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Appunti Storia della Critica d'arte - Prof.ssa Piva A.A. 2021/2022, Appunti di Storia Dell'arte

Appunti Storia della Critica d'arte - Prof.ssa Piva A.A. 2021/2022

Tipologia: Appunti

2021/2022

In vendita dal 12/06/2024

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Scarica Appunti Storia della Critica d'arte - Prof.ssa Piva A.A. 2021/2022 e più Appunti in PDF di Storia Dell'arte solo su Docsity! CRITICA D’ARTE Prof.ssa PIVA 28-02-22 INTRO AL CORSO Le parole della critica d'arte sono convenzioni e la prima è proprio il titolo del corso stesso. “Letteratura artistica” viene definito da Julius Von Schlosser, studioso austriaco del ‘900 che ha pubblicato nel 1924 “Letteratura artistica: manuale delle fonti della storia dell'arte moderna”, tradotto nel 1935 in italiano, questo testo raccoglie una serie di fonti sulla storia dell'arte, partendo dall'antichità fino all’ 800. Da questo lavoro storiografico è derivata la consuetudine di chiamare letteratura artistica i corsi che si soffermano sulle fonti fino al ‘700 (nel ‘700 si inserisce un modo diverso di fare storia della critica d'arte, si inseriscono una serie di figure nuove, come quella del critico, che portano un cambiamento nel modo di leggere l'arte). Definisce quindi la sua opera “un repertorio ordinato cronologicamente delle fonti, dei documenti scritti relativi alle opere d'arte figurative”. La “Storia della critica d'arte” inizia con “History of art criticism” di Lionello Venturi del 1936, pubblicato in inglese (edito a New York, poiché non aveva firmato l'adesione al fascismo e doveva fuggire all'esterno, dove studia e insegna come docente universitario). Definisce la sua opera “..nell'esporre la storia della critica cercheremo di convergere costantemente sui giudizi artistici la luce che viene sia dalla storia dell'estetica, sia dalla storia dell'arte, sia, infine, quando sarà opportuno, dalla storia generale dell'umanità”. La differenza rispetto a Schlosser, che voleva raccogliere le fonti, è che Venturi propone una storia dell'arte interpretativa che collegava al giudizio dell'estetica, della fonte con le opere e alla storia in senso più ampio. Questo approccio è personale, molto legata al suo tempo, viene infatti usato il concetto della critica d'arte “una lettura collegata al pensiero, alla storia dell'arte generale, alla storia in generale e all'estetica”. In questo corso verranno infatti uniti entrambi i metodi, Venturi e Schlosser. Attenzione biografica (nascita dei dizionari biografici) a chi ha fatto la storia dell'arte, dipende da chi l'ha studiata e interpretata, ciò porta alla sopravvivenza delle opere e alla continua scoperta di informazioni e contenuti. La terza parola è “Storia delle storie dell'arte”, scrivere la storia dell'arte creando un filo sulle opere stesse, sapendo che esistente una storia dell'arte intesa come estetica e che esistono altri approcci, è interessante ricostruire i tanti modi con cui è stata ricostruita la storia dell'arte, vuole mettere in evidenza quanti metodi, quanti approcci e visioni hanno ricostruito gli stesso approcci artistici e le sue varie manifestazioni. • ritratto di Caravaggio di Ottavio Leoni. Durante quel periodo Caravaggio era un personaggio molto dibattuto e dalla vita travagliata. Ha influenzato una determinata parte della pittura barocca, con la sua descrizione della luce e la critica alla figura umana in quanto tale (descrizione attuale). Come esempio vi è la valutazione di Adolfo Venturi per l'acquisto della Collezione Borghese del 1901 (legge del fedecommesso, motivo per cui la famiglia decide di venderla allo stato): • Tiziano, Amor sacro amor profano, 2 milioni di lire • Raffaello, Pala Baglioni, 1 milione di lire • Correggio, Danae, 1 milione di lire • Caravaggio, Pala dei Palafregneri, 10.000 lire • Attribuito allo Spagnoletto, San Girolamo, 800 lire • Caravaggio, Giovane con canestro di Frutta, 100 lire. 02\03\22 ANTICHITA’ Le periodizzazioni di solito si stabiliscono come convenzione, per esempio i periodi artistici e i periodi storici sono diversi: sono limitazioni cronologiche poste successivamente (Vasari, per esempio, pone il cambiamento a Giotto, Burkart durante l'umanesimo, la storia dell'arte moderna inizia nel 1401, etc). L'attenzione per le opere d'arte vi era anche nell'antichità, anche se non è facile, né forse significativo, scegliere una data iniziale. Dobbiamo considerare che l’arte antica sfugge alle categorie estetiche moderne, la bellezza né la forma la determinano in quanto arte. Inoltre, se consideriamo la letteratura artistica, l’eredità antica greca e romana ha patito la rovina del tempo; dunque, ci rimangono lacerti discontinui di un perduto insieme organico. Vi sono però vari tipi di sopravvivenze, i testi filosofici o letterari che talvolta contengono riflessioni sulle arti ma anche testi interessati specificatamente a pittura, scultura e