. La libertà di Filippo è di costumi e di stile, ma questo non vuol dire che fosse un fervente religioso. Attenzione all’umanità che ha intorno, caratteristica tipica della sua pittura. Molti personaggi delle sue opere sono ritratte dal vivo. Immediatezza quasi popolaresca delle sue opere, estremamente vivaci. Madonna di Tarquinia oggi a Palazzo Barberini. Di nuovo la madonna in trono col bambino in primissimo piano. Bambino vivace che si contorce per abbracciare la madre, su un trono di finto marmo. Le figure sono illuminate frontalmente . L’ambiente retrostante è domestico: vediamo l’influenza fiamminga, presenza del talamo e delle finestre, una sul lato sinistro che illumina tutta l’area, e un’apertura dietro la testa della Vergine, una sorta di giardino interno da cui entra la luce. Ci sono almeno 3 fonti di luce: moltiplicazione di fonti estremamente complessa. Filippo Lippi domina la composizione da un punto di vista dell’architettura e dello spazio. Tutto è misurabile prospetticamente. L’ascendente fiammingo è fortissimo (ricordiamo il porticato della Madonna del cancelliere) anche per gli elementi simbolici (il libro e il talamo della Vergine). Questa opera è una summa straordinaria della comprensione di Lippi della pittura fiamminga. Madonna di Tarquinia è un pallino del prof, che vuole sapere tutto (anche la data, che è scritta nel cartiglio alla base del trono proprio nel quadro). La ricerca di Lippi sul tema della pittura di luce ritorna in altre opere. Nel 1437 si ha la pala Barbadori, eseguita per la chiesa di Santo Spirito. Ci sono delle reminescenze della pittura dell’angelico, come la suddivisione in 3 archi senza colonnine, ma con archetti sospesi, per dare unitarietà alla scena. Le colonne interne alla rappresentazione sono lievemente spostate rispetto agli archetti (questa asimmetria enfatizza la scelta). La pala rappresenta una sacra conversazione con la madonna in piedi al centro, i santi e gli angeli intorno. Anche qui c’è un intenso studio della luce, frontale come si vede dai mantelli, ma anche deriva da una finestra sulla sinistra, da cui entra una luce tenue e soffusa, che genera ombre all’interno. Studio attentissimo della presenza di più fonti di luce. Vediamo la Visione di Sant’Agostino, parte della predella della pala Barbadori. Lo spazio è interamente costruito dalla luce: le finestre sono tantissime, c’è anche una porta sulla sinistra, e la luce frontale si inonda e fa trascolorare la veste del santo. Il tema della luce è centrale per Filippo Lippi, e lo è in maniera molto complessa. In questa opera si complica la vita moltiplicando le fonti di luce all’interno della composizione. Vediamo altri protagonisti, altri pittori di luce. Domenico Veneziano, pittore che viene da Venezia, dove nasce tra il 1405 e il 1410. Muore a Firenze nel 1461. È un pittore che conosce la pittura fiamminga e la fa propria. Conosce bene anche la pittura tardo gotica di Pisanello (con cui lavorò) e Gentile da Fabriano. Ha una formazione molto ampia. La pala di Santa Lucia dei Magnoli, 1445-1447 viene dipinta per la chiesa fiorentina di santa Lucia dei magnoli e mostra il debito del pittore con Beato Angelico: scelta cromatica (manto rosaceo di santa Lucia ricorda i colori di Beato Angelico). Si ha una sacra conversazione, con una vergine in trono un po' rialzata, e 4 Santi: da sinistra Francesco, Giovanni Battista, San Zanobi e Santa Lucia (che nel piattino porta gli occhi tolti durante il martirio). Spazio unitario, virtuosisticamente prospettico, molto complesso perché c’è uno scalare di piani molto complicato: esedra che sta dietro la vergine e portico frontale. Tutto è inserito in una griglia geometrica e tutto il quadro gioca con questa profondità. I santi sono davanti alle arcate gotiche, e allo stesso tempo inquadrati dalle arcate stesse; la Vergine è davanti o sotto l’arcata centrale, e poi dietro lo spazio arriva all’esedra architettonica del fondale, composti di elementi classici (arcate a tutto sesto e conchiglie). Le arcate gotiche in primo piano sono un riferimento all’architettura fiorentina medievale. La pala dei Magnoli è un’ardita sintesi tra realismo (vedi volto di San Giovanni) e astrazione geometrica. Modernità (costruzione prospettica) e arcaismo. Vediamo gli aspetti di luce: solito utilizzo di una fonte frontale che illumina il manto rosa di Santa Lucia; si noti soprattutto sul retro dell’esedra, aperta sul cielo, c’è una luce diretta che fende in due il colore dell’esedra stessa: un parte più luminosa e una parte che resta in ombra, perché l’architettura fa ombra all’irradiarsi di luce. Altra Opera di Domenico Veneziano, San Giovanni Battista nel deserto, tavoletta che faceva parte della predella della Pala di Santa Lucia dei Magnoli. La luce qui costituisce interamente l’opera, inonda la composizione e delinea la figura del Santo e delle montagne, dipinge il fiume e si declina con diverse tonalità nel cielo. Altro protagonista, Piero della Francesca, artista importantissimo che dagli anni 20 (quando nasce) fino al 1492 influenzerà la pittura italiana. Lavora in giro per tutta Italia. Propone immagini fondate su figure essenziali, cristalline, con un rapporto metrico perfetto. La sua pittura è stabile e bilanciata, ha una larghissima fortuna ed è debitrice della pittura masaccesca, in particolare della plasticità della figura che lui rende ancora più monumentali. Per Piero l’immagine doveva essere la sede del dominio razionale degli elementi figurativi. Non gli interessava lo studio della psicologia umana. Si sente vicino anche a Beato Angelico per i colori delle vesti, per le pelli color avorio e per i cieli tersi (non si sente vicino a Donatello o a Filippo Lippi). Non gli interessa il coinvolgimento emotivo. L’aspetto geometrico è fondamentale: le figure sono delle vere e proprie architetture e lui porta nella sua pittura i precetti architettonici dell’Alberti. Vediamo il Polittico della Misericordia, costituito da 23 scomparti. Fu completato solo nel 1460 (commissionato nel 1445). Piero utilizza alcuni aiutanti, e di Piero sono sicuramente la crocifissione e le due pale dei santi Sebastiano e Giovanni Battista (influenza di Masaccio evidente). Arcaismo: fondo oro, probabilmente richiesto dai committenti. Vediamo la crocifissione: molto scarna, Cristo sulla croce, vergine vestita di nero che alza drammaticamente le mani e San Giovanni evangelista che allarga le braccia in senso di disperazione volgendo lo sguardo verso cristo, con un taglio molto originale all’interno della tavola, molto trasversale. Confrontiamolo con la crocifissione del Masaccio, molto simile (enfasi plastica e impostazione drammatica); addirittura per questa maggiore ascesi che caratterizza la pittura di Pietro rispetto alla drammaticità di Masaccio, Piero elimina la figura della santa Maria Maddalena, per concentrarci sul Cristo. Altrettanto masaccesche sono le figure del San Sebastiano con le frecce e del San Giovanni Battista. I volti sono volti assorti da un’intensità trattenuta e non espressa. Ciò che ci colpisce è la materialità e la forza architettonica di questo corpi. Vediamo il Battesimo di Cristo di Piero, in particolare per l’aspetto della luce. Realizzata tra il 1448-1450, e qui abbiamo una ricchezza figurativa che si combina con questa insolita formulazione iconografica: i 3 angeli invece di reggere le vesti del Cristo che sta per entrare nel Giordano, assistono e si tengono per mano in segno di concordia (forse allusione al concilio del 1439 in cui si riconciliarono la chiesa di Occidente e quella d’Oriente). Interessante è il rigore compositivo con cui la pala viene costruita e rischiarata dalla luce del Sole, che illumina tutte le singole parti. Tutto riluce di un chiarore quasi interiore, moltiplicato anche dal fiume che fa risplendere e rispecchia molte figure. Al centro il Cristo che fa da perno costruttivo a tutto il quadro; al suo fianco il battista che lo battezza. Presenza della trinità: ampolla sopra il cristo e lo spirito santo perfettamente al centro della composizione. La composizione intorno a questo asse non è perfettamente simmetrica ma è perfettamente bilanciata: tronco dell’albero che fa da controparte alla figura del battista e i 3 angeli a sinistra che controbilanciano le figure a destra dei pagani che si spogliano per entrare nel Giordano. La testa di Cristo si staglia davanti al cielo, isolata, al centro perfetto della tavola. Il tutto inondato in una luce luminosissima che rende partecipe anche Piero della Francesca, pittore cosmopolita, della discussione sulla pittura di luce a Firenze nella metà del 400. LEZIONE 10 La bottega di Verrocchio. Con la pittura di luce siamo arrivati alla metà del secolo. Abbiamo visto come Filippo Lippi, Domenico Veneziano e Beato Angelico abbiano recepito e sviluppato una nuova grammatica pittorica dando vita a una produzione artistica ricca e variegata. Plasticità dei corpi, problemi prospettici, studio della luce (temi fondamentali ripresi dalla pittura di questi tempi). Passiamo ora ad analizzare una figura importantissima per la Firenze della seconda metà del secolo. Nella sua bottega si formò uno dei più grandi protagonisti dell’arte tra 400 e 500 (Leonardo da Vinci, che fu allievo di Andrea del Verrocchio). Soltanto studiando il Verrocchio possiamo capire le novità di Leonardo. La sua bottega è una fucina di sperimentazioni fondamentale per il futuro. Verrocchio nasce a Firenze nel 1435 e muore nel 1488. Abbraccia la metà del secolo. Verrocchio avrà una bottega attivissima e frequentatissima. Da cui usciranno grandi artisti. La bottega è importante perché è a 360 gradi, dove si studia e si produce pittura, scultura (in vari materiali, non solo che aveva assillato anche Desiderio da Settignano, ossia quello del taglio del busto. Allungando il taglio si cerca di dare maggiore respiro alla figura e si cerca di rendere men traumatico possibile il taglio del busto. Verrocchio attinge da Desiderio riproducendone il trattamento del marmo e la resa dell’epidermide, ma allo stesso tempo innesca l’inserimento delle mani per allungare il taglio e aggiungere una caratterizzazione psicologica. La luce è importantissima nelle mani: la pelle del marmo è resa con una raffinatezza tale da far sembrare il marmo, pelle. La dama con il mazzolino di fiori, presente nello studio, crea un riverbero negli allievi di Verrocchio. Uno dei primi a rispondere è proprio Leonardo, nel Ritratto di Ginevra de’ Benci, giovane donna fiorentina, rappresentata di ¾, con il volto rivolto verso il riguardante. Con il gioco di chiaro e di scuro, con il biancore dell’avorio della sua pelle che fa da controaltare a uno sfondo piuttosto scuro, che si apre solo lateralmente sulla destra grazie a un paesaggio che lascia intravedere un’ambientazione naturale, un fiume e poi una prospettiva aerea. Ginevra porta nel suo dipinto anche il simbolo del suo nome: dietro la sua testa abbiamo dei rami di ginepro. L’altra cosa interessante è la duplicità di questa tavoletta (che si trova a Washington). È una tavoletta assai piccola, dipinta su entrambi i lati. Dietro porta una simbologia araldica e letteraria: ci sono dei rami di alloro, di palma e di ginepro, che si intrecciano tra di loro. Sono intrecciate a loro volta da un cartiglio in cui si leggono le virtù morali della donna (virtutem, forma, decorat). Del quadro sappiamo che venne commissionato da Bernardo Bembo, umanista padre di Pietro, che probabilmente conobbe Ginevra durante la permanenza a Firenze. La conobbe al tempo del suo matrimonio con Luigi Niccolini (forse il dipinto è un dono di nozze; o forse è solo per ricordare la sua incredibile bellezza). Se noi mettiamo a confronto il dipinto di Leonardo con la dama con il mazzolino di fiori di Verrocchio, vediamo che il rapporto è stringente: il punto di riferimento per il viso e la capigliatura è senza dubbio l’opera del Verrocchio. Laddove Verrocchio aveva giocato di trapano, qui Leonardo gioca con la finezza della sua pittura, disegnando i riccioli con dei tratti bianchi che si stagliano sulla doratura della capigliatura di Ginevra. L’effetto di preziosità è però lo stesso. Anche la veste è interessante: le due donne indossano la stessa veste e la stessa vestina sottostante (stesso bottoncino). È chiaro che nella realizzazione della Ginevra, Leonardo abbia in mente l’esempio della scultura del maestro. Nella dama con il mazzolino di fiori ci sono le mani, mentre nella Ginevra de’Benci non ci sono. Perché? Forse la tavola è stata tagliata. È come se Leonardo avesse fatto un passo indietro e fosse tornato a Desiderio da Settignano. Ma riprendiamo gli studi di mani fatti da Leonardo. Se noi guardiamo in alto a sinistra vediamo il ritratto di un uomo, quasi una caricatura (sullo stesso foglio si facevano più studi). Lo studio di mani è eloquente: se noi ricostruiamo il ritratto di Ginevra con lo studio di mani, ci rendiamo conto che questo studio potrebbe essere la soluzione per il ritratto di Ginevra de’Benci. Dunque le mani, molto probabilmente, dovevano essere inserite nell’opera! La tavoletta probabilmente è stata tagliata. Leonardo dunque rispecchia perfettamente il dettato del maestro. Proprio come Lorenzo di Credi, altro allievo del Verrocchio, nel ritratto di donna del 1490. Non conosciamo l’identità della donna, ma forse è anche lei una Ginevra, perché c’è sempre un ginepro dietro la donna. Inoltre sul retro si legge un’iscrizione, forse più tarda, che recita ‘’Ginevra de’ Benci’’. A prescindere da chi sia, possiamo evincere che si tratta di una vedova (abito scuro e testa velata e tiene la fede in mano). Il riferimento a Verrocchio e a Leonardo è evidente. Ha un formato rettangolare e ha una posa simile a quella di Leonardo, quasi speculare. L’opera ci dimostra come anche l’altro allievo della bottega di Verrocchio porti avanti la stessa sperimentazione del maestro. Dunque nella bottega del Verrocchio, il maestro e gli allievi dialogano e collaborano realizzando opere sulla stessa tematica, in maniera anche autonoma (le due opere appena viste di Leonardo e di Lorenzo di Credi sono autonome, ma tutte declinate sulla scorta di quanto si sperimentava in quegli anni nella bottega di Verrocchio). La sperimentazione che si fa nella bottega di Verrocchio coinvolge tutti: il maestro e gli allievi. Si disegna, si plasmano parti del corpo, si fanno quadri e sculture, si fanno opere di arredo e di oreficeria. Vediamo alcune di queste opere per capire quanto sia ricca la produzione della bottega verrocchiesca. Vediamo l’Incredulità di San Tommaso, ultima delle sculture che vanno a decorare le nicchie di Or San Michele. Ci sono due figure, Cristo al centro della nicchia e il San Tommaso che incredulo si volge verso di lui, è di profilo, in una scena estremamente umana e interessante perché per certi versi il San Tommaso è estromesso dalla nicchia. È in una posizione mediana tra noi e Cristo. Interessante è la volontà di Verrocchio di coinvolgere lo spettatore (il piede fuoriesce addirittura dalla nicchia). Lavoro molto lungo che impegna Verrocchio dal 1467 al 1483. Verrocchio è anche orafo e designatore, e produce opere come il Monumento funebre di Piero e Giovanni de’ Medici, 1469-1472 in San Lorenzo. Opera importante perché declina tutte le peculiarità di Verrocchio. È il prodotto di un abilissimo artigianato, di uno che sa elaborare con grande raffinatezza tantissimi materiali. È un’opera astratta, un unicum nella tradizione dei monumenti funebri fiorentini. Sarcofago dagli angoli smussati, un sarcofago di porfido con un tondo in serpentino verde, abbellito da rilievi vegetali arricchiti da onde e spirali, frutto di una straordinaria manualità. Vediamo il dettaglio straordinario e raffinato di un lavoro di grande oreficeria. Questo monumento viene costruito nel vecchio accesso alla Sagrestia Vecchia (blocca l’ingresso e Verrocchio in qualche maniera cerca di attutire questa occlusione, attraverso la creazione aerea, che non vuole chiudere le due parti ma che le vuole mettere in comunicazione attraverso questo intreccio di corde che fa in modo di rendere visibile ciò che sta al di là del sarcofago. Questo intreccio è fatto di bronzo. Vediamo il Monumento equestre a Bartolomeo Colleoni 1481-1486 Venezia, Campo dei santi Giovanni e Paolo. Il modello era stato preparato a Firenze e Verrocchio per realizzare questo straordinario monumento si pone il problema del rapporto con alcuni importanti precedenti: opera di Donatello, il Gatta Melata di Padova, nella piazza del santo, 1446-1453; il rapporto è imprescindibile, Verrocchio non poteva distaccarsi dal rapporto con Donatello, ma non poteva nemmeno eludere l’altro elemento fondamentale, ossia il Marco Aurelio a cavallo, statua antica oggi all’interno dei musei capitolini. Torniamo al rapporto di Verrocchio con Donatello. Verrocchio da Donatello recupera l’idea generale della figura, la stessa impostazione (i cavalli innalzano la zampa sinistra) e mantiene l’alto basamento. Verrocchio si distacca nella rappresentazione del condottiero. Il cavaliere di Donatello è ideale, astratto, in una situazione imperturbabile. Il cavaliere di Verrocchio è inscindibile al suo cavallo, elegante, teso nel movimento, impettito e con un’espressione di un uomo che sta per entrare in battaglia. Rappresenta una certa terribilità. Vediamo il volto: sembra abbastanza stridulo, temerario e bruttarello, con questi buchi negli occhi. Ma l’effetto deve essere considerato dalla distanza da cui era visto: in questo caso l’effetto è perfetto. Verrocchio rappresenta un eroe vero e non ideale! La bottega di Verrocchio è una grande fucina di sperimentazioni in tutte le arti; queste sperimentazioni ricadono sulle sperimentazioni dei suoi giovani allievi. Vediamo Lorenzo di Credi e la Sacra Conversazione (Madonna di Piazza) del duomo di Pistoia, del 1480 circa. Madonna di Piazza perché è aperta verso il guardante. Madonna in trono con bambino sotto un’arcata classicheggiante, in un porticato che si apre su uno sfondo naturale. A sinistra Giovanni Battista, a destra Donato. Il tutto impreziosito dal tappeto che giunge fino al nostro cospetto (i lembi ricadono alla fine della tavola, per rendere ancora meglio la prospettiva). Forse fu iniziata da Verrocchio e finita da Lorenzo di Credi. La tipologia della Vergine è piuttosto ricorrente all’interno della bottega di Verrocchio: collo lungo e sguardo rivolto verso il bambino. Vediamo che ritorna nella Madonna con Bambino, detta Madonna Dreyfus di Leonardo da Vinci del 1471. Il collo, il viso, la disposizione del braccio sinistra che porge un fiore al bambino… ricorda moltissimo la Madonna di Piazza. Gli elementi elaborati nelle botteghe sono rielaborati e ripresi in molte opere. Vediamo il Battesimo di Cristo, opera di collaborazione tra Leonardo e Verrocchio, del 1485, in cui si hanno le evidenti parti leonardesche nella figura dell’angelo e nello sfondo; Leonardo lo si riconosce per la tecnica dello sfumato (senza linea netta tra le parti della composizione) sia nelle figure sia nel paesaggio di sfondo (le montagne passano dall’una all’altra tramite le sfumature). Lo sfumato viene studiato con maggiore enfasi nella Madonna Benois di Leonardo da Vinci, dove il volto della vergine è tutto sfumato, nella bocca, negli occhi… ogni parte del volto non è segnata dalla linea tipica della cultura fiorentina, ma è declinata da un tenue sfumare dei toni che passano da una parte a un’altra senza cesura netta (diventerà uno dei linguaggi cogenti della pittura leonardesca sia nelle figure che nella rappresentazione della natura). LEZIONE 11 Michelangelo giovane il giardino di San Marco. Siamo alla seconda metà del secolo. Bottega di Verrocchio, dove si sono formati importantissimi artisti. Dopo la metà del secolo abbiamo i grandi maestri, che daranno vita all’arte del rinascimento maturo: Leonardo, Michelangelo e Raffaello. Giardino di San Marco, luogo estremamente importante per la Firenze degli anni 90. Il giardino è voluto da Lorenzo il Magnifico. Non ebbe vita lunghissima perché con la morte di Lorenzo nel 1492, anche il meccanismo didattico che si era creato in questo giardino venne scemando. Lorenzo ha ben presente la situazione artistica fiorentina. Per lui l’arte è anche uno strumento diplomatico. Per lui è fondamentale che i suoi artisti siano sempre aggiornati e pronti a recepire novità e a sperimentare. Per questo è consapevole dell’importanza che ha avuto la scultura all’inizio del secolo, e vuole che anche al suo tempo la scultura mantenga un ruolo primario. Idea dunque di costruire una sorta di accademia, che consenta agli artisti di formarsi, di