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Appunti storia dell'idea di Europa e Seminario Jean Monnet, Appunti di Storia dell'Europa

Appunti lezioni di storia dell'Idea di Europa: - l'età moderna (guerra e pace, illuminismo) - l'età contemporanea (europa, nazione e socialismo) - l'europa tra le due guerre (federalismo e antifascismo) - le origini della crisi degli anni '60 - il dibattito costituzionale - la crisi di identità europea - seminario su euroscetticismo e sovranismi di destra e di sinistra

Tipologia: Appunti

2021/2022

In vendita dal 01/06/2022

ariannaflore
ariannaflore 🇮🇹

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Scarica Appunti storia dell'idea di Europa e Seminario Jean Monnet e più Appunti in PDF di Storia dell'Europa solo su Docsity! L’IDEA DI EUROPA L’Europa nell’età moderna non aveva ancora un’identità politica: ha senso anche se divisa in stati, come teorizzava anche Machiavelli, un luogo di pluralità e divisione (contrapposto all’Asia, con un potere centrato e senza libertà). L’integrazione dell’Europa ha avuto momenti altalenanti, e al giorno d’oggi è presente una crisi, per la quale l’UE, negli ultimi 20/30 anni, aveva una Costituzione europea, segno di una grande fiducia nello sviluppo dell’Unione, non un semplice insieme di stati che si uniscono insieme. Questa Costituzione è stata firmata dai rappresentanti degli stati occidentali, tranne per Francia e Olanda, i quali, per scelta propria, decidono che quel testo sarebbe dovuto essere approvato anche dai cittadini attraverso un referendum; i cittadini di entrambi quei paesi però bocciano la Costituzione (2005), e questo voto da un lato blocca il processo di costituzione dell’unione, ma dall’altro segna una sconfitta politica storica del processo di integrazione europea, aprendo una gravissima crisi e mettendo in discussione l’identità stessa dell’Unione Europea. Si parla di una crisi generale nella quale si inseriscono crisi più specifiche, come la crisi economica del 2008 o la Brexit. La crisi attuale della pandemia ha forse sbloccato una serie di iniziative che a livello europeo non erano ancora state attuate, andando così ad aiutare a limitare gli effetti di questa crisi continua, una sorta di possibile ripartenza, che potrebbe permettere alla curva dell’integrazione di ricominciare a risalire. L’IDEA DI EUROPA NEGLI STUDI STORICO-POLITICI Tra gli anni ’40 e ’50, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, si inizia a parlare della necessità di dare alla proposta politico-economica di integrazione una finalità concreta, e si creano così quelle comunità come la CECA, volte a ricostruire un’Europa unita dalle macerie della guerra, con il focus principale legato alla costruzione di un progetto europeo coincidente alla costruzione degli stati nazionali. Il primo a teorizzare un sistema del genere è stato Benedetto Croce, il quale suggerisce di diminuire gli armamenti e stabilire pace e alleanze durature, abbandonando illusioni di primati e supremazie, nel segno della concordia tra gli stati dell’Europa. Sarà poi successivamente, circa vent’anni dopo Croce, che si avvia una febbrile attività, in particolare con Federico Chabod (liberale, aperto alla possibilità che gli stati trovassero forme di integrazione ben strutturate) e Carlo Curcio (più posizionato sull’idea che gli stati nazioni sono stati indipendenti e sovrani, e devono rimanere tali), due tra i principali studiosi che dall’inizio riflettono sulle radici dell’idea di Europa, e i principali autori dei testi sulla storia dell’idea di Europa. In particolare la proposta di Chabod, di cercare le radici dell’idea di Europa, dall’antica Grecia e dal Medioevo, è rimasta ancora oggi, pur con interpretazioni diverse; partendo da Machiavelli, viene riportato l’elemento di distinzione tra Asia ed Europa per la modernità: tra Europa e Asia l’idea della necessaria molteplicità di stati si inserisce da allora nella pubblicistica, attraverso quella sua applicazione pratica che è la cosiddetta dottrina dell’equilibrio europeo, necessario per salvare l’Europa e impedire l’avvento di una monarchia universale. Quindi, politicamente divisa in tanti stati, ma legati da un continuum di rapporti, che si esprimevano in un diritto pubblico europeo. la visione di Curcio, seppur con qualche caratteristica chabodiana, era più nazionalista dell’idea di Europa: il suo interesse è meramente politico, e vede la possibilità di conciliare la fede politica fascista con il mito europeista, riscattandolo dall’astrattezza utopistica dei progettisti di paci 1 prima parte perpetue e ponendolo su un piano di maggiore concretezza. Facendo un salto di un decennio, si può constatare che questa visione non cambia, in quanto viene ripresa, seppur in un contesto differente da Saint Simon: per l’abate, infatti, l’unità europea sarebbe una conquista al pari di quella di Carlo Magno, frutto della volontà dei capi e della coscienza dei popoli, il quale potrà risolvere i problemi fondamentali degli uomini europei (problema delle frontiere, problema sociale, politico, morale, nazionale ed economico). È questo elemento di presunta concretezza della realizzabilità del progetto europeo che sta alla base del pensiero curciano; nella Conclusione afferma quale sia il nucleo centrale dell’idea di Europa, cioè l’autodeterminazione dei popoli, la nazionalità, la conquista delle libertà politiche e civili, costanti che si sviluppano all’interno di una pluripolarità dello spirito europeo. Rispetto a tali posizioni, si distingue un terzo studioso, Mario Albertini, filosofo politico, ma anche uno dei grandi leader del Movimento Federalista Europeo, che dagli anni ’40 ad oggi sostiene la necessità che l’Europa diventi una federazione vera e propria. Oltre che promotore del movimento, Albertini si è messo anche a studiare le radici dell’idea di Europa, e la sua tesi fondamentale è che l’Europa non possa nascere se prima non nascono dei forti stati nazionali, perché è inutile pensare che la federazione europea quando le nazioni sono ancora deboli, e il momento in cui l’unità europea arriva è quando gli stati hanno raggiunto la piena unità politica, in quanto emergono in modo chiaro i vantaggi e gli svantaggi della federazione. PARADIGMI STORIOGRAFICI PER L’IDEA EUROPA E METODOLOGIE PER L’INTEGRAZIONE EUROPEA Nella storia europea sono stati tre i metodi principali di integrazione europea: Metodo Confederale e Metodo Federale, e il Metodo Funzionalista dell’integrazione economica e comunitaria. Lo scopo principale dell’idea confederale, condivisa dalla maggior parte dei pensatori di Sei e Settecento, è quello di creare un’alleanza più o meno stabile tra gli stati nazionali europei, che non rinunciano alla loro sovranità, tramite trattati che istituiscono organizzazioni comuni a carattere preminentemente consultivo. Il federalismo invece si presenta come una formula più stabile e duratura tra realtà sovrane diverse, che rinunciano a parte della loro sovranità per conferirla alla federazione sovranazionale; la fondazione di una federazione europea nel secondo dopoguerra, viene vista come una priorità necessaria per intraprendere qualsiasi tipo di iniziativa politico-sociale in Europa, per evitare il ritorno a politiche rivoluzionare tra gli stati nazionali. Questi due metodi diventano chiari con la nascita degli Stati Uniti d’America: la storia americana è la storia di una colonizzazione, e attraverso la Guerra d’Indipendenza le 13 colonie britanniche si staccano dalla madrepatria. Dopo la guerra ciascuna colonia diventa uno stato indipendente, ma collaborano in alcuni ambiti, firmando tra di loro il patto della Confederazione, un Trattato con il quale gli stati americani creano un insieme di stati che restano pienamente sovrani, ma si uniscono in questa “associazione” per la quale in alcuni ambiti si impegnano a collaborare fra di loro. Il decennio di questa confederazione, tuttavia, è un periodo difficile per gli stati americani, caratterizzati da conflitti o limiti commerciali; George Washington, capo del partito federalista, propone appunto di trasformare la Confederazione in una Federazione, più forte e strutturata. Nel 1787 a Philadelphia si scrive una Costituzione, la prima nel mondo moderno, uno strumento giuridico che implica dei principi e organizza il funzionamento dell’apparato statale. La Costituzione americana da quindi vita agli Stati Uniti d’America, per i quali i 13 stati sovrani trasferiscono parte della loro sovranità alla Federazione, che la gestisce in modo indipendente dagli stati stessi. La Costituzione, quindi, decide quali compiti rimangono degli stati, e quali passano alla Federazione; la maggior parte dei diritti rimane nelle mani dei singoli stati, ma alcuni più specifici vengono trasferiti al livello federale, quali l’esercito, la moneta, il commercio, le tasse e la politica estera. La differenza tra Confederazione e Federazione è una differenza convenzionale, 2 DALL’ANTICHITÀ AL MEDIOEVO: EUROPA, IMPERO, RESPUBLICA Si inizia a parlare di Europa già nella mitologia greca. Si tratta infatti di Europa, una giovane ragazza rapita da Zeus trasformato in toro, e dalla loro unione nasce la dinastia cretese o minoica. Spostandosi invece verso le fonti greche, la parola Europa indica non il continente come lo conosciamo noi oggi, ma indicava quella che indichiamo come Grecia. Con il passare del tempo questa zona si è espansa sempre di più, partendo dal Sud-Est del Mediterraneo, spostandosi verso Nord, quindi verso i Balcani e verso l’Occidente. Con la fine dell’età classica greca, e l’inizio dell’età romana, questa parola continua ad estendere la sua influenza, in quanto proprio la storia romana è una storia di grande espansione, fino ad arrivare all’Europa centrale, quindi Francia, Germania e la Britannia. Oltre ai confini geografici, l’Europa culturale è altrettanto diversa da quella odierna. Quando i greci usavano la parola Europa, non identificavano solo un territorio, ma gli attribuivano anche delle caratteristiche e dei valori culturali, indicando quel territorio come loro stessi. A ciò attribuivano i valori che per noi sono alla base della cultura politica e filosofica occidentale, come la ragione, la razionalità, la libertà, il diritto, la democrazia (che nasce proprio dai greci); lo fanno per distinguersi dai non europei, in particolare gli asiatici, gli orientali, che per i greci sono il loro esatto opposto, quindi il popolo che crede nel dispotismo, nella oppressione, nella differenza ingiusta, nella schiavitù. L’idea di Europa nasce proprio per concettualizzare questa distinzione tra i greci, che credono in valori positivi, e gli asiatici, che invece sono barbari e credono nell’opposto. L’idea dell’opposizione Europa-Asia è una situazione che per una lunga parte della storia si perde, precisamente quando incominciano a nascere nel Mediterraneo delle forme di organizzazione politica diverse dalle città-stato greche; ad esempio l’Impero romano diventa talmente grande che al suo interno comprende sia territori che stavano dentro l’Europa dei greci, ma anche territori esterni, come la Mesopotamia, e quest’area talmente grande rende più difficile la distinzione tra l’oriente e l’occidente greci. Con la religione cristiana poi, si cerca di convincere altre genti a diventare cristiani, e la distinzione europei e non europei scompare definitivamente, in quanto si è tutti cristiani. Tutte quelle esperienze storiche di tipo universalistico non sono adatte a tenere in vita la distinzione Ovest contro Est, e per questo l’idea di Europa come la pensavano i greci non esiste più, ma esiste questa grande bolla caratterizzata dal cristianesimo; anche se cambiano gli equilibri politici, infatti l’elemento unificante rimarrà il cristianesimo, che essendo universalistico, rende molto più complicato il dibattito europeo. La parola Europa viene usata lo stesso, ma perde quel significato politico che le veniva attribuito in precedenza dai greci: nel Medioevo, infatti, non si parla semplicemente di Europa, ma di un qualcosa di più qualificato, un impero universale, una cristianità, una respublica christiana, nella quale i confini geografici sono quasi sempre oscillanti e incerti. 5 1 L’ETÀ MODERNA: EUROPA E PACE Questa fase di eclissi, tra Seicento e Settecento, finisce nel momento in cui lo stesso cristianesimo viene messo in discussione, precisamente con Umanesimo e Rinascimento, con le quali al posto di Dio l’uomo viene messo al centro della società, quando l’identità di Europa si consolida definitivamente nei caratteri di civiltà e di cultura laica. Più cresce l’ambizione dell’uomo a dire la sua nel mondo, e a costruire una società a misura dell’uomo senza doversi confrontare continuamente con la versione del Vangelo, più torna in primo piano nuovamente la concezione di Europa come l’avevano pensata i greci, cioè con una cultura più progredita e virtuosa, l’Europa appunto, mentre l’Asia è l’opposto. In particolare, Machiavelli, grande umanista, costruisce l’idea di Europa come luogo della libertà contro l’Asia, luogo di dispotismo e oppressione. Per argomentare questa sua tesi sottolinea la divisione dell’Europa in stati indipendenti e autonomi, nei quali ciascuno stato sceglie la forma del suo governo e di cosa farne del suo popolo; in Asia invece abbiamo i grandi imperi, e la ricchezza dell’Europa sta proprio nel fatto di essere divisa. Questa profonda frammentazione dell’Europa però comporta anche dei rischi, in quanto più stati indipendenti si hanno, più aumenta la probabilità di trovare dei conflitti, e per questo Machiavelli, consapevole di ciò, propone una soluzione: non si può risolvere radicalmente il problema della guerra europea, perché si dovrebbe costruire un Impero tra tutti gli stati (elemento che distingue l’Europa dall’Asia), ma difendendo le proprie particolarità si deve ragionare in termini di EQUILIBRIO DELLE POTENZE, che quindi, pur rimanendo separati si trovino in situazioni equilibrate, e non si faranno la guerra in quanto non saranno sicuri di poterle vincere (realismo). Nella visione di Machiavelli ci sono una serie di implicazioni ancora riscontrabili nell’Europa moderna, in quanto ciascun stato può decidere liberamente del proprio destino, e unirli in una comunità si limitano le loro potenze, si violano i diritti di comunità che vogliono essere autonome, accentuando così il pluralismo. Questa fase rinascimentale viene ulteriormente caratterizzata dalla Riforma protestante (con le varianti cattoliche), e la scoperta dell’America, che dilata ulteriormente il mondo, cambiando così il ruolo dell’Europa. TRA UTOPIA E UMANESIMO: DA ERASMO A CRUCÈ L’Europa è un luogo di avanzamento culturale, di pluralismo, soprattutto se comparata all’arretratezza e all’autoritarismo dell’Asia. È divisa in stati, nei quali ciascun popolo può autodeterminarsi, è libero di fare ciò che vuole del proprio destino, cosa che invece non avviene appunto in Asia; la probabilità di guerra aumenta con l’aumentare del numero di attori che possono entrare in contrasto, e per questo Machiavelli studiava una possibile soluzione da adottare per ridurre queste probabilità, come l’equilibrio fra potenze, il reagire razionale degli stati in base ad un calcolo di vantaggi e svantaggi, il REALISMO. Secondo lui quindi l’Europa è un paese vivace e libero proprio grazie a questo equilibrio di potenze, nella quale però si sono susseguite continuamente grandi e piccole guerre. Questo suggerisce ad alcuni scrittori, politici e filosofi, riflessioni molto più preoccupate di quelle di Machiavelli, e alcuni di questi pensano che l’Europa sia un luogo in cui la civiltà sia soltanto apparente, e sotto possiamo trovare la barbaria. Pensatori come Tommaso Moro o Erasmo da Rotterdam, pensano ad una soluzione alternativa a quella della guerra permanente, in quanto l’Europa da sola non riuscirebbe a sopravvivere. Oltre al filone 6 2 Machiavelliano, si apre un filone negli stessi anni, quando Moro scrive “Utopia” ed Erasmo “Il lamento della pace”, nei quali la realtà europea che si conosce non va bene, e cercano perciò di trovarne un’altra, senza porsi il problema che sia applicabile o no. I due pensatori, tuttavia, sono molto diversi tra loro, in particolare Utopia era sostanzialmente separata da tutto il mondo, come se non esistesse, e viveva di autosufficienza. Erasmo era invece un dotto, consigliere di un sovrano, Carlo di Borgogna, diventato poi Carlo V. Erasmo viene coinvolto in un’operazione politica, cioè evitare un conflitto con il Papa e altri stati dell’Europa contemporanea, in quanto Carlo V non voleva partecipare ad una guerra; nel 1517 scrive così un testo, “Il lamento della pace”, nel quale scrive che l’idea stessa della guerra è inaccettabile da un punto di vista morale, in particolare dal punto di vista cristiano orientato verso la fratellanza universale; infatti, proprio la guerra, mette uomini contro uomini, e i cristiani tra di loro non devono combattersi, ma devono chiarire pacificamente le proprie discussioni. La colpa in questi casi è dei detentori del potere (re e principi), e dei loro consiglieri, in quanto sono loro che decidono, mentre i cavalieri sono destinati a combattere non per scelta propria; infatti, i sovrani compivano tali scelte per puri interessi dinastici, economici, di prestigio, tutte questioni che non c’entrano nulla con la vita umana specialmente del popolo, ma strettamente legate alla vita di corte. Il titolo dell’opera si spiega con il fatto che l’opera stessa è scritta mettendosi nei panni della pace, personificata, che parla e denuncia la situazione in cui l’Europa si trova nel Cinquecento, ignorando i valori fondamentali e le conseguenze che questo produce sulla gente: è una denuncia a 360° della guerra, una presa di posizione completa e opposta a quella di Machiavelli. Erasmo aggiunge però un argomento più pragmatico, ossia il fatto che la guerra va limitata e contrastata anche per ragioni pratiche, perché non porta vantaggi a nessuno, chi perde ma anche chi vince, in quanto anche loro subiscono perdite umane ed economiche. In questo senso, il carattere illusorio della guerra, che porta vantaggi a chi la vince, scomparirà per un periodo, ritornando però in tempi più vicini a noi. L’impatto di questo testo nel ‘500 però è poco significativo, oscurato dalle tesi protestanti di Lutero, diventando così un fattore di conflitto politico, ma il suo pensiero riemergerà successivamente quando si presenteranno le condizioni per quali si potrà parlare di pace in Europa. Per imbattersi in compiuti progetti pacifisti dobbiamo introdurre un pensatore francese, Emeric Crucè, il quale propone una visione che ha dei punti di assonanza con Erasmo, nonostante sia collocato quasi un secolo dopo. La sua opera principale “La nuova Cinea”, del 1623, tratta di Cinea, un consigliere politico, il quale aveva cercato di sconsigliare un sovrano a fare la guerra, che poi avrebbe perso, per sottolineare che vuole svolgere nel ‘600 lo stesso ruolo di quel consigliere, consigliando, appunto, di non fare la guerra. La più grande differenza con Erasmo sta nell’approccio; se per il primo si trattava di un approccio morale, quello di Crucè era più che altro un approccio politico, una proposta più pratica, cioè di riorganizzare l’Europa, attraverso la creazione a Venezia (città strategica e simbolica) una sorta di assemblea in cui tutti gli stati europei inviassero i propri ambasciatori. Il processo di pacificazione però non si poteva compiere soltanto con gli stati europei, ma a questa assemblea dovevano essere ammessi anche stati extra europei, come la Turchia o la Cina. Nella visione di Crucè, inoltre, gli stati avrebbero partecipato a questa assemblea seguendo un modello gerarchico, con degli stati più importanti, come la Francia, e con stati più marginali, secondo l’idea di potenze che vedano riconosciuto il proprio status (elemento moderno), e stati con meno diritti, come l’Inghilterra. Altro punto importante di Crucè è che tutto questo discorso sulla pace e sulla creazione dell’assemblea, è funzionale anche a fare in modo che in Europa possa avvenire in modo più sicuro lo spostamento e la circolazione dei mercanti: tra i vantaggi di questa situazione di pace, coloro che si occupano del commercio, possono spostarsi più facilmente da un paese europeo all’altro. Il problema principale dell’Europa moderna è quello della guerra, sia perché aumentano di grandezza e distruttività, sia perché cambia il codice morale, 7 questa società permanente dei sovrani cristiani europei. Si tratta della DOMESTIC ANALOGY (in termini moderni), cioè adoperare a livello internazionale cioè che solitamente viene utilizzato sul