architettura, spesso frammentari. È esistita infatti nell’antichità una letteratura artistica dedicata, salvatasi in minima parte. Omero Il primo rapporto che si può individuare fra le arti, che oggi chiamiamo visive, e gli scritti ad esse riferiti, è descrittivo e ha una natura duplice e specialissima, che già gli antichi compresero. L’ékphrasis, vivido racconto verbale di un oggetto, può sollecitare due possibili modi di lettura: il primo attento all’immagine che passa attraverso le parole e la mente ricrea, il secondo fisso su somiglianze\differenze fra discorso e figurazione. Potremmo dire che la prima è una fruizione di natura estetica e la seconda una meditazione critica. Non a caso l’esempio più antico di ekphrasis si trova nell’Iliade di Omero, poema epico del VIII secolo ac, testo fondativo della letteratura greca e occidentale. Ékphrasis dello Scudo di Achille, Iliade, Canto XVIII. La lasciò, così detto, e tornò verso i mantici: al fuoco li rivoltò, li invitò a lavorare: e i mantici, tutti e venti, soffiarono sulle fornaci, mandando fuori soffi gagliardi e variati a volte buoni a servirlo con fretta, a volte il contrario, come Efesto voleva e procedeva il lavoro; e bronzo inconsumabile gettò nel fuoco, e stagno, oro prezioso e argento; e poi pose sul piedistallo la grande incudine, afferrò in mano un forte maglio, con l’altra afferrò le tanaglie. E fece per primo uno scudo grande e pesante, ornandolo dappertutto; un orlo vi fece, lucido, triplo, scintillante, e una tracolla d’argento. Erano cinque le zone dello scudo, e in esso fece molti ornamenti coi suoi sapienti pensieri. Vi fece la terra, il cielo e il mare, l’infaticabile sole e la luna piena, e tutti quanti i segni che incoronano il cielo, le Pleiadi, l’Iadi e la forza d’Orìone e l’Orsa, che chiamano col nome di Carro: ella gira sopra se stessa e guarda Orìone, e sola non ha parte dei lavacri d’Oceano • libro I: elenco dei testi consultati, fonti • libro XXXIII, metalli, oro, argento, toreutica • libro XXXIV, altri metalli, scultura in bronzo; • libro XXXV terre, pigmenti, pittura, descrizione di opere che non esistono più, come nel caso di Apelle: viene narrato l'episodio tra Protogene e Apelle, quest'ultimo si recò nello studio di Protogene per ammirare le sue opere, ma non trovando il maestro, traccia una linea sottile su un quadro come firma. Protogene quando torna crea un'altra linea ancora più sottile per mostrare la sua maestria e Apelle ritorna e realizza un'altra linea, ancora più sottile. Protogene capisce la sconfitta ed espone il quadro per mostrare il virtuosismo dei due. Il quadro viene distrutto nel primo incendio della casa di Cesare sul Palatino, ma Plinio aveva avuto modo di vederlo nella sua grandezza (erano solo linee difficili a distinguersi, ma molto virtuose, da quindi un giudizio sull'opera e sugli artisti), è importante il tema della visione diretta dell'opera. • libro XXXVI pietre, scultura in marmo • libro XXXVII gemme, pietre preziose. ➔ inserisce una serie di notizie anche su scrittori della sua epoca che avevano fatto storia dell'arte, per esempio riferisce di Duride d'Isamo, che sosteneva che Lisippo di Sicione non fu allievo di nessuno, poiché “si doveva imitare la natura e non un artista” (tematiche: allievi e maestri, rapporto tra creazione artistica e il vero naturale) I libri XXXIII-XXXVI sono quelli dedicati a metalli, terre e pietre ed è qui che inserisce ampie dissertazioni relative a bronzistica, pittura e scultura. Ritiene fondamentale connettere ai materiali descritti le possibili destinazioni artistiche e spesso le tecniche d’esecuzione. Si dedica poi a ricordare le conquiste degli artefici, i valori tecnici o estetici cui essi legavano la produzione. Dato l’influsso dell’arte ellenica sulla cultura romana, racconta anche con attenzione le vicende artistiche in Grecia. Per farlo riprende direttamente o indirettamente testi di autori di IV e III secolo. All’interno troviamo aneddoti e storie. L’aneddotica narra episodi biografici clamorosi o curiosi, mentre la storia ricostruisce catene di eventi incernierandole a un codice di riferimento, che può essere l’evoluzione della tecnica, la progressione nella mimesi naturalistica, la trasformazione dello stile Plinio viene riscoperto in epoca umanistica, discusso e commentato, spesso gli storici si soffermeranno su tecniche esecutive da lui citate (questione dei marmi antichi colorati e non bianchi, Plinio racconta come viene lavorata la superficie del marmo). Le firme degli artisti, la più famosa è quella sul Torso del Belvedere del I sec a.c. firmato “Apollonio, figlio di Nestore ateniese, fece”. C’è una grande attenzione al collezionismo, come con Filostrato Maggiore, che scrive un testo Immagini o La Pinacoteca, che è la descrizione di una collezione privata della moglie dell'imperatore Settimio Severo, Giulia Domna. E’ una descrizione sotto forma di visita privata di 65 opere. MEDIOEVO Questo discorso