studiare, di vivere insieme sotto la supervisione di un maestro, e di poter studiare l’arte moderna e antica. Pensa di metterlo in pratica in una sorta di giardino. Si rivolge ai grandi maestri del tempo, come Ghirlandaio, e invita i suoi allievi a seguirlo nel giardino. Questi maestri vengono invitati a trasferirsi al giardino, dove studieranno, vivranno e impareranno i segreti della scultura. Dove si trovava questo giardino? Vedi Pianta del giardino del Buonsignori del 1584. Questo giardino, dalla vita di Michelangelo di Vasari e dai documenti notarili (la portata al catasto), noi sappiamo che la moglie di Lorenzo aveva un orto all’incrocio tra via Larga e via degli Arazzieri. Grazie a queste informazioni e a quanto resta di questo giardino, possiamo individuare il giardino in quella che oggi è l’incrocio tra via degli arazzieri e via Cavour (vecchia via Larga). Questo giardino aveva dunque una parte prospicente a piazza San Marco. Il giardino non era molto distante dal palazzo Medici. Qui gli artisti potevano vivere oltre che studiare. C’era un porticato intorno al giardino, con delle logge, sotto cui potevano essere esposte opere di scultura antica. Sappiamo anche che c’erano degli alloggi e delle cucine. Probabilmente i giovani di Lorenzo potevano vivere autonomamente all’interno di questo giardino, studiando, lavorando, copiando e disquisendo. In questo giardino si forma una generazione di artisti, grazie allo studio della scultura antica e grazie alla presenza di un maestro importante, Bertoldo, che era stato anche allievo di Donatello. I giovani possono avere conoscenza di prima mano anche della scultura di Donatello. Come sempre è importante fare riferimento costante alle fonti. Vediamo Vasari e cosa ci dice del giardino di Lorenzo (ne parla all’interno della vita del Torrigiani). Lettura brano. Vasari ci conferma che il giardino capigliature, alcune teste, alcuni spazi sono lasciate scabre, sembrano solo abbozzate. Perché? Si tratta del cosiddetto non finito, che ha dato agli storici dell’arte la possibilità di scrivere fiumi di parole. A Michelangelo interessa la figura maschile nuda in movimento, e quella lavora. Tutto il resto è secondario e non comporta un’attenzione e uno sforzo; dunque Michelangelo la lascia così, scabra, giusto scolpita. Il suo vero interesse è definito, il resto no. Il riferimento è all’antico: Michelangelo guarda i rilievi dei sarcofagi classici, che vede nel giardino di Lorenzo, direttamente o in disegni da Pisa (dove c’erano tantissimi sarcofagi antichi, come il sarcofago ludovisi con scena di battaglia tra romani e barbari). La composizione è ricca e compressa di personaggi che si susseguono l’uno con l’altro senza lasciarci intravedere lo sfondo. Michelangelo può avere attinto anche a testi più vicini a lui nel tempo, come alcuni rilievi per i pulpiti medievali, come quello di Giovanni Pisano, La strage degli innocenti del 1301, che si trova a Pistoia alla Chiesa di Sant’Andrea. Pisano realizzò il primo pulpito autonomo della storia dell’arte occidentale, un vero tempietto con rilievi raffiguranti le storie della vita di Cristo, creando un prototipo fondamentale, ripetuto in futuro anche dal figlio Giovanni. Groviglio di corpi anche in questo caso. Guardiamo come Michelangelo, nella figura centrale da cui scaturisce tutta la rappresentazione, citi se stesso del futuro, quando dipingerà il giudizio universale della cappella sistina; la figura del Cristo giudice al centro della cappella Sistina (anni 30 del 500) del Michelangelo maturo non è altro che una ripresa di un’opera del Michelangelo giovane. Tra i riferimenti non può mancare Bertoldo, il suo maestro nel giardino. Lo vediamo nella Scena di battaglia del 1478, rilievo in bronzo. Grande rilievo in bronzo al museo nazionale del Bargello. Molto vicino alla composizione michelangiolesca. Figure laterali: delle cariatidi alate che tengono la parte superiore della cornice, accompagnate da 2 figure nude, una maschile e una femminile. Al centro gruppo di corpi, cavalli, lottatori, che combattono violentemente in un vortice in cui è quasi difficile trovare un centro. I corpi si confondono e si sovrammettono. Anche un’opera come questa può essere stato un grande stimolo per Michelangelo. Guardando i dettagli comprendiamo il virtuosismo di Bertoldo, capace di trasfondere nel bronzo una serie raffinatissima e complessa di dettagli. Ci sono anche dettagli delle spade, degli elmi, delle alabarde. In questa composizione in cui il corpo maschile nudo è un elemento fondamentale, Michelangelo può aver trovato un motivo di ispirazione. Ma anche nelle figure singolo realizzate dal Bertoldo, come l’Ercole del 1470. Figura di bronzo fatta per i collezionisti, per adornare gli eleganti studioli. Erano mischiate con statue antiche e elementi naturali come i coralli. Si creavano degli ambienti elegantissimi, delle collezioni molto intellettuali dei signori del Rinascimento italiano. Se lo paragoniamo a una delle figure della battaglia dei centauri capiamo l’ispirazione. Il giovane Michelangelo sembra aver tradotto l’Ercole in un centauro. Già da giovane Michelangelo traduce con grande bravura e chiarezza tutta una serie di stimoli esterni: scultura antica, scultura medievale, scultura Donatelliana del primo rinascimento e scultura del maestro Bertoldo e anche presenza di intellettuali e umanisti che fanno di questo rilievo anche un rilievo su cui meditare dal punto di vista iconografico. Difficoltà di capire, oggi, cosa realmente rappresenti (mito meticcio, mito arbitrario in cui si fondono più stimoli intellettuali). Momento molto delicato, il rilievo è scolpito intorno al 1492, poco dopo morirà Lorenzo. La situazione a Firenze e non solo precipita: Michelangelo nel 1494, di fronte alla probabile invasione di Firenze da parte di Carlo VIII di Francia, decide di lasciare la città e di recarsi a Bologna. Il passaggio bolognese è importantissimo: a Bologna troverà una grande e positiva accoglienza, e anche la possibilità di lavorare, in un contesto importantissimo, ossia all’arca di San Domenico. Grazie alla protezione dell’Aldrovandi, Michelangelo trova subito uno sbocco professionale proprio in questa straordinaria costruzione. La tomba di San Domenico, commissionata dai domenicani di Bologna per contenere il corpo del santo (che morì a Bologna). L’opera fu commissionata a Nicola Pisano, dunque è un’opera medievale. Il Pisano realizzò il sarcofago, istoriato con le storie dei miracoli di San Domenico. La parte iniziale di questa costruzione si deve a Pisano e ai suoi collaboratori. Ma l’arca di San Domenico (che originariamente era sostenuta da degli angeli che lo tenevano sulle spalle) fu coperta da una copertura straordinaria realizzata da Nicolò dell’Arca, grande scultore di origini dalmate. Uno scultore visionario. Fu realizzata nella seconda metà del 400. La copertura si estende in verticale e culmina alla sommità con il Cristo pantocratore sopra un globo. Ci sono delle ghirlande con dei putti e in basso i padri della chiesa e i profeti (vedi dettaglio del Dio Padre alla sommità dell’arca di San Domenico, scultura dalla concezione estremamente moderna; si mescolano insieme l’attenzione al dato reale e una forza e una terribilità straordinaria). La varietà delle figure è impressionante, non ce n’è uno uguale all’altro: profeta che solleva una gamba per leggere, profeta con un copricapo raffinatissimo, con un boccolo traforato a trapano a violino in maniera impressionante, santo frate con dettagli di straordinaria realtà come il saio rotto che lascia intravedere una ferita. Nicolò dell’Arca muore a Bologna nel 1494, poco prima che arrivi in città Michelangelo, senza aver portato a compimento la realizzazione di tutte le figure dell’arca. Ecco che Michelangelo riesce a inserirsi in questo contesto e quindi realizzerà 3 figure per l’arca: il San Petronio, santo protettore di Bologna, che porge al riguardante la città di Bologna turrita e cinta di mura. In questa prima prova Michelangelo cerca di adattarsi alle precedenti sculture di Nicolò dell’Arca. C’è una sorta di medietà tra il suo stile (già bene formato) e uno stile più vicino alle figure di Nicolò. Lo si vede nel volto e nel panneggio, molto levigato, sembra quasi umido, che si appiccica al corpo sottostante. Vediamo poi il San Procolo: Michelangelo sembra aver dimenticato i precedenti di Nicolò. Il San Procolo è un giovinetto pienamente Michelangiolesco, che ricorda molto ciò che Michelangelo scolpirà di lì a poco: il David. In pochi mesi Michelangelo abbandona i propositi inziali e tira fuori tutti gli aspetti tipici del suo stile: forza, energia e intensità che sono tipiche del suo stile. Infine Michelangelo realizzerà il compagno dell’angelo celoforo realizzato da Nicolò dell’Arca. L’angelo di Michelangelo è forte, possente, e già preannuncia tutta la scultura successiva. Si pensi alla morbidezza dei panni della Pietà di San Pietro, che già in quest’opera del 1494 a Bologna, si presenta in tutta la sua forza espressiva. LEZIONE 12 Riprendiamo dal giovane Michelangelo, che avevamo visto prima formarsi nel giardino di Lorenzo. La sua uscita da Firenze nel 94 e l’arrivo a Bologna, dove viene coinvolto nella realizzazione di 3 figure per l’arca di San Domenico. Siamo all’Angelo reggi candelabro: figura moderna e raffinata in cui Michelangelo esprime al sommo grado le qualità della sua scultura, nella resa superficiale del marmo, nel delicato trattamento delle vesti (morbide e umide) e con la squisita dolcezza del volto dell’angelo. Michelangelo poi tornerà a Firenze nel 1501, dopo quasi 5 anni di assenza. Quando torna è uno scultore di fama internazionale. Egli crede fortemente nella Repubblica. Qui riceva dalla Repubblica una importante commissione. 1501 statua del David, da realizzare in un unico blocco di marmo abbozzato in precedenza da Agostino di Duccio, tra il 1463 e il 1464. Era rimasto fortemente incompiuto all’opera del duomo di Firenze. Michelangelo accetta, perché è consapevole del valore civico che ha questa scultura. Lavora in gran segreto all’opera del duomo. Egli ha un primo problema: il marmo è già iniziato. C’è chi dice ‘’malamente intaccato’’. L’opera diventerà un manifesto del Rinascimento italiano. Figura maschile giovane e nuda, di grande forza, che rappresenta la Repubblica fiorentina e che è destinata a diventarne un simbolo. Nel 400 erano stati scolpiti David da Verrocchio e da Donatello. Questo giovane ero biblico incarna le virtù di fortezza a cui affidano la gloria e la libertà della città. Celebra anche i valori umanisti dell’uomo e della sua dignità. Michelangelo si rifa all’antico ancora una volta. Ma non è una figura calma e ponderata come quelle antiche. Il David ha un ritmo che ci permette di capire l’interna tensione psicologica del personaggio, che sta quasi per compiere l’atto fatidico. Il peso è tutto su lato, dove gli arti sono tesi. Ma nonostante ciò c’è grande armonia. Questa scultura ha una serie di riflessi e di ripercussioni, perché inizialmente doveva essere collocata su uno dei contrafforti del duomo (abbiamo una ricostruzione virtuale). L’effetto di questa statua (che nessuno aveva visto fino a quel momento) superò ogni aspettativa e si pensò che non era più adatta ai contrafforti: esigeva una collocazione più ambiziosa, nella pubblica piazza (piazza dei Priori); collocazione suggerita dal confaloniere di giustizia Pier Soderini (forse su suggerimento di Michelangelo, proprio per suggellare e aumentare il valore del significato civile che la statua assumeva). Si capisce subito la forte simbologia che David ha nella mente dei fiorentini. Viene nominata una commissione per scegliere il luogo della collocazione: ne fecero parti gli artisti più importanti della città, Botticelli, Da Vinci, Lippi…una commissione di esperti. Ognuno aveva un’idea diversa: Botticelli diceva di tenerla nei pressi del duomo, Filippino Lippi la voleva vicina alla porta principale di palazzo vecchio, altri il centro del cortile di palazzo vecchio, altri sotto la loggia de’ Lanzi. Per un’opzione più riparata era anche Leonardo, che voleva collocarla a ridosso della parete della loggia della signoria, incorniciata da una nicchia. Ipotesi un po’ più defilata, che l’avrebbe sacrificata (forse spunto polemico tra Leonardo e Michelangelo). Leonardo non apprezzava gli eccessi anatomici dello stile michelangiolesco. In uno schizzo di Leonardo si vede chiaramente che l’enfasi muscolare del David è secondo Leonardo fuori luogo e troppo enfatica (lo schizzo è quasi caricaturale). Altri elementi sono stati criticati, come l’enormità della mano destra che cala sulla coscia della figura di David, voluta da Michelangelo stesso per uno corretta percezione delle proporzioni delle parti (all’inizio sarebbe stata vista dal basso). Prevale la collocazione di fronte all’entrata di palazzo vecchio al posto della Giuditta di Donatello. L’enorme scultura fu trasportata in 4 giorni dall’opera del duomo fino a palazzo Vecchio. Questo avvenne il 18 maggio del 1504 con la partecipazione di circa 40 uomini incaricati di trainare l’opera e di sorvegliarla durante lo scorrimento all’interno di una gabbia lignea che la salvaguardava. La Giuditta venne messa sotto la loggia l’8 giugno e l’11 giugno a Simone del Pollaiolo e ad Antonio di San Gallo venne commissionata la realizzazione di un basamento adeguato, così che l’8 settembre del 1504 il David poteva essere collocato davanti all’ingresso del palazzo. Accanto a lui era previsto un Ercole, simbolo della forza fisica, accanto al David, simbolo della forza intellettuale. L’Ercole sarà realizzato più tardi da Baccio Bandinelli. Michelangelo venne premiato con 400 fiorini e la scultura venne inaugurata a collocata nell’arengario, dove rimase fino al 1872, quando si decide di trasportarla all’accademia. Vignetta del 1873 che fa vedere il trasporto del David verso l’accademia, in un trionfo di folla e in una struttura che sembra quasi un vagone merci, perché il David fu trasportato su dei binari. A Firenze Michelangelo ha un’altra commissione molto importante, sempre per la sua natura pubblica. Michelangelo insieme a Leonardo è coinvolto in una commissione civile che riguarda palazzo vecchio. Salone del 500: da un lato ci sono gli affreschi di Vasari. Prima che ci dipingesse Vasari erano previste due scene di 2 grandi battaglie importanti per Firenze: una di Leonardo e una di Michelangelo. Questa commissione è importantissima ma oggi non ci resta niente: i 2 autori realizzarono i cartoni e basta (Leonardo trasferì la decorazione sulla parete solo in piccola parte, ma utilizzò una tecnica particolare che portò in breve tempo a far colare l’affresco). Anche questi 2 cartoni sono andati distrutti, non per scarsa attenzione, ma perché di lì a poco a dipingere a poche centinaia di metri di distanza. La corte pontificia è potente e saldamente tornata a Roma dopo la cattività avignonese. Giulio II vuole che Michelangelo realizzi la sua tomba. La tomba sarà per Michelangelo uno dei tormenti della sua vita: penserà a una soluzione straordinaria e gigantesca che dovrà però ridimensionare, perché il papa muore e i successori vorranno diminuire le spese. Quello che vediamo oggi in San Pietro in vincoli non è altro che un pallido riflesso di un primo progetto che prevedeva una tomba a tempietto. Nel 1508 il papa svela il suo intento, dopo avergli fatto credere di averlo chiamato per la sua tomba, gli rivela che vuole che lui decori la cappella sistina. Michelangelo si sente scultore e non pittore, quindi vorrebbe realizzare la tomba, ma non può che adeguarsi alla richiesta del papa. La cappella sistina viene eretta per volontà di papa Sisto IV (1471-1484), da cui il nome, ed è all’interno dei palazzi apostolici. È un’aula rettangolare lunga 41 metri e larga 13,5 metri (dimensioni attribuita dalla bibbia al tempio di Salomone). È coperta internamente da una volta a botte ribassata esternamente a una copertura a capanna. Viene costruita su progetto del fiorentino Baccio Pontelli e nel 1480 è già terminata. Dal 1481 tanti artisti di provenienza fiorentina firmano un contratto per affrescare 10 storie delle pareti: campate sulle quali sono previste delle decorazioni. I pittori fiorentini si impegnano a decorare il secondo ordine partendo dal basso (il primo ordine è decorato da dei finti drappeggi). Gli artisti sono Pietro Perugino, Sandro Botticelli, Domenico Ghirlandaio e Cosimo Rosselli. Nel 1482 questi artisti vengono sostituiti da Luca Signorelli, chiamato a terminare i lavori. La cappella sistina è un palinsesto straordinario di pittura, una galleria strepitosa di grandi affreschi di matrice fiorentina. Vediamo alcuni degli affreschi dei maestri fiorentini: Botticelli, castigo di Corè e la lapidazione di Mosè e Aronne, 1481-1482, ambientazione anticheggiante, con un arco che ricorda quelli di Tito e Costantino; Signorelli che rappresenta il testamento di Mosè, in un’ambientazione naturale; poi opera olimpica della consegna delle chiavi di Perugino, dove la costruzione è giocata tutta sulla simmetria, con il tempio a pianta centrale, nel mezzo, che inquadra perfettamente il momento. Nel 1483 l’aula viene consacrata da Sisto IV e dedicata alla vergine assunta. L’iconografia di questi affreschi si basa sulle storie di Mosè e di Cristo, che giravano intorno al perimetro della cappella. Sopra, dove oggi vediamo delle nicchie con i papi, mentre la volta, decorata poi da Michelangelo, prevedeva un semplice cielo stellato. Nella parete d’altare era rappresentato un affresco con l’assunzione della vergine di Perugino, che oggi è andato distrutto e conosciamo solo per alcuni disegni preparatori. Questo programma decorativo del 1480-83, celebra il ruolo storico politico della Chiesa di Roma: Mosè è un condottiero, legislatore, protagonista di molti affreschi e prefigurazione di Cristo. Cristo che consegna le chiavi a Pietro, primo papa (che avrà la responsabilità della Chiesa). Dunque c’è una continuità tra Mosè, Cristo e i papi. La decorazione cinquecentesca viene affidata a Michelangelo su incarico di Giulio II, che chiede all’artista di dipingere la volta con gli episodi della genesi. Inoltre dovrà dipingere le sibille e i profeti e numerose altre figure bibliche nelle 4 vele angolari, scendendo fino alle pareti a lambire le lunette dove sono gli antenati di Cristo. È uno spazio enorme e Michelangelo inventa questi costoloni all’interno dei quali fa sedere questi nudi in diverse posizioni, lasciandosi tra un costolone e l’altro lo spazio per delle rappresentazioni. Dio padre che crea l’universo dentro i costoloni, sui 4 plinti siedono gli gnudi, figure maschili nude e contorte, tutte in posizioni diverse (porta avanti il suo ideale artistico in pittura, continuando a studiare la figura maschile). Dettagli del Dio creatore di sotto in su, che una lieve resa della barba e dei capelli sé pur sarebbe stato visto da lontanissimo. Vediamo la Sibilla cumana, la plasticità e la forza quasi esasperata di questa figura: la pittura sembra scultura (si vedano i puttini). La Sibilla persica, seduta ma talmente contorta che non riusciamo a vederne il volto mentre legge. Nelle lunette ci sono i predecessori di Cristo: figure inserite nei triangoli e sopra ci sono due figure che simulano statue in finto bronzo, che ci volgono le spalle. Michelangelo inventa degli spazi per frammentare l’enormità della superficie di lavoro. Lunetta angolare con David che taglia la testa di Golia, con uno sforzo e una contrazione straordinaria (anche qui capigliatura raffinatissima). La sistina non si completa solo con gli affreschi, ma prevede anche l’inserimento di arazzi. Papa Leone X, tra il 1515-1516, fa eseguire da Raffaello 10 grandi cartoni per gli arazzi con gli atti degli apostoli. Questi arazzi furono tessuti con grande dispendio di filato d’oro e d’argento a Bruxelles da Peter Wan Elst nel 1519, e poi inseriti nella parte bassa. La cappella sistina era un palinsesto straordinario di pittura che andava dagli arazzi di Raffaello, agli affreschi dei maestri della fine del 400 fiorentino fino alla galleria delle opere michelangiolesche. LEZIONE 13 Dopo aver affrontato lo studio di Leonardo e di Michelangelo, dobbiamo rivolgerci al terzo astro di questo firmamento rinascimentale, cioè Raffaello. Raffaello e le stanze Vaticane: il suo talento di artista e di organizzatore di grandi cantieri decorativi esplode a Roma, dove è chiamato da papa Giulio II a imbastire il cantiere delle stanze vaticane in concorso con quanta stava facendo Michelangelo nella cappella sistina. Viene chiamato nel 1508 a Roma. La decorazione di queste stanze è ad