piano nazionale interno. Ciò, ovviamente, può essere realizzato attraverso la stipula di un contratto, con il quale i sovrani accettano l’ingresso in questa comunità europea, rinunciando a parte dei loro diritti (ed è per questo che lo propone attraverso la forma del trattato). Tutto però accade a livello dei sovrani, che devono accordarsi autonomamente per dividere il potere, senza consultare la popolazione. Nel trattato si sancisce il divieto di ricorso alle armi, in favore di un metodo di conciliazione attraverso la mediazione dei grandi alleati nell’Assemblea generale; viene inoltre previsto un congresso o senato perpetuo che regoleranno gli affari necessari e importanti per l’alleanza. Questa unione deve garantire la pace perpetua, ma cosa deve fare per garantire la sicurezza della società? Quando emerge una controversia tra due stati, questa deve essere risolta, non tra i due stati che si fanno la guerra, ma attraverso il diritto, un organo comune che prende una decisione giuridica alla quale gli stati si adeguano. Nel momento in cui però si verifica una problematica del genere, la parte “sconfitta” potrebbe non accettare la decisione a lei sfavorevole, e quindi nel caso di questi stati insubordinati tutti gli stati devono unirsi militarmente per reprimerlo. Trovare delle soluzioni per realizzare una società del genere è molto difficile, in quanto nell’Europa del Settecento non c’erano ancora gli elementi essenziali (libertà e prerogative). I progetti dei vari pensatori con il tempo diventano sempre più organizzati e precisi, ma tutti continuano a scontrarsi con il problema storico e politico che gli stati non hanno intenzione di imbarcarsi in questo tipo di avventure, in quanto la sovranità degli stati non è mai stata messa in discussione, è uno degli elementi portanti dello stato stesso; sono progetti che restano sulla carta. L’IDEA DI EUROPA NELL’ETÀ DEI LUMI Uno dei principali oppositori di Saint-Pierre è stato Rousseau, fautore della democrazia diretta. Quello che critica al progetto dell’abate francese è molto esplicativo della percezione che gli intellettuali dell’epoca avevano su progetti come questo: - Secondo Rousseau si trattava di un progetto velleitario, un progetto forte ma senza le condizioni necessarie per essere realizzato, in quanto era del tutto irragionevole che i sovrani europei possano accettare di buon grado la decurtazione di taluni poteri per un fatto che un chierico l’abbia teorizzato; - Inoltre, il progetto mette in discussione uno dei grandi principi che l’età rinascimentale aveva recuperato sull’unione dell’Europa, cioè mette in discussione l’autonomia delle varie parti che compongono l’Europa stessa, la loro naturale specificità. L’Europa è infatti composta da popoli diversi, da stati diversi che vogliono rimanere tali. La FORZA CENTRIPETA che vuole far integrare gli stati durante i periodi di guerra, si scontra con la FORZA CENTRIFUGA, secondo la quale gli europei si riconoscono nella civiltà Europea proprio perché è una civiltà plurale. Autori come Saint-Pierre danno molta importanza alla prima forza, e rischiano di dimenticarsi della seconda. Con Rousseau emerge quindi l’opposizione tra l’integrazione e l’autonomia delle parti, tema condiviso anche da Montesquieu, nella prima metà del Settecento. Anche se come fase storica l’Illuminismo appartiene a qualche decennio dopo, Montesquieu può essere collegato al discorso illuministico, al livello politico, giuridico e filosofico. Primo pensatore a teorizzare la separazione dei tre poteri, è colui che ha anche teorizzato, ne “Lo spirito delle leggi”, l’idea che le leggi non sono universali, non c’è un modello che vada bene per tutti, perché devono rispecchiare le peculiarità di ciascun popolo e di ciascun territorio. Nei grandi imperi asiatici troveremo, ad esempio, il dispotismo, che suscita paura; in Europa invece troveremo la Repubblica, nelle città 10 minori, e la Monarchia, nelle quali regnano onore e virtù. Torna così la distinzione greca e rinascimentale tra Europa e Asia, che diventa una questione politica e non solo più culturale. Questa contrapposizione viene sviluppata in due opere mature di Montesquieu: “Lo spirito delle leggi” del 1748 e “Le riflessioni sulla monarchia universale in Europa” del 1734. La seconda si interroga sul fatto che sia opportuno o inopportuno che in Europa nasca una monarchia universale: porterebbe però alla nascita di un grande dispotismo, unendo insieme i vari stati e trasformandosi in una nuova Asia, governata quindi anch’essa con la paura. La risposta di Montesquieu è quindi completamente contraria all’imposizione di una monarchia universale in Europa: il dinamismo europeo, infatti, fa si che la distribuzione della ricchezza e quindi i rapporti di forza fra gli stati mutino rapidamente. Nelle sue opere non si troveranno progetti di integrazione europea, attraverso i quali si potrebbe trasformare in uno stato asiatico e dispotico, ma i popoli devono rimanere il più possibile autonomi e separati, che siano Repubbliche o Monarchie. Lui però era consapevole del fatto che le Repubbliche, specialmente quelle aristocratiche, essendo piccole e deboli nei loro rapporti con l’esterno, rischiano di essere inglobati con stati medi ma forti, che possono decidere di invaderle. Propone così, pur escludendo l’ipotesi che si arrivi ad una integrazione complessiva dell’Europa, che è assolutamente possibile e incentivabile che piccoli frammenti di Repubbliche, per difendere la loro esistenza, decidano di unirsi fra di loro, creando ciò che Montesquieu chiama REPUBBLICA FEDERATIVA. Si tratta di un processo di aggregazione volontaria, non imposta da qualcuno, che avrebbe il pregio di garantire un minimo di forza a popoli più deboli, senza compromettere la loro autonomia: l’Europa non è altro che una nazione composta da parecchie nazioni. Sotto gli occhi di Montesquieu l’Europa è quindi attraversa da forze centrifughe e centripete: da un lato, le nazioni conservano gelosamente la propria autonomia opponendosi ai tentativi di coatta omologazione politico-militare, dall’altro avvertono un idem sentire che travalica i loro confini formali. Prima di arrivare a questa teorizzazione, il tema dell’identità europea (cos’è l’Europa e in cosa si distingue dall’Asia), compare nell’opera “Le lettere persiane”: si tratta di un’opera letteraria, pubblicata nel 1721, nella quale due viaggiatori turchi compiono un viaggio in Europa, e scrivono delle lettere ai loro amici in Turchia, parte del mondo asiatico. In queste lettere emerge la bellezza dell’Europa rispetto alla società dalla quale provengono, in modo che emerga, attraverso i loro dialoghi, quanto Montesquieu considera l’Europa avanzata, con valori positivi rispetto a quelli negativi asiatici. La distinzione tra i due mondi aumenta maggiormente, democrazia e avanzamento da un lato, e dispotismo e arretratezza dall’altro, differenze non solo culturali e letterarie, ma anche politiche. L’ILLUMINISMO, in particolare, è una rivoluzione filosofica e culturale, la quale mira a mettere al centro del sistema di pensiero la ragione, che sostituisce la religione; mettono in discussione la vita, che deve essere messa continuamente in discussione con la ragione, e per questo bisogna sviluppare il pensiero critico, tutto va valutato razionalmente. Alcune considerazioni di Voltaire sull’Europa risentono proprio di questa impostazione; l’Europa che si è conosciuta nei secoli passati, vista come una zona del mondo più civilizzata di altre, deve comunque essere vista attraverso un occhio più critico e razionale. Sicuramente è avanzata, ma nelle altre parti del mondo, come il confucianesimo in Cina, se messo a paragone con l’Europa cristiana, è sicuramente più avanzato della seconda: bisogna studiare la storia europea, senza dare per scontato che sia il luogo più avanzato del mondo, anche perché la religione cristiana in alcuni casi è un ostacolo al progresso. Se si vuole che le potenzialità si esprimano completamente, bisogna iniziare ad uscire dal cristianesimo, recuperando anche altre idee di Europa che hanno preceduto quella cristiana, come quella greca o quella romana, elementi non totalmente scomparsi, ma che in alcune loro parti sono stati messi in disparte dal cristianesimo, che rimane comunque solo un pezzo della 11 storia europea e non è la sua totalità. Quello che l’Illuminismo e Voltaire dicono, e quindi quello di superare il cristianesimo, in parte riuscito, ma in gran parte no. Quello che per Voltaire deve essere l’Europa, è un luogo in cui i dotti dei vari paesi possano interagire e dialogare, per favorire l’avanzamento culturale e tecnologico dell’intero continente, senza limiti dettati dalla religione cristiana. Dal punto di vista politico questa concezione ci dice poco, ma è ricca di significato a livello culturale. Kant è un illuminista, la cui opera di riferimento è “Per la pace perpetua” del 1795. Ha assistito all’avvento dell’illuminismo, alla Rivoluzione francese (era vicino all’ala liberal moderata); ha coniato l’espressione “Stato di diritto”. Il periodo successivo alla Rivoluzione francese, è un periodo di guerra, perché le monarchie antiche europee considerano necessario combattere la Francia per reprimere l’eventuale insorgere di fermenti rivoluzionari analoghi a quello francese nei loro paesi. Nel 1794 le potenze che hanno partecipato alla guerra stipulano la Pace di Basilea, esempio pragmatico di un accordo precario inadeguato a scongiurare nuovi conflitti; per Kant i trattati di pace sono una soluzione provvisoria, pongono fine a una fase conflittuale, ma non hanno implicazioni definitive per il futuro. La natura, infatti, attraverso le diversità linguistiche e culturali, accentua maggiormente anche la diversità politica, spingendo i vari stati a imporre il proprio dominio sugli altri. Il compito dell’intellettuale è di trovare delle soluzioni stabili alla guerra come fenomeno nel suo insieme, al fine di creare una pace perpetua. Kant non cita l’Europa nel suo testo, poiché è scontato che si riferisca ad essa, riscontrabile nella convinzione che l’Europa costituisca, da un lato, l’apice del sapere umano, dall’altro, il luogo in cui la ragione si esplica pienamente anche in ambito politico, favorendo la nascita dei regimi costituzionali. Pacificando l’Europa, si pacifica il mondo (saranno poi i post-colonial studies nel Novecento ad affermare che andava recuperato un qualche ruolo alle economie e società dei luoghi precoloniali ed è in questo contesto che è stato elaborato il termine eurocentrismo). La spina dorsale del progetto di Kant è composta da nove articoli, sei provvisori e tre definitivi, il cui rispetto comporterebbe l’impossibilità della guerra e l’avvento della pace definitiva. Kant usa il termine “articoli” perché la disciplina posta alla base della sua opera è il diritto: era, infatti, fortemente convinto del fatto che la pace era raggiungibile tramite strumenti giuridici, e per questo andavano convinti gli Stati a sottoscrivere tali articoli. In questo non si discosta dall’orientamento della cultura pacifista europea tra Settecento e Ottocento, basato su una grande impronta giuridica.  ARTICOLI PRELIMINARI. Sono una serie di azioni adottabili nel breve periodo, e riguardano la decadenza dei trattati redatti con l’intenzione nascosta di darne in un futuro un’interpretazione funzionale alla guerra, cosicché tutti gli Stati siano a conoscenza dei diversi schieramenti e delle forze in campo (in questo modo, sarebbe improbabile l’attacco a uno Stato, sapendo che quello è protetto da un altro), riduzione del numero generale di armamenti e l’abolizione dell’uso dello spionaggio, cioè il rispetto di una sorta di codice d’onore nel corso della guerra.  ARTICOLI DEFINITIVI. Riguardano una serie di azioni che richiedono modifiche fondamentali all’ordine europeo in senso pacifico. Il primo dei tre articoli definitivi riguarda il modello di Stato, il secondo riguarda il modo in cui gli Stati interagiscono tra loro, il terzo riguarda il rapporto tra gli Stati e gli individui che provengono da altri Stati. o 1° articolo : la costituzione civile di ogni Stato deve essere repubblicana. Per Kant il repubblicanesimo non implica l’opposizione alla monarchia, bensì delinea un modello di Stato in cui ci siano la divisione dei poteri, la rappresentanza politica, la 12 L’ETÀ CONTEMPORANEA: EUROPA, NAZIONE, SOCIALISMO Tra gli eventi storici che caratterizzarono a definire in senso federale l’idea di Europa nel Settecento, possiamo trovare la Rivoluzione americana e quella francese, collegate fra loro dall’azione di diversi personaggi; con la sconfitta napoleonica, però, nei primi anni dell’Ottocento inizia a porsi con singolare forza il motivo dell’unità europea. Autore pienamente Ottocentesco, è un pensatore francese, Claude Henry de Saint-Simon, il quale viene collocato alle radici del pensiero pre-marxista e progressista, precursore del pensiero socialista. È una figura che risente dell’impianto razionale dell’Illuminismo; rispetto agli illuministi delle origini, inoltre, Saint-Simon era consapevole degli effetti della prima rivoluzione industriale, che sta cominciando a trasformare almeno alcune delle società europee, come l’Inghilterra e la Francia. L’elemento della nazione, combinato al fatto che la società sta cambiando, sono le basi della filosofia di Saint Simon, che si può riassumere nel POSITIVISMO, l’idea che il progresso debba trasformare la società, sempre verso il meglio. Si ha una fiducia nel progresso, che aiuterà l’essere umano a vivere meglio. I detentori del potere, in tutta Europa, devono fare in modo di agevolare di questa scelta tecnologica e scientifica del progresso, realizzando progresso, sviluppo tecnologico accompagnato proprio dagli uomini al governo. Ma chi è che deve governare? Non devono essere gli stessi sovrani del passato, reduci di un mondo che non esiste più, ma devono essere sostituiti dai tecnici, esperti dei settori del mondo contemporaneo come l’economia, le scienze sociali, l’ingegneria, la fisica. Sono cioè i produttori, gli industriali, coloro che contribuiscono attivamente alla produzione. Sono coloro che facilitano il progresso, e pertanto bisogna confidare a loro il potere Politico: essi perseguono anche il fine della creazione della ricchezza e dell’ottimizzazione della gestione della società. Se però diamo il potere a queste persone, avremmo un’Europa industrializzata e molto avanzata, trasformandola nel continente egemone, ma dovrà essere anche un’Europa unita, integrata, cioè uno sviluppo sia economico ma anche politico che porti all’unità Europea; non è un processo automatico, per il quale tutti gli stati europei siano sviluppati al punto di entrare in questo processo di unità, e nell’immediato si potrà partire dall’unione di Francia e Inghilterra, i più sviluppati, creando un Parlamento franco-inglese, il quale si espanderà con l’ingresso degli altri stati, a partire dalla Germania. Questo suo pensiero lo inserisce in “Riorganizzazione della società europea”, nella quale però non spiega come trasferire gli stati degli Stati Uniti, a quelli più forti e compatti europei, senza quindi una soluzione per l’unione dell’Europa. Queste idee positive superano le distinzioni politiche, anche se naturalmente 15 3 l’esistenza di un sistema liberal-parlamentare rappresenta una condizione imprescindibile, in quanto non è possibile legare assieme stati assolutistici e stati costituzional liberali. Noto promotore del sansimonismo è stato Lemonnier, il quale lotta per la pace in Europa, attraverso congressi, petizioni, assemblee, quindi in prima persona, mettendo in connessione gruppi sociali diversi. Accanto alla scrittura dei testi, come la Conferenza de “Gli Stati Uniti d’Europa” (1872), si impegna anche sul piano pratico, come animatore culturale e politico del MOVIMENTO PACIFISTA. Ci troviamo nel momento finale dell’unificazione della Germania, con la guerra con la Francia, vinta dai tedeschi, mentre in Francia crolla il regno di Napoleone III e la nascita della Terza Repubblica francese. Una guerra sanguinosa, e il sentimento di rivincita che viene alimentato dai suoi connazionali in quei decenni, non viene condiviso la Lemonnier, secondo il quale bisogna mettersi nell’ottica di evitare che accada un’altra guerra franco-prussiana, creare una pace stabile tra i due stati. Nella sua opera, Lemonnier dimostra di aver capito cosa hanno fatto gli americani con gli Stati Uniti d’America:  La sua idea è un’Europa federale, con un’unica puntualizzazione, ossia che il modello può essere quello americano, oppure, viste le evidenti differenze tra i due mondi, si potrebbe considerare di modificare il modello alla luce del federalismo svizzero. L’attuale Svizzera è una federazione a tutti gli effetti (con una capitale, un governo federale, ma poteri locali che sono a loro volta detentori di sovranità), equilibrio raggiunto nel 1848-49, pur mantenendo il nome di Confederazione Elvetica. Entrambi questi due modelli possono essere come fonte di ispirazione per la nascita degli Stati Uniti d’Europa, inoltre la Svizzera è una sorta di piccola Europa, perché anch’essa è composta da tante parti diverse tra loro, che hanno trovato un equilibrio che salda la loro unione. o Per provarci anche in Europa, Lemonnier crede che la politica sia un luogo nel quale devono intervenire i popoli, e non i re, i governi. o Ci troviamo in periodo in cui l’idea di Repubblica è più vicina alla nostra, il luogo di azione dei popoli; occorre infatti che gli stati europei raggiungano un’adeguata omogeneità repubblicana dei loro ordinamenti. o Ultimo punto, il tempo, in quanto è un progetto complesso che va preparato, lavorando sulle coscienze e sulla cultura dei popoli; se il popolo ha un ruolo attivo in politica, si devono creare le condizioni per farli inserire all’interno del dibattito. I repubblicani devono convincere le masse a lottare per i loro ideali, e per fare ciò bisogna preparare le persone attraverso la propaganda, il discorso pubblico, in cui dobbiamo convincere le persone che la pace è meglio della guerra, che un’Europa federale è meglio di quei sentimenti nazionalisti che generano guerre. L’idea di pace, Europa, democrazia, cominciano ad avere un ruolo importante nel dibattito politico, ma tutte vengono sconfitte, in quanto prevalgono le divisioni nazionali, modelli politici autoritari; queste idee troveranno una applicazione soltanto decenni più tardi, a seguito di una profonda rivoluzione morale delle coscienze. NAZIONE ED EUROPA NEL “LUNGO RISORGIMENTO” Nell’Ottocento, caratteristico dello sfondo politico dell’Europa, è stato il RISORGIMENTO. Troviamo una serie di figure importanti in quel periodo, alcune delle quali che hanno concretamente aiutato a dare vita al Regno d’Italia nel 1861, come Cavour o Garibaldi, oppure figure come Mazzini, le quali invece sono importanti a livello filosofico, delle idee. Il Risorgimento comprende un arco temporale molto vasto, partendo dalle Guerra di Indipendenza (1848, 1859, 1860, inglobando persino la Prima guerra mondiale, considerata una sorta di Quarta guerra d’indipendenza), ma più in generale una fase non limitata solo a questi anni, di nascita dello stato italiano, ma una stagione 16 che ha le radici molto più indietro nel tempo, anche dal secolo prima, e che porta i suoi effetti anche nei secoli successivi (secondo alcuni addirittura fino al Fascismo). È stato il francese Pécout a coniare il termine LUNGO RISORGIMENTO, in quanto ci sono una serie di eventi antecedenti la restaurazione, tra i quali l’invasione di Napoleone o la formazione delle Repubbliche italiane, che hanno effetti a lungo termine; inoltre, si tratta di un periodo in cui matura la consapevolezza della liberazione del territorio italiano, che si sommano con le idee di unificazione. Il nemico tipico che viene identificato è l’Austria, potenza occupante della penisola italiana, specialmente al Nord, insieme alla posizione ambigua della Francia, altra potenza che ha sfruttato il suo potere a discapito degli stati italiani. Nonostante ciò, grazie alla permanenza francese e soprattutto con la Rivoluzione francese, si trasmette anche in Italia il tema della nazione unita, e questo vuol dire cacciare l’occupante. L’Italia che si forma e che viene proclamata nel 1861, non è ancora quella definitiva: manca il Veneto (conquistato con la Terza guerra di Indipendenza negli anni ’60), manca Roma (conquistata nel 1870 con la caduta del supporto francese al Papa, in seguito alla guerra franco-prussiana, vinta dalla Prussia), mancano Treno e Trieste (ancora parte dell’Impero asburgico, il quale non riconosce le minoranze italiane, portando