si potrebbe fare in maniera molto simile per il Medioevo, sono molte le fonti medievali che si occupano di letteratura artistica: - testi di carattere morale (contro l'idolatria e su come raffigurare le figure dei santi, o della trinità). Il problema delle immagini venne affrontato nell’alto medioevo prendendo in considerazione i rischi di idolatria di cui potevano essere portatrici. Nei primi secoli del Cristianesimo prevalse un parziale aniconismo, una diffidenza verso le immagini e la tendenza a preferire simboli cristiani ispirati al vangelo. A coloro che denunciavano i pericoli del culto delle immagini, si opponeva la difesa di queste ultime e della loro capacità di coinvolgimento. Il tema della pericolosità dell’arte riemerse nella disputa che contrappose l’abate Suger a Bernardo di Chiaravalle, dunque l’ordine cluniacense e quello cistercense. Oggetto del contenzioso era la legittimità della presenza nelle chiese di manufatti la cui preziosità per gli uni rinviava alla grandezza divina, per gli altri significava sviamento dalla contemplazione di Dio. Suger era abate di Saint Denis, abbazia di sepoltura dei re francesi, centro spirituale della monarchia francese. Suger decise di riformarla nei costumi e restaurarla nelle dimensioni e nello sfarzo. Vi sono opere dell'abate Suger, membro della congregazione cluniacense. E’ autore del Libretto sulla consacrazione di Saint Denis, in 7 capitoli, dove racconta sinteticamente le varie fasi di costruzione e abbellimento della chiesa. Scrive poi un’operetta più ampia, il Liber de rebus in administratione sui gestis (1145 c.a.), nel quale descrive le migliorie apportate all’abbazia e ai poderi annessi e alcune delle opere presenti. In particolare, dal 24esimo capitolo la sua attenzione si concentra sul restauro della chiesa. Dopo aver parlato del rinnovamento della facciata, la costruzione delle torri e l’ampliamento della navata, Suger passa a parlare delle opere da lui commissionate per ornare il nuovo edificio. Trapela il compiacimento nel descrivere la preziosità degli ori e delle gemme, la ricchezza dei colori, la raffinatezza delle forme, ma anche l’arte di plasmare tali materiali. Sono descrizioni che hanno un forte carattere moraleggiante e simbolico. C’è, ad esempio, la descrizione di un sontuoso crocifisso d'oro realizzato da orafi lorenesi in meno di due anni: furono convocati artefici abilissimi per realizzare la croce venerabile. Nella parte posteriore vi sono pietre preziose, mentre nella parte anteriore (davanti agli occhi del sacerdote) scene della passione. Le gemme vengono procurate da monaci di 3 altre abbazie, che portano le gemme in cambio di un esiguo pagamento. C’è attenzione ai materiali e al valore simbolico degli oggetti, come per le vetrate e l'idea della luce (Dio che entra). Inoltre queste opere sono spesso ricoperte di versi autocelebrativi su Suger, che si identifica con la propria opera, vi si riconosce e rispecchia. Contemplando i pannelli dell’altare nel capitolo XXXIII, Suger afferma che la vista della bellezza multicolore delle pietre è capace di condurlo dalle cose materiali a quelle spirituali, trasportandolo dal mondo terreno a quello superiore. - letteratura periegetica: Adamnano, monaco irlandese, De Locis Sanctis (698 d.c.), opera in 3 libri sulla base del resoconto del viaggio compiuto in Palestina dal vescovo franco Arculfo, completo con planimetrie e disegni: libro I su Gerusalemme; libro 2 su Betlemme e altri luoghi della Palestina; libro 3 su Creta, Costantinopoli e viaggio di ritorno. Inoltre vi è Mirabilia urbis Romae (metà del XII sec), una delle più fortunate guide medievali, in cui si celebra la meraviglia del mondo nella sua epifania divina, ma anche la meraviglia del passato, di Roma. L’opera si inserisce all’interno di un filone di successo, quello molto diffuso degli itinerari destinati ai pellegrini. Sono testi dal carattere discorsivo che descrivono la città di Roma e le sue meraviglie. L'autore, anonimo, utilizza fonti colte e letterarie, procedendo spesso in una reinvenzione, anche in chiave cristiana, della storia di Roma e dei suoi monumenti. I mirabilia, che illustrano un percorso attraverso i principali monumenti della città, conobbero una straordinaria diffusione e vennero nel corso degli anni più volte rimaneggiati e interpolati. La novità sta in un ampliamento narrativo e descrittivo. Non dobbiamo attenderci un’attendibilità nella descrizione dei monumenti, poiché l’opera utilizza topoi della tradizione, senza una verifica autoptica. - manuali e ricettari: Schlosser li considerava “la parte più originale di ciò che possiamo chiamare letteratura artistica del medioevo”. In parte si fondano su testi antichi, in parte recuperano testi della sapienza orientale, non rinunciando a introdurre elementi nuovi, ma soprattutto servivano a condividere la sapienza che passava nelle botteghe. La loro riscoperta risale al XVIII e al XIX sec ed erano: manuali