affresco. Raffaello è un artista relativamente giovane, nato nel 1483 ad Urbino, che non ha una grande esperienza di decorazione ad affresco. Veduta della stanza della segnatura, prima stanza decorata da Raffaello. Le stanze sono decorate in tutto il loro spazio murario: dalle pareti fino alla volta; impresa decorativa enorme, a 360 gradi. Non ha esperienza di affreschi, è un grande pittore ma non di affreschi: l’unico lavoro che ha già fatto è stata la partecipazione nella libreria Piccolomini di Siena, insieme a Pinturicchio e all’Aspertini. La biblioteca di papa Enea Silvio Piccolomini: affresco realizzato da Pinturicchio su cartoni di Raffaello. Dunque ne sa qualcosa, ma non è mai stato direttore di un cantiere. Raffaello nasce ad Urbino nel 1483. È a Firenze tra il 1504 e il 1508, momento in cui Leonardo e Michelangelo stanno elaborando i loro cartoni per la sala del maggior consiglio. Dunque è testimone di un momento molto intenso da un punto di vista storico artistico. È figlio di un pittore: Giovanni Sarti di Urbino. Si forma nella bottega del padre, nella Urbino dei Montefeltro, corte moderna dove ci sono opere di grandi artisti. La misura artistica del padre era piuttosto modesta. Raffaello dunque decide di lasciare Urbino per rivolgersi allo studio di più affermati pittori contemporanei: Perugino, Pinturicchio, Signorelli. Il primo cui si avvicina è Perugino; ma Raffaello ne supera l’eleganza formale e quindi lo si considera come un momento di passaggio nella formazione di Raffaello. Fa sue le figure peruginesche, che però diventano quasi stereotipi, mentre Raffaello vuole superarle. Lo si vede molto bene nello Sposalizio della Vergine (oggi a Brera), del 1504: il punto di partenza è Perugino; architettura a pianta centrale sullo sfondo, che fa da elemento ordinatore anche per le figure in primo piano, disposte simmetricamente; da un lato la Vergine e dall’altro Gesù. Da qui si inizia a vedere anche il distacco da Perugino: c’è un maggiore riferimento alla pittura di Piero della Francesca e alla cultura prospettico matematica che lui aveva conosciuto grazie alla mediazione di Leon Battista Alberti. Dunque Raffaello parte dai suoi maestri, conosciuti a Urbino da giovane, ma sempre per superarli, per giungere a un linguaggio più personale e raffinato. Lo Sposalizio è del 1504 e segna il passaggio di Raffaello dall’Umbria a Firenze, dove arriva mentre i 2 grandi maestri stanno facendo i cartoni (sollecitazione intellettuale straordinaria). Sta a Firenze fino al 1508 e riesce ad arricchire in maniera enorme il suo linguaggio figurativo: Firenze è una palestra, una fucina di ispirazione, che lo prepara all’arrivo a Roma, sbocco ricchissimo e fecondo della sua carriera. Quando è a Firenze realizza una serie di opere diverse, sperimenta i diversi campi della produzione pittorica, tra cui la ritrattistica: ritratto di Agnolo Doni del 1506. Illustre mercante, grande mecenate, in cui Raffaello si rifa alla tradizione realistica della ritrattistica fiorentina. Guarda anche i modelli leonardeschi, di cui non trascura la complessità (si vede qui bene come Raffaello fonda la figura con lo sfondo in maniera molto armonica). Si noti che la figura è tagliata sotto la vita, che si vedono le mani e che è posto di 3/4. Sullo sfondo abbiamo un armonioso paesaggio che trascolora secondo i canoni della prospettiva aerea. Questa immagine parte da Leonardo e arriva ad elaborare una nuova tipologia di ritratto, in cui i valori civili e psicologi del personaggio si fondono in maniera ancora più armonica con il paesaggio circostante. Raffaello elabora anche altre tipologie di opere, come la tipologia della Madonna con bambino. Raffaello a Firenze ne fa moltissime, vediamo la Madonna Tempi del 1508, ora a Monaco: vediamo un tenerissimo abbraccio in un’atmosfera tersa e molto limpida. Questo abbraccio, con il toccarsi dei volti (topos che parte dalla Madonna Pazzi di Donatello), gesto di grande affetto che dà il senso di una grande spontaneità e di una umana concretezza che mai avevamo ancora visto. Raffaello si vuole misurare anche con commissioni di maggiore importanza e nel 1507 è impegnato nella Pala Baglioni o Deposizione Borghese. Commissionata da Atalanta Baglioni, a ricordo del figlio giovane da poco morto, e poi posta nella cappella di San Francesco al Prato di Perugia. All’inizio del 600, il cardinale Scipione Borghese (nipote di papa Paolo V Borghese), lo fece rubare per portarlo nella propria collezione. L’opera è molto complessa perché Raffaello vuole misurarsi ai 2 grandi maestri: ci sono degli elementi quasi dissonanti e divergenti nella composizione; si accentua il patos (figure della Vergine svenuta e Maddalena che si rivolge al Cristo, ma anche i due portantini che trattengono a forza il corpo del Cristo; volto del vecchio dietro il gruppo è una citazione evidente al Laocoonte, importantissima scultura antica scoperta a Roma nel 1506 e che Raffaello conosceva). Dicevamo che in questa pala, in tutta la sua sofisticazione linguistica, l’equilibrio e la coerenza risultano un po’ compromessi e l’effetto di insieme viene meno insieme alla semplicità e alla naturalezza che avevamo conosciuto in Raffaello. Questo perché vuole far capire di aver rielaborato tutti i grandi stimoli precedenti. Questa opera però ci dimostra che Raffaello è pronto a offrire il suo nuovo linguaggio in opere più grandiose di una semplice pala d’altare, come saranno le stanze su cui verrà chiamato a lavorare di lì a un anno. Raffaello sta per lasciare Firenze, dove ha acquisito una straordinaria galleria di soluzioni formali, studiando i cartoni delle due battaglie, ma anche l’arte fiorentina più in generale, Donatello, pittura quattrocentesca, Verrocchio, Andre del Sarto e Fra Bartolomeo. A Firenze Raffaello completa la sua formazione per giungere poi a Roma, chiamato da Giulio II, dove lavorerà al cantiere delle stanze. Queste stanza sono una grandissima commissione la cui decorazione era stata già affidata ad altri artisti: Perugino, Sodoma, Peruzzi, Bramantino e Lotto, un gruppo che venne chiamato per lavorare alle stanze. Chiaramente si chiamano più artisti perché il lavoro è molto ampio. Alcuni di loro avevano già esperienza di affresco. C’erano maestri pittori esperti per realizzare rapidamente la decorazione. Tuttavia Giulio II ad un certo punto cambia idea. Su suggerimento di Donato Bramante, grande artista urbinate trasferitosi a Roma come architetto, che rimodellerà i palazzi vaticani e il giardino di Belvedere, viene chiamato il giovane Raffaello, suo conterraneo. Dunque Giulio II licenzia i vari maestri per affidare l’intera decorazione delle stanza al giovane Raffaello, che nel 1508 si trasferisce a Roma. Queste stanze cosa sono? Che funzione avevano? Facevano parte dell’appartamento papale di Niccolò V, che aveva iniziato a farle decorare da Pinturicchio. Giulio II vuole trasformarle in stanze pubbliche, in maniera che un emiciclo superiore, sopra le nuvole, con gli angeli che sostengono questo tappeto su cui si svolge la scena dell’incoronazione della Vergine. Questo è un prototipo su cui Raffaello può ancorare la sua composizione. La difficoltò di Raffaello di creare questo spazio è dimostrata dall’esistenza di numerosi disegni realizzati proprio da lui: Disegni preparatori per la disputa del Sacramento. A quale soluzione arriva Raffaello? Anche lui adotta 2 emicicli, uno in terra e uno in cielo, ancorati dal perno dello spirito santo, che sta perfettamente al centro della composizione. Il Dio padre pantocratore in alto al centro dell’arcone, sotto di lui Gesù all’interno di una ruota con i cherubini, subito sotto la colomba dello spirito santo che infonde nell’ostia consacrata che sta sopra l’altare. Questa colonna centrale viene a costituire l’elemento compositivo portante di tutta la composizione. All’interno di questa disputa Raffaello snoda una serie di personaggi e di ritratti: vediamo Gregorio Magno con le sembianze di Giulio II, Dante e anche Sisto IV; poi c’è un uomo che si affaccia su una balaustra, invenzione per dissimulare la porta della stanza della Segnatura. La Scuola di Atene rappresenta la filosofia, la verità naturale. Anche qui l’impostazione dell’arcone è la stessa (la porta è dissimulata dal plinto di colonna senza colonna, e dall’assembramento dei filosofi in prossimità della porta che creano un diversivo). I protagonisti sono dei filosofi disposti in questo caso in un edificio, solenne e che rimanda all’architettura romana tardo imperiale. È più semplice in un interno trovare la soluzione del problema compositivo. Struttura architettonica olimpica, ampia, armonica, che consente di arginare tutti questi personaggi. È dunque più semplice con l’architettura con funge da binario. Questa ricca processioni di filosofi infatti è molto armonica e organica. Siamo di fronte a una sorta di basilica antica, e Raffaello sembra proprio aver studiato le basiliche antiche di Roma. Su due nicchie ci sono Apollo e Minerva, riferibili anche queste a sculture all’antica. Al centro perfetto abbiamo Platone ed Aristotele, i 2 più grandi filosofi dell’antichità, che con la loro gestualità ci fanno comprendere la loro stessa filosofia. Platone, che regge il libro del Timeo, vestito di rosso, solleva il dito ad indicare il cielo, il mondo delle idee (l’iperuranio). Aristotele più giovane, che tiene il libro dell’etica e rivolge la palma verso la terra. In immagini semplici vengono concentrate idee complesse: questa è una capacità tipica di Raffaello. In questo gioco di rimandi all’antico e alla filosofia antica, ci sono anche rimandi alla contemporaneità: alcune figure assumono il sembiante di personaggi contemporanei. Platone è un ritratto ideale di Leonardo da Vinci; Euclide che fa un disegno con il compasso, è Bramante (architetto di San Pietro che aveva favorito l’arrivo di Raffaello a Roma); Eraclito, seduto e che scrive su una pietra, altri non è se non Michelangelo. All’interno dei ritratti c’è anche Raffaello stesso, che guarda verso lo spettatore. Passiamo al lato nord, con il Parnaso, cioè il bello, la poesia e le arti. Monte mitologico in cui si ritrovano tutti i grandi poeti del passato. Per realizzare il Parnaso Raffaello deve risolvere il problema della finestra. Utilizza la sommità della finestra per rappresentare la sommità del monte, e sfrutta il declivio del monte per inserire la finestra stessa, dissimulandola inserendo molti poeti sul declivio. Qui riconosciamo Saffo con un cartiglio con scritto il suo nome; lei è proprio seduta su una roccia che lambisce la cornice della finestra; più in alto c’è Omero che viene contrapposto a Dante e dietro di lui Orazio. Ci sono i grandi poeti del passato che rendono omaggio al ballo attraverso l’arte della poesia. L’ultima parete della stanza della Segnatura presenta il bene, rappresentato dalla virtù e dalla legge. Qui la struttura è molto complessa, perché la finestra è decentrata rispetto all’arcone. Crea una struttura all’antica, con nicchie sorrette da piccole paraste scanalate con capitelli corinzi, al di sopra delle quali crea una sorta di balaustra in cui rappresenta le virtù e la legge che si stagliano limpidamente sopra un cielo aperto. Le invenzioni di Raffaello per le dissimulazione degli incidenti architettonici sono straordinarie. Stanza di Eliodoro (1511-1514): La cacciata di Eliodoro dal tempio, la messa di Bolsena, L’incontro di Attila e Leone Magno, la Liberazione di San Pietro dal carcere. È la stanza successiva a quella della Segnatura. Raffaello non lavora da sola, ma si circonda di vari collaboratori, fondamentali per la diffusione del linguaggio raffaellesco al di fuori di Roma. La diffusione del linguaggio raffaellesco, del rinascimento maturo, attraverso i molti allievi di Raffaello che lasciano Roma all’indomani della conclusione della decorazione delle stanze (primo fra tutti Giulio Romano). La stanza di Eliodoro da un punto di vista tecnico ha le stesse problematiche. Questa è la stanza del tema storico, e cioè l’intervento di Dio a favore della Chiesa. Ci sono scene di miracoli che rappresentano l’intervento divino a favore della Chiesa. Lo zoccolo è diverso da quello della stanza precedente: le 11 cariatidi sono più alte. Questa decorazione è probabilmente realizzata da Perin del Vaga, fiorentino allievo di Raffaello. Vediamo la volta, molto diversa: qui Raffaello sceglie di sfruttare e di enfatizzare l’elemento architettonico; i costoloni non sono occultati come nella stanza della Segnatura, ma sono enfatizzati. Nelle 4 sezioni sono rappresentate le scene del vecchio testamento, davanti a noi il sacrifico di Isacco. In questa stanza l’architettura è sfruttata per creare 4 partiti decorativi unitari e uniformi. Poi abbiamo il roveto ardente, la scala di Giacobbe e l’apparizione di Dio a Noè. Vediamo la scena della Cacciata di Eliodoro dal tempio, che si trova sul lato est ed è tratta dal libro dei Maccadei. Vediamo Eliodoro in basso a destra, profanatore del tempio, travolto dagli zoccoli del messo divino, mentre Olia, sacerdote, è assolto in preghiera nella penombra sullo sfondo. A sinistra c’è invece Giulio II, papa regnante, che assiste impassibile all’evento che allude all’inviolabilità dei possessi della Chiesa e quindi al proposito di cacciare gli usurpatori. L’andamento, all’interno del tempio, è contenuto dall’architettura. È un andamento solenne che ricorda il susseguirsi elegante del tempio della scuola di Atene, ma qui c’è una scelta diversa: le volte del tempio in cui si svolge la cacciata sono volte dorate, che creano un baluginio particolarmente drammatico e intenso. Si può dunque dire che nella stanza di Eliodoro Raffaello inizia a studiare gli effetti della luce sulle diverse superfici e nei diversi momenti del giorno (luce limpida ma anche notturna come vedremo). C’è una maggiore concitazione, c’è una gestualità e un impeto che fino a questo momento non avevamo visto. Raffaello cambia registro espressivo e sembra guardare più da vicino quello di Leonardo e Michelangelo nella battaglia di Anghiari e di Cascina. Vediamo anche l’Incontro di Attila e Leone Magno, in cui Leone ferma l’avanzata di Attila all’interno di Roma grazie all’intervento divino dei santi Giovanni e Paolo. Anche qui possiamo fare un evidente confronto con i cartoni e gli studi di Leonardo per la battaglia di Anghiari. LEZIONE 14 Stavamo affrontando Raffaello e le stanze vaticane. Il giovane Raffaello giunto a Roma nel 1508 da Firenze, ancora pochissimo esperto di decorazioni ad affresco, venga chiamato da papa Giulio II per decorare queste 4 stanze. Raffaello inizia con la camera della Segnatura, dove avevamo visto tra le altre, quella della scuola di Atene. Nella stanza della Segnatura il tema è quello del vero, del bene e del bello. Torniamo alla seconda stanza, dove ci eravamo fermati nella lezione precedente, ovvero la stanza di Eliodoro, che segna un passaggio sperimentale nuovo nella politica figurativa di Raffaello, oltre che nella politica culturale del papa. Qui vengono rappresentati gli interventi divini che hanno permesso l’affermazione della Chiesa. Abbiamo visto la cacciata di Eliodoro dal tempio. Anche nel caso dell’incontro tra Attila e Leone Magno, si ha l’intervento divino (Pietro e Paolo cacciano l’invasore). Raffaello cerca di studiare elementi diversi rispetto alla stanza della Segnatura, dove tutto è dominato dalla chiarezza dei colori e dalla calma equilibrata delle composizioni. Qui siamo di fronte a uno studio nuovo, diverso, in cui Raffaello pone la propria attenzione sullo studio della luce. Le atmosfere sono meno limpide, quasi crepuscolari, in cui emergono dei guizzi di luce. In questo incontro di Attila e Leone Magno, sembra quasi un notturno rischiarato dagli incendi innescati dall’esercito di Attila alle porte di Roma e dalla luce emanata dai due santi. È un’atmosfera scura, non limpida come in precedenza. In questo studio della luce sempre più intenso Raffaello cerca anche di modificare e di complicare la rappresentazione delle masse di figure, che diventano intrecciate e fitte, come si vede nell’esercito di Attila. Qui ritorna evidente il riferimento alle battaglie di Leonardo e di Michelangelo, che Raffaello aveva visto a Firenze. Si vedano i disegni preparatori per esempio dei cavalli di Leonardo, ripresi da Raffaello nello studio dei cavalli dell’incontro di Attila della stanza di Eliodoro. Passiamo ad altre scene, come la Messa di Bolsena, episodio realmente accaduto nel 1263, durante una messa l’ostia cominciò a colare sangue. Vediamo come Raffaello spartisca la scena in due precise metà. Questa scena è molto complessa, perché la finestra non è in asse con l’arcone, quindi si deve creare un equilibrio in una situazione profondamente disequilibrata. Sfrutta la finestra per creare un piedistallo su cui porre i protagonisti. Da un lato il parroco di Bolsena che svolge la messa, dall’altro Giulio II che assiste. Dietro entrambi ci sono delle scale su cui sono disposti i fedeli e i chierici. Per inquadrare al meglio la composizione utilizza l’architettura, una basilica sullo sfondo che inquadra la scena, che del resto era una messa. I porticati sullo sfondo sono aperti e si aprono su un cielo quasi notturno, bruscato. Raffaello sfrutta a suo favore anche l’atmosfera scura della chiesa e della notte, facendo baluginare i ceri portati dai chierici dietro al prete che sta officiando. E poi tutte la bellissima natura morta di suppellettili sacre sopra l’altare che rifulgono rimandando a un’atmosfera calda in questa luminosità corrusca. Dettaglio di Giulio II: ritratto veridico del pontefice che assiste all’evento miracoloso. L’episodio è importante per la transustansazione. Altra scena fondamentale: liberazione di Pietro dal carcere. Lo studio della luce qui diventa quasi esasperato. 3 momenti diversi: al centro Pietro in carcere, seduto e legato a una catena, con due soldati che dormono e che permettono all’angelo illuminato dalla luce divina, di entrare nel carcere e di liberare San Pietro. A destra l’angelo porta San Pietro alla libertà. A sinistra vediamo l’effetto della liberazione: i carcerieri si svegliano e si accorgono che San Pietro non è più in carcere e dunque vengono redarguiti dai loro superiori. Tutto questo avviene di notte. La scena è buia e oscura, e Raffaello può giocare in maniera straordinaria con gli effetti cromatici e di riflesso della luce. Nella parte centrale e in quella di destra la scena è illuminata dalla luce dell’angelo, mentre a sinistra la scena è illuminata dalla luce della luna e da quella della fiaccola portata da un carceriere. I soldati sono vestiti di armature, che brillano sotto le diverse luci, per dare la sensazione di una vibrazione quasi elettrica della luce, che viene riflessa dalle superfici metalliche delle armature, creando una varietà di accenti luministici straordinariamente efficaci. Questo è uno degli studi più entusiasmanti della luce e dei riflessi della luce tra le opere delle stanze vaticane. Arriviamo alla chiusura dei lavori nella stanza di Eliodoro, complessissima dal punto di vista della resa pittorica per Raffaello, che accentua gli aspetti del cromatismo e della luce, in atmosfere notturne come si vede in particolare nella cella di San Pietro. Si passa alla Stanza dell’Incendio, 1514. Nel frattempo papa Giulio II della Rovere, che aveva ridato al soglio pontifico un’importanza anche politica notevolissima, muore. Dal 1513 il nuovo pontefice è papa Leone X che regnerà fino al 1521. Era Giovanni de’Medici, principe amante del lusso e della cultura e considera il papato alla stregua di un grande potere personale con il quale soddisfare le proprie ambizioni. Grazie a lui Raffaello assume un’importanza sempre maggiore nella Roma artistica di quegli anni, e può ampliare il suo raggio di azione e di studio. Nel 1518 Raffaello diventa prefetto delle antichità, primo sovrintendente della storia, che si Infine Marcantonio Raimondi, perché una grande parte della diffusione dell’opera raffaellesca si deve anche alla diffusione delle stampe. Quali sono i cantieri a cui Raffaello si dedica contemporaneamente ai lavori delle stanze vaticane? 