alla nascita dei movimenti irredentisti, che vogliono portare al riconoscimento da parte dell’Italia dei territori non ancora conquistati). La nazione italiana come idea non ha ancora trovato realizzazione negli anni ’60, ma progetti e strategie per completare l’unificazione si presenteranno concretamente più avanti; allo stesso modo, anche la concezione di un popolo italiano si realizzerà con il tempo (Cavour “fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”). Questo perché l’Italia è diventata uno stato nazionale, nell’arco di alcuni decenni, sulla base del Regno Sabaudo, modellato sul Piemonte. Il Risorgimento per alcuni aveva dei progetti politici mirati esclusivamente all’unità nazionale, mentre per altri no. Tra questi troviamo Mazzini, la cui visione si basava su un’Italia repubblicana e democratica, idea sconfitta poi nel Risorgimento; pensatori con le idee opposte era Cavour, il quale si avvicinava alle teorie liberali, che si riconosceva nelle radici che venivano dalla Rivoluzione francese (liberalismo moderato) e dal liberalismo inglese. Il Risorgimento è stata anche una grande stagione di trasformazioni economiche e sociali del paese: corrispondono a questi periodo grandi riforme, come quelle sulla rete ferroviaria, primi esempi di Welfare State (seppur meno progressista) come le assicurazioni contro gli infortuni. Ad un primo livello, il Risorgimento è importante per l’idea di Europa, la storia d’Italia si è inserita all’interno del dibattito europeo, specialmente grazie a Cavour, il quale aveva capito che la strategia del Piemonte doveva inserirsi in un’ottica europea (il Piemonte ha partecipato alla guerra di Crimea non perché avesse degli interessi dirette, ma l’obiettivo era partecipare alle trattative di pace alla fine del conflitto, per poter ottenere dei vantaggi a livello dei territori). Il secondo motivo è il fatto che l’unificazione italiana non fosse l’obiettivo finale del Risorgimento, ma il fatto che questo potesse dirsi completo con l’inserimento dell’unificazione dell’Italia nel quadro politico e diplomatico Europeo; il mondo non finisce con i confini dell’Italia, c’è tutta un’altra parte di mondo con la quale bisognerà lavorare al fine che l’Italia appena nata viva in pace con gli altri stati nazione. Mazzini, Garibaldi e Cattaneo sono tre figure eterodosse del Risorgimento; il filone principale di questa corrente infatti è stato quello di Cavour, e anche il ceto politico che ha caratterizzato quegli anni è stato il filone liberale moderato. Tutti e tre sono degli outsider rispetto a questa visione: - Mazzini aveva idee completamente opposte, condivideva solo l’idea di un’unificazione dell’Italia, ma attraverso idee più democratiche, repubblicane, rivoluzionario, perseguitato 17 Mazzini, il fatto che gli stati sovrani europei, rischiano comunque la guerra, un rischio che potenzialmente è sempre li. Se questo è il problema, la logica soluzione è la creazione di un’istituzione internazionale (o di molteplici istituzioni) che abbia la forza di risolvere i conflitti, questo all’interno di una Federazione, la quale abbia un potere forte. Cattaneo è quindi promotore di una visione federale dell’Europa, che deve vincere la vecchia idea dell’equilibrio delle potenze, per avere delle garanzie stabili della pace. Il federalismo per Cattaneo ha due volti: federalismo interno, per difendere la libertà delle identità locali, e un volto europeo, per garantire la pace. Il punto di arrivo rispetto a Mazzini è quindi completamente opposto, in quanto per quest’ultimo il fine è la creazione di una Confederazione europea di stati che vivono in pace tra di loro, mentre Cattaneo è più scettico riguardo alla pace duratura, ed è necessario un qualcosa di superiore per mantenere i rapporti tra gli stati il più possibile pacifici. Garibaldi invece ha influenze sia dal pensiero di Mazzini e Cattaneo, ma inoltre anche di tipo saintsimoniano, di tipo protosocialista. Mentre si trovava a Napoli nel 1860, scrive un breve memorandum alle potenze europee, scritto come se fosse indirizzato ai grandi potenti dell’Europa dell’epoca; dice che occorre abbandonare l’dea che l’Europa sia governata dai vecchi stati potenza, consapevoli di stare all’interno di un sistema anarchico, con la preoccupazione principale di difendersi a livello militare. Vede nella potenza militare la sua ancora di salvezza, in quanto la logica dello stato potenza risucchia tutti gli stati nella continua ricerca degli armamenti e della continua diffidenza nei confronti con gli latri stati. Per spezzare questa idea bisogna costruire uno STATO EUROPEO, per uscire dallo stato di anarchia, anche perché i finanziamenti utilizzati a livello militare, sono soldi sottratti per lo sviluppo economico e sociale; dotata dall’insieme della potenza deli stati riuniti, allora l’Europa diventerà la sovrana del mondo, senza più timori per la propria sicurezza. Garibaldi applica questo sistema a tutto il mondo, oltre i confini europei, perché il discorso sulla pace e sulla costruzione di istituzioni comuni dovrà essere fatto a livello internazionale, dei livelli di rapporti che non venivano più trattati da secoli, ossia i rapporti tra l’Europa e il resto del mondo, non solo infra europeo. Con un secolo di anticipo, egli espone tesi che saranno poi alla base per la nascita del processo dell’integrazione economica europea con l’esperienza della Comunità: propone infatti la creazione di un congresso mondiale permanente, in quanto istituzione capace di garantire l’unità delle nazioni, l’impossibilità delle guerre, e l’arbitrato internazionale. IL DIBATTITO NEL MONDO SOCIALISTA E MARXISTA Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo, sulla spinta delle preoccupazioni causate dall’imperialismo, dall’erompere dei nazionalismi e dai sempre più seri pericoli di guerre, comincia a riemergere la consapevolezza di una nuova elaborazione ideale, europeista e federalista. I grandi teorici del socialismo compiuto sono Marx ed Enghels, importanti anche da un punto di vista teorico e dottrinario. A loro si associa la fondazione del SOCIALISMO SCIENTIFICO, nato dopo decenni di idee vagamento socialiste, le quali vengono sostituite da una dottrina vera e propria del socialismo marxista (o capitalismo), una dottrina che si pone come scientifica, e che affronta in modo scientifico la questione sociale. Già la parola stessa socialismo rappresenta l’ideologia che deriva dal problema della questione sociale, riferita alle condizioni dei lavoratori nella società industrializzata e che si sta industrializzando, in particolare degli operai. Le opere di Marx ed Enghels (Il Capitale, Il manifesto del partito comunista), pubblicate dagli anni ’40 dell’Ottocento fino alla morte di Enghels, non presentano nessun riferimento esplicito all’Europa come la intendiamo noi oggi, o alla possibilità di un’unione teorizzata già da studiosi dell’epoca. Il Capitale esprime una visione delle relazioni internazionali, in cui l’orizzonte di riferimento non è l’Europa ma il mondo intero, che nella visione marxiana si industrializzerà e 20 diventerà tutto più avanzato. Guardando a quel mondo tendenziale, parlare di Europa non ha senso, in quanto la loro visione non è incentrata su tradizione nazionali o culturali che distinguono le vicende delle diverse società, ma la grande teoria del marxismo è l’economia, gli scambi commerciali, il vero motore della storia degli uomini. Quindi, quando tutto il mondo sarà industrializzato, a dare senso a tutto non sarà il fatto di provenire dall’Europa o da un altro territorio, ma sarà determinante il modello capitalistico, uguale in tutto il mondo, una VISIONE INTERNAZIONALISTICA, tipica del marxismo classico, nella quale l’Europa non ha un posto preciso. Ancora meno si possono trovare riferimenti al fatto che l’Europa deve unirsi, diventare una federazione o una confederazione; in primis per la stessa ragione di prima, ma inoltre perché le istituzioni venivano viste da Marx come delle sovrastrutture, che stanno in superficie, sono fumo che nascondono il vero nucleo, ossia l’economia. Se si crede in questa impostazione, per trasformare la società bisogna cambiare il modello produttivo, non cambiare le istituzioni o cambiare il tipo di stato (passare ad esempio da una federazione ad una confederazione); la combinazione di tutti questi elementi, il fatto che ci sia un internazionalismo che si mangia la visione dell’Europa, il fatto che conti l’economia e non di queste sovrastrutture, fa si che Marx ed Enghels non parlino di Europa. D’altra parte, la “famiglia comunista” presenta altre tendenze che iniziano a dare più peso all’Europa e ad allontanarsi dalle idee originali dei padri del marxismo. Durante la storia del socialismo, troviamo tre momenti principali in cui si tratta di argomenti più europei: Prima Internazionale, Seconda Internazionale e Terza Internazionale. Sono tre associazioni nelle quali, in particolare nella Prima, è possibile trovare qualche riferimento al tema dell’Europa, come ad esempio in Mazzini, o in Proudhon, i quali, avendo un’idea federativa della società, hanno anche un’idea federativa dell’Europa. Dopo la Prima Internazionale, la Seconda (che si sviluppa tra gli anni ’70 dell’Ottocento e la Prima guerra mondiale) è molto più compatta e ha una chiara leadership: la social democrazia tedesca (SPD), e il suo capo, Karl Kautsky, è stato il “Papa Rosso”, punto di riferimento culturale e politico del movimento operaio europeo. Anche la Seconda Internazionale non ha trattato in gran parte di Europa, in quanto è ancora presente la stessa impostazione della precedente, e in più, essendo nati tutti questi nuovi partiti (laburista in Inghilterra, socialista in Italia, la SPD in Germania), ciascun partito compie la sua battaglia politica esclusivamente nel paese in cui si trova, paesi tra l’altro ancora molto diversi tra loro. Il socialismo e il comunismo dell’Ottocento inoltre sono stati trattati come una sorta di fede religiosa, e per allontanarsi dall’idea di Marx ci è appunto voluto del tempo. Dopo questo lungo periodo, già a partire dagli ultimi decenni della Seconda Internazionale, alcuni autori iniziano a trattare di argomenti che Marx ed Enghels avevano scartato. Si tratta di questioni nuove prima non visibili, che invece nella società del tempo iniziano a comparire, proprio come l’idea di Europa. I processi che creano questo nuovo contesto tra i due secolo sono: - L’ESPANSIONE DEL CAPITALISMO, la quale mette in discussione l’esistenza degli stati nazionali. Il mercato, ad esempio, diventa sempre più transnazionale, mentre la politica rimane ancora strettamente organizzata su base nazionale (che cambierà poi dalla Seconda guerra mondiale). Si tratta di una condivisione di fondo che introduce anche il tema dell’Europa. - MOVIMENTI DI LOTTA PER L’IDENTITÀ NAZIONALE, sparsi in tutta l’Europa, come coloro nell’Impero Asburgico che si sentivano italiani ma non venivano riconosciuti come tali. Questa concezione non rientra nel paradigma teorico del marxismo, ma tuttavia bisogna trovare una soluzione in linea con l’ortodossia marxista. - PERIODO DI GUERRE, culminate poi nella Prima guerra mondiale, dalle quali, tra l’altro, nascerà la dottrina marxista dell’imperialismo (sviluppata a fondo da altri autori come Lenin o Rosa Luxemburg). 21 Tra Ottocento e Novecento si ha quindi questo ripensamento della teoria marxista, e si vede emergere quell’Europa che prima non era mai stata presa in considerazione. Le voci che prendono parte a questo dibattito sono molto diverse tra loro, sia per orientamento culturale, che per ragioni specifiche che le spingono ad esaminare tale teoria, ad esempio la questione della nazionalità sarà maggiormente trattata da quegli autori che abitano all’interno dell’Impero Asburgico, chiamati austromarxisti. Questi sono Otto Bauer e Karl Renner, i quali sviluppano una teoria di ristrutturazione federale dell’Europa, e dell’Impero Asburgico (dal quale provenivano), su base nazionale. Altro filone è rappresentato da coloro che hanno a che fare con il problema dell’espansione del capitalismo e delle guerre imperialiste, ed è formato da Kautsky (capo della Seconda Internazionale), Trockij (capo della Terza Internazionale e oppositore di Kautsky) e Lenin, i quali si occupano del legame tra capitalismo e imperialismo. Il pensiero di Bauer e Renner è caratterizzato dalla necessità di dare una soluzione alle spinte nazionalistiche insorgenti nell’Impero asburgico, una soluzione che suggerisce loro l’idea di una federazione plurinazionale poggiante sui criteri di un governo federale politicamente centralizzato, dell’autonomia culturale e di un moderato decentramento amministrativo. L’Impero Asburgico è continuamente scosso da spinte indipendentiste all’interno dei propri confini, minoranze che non si sentono né austriche ne parte dei paesi all’esterno. Questi avvenimenti smuovono i due autori, i quali scrivono un’opera, “La questione delle nazionalità”, nella quale la loro idea è che si possa provare a risolvere nello stesso momento la questione sociale, cioè quella economica, e la questione nazionale, cioè quella delle minoranze non riconosciute. Per fare ciò bisogna convincere le minoranze stesse che il modo migliore per vedere riconosciuti i loro diritti non è quello di uscire dall’Impero o creare uno stato indipendente, in quanto questo moltiplicherebbe all’infinito gli stati (aumentando di conseguenza la conflittualità). Le identità nazionali, che legittimamente si sente nazione, non necessariamente deve tradursi in uno Stato indipendente: è giusto riconoscere le nazioni, ma non è necessario dare a ciascuna nazione uno stato indipendente. A Vienna quindi si devono riconoscere tali nazioni come identità culturali, e ospitarli all’interno di una FEDERAZIONE PLURI-NAZIONALE, nella quale gli siano riconosciuti pari diritti (poter parlare la propria lingua, impararla a scuola). Il federalismo, quindi, dovrebbe pacificare i rapporti tra queste comunità. Ma se questo tentativo dovrebbe riuscire in Austria-Ungheria, perché non è possibile applicarlo anche a livello europeo? Bauer e Renner, infatti, propongono l’estensione di questo modello, creando una FEDERAZIONE EUROPEA, in cui scompaiono gli stati indipendenti e nascono queste identità nazionali culturali, che si federano tra di loro, ma non a livello politico. Per poterlo realizzare però bisogna risolvere anche il problema della questione sociale, cambiando il modello produttivo sostituendo il modello capitalistico con quello dell’economia socialista: la vittoria del socialismo è intrecciata alla realizzazione del principio di nazionalità. Per quanto riguarda il secondo filone invece, si inserisce in una fase nella quale la questione di fondo è la trasformazione dell’economia capitalistica in senso imperialistico. L’IMPERIALISMO, teorizzato da Rosa Luxemburg e Lenin, è un indirizzo di politica mondiale, tipico delle grandi potenze e sollecitato dal loro sempre crescente sviluppo tecnologico-industriale, rivolto al conseguimento di un egemonico predominio politico-economico nonché culturale sulle nazioni meno sviluppate. Gli stati capitalistici cercano cioè di vendere al mondo i propri prodotti, essendo tutti in una fase di sovrapproduzione, per cui gli interessi nazionali dei paesi entrano in conflitto. Per Lenin invece, nella fase di capitalismo avanzato, da una condizione in cui ci sono tanti produttori sopravvivono solo quelli più grandi, e questo fa si che ci siano gli oligarchi, pochi produttori molto ricchi. Il problema principale è quindi la concentrazione di capitale nelle loro mani, che non sanno più come impiegarlo, e questo li spinge ad occupare stati stranieri per 22 quale non ha ottenuto in nessun modo trasferimento di sovranità da parte degli stati membri, e per questo è affidata solamente al buon cuore degli stati che ne fanno parte. Alcuni pensatori si erano accorti fin dall’inizio che tale modello avesse un deficit strutturale, tra i quali alcuni socialisti italiani come Filippo Turati, Treves, Modigliani. Questi studiosi aprono un dibattito su pace, guerra ed Europa, nel quale appare chiaro che la Società delle Nazioni come è stata pensata non funziona; si formano così delle posizioni federaliste e federaliste europee, grazie alle quali si afferma che l’Europa possa uscire dal periodo di guerre, soltanto con la creazione di una federazione. L’antifascismo in generale è un grande luogo di discussione di federalismo europeo, oltre che ovviamente al mondo socialista di inizio secolo. Una di queste tendenze prende il nome di FEDERALISMO BRITANNICO, un insieme di esponenti inglesi come Philip Kerr, che poi prenderà il nome nobile di Lord Lothian, e Lionel Robbins, uno dei grandi economisti liberali del primo Novecento. La loro elaborazione, a partire dalla critica della Società delle Nazioni, arriva a costruire un modello pienamente federale. Un pensatore ha però preceduto questi due studiosi, ed è stato John Robert Seeley, il quale ha vissuto circa mezzo secolo prima. Storico inglese, ha dedicato i suoi studi prevalentemente all’Impero britannico e ad un modo per ristrutturarlo in senso federale. Nel 1871 scrisse un testo, trascrizione di una sua conferenza tenuta davanti ad un pubblico di sostenitori del movimento pacifista, “Stati Uniti d’Europa”, nel quale enuncia alcune cose fondamentali per il pensiero federale, applicato all’Europa, che verranno riprese e meglio teorizzate dopo la Prima guerra mondiale da Lothian e Robbins. Seeley in quest’opera, va davanti ai pacifisti e sostiene che l’idea della pace è un valore per l’Europa, e pertanto debba essere preservato, ma il modo nel quale il pacifismo generico ottocentesco imposta la questione della pace è sbagliato; questo perché viene imposta in termini troppo morali, etici, umanitari, un pacifismo quasi spontaneo. Il ragionamento di Seeley è che per evitare la guerra, non bisogna limitarsi a dire che essa è disumana, ma bisogna studiare le relazioni internazionali e capire che ruolo riveste la guerra al loro interno: il ruolo è quello di permettere agli stati di risolvere le controversie tra di loro, l’ultima arma disponibile. È una visione molto pragmatica, molto distaccata, ma questo perché la guerra serve, altrimenti le controversie si trascinerebbero per l’eternità. Bisogna perciò trovare nuovi modi da offrire agli stati per risolvere le loro controversie, al fine di evitare la guerra. È però un’illusione pensare ai popoli in quanto tali che siano più pacifici dei re, perché i popoli in alcuni momenti sono anche più bellicosi dei re, hanno delle pulsioni che non necessariamente li portano alla pace. Con questo Seeley ha per un certo senso predetto la storia nel Novecento, quando grandi masse popolari vengono spinte verso conflitti bellicosi (come, ad esempio, quando l’Italia è stata quasi costretta ad entrare in guerra). Per fare ciò serve un complesso di istituzioni, la prima è sicuramente una Corte o un Tribunale internazionale, che faccia da giudice rispetto alle controversie; ma questo elemento da solo non basta e Seeley, infatti, aggiunge un corollario di istituzioni analoghe a quelle nazionali, per poter dare al Tribunale gli strumenti necessari per conferirgli il potere coercitivo necessario per poter operare. L’apparato coercitivo nel suo insieme è proprio lo Stato: per avere un Tribunale funzionante devo inserirlo dentro un quadro di istituzioni che ricalchi gli equilibri che ci sono all’interno degli stati nazionali, con un Parlamento o un Governo. Questa scansione logica fa di Seeley uno dei grandi federalisti dell’età contemporanea, avendo poi un’influenza enorme sia per quanto riguarda i pensatori federalisti inglesi, ma anche sul pensiero federalista a livello europeo tra le due guerre. Questo disegno, di una federazione europea non può essere costruito tra diplomatici a tavolino, ma bisogna fare in modo che i popoli vengano non solo informati del progetto, ma soprattutto coinvolti, attraverso la fondazione di partiti e movimenti che indichino un obiettivo politico che si vuole realizzare dal basso: deve diventare un obiettivo politico come lo sono la libertà, l’uguaglianza o la democrazia. Questo perché il federalismo europeo cambierebbe la vita della popolazione, ed è giusto farne un movimento di lotta politica, così come avevano fatto 25 gli americani durante la formazione degli Stati Uniti, quando, durante la ratificazione della Dichiarazione d’Indipendenza, sono stati i cittadini a discutere sulla forma di governo federale. Specialmente in Inghilterra le idee di Seeley vengono recepite da Lothian e Robbins, entrambi appartenenti al movimento federalista inglese, che nasce tra le