per miniatori, come il De coloribus et mixtionibus (XII sec, ma tradizione orale più antica), in versi con ricette e consigli operativi su come accostare i colori, come fare una campitura artistica, come fare la luce con la biacca, etc. Teofilo (si chiamava Ruggero, Rogerus di Helmarshausen, un orafo benedettino tedesco), scrive il Diversarum artium schedula, noto come Varie arti (inizio del XIII sec). Questo compendio delle conoscenze tecniche medioevali fu riscoperto nel XVIII secolo da Lessing che lo utilizzò come prova dell’anteriorità della scoperta della pittura a olio rispetto a quanto tramandato da Vasari, che la faceva risalire a Van Eyck. Si tratta di un ricettario scritto in Germania nord-occidentale fra il 1110 e il 1140. Rogerus nasce in contesto monastico, infatti nel compendio afferma di lavorare solo per la gloria di Dio e deve dunque essere umile e mirare alla perfezione tecnica. L’opera è divisa in 3 libri: libro I sulla pittura su parete, tavola e pergamena; libro II su fabbricazione del vetro e pittura su vetro; libro III su arte orafa. L’autore, che fa ricorso a diverse fonti, non si limita a fornire ricette, ma si sofferma in modo dettagliato su procedimenti tecnici e fasi di lavorazione. Carattere peculiare è la presenza di 3 prologhi premessi ai 3 libri, dove pone le arti in stretto rapporto con la scientia e afferma che in quanto dono di Dio, l’abilità mana nell’ambito delle arti va condivisa e messa a disposizione degli altri. La pratica delle arti permette di combattere la deriva dei vizi. Cennino Cennini E’ un artista toscano (1370-1427) che scrive il Libro dell'arte (datazione discussa), testo che ebbe una larga circolazione, pubblicato solo nel 1821, con riscoperta dei primitivi. Scritto forse a Padova probabilmente a fine 1300, dove fu al servizio del signore Francesco da Carrara, è un’opera specificatamente dedicata alla pittura e che ha come protagonista Giotto. Vasari afferma che era allievo di Agnolo Gaddi (maestro anche di Vasari), anche se Cennino si dichiara indirettamente allievo di Giotto. Di Cennino Cennini, pittore e trattatista, tratta Vasari nelle sue Vite (seconda edizione), nella biografia di Agnolo Gaddi. Il libro ci è noto da diversi manoscritti, in particolare 3 codici manoscritti (2 a Firenze,1 a Roma, ne esiste una copia completa del'800 scaricabile da internet che include tutti i codici, visto che uno è incompleto). Il trattato si inserisce nella lunga tradizione dei ricettari medievali, tuttavia molte sono le novità. La lingua per la prima volta non è latino, ma volgare, poiché i destinatari erano gli artisti. Cennino rivendica la propria competenza tecnica, frutto di 12 anni di tirocinio presso Agnolo Gaddi. Vi è una piena consapevolezza della dignità del fare artistico, che vuole tramandare, e la rivendicazione dell’appartenenza a una genealogia che ha avuto come capostipite Giotto. La sua storia comincia da Adamo e il peccato originale, scaturigine prima delle arti e dei mestiieri, fra cui la pittura, che inserisce in una gerarchia. \ Ghiberti definisce il suo scritto un “commentario” solo una volta, alla fine della sezione su pittura e scultura moderne. “Finito è il secondo commentario, verremo al terzo”, quasi a suggerire l’intenzione di completare il lavoro con un excursus sull’architettura. In ogni caso la vera novità sta nella scelta testimoniale dell’autore. Ghiberti offre spazio alla necessità di fondare e motivare nel presente un racconto professionale e direzionato, attento ai problemi tecnici e ai riferimenti antichi. Gli scrittori d'arte erano principalmente artisti e tra 400 e 500 hanno trattato in particolare il tema della prospettiva e delle proporzioni, pur non avendo scritto una storia dell'arte, nei loro testi raccolgono notizie su artisti precedenti e per come sono impostati e costruiti saranno fondamentali per capire Vasari. Leon Battista Alberti (1404-1472) Nasce in una famiglia toscana benestante esiliata da Firenze a Genova, viene cresciuto in un ambiente colto ed erudito, sarà infatti scrittore e artista e studia a Padova e Bologna. Prende gli ordini minori, già dagli anni 30 diventa segretario di importanti prelati e funzionario papale a Roma, dove morirà. Viaggia molto, soggiorna in varie corti, tra Firenze, Mantova e Rimini ed è celebre come architetto (Tempio Malatestiano di Rimini), ma vasta fu la sua produzione come umanista. Compila 3 (la teoria della retorica prevedeva 3 aspetti, il 3 è un numero religioso, non casuale) trattati sull'arte. Il primo è il De Pictura (1435-1436), scritto prima in volgare (per gli artisti), poi tradotto in latino e pubblicato a Basilea nel 1439-1441, successivamente in italiano, etc. Ebbe molta fortuna critica già nel 400, è un testo che viene conosciuto e apprezzato soprattutto con la versione “umanista”, dedicata al duca di Mantova, Giovan Francesco Gonzaga. È composto da 3 libri: 1) Introduce leggi matematiche per costruire un dipinto (camera prospettiva, punti di vista, razzi, linee di fuga). Spiega come si applichino le leggi euclidee alla costruzione del dipinto. Già dal primo libro vediamo che l'idea finale del trattato è quella di spostare su un piano scientifico e matematico il fare arte (pittura passa dal parlato delle botteghe al “tutto matematico” scoperta fondamentale del rinascimento). L'obiettivo è anche quello pratico di insegnare a costruire secondo un sistema razionale (Brunelleschi e Alberti costruiscono le prime opere in prospettiva). Il prologo → si apre con la dedica a Brunelleschi, a sottolineare una comunione d’intenti: si apre con il rammarico per il perdersi dei testi, delle opere e della maniera antica, si perde la capacità di imitare la natura (ciò che aveva garantito risultati meravigliosi). Ricorda i suoi amici Brunelleschi, Donatello (Donato), Ghiberti, Masaccio, che insieme stanno rifondando l'arte al pari degli antichi. Per gli antichi era più facile, poiché avevano più conoscenze su cui basare la propria arte. Insistette sul rapporto di confronto e quasi superiorità, che tutti loro avevano saputo imbastire con le testimonianze classiche, rigenerandone i sensi. Il suo approccio all’antichità fu critico e non tecnico. Il senso di dedicare il testo a Brunelleschi (e agli altri) è quello di difendere un approccio intellettuale alla pittura di rompere con la tradizione medievale dove i trattati erano ricettari di colori e spostare la questione sul piano intellettuale e teorico. Il pittore deve avere un ruolo sociale, deve essere anche un riconoscimento e deve essere esperto di moltissime questioni compreso il saper padroneggiare la prospettiva. La parola prospettiva non viene mai usata, ma la disegna e insegna, utilizzandola sposando il fare artistico su un piano misurabile e insegnabile. Spiega come fosse possibile simulare in un quadro gli effetti ottici dello spazio vissuto. L’invenzione era di Brunelleschi, che aveva elaborato il metodo a livello sperimentale su delle tavolette, ma Alberti la teorizza. Alberti quindi, rompe con le tradizioni medievali, sposta la questione sul piano intellettuale, insegna matematica avanzata, passa dalla pratica a una regola espressa in parole. 2) Illustra procedimenti compositivi calibrati per la composizione della scena. La costruzione pittorica viene divisa in 3 parti (ricavate dalle 3 parti della retorica classica): Circoscrizione = Inventio (definire i limiti della scena); Composizione = Dispositio (cura il rapporto proporzionale tra le figure); Ricezione dei lumi = Elocutio (distribuisce effetti di luci e ombre). Questa scelta mostra come Alberti abbia sottolineato l’apparentamento tra pittura e arti liberali. Sono date anche indicazioni di gusto: - prestare attenzione alla varietà e qualità delle figure, usare schemi ricorrenti, ma variati; - usare una moderata quantità di figure (moderata “copia”, cioè abbondanza), restituire la dignità calibrata dell'immagine, per sfuggire alla “dissoluta confusione” (disorganizzazione) delle figure. Questo mostra anche il gusto dell'epoca, quello che vedevano gli artisti nel panorama. Con ciò i ritmi pausati della nuova figurazione massacesca trovavano un supporto teorico, rispetto all’iperornata pittura del gotico internazionale. 3) Descrive la figura del pittore in senso ampio, attingendo alla Naturalis Historia di Plinio. Parla della figura del pittore, che deve essere doctus artifex: uomo buono, dotto in buone lettere, deve unire il sapere scientifico e quello umanistico, versato negli aspetti intellettuali, deve avere in mente il progetto finale prima di dipingere. Il pittore deve essere vastamente colto, capace di tradurre in immagini le storie dettate dai poeti. Doveva essere dotato di tutte le arti liberali, attento alla progettualità prima che l’esecuzione. Quest’opera, dunque, a differenza dei ricettari tradizionali o i racconti di bottega, si proponeva di ridefinire la pittura in senso intellettuale, valorizzandone le scoperte prospettiche, spiegando le più moderne tecniche di rappresentazione mimetica e rivendicando agli artefici un ruolo sociale e culturale di spicco. Scrive poi il De Statua (metà anni 40). E’ scritto in lingua latina, più strettamente tecnico, lo scopo è quello di insegnare come la scultura dove imitare la natura. Ci sono 3 tipologie di scultori, crea una divisione tecnica: maestri di stucco, lavorano con il “porre e con il levare”; scultori, lavorano solo con “il levar via”; argentieri, lavorano solo “con l'aggiungervi”. Per valutare una buona scultura bisogna considerare: • la dimensio (aspetto che riguarda la proporzioni generali di una scultura, non vanno mai accentuate, le categorie del bello mutano e aiutano a comprendere l'arte di un determinato periodo). • la finitio (rilevamento tramite appositi strumenti delle variazioni anatomiche e della posizione, definizione dei particolari e dei dettagli). Pubblica poi il De Re Aedificatoria (già pronto