1514 diventa anche architetto di San Pietro. Deve portare avanti il lavoro di Donato Bramante, grande architetto urbinate. Questa immagine di Maarten van Heemskerck, pittore fiammingo, che disegna la vecchia piazza san Pietro, un puzzle di diverse architetture. Facciata, costolone di porticati su 3 ordini (logge vaticane), giardino di belvedere, grande giardino all’interno dei palazzi vaticani e che univa l’antico palazzo vaticano con la cosiddetta villa di Innocenzo VIII. Era un giardino molto ampio, stretto e lungo, e aveva dei terrazzamenti (la villa era più in alto rispetto al palazzo). Bramante deve unificare questo spazio declinante, e due sezioni dei palazzi vaticani molto distanti tra loro e divisi da un notevole dislivello. Bramante inventa un terrazzamento a 3 piani. Un piano basso che si unisce a un piano intermedio più piccolo e un ultimo segmento più ampio che porta alla villa di Innocenzo VIII. Il tutto unito da queste grandi scalinate e dalla creazione di uno spazio di giardino decorato da fontane, da un teatro all’aperto e da statue. Bramante crea un’unità all’interno di questo spazio disunito. Un’unità naturale attraverso il giardino e un’unità architettonica attraverso l’invenzione del loggiato, così ampio, che si estende lungo i lati lunghi del giardino. Queste logge con i 3 ordini: dorico in basso, ionico in mezzo e al terzo ordine il corinzio, seguendo i modelli della cultura architettonica classica. Queste logge tuttavia dovevano essere decorate. La decorazione è affidata a Raffaello da papa Leone X. Un’impresa monumentale tanto quanto la cappella sistina. Raffaello e i suoi collaboratori si misurano nella decorazione della loggia del secondo piano del palazzo apostolico vaticano. La loggia è lunghissima e il lavoro è enorme. Ogni campata all’interno della loggia ha una decorazione diversa dall’altra. Non solo storie, ma anche elementi decorativi sempre diversi. 1517-1519. Ogni loggia è decorata con un ornato diverso. È un lavoro immane. Vediamone una: porticato aereo aperto sul cielo. Gli archi che separano una campata dall’altra sono decorate a stucco, con quelle modalità che Raffaello e i suoi avevano appreso studiando le decorazioni delle camere della domus aurea. Vedi scena divisione della terra dalle acque e giudizio di Salomone. Dunque Raffaello e i suoi dovettero fare un lavoro immenso di invenzione di decorazioni. All’interno delle logge prende campo un tipo di decorazione poi diffusissima in tutto il 500: la decorazione a grottesca, detta così perché è antica e viene riscoperta appunto in delle sorte di grotte. C’erano delle candelabre centrali, spesso verzure, da cui si dipartivano degli elementi ornamentali: vegetali, animali… nella parte sinistra e destra ci sono scene che ricordano le tecniche antiche. In questo caso abbiamo dei pesci a ornare la candelabra centrale. Le logge vaticane diventano una galleria di soluzioni decorative, molto importanti perché oltre le parti narrative sono decorati i sottarchi e i pilastri, tutti con elementi ricavati dall’antico e che diventano appunto un catalogo a cui tutti si rifaranno. Le logge diventano talmente famose che saranno riprodotte a stampa anche negli anni a venire, nel 700 e nell’800 (si veda la riproduzione a stampa fatta da Giovanni Volpato tra il 1774 e il 1776, all’interno di un volume di cui ne possedeva una copia anche la zarina Caterina II di Russia, così innamorata di Raffaello che fece riprodurre identiche le logge vaticane nel suo palazzo di San Pietroburgo. Le logge vaticane sono ideate da Raffaello ma praticamente sono messe in opera dai suoi collaboratori più stretti. Raffaello grande inventore di soluzioni decorative. Una quantità straordinaria di ornati che Raffaello presenta nelle logge vaticane e che diventano elemento di ispirazione per molti altri artisti. Raffaello lavorerà per altri importanti committenti oltre al pontefice. Uno dei committenti privati più importanti fu Agostino Chigi, banchiere senese che era diventato il banchiere del papa. Era dunque importantissimo e ricchissimo. Agostino Chigi decide di farsi costruire una villa fuoriporta. L’importanza delle ville è interessantissima, perché chi aveva un palazzo in città si faceva costruire anche una villa fuori dalla città per poter godere il fresco e la pace della campagna. Ovviamente la città era diversa da oggi. Villa Chigi, oggi nota come villa Farnesina, che si trovava lungo il Tevere e che oggi in realtà è inglobata nel centro della città. All’epoca però (lo vediamo in un’incisione del 1747 con alle spalle Palazzo Riaro che divenne abitazione prima della regina di Svezia e poi palazzo Corsini) era in piena campagna. Questa scelta corrisponde a una scelta che muta il significato ontologico della villa. Prima le ville medicee, le più antiche, erano fortini immersi nella campagna, luogo fortificato. Da ora in poi la villa diventa un architettura più distesa, che vuole trovare un connubio con la natura circostante, seguendo un modello rigidamente classico, in cui architettura e natura dialogano. Chi fu l’architetto? Baldassare Peruzzi, artista e architetto originario di Siena. Ovviamente il Chigi, senese, chiama un senese. Il Peruzzi era arrivato a Roma ed entrato nella bottega di Bramante, aveva studiato l’antico, che era diventato fondamentale nel suo linguaggio. Nel 1509 riceve questa commissione. La facciata del lato Nord è molto sobria e austera, su 2 ordini, divisi da una cornice marcapiano, con il piano nobile superiore scandito come quello inferiore da delle lesene non portanti, meramente decorative, con capitelli dorici molto semplici. L’unico elemento decorativo è il rilievo che si vede in alto, con delle ghirlande che convergono in un’anfora. La parte più interessante risiede nella parte rivolta verso il giardino e il Tevere: un disegno a U, cioè con due ali sporgenti e una parte più ampia rientrante. La parte rientrante che presenta la stessa scansione nel piano nobile, nel piano sottostante presenta 5 grandi arcate aperte: un porticato che faccia entrare la natura all’interno dell’architettura e viceversa. C’è una ricerca da parte di Peruzzi di creare un edificio dialogante con la natura e con il Tevere; il paesaggio naturale interviene nell’organizzazione architettonica. È una grande innovazione, che segna il passaggio da una concezione della villa come fortino, a una villa che deve essere intrisa e perfettamente inserita all’interno dello spazio naturale. Vediamo il fregio che corre lungo tutto il perimetro della villa. È l’unico elemento decorativo. È molto aggettante, dà un certo movimento a tutta la facciata che altrimenti è molto austera, ma che risponde a queste regole di fusione dell’elemento naturale con l’edificio. La villa diventa una sorta di proscenio per le rappresentazioni all’interno della villa stessa. Agostino Chigi è un grande committente, e sfrutta anche Raffaello, che chiama a decorare le sue cappelle nelle chiese di Roma. Una è la Cappella Chigi nella chiesa di Santa Maria della Pace. Qui la vediamo con le sculture seicentesche. Sopra l’arcone dell’altare ci sono sibille e angeli dipinti da Raffaello nel 1514. Questo sarà di ispirazione per Rosso Fiorentino. Raffaello lavora anche nell’altra grande cappella Chigi in Santa Maria del Popolo, portata poi a termine da Bernini. Raffaello disegna tutto e poi Bernini riprenderà in mano la struttura raffaellesca. Da un lato si ha Giona di Lorenzetto (che è il Raffaello in scultura, rappresenta il classicismo pacato ed elegante, di forte collegamento con l’antico, che interpreta perfettamente i dettami di Raffaello in pittura e li traduce in scultura) e dall’altra Bernini. La volta è interamente disegnata e decorata da Raffaello e ci ricorda le soluzioni raffaellesche delle logge vaticane. Sul pavimento possiamo vedere le soluzioni decorative di Bernini. Torniamo alla Farnesina e vediamo la decorazione interna alla villa, partendo dal piano terra, dove si trova la loggia e anche la sala di Galatea, estremamente interessante per la volta, in cui si ha il cielo astrologico della nascita di Agostino Chigi, dipinto da Baldassarre Peruzzi, che è architetto ma anche pittore. Esaltazione di Agostino Chigi. Prende il nome di sala di Galatea perché abbiamo un affresco di Raffaello (il primo alla Farnesina), dove dipinge in un riquadro Galatea, tema che si ispira alla 118° delle stanze per la giostra di Giuliano de’Medici del Poliziano del 1494, dove si descrive Galatea (lettura versi): delfini, corteggio di ninfe e tritoni, e Galatea che alza lo sguardo verso un Amorino che simboleggia l’amore celeste. La donna si distanzia dall’amore terreno, del corpo, che è rappresentato dai tritoni che si abbracciano e si rincorrono in questo corteo. L’opera diventa subito un simbolo della grande maniera di Raffaello, della maniera moderna. Vasari la definisce dolcissima maniera, esaltando la bianca epidermide di Galateo contro l’epidermide passionale dei tritoni. Il carro su cui sta Galateo è un carro strano, che riecheggia una nave romana, è una conchiglia con delle pale, trainata da delfini, uno dei quali addenta un polipo, simbolo della lussuria. Accanto a questo affresco troviamo un altro grande artista veneziano, Sebastiano del Piombo, arrivato a Roma nel 1511 e che dipinge nella sala di Galatea il Polifemo, anch’esso citato nelle stanze per la Giostra di Giuliano de’ Medici, mentre ammira il mare dove Galatea si va allontanando. C’è un richiamo tra le due scene. Ma Sebastiano realizza in questa sala anche due lunette. Vasari descrivendo queste due lunette mette in evidenza le differenze della pittura romana con quella veneziana. In una delle lunette Sebastiano mostra l’importanza che ha per lui la pittura michelangiolesca. Il Polifemo del 1512 risente delle atmosfere limpide e terse della pittura veneziana. Qui domina la natura. Insieme a Tiziano, Sebastiano è allievo di Giorgione, e da lui impara non solo la costruzione dei corpi, ma soprattutto il loro inserimento all’interno della natura, che trascolora e si mota sotto i nostri occhi. Il Polifemo è gigantesco e possente (dettami michelangioleschi a cui Sebastiano guarda), e questo crea un forte contrasto con la delicatezza della figura di Galatea, mostrando subito la statura gigantesca di Sebastiano del Piombo, artista fondamentale per la pittura romana a venire. LEZIONE 15 Riprendiamo dall’interno della villa Farnesina. Villa commissionata da Agostino Chigi, banchiere del pontefice, ricco committente di origine senese che decide di farsi costruire da Baldassarre Peruzzi una villa fuoriporta sul greto del fiume Tevere. Ieri abbiamo visto come Agostino Chigi era uno dei committenti più ricchi della Roma di quel tempo. Si poteva permettere di chiamare a lavorare per sé i più grandi artisti che stavano lavorando anche per la corte pontificia. Lavorano qui il Peruzzi, Raffaello nella figura di Galatea e anche Sebastiano del Piombo, pittore veneziano. La decorazione della villa prosegue al piano superiore (ieri abbiamo fatto il piano terra). Al piano nobile abbiamo la Sala delle prospettive 1511, decorata da Baldassarre Peruzzi, che era anche pittore oltre che architetto. La villa non è arroccata e chiusa come un fortilizio, ma una villa aperta, che cercava un dialogo con la natura circostante. Dunque la novità è l’apertura alla natura, la volontà di fusione tra natura e architettura. Anche nella sala delle prospettive si ha questo intento. Baldassare Peruzzi crea uno spazio architettonico fittizio, realizzato con delle colonne di marmo prezioso, binate, che si aprono sullo spazio esterno. Sfrutta le pareti per creare attraverso l’illusionismo della pittura delle finte aperture che si aprono su Roma. Il riguardante può vedere degli squarci di città che si sarebbe visti se ci fosse stata al posto della parete una reale apertura. C’è anche un tema narrativa, ovvero quello di Vulcano. Sopra il grande caminetto c’è la fucina di Vulcano. La narrazione è relegata solo al fregio che corre intorno alla stanza nella parte alta della parete. Tutto il resto si snoda intorno a queste bellissime aperture ottenute con l’illusionismo della pittura. L’impressione della stanza è quella di una grande luminosità e di una grande ariosità. In realtà ci sono solo le finestre, ma per il resto ci sono queste aperture fittizie che ci portano verso una balaustra e verso le vedute di Roma. Si vede per esempio la Chiesa e l’Ospedale di Santo Spirito in Sassia, architettura che si incontra prima di accedere al Vaticano. Queste immagini sono fondamentali perché ci fanno vedere una Roma che oggi non esiste più. Vediamo che sopra queste architetture ci sono delle iscrizioni: non definito sperimentalismo anticlassico, che è l’anticamera del manierismo, di quello stile che sarà predominante per tutto il resto del 500. Torniamo agli ultimi anni della produzione artistica di Roma, quando Raffaello è ancora vivo e attivissimo. C’è una commissione che dobbiamo analizzare, e che vede a tenzone Raffaello con Sebastiano del Piombo, grande maestro veneziano che si era già scontrato con Raffaello nella sala di Galateo in villa Farnesina (Galatea fianco a fianco con il Ciclope di Sebastiano). Analizziamo la commissione voluta dal cardinale Giulio de’Medici, nipote di Leone X e futuro papa egli stesso con il nome di Clemente VII, che mise a gara Sebastiano del Piombo (su suggerimento di Michelangelo) e Raffaello. Vediamo cosa dice Vasari di questa commissione. Quindi Vasari, con verità e qualche finzione, ci dice che Raffaello realizza una pala d’altare con la trasfigurazione del Cristo, mentre Sebastiano ne fa una con la resurrezione di Lazzaro. Entrambe commissionate da Giulio de’ Medici e poi messe a confronto. Entrambe lodate per le loro diverse bellezze. Vediamo le due opere a confronto, e vediamo come andò davvero la storia. La trasfigurazione è l’ultima opera di Raffaello. Già sul finire del 400 gli artisti cercano di rinnovare le pale d’altare, che erano ormai qualcosa di abbastanza schematico: madonna in maestà affiancata da santi (sacra conversazione, ma anche adorazione del bambino, battesimo, crocifissione, pietà… immagini schematiche, simmetriche e bilanciate). Bisognava rinnovare: conciliare una composizione nobile e concatenata con una vivacità narrativa che nelle opere quattrocentesche non c’era. Ci aveva provato Raffaello nella pala Baglioni del 1507: le forze contrapposte e giustapposte creavano un movimento assolutamente nuovo. Si arriva ad una formulazione del tutto innovativa proprio in questa gara tra Raffaello e Sebastiano del Piombo. Come andarono gli eventi storici? Tra il 1517-1519 Sebastiano viene chiamato a dipingere la Resurrezione del Lazzaro, commissionata da Giulio II per la cattedrale di Narbon in Francia, di cui era stato nominato cardinale titolare. In un primo tempo questa resurrezione era stata affidata a Raffaello, che però troppo impegnato ne aveva ritardato la realizzazione. Sebastiano si impegna moltissimo perché vuole creare un’opera che regga il confronto con quella che era l’opera di Raffaello. La tensione sottesa a questa creazione è fornita dalla documentazione stessa: Raffaello per non restare indietro vuole fare anche lui una pala d’altare. Giulio de’Medici rinnova l’invito a Raffaello di creare una sua pala sempre per la cattedrale di Narbon. I due lavorano al contempo per 2 pale d’altare che saranno messe a confronto. L’ansia di Sebastiano è palpabile nelle comunicazioni del tempo. Jacopo del Sellaio scrive a Michelangelo: pare che Raffaello metta sotosopra el mondo perché lui non la facia, per non venire a paragoni. Raffaello ci rimane malissimo quando gli tolgono la commissione, non vuole rinunciarci ma non vuole nemmeno mettersi a confronto con il rivale. Poi Sebastiano scrive a Michelangelo che non vuole che Raffaello veda la sua opera. Poi gli scrive che il confronto ha retto, che la sua opera è degna. Analizziamo le 2 pale d’altare. Grandi tele di analoghe dimensioni, commissionate apposta per metterli a gara, e in cui per cercare di superare i propri limiti e quelli del rivale, diventeranno i 2 testi fondamentali per il rinnovamento della pala d’altare nel resto del 500. Partiamo dalla Resurrezione di Lazzaro di Sebastiano, che gode della collaborazione di Michelangelo, il quale prepara due modelli a disegno per le figure del Cristo e per quella di Lazzaro. Si vede sia nel disegno che ora è al British Museum, sia in una statua dei prigioni della tomba di Giulio II: la figura serpentinata, nuda, maschile, che si contorce per liberarsi. Sebastiano pone tutta l’attenzione sul gesto di Lazzaro, che però non è l’unico elemento innovativo: Sebastiano ci propone questa visione da un punto di vista lievemente rialzato. Il guardante si sente rialzato. Questo è importante perché chi consente di superare quel muro di figure che stanno dietro a Cristo e ad affondare il nostro sguardo sullo sfondo, dove c’è una bellissima veduta di un paesaggio urbano e naturale squisitamente veneziano. Duplicità di visione: in primo piano resurrezione, ma il punto di vista rialzato ci consente di vedere anche uno sfondo, importantissimo nell’economia del dipinto. Il gesto di Cristo è forte, al centro della composizione, comanda a Lazzaro di alzarsi dalla sua tomba, ma Lazzaro è già seduto e si libera delle bende mortuarie, come se il risveglio fosse già avvenuto. Questo consente a Sebastiano di dare al suo Lazzaro una movenza complessa, una posa difficoltosa. Allo stesso modo le figure degli astanti che assistono, si dividono tra di loro che esprimono meraviglia e sconcerto, e coloro che venerano già il messia, inginocchiandosi davanti a lui. Sebastiano quindi compie una sintesi molto ardita, aiutato da Michelangelo, componendo una delle più grandiose e mosse pale d’altare della storia dell’arte italiana. Si nota anche il cromatismo ancora molto veneziano: come sono rilucenti i verdi, i blu e i rossi. Passiamo a Raffaello, contrariato dal fatto che il suo lavoro era stato commissionato ad un altro, esegue la sua Trasfigurazione. Pala geniale per le sue soluzioni formali. Consideriamo che nessuna delle 2 opere andrà mai a Narbona. Quella di Raffaello verrà posta nella cappella di San Pietro in Montorio per poi andare in Pinacoteca Vaticana. È l’opera estrema della carriera di Raffaello, che la lascia incompiuta per una piccola parte, ma che la lavora fino all’ultimo. L’impegno che mise in questa opera ci è esplicitato dal fatto che la dipinse tutta di propria mano, senza delegare niente ai suoi allievi. La composizione è molto complessa e Raffaello cerca di sintetizzare in un solo dipinto due diversi momenti, legati reciprocamente. Nella parte superiore abbiamo la Trasfigurazione, eterea e bilanciata, con Cristo che levita miracolosamente tra Mosè ed Elisa. Al di sotto c’è l’episodio teso, concitato e affollato del miracolo dell’ossesso, del bambino liberato miracolosamente dal diavolo; pieno di figure concitate e molto espressive. Si veda disegno di studio di vecchi e di giovane nella parte centrale del dipinto. Al di sopra abbiamo un cielo abbagliante e luminoso, che crea lo sfondo delle figure, mentre al di sotto un avvallamento oscuro. Le due scene sono separate ma unite dalla simultaneità dell’avvenimento. Questa doppia struttura è necessaria per affermare il rapporto dialettico tra cielo e terra, tra spirito e materia, tra la causa e l’effetto. Raffaello vuole omaggiare la tradizione e il suo superamento: la regola che viene affermata nella parte superiore e trasgredita in quella inferiore. Quindi quest’opera di Raffaello, anch’essa, viene a costituire un nuovo punto di partenza. Questi 2 capolavori sono fondamentali punti di partenza dai quali scaturisce la nuova tipologia della pala d’altare, più drammatica e teatrale, adeguata a un’epoca nuova, di forti contrasti e di scarse certezze religiose (Riforma e poi Concilio di Trento). Quando Raffaello muore nell’aprile del 1520 ci sono altre opere da portare a termine. Dovranno farlo i suoi allievi: in alcuni casi sono avviate in altri no. Si veda la stanza di Costantino, la più ampia, che ancora non era stata assegnata, e questo crea e provoca un certo movimento nel mondo artistico. Si può pensare che non necessariamente venga assegnata agli allievi di Raffaello. Sebastiano del Piombo presenta un progetto a papa Leone X di decorazione della sala. Ma papa Leone X fa un ragionamento economico: Raffaello aveva già preparato i cartoni per questa sala, c’era già un dettato. Per questo affiderà i lavori agli allievi di Raffaello, così da avere delle stanze confacenti dal punto di vista stilistico. L’impostazione è simile alle stanze precedenti, ma essendo più grande non ci sono i lunettoni, ma lo spazio pittorico è uniforme e più semplice. Abbiamo ancora lo zoccolo, con le cariatidi binate, a due a due, che fanno da tramezzo alle scene centrali con dei rilievi bronzei. Nella parte superiore abbiamo invece delle scene che sono intervallate da dei baldacchini in cui sono raffigurati i papi. Le scene sono dipinte su dei finti arazzi, tesi dall’alto della parete per movimentare ancora di più la situazione. Si ricordi che