due guerre. Lord Lothian è noto soprattutto per il fatto di aver declinato la teoria di Seeley in una teoria ancora più complicata: secondo lui, la guerra in generale, ma in particolare quella del Novecento (non vissuta da Seeley), nasce per due ordini di cause: - CAUSE MECCANICHE, più vicine all’idea di Seeley, quelle che in termini moderni sono le cause strutturali, sistemiche, cioè che nascono perché c’è una certa articolazione del sistema degli stati in Europa, il sistema Vestfaliano per il quale ci fossero tanti stati separati, ognuno sovrano e indipendente; - CAUSE PSICOLOGICHE, quelle che lui aggiunge avendo vissuto la Prima guerra mondiale, cause che secondo lui i popoli e gli stati sono più orientati e più disponibili a fare la guerra, e hanno a che fare con la diffusione delle idee nazionalistiche. L’incrocio fra queste due cause è devastante: stati già di per sé portati a consentire la guerra, aggiungo le cause ideologiche che la confermano maggiormente. Bisogna perciò trovare una soluzione, in discendenza con il pensiero di Seeley: per evitare le guerre, sia in Europa ma anche a livello mondiale, è necessario realizzare una federazione. Il federalismo porta comunque a porsi il problema dell’ordine mondiale, non solo quello europeo. quando sarà sconfitta definitivamente la propaganda nazionalista si potrà imporre il sistema federale. Per fare ciò deve nascere una propaganda antagonista, fare lotta politica e culturale, estirpare il nazionalismo da tutte le società: portare la pace attraverso il federalismo, che Lothian chiama NUOVO PATRIOTTISMO, in cui l’oggetto non sia la singola identità nazionale (perché porterebbe al nazionalismo che invece va evitato), ma l’appartenenza o all’Europa, o alla Comunità Atlantica o, addirittura, al mondo interno, essere quindi patrioti non soltanto della piccola nazionalità, ma ad una identità maggiore. Federazione europea o mondiale porta comunque ad uno sconvolgimento delle popolazioni, soprattutto a quelle che hanno ottenuto l’indipendenza nazionale da poco, e per questo prima bisogna preparare le coscienze attraverso la propaganda, e solo dopo potrà essere attuato il processo di federalizzazione. La visione di Lothian mette una serie di riferimenti teorici molto importanti anche al di fuori dell’Inghilterra, così come fa anche Lionel Robbins, economista liberale in una situazione un po’ scomoda al tempo: dopo il periodo di massima nell’Ottocento, nel nuovo secolo il liberalismo è stato minacciato da nuove forme di economia, come il protezionismo. Questa è l’idea alla base dei fascismi europei, secondi i quali il mondo europeo dovesse essere protetto dalle dinamiche internazionali. Il protezionismo di uno stato non nasce solo se c’è un consenso dell’economia a volersi chiudere, ma a volte nasce anche se ci sono dei blocchi interni alla nazione che vogliono essere protetti a livello economico. Tutto ciò ha poi delle conseguenze anche in termini politici: più gli stati sono autarchici, più è probabile che i rapporti tra questi stati siano meno pacifici e più bellicosi. Più gli stati si mettono dei limiti, alle circolazioni o al flusso di capitali, più è probabile che arrivi la guerra, perché genera attriti con altri paesi; per evitare la guerra bisognerebbe creare delle economie integrate, avendo così degli scambi pacifici tra paesi vicini. Altra minaccia è stato il socialismo, quel mondo opposto al capitalismo, quando l’economia viene regolata dallo Stato, in modo più o meno invasivo (come i Piani Quinquennali di Stalin). Si hanno così i nemici che vengono da destra, i fascismi protezionismi, e i nemici che vengono da sinistra, i partiti comunisti che nascono dall’Unione Sovietica: nella fase tra le due guerre mondiali, quindi, la politica economica deve essere ripensata. Per Robbins il liberalismo ha perso fiducia da parte della gente, 26 perché ha dato l’idea di essere troppo poco interessato di quello che succede concretamente nella società, andando a difendere solamente dei concetti astratti; deve proporsi anche come una dottrina concreta, che si ponga anche questioni di tipo sociali. Uno stato liberale, per realizzare ciò, deve, da un lato, garanzie di ordine politico (teorizzato già dai liberali originali come Adam Smith), ma dall’altro deve anche porsi il problema di un minimo indirizzo dell’economia. Questo ragionamento deve essere fatto anche per le relazioni internazionali: se l’anarchia è un male a livello nazionale, devo fare lo stesso ragionamento sul piano internazionale, applicare quindi la domestic analogy. Questo ragionamento, secondo Robbins, fa parte della natura intrinseca al liberalismo, per il quale si deve realizzare uno stato internazionale di tipo federale. Teorizzando tale federazione, per Robbins deve avere le dimensioni mondiali; il problema è però di tipo storico, in quando gli Stati Uniti si sono isolati dal resto del mondo e non vogliono entrare nelle questioni europee. Quindi, in teoria si dovrebbe puntare alla federazione mondiale, ma visto che ciò è impossibile, l’obiettivo concreto per il quale bisogna lottare è quello della federazione europea. Negli anni ’30 del Novecento, infatti, abbiamo l’ascesa di Hitler, dei nazionalismi, problemi che devono essere eliminati prima di tutto a livello europeo, creando questo modello federale, nel quale viene assicurato sial ‘ordine politico che quello economico. PER UN’EUROPA POLITICO-CULTURALE Siamo in un’epoca, tra le due guerre mondiali, particolarmente turbolenta, anche in seguito al trattato di pace, il quale trasporta problemi e trasformazioni notevoli dello scenario geopolitico, come la caduta dell’Impero Asburgico, dell’Impero Ottomano, e dell’Impero tedesco: pilastri dell’Europa moderna che crollano. Specialmente nelle opinioni pubbliche di questi paesi, gli effetti della Prima guerra mondiale non passano inosservati, le persone vedono crollare tutto ciò in cui avevano creduto. Ad esempio, Oswald Spengler scrisse “Il tramonto dell’Occidente”, in cui si fa una specie di grande profezia negativa dell’Europa e dell’Occidente in generale, in seguito al crollo dei grandi imperi e delle grandi dinastie: si apre infatti una stagione di grande pessimismo europeo, di declino della società e dei progetti europei. Dal punto di vista politico si apre la stagione dei nuovi nazionalismi, come il socialismo, il fascismo, quelle rivendicazioni più o meno radicali che destabilizzano le relazioni europee tra le due guerre mondiali. In questa fase storica la tendenza prevalente è quella pessimistica nei confronti di qualunque pace europea, l’approccio più prevalente è di tipo vendicativo, nel quale ognuno cerca di allargare la propria sfera di influenza, anche a discapito degli altri stati. Tale pubblicazione costituisce il centro di irradiazione di un articolato discorso pubblico sulla crisi spirituale del mondo avanzato, per molti versi funzionale all’affermazione di ideale reazionari, ma anche utile sprone per gli intellettuali inclini a ritenere che la causa europea non sia ancora perduta. A tal proposito, ci sono alcune figure che in questo contesto di sbandamento difendono una visione collettiva dell’Europa, e contrastano quella profezia di Spengler sul declino europeo, e vedono l’Europa come un posto nel mondo che abbia ancora un ruolo, o che comunque può ancora riconquistarlo. Da un lato abbiamo i federalisti inglesi, dall’altro abbiamo studiosi sparsi su tutto il territorio europeo. Tra queste figure possiamo trovare Coudenhove-Kalergi (diplomatico tedesco con origini giapponesi), Julien Benda (francese, intellettuale e letterato) e José Ortega Y Gasset (filosofo spagnolo), che in modi diversi si oppongono alla profezia negativa tedesca. Bisogna però capire come rilanciare l’Europa in un mondo che è cambiato. Coudenhove-Kalergi è molto importante negli studi europei perché è colui che ha coniato il termine “Pan-Europa”, nel 1923, con il quale si riferisce all’Europa nella sua totalità, ed è anche il nome di un movimento che propone la lotta per l’unità europea. Abbraccia infatti un approccio più politico, si mette in gioco in prima persona fondando un partito politico volto all’unità europea. La 27 facciamo riferimento è quello ANTIFASCISTA di una serie di figure intellettuali che si oppongono al regime fascista, i quali porteranno alla pubblicazione negli anni ’40 del “Manifesto di Ventotene”. Diversi filoni culturali si fondono in questa fase, una sorta di laboratorio di idee politiche, sociali, culturali ed economiche, la culla dalla quale nascerà la fase resistenziale e dei movimenti democratici italiani. Un dibattito che si svolge per molti veri in modo clandestino, attraverso testi segreti non pubblicati, ma nonostante tutto ciò, aggiunge l’ultimo tassello a quel clima culturale dal quale prenderà forma l’integrazione europea dopo la Seconda guerra mondiale. Questa idea antifascista dell’Europa risente di diverse radici culturali, da Einaudi a Spinelli a Carlo Rosselli. I diversi stimoli che possiamo identificare durante questa fase sono: - Opposizione al nazionalismo . - Impronta del pensiero politico del Risorgimento , ossia l’idea che le nazioni, che legittimamente cercano di trovare la loro autonomia, devono poi trovare tra di loro un punto di equilibrio all’interno di una qualche forma di aggregazione europea, più debole o più forte. Rosselli, ad esempio, leggendo le opere di Mazzini o Cattaneo, ritiene che la lotta antifascista serva per liberare l’Italia dal fascismo, ma anche per trovare all’Italia una posizione sostenibile dalle altre nazioni in Europa. - Fascino generale della cultura americana rispetto alla società europea, dibattito tra i due secoli che viene etichettato come L’AMERICANIZZAZIONE. Autori come Gramsci, parlano dell’influenza che certi modelli sociali ed economici della società americana hanno su quella europea, mentre per autori come Spinelli è un’americanizzazione positiva, tenendo in mente i rapporti produttivi, la gestione dell’economia. Ma chi studia gli Stati Uniti studia il loro carattere federale, in quanto sono stati molto bravi a costruirsi, e potrebbe essere di buon auspicio anche per gli europei. - A livello economico, invece, è il dibattito tra il protezionismo, di cui il fascismo si è fatto promotore, e una visione esplicitamente liberista, la quale predilige la libera concorrenza e l’esclusione dello stato; mentre essere liberisti nelle relazioni internazionali si fa riferimento al libero commercio, senza dazi e senza forze di protezionismo, creando un sistema di ECONOMIA INTEGRATA, nel quale i produttori producono solo quelle cose su cui sono esperti. Einaudi era promotore di questa visione, profondamente antifascista, quasi autarchico, nel quale si vive di sole cose che si producono autonomamente. Gli stati nazione in un’Europa integrata continueranno ad esistere, ma vivranno favorendo il libero scambio tra le singole parti. - Tutti gli autori di questi anni hanno conosciuto la Società delle Nazioni, nascita e fallimenti. La figura di Einaudi viene spesso associata alla figura di due economisti torinesi, Attilio Cabiati e Giovanni Agnelli, perché tutti e tre, già sul finire degli anni ’10 fanno una serie di riflessioni importanti sulla pace in Europa, e la Società delle nazioni appena nata non è idonea a svolgere quel compito. Einaudi, con lo pseudonimo di Junius, scrive sul Corriere della Sera una serie di articoli in cui critica la Società delle Nazioni, cosa che fanno anche Cabiati e Agnelli, scrivendo insieme un libro, “Federazione europea o Lega delle Nazioni?”, nel quale la confederazione europea è un’unione debole destinata a fallire, perché non è forte come la federazione. Studiando in modo combinato il Federalist e lo storicismo tedesco e della teoria della ragion di stato, hanno individuato come causa della guerra non solo la competizione anarchica sul terreno economico, l’imperialismo o solo l’aggressiva politica mondiale del militarismo tedesco: il vero problema dell’Europa del Novecento è cioè che le guerre nascono perché siamo di fronte ad un sistema di Stati Sovrani, e il loro tratto comune è l’analisi del problema della guerra; va ristrutturato l’assetto politico dell’Europa moderna e creare una federazione, sradicando il principio di fondo della sovranità assoluta del singolo stato, il principale fallimento dell’equilibrio europeo. il rimedio allo 30 stato di guerra reciproca dei paesi europei è visto nello stato plurinazionale federale. Agnelli e Cabiati dubitano anche dell'efficacia della società delle nazioni. In un contesto federale inoltre sarebbero evidenti vantaggi di un mercato comune strettamente integrato nonché dell'omogeneizzazione dei sistemi sociali: risparmi nelle spese militari, nelle infrastrutture viarie, commerciali, industriali. Einaudi in particolare vede nel modello americano la soluzione per costruire la Federazione europea, anche se dopo la Seconda guerra mondiale appoggia una visione dell’Europa che non è federale, ma, da Presidente della Repubblica, sostiene il governo italiano che vuole sostenere questa ideologia. Sosterrà inoltre anche la costruzione dell’Europa comunitaria avviata su base delle proposte di Monnet e Schuman, sebbene consapevole di alcuni limiti dell’impostazione funzionalista che si faranno notare nel corso del processo di integrazione. Rosselli e Trentin esprimono una visione politica molto conflittuale nei confronti del fascismo, e collocati concettualmente molto più a sinistra. Sono esponenti di quella cultura SOCIALISTA- LIBERALE, grande peculiarità del pensiero italiano antifascista, cercano cioè di far convergere due storiche idee politiche, al fine di trovare punti di unione come libertà e diritti politici, di carattere costituzionale, per il liberalismo, o come la centralità della questione sociale, tipica del socialismo, ma non appoggia il fatto che è dominato da una visione marxista. Questa ideologia però non ha avuto successo a livello politico, prima con il gruppo “Giustizia e Libertà” durante il fascismo, e poi con il Partito d’azione. L’unico modo per chiudere le guerre tra gli stati è quello della creazione di una stabile federazione europea. In particolare, con Rosselli, si sostiene che un risultato del genere, dato il contesto storico europeo, possa essere raggiunto solo se prima si faccia una guerra democratica antifascista contro i regimi fascisti e nazisti presenti in Europa: una guerra civile europea in cui si combattono due schieramenti trasversali alle nazioni, in cui da una parte c’è chi crede nel capo fascista, dall’altro lato ci sono tutti gli altri, coloro che credono in una visione democratica. Gli Stati Uniti d’Europa arriveranno con la sconfitta del fascismo, una garanzia contro qualunque tentativo di ritorno. Non si farà più riferimento a manovre diplomatiche, ma di una vera e propria guerra di popoli democratici, rifiutando completamente il pacifismo o neutralismo come metodo per raggiungere una realistica forma di unità europea. Trentin è un pensatore leggermente diverso, perché per superare il fascismo, secondo lui, deve esserci un elemento rivoluzionario, sia nazionale che europeo, attraverso la quale vengano rovesciati i regimi fascisti. La sua posizione è dunque la costruzione di un nuovo stato, di una nuova Europa, che abbia una composizione federale, prodotto però di movimenti di massa e non il disegno più o meno raffinato di élite di politici o intellettuali. Non possono esservi altre vie più pacifiche, sperimentate in passato in condizioni diverse da quelle europee contemporanee punto tale rivoluzione è il fine del movimento resistenziale in Italia e negli altri paesi europei. A livello internazionale, il contributo più importante che l’antifascismo italiano da è quello del “Manifesto di Ventotene”, che ha come suoi autori due figure non particolarmente note, ossia Ernesto Rossi e Altiero Spinelli, aiutati nell’introduzione e nella circolazione da Colorni. Questi autori vengono dalla cultura liberal-socialista ma con alcune differenze; Rossi ha vissuto la vicenda del Partito d’azione ed esprime la visione liberal-socialista che sostiene, un liberalismo di sinistra, mentre Spinelli non nasce liberal-socialista, ma nasce leninista, come comunista con riferimento il Partito comunista sovietico. Spinelli ha vissuto gran parte della sua vita tra il carcere e il confino, ossia dei luoghi isolati nei quali vengono confinati tutta una serie di intellettuali che formalmente non stanno in carcere, ma che sono appunto confinati in questi posti; Rossi e Spinelli finiscono entrambi nel confino di Ventotene, dove, tra il 1939 e il 1941, scrivono il manifesto, che verrà poi pubblicato clandestinamente tre anni dopo in tutti gli ambienti resistenziali. I due autori, durante 31 la scrittura, risentono delle varie idee che ciascuno di loro ha, confrontandosi in particolar modo con Einaudi, il quale è uno di quegli interlocutori che suggerisce loro di leggere le opere dei federalisti britannici: il testo del manifesto ha quindi influenze liberal-socialiste, di Einaudi e federaliste britanniche. Il nome ufficiale del manifesto è “Per un'Europa libera e unita. Progetto d'un manifesto”, e viene utilizzata tale forma di scrittura per costruire una forma di opposizione nei confronti del fascismo, in modo rapido ed efficace. L’opera è organizzata in tre parti: - PRIMA PARTE. Ricostruzione delle ragioni che hanno portato alla Seconda guerra mondiale, alla crisi della civiltà moderna. La crisi è un processo storico cominciato molto tempo prima, legato al progressivo affermarsi del modello dello stato sovrano vestfaliano: con quella che sembrava una conquista, è diventata la causa principale della conflittualità e della crisi in Europa. Non si tratta di una crisi passeggera, dipendente dal sovrano o dal governo nazionale, ma è un problema di lunghissimo periodo, che dura da tre secoli, a causa dell’assetto vestfaliano, che porta alla ricomparsa della guerra, una condizione di guerra potenziale e continua, che scoppia non per motivi contingenti, ma per motivi strutturali dell’organizzazione europea. - SECONDA PARTE. Cosa bisogna fare in Europa per risolvere la crisi della civiltà moderna. Di fronte allo scenario di crisi e di guerra potenziale e permanente, la Seconda guerra mondiale in questo caso, si crea un’opportunità imperdibile: se le potenze Alleate (Gran Bretagna, Francia, Stati Uniti) riusciranno a vincere il conflitto, troveranno un’Europa devastata e senza una forma precisa, in quanto non sarà rimasto nulla dei vecchi stati. Quando si arriverà, se si arriverà, al momento in cui i buoni vincono la guerra e trovano l’Europa distrutta, non bisognerà ricostruire gli stati come erano prima, cioè secondo il modello vestfaliano, ma bisogna sfruttare l’occasione per costruire un’Europa nuova, creare una Federazione europea, non avendo nessuno pronto ad ostacolare questa fase. Dentro questa federazione si potrà poi ricostruire anche gli stati, tuttavia con la sovranità limitata, con una sorta di gabbia federale, creare quindi degli stati depotenziati: si tratta dell’elemento di una PREALABLE, prima si fa una cosa e poi l’altra, prima la federazione e poi gli stati, e invertendo i due fattori la prima non sarà più possibile. - TERZA PARTE. Descrive un nuovo modello per l’Italia post fascismo e post guerra. Il manifesto, conosciuto universalmente come opera destinata all’Europa in generale, presenta anche elementi significativi a livello italiano. Rossi e Spinelli, a tal proposito, dicono che in una società moderna e avanzata, bisognerà fare in modo che l’economia venga gestita (almeno in parte) dallo stato: la relazione tra stato e mercato sarà più orientato verso il controllo statale e non verso il liberalismo. Esprime una versione di tipo socialista, un’economia programmata, nella quale lo stato abbia un ruolo centrale nell’organizzazione degli scambi pubblici. In quasi tutti gli stati europei, dopo la guerra, l’economia rinasce secondo il modello di Keynes, aperto all’idea che lo stato eserciti un ruolo a livello economico. Per quanto riguarda l’Italia ne danno una visione di sinistra, anche se è una parte che trattano meno. Nel manifesto sono anche presenti delle indicazioni sulle modalità operative con le quale svolgere il modello della federazione: l’idea degli Stati Uniti d’Europa che devono nascere dalle macerie post belliche, non deve partire dai diplomatici dei vecchi governi, perché sono proprio coloro che ostacolano l’idea stessa, ma la forza per sostenere il progetto va trovata nei popoli, nei cittadini. Deve diventare un ELEMENTO DI LOTTA POPOLARE, costruita attraverso una formazione democratica, dal basso; la gente deve essere portata verso