in forma parziale nel 1452, la versione definitiva viene stampata dopo la sua morte), tutt’oggi considerato il suo più importante contributo alla regolamentazione delle arti. Fu composto in latino verso la metà del secolo e pubblicato postumo nel 1485. Composta in 10 libri, riprende e modernizza la suddivisione di Vitruvio. Nel prologo ritroviamo l’elogio dell’architetto e i principi della sua arte, firmitas, utilitas, venustas. Questi ultimi sono posti in rapporto dialettico, rivendicando una priorità alla bellezza, per la capacità d’integrare i valori funzionali. Per lui il costruire era un fatto sociale e politico, volto alla realizzazione del benessere individuale e collettivo, che l’architettura esplicitava esteticamente. Tratta con sforzo sistematico le origini dell’architettura e le necessità che la governano, i materiali e i procedimenti costruttivi, le tipologie architettoniche e gli ornamenti appropriati. I modelli assoluti dell’edificare erano la natura e l'antico. La natura permetteva un'assimilazione dell'edificio tra corpo umano ed edificio, esaltandone le rispondenze proporzionali interne. Il rapporto con l’antico è volto a guardarlo e imitarlo, ma per superarlo con idee proprie, tenendo conto delle esigenze moderne. Contiene norme pratiche ed estetiche, rivolgendosi a un pubblico ristretto (dotti e committenti). Per altro raccomandava, come nel dipingere anche nel costruire, di attenersi a una certa varietas, lasciando spazio alle preesistenze e a una differenziazione degli edifici. Negli ultimi decenni del Quattrocento la forma del trattato, nella sua declinazione più scientifica, tornò a fiorire straordinariamente, poiché gli artisti percepirono la potenziale inesauribilità degli argomenti matematici e dell’osservazione naturale. Gli studi di geometria applicata, rispondevano per iscritto all’ossessione prospettica e proporzionale del secolo, tentando di sottolinearne i legami con l’osservazione naturale. Piero della Francesca (Borgo San Sepolcro 1412-1492) Piero della Francesca nasce (e muore) a Borgo Sansepolcro tra il 1404 e il 1420, lavora per numerose corti dell'epoca. Il suo interesse per le questioni matematiche era noto ai contemporanei, Vasari lo definisce “studiosissimo dell'arte e della prospettiva, nessuno più di lui vale nella materia di Euclide (prospettiva matematica)”. Si dedica alla matematica in molti modi, fu studioso di geometria, guardò la matematica dal punto di vista amministrativo e filosofico, fu revisore di conti. Di Piero si conservano 3 opere, probabilmente composte tra gli anni 60 e 80 dei Quattrocento. L’opera principale è il De prospectiva pingendi (1477-1481), scritto in volgare, poi tradotto in latino per garantire una maggiore circolazione, dedicato a Federico da Montefeltro. L’opera non venne edita sino alla fine del XIX secolo e parte dei manoscritti di Piero erano stati integrate da Luca Pacioli, suoi allievo, senza riconoscerne i meriti. Piero fu revisore dei conti pubblici per Borgo. Si dedicò alla matematica inseguendo un progetto che coinvolgeva non soltanto questioni prettamente artistiche, ma anche stimoli teorici, filosofici e finanziari. E’ in tali temperie, straordinariamente attratta dall’enigma numerico, nelle sue connessioni con la vita materiale, morale e intellettuale, che nacque il De prospectiva pingendi. È incentrata su come passare e insegnare ai pittori la prospettiva, si trovano infatti un ampio corredo di immagini (a differenza dei testi di Alberti) ed esercizi secondo metodo pratico (come disegnare, come variare la visione a seconda del punto di osservazione). Nel Proemio spiegò le tre parti della pittura, disegno, commensuratio et colorare, precisando che quella cui tendeva applicarsi a livello teorico era la commesurazione, quale diciamo prospectiva”. 1) paragone delle arti: difende la pittura come qualcosa di superiore alla parola. Non solo la pittura deve arrivare al livello delle arti intellettuali, ma deve andare oltre. Idea che le parole hanno bisogno di tempo e lavoro per impressionare chi hanno di fronte, mentre un'immagine è comunicata immediatamente. 2) i precetti del pittore. 3) analisi della figura umana: anatomia, movimento, espressione luce. 4) raffigurazione dei panneggi. 5) ombra e luce. 6) raffigurazione degli alberi. 7) raffigurazione delle nuvole. 8) raffigurazione degli orizzonti. Per Leonardo l'arte è scienza e la pittura è imitazione meditata dalla natura, la realtà va studiata empiricamente, conosciuta attraverso l'esperienza sensibile. Non ha una formazione colta, non è legato alla cultura artistica precedente, ma ha studiato un'ampia varietà di discipline. Elementi di novità nel suo trattato è il fascino del brutto, non solo l'armonia, le proporzioni perfette, ma anche le caricature, la realtà, studi scientifici, studi botanici, panneggi. Sulla prospettiva supera la visione puramente geometrica del 400 e divide in 3 tipi: la prima è attorno alla ragione del diminuire (prospettiva diminutiva, le cose che si allontanano dall'occhio, è il punto di fuga); la seconda contiene il modo del variare i colori che si allontanano dall'occhio (prospettiva di colore, il cambiamento di colore e l'uso dell'azzurro); la terza è la dichiarazione come le cose devono essere meno finite quando si allontanano (prospettiva di spedizione, lo sfumato e i contorni); vi è anche una quarta (in uno scritto successivo), la prospettiva aerea resa con la qualità dell'aria (è la sintesi delle 3 precedenti). 