negli ultimi anni della sua vita Raffaello aveva creato i cartoni per gli arazzi della cappella Sistina e aveva creato dei finti arazzi per la volta della loggia di Psiche alla Farnesina. Quindi anche nella sala di Costantino, dove realizza la Battaglia di ponte Milvio, snoda i suoi racconti attraverso dei finti arazzi. Ci sono dei puttini che aprono e tendono l’arazzo, all’interno del quale si svolge la scena, tutte dedicate alla fondazione della Chiesa di Roma. In questo caso Donazione di Roma da parte di Costantino all’interno di una basilica all’interno di cui assistono numerosi personaggi. Si sfrutta al massimo grado l’illusionismo della pittura e si cerca di dissimulare al sommo grado le difficoltà dell’architettura, che anche nella stanza di Costantino aveva numerosi incidenti come vediamo nelle due finestre molto alte che intervengono nella redazione della Donazione di Roma. LEZIONE 16 Ultime realizzazioni di Raffaello e della sua bottega. Dopo la morte di Raffaello i suoi giovani di bottega, capeggiati da Giulio Romano, si aggiudicò la redazione dell’ultima delle stanze vaticane, la Sala di Costantino, poiché Raffaello aveva lasciato per questa sala i cartoni che garantivano alla decorazione delle stanze una continuità stilistica (Leone X preferisce così piuttosto che affidare il cantiere a Sebastiano del Piombo). I lavori dei giovani di Raffaello sono anche altri, tra cui la villa Madama. Raffaello non era solo pittore, ma anche architetto, tanto che dopo la morte di Bramante viene nominato architetto della fabbrica di San Pietro nel 1514. La fabbrica che inizia una enorme mutazione della basilica di San Pietro. Numerosi sono gli interventi architettonici di Raffaello (palazzo Branconio dell’aquila, che si ispira alla classicità). Villa Madama commissionata da Giulio de’ Medici e poi diventa di proprietà del duca Alessandro, sposato con Margherita d’Austria, figlia di Carlo V, detta appunto la madama. Altri palazzi appartenuti ai Medici a Roma si chiamano palazzo Madama, come l’attuale sede del senato della Repubblica. I palazzi abitati da Margherita d’Austria vengono identificati come i palazzi della madama. Questa villa è immersa ancora oggi nel verde, sui declivi del monte Mario. Commissione del 1518. Raffaello pensa a una villa di impianto classico, dove cerca di rifarsi agli ideali antichi anche di piaceri del mondo antico, ispirandosi alla villa laurentina descritta da Plinio. L’idea è quella di creare degli ambienti termali. Nel cortile circolare centrale vediamo che si rifà un po’ a una sorta di ippodromo all’antica. Il riferimento all’antico si sposa con la necessità di fondere architettura e natura. Qui più che alla villa Farnesina, la fusione è ricercata e voluta fortemente da Raffaello. Andiamo al cortile sul giardino: l’intento di ricreare uno spazio termale è ben visibile: ci sono degli ampi archi che dovevano contenere gli ambienti termali, con un’illuminazione fissata in modo tale che i servi che lavavano il padrone lo lavassero senza creare ombra. Questi grandi arconi limitati da piccoli pilastrini di ordine corinzio, coperti ora da dei finestroni ma anticamente aperti. La ricerca di Raffaello ormai già matura, viene riproposta anche nella loggia aperta sul giardino della villa Madama, dove le volte sono tutte decorate all’antica, con le grottesche, di cui la bottega è ormai esperta. Candelabre molto sottili e in cui si alternano gli stucchi dell’esperto Giovanni da Udine. L’opera è elaborata da Raffaello ma verrà portata avanti dalla sua bottega. Altro aspetto importante della villa è la coesione e la fusione con la natura. Raffaello sfrutta il declivio della collina per creare un’ambientazione naturalistica. Vediamo la loggia aperta sul giardino (nell’incisione) e altri elementi: le peschiere, aggiunte alla natura circostante, elemento dell’acqua dentro le vasche per allevare i pesci; si fornisce così un ulteriore sbocco naturalistico alla villa. L’edificio è connesso al paesaggio attraverso specchi d’acqua, recinti, piazzali, architetture arboree, terrazze, che gli servono per creare delle scenografie. La villa madama diventa una scenografia naturale, in cui l’architettura si fonde con la natura, in parte umanizzata e in parte spontanea. Qui rivive appieno la rinascita dell’antico e la rigogliosità di una natura che crea un tipico giardino all’italiana, personaggi importantissimi per la corte gonzaghesca. Cavalli di razza finissima, voluti da tutti le corti europee (il Gonzaga spesso li donava). Questi cavalli avevano addirittura dei nomi. La base della decorazione è piuttosto rialzata, e si sfrutta per esempio il camino, che diventa piano d’appoggio. Crea una struttura architettonica con pilastri corinzi scanalati e binati. Tra i due pilastri inserisce una lastra di marmo antico e prezioso, per arricchire a livello cromatico la decorazione. Inserisce delle nicchie in cui pone delle statue antiche (dipinte) e nella parte alta inserisci dei rilievi a finto bronzo, come Raffaello nello zoccolo delle stanze vaticane. Soprattutto inserisce i cavalli, ritratti ad uno ad uno, posti di profilo su una cornice che fa da finestra, che apre sull’esterno, per creare quella sensazione di intrusione della natura circostante che è il filo rosso di tutta la creazione di questo palazzo. Vediamo i cavalli, che sono proprio ritratti dei cavalli della corte. La loro elegante figura si staglia sopra queste finte finestre, che lasciano entrare all’interno la luce e la luminosità e permettono alla natura di essere un elemento costitutivo della decorazione di questa stanza. Passiamo alla seconda stanza, quella di Amore e Psiche, 1527-1531. Il riferimento letterario è di nuovo all’asino d’oro di Apuleio (anche alla Farnesina). Però rispetto alle controllate proposte illusionistiche di Raffaello, Giulio presenta un sistema molto ardito di inquadrature prospettiche. Sul muro viene imbastito il banchetto di nozze, con dettagli di ogni tipo (si veda l’apparecchiatura di piatti, con dettagli straordinari, con porta vivande e bevande elegantissimi. Si pensi alla saliera di Cellini). Giulio in queste grandi pareti della sala di Psiche può rappresentare dei brani di vita quotidiana. La suddivisione delle pareti è sfruttata per creare un aereo pergolato da cui si affacciano dei musicanti e dei puttini, che portano elementi araldici, striscioni e ghirlande per allietare questo luminoso banchetto. Nella volta tuttavia la situazione cambia. Soffitto ligneo sospeso su mensole intagliate, e si inserisce all’interno di questa struttura architettonica molto complessa, una decorazione a scomparti, realizzata a olio su stocco e applicata su un reticolo di canne. Struttura creata per frastagliare e creare questa sorta di reticolo all’interno della volta. Nello scomparto centrale è rappresentato il matrimonio di Amore e Psiche, intorno ci sono le scene della favola, rappresentate di scorcio, con un’arditezza prospettica straordinaria, e inoltre in una luce notturna, a voler complicare ancora la rappresentazione. Sulle pareti la luce è limpida, nella volta la luce è notturna (come Raffaello aveva fatto nella stanza di Eliodoro). Da qui arriviamo alla stanza più sorprendente, alla sala dei Giganti, ambiente unico e sconvolgente, dove il riguardante è messo di fronte a un qualcosa che crolla e da cui viene travolto. C’è un effetto di meraviglia, di sorpresa e anche di paura e di allarme, assolutamente nuovo nella pittura. Il capriccio è portato ad un livello straordinario, che è il nuovo livello della pittura manierista. Da qui si diparte tutta una serie di sperimentazioni pittoriche. Se il visitatore si pone al centro della stanza (al centro c’è una spirale) tutto sembra crollargli addosso. Crolla questo finto loggiato circolare che Giulio ha costruito, e che sta crollando perché i Giganti sono stati cacciati dall’Olimpo. I loro corpi giganteschi caduti in terra fanno crollare le architetture. Il tema è la paura, ma tutto giocato sul gusto del gioco e della meraviglia. Si vedano i giganti, che cadono sotto l’architettura che si spezza e gli sopraffà, come sopraffà noi stessi quando entriamo. In alto abbiamo l’Olimpo, avvolto nelle nuvole, dove la figura di Giove svetta con le frecce infuocate per aver scagliato nel mondo terrestre i giganti che fanno crollare tutta la stanza. L’effetto di questo sfondato è senza precedenti. La chiave di interpretazione è quella del paradosso, che si sostituisce alla logica, alla razionalità delle figure rinascimentali e per certi versi ne costituisce una critica, in nome di nuove e più ampie potenzialità espressive. Prevale il gusto della meraviglia, dell’artificio e del bizzarro, che da qui si espanderà nelle varie corti europee. È il germe di un nuovo linguaggio decorativo. Andiamo a vedere cosa succede a Perin del Vaga, che va via da Roma nel 27 a seguito del sacco. Va a Genova, dove starà fino al 1537, incidendo sugli sviluppi della cultura locale. Viene chiamato da Andrea Doria, che lo vuole come sovrintendente della ristrutturazione del palazzo di Fassalo. L’insieme degli stucchi, dei fregi e delle pitture che ornano il palazzo presenta evidenti riconnessioni con i cicli romani di Raffaello. Anche qui c’è un’accentuazione nello stile di Perino di un’eleganza disegnativa, di elementi più formalmente raffinati, che si rifanno alla pittura di Raffaello ma anche a un confronto che Perino aveva avuto a Roma con il giovane Parmigianino. Anche qui c’è una stanza in cui è rappresentata la caduta dei giganti, realizzata da Perin Del Vago tra il 1531 e il 1533. È però realizzata in maniera molto diversa. Perino lascia la caduta inquadrata nella volta, come in una cornice, non sfruttando le potenzialità fantastiche come Giulio Romano a Mantova. Il pannello è posto al centro del soffitto, simulando una cornice. La caduta non raggiunge quegli effetti iperbolici di Palazzo Tè, né impiega effetti illusionistici particolari. Però si ha comunque l’affermazione di un’interpretazione antinaturalistica del tema: le figure e i colori insoliti sono il frutto di una fantasia interiore e intellettualistica, un’arte che guarda all’arte precedente e non alla natura e all’antico. Perino ha interpretato questa tema, di soggetto identico di quello di Giulio Romano, accentuando più l’aspetto intellettualistico rispetto a quello della sorpresa. Due diverse interpretazioni, però sempre legate a quel capriccio che rompe la norma creata dal loro comune maestro Raffaello. Siamo all’incirca agli anni 30, ma dobbiamo un attimo fermarci, perché abbiamo visto cosa accadeva nel centro Italia, a Roma dopo che vi si erano stabiliti Michelangelo e Raffaello. Ma non dobbiamo dimenticare cosa accade in questo periodo a Venezia. Dobbiamo analizzare l’evoluzione della pittura veneziana nei primi 20 anni del 500, e per vedere come essa segua un percorso autonomo rispetto a quello dell’Italia centrale. Questo grazie ad alcune figure, il cui principale maestro è Giorgine, innovatore, ma che attinge anche agli studi della pittura del secolo precedente, e quindi guarda a quanto aveva fatto Mantegna e a quanto aveva fatto Bellini. Giorgione si affranca dalla tradizione quattrocentesca e introduce nel suo ambiente artistico locale una grammatica formale del Rinascimento maturo. Vasari elogia Giorgione e ne spiega la novità grazie anche alla conoscenza che Giorgione aveva avuto dell’opera di Leonardo. Come Leonardo anche Giorgione avverte l’esigenza di superare la maniera secca quattrocentesca e di affrontare il problema dell’imitazione della natura. Sappiamo poco di Giorgione, nasce nel 1477 a Castelfranco Veneto. Sembra aver compiuto il suo apprendistato presso Giovanni Bellini. Le sue opere si distaccano poi dalla tradizione belliniana. La sua attività fu breve perché morì nel 1510. È una meteora di straordinaria importanza, tanto da condizionare tutto lo sviluppo della pittura veneziana successiva. Prime opere: ancora legate alla tradizione precedente. Vediamo 2 tavole degli Uffizi del 1502-1505: la prova di Mosè e il giudizio di Salomone. Ci fanno vedere la partenza di Giorgione, legato alla tradizione, in cui l’elemento figurativo si sposa a quello naturale nella tipica maniera belliniana. Notiamo però da subito quanto l’elemento naturale sia qui preponderante a scapito della grandezza delle figure. La natura è più presente e imponente all’interno dell’economia dell’opera. Le figure sono sottodimensionate. Pala di Castelfranco, raffigurante la madonna in trono con bambino e a destra san Francesco e a sinistra san Liberale. Opera più importante delle origini di Giorgione, 1502-1505. Confronto con la pala di San Zaccaria di Giovanni Bellini, una pala fondamentale per la fine del 400 veneziano. Sacra conversazione. Alla base del trono abbiamo un angelo musicante. E la scena si svolge sotto una struttura architettonica, però aperta perché ai lati troviamo il cielo aperto. Già per Bellini è importante l’inserimento all’interno della loggia. In Bellini c’è una predominanza dell’architettura e una strutturazione ancora squisitamente quattrocentesca del tema della sacra conversazione. Torniamo alla novità di Giorgione: la sua pala si stacca dall’impaginazione architettonica; l’architettura sparisce, creando un nuovo allestimento in cui inserire questa sacra conversazione. Viene accentuato l’aspetto piramidale della composizione: i 2 santi alla base del trono sulla cui vetta c’è la madonna con il bambino. Il gruppo sacro fa da cerniera ai due piani della rappresentazione: quello inferiore con i santi, sullo sfondo di un velluto rosso, al di sopra del quale si staglia un paesaggio naturale, all’interno del quale è inserita la madonna con bambino. Ci sono dei precedenti: vediamo la Madonna del Prato, 1505 di Giovanni Bellini. Vediamo in primissimo piano la madonna col bambino, che prega di fronte al bambino e che è inserita in questo prato. Sullo sfondo c’è la città di Feltre. Fusione anche qui dell’elemento figurale con la natura. Ma rispetto a Bellini Giorgione accentua ulteriormente questo dato: sta qui la novità, egli abbandona ogni legame con un paesaggio architettonico che ancora prevaleva in Bellini e in generale alla fine del 400, per dar vita ad un’immagine diretta della natura, i cui accenti si avvicinano sia al naturalismo di Dure sia agli studi di Leonardo da Vinci. Altro aspetto fondamentale è il colore: la novità di Giorgione è una stesura delle tinte molto libera e morbida, date quasi a macchia, i cui toni variano e sfuggono alla definizione disegnativa e chiaroscurale di cui eravamo abituati e che è ancora molto viva nell’Italia centrale. Questo passaggio graduale da un tono all’altro senza un disegno sottostante e senza un limite disegnativo, porta a una grande immediatezza, a una luminosità e ad una vibrazione ulteriore soprattutto dello spazio naturale, dove è percepibile molto l’atmosfera e il valore del colore si esalta in questo valore atmosferico. Vediamo cosa ci dice Vasari in tal senso, che si rende conto di questa novità della pittura veneziana. Mette in evidenza la novità di Giorgione, cioè di dipingere senza un disegno sottostante, senza sottolineare i contorni delle figure e delle architetture. Il che consente di dipingere solo con i colori stessi. Tutto questo dà rilievo e maggiore morbidezza con ‘’bella maniera’’. Utilizza già la parola maniera. Ne riconosce la bellezza, ma finisce con una critica: è la tradizione toscana il miglior modo di dipingere, non questo, per quanto sia bello. Nei dettagli dello sfondo si percepisce benissimo la vibrazione della luce, che è un tutt’uno con la natura. Vediamo altra opera La tempesta, all’Accademia di Venezia, dipinta tra il 1506 e il 1508. È un quadrettino, misura 82 centimetri per 73 di larghezza. È un piccolo olio su tela. Ha dato adito a numerose interpretazioni: cosa rappresenta? Chi sono i 2 personaggi? Sono stati scritti fiumi di libri per cercare di interpretare questo dipinto. Libro molto bello di Salvatore Settis ‘’La tempesta interpretata’’. Probabilmente è un quadro senza tema. Forse queste persone non rappresentano nessuno, non sono tratti dalle sacre scritture né dalla tradizione mitologica. Questo ce lo suggeriscono i documenti, come quelli di Marcantonio Michiel del 1530, che descrive questo dipinto dopo averlo visto nella raccolta di Gabriele Vendramin. Dice: un paesetto con tempesta con la zingara e il soldato. Niente di più semplice. È solo un quadro d’occasione, senza dei o rappresentazioni bibliche, ma con delle semplici figure come una zingara e un soldato. Torniamo al tratto tipico dell’arte giorgionesca: il colore trionfa in quest’opera, contro la durezza smaltata del colore del 400, steso per superfici compatte su cui la luce rimbalza, qui Giorgione presenta delle effusioni cromatiche che si imbevono di luce e acquistano trasparenza e spessore. Le vibrazioni di questa luce formano la scena e danno il senso dello spazio, profondo, in cui lo sguardo si libera, proprio come si libera ed esplode la tempesta. È un trionfo della natura, che mentre nel 400 era un paesaggio costruito, concepito architettonicamente, qui grazie allo studio di Da Vinci e del naturalismo di Dure, dà vita a una sensibilità del tutto nuova, in cui ci ispira a una natura vera, che egli osserva direttamente e riproduce sulla tela con grande freschezza, che gli deriva da un’assenza di disegno e dunque un passaggio molto Sopra la vergine si ha una cupola, sfondata e che lascia intravedere il cielo. C’è una suggestiva rappresentazione dello spazio, che si fa spettacolare e illusionistico. Inoltre Lotto porta avanti il suo studio delle figure e della loro emotività, che si esprime con un ritmo mosso degli atteggiamenti, con il variare delle luce e con effetti chiaroscurali. Vediamo dei dettagli: popolarità delle figure, la stessa vergine è una donna normale, che trattiene a fatica il bambino, così poco aggraziato nella sua gestualità. Ai piedi del trono vediamo un puttino che stende un panno di fronte al trono della vergine. Un trono strano, con le zampe leonine, dietro cui vediamo apparire un volto di Leone, simbolo di uno dei santi presenti nell’opera. Si nota la libertà e la fantasia, il capriccio, che deroga alla norma a cui facevano ancora riferimento i grandi pittori del tempo. Il percorso di Lotto, continua ancora nelle periferie. Rimane legato alle Marche, benché torni a risiedere a Venezia tra il 1525-1549. Il legame con le Marche è testimoniato per la Pala di Santa Lucia per Jesi, completata nel 1532. Ancora una volta Lotto affronta il racconto in termini nuovi, illustrando la leggenda di Santa Lucia senza soluzione di continuità. Usa lo stesso linguaggio sia nella pala centrale che nella predella, con una continuità figurativa straordinaria. La veste gialla con il manto rosso della santa è ripresa. Qui vediamo il momento culminante, in cui la santa si rifiuta di venerare gli idoli, opponendosi alla richiesta di abiurare alla sua fede. La semplicità della senta si oppone alla violenza e allo sforzo dei carcerieri. Ma la sua fermezza non vacilla. Luce che appare come un raggio divino dietro le spalle del sovrano e che illumina parte del porticato, ma che poi ritorna anche frontale. Luce diretta, prorompente, che ci richiama certi risultati della pittura caravaggiesca (San Matteo della cappella Contarelli dove la luce divina arriva dallo sfondo). Anche qui studi fisiognomici che si rifanno alla pittura di Dure. In un angolo abbiamo una scena immediata: una fantesca che trattiene il bambino, in un contrasto evidente delle pelli. Lotto è anche uno dei grandi ritrattisti del 500; alcuni dei suoi ritratti segnano un momento di passaggio, come quello di Andrea Odoni, mercante milanese che si era trasferito a Venezia e che si fa rappresentare con una ricca veste, nel suo studiolo, dove ha raccolto una collezione di sculture antiche. Di fronte a lui da un piccolo scrigno scaturiscono delle monete, simbolo di ricchezza. Il contrasto cromatico è giocato sul verde, sul cilestrino delle pareti e sullo scuro della veste. Lo sguardo ci trasmette l’inquietudine e la curiosità di questo personaggio, con le modalità tipiche della pittura lottesca. Lotto, così periferico e sfuggente, è in realtà centrale anche per la pittura successiva. Arriviamo al vero nodo della pittura veneziana, ossia Tiziano, la pietra di paragone della pittura veneziana, ma non soltanto: sarà un pittore importantissimo per tutti i pittori successivi. Lo studio della sua pittura sarà ineludibile per tutti i pittori del 600. Quando Velasquez verrà in Italia il primo che vorrà studiare e conoscere sarà Tiziano (che aveva già visto perché Tiziano era diventato