posizioni del federalismo europeo attraverso la lotta politica, in particolare il Movimento Federalista Europeo. La grande rivalità politica che si creerà sarà quella che divide coloro che sono a favore della federazione europea, i progressisti, e coloro che sono contrari, i conservatori, in quanto la necessità della federazione 32 sul fallimento della Società delle Nazioni che ha portato allo scoppio della Seconda guerra mondiale. Su queste due posizioni si alimenta il dibattito durante i lavori del congresso, ma sono due posizioni talmente opposte che non presentano delle possibilità di pacificazione; si può trovare solo un compromesso occasionale creato con il Consiglio d’Europa nel 1949, ed è il prodotto del Congresso dell’Aia. Il consiglio è un’istituzione che non ha niente a che fare con le Comunità che nasceranno poi negli anni ’50 e che si trasformeranno nell’Unione Europea. Rispetto alle classiche organizzazioni internazionali, ha un Comitato dei ministri e anche un’Assemblea, che rappresenta i Parlamenti degli stati, in quanto si vuole dare un minimo di rappresentanza anche alla sovranità democratica nazionale. Pur non occupando il ruolo delle Comunità europee, ha comunque avuto qualche potere: la difesa dei diritti umani è una delle grandi questioni della quale si è occupato, con la Convenzione europea dei diritti umani firmata nel 1950. Il Congresso dell’Aja però non ha risolto il problema principale di quella “riunione”, ossia quello di assicurare la pace a livello europeo a seguito della guerra. Bisogna quindi continuare a rifletterci sul contesto degli stati nazionali, ricostruiti subito dopo la fine del conflitto con nuovi confini, seppur simili al periodo pre- guerra, recuperando tutta la sovranità perduta. Anche il modo nel quale gli Stati Uniti attua il piano Marshall nel 1947 è orientato all’integrazione europea, in quanto chiedono che venga fondata un’organizzazione, l’OECE (organizzazione europea per la collaborazione economica), la quale ha il compito di ricevere l’ammontare degli aiuti e poi dividerli nei singoli stati in base agli accordi siglati. C’è bisogno quindi di azioni concrete da parte dell’Europa al fine di creare un’unione, ma il problema principale è che non si riesce a superare la frattura ideologica tra federalisti, i quali non cedono sul fatto che parte della sovranità debba essere trasferita, e confederalisti, i quali non cedono invece sul fatto che la sovranità sia intoccabile. Altro problema è la divergenza tra Francia e Germania, in particolare quei territori al confine, come Strasburgo o l’Alsazia. Siamo però in un periodo di stallo, in cui non si riescono a risolvere né i problemi macro e né quelli micro, e nel 1950 il ministro degli esteri francese cerca di risolvere il problema attraverso una via né federale e né confederale. Si tratta di Schuman e di Monnet, i due padri del progetto di integrazione europea federalista. Monnet, tecnocrate di materie economico-giuridiche, nella sua vita è diventato conosciuto perché è quello che ha gestito per la Francia gli aiuti del Piano Marshall. Schuman invece è un politico in senso stretto, e appartiene ad un partito di orientamento cattolico. All’inizio c’è una forte impronta europeista francese, infatti il 9 maggio 1950 Schuman organizza una conferenza stampa nella quale enuncia un testo chiamato in seguito la “Dichiarazione Schuman”, finalizzata a stabilizzare i rapporti tra Francia e Germania, ma riferita a tutti i popoli in generale, in quanto destinata anche all’unità europea. La proposta si basa sulla terza metodologia di unione europea tra federazione e confederazione, quella del FUNZIONALISMO, che fa riferimento alla funzione, cioè un certo ambito o compito nella vita di ogni stato. È quel modello di integrazione utilizzata dagli americani che ha avuto a che fare con componenti essenziali della sovranità, ma a livello europeo invece bisogna fare riferimento a singoli settori dell’economia, cioè carbone (energia e miniere) e acciaio (armamenti), il tutto all’interno del quadro politico della pace e della guerra. La scommessa dei funzionalisti è quella di provare a risolvere il problema della guerra partendo dalle funzioni, unendo i vari stati al fine che collaborino in materia delle funzioni identificate (in questo caso carbone e acciaio) attraverso un organo comune che opera in sostituzione degli stati: la CECA (comunità europea carbone e acciaio). Gli stati che aderiscono alla CECA perdono quindi sovranità per quanto riguarda queste due funzioni, in modo volontario attraverso la firma di un trattato. Il funzionalismo parte quindi da un settore circoscritto, ma su quel settore si presuppone che l’organo europeo sia l’organo che decide, e la sovranità passa perciò dai singoli stati alla comunità. La CECA, tuttavia, non è federazione o confederazione, ma viene definita come una collaborazione 35 sovranazionale, dove l’elemento fondamentale è il “sovra”, perché è qualcosa di diverso da modelli già proposti che riguardano più nazioni, ma riguarda qualcosa che logicamente sta sopra alle nazioni e che prende decisioni per queste vincolanti (elemento che manca ad esempio nelle organizzazioni internazionali). Ultimo punto della proposta, è che la CECA non venga considerata come il punto di arrivo, ma il punto di partenza per l’integrazione europea, un processo che si sviluppa nel tempo, con elementi sovranazionali aggiunti in modo graduale, arrivando infine alla federazione europea. Secondo i funzionalisti il passaggio da un settore all’altro è automatico e avviene in modo spontaneo, senza qualcuno che debba spingere il processo in avanti: questa modalità viene etichettata come SPILL OVER, per effetto del quale l’input iniziale spingerebbe gradualmente le economie nazionali verso un’integrazione sempre più ampia e profonda, costringendo gli stati membri a investire porzioni crescenti di sovranità in un progetto comune di cui tutti i partecipanti scorgerebbero benefici, al punto di lasciarsi trascinare dapprima alla completa unità economica e poi a quella propriamente politica. Questo progetto viene accolto dal presidente francese e illustrato attraverso la Dichiarazione Schuman, e i paesi che rispondono sono Italia, Germania, Belgio, Lussemburgo e Olanda (che i tre avevano già costruito un’unione economica tra di loro), e insieme alla Francia sono i paesi fondatori del processo di integrazione europeo; patto siglato con il Trattato di Parigi del 1951, firmato dai rappresentanti dei paesi ed entra poi in funzione con la ratifica da parte dei governi nazionali l’anno seguente. Il fatto di usare come strumento giuridico il trattato internazionale ci dice che la CECA viene identificata come un’organizzazione internazionale classica. Gran parte della questione sarà capire se queste comunità, con il tempo, possano trasformarsi in un’unione, provando a trasformare la loro natura internazionalistica (data proprio dal trattato) in qualcosa di diverso che si avvicini all’idea di costituzione. La CECA incorpora dentro di sé diverse istituzioni di riferimento:  ALTA AUTORITÀ. Istituzione di maggiore importanza, organo sovranazionale archetipo di un’istituzione federale, presieduta da Monnet, è un organismo tecnocratico, in quanto formata da tecnici, da un collegio di esperti della materia della comunità (produzione nel mercato di carbone e acciaio), sottoposti ad un controllo di tipo parlamentare, non più nazionale ma europeo. Questi esperti vengono scelti formalmente dal Governo nazionale, e rispetto al Consiglio dei ministri non assume una posizione di rappresentanza del proprio paese, di una rappresentanza politica, ma si tratta di una rappresentanza tecnica che riguarda gli interessi generali della comunità in nome del fatto di essere un esperto della materia. È un organismo indipendente e assume le decisioni fondamentali.  CONSIGLIO DEI MINISTRI. Consiglio composto da un ministro di ciascun paese, che può essere il ministro degli esteri, quello dell’industria o dell’economia, in generale quei ministeri specifici che hanno alte competenze sulle materie proprie della comunità. È la voce dei governi dei sei stati membri, e tipicamente è definito un’istituzione intergovernativa, in quanto formale rappresentanza degli esecutivi nazionali.  ASSEMBLEA PARLAMENTARE. Parlamento non eletto popolarmente, ma dai parlamenti nazionali, i quali periodicamente inviano dei rappresentanti del proprio paese, ma che non ha poteri, solamente una funzione consultiva. È un organo che cerca di esprimere una qualche logica democratica, che da voce al parlamento. Dovrebbe infatti lasciare spazio ad un vero e proprio parlamento formato tramite un voto su scala europea, espresso da un corpo elettorale unico.  CORTE DI GIUSTIZIA. Disciplina le controversie che riguardano i paesi membri e le materie gestite dalla comunità. Quando si arriva ad una sentenza, il contenuto è vincolante giuridicamente per gli stati, i quali non possono rifiutare un verdetto della Corte di Giustizia, pena una seri di sanzioni. 36 Nel corso del tempo l’equilibrio tra questi organi cambia; nel caso della CECA l’equilibrio complessivo è nettamente spostato a favore dell’Alta Autorità, l’organo che decide su quanto acciaio e quanto carbone va prodotto, e con quali criteri debba essere creato un mercato per la circolazione di tali beni. IL FALLIMENTO DELL’EUROPA POLITICA L’Alta Autorità è un organismo sovranazionale che prende decisioni, ma non ha alcun tipo di controllo. Il problema principale del funzionalismo è questo deficit democratico, il fatto che l’unica istituzione che decida veramente non rispetta le opinioni delle popolazioni nazionali. Tuttavia, questo problema era già tenuto in conto, anche perché si parla di un’autorità che prende decisioni su due piccoli settori della più vasta economia europea. Schuman in particolar modo, era convinto che con il passare del tempo sarebbero cresciuti anche i poteri dell’Assemblea parlamentare. All’inizio degli anni ’50 scoppia un altro problema che riguarda gli europei, i quali cercano di risolvere l’impostazione che si erano dati, ed è lo scoppio della guerra di Korea. Questa situazione induce gli Stati Uniti a riconsiderare il problema della sicurezza dell’Europa occidentale; in questo scenario si mette in moto un altro filone dell’integrazione comunitaria, dovuto al fatto che in quei paesi che fanno parte del blocco preso in considerazione dagli americani, troviamo la Germania occidentale, uscita distrutta dalla Seconda guerra mondiale e totalmente disarmata. La CECA non risolve questo problema, ma dall’altra parte gli Stati Uniti intervengono per militarizzare anche la Germania Ovest, cosa non condivisa dagli europei, in particolar modo dai francesi, i quali vedevano in un possibile riarmo una minaccia contro l’integrità; la soluzione viene proposta da Monnet, ed è la proposta ad un riarmo tedesco ma all’interno di una cornice comune, cioè facendola entrare dentro la comunità non economica, ma di difesa. Questa nuova Comunità europea di difesa (CED) è presieduta da Pleven, il quale si prende la responsabilità di proporre un nuovo piano di integrazione europeo che riguardi, appunto, la difesa. Grosso modo la CED dovrà funzionare come la CECA, con un esercito integrato, posto sotto il controllo di un commissariato (il quale raggruppa esperti nell’ambito della difesa), e su questa base si comincia a negoziare e a scrivere un nuovo Trattato firmato a Parigi nel 1952; tutto il discorso sul deficit democratico della CECA, qui si ripropone per l’esercito e per la difesa europea, quindi non più materia marginali ma più serie. Il dibattito, infinitamente più problematico, viene dominato dall’italiano De Gasperi e dal francese Aron. De Gasperi, primo Presidente del consiglio del dopoguerra, capo della democrazia cristiana, è nato a Trento quando ancora era sotto il dominio asburgico, quindi caratterizzato da una doppia appartenenza italo-tedesca. Questo suo essere internazionale lo spinge verso posizioni europeiste, e poi ancora su posizioni di federalismo europeo: crede in un’Europa unita in modo federale, sostenendo che gli europei debbano cercare una nuova patria in Europa superando quella nazionale (che comunque persiste), e per questo si può iniziare a dare a tale patria anche delle istituzioni forti e democratiche. Ai cittadini, i quali condividono un credo comune, bisogna dare un vero e proprio Parlamento, e in temi ideali De Gasperi è esplicitamente federalista, anche se in modo filtrato visto il suo ruolo da politico. Quando però si trova a negoziare per la CED si pone il problema di non modellare le istituzioni sulla base di quelle della CECA, e grazie alle pressioni dell’Italia si aggiunge al Trattato CED un nuovo articolo, l’articolo 38, secondo il quale la CED è destinata ad entrare in funzione ma nel frattempo deve partire un altro percorso che costruisca una terza comunità, la CEP (Comunità politica europea), la quale dovrà essere strutturata in modo da creare un contrappeso all’esercito europeo, una proposta quasi di stampo federale. Questa comunità avrebbe una competenza politica di carattere generale, e il progetto europeo, che era partito in maniera molto discreta, prende uno sprint imprevisto per il quale potrebbe nascere una comunità politica e non solo più economica. Ma il problema principale, in questo momento, è 37 sempre contrari alla teoria dei dazi, ma anche un problema commerciale, perché l’Inghilterra è ancora una potenza post coloniale, c’è ancora il Commonwealth, un’unione di tipo economico tra le vecchie colonie inglesi. Si creerebbe così il problema di dover mettere dei dazi a quei paesi, e ad una serie di paesi al di fuori dal Commonwealth con cui gli inglesi hanno rapporti economici e commerciali da secoli. Il vantaggio di appartenere alla comunità è quindi minore dello svantaggio a non poter intraprendere scambi commerciali con quei territori. I francesi e gli italiani, invece, che hanno una tradizione molto più antica di protezionismi e non hanno tutti questi traffici internazionali, accettano l’unione doganale senza problemi, convincendo anche gli altri partner. Altra ragione del distacco inglese è il carattere istituzionale dell’ordinamento complessivo delle due nuove comunità (anche la CEE, come la CECA, è una comunità che ha degli ordinamenti sovranazionali). Bisogna quindi eliminare tutte quelle leggi, quelle misure, che contrastano alla libertà di circolazione; si tratta di INTEGRAZIONE NEGATIVA, nel senso che bisogna togliere qualcosa che c’è già, cioè le leggi nazionali incompatibili con la disciplina europea. Ciascuno lo può fare da sé una volta fissati gli obiettivi al fine di adattare la legislazione interna alle richieste europee. Per realizzare la libera concorrenza però non è necessario solo questo: una concorrenza vera ed effettiva se la possono fare due produttori che lavorano in contesti sociali e produttivi paragonabili tra loro. Bisogna perciò costruire un sistema economico e sociale europeo nel quale ci sia maggiore livellamento nella ricchezza, nella capacità produttiva di diversi territori. A tal proposito i trattati introducono ulteriori interventi, per omogeneizzare le condizioni economiche e sociali dei vari paesi, e dei vari territori che compongono i paesi. In questo caso si parla di INTEGRAZIONE POSITIVA, che chiede di costruire forme ci cooperazione, di sinergia, di investimento per rilanciare territori più in difficoltà di altri. Questo punto è più difficile da realizzare, perché richiede un piano di sviluppo che va coordinato a livello nazionale ed europeo, mentre per l’integrazione negativa si tratta solamente di eliminare punti già esistenti. La storia dell’integrazione, in merito a ciò, è andata avanti in modo asimmetrico, a discapito di quella positiva, che in molti aspetti, addirittura, non è mai stata realizzata, e quindi non si è mai trattato di una vera e propria concorrenza, ma di una concorrenza con disuguaglianze strutturali. Sul piano delle istituzioni la comunità viene costruita secondo lo stesso modello della CECA: - COMMISSIONE, apparentemente è l’equivalente dell’Alta Autorità, perché il principio rimane quello tecnocratico. Si ragiona quindi in senso europeo, rappresentando l’intera comunità e non solo il proprio paese. Deve presentare delle proposte di legge, che verranno poi approvate dal Consiglio dei ministri, il vero detentore del potere. - CONSIGLIO DEI MINISTRI, molto simile al precedente, un’istituzione intergovernativa che vuole dare rappresentanza ai sei governi nazionali che fanno parte della comunità. Il ministro che partecipa, essendo la CEE di carattere generale, viene stabilito attraverso la composizione a rotazione, a seconda dell’argomento che deve essere trattato. Al contrario della CECA, il Consiglio dei ministri è l’organo che decide concretamente, e in alcune materie le decisioni devono addirittura essere prese all’unanimità. - ASSEMBLEA PARLAMENTARE, coincidente con l’assemblea della CECA. - CORTE DI GIUSTIZIA, è esattamente la stessa della CECA, lo stesso organo che svolge questioni giuridiche per tutte e tre le comunità (anche EURATOM). I Trattati di Roma prevedono che ci sia una fase di transizione di dodici anni, dal 1958 al 1970, durante la quale devono avvenire due cose:  Realizzazione delle misure di integrazione positiva e negativa in modo progressivo per preparare tutti, e decisione, da parte del Consiglio dei ministri, su una serie di materie non più all’unanimità ma a maggioranza. Votare a maggioranza vuol dire che il singolo stato, o due stati, possono essere messi in minoranza, al quale poi verrà imposto il provvedimento 40 da loro rifiutato (condizione non condivisa dalla Francia, in particolare da De Gaulle). In questo modo si andrà a “contaminare” la sovranità degli stati, non potendo più rifiutare un procedimento da loro non condiviso, se ovviamente approvato dalla maggioranza.  