07\03\22 Giorgio Vasari (1511-1574) I testi di storia della critica d'arte iniziano da Vasari, che pone molte delle questioni metodologiche ricorrenti nella storiografia sull'arte successiva: come inventarsi un nuovo modo di raccontare una storia delle testimonianze figurative? Pone le basi per la figura dello storico d'arte. Nelle sue opere prende il modello biografico e lo adatta alle biografie degli artisti (adattando il modello di tradizione classica e di Petrarca con De Viris illustribus), trattati come vite di personaggi illustri. Nell'ambiente rinascimentale delle corti, l'esaltazione dell'individuo e della sua biografia è un modello storiografico ricorrente (artisti, umanisti, signori delle corti, etc). Come conciliare giudizio estetico per i contemporanei con la ricostruzione del passato? Bisogna raccontare tutte le opere e non solo quelle che piacciono all'autore. Quale registro linguistico adottare? Sarà un tema ricorrente, anche sul significato stesso delle parole specifiche. Come elaborare un linguaggio adatto alla descrizione dello stile delle opere d'arte? Chi può scrivere d'arte? Quali sono le competenze necessarie per farlo? Formazione, preparazione, le opere che conosce, etc. Quali fonti usare per la ricostruzione storica? Vasari si definirà storiografo dell'arte, ma è stato anche pittore, scrittore e architetto. Figlio di un vasaio aretino, studia a Firenze nella bottega di Andrea del Sarto e poi in quella di Baccio Bandinelli. Rimane orfano da giovane e viaggia per l'Italia, insieme a Francesco Salviati visita Roma nel 1531-1532, sarà l'inizio per il suo interesse per tutta l'arte. Per il cardinale Alessandro Farnese realizza nel 1546 gli affreschi della Sala dei cento giorni, secondo il gusto del manierismo, con le imprese e la vita di Paolo III, per il Palazzo della Cancelleria. Commissione a Roma (1550- 1553) è la Cappella del cardinale Antonio del Monte per la chiesa di San Pietro in Montorio, si occupa del progetto architettonico e dei dipinti nella semicupola, mentre le sculture sono di Ammannati. Uno dei suoi riferimenti fondamentali sarà Cosimo I de Medici (sia come committente, sia come punto di riferimento culturale per le committenze da mecenate), granduca di Firenze e per lui Vasari decora il Salone dei Cinquecento per Palazzo Vecchio (lo raffigura nei medaglioni del soffitto in apoteosi e circondato da artisti). Dopo la formazione ad Arezzo diventa primo pittore e architetto alla corte medicea proprio di Cosimo I. Nel 1563 viene fondata l'Accademia delle arti e del disegno, realizzata da Vasari e Bronzino, ed è il primo istituto accademico in Europa riservato agli artisti per la formazione artistica e del gusto. L'accademia da grande rilievo al disegno, che sarà uno degli elementi fondamenti per la lettura di Vasari, per il quale è l'arte fondamentale, poiché alla base di pittura, scultura e architettura (ribattezzate infatti “arti del disegno”). È l'autore de le Vite de’ più eccellenti architetti, pittori e scultori da Cimabue insino ai nostri tempi, la cui prima edizione prende vita proprio tra le mura di Palazzo Farnese. Ce lo racconta nella conclusione della seconda edizione, ricostruendo un dialogo tra sé, Paolo Giovio e il cardinale Alessandro Farnese, in cui Giovio durante una cena gli avrebbe assegnato il compito di redigere un trattato sugli uomini illustri dell’arte del disegno, che lui aveva tentativo di scrivere rivelandosi non perfettamente all’altezza. Tramite la narrazione di questo episodio Vasari vuole sottolineare l’incompatibilità tra le conoscenze di chi non praticava il mestiere e la sua profonda padronanza degli strumenti per scrivere la storia degli artisti. Le Vite vengono scritte in un periodo di grandi cambiamenti culturali e figurativi, hanno rivestito un notevole significato anche per comprendere le scelte e i mutamenti nel contesto in cui operava Vasari. 