il ritrattista di Carlo V). Ma Tiziano sarà importantissimo anche per gli impressionisti. Vediamo come l’importanza di Tiziano venga riconosciuto nel secolo successivo: Marco Boschini, ‘’Le ricche minere della pittura veneziana’’ del 1674. Qui viene definito come il migliore pittore, perché i suoi pennelli hanno una forza espressiva vitale. Tiziano nasce nel 1490 a Pieve di Cadore, e la sua attività si svolge prevalentemente a Venezia. La sua carriera inizia partendo dalle botteghe di Gentile e Giovanni Bellini, per poi arrivare nella bottega di Giorgione, dal quale apprende la tecnica rivoluzionaria basata sull’autonomia del colore e sulla monumentalità delle figure. Assimila la lezione di Giorgione, con cui lavora all’interno del fondaco dei tedeschi, a quelle figure ‘’vivissime’’. Collabora col maestro tra il 1508 e il 1509, facendo una Giuditta talmente bella e viva che viene scambiata per un’opera del maestro. Lettura brano in cui si parla di questo episodio. Già nel fondaco dei tedeschi Tiziano ha dunque assimilato il linguaggio del maestro, facendolo proprio e liberando il cromatismo e la forza espressiva che saranno il suo punto distintivo in futuro. Ai temi giorgioneschi si rifà nelle prime opere, come si vede nel Concerto campestre del 1510, opera molto dibattuta, perché molti vi hanno voluto vedere una collaborazione con Giorgione. Ma la conclusione è che l’opera sia solo di Tiziano. È un’opera problematica anche dal punto di vista iconografico: potrebbe essere un’opera senza tema, un’opera d’occasione, senza dovervi leggere una qualche tematica legata alla mitologia o alle sacre scritture. Rifacendosi alla pittura del maestro e quindi per esempio alla tempesta, vediamo soprattutto però come tratti in maniera libera e vivace la natura, in una completa fusione della natura stessa con l’atmosfera; c’è anche un trattamento libero, corposo, vivace e vivissimo delle carni e delle figure, monumentali ma anche molto carnali, trattate senza disegno sottostante, con una libertà di passaggi tonali estremamente gruaduali, cosa che rende ancor più viva e tangibile questa esperienza delle carni e della natura (si veda come il Concerto campestre sia stato fondamentale anche per la pittura contemporanea, per suggerire a un artista come Manet un quadro capitale come il dejuner sur l’erb). Passiamo alla figura della Schiavona, del 1510, realizzata anch’essa secondo la concezione tonale dei colori, sciolti da ogni implicazione disegnativa. Figura femminile, forse una nobile (la Schiavonia era l’Istria), che si offre nella sua pienezza tridimensionale, plastica, costruita attraverso i colori. Le tinte di Tiziano sono distese in maniera molto larga, in grandi campiture cromatiche con gradazioni tonali che costruiscono la volumetria della figura. La tavolozza si sposta su tonalità vive e decise, tra cui si nota il bianco acceso delle maniche. Questo contribuisce a creare una realtà fisica, a darci l’idea di un personaggio reale che si concretizza di fronte a noi. Per certi versi, nella libertà dell’utilizzo del colore e nella libertà del trattamento delle figure (che si fanno sempre più vive), Tiziano accentua la pittura giorgionesca. Arriviamo alla prima commissione religiosa di Tiziano, che arriva nel 1516, quando il convento di santa Maria dei Frari gli richiede la pala pe l’altare maggiore della propria chiesa, una delle più importanti di Venezia. In questa pala Tiziano porta a maturazione il proprio linguaggio, e dà voce a una pala estremamente nuova, esprimendo al massimo grado tutte le sue novità. Questa assunzione della vergine avviene sotto i nostri occhi, sembra porgerci lo sguardo. La struttura compositiva è piuttosto complessa, con anche dei rimandi alla pittura michelangiolesca e raffaellesca. Ci sono 3 piani a cui noi assistiamo da un punto di vista ribassato. Gli apostoli in basso, gesticolanti e vivi, tutti con atteggiamenti e posizioni diversi. Una mano di uno degli apostoli, quello con la veste rossa, quasi lambisce il secondo piano, le nuvole su cui si trova le vergine, circondata da angeli. Sopra la vergine, in posizione un po’ decentrata, c’è il dio padre onnipotente che accoglie la vergine nell’Empireo. Forza che Tiziano imprime all’intera immagine, il tutto costruito solo attraverso la padronanza del colore, che permette a Tiziano di esaltare le possibilità dinamiche ed espressive della composizione, movimentata grazie a tonalità forti, illuminazione radente e toni infuocati. Tiziano innova e sconvolge la tradizione pittorica della pala d’altare. Pittura quasi di macchia, lo si vede bene nel volto di Dio. Viene liberata la forza cromatica con grande libertà. Tiziano ha una carriera lunghissima, muore nel 1576. Uno degli aspetti fondamentali della sua pittura è anche quello del ritratto. Diventa il ritrattista ufficiale sia del papa che dell’imperatore Carlo V. lo convinceranno a lasciare Venezia. Prima va a Roma, tra il 1545-1546 a dipingere alcuni ritratti papali, e poi ad Augusta nel 1548 e poi 1550- 1551, durante la dieta in cui Carlo V regolò la successione della Spagna. È il ritrattista del potere. Introduciamo il concetto di ritratto di stato (status portrait), termine contemporaneo che vuole indicare il ritratto di grandi dimensioni, a figura intera o di ¾, che raffigura un sovrano o un principe o un personaggio di alta autorità, con le insegne simboliche e con un’ambientazione che ne specifica le condizioni sociali. Questo tipo di ritratto nasce nel 500, dai primi tentativi di Raffaello, che aveva fatto i ritratti ad alcuni papi. Anche Hans Holbain al di là delle Alpi aveva fatto importantissimi ritratti a Enrico VIII. C’era già una tendenza al ritratto di stato, sancito poi in maniera evidente da Tiziano, che nella sua fase matura unisce la tendenza italiana di Raffaello a quella trans alpina. Questo lo si vede bene nei ritratti farnesiani di Roma, di Papa Paolo III con i nipoti Alessandro e Ottavio Farnese, opera del 1546. Paolo III è il papa del concilio di Trento, dunque molto importante, epocale, che qui vediamo già abbastanza avanzato nell’età. In questo ritratto si conserva per certi versi la struttura che Raffaello aveva elaborato nel ritratto di Leone X con due cardinali. Tiziano sottopone questo modello a una indagine dei caratteri e dei rapporti psicologi tra i 3 personaggi. Lo fa dissolvendo le forme negli spazi, attraverso una gamma cromatica di toni molto cupi (rosso, bruno, oro). Si capisce bene che il papa è solo uno strumento in mano dei due nipoti, in particolare di quello cardinale, che sta dietro di lui e ci guarda, quasi come a dirci chi è realmente che ha il potere. Museo nazionale di Capodimonte. Il colore che crea le forme è sempre più sfaldato e le forme sembrano appunto sfaldarsi sotto la luce. Si vedano ora gli status portrait imperiali, realizzati durante la dieta di Augusta. Carlo V a cavallo e Carlo V in trono. Vediamo Carlo V a cavallo, museo del Prado (uno dei musei più belli del mondo). Ha una resa atmosferica così viva ed efficace. La luce che nasce sullo sfondo dai bagliori bruscati dell’atmosfera è impressionante. Tiziano elabora il monumento equestre (monumento di potere per eccellenza). Imperatore armato, a cavallo, come celebrazione della vittoria di Mulberg del 1547 contro la lega protestante, e si presenta come un novello San Giorgio, cattolico, che ha sconfitto il drago protestante. Questa formula è nuova, poi ripresa da tutti gli artisti successivi che si imbarcheranno nel problema del monumento equestre, come Rubens, Velasquez, Van dijck. Vediamo il secondo ritratto, Carlo V in trono, sempre del 1548, Alte Pinacoteche di Monaco. L’imperatore, con una zimarra nera molto severa, sta seduto su un tronetto. È in netto contrasto con il rosso del pavimento o l’oro dello sfondo. Qui Tiziano elabora un’altra formulazione di status portrait, che diventerà un modello. Tiziano ha una carriera lunghissima, e nell’ultima parte della sua carriera, quando è più libera dagli impegni della committenza imperiale e della repubblica veneziana, sperimenta un nuovo tipo di pittura: le figure sono sempre costituite tramite il colore, ma la differenza è che ora le forme vanno lentamente sfaldandosi. È una pittura in cui le pennellate visibili costituiscono le scene e le figure, dando vita ad una vibrazione ancora più intensa rispetto alle opere precedenti. Siamo di fronte ad una estrema libertà, ad un progressivo disfacimento della forma pittorica e della materia pittorica. È una delle ultime riflessioni della pittura tizianesca in cui la struttura cromatica riassorbe in sé ogni definizione plastica e spaziale della rappresentazione, e diviene il tramite espressivo proprio per le riflessioni esistenziali del vecchio Tiziano; tutto ciò le vediamo nella Pietà del 1570- 1576, oggi alle gallerie dell’Accademia di Venezia. Torniamo agli anni tra il 10 e il 20, quando si conclude l’esperienza fiorentina di Leonardo, Michelangelo e Raffaello, si porta avanti per gli ultimi 2 l’esperienza romana, e una nuova generazione di pittori inizia a studiare e formarsi sui testi di questi grandi maestri. Siamo al sorgere del nuovo stile pittorico comunemente definito maniera, manierismo. Manierismo è un termine che è stato accolto dalla critica negli anni 50 del 900. Lo usiamo noi per indicare questo stile che prende campo dagli anni 20 del 500 per tutto il corso del secolo, ma che ha dei prodromi già all’inizio del 500 con figure come Amico Aspertini, Andrea del Sarto, Pontormo e Rosso fiorentino (sperimentalismo anticlassico). Questa maniera si basa dunque sui raggiungimenti dei grandi maestri del 500. I grandi maestri diventano il metro di paragone per questi artisti, che non guardano più allo studio della natura e dell’antico, ma che fondano tutto il loro linguaggio sullo studio dei grandi maestri del 500. Dunque è un’arte che guarda all’arte e che cerca di storia comincia quando Giuseppe interpreta i sogni del padre Giacobbe e gli dice che lui preferisce tra i suoi figli proprio Giuseppe; questo crea attrito con i suoi fratelli, e quindi nella scena centrale Giacobbe e la madre Rachele invitano Giuseppe a raggiungere i suoi fratelli. Poco distante lo si vede giungere dai fratelli, che però ingelositi lo gettano in un pozzo dopo avergli tolto il mantello. Per far credere che Giuseppe sia morto, uno dei fratelli mostra a Giacobbe il mantello insanguinato (in primo piano a destra). Ma Giuseppe, lo vediamo dietro, esce dal pozzo e ora ha il mantello rosso, incontra dei mercanti che lo porteranno con loro in Egitto dove lo venderanno come schiavo. In questa scena, dal sapore vagamente nordico, nonostante il racconto continuo, Andrea del Sarto cerca di mantenere una chiarezza espositiva, rendendo evidente il protagonista (stessa veste) e identificando dei luoghi all’interno dei quali svolgere l’azione. Mettiamola a confronto con la scena di Pontormo: Giuseppe in Egitto, siamo alla fine della storia. L’utilizzo dei riferimenti alle stampe nordiche è ancora più evidente, siamo di fronte a delle citazioni vere e proprie: sullo sfondo c’è una porta urbica molto innalzata, con una costruzione squisitamente nordica. Di fiorentino non c’è niente. Pontormo a differenza del maestro crea una scena complicatissima, in cui le ambiguità sono moltiplicate. La storia inizia sulla sinistra: Giuseppe, diventato ormai grande e governatore dell’Egitto, si riconcilia con il padre e i fratelli. Momento del perdono del buon Giuseppe, che è inginocchiato davanti al padre, con la veste giallo, il manto viola e il berretto rosso portato al petto. Poi vediamo anche il momento pubblico di Giuseppe, mentre distribuisce il grano al suo popolo in un momento di carestia: di fronte ha un uomo che porge il cappello per ricevere il grano. Giuseppe però, mentre svolge il suo lavoro, riceva una notizia dal messo inginocchiato al fianco del carro, cioè che il padre Giacobbe è moribondo. La scena della scala è molto eccentrica, con una scala elicoidale che arriva al capezzale dove sta morendo Giacobbe. Sulle scale vediamo Giuseppe, che con il suo manto viola tiene per le mani un bambino dalla veste verde. Ma un altro bambino con la veste verde è preso in braccio da una fantesca in cima le scale. Il Pontormo ci confonde, noi non sappiamo se il bambino è lo stesso. Solo leggendo la Bibbia lo capiamo: Giuseppe aveva 2 bambini, Efraim e Manasse. Quando poi vediamo il letto su cui giace Giacobbe, vediamo i due bambinetti inginocchiati. Pontormo complica tutta la scena. Vediamo come l’ispirazione pontormesca sia fondamentale per altri artisti; si veda Francesco Salviati, che nel 1552-1554 rappresenta Betsabea che si reca furtivamente da David: la scala e la costruzione si rifà evidentemente al prototipo pontormesco. Salviati ci rappresenta i vari momenti con una narrazione continua. Betsabea si guarda dietro furtivamente, preoccupato dal suo desiderio segreto, fino a giungere nella stanza di David dove si uniscono. L’affresco si trova a Palazzo Ricci Sacchetti a Roma. Dunque Pontormo crea una rappresentazione, ispirandosi anche ad una sacra rappresentazione di gusto medievale (gusto di recuperare elementi e modalità espressive desuete rispetto alla chiarezza compositiva e alle soluzioni prospettico scenografiche del rinascimento). Si rifà a mezzi espressivi volutamente arcaizzanti, per creare un complesso ricco, confondente, in cui i richiami sono molteplici, come del resto anche gli stimoli alle nostre domande. Sopra le colonne vediamo delle figure che sembrano statue, ma che forse non lo sono proprio del tutto, perché sul carro di Giuseppe in realtà vediamo un puttino vivo che si libra aereo su questa colonnina. C’è il gioco di voler confondere realtà e finzione in una rappresentazione estremamente mossa. Questo periodo particolare di passaggio tra l’arte rinascimentale e la ‘’bella maniera’’ è stato studiato da Pinelli in un libro intitolato ‘’La bella maniera’’. Egli descrive molto bene questo capolavoro. Leggiamo cosa dice: Pontormo stravolge ogni norma prospettica e aspira a una visione multifocale; sembra non esserci logica, non esserci divisione temporale né tra gli eventi principali da quelli secondari; l’opera è policentrica e sincronica; l’artista punta sull’accumulo piuttosto che sulla sintesi; Pontormo qui dà libero sfogo alla sua smania sperimentalistica, è ormai libero, ha elaborato un suo linguaggio figurativo. Passo successivo della sperimentazione pontormesca, cappella Capponi in santa felicita, 1525. Commissione da Ludovico Capponi, che aveva acquistato questa cappella. Piccola chiesa dopo il ponte vecchio. Decorata interamente da Pontormo: annunciazione su un lato minore della cappella; la cupola con dio padre e i 4 patriarchi; i pennacchi con gli evangelisti e poi dipingerà la grande pala d’altare con la Deposizione. Questa Deposizione, 1525-1528, crea sconcerto anche in Vasari, che accentua il fatto che la composizione è fatta solo di colori, senza ombre, tutto unito, di colori che si rimandano l’un l’altro senza frammentazione. Il colore è il motivo dominante di questa composizione di corpi intrecciati, che sembrano liquefarsi. Questa libertà compositiva e questa vaghezza di Pontormo rende Vasari indispettito. Dice che Pontormo è troppo sperimentatore, perché ogni volta che raggiunge un risultato, si distacca da esso per giungere a nuovi risultati. La Deposizione è una continuazione di una tematica già affrontata dal maestro Andrea del Sarto. Si tratta del Compianto sul Cristo morto (Pietà di Luco). Qui il Cristo è già deposto. È un’offerta del corpo di Cristo sull’altare come pane degli angeli. Il corpo del Cristo è posto su una pietra che sembra un altare, anche perché c’è un panno bianchissimo, in corrispondenza di un calice su cui c’è un’ostia. Sull’ostia è impressa una croce con il corpo di Cristo crocifisso. Quest’opera ha un valore storico, perché si vuole opporre al luteranesimo intorno alla verità della transustansazione (negata dal luteranesimo). Nel dipinto si ha un’affermazione figurativa della presenza del corpo di Cristo nell’ostia. L’opera è elogiata da Vasari. Nella Pietà di Luco c’è un gruppo straordinario di figure, con san Pietro e san Paolo, sulla destra la Maddalena e santa Caterina d’Alessandria e con la Vergine che tiene il corpo del Cristo e questa perfetta consonanza tra il corpo del Cristo il marmo col telo, che è un altare, in corrispondenza perfetta con l’ostia con all’interno il corpo del Cristo. È un quadro considerato perfetto. Da quest’opera perfetta passiamo alla Deposizione di Pontormo, visione assolutamente onirica, priva di centro, in cui tutto si smuove e sembra cadere da un momento all’altor; i gesti si richiamano attraverso i chiasmi tipici di Pontormo, in un tripudio di colori accesi, smaltati e allucinati che fanno di quest’opera un perno della nuova pittura della maniera. Leggiamo quanto dice Antonio Pinelli descrivendo la Deposizione: mette in evidenza la visione onirica, trascendentale, sempre più legata a una tradizione nordica, alle stampe di Durer e di Luca di Leida, tutta giocata sui rimandi di gesti e sguardi, su richiami sottolineati da un cromatismo nuovo, che diventerà poi la cifra straordinaria della pittura pontormesca. La visione è sublimata e i corpi sembrano immateriali, trascoloranti. Agli elementi della classicità, Pontormo sovrappone e contrappone lo studio delle opere a stampa di Durer e di Luca di Leida, dando un impronta nordica alle proprie opere, scegliendo un cromatismo assolutamente nuovo, volutamente stridente e antinaturale. In questa danza onirica della Deposizione, abbiamo un nuovo punto di partenza per quest’arte che definiamo manierismo. Contemporaneamente questa lettura nuovo dell’arte prende campo anche a Roma, in un breve periodo precedente al sacco, dal 1525 al 1527. Nuovo pontefice, Clemente VII, sempre uno dei Medici, che dà vita a una corte estremamente raffinata. L’età di Clemente VII è caratterizzata da un cenacolo di artisti particolari, tra cui Giulio Romano, Perin del Vaga, Rosso Fiorentino e Parmigianino. Gli ultimi due sono giunti a Roma da poco, e sono le punte di diamante di questo nuovo stile definito ‘’clementino’’. Vediamo Rosso Fiorentino, con il Cristo morto sostenuto dagli angeli, dipinto tra il 1525-1526. Questa tavola è dominata dal corpo di Cristo, si ricollega alla Pietà di Luco di Andrea del Sarto e alla Deposizione di Pontormo. Qui c’è un estetismo che prevale su tutto il resto: il corpo è quasi una figura di Adone, se noi non vedessimo i simboli della passione sui piedi, ci troveremo semplicemente di fronte a un corpo bellissimo, fluido, plastico, dal volto soave e quasi ambiguo, circondato dagli angeli che gli fanno da cornice e che introducono una sofisticata valenza sensuale a tutto il dipinto. La sensualità è una delle istanze estetiche principali della maniera. C’è un’eleganza formale straordinaria, che diventa tipica dello stile clementino e poi della maniera successiva. Vediamo Parmigianino con la Visione di San Girolamo del 1525- 1527. Viene da Parma e vive pochissimo, 1503-1540. Parmigianino darà prova nella sua vita di una straordinaria qualità artistica, nel senso dell’esasperazione ai massimi livelli dell’eleganza della maniera. Parmigianino andrà a Bologna dopo il sacco, mentre Rosso andrà a Faintembleau, dove permetterà la diffusione europea del manierismo. Torniamo all’opera: San Girolamo dormiente in basso a destra che ha la visione della Madonna con il bambino; tutto è giocato sul verticalismo, su una costruzione verticale molto complessa. Le figure sono tutte atteggiate in maniera antinaturale, sono l’esempio più alto della sprezzatura, di quella dissimulazione della difficoltà, una totale assenza di sforzo in una serie di pose estremamente sforzate. Parmigianino vuole reinterpretare in maniera assolutamente nuova e originale le fonti michelangiolesche e raffaellesche. Questo dipinto è paradossale al livello compositivo: si veda il gesto rotatorio del San Giovanni battista che imprime un movimento rotatorio e ascenzionale che culmina nella figura del bambino, in questa improbabile anche se elegantissima posa. Passiamo alla Madonna col Bambino e Santa Margherita, opera fatta in patria, a Bologna tra il 1528-1529; lo stile è sempre quello di un’eleganza ricercata, che tende verso un nuovo ideale di bellezza, che cristallizza le immagini in una preziosità rarefatta e incorruttibile. La bellezza domina su tutto, anche sulla verosimiglianza. E in questa opera lo si vede benissimo. Tutto è sottoposto al controllo della perfezione di questa nuova eleganza. Capelli bellissimi della Maddalena e prezioso toccarsi del volto della