L’assemblea dovrà progressivamente trasformarsi in un vero Parlamento europeo eletto dai cittadini. Questa prima bozza di comunità dovrà evolversi verso un qualcosa di più che sovranazionale, assumendo una conformazione non federale ma quasi. In Francia si presenta un ennesimo cambio di politica, si passa al semipresidenzialismo con presidente Charles de Gaulle. Quando de Gaulle, che non ha firmato il Trattato di Roma, scopre che la comunità è destinata ad un equilibrio non più intergovernativo ma sovranazionale, è contrario. Su questo punto si creeranno dei conflitti molto forti, da un lato tra de Gaulle e la maggior parte degli altri paesi, ma soprattutto con Hallstein, presidente della Commissione. Il progetto del presidente francese sull’Europa consiste di congelare la CEE esattamente così com’è, con gli equilibri intergovernativi originali; Hallstein invece è al vertice dell’organismo che non solo deve fare delle proposte politiche, ma deve proprio mettere in moto il processo di integrazione, arrivando nei tempi prestabiliti ad un’unità sovranazionale, con un Parlamento europeo. Sono due visioni dell’Europa completamente divergenti. L’unica vera materia nella quale la CEE agisce e investe risorse è l’agricoltura, attuando di particolar modo la PAC, un insieme di risorse e interventi a sfondo agricolo, del quale ne beneficia maggiormente la Francia. De Gaulle quindi forza molte volte, ma non può mai rompere definitivamente la comunità, essendo il maggior beneficiario di tali iniziative. Da un punto di vista economico e finanziario, nei primi anni di funzionamento, le istituzioni della comunità vengono finanziate dagli stati che elargiscono dei contributi, traendoli dalle proprie finanze nazionali secondo regole imposte da Trattati internazionali. Ma il trattato dice anche che con lo svilupparsi della comunità, devono anche nascere risorse proprie della comunità, cioè che può prelevare e incamerare direttamente senza passare attraverso gli stati. Tra le varie tipologie possiamo trovare parte della Tariffa Doganale Esterna; è il terzo segnale del fatto che si vuole creare una comunità con una sovranità maggiore. Su tutte queste questioni si apre ulteriormente il dibattito tra Hallstein e de Gaulle, il quale vuole impedire tali passaggi. Hallstein, professore universitario, diventa uno degli uomini chiave per la Germania dal punto di vista della politica estera. Hallstein ha una visione meno tecnica e più politica dell’integrazione europea, tenendo come modello quello federale, che può essere quello americano o quello svizzero. Quando diventa presidente della commissione, inoltre, interpreta il proprio ruolo in modo molto forte: pensa di essere a capo di una istituzione con compiti tecnici, ma alla quale il Trattato di Roma attribuisce il ruolo di custode dell’interesse superiore europeo, del trattato in quanto tale. Hallstein interpreta questa funzione attribuendo alla commissione il ruolo di mettere in atto tutti gli strumenti necessari, affinché quello che c’è scritto nei trattati venga messo in atto. Addirittura, quando negoziava con la Germania il Trattato CECA, teorizzava che dal passaggio dall’Alta Autorità alla Commissione dovesse nascere una sorta di Governo Europeo. Ma i modelli federali svizzero e americano sono irraggiungibili per l’Europa, perché è composta da stati nazioni con storie secolari; per questo Hallstein definisce l’Europa una FEDERAZIONE INCOMPIUTA, con un Parlamento, una Commissione diventata un Governo, con risorse proprio, ma con qualcun'altra caratteristica non propriamente federale, come il Consiglio dei ministri. Coloro che non credono nella visione federale, anche l’idea di una Federazione incompiuta o del Governo europeo, sono idee assurde, come per Charles de Gaulle, militare francese, Primo ministro della Quarta Repubblica. Secondo la sua visione del processo di integrazione europea, 41 non sono realizzabili l’idea delle risorse proprie, del voto a maggioranza (che tolgono potere al singolo stato), il nuovo Parlamento europeo; si basa infatti sull’idea che la politica sia fatta da nazione, neanche tutte sullo stesso piano. Il Parlamento europeo non presenta più le divisioni dei rappresentanti per paesi, ma per coalizioni, logica insensata per de Gaulle, secondo il quale l’idea transnazionale sia impensabile, ma bisogna preservare la logica nazionale. Si tratta di un’Europa profondamente intergovernativa, che deve essere abbastanza autonoma dagli Stati Uniti, altro punto di contrasto con Hallstein (e Aron, con il quale invece era più vicino per quanto riguarda le altre idee). De Gaulle era così fiducioso sul ruolo politico della Francia, da pensare ad un equilibrio che andasse oltre la Guerra Fredda. In tutta questa questione però, disposto ad impedire gli sviluppi federali, era legato ad un vincolo per lui favorevole: si tratta dell’idea dell’unione doganale, tipicamente francese. Inoltre, il piccolo bilancio della CEE viene utilizzato in gran parte per finanziare le politiche agricole, che giovano largamente la Francia. Nel 1963 la Gran Bretagna fa domanda di entrare nelle comunità europee, dalle quali era rimasta fuori dopo aver fatto una previsione costi-benefici. Con il passare del tempo si accorge infatti che le economie dei paesi membri, penalizzati dalla tariffa doganale, presenta delle prospettive di crescita molto maggiori di quelle ipotizzate dall’Inghilterra. Quando un paese fa domanda di ingresso, deve rispettare alcune condizioni, ossia l’unanimità dei paesi membro: a gennaio del ’63 de Gaulle fa una conferenza stampa e annuncia che la Francia è contraria all’ingresso della Gran Bretagna. Da un lato enuncia questo spirito da “leader incontrastato” francese, ruolo messo in discussione da un potenziale ingresso degli inglesi, dall’altro de Gaulle testimonia che non gli interessa del pensiero dei suoi partner, non si approccia con un metodo più dialogante. Questa situazione determina così un primo momento di crisi, impedendo un ingresso strategico e una qualunque evoluzione della questione. Altra questione esplode nell’estate del 1965, quando la comunità sta realizzando progressivamente il mercato, e Hallstein ha presentato una serie di proposte per attuare il Programma delle risorse proprie della comunità, e che trasformino il Consiglio dei ministri in un’istituzione che decida alla maggioranza. Ma a conoscenza del pensiero contrario di de Gaulle, li presenta all’interno di un pacchetto unico nel quale troviamo anche un rifinanziamento delle politiche agricole, che interessano particolarmente alla Francia. A questo punto de Gaulle decide che per evitare una qualunque decisione, i rappresentati francesi smettano di andare completamente al Consiglio dei ministri: si apre la così detta crisi della sedia vuota. Il funzionamento del Consiglio dei ministri prevede che i rappresentanti siano tutti presenti per poter proseguire legalmente con i lavori, a prescindere dal metodo di voto. Per sei mesi abbiamo quindi la paralisi totale della comunità. Le rappresentanze dei sei governi si trovano a Città di Lussemburgo e trovano un compromesso (chiamato il compromesso di Lussemburgo). Resta valido quello che dicono i trattati, nessuno può modificarli, ma de Gaulle ottiene un impegno politico, nel quale si dice che a prescindere da quello che si dice nei trattai, un paese membro può chiedere che su una materia che considera di interesse vitale, si cerchi l’unanimità, senza la quale non si prendono decisioni. Si apre una dimensione parallela, giuridica e politica, per la quale i trattati valgono ma fino ad un certo punto, perché ogni stato per qualunque materia può cambiare la regola della maggioranza e modificarla all’unanimità. Effetto immediato del compromesso è il ritorno della Francia nel Consiglio dei ministri, quindi l’avvio dei lavori; si apre però una crepa sulla stabilità dell’integrazione europea. De Gaulle ha dovuto quindi cedere sul fatto che i trattati rimangono intatti, ma ha vinto la “sfida” in quanto è riuscito ad inserire nel quadro dell’integrazione europea questa clausola dell’interesse vitale, con la quale si può minacciare concretamente l’integrazione europea. La CEE si è messa in funzione, riesce obiettivamente a portare a termine alcuni aspetti, come la liberalizzazione del mercato, se non che ci sono una serie di ombre (come proprio il compromesso di Lussemburgo) che mettono in discussione dall’interno la linearità dello sviluppo 42 del movimento stesso, avversari di Monnet e Schuman, in quanto vogliono un’Europa più forte da subito, un’Europa federale, come hanno fatto gli americani. Ad un certo punto però il MFE mette in atto una serie di iniziative volte alla sensibilizzazione dei cittadini europei in senso federalista, iniziative che tuttavia falliscono, come ad esempio raccolte di firme o campagne politiche. All’interno del movimento stesso si aprono così due anime: da una parte Albertini che procede sulla strada movimentista, per il quale prima o poi si raggiungerà l’obiettivo federale senza dover cambiare strada, dall’altra Spinelli, che rimane federalista ma sostiene che per ottenere la federazione bisogna dialogare con le istituzioni comunitarie. Negli anni ‘70 quindi Spinelli entra nelle istituzioni europee, per perseguire il disegno federalista dall’interno; per circa sei anni ricopre il ruolo di Commissario europeo, nominato in quanto i tre paesi maggiori (Italia, Francia e Germania) presentavano tre commissari, e il Governo italiano sceglieva i suoi rappresentanti uno dall’area demo-cristiana e l’altro dall’area laico-socialista, dalla quale è stato scelto appunto Spinelli come candidato trasversale. Una volta a Bruxelles il Commissario non era tenuto a rispondere dei governi nazionali, ma nonostante le materie alle quali era stato rilegato erano industria e ricerca, interpreta il proprio mandato in termini estensivi, non sottraendosi cioè al dibattito coevo sul il processo di integrazione europea. Avanza in particolar modo proposte politiche, che tuttavia non vengono approvate dagli altri Commissari, non completamente pronti per intraprendere questa lotta; quando anche il presidente della Commissione Malfatti si dimette per rientrare nella politica nazionale, crolla l’ottimismo di Spinelli. L’anno della sua dimissione coincide con l’anno delle votazioni del Parlamento europeo, e a tal proposito il partito comunista cerca il maggior numero di candidati possibili per presentare una lista. Quando Amendola, rappresentante del partito comunista, gli propone di entrare a far parte del partito, Spinelli accetta ed entra nel Parlamento europeo con questa lista. In questa lista cerca di costruire insieme ai parlamentari più europeisti di tutti i partiti una sorta di gruppo trasversale, costruendo poi il “Club del Coccodrillo”, nel quale si cerca di far rinascere un’idea federale di Europa, dal luogo nel quale si è ottenuta una prima svolta in senso democratico. La campagna di Spinelli procede bene, e nel febbraio dell’1984 l’intero Parlamento europeo a larghissima maggioranza vota un progetto di Trattato sull’Unione Europea, elaborato proprio da Spinelli insieme a qualche amico intimo, in cui viene disegnata una nuova unione europea che prenda il posto delle comunità, con un assetto non proprio federale, ma un volto molto più sovranazionale della comunità europea degli anni ’80. Nel lessico degli iniziati viene chiamato il PROGETTO SPINELLI, un testo sul quale il Parlamento vota al fine di creare una comunità europea più federale di quella esistente. Nonostante ciò, Spinelli non ha la forza di volontà e la forza politica per realizzare questo progetto, che alla fine viene archiviato, anche se tuttavia la macchina istituzionale è stata messa in moto. Un governo che invece non vuole neanche sentir parlare di riforma delle istituzioni è quello inglese, in particolar modo Margaret Thatcher, la quale è stata Premier in Gran Bretagna dal 1979 al 1990. Il suo obiettivo era cambiare il paradigma economico dentro e fuori il paese, per liberalizzare il più possibile i commerci. La sua posizione nei confronti della politica europea per molti versi è uguale a quella di De Gaulle dal punto di vista della personalità, in quanto a livello di ideologie politiche si trovavano agli opposti. L’unico elemento che le interessa nel rapporto con i partner è che venga protetto l’interesse nazionale della Gran Bretagna, e appena sale al potere analizza come funziona la macchina europea e individua alcune particolarità che non condivide. Ad esempio, il fatto che vengano fatti una serie di investimenti pubblici in diversi territori, che invece in Gran Bretagna sono stati tagliati; in più la gran parte de fondi europei non vanno ai fondi strutturali, ma vanno alla PAC, per finanziare gli agricoltori. Il problema è che la Gran Bretagna è un paese iper industrializzato e ha pochissimi agricoltori. La Thatcher, che ragiona in termini nazionali, non accetta il fatto di utilizzare parte del proprio bilancio per pagare una politica che non 45 interessa minimamente alla Gran Bretagna, accendendo così un primo dibattito con le istituzioni europee, in particolare Jaques Delors. La comunità europea funziona quindi in un modo svantaggioso per i britannici, e in più la premier vede che tanti studiosi continuano a parlare di riforme delle istituzioni europee che voglio accentuare il carattere sovranazionale della comunità. Dopo aver ventilato l’apertura di una crisi con gli altri capi di stato e di governo, in puro stile gollista, nella prima metà degli anni ’80 la premier ottiene una serie di accordi provvisori che sanciscono il rientro in patria di una quota pari ai 2/3 del contributo britannico al bilancio comunitario, in attesa di una riqualificazione o addirittura di una concentrazione delle uscite. Il ruolo della Thatcher è quello del governo che, durante le riunioni per rendere tendenzialmente più federale la comunità, ostacola i lavori; sarà infatti con la fine del suo mandato che si potrà designare il Trattato di Maastricht. L’unica iniziativa che accetta è l’Atto Unico Europeo, un testo giuridico di riforma del Trattato di Roma che nasce da due iniziative separate, una sulle questioni economiche e l’altra su questioni di cittadinanza; questo testo da più potere al parlamento europeo e accelera la realizzazione del mercato rafforzando anche gli elementi di liberalizzazione. Nel consiglio europeo di Milano del 1985 (svolto a Milano perché in ciascun semestre la presidenza del Consiglio europeo e del Consiglio dei ministri era affidata ad un paese differente), Craxi, il presidente del consiglio italiano, e il deputato Andreotti, danno una prova di grande europeismo, in quanto in qualità di presidenti del Consiglio europeo possono decidere come votare le proposte, e per questo decidono che l’approvazione dell’Atto Unico deve essere votata a maggioranza, andando così ad obbligare la Thatcher ad attuare la proposta. L’atto, inoltre, viene scritto in un modo che viene poi accettato anche successivamente dalla premier britannica, in quanto non sembra modificare l’Europa in senso federale, ma è addirittura volto ad assicurare un modesto avanzamento dell’integrazione in ambito politico-istituzionale e il completamento del mercato europeo. l’intervento thatcheriano può essere riassunto nel discorso che ha fatto al Collegio d’Europa di Bruges nel 1988, il quale si focalizzava fondamentalmente su: - L’integrazione europea accettabile soltanto se resta una forma di cooperazione libera tra stati sovrani e nazionali, non in termini sovranazionali o federali; - L’Europa come un grande mercato che deve diventare sempre più moderno, cioè sempre più libero e riguardare sempre meno il settore agricolo ma sempre più l’ambito industriale e quello terziario (i servizi, la finanza); - Trasformazione del mercato europeo il più possibile collegato con il resto del mondo, in particolare abolire la tariffa doganale esterna, trasformando l’Europa in un mercato perfettamente integrato nel resto del mondo. IL RITORNO DELLA POLITICA: L’EUROPA DI MAASTRICHT In Europa tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 finisce la Guerra Fredda. Le comunità europee sono sempre state da subito parte del blocco occidentale, ma quando i due blocchi vengono superati cambia il quadro generale nel quale si inserisce il processo di integrazione europea. Con la fine della Guerra Fredda va in scena un allargamento significativo soprattutto nei confronti dei paesi ad est della Cortina di Ferro. Il dibattito principale in questo periodo riguarda proprio l’ingresso di questi paesi. Altra questione è focalizzata invece sulla Germania, nella quale scompare la divisone militare, ma affinché si riunifichi deve superare una serie di difficoltà politiche ed economiche. Un paese però è contrario a questa riunificazione della Germania, più forte e più stabile, la Francia, che la vede come una minaccia della proprio potenza; il punto è che i francesi cercano di fare in modo che l’unificazione tedesca venga legata ad alcune concessioni a favore della Francia, come la supremazia che esercita sulla sua moneta, e l’inserimento della Germania in una comunità non solo economica ma soprattutto politica (che porteranno poi alla nascita dell’euro e dell’Unione Europea). 46 La grande svolta ci sarà poi nel febbraio del 1992 con il Trattato di Maastricht, al punto che si crea il nuovo soggetto dell’Unione Europea, pochi anni dopo l’istituzione dell’Atto Unico. Sono anni decisivi, che cambiano non solo le relazioni internazionali, ma proprio il volto dell’Europa. Gli aspetti esterni dell’integrazione europea riguardano la fine della Guerra Fredda e le sue conseguenze politiche. Per i tedeschi si tratta della possibilità di tornare a pensare all’unificazione, partendo dalla disgregazione della Germania Est e del mondo sovietico in generale. Finiscono tutti quei regimi satellite che l’Unione Sovietica si era costruita nell’Europa Orientale, paesi formalmente indipendenti come la Polonia o l’Ungheria, ma di fatto controllati dall’URSS. Questo scenario si modifica, perché quando quei regimi crollano i vari paesi devono pensare al loro futuro, improvvisamente liberi, e devono perciò decidere se candidarsi per entrare nella CEE. Cosa succederà sul fronte Orientale dell’Europa? Le questioni interne invece si basano su: - Gli Accordi di Schengen, trattati firmati inizialmente solo da cinque paesi (Germania, Francia e i tre paesi del Benelux), per fare in modo che si realizzi la libera circolazione, con la differenza rispetto ai Trattati di Roma che non riguarda solo i lavoratori ma riguarda le persone in generale, realizzata con l’abolizione del controllo alla frontiera. Si tratta di una nuova forma di integrazione europea che accentua la libera circolazione. È vero che Schengen riguarda le frontiere interne dell’Unione, ma riguarda anche i migranti provenienti dall’esterno, in quanto una volta che un migrante entra dentro l’Unione, può muoversi su tutto il territorio senza essere sottoposto a controlli. - La moneta, in quanto la questione si trascinava da un sacco di tempo. Nei dibattiti sull’integrazione europea è stato un grande protagonista il mercato comune, in particolare il principio della concorrenza. Per i primi 30 anni dell’integrazione europea, i Trenta Gloriosi, è successo che i rapporti di cambio tra le monete nazionali sono rimasti stabili, perché tutto questo era garantito dai rapporti di Bretton Woods, i quali legavano tutte le monete nazionali al dollaro, a sua volta legato all’oro. Ma nel 1971 il presidente americano Nixon decise di porre fine alla convertibilità del dollaro in oro, facendo cadere la stabilità delle valute; fino all’inizio degli anni ’90 le monete nazionali hanno cominciato ad oscillare. Il modo per risolvere questo problema è creare una moneta unica, una proposta non accolta per tantissime ragioni, in particolar modo dovuto al fatto che i due grandi paesi che stanno guidando l’integrazione europea, Francia e Germania, non sono d’accordo: secondo i tedeschi la moneta unica ha senso solo se guidata dal Marco tedesco e, tra l’altro, in una situazione di equilibrio di bilancio. I francesi invece sostenevano le tesi di un possibile deficit del bilancio, di debito pubblico; propongono così la realizzazione della moneta unica subito, e i paesi, visto che dovranno adattarsi ad una serie di comportamenti, dovranno rispettare una serie di convergenze. Con la fine della Guerra Fredda si creano delle condizioni nuove per cui i paesi decidono di fare un accordo politico: quando la Germania capisce che è possibile riunificare il suo territorio, è disposta a fare dei sacrifici per fare questo, tra i quali c’è proprio la realizzazione della moneta unica secondo le premesse francesi. I tedeschi rinunciano così al Marco, la moneta europea più forte, e a seguito di una serie di richieste si firmerà il Trattato di Maastricht. I due punti di riferimento di questo processo di integrazione europea sono il presidente socialista François Mitterrand per la Francia, e il cancelliere democristiano popolare Helmut Kohl per la Germania. Una terza figura, il presidente della Commissione europea dell’epoca Jacques Delors, ha una visione di politica economica che è intermedia tra i due politici, nonostante provenisse dal mondo socialista francese. L’incrocio di queste tre figure è il punto più alto dell’integrazione 47 positiva). Entrano così tutti i paesi (tra cui anche Svezia, Finlandia e Austria), ma l’unico che rimane fuori provvisoriamente è la Grecia, con una serie di problemi strutturali ancora più gravi di quelli italiani: tuttavia, dopo due anni, nel 2001, questi problemi sono stati superati e la Grecia riesce ad entrare nella nuova unione europea, andando così a contrastare l’idea di Dahrendorf. Il dato di fatto è che pur con le contraddizioni presenti, la moneta unica parte, inglobando tutti i paesi che volevano farci parte. Si inseriscono altri filoni dell’integrazione europea, che segnalano il fatto che questa sia un luogo attrattivo, nel quale in molti vogliono entrare, segnale di vivacità e salute. Ma con la fine della Guerra Fredda, oltre ai lavori sull’euro, gli europei si occupano anche dei rapporti con i paesi che facevano parte del vecchio blocco sovietico, e che più in generale facevano parte dell’Europa centro-orientale. I paesi usciti dal blocco sovietico (Romani, Bulgaria, Slovacchia, Turchia) fanno domanda per entrare nell’UE, percepita come un progetto vincente, e si tratta di scegliere se accoglierli o no. Dal punto di vista politico la domanda principale riguarda quella di un’idea di Europa coincidente solo con la parte occidentale o più continentale, visione che prevale, e per questo si lavora per una riunificazione dell’Europa, unendo quei due pezzi separati in modo artificiale dalla guerra. Si allargano i confini dell’Europa verso Est, un allargamento che deve essere accompagnato dal punto di vista politico. La prima questione viene posta da coloro che credono in un’impostazione definita dai Trattati di Roma degli anni ’50, ad esempio ci sono una serie di settori (politica estera, di difesa e politica interna) dell’unione in cui si vota all’unanimità: uno dei primi effetti della prospettiva di allargamento è che si deve discutere nuovamente di istituzioni, e qui vediamo che tra fine anni Novanta e primi anni Duemila è un susseguirsi continuo di migliorare le istituzioni europee. Vengono firmati due nuovi trattati, quello di Amsterdam