Margherita con quello del bambino (preziosità dei dettagli). Il presupposto è un’opera del Correggio, la Madonna col bambino san Girolamo e Caterina, del 1525-1528. In Correggio i legami con la pittura di Raffaello e Mantegna sono più saldi, come la saldezza di queste figure, che non presentano quella eleganza rarefatta del Parmigianino. I corpi in Parmigianino sono modificati, allungati, deformati, alla ricerca di una nuova eleganza. Arriviamo al capolavoro di Parmigianino, quando torna a Parma, tra il 34-40 e dipinge la Madonna col Bambino e angeli, nota come la Madonna dal collo lungo, per la chiesa di Santa Maria de’ Servi a Parma. Qui Parmigianino riformula l’immagine umana secondo i canoni di una bellezza artificiale e raffinata, dove i legami con la realtà sono perduti, perché si deve rispondere a un canone di bellezza nuovo. È una vergine sinuosa, allungata, e suscita nello spettatore incertezza, perché è qualcosa di assolutamente diverso e nuovo. L’effetto è ambiguo in tutta la scena, e non è facile nemmeno comprendere se la scena si svolge all’interno o all’esterno; questa confusione voluta è volta a ricercare quest’eleganza rarefatta. Per esempio c’è un colonnato di colonne senza capitelli alla base del quale una figura srotola un cartiglio, forza un San Girolamo, piccolissimo perché in lontananza, ma dove ormai le regole prospettiche sono derogate di fronte alle regole della ricerca della bellezza. Quest’opera d’arte segna benissimo la distanza tra l’esigenza di razionalità tipica del rinascimento e quella della ricerca del bello, del magnifico e del sorprendente del manierismo. Leggiamo cosa dice Arturo Fittipaldi: Parmigianino contrappone al cosmo ordinato e onnicomprensivo dei neoplatonici un’inesausta soggettiva sperimentazione sulla forma, che raggiunse gli estremi di un’allucinata, solitaria astrazione. L’elemento della deformazione, dell’eleganza, della sprezzatura, diventa la norma: tutti gli artisti si misurano su questi elementi da ora in poi. Altra opera di Parmigianino, Conversione di San Paolo del 1527, dove la scena è dominata dal cavallo. Oppure vediamo il Cupido che costruisce il suo arco, che ci manierista, per ispirare agli allievi uno studio diretto e personale del naturale, il tutto attraverso il disegno. Tutto questo poi si arricchisce di una conoscenza profonda dell’arte e della pittura veneziana, in particolare di Tiziano, e della religiosità soffusa e pacata delle opere di Correggio, che i 3 ben conoscono e hanno studiato. L’accademia degli incamminati, di cui Ludovico fu il primo direttore, diviene ben presto dalla fondazione nel 1582 il luogo di raccolta di tutte le tendenze progressiste a Bologna e non solo. Lucio Faberio nel 1603 sottolinea l’importanza del disegno all’interno di questa accademia; dice che addirittura studiano l’anatomia. Viene messa in evidenza la modernità, il superamento dell’arte per l’arte e il ritorno allo studio della realtà circostante, della natura. Si studia molto il corpo umano, l’anatomia, si imparavano i nomi dei nervi e delle vene e delle altre parti del corpo. Opere di natura religiosa seguendo i dettami del Paleontti. Vediamo alcune opere prodotte dai Carracci, che vanno in questa direzione. Madonna col Bambino e i santi Francesco e Giuseppe del 1591 di Ludovico Carracci, in cui si palesano le richieste del Paleotti e le finalità devozionali, composizione unitaria, punto di vista ravvicinato dal sotto in su, che mette a fuoco tutti i protagonisti del colloquio religioso. San Francesco raccomanda i donatori, in basso a destra. È tutto giocato sui gesti e sugli sguardi. Il bambino è molto naturale nel suo movimento spontaneo, non ha più quegli accenni di danza. Gesto del donatore che apre le mani in un gesto di emotività molto diretta e spontanea. La luce con degli sprazzi brillanti che emerge dalle cavità buie e che rende più vivo il quadro. Dare una comunicazione molto popolare e immediata in una nuova formulazione della pala d’altare; questa è la novità di Ludovico. Agostino Carracci è più teorico, il più studioso, a differenza di Ludovico, più pratico. Aveva una vasta conoscenza dell’anatomia, della mitologia e dell’allegoria. Infatti aiuterà Annibale a Roma nel 1597 nella galleria Farnese. Agostino si dedica principalmente all’incisione, ma anche alla pittura, come vediamo nella Comunione di San Girolamo del 1592. Forse è l’opera più considerevole di Agostino. Anche qui i personaggi e i gesti sono ritratti con espressioni ben descritte, studiate con grande attenzione. Il santo è inginocchiato con il suo bellissimo drappo rosso. Il fedele è invitato a partecipare direttamente e intensamente a questo evento. L’impianto coloristico segue le tonalità venete: colori caldi con uno sfondato dell’arco trionfale che apre su un’atmosfera bruscata che più volte abbiamo visto nella pittura veneta. I Carracci formano un gruppo coeso di studio e di accademia, che sarà poi frequentatissima a partire dal 1582. Come vedremo sperimenteranno tutti i campi della produzione artistica: non solo pale d’altare, ma anche produzione di dipinti con lo studio dal vero, con tematiche assai poco frequentate fino ad ora dalla pittura ufficiale. In particolare Annibale, come nel Ragazzo che beve. Annibale a differenza di Agostino non era portato per le disquisizioni teoriche, ma era più concreto. Aveva un grandissimo talento e cerca di ampliare il proprio linguaggio teorico per arrivare a una formulazione rinnovata della pittura. Risulta fondamentale per lui il disegno, come momento di apprendimento e di conoscenza, come strumento principe per il rinnovamento della pittura. Disegno dal vero come imprescindibile per il lavoro. Quali sono i punti di riferimento artistici di Annibale? Cosa studia oltre la natura in presa diretta? Negli anni tra l’82-83 studia, e inizia un periodo di intensa sperimentazione, anche andando a Parma, dove studia le atmosfere luminose e l’evidenza sentimentale delle cupole di Correggio: cupola con la Visione di San Giovanni Evangelista a Patmos, opera del 1520-21, chiesa di San Giovanni Evangelista, opera capitale della pittura del rinascimento, che rappresenta la visione che il santo ebbe a Patmos, raccontata nell’Apocalisse. Qui Correggio, pur dando all’impostazione una monumentalità che aveva appreso a Roma (volta spettacolare) gioca sulla finzione pittorica che elimina le costruzioni architettoniche o prospettiche per una grande libertà, con delle figure commisurabili a quella di Michelangelo della cappella Sistina. In ogni caso le figure hanno una caratteristica morbidezza, che fonde l’immagine in un’atmosfera vibrante. Va anche a Cremone, dove studia la pittura dei fratelli Antonio e Vincenzo Campi, in particolare di Vincenzo, di cui possiamo vedere la Fruttivendola del 1580: Vincenzo produce queste opere estremamente interessanti, ispirate alla cultura fiamminga; si consideri che in questi anni in aria fiamminga si diffonde la rappresentazione che noi siamo soliti definire ‘’di genere’’, ovvero con scene di nature morte, fiori, frutta, senza un riferimento religioso o storico o mitologico. Questa fruttivendola è alla Pinacoteca di Brera. Vincenzo Campi trae ispirazione dalla scuola della pittura fiamminga ma accentua lo sguardo descrittivo e analitico, di un’immagine nitida e distaccato, di una verità conclusa e autodefinita, una fotografia. Si veda anche la Pollivendola, importantissima per la Bottega del macellaio di Annibale. Annibale in questo suo percorso formativo guarda alla pittura monumentale di Correggio, che gli servirà a Roma; ma guarda anche alla pittura dei Campi, al mondo reale, alla natura, alla pittura lombarda, da cui viene Caravaggio, la cui Canestra di Frutta affonda le sue radici nella pittura dei Campi. Vediamo disegni di Annibale, come la Testa di bambino di profilo, disegno a matita rossa del 1584. Forse un garzone della bottega; è di una freschezza e morbidezza che si spiega soltanto come un disegno realizzato dal vero, base su cui Annibale costruisce il suo linguaggio. Allo stesso modo il disegno dal vivo del Macellaio intento a pesare la carne. Vediamo la Piccola Macelleria, per cui il disegno servì, opera del 1582. C’è un’altra macelleria di Annibale, del 1585. Questa che vediamo è una bottega vera e propria, e Annibale si rifà alla pittura fiamminga e alle opere lombarde di Fontana e Passerotti, oltre che di Campi. Riprende la bottega dal suo interno, per darci un’immagine vera e naturale, con una chiara messa a fuoco delle figure. Il punto di vista è ravvicinato e tutto è concentrato sui gesti e sull’azione, sul lavoro dei due, che pesano la carne e sistemano i pezzi. Quest’opera si distacca dalla pittura aulica, sia nel tema che nella libertà espressiva della stesura del colore e nella redazione della composizione stessa. c’è freschezza di tocco, la pennellata è larga e densa di colore. La tecnica restituisce e coinvolge ancora di più per la vivezza naturale delle figure e della merce. Si nota un distacco evidente dall’accezione manierista. Questa rappresentazione è squisitamente pagana, nordica, che da qui si diffonderà altrove. Molto importante è la rappresentazione della natura, che è naturale, non artificiosa. La natura è protagonista, non c’è quasi più bisogno della presenza umana. Lo vediamo in Paesaggio fluviale del 1589, dove c’è un barcaiolo che è praticamente coperto da un tronco, la sua presenza è incidentale, proprio a dimostrare che questa natura può essere oggetto di un dipinto di pari grado di altri temi, come quelli religiosi o storici. Elemento fondamentale di Annibale Carracci è quello di dare a temi che fino a quel momento non avevano avuto spazio, nuovo campo all’interno della pittura. Così favorì quella che noi oggi chiamiamo pittura di genere, quella pittura di natura o natura morta senza particolari riferimenti iconografici alla religione, alla storia o alla mitologia. Questo tipo di dipinti vengono da ora commissionati come dipinti autonomi. Annibale dunque sperimenta una serie di innovazioni sulla base della sua formazione, sia all’interno dell’Accademia degli Incamminati, sia grazie agli studi che compie autonomamente a Parma e a Cremone. Questo percorso che porta avanti in terra emiliana, sarà poi completato dal suo viaggio per Roma. Accade che una famiglia di committenti, i Farnese, contattano Annibale per andare a lavorare per loro. Alessandro Farnese era diventato pontefice con il nome di Paolo III nel 1534. Paolo III successivo a Clemente VII che aveva subito il sacco di Roma. Sarà Paolo III a continuare una fatica riconversione alla normalità dopo il sacco. Nel 1545 il papa inaugurerà inoltre il concilio di Trento. La famiglia aveva altri personaggi importanti, tra cui un altro Alessandro, eroe della battaglia di Lepanto e vincitore dei Paesi Bassi dove aveva assediato Anversa. Questa famiglia nel 500 assurge a una grande importanza. Alessandro generale muore nel 1592, lasciando 2 figli Ranuccio e Odoardo. Ranuccio erediterà il ducato di Parma e Piacenza, Odoardo riceve la porpora cardinalizia nel 1591 e quindi si trasferisce a Roma. Fa ad abitare nel palazzo di famiglia, nel centro della città, palazzo ultimato dagli architetti Vignola e de La Porta, dopo un intervento anche di Michelangelo, che ci inserì il balcone e l’edicola nella facciata. Qui si dà avvio a una gloriosa committenza volta ad esaltare la gloria della famiglia e soprattutto le gesta del padre. Fa realizzare una scultura di Alessandro incoronato dalla Vittoria, di Simone Mosca, per una sala grande del palazzo che doveva essere affrescata con le imprese del padre. Per fare questa sala Odoardo vuole i pittori Carracci. Chiama Annibale e Agostino nel 1594, che scendono a Roma per dipingere la sala grande. Nel frattempo attende da Parma il libro dei disegni delle imprese del padre. Questo primo tentativo di committenza della sala grande fallisce, i Carracci tornano a Bologna, ma Annibale l’anno dopo torna a Roma, seguito nel 97 da Agostino. A questo punto non viene chiamato per la sala grande, ma per dipingere un altro ambiente, il cosiddetto camerino. Perché Odoardo Farnese vuole proprio Annibale Carracci? A Roma c’erano grandi pittori come Federico Zuccari, il cavalier d’Arpino, organizzatore di cantieri straordinari. Probabilmente Odoardo su consiglio del suo bibliotecario Fulvio Orsini, intendeva dare vita a una vena artistica diversa da quella romana, e si riferisce dunque alla scuola emiliana. Da Bologna arriva un vento nuovo: a Roma il barocco sarà vitale, ma gli artisti verranno tutti dall’esterno. Il camerino era lo studio privato del cardinale, e qui Annibale viene messo alla prova. Doveva essere allestito con delle immagini di virtù, che furono impersonate dagli eroi mitologici. Annibale si inventa questa decorazione con medaglioni e grottesche, tutte a simulare lo stucco, con alcuni grandi riquadri. Il tutto è imbastito con grande equilibrio e compostezza, mostrando una certa diversità con le opere bolognesi viste fin qui. Atlante per esempio, che tiene il mondo: è molto composta questa opera, simmetrica, elegante; dimostra una conoscenza dell’antico e della scultura classica, che può vedere e studiare anche all’interno di palazzo Farnese, in cui c’è una collezione di scultura antica molto vasta; dimostra inoltre la conoscenza diretta della grande decorazione rinascimentale, di Michelangelo e di Raffaello. Vediamo la tela centrale, che rappresenta Ercole arbivio, oggi a Capodimonte a Napoli. Opera che rappresenta il mito di Ercole, che a un certo punto deve decidere se intraprendere la via del vizio o quello della virtù. Vizio a destra, con questi veli che la coprono poco, lasciando intravedere la bellezza del suo corpo floride, la quale indica le gioie del vizio: musica, gioco, teatro. Dall’altra parte la virtù, severa, che invece indica il monte della sapienza, su cui c’è pegaso, simbolo della sapienza e della virtù e anche dei Farnese. Con grande probabilità questa iconografia è suggerita dall’iconografo Fulvio Orsini. Ma a noi interessa quanto Annibale sia stato colpito dalla statuaria classica nella realizzazione di quest’opera, che presenta questa figure come il fronte di un sarcofago antico, mostrando un altro dettagli importante: Annibale ha attinto alle fonti antiche già presente in palazzo Farnese, e in particolare dall’Ercole Farnese. Palazzo Farnese voleva essere uno scrigno delle opere preziose dell’antichità raccolte con attenzione dalle passate generazioni della famiglia. Una volta terminato il lavoro nel camerino e riscontrato pienamente il gusto del cardinale, Annibale vien cooptato per un’impresa più grande, cioè la decorazione ad affresco della galleria. Vediamo un’immagine del giardino: la galleria che Annibale dipinge è quella al piano nobile (piano centrale) con loggia chiusa, dipinta proprio da Annibale e che potremmo definire galleria, un elemento compositivo interessante nell’architettura principesca. È un ambiente di forma rettangolare, piuttosto stretta e lunga, con una volta a botte e con le finestre che si aprono sul giardino. La sala era destinata ad avere delle nicchie con le sculture Probabilmente non è niente di tutto questo, e l’opera deve essere vista come una prima natura morta, prima della Canestra di frutta famosissima dipinta per il cardinale Borromeo. Emerge qui un naturalismo teatralmente progettato che suggerisce un nuovo genere di arte, nel quale gli eventi quotidiani vengono elevati al livello del dipinto storico. Va via dalla bottega del cavalier d’Arpino quando diventa pittore del cardinale Francesco Maria del Monte, ambasciatore del granduca di Toscana, che lo ospita a palazzo Madama, che oggi è sede del Senato della Repubblica. Poi passa al protettorato di un’altra famiglia, i Giustiniani, che saranno i collezionisti e i mecenati più importanti di Caravaggio. Il cardinale Benedetto Giustiniani e il marchese Vincenzo sono figure di spicco del mondo artistico romano. Dai loro inventari sappiamo che possedevano ben 13 opere di Caravaggio. Erano una potente famiglia genovese stabilitasi a Roma, ricchi perché erano a capo delle finanze del pontefice. Lo Stesso Caravaggio dice: tanta manifattura gli era a fare un quadro buono di fiori, come di figure (la difficoltà nel fare un quadro religioso o storico, per lui è uguale a quella nel fare un quadro di natura) I Giustiniani creano una svolta nella carriera caraveggiesca nel suggerimento dei temi: Caravaggio passa dall’invenzione del genere della natura morta ai temi più religiosi e storici. Incredulità di San Tommaso, oggi a Potsdam, del 1600-01. Tema iconografico molto importante, siamo in epoca controriformata e vi è racchiuso il tema della verità rivelata. Cristo perdona Tommaso, che gli aveva chiesto di vedere la piaga per poter credere alla resurrezione. La rappresentazione è umanissima, Cristo scosta il sudario dal suo busto per mostrare la piaga, e guida la mano di Tommaso verso la piaga stessa, accennando a una smorfia di dolore mentre lo sguardo accompagna il gesto di Tommaso. Diversità delle vesti: Cristo ha il sudario, come un filosofo antico, mentre gli apostoli sono abbigliati alla maniera moderna. Poi c’è di nuovo il gioco straordinario della luce, un effetto teatrale di luce che emana dal corpo di Cristo, terreno e metafisico allo steso tempo; poi c’è una luce che viene dall’alto a sinistra, che rischiara la scena, altrimenti immersa in un buio profonda, balugina sopra le fronti degli apostoli e rischiara anche le loro vesti, dando alle figure una statura monumentale. Caravaggio utilizza gli stessi strumenti della costruzione del Fruttaiolo per applicarli alla costruzione di una scena religiosa. Il successo presso i Giustiniani lo aiuta ad ottenere importantissime commissioni. La prima commissione pubblica è la decorazione della cappella Contarelli in San Luigi dei francesi, chiesa che si trovava di fronte al palazzo Giustiniani. Era la cappella del cardinale francese Matieu Contrail. La storia di questa cappella è importantissima perché ci mostra un’evoluzione straordinaria della pittura di Caravaggio, che qui dipinge la vocazione di San Matteo, il martirio di San Matteo (laterali) e il San Matteo e l’angelo (per l’altare maggiore, dove inizialmente sarebbe dovuta andare una scultura sullo stesso tema; ma quando fu presentata ai committenti non ne riscontrò il gusto; la storia delle opere è molto diversa dal risultato finale). Vediamo la Vocazione di San Matteo, un peccatore, un pubblicano che Cristo chiama per redimerlo. Matteo è un esattore che sta al tavolo contando le monete insieme ai suoi collaboratori. Alcune di queste persone alzano lo sguardo di fronte al richiamo del Cristo. Matteo è quello che si porta il dito al petto come a dire ‘’Ma stai chiamando proprio me?’’