del 1997 e quello di Nizza, che vorrebbero semplificare i meccanismi istituzionali. Su questo fronte la vera svolta si avrà negli anni Duemila, attraverso l’idea di adottare una costituzione europea, rifondare l’UE e l’integrazione guardando ad un orizzonte che sia sostanzialmente costituzionale. Altra grande questione è che l’allargamento pone un altro problema, ossia che i paesi “nuovi” sono paesi molto diversi da quelli già membri: meno sviluppati economicamente, non sono mai stati democratici nella loro vita politica precedente. Il processo di adesione di questi paesi viene immaginato con il loro avvicinamento al modello degli altri stati, secondo i Criteri di Copenaghen, per i quali chiunque vuole entrare nell’UE deve avere un assetto democratico (presenza di istituzioni stabili che garantiscano la democrazia, lo Stato di diritto, i diritti umani, il rispetto delle minoranze e la loro tutela), un’economia di mercato (capitalistica, non più programmata di stampo sovietico) e deve sottoscrivere tutta l’integrazione già attuata prima. Attraverso incentivi ed aiuti economici europei questi paesi si impegnano ad entrare nell’unione, ma la transizione è lunga e complessa, e ha sullo sfondo il fatto che in ogni caso, per quanto cerchino di risollevarsi in termini di economia e sviluppo, finiscono comunque per entrare nel grande mercato europeo. Nel 2004 è nata un’Europa molto più grande di prima, con l’ingresso di questi dieci nuovi paesi, alcuni dei quali di notevoli dimensioni (per un totale di 500mln di abitanti), e in termini economici si stabilisce un mercato nel quale è vero che ci sono stati dei tentativi di armonizzare le condizioni economiche, ma l’effetto è che in un mondo che si sta globalizzando avviene che una serie di persone/lavoratori che abitavano ad Est cominciano a trasferirsi liberamente nella parte occidentale, più sviluppata, in cerca di opportunità di lavoro; la cosa riguarda anche le merci, e si apre tutta una competizione di livello continentale tra produttori che però producono a condizioni diverse (salari, costi di produzione). L’effetto pratico è che i beni e la produzione nella parte orientale avviene a costi molto più bassi, generando una concorrenza dura nei confronti di merci, prodotti e servizi che provengono dal mondo occidentale. Questo elemento, combinato con la grande liberalizzazione, cambia la struttura stessa del mercato europeo, che diventa un mercato con una parte occidentale 50 con costi molto alti, ma più avanzata, e una parte orientale meno sviluppata ma con costi più bassi: è una competizione asimmetrica, tema che persiste a cavallo tra i due secoli. LA PROSPETTIVA DELLA “COSTITUZIONE EUROPA” Terza questione alla base del processo di integrazione europea riguarda il dibattito sulla costituzione europea. L’unione, talmente estesa a livello di popolazione ma anche di materie nelle quali opera, non può operare come le comunità delle origini, ma va ridiscussa politicamente, riaffermando il senso dell’integrazione stessa (cioè il fine federale), e tale discorso viene impostato su due livelli: - LIVELLO FILOSOFICO, che non ha come riferimenti politici o statisti implicati nel dibattito dell’integrazione europea, ma orientato sul fatto che l’Europa ha bisogno di una costituzione, e trova suo riferimento in Habermas; - LIVELLO POLITICO, ragionamenti politici sulla possibilità di costituzionalizzare l’europea, in particolar modo facendo riferimenti a Fischer, ministro degli esteri tedesco. Habermas, sociologo e filosofo tedesco, dice di essere convinto che il livello di sviluppo dell’integrazione europea è così avanzato che sarebbe opportuno inquadrarla all’interno di una cornice giuridica, all’interno di un orizzonte pienamente costituzionale. Se arrivo a concepire una UE che si occupa di tanti ambiti, tra cui la moneta unica, formata da diverse comunità, bisogna rendere più democratico questo assetto politico. L’idea di fondo è che dove si sono costruiti stati democratici ci sono stati dei processi costituenti; a livello europeo questo invece è più complicato, in quanto l’Europa è un’unione di stati, ciascuno dei quali ritiene di avere un proprio popolo, con storie e identità diverse. Bisogna trovare un modo per spiegare agli europei che possono essere non solo la somma di tanti popoli, ma europei in quanto tali, andando a creare un popolo europeo, una identità europea. Per Habermas gli europei dovrebbero pensare a loro stessi sulla base di alcune caratteristiche che si muovo su un livello diverso da quelle che definiscono l’appartenenza al popolo nazionale; l’identità politica può essere divisa sulla base di diversi livelli, e il fatto di essere cittadini italiani deve essere compatibile con il fatto di essere cittadini europei, in quanto fanno riferimento ad ambiti e competenze diverse tra loro. In più se ci spostiamo fuori dalla politica, ad esempio al livello religioso o linguistico, la differenza tra i popoli è inevitabile, ma il punto è che gli individui devono saper usare i codici di ragionamento che servono per il tipo di questione di cui si stanno occupando in quel momento. La società è divisa in tanti livelli e tante comunità, e il fatto di stare in una di queste non implica l’incompatibilità con un’altra, ma cambia il tipo di linguaggio che utilizzo tra un contesto e un altro. Nel momento in cui penso che serva un processo costituente europeo, che ci porta ad avere una costituzione e una democrazia europee, mi dimentico delle mie differenze politiche o religiose, perché sto ragionando in termini europei.; è quello che Habermas cambia il PATRIOTTISMO COSTITUZIONALE. Questo concetto non è stato pensato solo per la costituzione europea, ma anche per livelli minori, in stati come la Germania, in quanto è un ragionamento di attaccamento allo stato perché si ritiene di avere un coinvolgimento nella vita costituzionale di quel paese, non per particolari caratteristiche storiche o linguistiche. Parte dal presupposto che l’identità è multipla, e ciascuno di noi è formato da diverse parti, senza uno che prevale sugli altri, ma dipende dal contesto in cui mi trovo. Fischer, ministro degli esteri tedesco, ispira due grandi passaggi della storia europea: il primo è la proposta di scrivere una carta dei diritti dell’UE, quella che sarà poi la Carta di Nizza. Il ragionamento è simile a quello di Habermas, per cui si è arrivati ad un processo di integrazione per il quale sarebbe bene mettere insieme una carta dei diritti dei cittadini europei. Dal 1999 Fischer attesta che l’UE non è solo un’unione tra mercati, ma è qualcosa di più, e deve formalizzarsi anche dal punto di vista politico e giuridico, attraverso la stesura dei diritti fondamentali. Dire che anche 51 l’UE deve darsi uno strumento del genere è importante in termini simbolici, vista come un qualcosa che deve avvicinarsi ad una comunità politica quasi statuale. La prima proposta ci fa quindi capire che Fischer vuole dare al processo di integrazione europea molto più simbolica di quanto non fosse prima. Il secondo passaggio Fischer lo compie nel maggio del 2000 attraverso un discorso a Berlino, nel quale dice che è venuto il momento di dare all’Europa una costituzione o un trattato costituzionale. L’impressione che ha, però, è che il processo di integrazione europea stia continuando in modo inerziale, perdendo di vista il nucleo del disegno complessivo. Forse è venuto il momento di aprire una discussione generale su quale sia il vero fine dell’integrazione europea, e la sua proposta è che secondo lui l’integrazione europea, come aveva detto anche Schuman, è che tutto questo processo nasceva con l’idea che l’Europa sarebbe diventata una federazione; dopo 50 anni non solo non si è avuta la federazione, ma non se n’è neanche parlato, in quanto non c’erano minimamente le condizioni per realizzarla. Un pezzo alla volta si è creato un insieme di istituzioni e di economie che non rientrano né in una confederazione, ma neanche in una federazione, sono organismi ibridi. È venuto il momento che questo organismo deve evolvere, e il suo obiettivo è la federazione: è la prima volta dopo cinquant’anni che un leader europeo ripropone la questione federale. Terzo punto riguarda come arrivare a questa federazione, e cioè attraverso una costituzionalizzazione di quello che c’è già in Europa; Fischer lascia la strada aperta tra l’idea di costituzione in senso stretto (documento giuridico che appartiene al diritto pubblico), e l’idea del trattato costituzionale. In termini strettamente costituzionale si presupporrebbe che l’UE diventasse sostanzialmente uno Stato (visione di Spinelli), ma al termine del suo discorso usa la formula più diluita di trattato costituzionale, che sarà poi quella che verrà adottata. Il trattato costituzionale tiene insieme due versioni diverse: quella costituzionale del diritto pubblico, che fa riferimento ai singoli stati, e quella internazionale, il diritto composto da soggetti diversi tra loro. Questo tipo di impostazione è quella che poi verrà seguita tra 2000 e 2001, quando il primo ministro del Belgio e presidente dell’unione Verhofstadt, riesce a far approvare all’unanimità il Documento di Laeken che mette in moto un processo di “costituzionalizzazione dell’Unione Europea”: dovrà essere convocata una convenzione che scriva il testo di un trattato costituzionale, che dovrà poi passare all’approvazione degli stati. La Convezione, sperimentata con la carta dei diritti, è un organismo non eletto dai cittadini, ma nella quale ci sono i rappresentanti dei governi, ma ci sono anche i rappresentanti dei parlamenti nazionali, alcuni rappresentanti delle istituzioni europee, nonché alcuni rappresentanti della società civile; il senso è che il trattato non è stato scritto solo dai governi (tanto che l’Italia aveva due rappresentanti, il presidente del governo, Fini, e il parlamentare Amato scelto nell’opposizione). Il presidente di questa Convenzione è il francese Giscard d’Estaing, ed è colui che coordina i lavori; il trattato elaborato tra il 2002-2003 dovrà poi passare ad una Conferenza governativa. Nel 2004 i governi firmano solennemente a Roma il Trattato che adotta una costituzione per l’Europa, il quale deve essere ratificato dai parlamenti o dai cittadini attraverso referendum. 52 verificare che il consenso popolare ci sia effettivamente, e in grandi pezzi delle società ci sono vari dubbi e diffidenza nei confronti delle politiche proposte (come l’euro o l’allargamento). L’unico modo per superare questa crisi è cambiare strategia. Si stabilisce un asse italo-tedesco, con punti di riferimento la Merkel e Prodi, e la soluzione proposta è quella di riprendere il trattato costituzionale ma eliminare al suo interno tutta una serie di riferimenti che possono suscitare l’ostilità di coloro che non amano l’Europa, che davano un’idea troppo politica e sovranazionale del trattato, che dal lato pratico erano solo dei simboli. Nel 2007 si cancellano così questi elementi per poter salvare tutto il resto; si firma il Trattato di Lisbona, il quale è la fotocopia del trattato costituzionale ma senza quei simboli ambigui, nel quale si afferma l’idea di un’unione sempre più stretta (contestata dal primo ministro britannico Cameron), ratificato poi dopo due anni da tutti i governi nazionali. Ad oggi è il trattato che di fatto regola la vita dell’Unione europea. In termini pratico questo ha significato che una serie di riforme tecniche fatte dal vecchio trattato sono state approvate e consolidate con Lisbona, dal punto di vista politico e simbolico il nuovo trattato non può sostituire e cancellare il fatto che l’altro sia stato bocciato. Bisogna così distinguere tra la CRISI TECNICA risolta con il Trattato di Lisbona, e la CRISI POLITICA che invece continua; si apre una fase nella quale ogni volta che emergono dei problemi manca la forza politica di provare a risolverli in modo strutturale. Ci troviamo in un’Europa che paradossalmente si è rafforzata, ma che ha portato una crisi al progetto in senso stretto. Lisbona è l’ennesimo trattato che regola alcuni elementi dell’unione, ma che non risponde alla domande sul fine dell’unione stessa: è una sorta di crisi di identità che si apre dal 2005 in avanti, dopo che cercato di fare un salto verso la Federazione, ma che si è trattato di un salto non riuscito. Questi sono gli anni nella quale si nota maggiormente l’approccio intergovernativo, perché tutte le crisi varie vengono risolte dagli organismi intergovernativi (Consiglio europeo e Consiglio de ministri), i quali cercano di portare i paesi verso compromessi che vadano bene a tutti, ma su problemi minimali. In questa logica il COVID in un certo senso è stato affrontato in maniera diversa, nel senso che l’Europa emana due piani di ripresa economica (NEXT generation EU e il Recovery Found), con i quali l’Italia e altri paesi in difficoltà di fondi possono superare la crisi, fondi istituiti a livello europeo. Avendo creato un programma del genere, si è diffuso un nuovo consenso nella società verso l’Europa. 55 EUROPE IN THE GLOBAL AGE Con l’inizio del XXI secolo il processo di integrazione europea ha cambiato andamento, nel senso che all’inizio del Novecento si è sviluppata attraverso dei sali e scendi significativi, ma con l’inizio del nuovo secolo si è sviluppata in modo crescente, generando 30 anni di sviluppo dell’integrazione, al punto che nel 2004 è stato firmato il Trattato costituzionale, il punto più alto toccato dalla storia dell’integrazione (anche se poi non è entrato in vigore). Si apre così una sorta di crisi di identità dell’UE, mettendo in discussione il percorso stesso dell’integrazione europea. La crisi di identità è stata solo l’inizio di tante piccole crisi del progetto europeo. 1. CRISI ECONOMICA-FINANZIARIA-SOCIALE del 2007/2008, che ha avuto per l’Europa un’appendice nel 2010 con la CRISI DEI DEBITI SOVRANI. È formata da due fasi, una di crisi economica globale nel 2007, l’altra di crisi strettamente europea a partire dal 2010. La prima è nata a di fuori dell’Europa, quando le banche americane iniziano ad erogare finanziamenti per gli investimenti mobiliari, mutui e prodotti finanziari tossici, una crisi che poi si ripercuote su più livelli: familiare, finanziario in quanto crollano i più grandi istituti finanziari (Lenan Brothers), crisi di produzione che riguarda l’economia globale. La risposta che l’UE da a questa fase è stata che ciascuno stato gestisce in modo autonomo il superamento della crisi, con la grande differenza che mentre negli Stati Uniti avviene il passaggio da Busch ad Obama, il quale investe fondi pubblici per superare la crisi il prima possibile, in Europa la linea è di mantenere una politica restrittiva, nel senso che l’unione non ha forze o poteri per decidere soluzioni come quella di Obama, se non quella di nazionalizzare banche che stanno fallendo, ma senza i fondi pubblici. La seconda fase della crisi riguarda specificatamente alcuni paesi europei, paesi in un contesto di prolungata risi economica generale, quelli più fragili, i paesi definiti PIIGS (Portogalli, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna). Crisi dei debiti sovrani vuol indicare principalmente la situazione in Grecia, dove anche per una serie di manovre creative bilancio, servite tra l’altro per poter rispettare i parametri di Maastricht, non sono più in grado di ripagare il debito pubblico, ed emettere titoli di stato sul mercato. Anche nel caso italiano non si trovano finanziatori, anche alzando i prezzi. Si rischia di arrivare ad un punto nel quale un paese non è in grado di sostenere il sostentamento della propria società. La Grecia, senza risorse per finanziare le più basilari attività sociali, riesce tuttavia a salvarsi, in quanto è inserita dentro il contesto più generale europeo. L’esito del dibattito termina con la scelta fatta in concomitanza dalla cancelliera tedesca Merkel e il presidente francese Sarkozy: si sceglie una linea che sta a metà tra l’Europa e la Grecia, ossia trasferire fondi comuni per aiutare i greci che non riescono più a trovare finanziatori. Questa idea di comunizzare i debiti tuttavia viene bocciata, in quanto sarebbe troppo rischioso per i paesi con debiti più contenuti. Emerge una posizione intermedia: la Grecia esce dal mercato finanziario, e verrà aiutata da un fondo salva-stati (che sarà poi il MES), cui gli stati membri conferiscono una dotazione di risorse utili a sostenere i paesi coinvolti nella crisi, fondo erogato a condizione che i beneficiari attuino forme concordate con i componenti della Troika (commissione, BCE e FMI), la quale accantona una serie di risorse trasferite alla Grecia, ma questi aiuti sono condizionati, ossia che per potervi accedere deve impegnarsi a realizzare le riforme strutturali, le quali rispondono ad una impostazione del modello economico neo liberale (riduzione della spesa pubblica, dei costi della PA, riforma della pensione). L’esito finale è 56 che dopo un certo numero di anni i conti si assestano, riesce a rifinanziarsi, ma il rovescio della medaglia è un impoverimento e una crisi sociali senza precedenti. Nelle varie posizioni di euroscetticismo la questione greca è una delle fondamentali. 2. CRISI MIGRATORIA, quando nel 2015 (ma presente anche negli anni successivi) si è avuta la percezione di una intensificazione dei flussi migratori da Medio Orienta e Africa verso l’Europa. L’Europa da decenni è punto di arrivo di flussi migratori, almeno dalla fine della Guerra Fredda con le migrazioni dell’Europa dell’Est, un fenomeno strutturale della società europea; sarà poi alcuni anni dopo che una serie di avvenimenti portano ad un aumento di questi fenomeno (Primavera araba, guerra in Siria, ma anche le condizioni climatiche), dovuto prevalentemente dalla trasformazione degli spazi innescata dalla globalizzazione. L’UE gestisce questa materia sulla base di un provvedimento, il Regolamento di Dublino, che pensato negli anni ’90, secondo il quale quando un cittadino di un paese terzo arriva sul territorio europeo, deve essere identificato e preso in carico dal paese di accoglienza. Questo tipo di schema regge nella misura in cui ci sono pochi migranti, ma non a livelli enormi, cosa che succede in particolare nel caso italiano o quello greco, spingendoli a porre la gestione dei flussi migratori a livello europeo. È una crisi che riguarda tutto il dibattito sulla ridistribuzione percuote dei migranti in Europa: vediamo scontrarsi i paesi che vorrebbero attuare la distribuzione dei migranti, come i paesi sulle coste, mentre chi è contrario, come i paesi nordici o quelli orientali. Le motivazioni sono di carattere prevalentemente economico, in quanto la manodopera che arriva in Europa sarà necessaria per generare contributi che andranno a finire nelle pensioni italiane. Un secondo motivo riguarda invece il carattere identitario, in quando vengono riconosciute una minaccia per l’identità italiana ed europea. Uno dei problemi principali riguarda la differenza tra frontiere interne e frontiere esterne: una volta ottenuto, legalmente o illegalmente, l’accesso a uno stato membro, i cittadini di paesi terzi secondo gli accordi di Schengen possono liberamente muoversi su tutto il territorio europeo, circostanza che rende particolare il dibattito sulla crisi migratoria. 3. CRISI DELLA BREXIT, riguarda il rapporto tra un paese e l’UE, crea un precedente per gli altri paesi. Si tratta di un evento anomalo, che porta per la prima volta all’uscita dall’unione di un paese membro. Tutto nasce da una questione non strettamente europea, ma si tratta di un problema di politica interna britannica: il partito UKIP (il partito per l’indipendenza del Regno Unito dall’Europa), nato negli anni ’90 da una scissione del partito conservatore, è un partito insignificante nella storia politica della Gran Bretagna, non ha speranze di entrare in Parlamento, ma anche un partito piccolo del genere, rende più difficile ai conservatori vincere la loro sfida contro i laburisti. Il leader del partito conservatore Cameron cerca di ottenere maggiore sovranità e indipendenza dall’Europa, in modo che l’UKIP non serva e che anche il partito conservatore da solo potrà riuscire a dare maggiore autonomia alla Gran Bretagna. La risposta dell’UE è che non si possa aprire il dossier degli stati in quanto ci fosse un problema con un partito minore; tuttavia aveva già promesso il referendum al popolo, dicendo che comunque qualcosa aveva ottenuto ed era convinto di vincerlo. Nonostante ciò, nel giugno del 2016 vince l’opzione dell’EXIT, e di fatto Cameron perde sia con le trattative con l’UE e anche dal popolo. Dopo le sue dimissioni gli succede Teresa May, che aveva sostenuto come Cameron la posizione del REMAIN, si trova in un governo che deve dare attuazione all’uscita dall’unione. Incomincia una trattativa disciplinata dall’articolo 50 del Trattato di Lisbona, nella quale i britannici vorrebbero una serie di garanzia che l’Europa non vuole e non può dare (come il rimanere nel mercato). A 57 Le posizioni diventano così quattro, incrociando due variabili, pro/contro all’unione europea in generale o pro/contro a questa unione europea nello specifico. Le posizioni più interessanti sono quelle intermedie, ad esempio quelle di coloro che sono favorevoli al fatto che esista una forma di unità europea, perché convinti che serva, ma non favorevoli a questa forma precisa. Questa è una posizione molto particolare, perché sono scettico nei confronti di questa Unione Europea, ma sono disponibile a lavorare per realizzare una versione alternativa: è la posizione classica dei federalista europei, come Monnet e Schuman. Altro caso intermedio è quello di chi, al contrario, sono ideologicamente contrari all’idea di una unità europea, ma vedono nella presente Unione Europea una possibilità per trarne dei vantaggi: una posizione che viene definita di pragmatismo, in quanto si sfruttano i vantaggi offerti dal sistema, anche se non si ritiene il sistema migliore, come ad esempio nel caso di de Gaulle che era contrario all’Unione Europea ma che percepiva lo stesso i fondi della Politica Agricola Comune. La domanda che alcuni ritengono giusta nei confronti dell’euroscetticismo è lo scopo o l’obiettivo di questa critica, se sia una critica costruttiva, cioè per correggere il problema, migliorare la situazione e portare avanti il processo di integrazione europea, o è una critica distruttiva, quindi per rallentare o affossare il processo di integrazione europea. Dire che qualcuno è euroscettico, quindi, non basta, ma bisogna precisare quale tipo di euroscetticismo è più affine al suo pensiero, con l’elemento comune sull’integrazione europea, dubbi che tuttavia possono essere sviluppati in modo diversissimo tra di loro, e che di conseguenza portano a risultati altrettanto diversi. L’ANTIEUROPEISMO Alcuni sostenevano che con la distinzione tra euroscetticismo hard e soft, ancora più significativo è chiamare antieuropeismo il primo, per indicare una posizione di radicale opposizione; nasce quindi come una tendenza di contrarietà estrema. Il punto è che usare il termine antieuropeismo viene utilizzato più come un sinonimo di euroscetticismo, e non in modo sistematico. IL SOVRANISMO Molto presente nella discussione pubblica dei nostri anni. La radice etimologica è diversa da quella dell’euroscetticismo: la storia concettuale del sovranismo ha origine nel concetto di sovranità, più specifico rispetto all’euroscetticismo. Vuol dire porsi una serie di concezioni teoriche sul concetto di sovranità, in quanto i sovranisti sono giuristi, filosofi, politici, che sviluppano il loro discorso partendo dal fatto che la sovranità è uno dei grandi pilastri su cui è stata costruita la politica moderna (Hobbes, Bodin), e questo concetto si è poi associato strettamente allo stato: stato e sovranità sono due elementi cardine della politica moderna, che poi l’età contemporanea ha ereditato, in quanto nel XXI secolo concetti come stato e sovranità sono ancora temi centrali. E gli ultimi settant’anni c’è stata la tendenza a dimenticarsi che la politica è costruita sopra questi due pilastri, e ci si è dimenticati di questo per il fatto che i padri dell’integrazione europea pensassero di costruire un’Europa agendo nell’ambito dell’economia, e non nella sovranità dello Stato. la critica verso l’integrazione europea e tutto ciò che ha generato nasce proprio dal fatto che sia stata messa in piedi attraverso un meccanismo che nega all’origine le basi della politica moderna, facendo finta che non esistano gli stati e le loro sovranità. Questo sovranismo non necessariamente si riflette solo sull’Europa, perché l’altro tema che crea problemi ai sovranisti riguarda la globalizzazione: il processo di globalizzazione pone, per i sovranisti, lo stesso problema del mercato europeo o della moneta unica, cioè fatto secondo temi che cerca di bypassare gli stati e la loro sovranità, in quanto non si è mai posto il problema di governare questi flussi. 60 La questione dell’allargamento è stata ed è una questione molto complicata, in quanto implica l’allargamento del mercato, il ricongiungimento dell’Europa orientale con quella occidentale. Se non credo nell’Europa politica però, questo ingresso è utile, come dal punto di vista della Gran Bretagna, in quanto cerca di fermare il processo di una federazione europea. Nel panorama dei partiti nazionali e internazionali possiamo trovare diversi movimento euroscettici o antieuropeisti. Per quanto riguarda l’Italia si possono individuare Fratelli d’Italia, la Lega, ITALEXIT, e Movimento 5 Stelle (solo il PD è il partito che mai nella sua storia ha sostenuto tesi euroscettiche). L’atteggiamento dell’Europa cambia all’interno dei partiti a seconda dei diversi contesti; inoltre, i partiti appena elencati, pur criticando l’Europa anche per le stesse ragioni, non seguono le stesse posizioni euroscettiche. Tolte alcune frange presenti in vari di questi partiti, è improbabile che la linea maggioritaria abbia come obiettivo vero la negazione del processo di integrazione europea, o una qualunque partecipazione dell’Italia in una unità europea. Il rovescio di questo discorso, è che all’interno di tutti questi partiti ci sono voci che non nascondo posizioni veramente di negazione nei confronti dell’UE o di una sua evoluzione federale, contrapponendo a questa visione una strada più confederale. Posizione contraria verso tutto ciò che implica cessioni di sovranità, ma che non impedisce un meccanismo europeo che propone una collaborazione di stati. Questo tipo di partiti arriva a questa soluzione in nome di alcuni riferimenti culturali, come l’identità nazionale, tradizione che in Italia è tipicamente della Destra Nazionale, oppure come la democrazia, per il fatto che a livello europeo non sono presenti istituzioni democratiche, in quanto il popolo vota il Parlamento, ma le decisioni fondamentali vengono prese dalla Commissione europea e dalla BCE, istituzioni tecnocratiche. Questo discorso si ricollega al POPULISMO, movimento che si riferisce al fatto che il popolo non ha nessun modo di influenzare le vere decisioni politiche, che vengono prese dalle élite, da queste istituzioni tecnocratiche, le quali non rispondono alle esigenze della popolazione. Parlare di democrazia indicare dare una connotazione positiva ad una cosa, e al di la del contenuto specifico si usa proprio questo termine per combattere gli avversari politici. Fuori dall’Italia possiamo individuare alcuni partiti europei euroscettici, come quello di Marie le Pen, leader del Fronte Popolare francese, il partito tedesco Alternative für Deutschland (nato quando bisognava decidere cosa fare con la Grecia, per chi contesta la Merkel di essere stata troppo buona con i finanziamenti per l’economia greca), il partito ungherese Fidesz di Orban. L’euroscetticismo ormai è penetrato in tutti i paesi europei. L’EUROPA DELLE DESTRE L’euroscetticismo viene identificato in modi diversi a seconda che si parla di scetticismo di destra o sinistra. Nel caso della destra italiana si far riferimento a due testi in particolari, le opere di Valditara e Becchi.  SOVRANISMO, UNA SPERANZA PER LA DEMOCRAZIA , di Giuseppe Valditara, pubblicato nel 2017, quindi non fa riferimento a quelle esperienze degli ultimi due anni come la pandemia o la guerra. Giuseppe Valditara è un professore di diritto romano dell’università di Torino, ma è anche un uomo politico, con una lunga carriera politica alle spalle, orientata verso i partiti di destra (senatore di Alleanza nazionale, e più recentemente la Lega). In questo libro il ragionamento prevalente è che fin dalle prime pagine l’autore si colloca in certo ambito politico, in quanto Valditara si propone come intellettuale di riferimento del mondo conservatore (o sovranista). Dice che c’è in Europa, ma in generale nell’Occidente, una vasta area politica che si richiama al concetto di moderatismo, conservatorismo, sovranismo, che viene minacciata da una serie di correnti politiche, che mettono in discussione il loro ruolo, e la possibilità che questi svolgano una funzione di indirizzo 61 politico della civiltà occidentale. Gli avversari dei conservatori sono, sul piano strettamente intellettuale, sono coloro che Valditara chiama i GLOBALISTI, un insieme di differenti correnti politiche, delle vecchie correnti politiche dell’età contemporanea: liberali, socialisti, cattolici, uniti dall’idea che si vada verso un mondo in cui contano le dinamiche internazionali, nel quale perdono progressivamente la loro funzione i popoli, le nazioni, i confini, e le identità a questi legate. Il dibattito politico contemporaneo è quindi diviso in sovranisti conservatori e in globalisti progressisti, i quali credono in un mondo sempre più interconnesso, globalizzato e orientato verso questo obiettivo, i quali credono che sia un bene che si stia creando un nuova società globale in termini economici, culturali, sociali, dove non contano i singoli ma le comunità; il problema della globalizzazione è che prende di mira e vuole eliminare le identità nazionali, storiche, dei popoli, discorso molto presente nel sovranismo e nell’euroscetticismo di destra. Non si tratta necessariamente di distinzioni rispecchianti la vecchia destra e la vecchia sinistra, ma la scena politica viene scomposta in base a nuove tendenze. Inoltre, sempre secondo Valditara, mentre nel campo dei globalisti progressisti c’è un pensiero già sviluppato da decenni, e con una forte capacità di argomentare e di persuadere, nell’altro campo non ci sono posizioni così forti, ci sono dei dubbi, delle perplessità, ma non una costruzione ideologica: il passo successivo è quello di dare maggiore concettualità ai sovranisti conservatori (così come sono compatti i globalisti). I tre ambiti in cui questo discorso è evidente sono: - MONDO DELLA FINANZA INTERNAZIONALE, l’immagine della globalizzazione come è stata costruita negli ultimi trent’anni, quando negli anni ’80 si è cominciato ad eliminare una serie di restrizioni, in particolare quelle sul flusso di capitali, che ha proiettato su l mondo un’immagine orientata verso la libera circolazione dei capitali, dando una spinta alla finanziarizzazione dell’economia. Questa costruzione del mondo ha nella sua impronte elementi del globalismo progressista, questa fiducia di un mondo che si dimentica dei popoli e degli stati. - QUESTIONE DEI FLUSSI MIGRATORI, problema dato dal punto di vista in cui si guarda il fenomeno, e nel caso di Valditara non è quello economico, ma lo scambio incontrollato delle persone attraverso i vecchi confini nazionali geografici, è un elemento di destabilizzazione delle identità tradizionali. Se la tradizione, l’eredità culturale, la lingua, che si sono prodotti in una lunga storia, una serie di valore e principi si sono consolidati e hanno fatto dell’Occidente la parte più avanzata del mondo, viene però sempre più minacciato da un ingresso di popoli estranei a questa tradizione. La posizione di Valditara è che l’accoglienza nei confronti del migrante è ammissibile, a patto che poi questo soggetto accetti di integrarsi nella cultura che lo accoglie. I globalisti ignorano questo problema, in quanto sostengono la totale libertà di circolazione e non c’è niente da difendere, c’è solo una società indistinta nella quale siamo tutti uguali, siamo degli “individui sradicati”. - INTEGRAZIONE EUROPEA, va giudicata in modo articolato, cioè non deve necessariamente essere scartata, perché c’è stata la fase inziale dell’integrazione, in cui si era riusciti a conciliare la sopravvivenza e la difesa delle identità nazionali, con il giusto desidero di perseguire l’integrazione e la collaborazione, fatta coincidere con i Trattati di Roma del 1957. Secondo lui si realizzava un buon compromesso perché esprimevano un’idea confederale dell’Europa, in cui gli stati erano incentivati a collaborare, ma le decisioni principali erano in mano delle nazioni che le esercitavano democraticamente attraverso i propri Parlamenti. La sovranità nazionale ha come nemico il fatto che gli stati vengano privati di un pezzo della loro sovranità e spostata ad un livello superiore, come l’Unione Europea. Il mondo ideale per Valditara è quello in cui la sovranità popolare e quella nazionale vengono garantite. Nel corso del tempo l’integrazione europea si è trasformata, 62 - L’idea che si debba arrivare ad un ordine economico internazionale, nel quale non è la politica a fare le scelte fondamentali, lo stato sovrano o un qualunque altro attore sovrano, ma è l’economica che detta le regole. Questa sfida, che confluisce nel concetto di globalizzazione, è molto più profonda dell’altra perché non solo mette in discussione che ci siano stati sovrani democratici, ma mette in discussione il fatto che possa esserci un attore politico che prenda decisioni a livello economico. Questo vuol dire togliere le dinamiche economiche dalle mani degli stati sovrani, e fare in modo che queste siano completamente libere, al fine di creare un mercato libero a livello globale. È come se la sovranità non servisse più a niente, scomparisse, perché nel mondo post moderno è il mercato che si autoregola: tutte le ideologie neo liberali sono idee che nascono dalla volontà di abbattere il concetto stesso di sovranità come concetto politico. C’è stata una fase intermedia nella quale, pur riconoscendo al mercato un certo ruolo, si era riusciti ad inserire la libertà economica all’interno di un ordine statale, ed è stata la fase delle teorie keynesiane, che davano allo stato il potere di governare la politica economica degli stati. Quando il pensiero di Keynes è stato superato, si è stabilito che non serve un quadro politico di ordine, ma economica e mercato possono autoregolarsi e autoprodurre ad un livello infinito. Questa tesi, sostenuta dai neo liberisti, si è scontrata con la dura realtà della crisi economica del 2008 e le crisi successive, in cui si è visto chiaramente che tutto quel disegno era in realtà molto più problematico; nei vari ambiti politici, economici e sociali sono emerse varie forze che hanno contestato che potesse nascere una società globale perfettamente funzionante, pacifica ed equilibrata, che non avesse bisogno alcun sistema di coordinamento e riordino. Galli fa riferimento alla figura di Polani, che scrisse nei primi anni del Novecento, una fase di alternanza di fasi di nazionalizzazione e liberalizzazione, concetto che potrebbe essere applicato anche al giorno d’oggi. in sostanza, quando si guardano gli ultimi trent’anni della globalizzazione, l’avanzata pacifica non si è realizzata, contrastata da una serie di proteste, e quelli che noi chiamiamo i sovranisti sono proprie forme di protesta contro l’idea neo liberale della globalizzazione. È una protesta che chiede la sovranità perduta, rivogliono un’autorità politica che governi l’economia, espressione di una domanda giusta di ritorno della sovranità, espressione di cittadini che chiedono che l’economia riprenda il controllo dell’economia. Questo elemento è presente sia ne sovranisti di destra che in quelli di sinistra, e Galli, uomo di sinistra, ammette che il nucleo dei sovranisti è che chiedono protezione da parte della politica contro gli eccessi della libertà economica. Il discorso specifico sull’Europa è il fatto che questo quadro viene ulteriormente dettagliato dal processo di integrazione europea, il quale secondo Galli ha prodotto una “situazione intermedia”: eravamo partiti da stati ricostruiti democraticamente senza niente sopra di essi, con il processo di integrazione europea si sono spinti questi stati democratici a cedere pezzi di sovranità ad un nuovo livello, che in parte li ha acquisti. Questo processo però si è assestato in un punto nel quale abbiamo una situazione particolarmente complessa e difficile da decifrare: abbiamo stati non più pienamente sovrani (ad esempio non hanno più potere in moneta), i quali non sono più in grado di proteggere i cittadini come in passato. Dall’altra parte, al livello dell’UE, abbiamo questa entità ambigua che ha dei pezzi di sovranità, ma in realtà non ha acquisto tutti quei pezzi di sovranità che ha tolto agli stati, pezzi che è come se si fossero persi. Inoltre, l’UE, anche se non è pienamente sovrana, non è neanche democratica. Mi trovo così dei cittadini che chiedono protezione, e nessun livello riesce a garantirgliela, ne gli stati, ne l’UE. Per risolvere questa situazione bisogna puntare su uno dei due di questi livelli, investire o sull’UE o sugli stati, in modo che uno 65 di questi diventi un attore sovrano capace di decidere (come nella visione di Schmitt). La prima ipotesi è quella di puntare sull’UE, nel senso non di creare una cosa indefinita come quella di adesso, ma vuol dire realizzare una FEDERAZIONE EUROPEA come quella americana; in teoria sarebbe una soluzione, ma in pratica è irrealizzabile, non verrà mai accettata dagli stati. L’unica soluzione concreta è puntare sugli stati, riportare il potere nelle mani degli stati, gli unici attori che possono essere veramente sovrani, solo che gli stati di oggi non possono svolgere quel loro, sono troppo deboli, e bisognerà creare così una CONFEDERAZIONE EUROPEA.  SOVRANISMI e QUANDO L’EUROPA TRADÌ SÉ STESSA , di Alessandro Somma, giurista italiano, riprende molte delle argomentazioni di Galli. Il primo testo è molto più radicale, mentre nel secondo alcune posizioni si ammorbidiscono. Il suo ragionamento è che viviamo in un’epoca nella quale l’UE ha dimostrato tutti i suoi limiti e le sue debolezze, l’integrazione europea non si può più salvare; per non uscire in un sovranismo di destra, bisogna provare ad inventarsi un sovranismo di sinistra. Per Somma l’UE di oggi è diventata una grande macchina che ha il compito di dare esecuzione a idee neo liberali di affermare la libertà della dimensione economica rispetto alla politica, è stata l’invenzione consapevole di élite neo liberali che, negli anni ‘80/’90, hanno voluto togliere alla politica il controllo sull’economia. È una visone della spoliticizzazione della società, vista come un insieme di rapporti economici e sociali che non hanno niente a che fare con la politica, e soprattutto è l’economia di mercato a stabilire le priorità; questa situazione viene tradotta nei trattati europei, nei quali l’UE si da degli obiettivi, ma sono obiettivi indiscutibili e scontati. Questo implica che non si apre mai un dibattito politico democratico sui contenuti della politica economica europea, che sono scritti nel trattato, e sono quelli per sempre. Ma questa non è democrazia per Somma, perché non ci sono elezioni europee che mettono in discussione i tratti, non esiste una competizione tra forze politiche sui contenuti, chiunque si succeda alla dirigenza dell’UE ha i trattati già pronti da applicare. La politica ha perso peso nel mondo europeo, perché l’UE è vista come una macchina nella quale gli obiettivi sono dati per scontati e devono essere applicati come tali per sempre. Di fronte a questo scenario abbiamo due alternative: - TEORICA, per rendere l’UE più democratica e compatibile con progetti integrativi, riformandola dall’interno e costruirla intorno ad una forma di integrazione, anche federale, che però sposi una politica economica di tipo keynesiano, di forte interdipendenza statale. Questo significa che i trattati europei andrebbero riscritti completamente; - PRATICA, creare il mercato delle riforme, ribadire il paradigma neo liberale. L’UE non è più riformabile, si deve tornare agli stati nazionali, democratici e sovrani, dove gli europei sono riusciti a realizzare politiche virtuose anche in economia. Attraverso un’impostazione analoga a quella di Galli, con un elemento più partitico, Somma fa una differenza più forte tra la destra e la sinistra. In questo dibattito si inseriscono anche le figure di Habermas e Streek, sociologo tedesco, hanno dato vita ad una discussione in merito alla crisi finanziaria, nella quale incarnavano due opposte posizioni della sinistra: quella di Streek di critica radicale dell’UE, figlio del diritto di esercitare una critica anche feroce, come ad esempio la critica sull’esistenza stessa nella moneta unica, e quella di Habermas, più moderata, una posizione che contempla ugualmente posizioni di critica, ma con la premessa che l’integrazione europea è un bene e come tale va preservato. 66 67
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