. Matteo risponde al richiamo di Cristo, a questa inondazione di luce divina che illumina una parte della stanza, il muro la finestra e il volto di Matteo, mentre il Cristo in basso a destra alza il braccio ad indicare la chiamata. Dunque Caravaggio con la vocazione di San Matteo crea un’opera iconica in cui l’utilizzo del fascio di luce viene ancora più enfatizzato. Vedremo come da questo momento Caravaggio punta tutto sulla transitorietà del momento: ci mostra degli eventi che avvengono nel momento preciso in cui noi iniziamo a guardare il dipinto: il fascio di luce divina che colpisce direttamente Matteo, diventa una caratteristica tipica della sua pittura e della pittura dei cosiddetti caravaggieschi, un’onda di seguaci, non allievi, in tutta Europa. Torniamo a parlare della cappella Contarelli, pala dell’altare maggiore, dove era stata prevista una scultura, un San Matteo e l’angelo scolpita da Yacop Cobaert, scultore fiammingo, grande orafo. Nel mentre che si attendeva che l’opera venisse scolpita, Caravaggio produce una prima versione del suo San Matteo e l’angelo, per l’altare provvisorio, in attesa della statua per l’altare definitivo. La prima versione la vediamo in bianco e nero perché fu sostituita dallo stesso Caravaggio dalla seconda versione che vediamo a colori, tuttora presente nella cappella Contarelli. La prima versione fu acquistata dai Giustiniani, poi finirà in Germania dove verrà distrutta durante la seconda guerra mondiale. Analizziamo la prima versione: San Matteo era un bifolco, non aveva studiato e non sapeva né leggere né scrivere. Dunque per scrivere il suo vangelo doveva essere aiutato dall’angelo, un’azione divina gli avrebbe fatto imparare rapidamente la scrittura. L’angelo gli prende la mano e gli insegna materialmente a scrivere, in una scena semplice su uno sfondo scuro, con una luce divina che colpisce i 2 protagonisti. San Matteo incrocia le gambe su cui tiene il libro su cui sta scrivendo. C’è un interessante sporgenza della gamba sinistra, che viene a sovrastare l’altare e quindi il fedele. Caravaggio mostra i lati umili della figura: i piedi sono la prima parte che noi vediamo. Cosa succede poi? Caravaggio toglie la tela per lasciar posto alla scultura, che però non piace e quindi la si toglie, commissionando a Caravaggio una nuova versione del tema, per l’altare definitivo. Allora Caravaggio produce la seconda versione del San Matteo con l’angelo, che è più aulica rispetto alla precedente: il santo assume un aspetto di dotto, ispirato, non toccato materialmente dall’angelo, che volteggia in alto. Il santo si rivolge verso di lui con un volto segnato dall’età ma non rozzo; è un volto aulico. Vediamo che l’angelo comunque in qualche maniera interviene nella sua scrittura, quasi dettandogli cosa scrivere; con le dita numera, come se stesse partecipando attivamente alla scrittura. Altro aspetto fondamentale: la transitorietà, anche qui si presenta un momento che accade nell’attimo in cui noi guardiamo l’opera. lo sgabello su cui poggia il santo non ha tutti e 4 i piedi poggiati saldamente sul piano di appoggio; uno di essi va al di là del piano di appoggio, perdendo il sostengo e rendendo la posizione del santo come fragile, in divenire. Il santo deve trovare un equilibrio per non cadere. Il gioco di mostrarci un momento in divenire è lo stesso anche nell’incrocio delle gambe con il piede alzato sopra le nostre teste nella priva versione. Opera conclusa nel 1602. Dopo ottiene un’altra commissione pubblica, poiché nella cappella dove lavorerà si trova anche Annibale Carracci. Non sarà un incontro fisico, ma un incontro tra le opere dei 2 artisti. Si tratta della cappella Cerasi nella Chiesa di Santa Maria del popolo a Roma. Qui le due filosofie degli artisti si scontrano: quella classicista di Annibale e quella più legata all’osservazione del reale di Caravaggio. C’è una congiunzione e un confronto dialettico. Il committente della cappella era Tiberio Cerasi, che nel 1600 acquista la cappella al lato sinistro dell’altare maggiore della Chiesa di Santa Maria del Popolo. Questa cappella viene ristrutturata anche da un punto di vista architettonico da Carlo Maderno, architetto più in vista di Roma in quel periodo. Il primo a ricevere la commissione è Annibale, che viene chiamato a decorare la cappella con la pala d’altare. Successivamente Cerasi nel 1600 commissiona a Caravaggio le 2 tavole laterali, da terminare entro 8 mesi. La storia della decorazione della cappella ce la racconta Giovanni Baglione (le fonti caravaggiesche vanno lette con grande attenzione, perché Baglione era un pittore rivale di Caravaggio e cerca di metterlo in cattiva luce, costruendo il mito del rifiuto delle opere caravaggiesche; in realtà l’opera di Caravaggio non viene rifiutata, ma è lo steso Caravaggio che decide di sostituire la prima versione della Conversione di San Paolo con una seconda versione, e lo decide dopo aver visto la pala d’altare di Annibale Carracci). Nota polemica di Baglione, che vuole specificare quanto Caravaggio fosse incapace di dipingere ad affresco, è interessante vedere che il racconto di Baglione è diverso dalla realtà, perché Caravaggio decide di sostituire la sua opera dopo aver visto la pala di Annibale, una Assunzione del 1600-1601. L’opera di Annibale è estremamente classica, molto compressa e affollata (la cappella è piccola, stretta e lunga) con la Vergine in assunzione. I colori sono forti, vivi e sgargianti e contrastano le tonalità cupe di Caravaggio. Annibale porta avanti il suo stile classicista e idealizzante, ispirandosi al classicismo di Raffaello, anche utilizzando questa sfolgorante tonalità di colori e inondando il tutto di una luce dorata che si infonde in particolare nella parte alta del quadro, in cui la Vergine viene assurta al cielo con questo gesto ampio e magniloquente delle braccia aperte della Vergine portata in gloria dagli angeli. Annibale congeda un’opera di grande impatto classicista, idealizzata. Dà un’impronta molto forte alla cappella. Nel frattempo Caravaggio, che è partito un pochino dopo, inizia a dipingere il primo dei due dipinti laterali: la conversione di San Paolo, di cui abbiamo due versioni. Vediamo le parole di Baglioni, che dice che le opere furono rifiutate dal committente, ma noi sappiamo che fu lo stesso Caravaggio a decidere di cambiare. Prima versione, sconvolgente, opera molto lombarda, di un naturalismo mai visto a Roma è del 1600-1601. La composizione è frenetica e complessa, ricca di una quantità di dettagli fuori dalla norma. Si tratta forse dell’opera più manierista, per certi versi, di Caravaggio, che ci presenta San Paolo in basso, sdraiato, caduto da cavallo per via della folgorazione sulla strada per Damasco. Indossa una corazza di cuoio che crea l’illusione della nudità. Si porta violentemente le mani agli occhi, con questo gesto umanissimo ma scioccante nella sua forza espressiva e nella sua immediatezza. L’eterno irrompe e si scaglia contro Paolo che cade a terra. Le reazioni sono di grande immediatezza: il soldato accorre stupito, il cavallo fugge nelle profondità del quadro, di esso vediamo solo le terga e poi dei rami e delle verzure si mischiano con le figure. Cristo quasi cade su Paolo, è trattenuto dall’angelo. Oggi si trova nel Palazzo Chigi Odescalchi Balbi, è di proprietà privata (i principi Odescalchi vogliono tanti soldi per farla vedere). Il fascio di luce che batte sopra San Paolo, i bagliori bruscati e la luminosità del quadro sono quasi scioccanti; il tutto sembra vivo. Caravaggio termina la sua versione e poi si reca nella cappella a vedere l’opera di Annibale, che è pacata, ponderata, classicissima nella sua essenza, e capisce che questa sua Conversione di San Paolo è troppo forte, immediata e densa di gesti e di emotività, e collide e stride accanto all’opera di Annibale. Dunque torna sui suoi passi e sostituisce il suo dipinto con la seconda versione. Vediamo come cambia completamente il tono di Caravaggio; non è certo classicista ma sicuramente è più asciutta; spariscono i tanti dettagli naturalistici e torna un Caravaggio che costruisce la scena con pochissimi elementi e con un uso sapientissimo della luce, divina, che inonda San Paolo. L’opera è diversissima dalla prima versione, per intensità e chiarezza. Si ha una maggiore compostezza, come se Caravaggio si fosse adeguato all’opera di Annibale. La luce scivola sul copro del cavallo e poi inonda il volto e il corpo di Paolo. cambia anche la posizione di Paolo: nella prima si copre il volto, impaurito, nella seconda Paolo accetta il suo destino, aprendo le mani alla redenzione al peccato, accogliendo lo spirito santo. C’è un completo passaggio anche a un livello iconografico. Caravaggio isola i personaggi sullo sfondo scuro, creando una controparte che dialoga con la Vergine di Annibale: il gesto di Paolo con le braccia aperte ricorda quello della Vergine. Il cavallo occupa gran parte della scena. Vediamo poi la Crocifissione di San Pietro, 1601, Chiesa di Santa Maria del popolo. La luce segue la linea della croce e secondo Maurizio Calvesi, storico dell’arte, mentre attorno si addensa la notte del peccato, la luce di salvezza che si irradia da Pietro illumina anche i carnefici. San Pietro crocifisso a testa in giù. San Pietro illumina i 3 carnefici. Forte contrasto tra i carnefici con i capelli transitorietà: questo Baldacchino sembra fatto per una processione, come vediamo nei drappelloni sulla parte alta. Sembra che il Baldacchino sia appena stato piantato sopra la tomba del Santo, tanto che i drappelloni sembrano ancora scossi dal vento della piazza. La chiusura è con mensolone rovesciate e ai 4 angeli ci sono degli angeli che reggono dei drappi di verde. Il tutto a grandezza monumentale. Capiamo dunque perché Bernini e i suoi ci misero quasi 10 anni. Ma il lavoro di Bernini nella crociera non termina qui. Bernini ristruttura i 4 grandi pilastroni, entro cui ricava due nicchie, una in basso e una in alto. In alto sono poste delle reliquie corrispondenti al santo sottostante. In questa figura vediamo la Sant’Elena con la croce. Bernini di queste sculture se ne lascia solo una solo per sé. La fabbrica di San Pietro sceglie altri 3 artisti per le statue: Francois Duchelma, Francesco Mochi e Andrea Bolgi (allievo di Bernini che fa la Sant’Elena). Dunque nella cornice della crociera si ha una gara tra Bernini e i suoi rivali, tranne Bolgi che è suo allievo. Bernini realizza il San Longino, soldato romano che colpisce Cristo sul costato e poi se ne pente. Longino è presentato nel momento esatto del pentimento, quando allarga le braccia e si chiede ‘’Che cosa ho fatto?’’. L’opera è in marmo bianco ed è del 1629-1638. Occupa tutto lo spazio della sua nicchia, con questo magnifico mantello che lo avvolge, creando dei viluppi di chiaro scuro che movimentano ancora di più la figura, con lo sguardo rivolto verso l’alto e questo gesto magniloquente di allargare le braccia in segno di comprensione della colpa e di accettazione della fede. Bernini lascia sulla superficie del Longino delle striature create con uno strumento dentato. Queste striature creano un ulteriore movimentazione della superficie e un gioco ancora più vibrante della luce che inonda le figure venendo dalla cupola michelangiolesca sovrastante. Polemica con Francesco Mochi, suo rivale, che presenta la Santa Veronica, che tiene il drappo posto sul volto di Cristo, e lo mostra correndo perché sopra il volto è rimasto impresso. Anche questa scultura ha suscitato polemiche, perché corre, si muove velocemente urlando all’interno della sua nicchia. La polemica di Mochi contro Bernini sta sul trattamento superficiale: Mochi lustra perfettamente tutte le superfici, con grande raffinatezza formale, a differenza di Bernini, che vuole sfruttare i giochi di luce. Mochi con un certo vanto, alla fine della redazione della sua scultura, dirà che per la sua Veronica non ci sarà bisogno di spolveratura per molti mesi, al contrario del Longino, nei cui solchi si poserà tantissima polvere. Bernini in San Pietro interviene anche negli anni 50, sotto il pontificato di Alessandro VII Chigi. Vediamo la cattedra di San Pietro, che al suono interno contiene il vero sedile del primo papa della Chiesa di Roma. Ci sono i 4 padri della chiesa che la sostengono e la portano in gloria, in questa soluzione di una gloria di angeli che si apre sulla colomba dello spirito santo. Le 4 figure sono scure e anche la cattedra, che poi giunge a un’inondazione di oro, che viene ulteriormente enfatizzato dalla vetrata di colore caldo e che inonda tutta questa magnifica struttura. Bernini è un artista multiforme, che racchiude in sé tutte le declinazioni dell’arte. È scultore, architetto, disegnatore, pittore e restauratore. I restauri sono fondamentali, perché ci fanno capire intanto come nel 600 una statua antica, per essere esposta, dovesse essere necessariamente restaurata (oggi spesso sono frammentate). L’estetica del 600 prevedeva un completamento, che non necessariamente era filologico, ma basato sull’estro dell’artista o sulle richieste del committente. Bernini è un precursore anche in questo campo, perché in tutti i restauri che fa cerca di far vedere quello che reintegra. Non è mai totalmente mimetico, lasciando al riguardante la possibilità di capire quale è il testo antico e quale è la sua integrazione. Lo vediamo bene nel restauro dell’Ares Ludovisi, del 1622, opera antica che oggi si trova al Museo di Palazzo Altemps a Roma. Questa bella figura di Ares era manchevole di vari pezzi, che Bernini restaura. Lo si vede bene nel piede, per cui Bernini utilizza un marmo più chiaro. Allo stesso modo fa con il puttino: anche il suo piede, la testa, il braccio sono invenzioni berniniane. Si crea un dialogo con l’antico senza voler nascondere la modernità dell’intervento, ma anzi enfatizzandola. La massima esplosione della modernità si vede nell’elsa della spada, che altri non è che un’invenzione squisitamente berniniana: un mascherone che ci fa una linguaccia, che chiaramente non faceva parte della scultura antica. Anche qui Bernini utilizza un marmo diverso, consentendoci di leggere il suo testo accanto al testo antico. Bernini è quindi un artista moderno, disegna anche opere diverse dalle grandi sculture. Lo potremmo chiamare ‘’designer’’, perché l’arte anche nel periodo barocco, come nel manierismo, pervade di sé tutti gli aspetti della vita: dalla tavola alla creazione di oggetti particolari, alla decorazione di una carrozza o di un’imbarcazione. Il disegno di un grande artista diventa fondamentale per ogni oggetto. Vediamo la Rosa d’Oro, dono che ogni anno si faceva al papa. Vediamo in particolare quella del 1658 di Bernini, in cui le rose fuoriescono da delle montagnole, che sono il simbolo della famiglia Chigi. È una rosa d’alta oreficeria, realizzata su disegno di Bernini dai grandi orefici del tempo. Vediamo un’altra opera disegnata da Bernini ma non realizzata da lui materialmente: l’apparato decorativo degli altari di San Pietro, per cui Bernini disegna il Cristo vivo e il Cristo morto e poi i candelabri, tutti uguali e realizzati secondo l’impronta berniniana. Il Cristo vivo di Bernini diventerà un modello imprescindibile per i crocifissi di tutto il 600. Ancora, uno specchio che Bernini disegna per la Regina di Sveza, Cristina, che tanto voleva un ritratto di Bernini, ma costava tantissimo e Cristina che aveva abdicato al regno e aveva una pensione del pontefice, non aveva abbastanza soldi. Bernini si trovava di fronte a una donna non particolarmente bella e quindi avrebbe dovuto realizzare un ritratto falsando i dati della realtà. Con eleganza e perfidia Bernini le regala uno specchio, con il tempo personificato che mostra la verità sollevando questo telo. Cristina avrebbe visto la verità specchiandosi nello specchio. Lo specchio fu realizzato in stucco da Ercole Ferrata e che per molti anni è stato in palazzo Riario alla Longara, dove abitava Cristina, e poi fu acquistato insieme a parte della collezione di Cristina dal cardinale Ottogoni, venendo reinstallato a palazzo della Cancelleria, dove poi probabilmente si è rotto ed è andato perduto. Dunque Bernini aveva messo insieme una struttura complessa e ben organizzata. Lui disegnava, imprimeva le sue idee agli oggetti e alle architetture, che poi venivano realizzate da collaboratori fidatissimi, che avevano imparato lo stile del maestro e che erano perfetti strumenti nelle sue mani. Erano specializzati in vari settori: scultori, pittori, indoratori, fonditori, argentieri… aveva all’interno della sua cerchia una tale varietà di artisti e di maestranze e di artigiani che gli consentivano di portare a termine i lavori di più varia natura. Anche apparati effimeri di gigantesche dimensioni: quando si facevano feste, carnevali o celebrazioni di eventi particolari, come in questo caso la nascita del Delfino di Francia, ci si rivolgeva a Bernini per creare questi apparati, che duravano il tempo della rappresentazione ed erano fatti dunque di materiali effimeri, come cartapesta, stucco, legno o cera. Dopo la performance venivano distrutti. Qui vediamo l’Apparato per la nascita del Delfino di Francia, un’incisione di Dominique Barriere che ora si trova a Roma. Vediamo Piazza di Spagna, molto diversa da quella di oggi perché allora non c’era la scalinata, ma c’era un declivio naturale di monti, alberi e di erba, che dalla barcaccia saliva sino alla trinità dei monti e viceversa. La soluzione della scalinata sarà settecentesca. Questo spazio viene utilizzato da Bernini per mettere in scena questo grande apparato per la nascita del Delfino. Il Delfino è al centro e 2 figure allegoriche tengono la corona del re della Francia. Giochi di nuvole, fiamme e candelabri che si alternano alla verzura del declivio stesso. Questa magnifica costruzione inventata da Bernini e incisa da Dominique Barriere per tenere memoria di questi momenti di grande spettacolo della città, viene allestita e nell’arco di un giorno viene poi distrutta dal fuoco stesso, elemento fondante della costruzione. A studiare questi apparati e le feste barocche in generale è un grande storico dell’arte, Maurizio Fagiolo dell’Arco, il quale ha raccolto tutte le incisioni e le rappresentazioni di cui si ha notizia tra 600 e 700. Dice che Bernini porta sulla scena le nuvole del cielo, le rovine crollanti, i tramonti, le fiamme e le inondazioni. Dice che la sua opera viene a collocarsi in una zona intermedia tra l’arte e la vita, nel cerchio magico del palcoscenico. Tocca un altro elemento fondamentale della poetica berniniana, ossia la teatralità, l’impostazione degli ambienti cittadini come prosceni teatrali. Questo lo si vede bene anche nell’architettura: vediamo il palazzo di Monte Citorio, un palazzo dei Ludovisi, che Bernini eredita ancora incompleto, con la facciata lasciata a metà. Bernini lo trasforma: la piazza è relativamente piccola e allora egli inventa una superficie convessa, con una parte centrale più sporgente e con le ali laterali lievemente rientranti, con un’idea di movimento quasi tondeggiante di questa facciata. Poi utilizza altri elementi importanti, come il bugnato rustico e roccioso agli angoli del palazzo, e anche le finestre sono sottolineate da questo bugnato roccioso e mosso. Sembrano pezzi di roccia inseriti nella facciata. Vediamo la Chiesa di Sant’Andrea al Quirinale, chiesa del noviziato dei gesuiti. Utilizza una pianta centrale, ellittica, che gli consente di inserire all’interno della struttura muraria, una serie di cappelle, e di giocare tutto lo spazio interno sulla luminosità estrema della luce che viene dall’altare e che inonda la navata e sull’oscurità delle cappelle. Questo taglio della pianta è per certi versi annunciato dal piccolo pronao che si ha in ingresso, con questa scalinata ed un piccolo portico anch’esso convesso. All’interno della navata si ha un profluvio di marmi colorati, con un ordine gigante di pilastri corinzi che poi diventano colonne nella parte dell’altare maggiore, dove un timpano spezzato fa emerge in gloria la figura di Sant’Andrea. Alternati nelle pareti si hanno delle piccole cappelle più scure, con un gioco continuo di inondazione di luce e di cavità oscure. Poi vediamo la volta, in cui Sant’Andrea in gloria viene portato verso il tamburo della piccola volta da cui emerge questo fiotto straordinario di luce solare. Arriviamo al nodo della cultura berniniana: Bernini è designer, scultore, architetto, orafo, pittore e fonditore; egli riunisce in sé tutte le anime dell’arte, e cerca di creare degli spazi in cui pittura, scultura, architettura ed elemento decorativo fondano un tutt’uno. Non c’è più separazione tra i vari elementi, ma tutti questi elementi vivono uno spazio unitario, in cui ogni elemento è protagonista e in cui il riguardante è parte integrante di questa visione. Per capire meglio vediamo l’invenzione della Cappella Cornaro in Santa Maria della Vittoria. La cappella è in una chiesa nel presbiterio piuttosto ristretto. Bernini inventa questa edicola all’interno del quale avviene l’evento miracoloso, ossia la trasverberazione di Santa Teresa, a cui assistono i cardinali della famiglia Cornaro su questi palchetti (teatrali) e a cui assistiamo anche noi dalla navata della chiesa. È un set teatrale perfettamente costruito. Nella parte alta vediamo una volta con un affresco, con una gloria con lo Spirito Santo; le nuvole di questo affresco sembrano colare verso lo spazio dell’architettura, che si fonde perfettamente con la pittura. Grazie all’utilizzo della luce, che fonde i 3 elementi. La cappella Cornaro è importante anche per l’interpretazione nuova che Bernina dà della trasverberazione di Santa Teresa, ossia il momento in cui la Santa riceve nel cuore la fiamma e la freccia dell’amore di Cristo. Bernini lo fa seguendo alla lettera quelle che sono le indicazioni di Teresa, che lo scrive nei suoi esercizi spirituali. Lettura parola di Teresa. La santa ci fa capire quanto la pena spirituale in realtà sia tutt’uno con un dolore fisico, che è al contempo una gioia, un godimento. Ecco perché Bernini rappresenta Teresa con la bocca aperta, in uno slancio che è stato visto come sensuale. È la stessa Teresa che ci parla di questa sensualità, di questo godimento fisico nel grande dolore che stava ricevendo in quel momento. Bernini si fa interprete corretto delle parole della Santa. Vediamo l’altro aspetto straordinario, ovvero la presenza fisica dei Cornaro, che come noi assistono a
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