1) Prima edizione (1550): “Le vite de più eccellenti architetti, pittori et scultori italiani, da Cimabue insino a tempi nostri: descritte in lingue toscana da Giorgio Vasari pittore aretino. Con una sua utile et necessaria introduzione a le arti loro”. Viene sottolineato essere in lingua toscana, un linguaggio più basso rispetto al latino di Giovio, in grado di accostarsi al lessico parlato nelle botteghe artistiche e conferire maggiore modernità. Nonostante ciò, sottopose il testo agli amici letterati e intenditori d’arte, ma voleva mettere a punto un lessico attinente ai soggetti della sua storia. - ordine artisti = gli artisti vengono suddivisi a seconda del loro fare arte → architetti, pittori e scultori; - viene dato un ordine cronologico ben preciso; - Vasari si definisce solo pittore; - vengono fatti proemi introduttivi sugli artisti di maggiore spessore. - Seconda edizione (1568): stampatore Giunti, in 3 volumi, oltre 1000 pagine. “Le vite de più eccellenti pittori, scultori e architettori, scritte da Giorgio Vasari pittore et architetto aretino, di nuovo dal medesimo riviste et ampliate, con i ritratti loro et con l'aggiunta delle vite de vivi e de morti dall'anno 1550 insino al 1567”. Viene dato per scontato che è in lingua toscana, dunque scompare il riferimento alla lingua toscana (questo perché la familiarità con il volgare era consolidata). L’ordine degli artisti è pittori, scultori e architetti. Viene data importanza maggiore ai pittori vivi (enfasi nel titolo). Vasari si definisce anche architetto, ma il primato rimane della pittura (Lavori per Cosimo I. Viene anticipato che sono stati aggiunti ritratti incisi degli artisti. I proemi introduttivi agli artisti sono stati snelliti e modificati.) La nascita dell'opera viene racconta da Vasari tramite la sua autobiografia (presente nella Giuntina, alla fine della seconda edizione): «In questo tempo andando io spesso la sera, finita la giornata, a veder cenare il detto illustrissimo cardinal Farnese, dove erano sempre a trattenerlo con bellissimi et onorati ragionamenti il Molza, Anibal Caro, messer Gandolfo, messer Claudio Tolomei, messer Romolo Amasseo, monsignor Giovio, et altri molti letterati e galantuomini, de’ quali è sempre piena la corte di quel signore, si venne a ragionare, una sera fra l’altre, del Museo del Giovio e de’ ritratti degl’uomini illustri che in quello ha posti con ordine et inscrizioni bellissime; e passando d’una cosa in altra, come si fa ragionando, disse monsignor Giovio avere avuto sempre gran voglia, et averla ancora, d’aggiugnere al Museo et al suo libro degli Elogii un trattato, nel quale si ragionasse degl’uomini illustri nell’arte del disegno, stati da Cimabue insino a’ tempi nostri. Dintorno a che allargandosi, mostrò certo aver gran cognizione e giudizio nelle cose delle nostre arti; ma è ben vero che bastandogli fare gran fascio, non la guardava così in sottile, e spesso, favellando di detti artefici, o scambiava i nomi, i cognomi, le patrie, l’opere, o non dicea le cose come stavano apunto, ma così alla grossa. Finito che ebbe il Giovio quel suo discorso, voltatosi a me, disse il cardinale: “Che ne dite voi, Giorgio, non sarà questa una bell’opera e fatica?”. «Bella, - rispos’io - monsignor illustrissimo, se il Giovio sarà aiutato da chi che sia dell’arte a mettere le cose a’ luoghi loro et a dirle come stanno veramente. Parlo così, perciò che, se bene è stato questo suo discorso maraviglioso, ha scambiato e detto molte cose una per un’altra”. “Potrete dunque, - soggiunse il cardinale, pregato dal Giovio, dal Caro, dal Tolomei e dagl’altri - dargli un sunto voi, et una ordinata notizia di tutti i detti artefici, dell’opere loro secondo l’ordine de’ tempi; e così aranno anco da voi questo benefizio le vostre arti”. La qual cosa, ancorché io conoscessi essere sopra le mie forze, promisi, secondo il poter mio, di far ben volentieri. E così messomi giù a ricercare miei ricordi e scritti, fatti intorno a ciò infin da giovanetto per un certo mio passatempo e per una affezione che io aveva a la memoria de’ nostri artefici, ogni notizia de’ quali mi era carissima, misi insieme tutto che intorno a ciò mi parve a proposito, e lo portai al Giovio; il quale, poi che molto ebbe lodata quella fatica, mi disse: “Giorgio mio, voglio che prendiate voi questa fatica di distendere il tutto in quel modo che ottimamente veggio saprete fare, perciò che a me non dà il cuore, non conoscendo le maniere, né sapendo molti particolari che potrete sapere voi: sanzaché, quando pure io facessi, farei il più più un trattatetto simile a quello di Plinio. Fate quel ch’io vi dico, Vasari, perché veggio che è per riuscirvi bellissimo, che saggio dato me ne avete in questa narrazione”. Ma parendogli che io a ciò fare non fussi molto risoluto, me lo fe’ dire al Caro, al Molza, al Tolomei et altri miei amicissimi; per che risolutomi finalmente, vi misi mano con intenzione, finita che fusse, di darla a uno di loro, che, rivedutola et acconcia, la mandasse fuori sotto altro nome che il mio.» grandi innovatori. Apriva il varco alla riscoperta dei così detti “primitivi”. Ma il modello evolutivo era più forte e investiva il succedersi delle maniere e l’attività degli artisti. Vasari è il padre della storia dell’arte perché pur essendo un manierista, seppe scindere il giudizio dal proprio gusto, indagandone le differenti sfaccettature: riuscì a leggere il valore dei diversi autori entro un quadro individuale e complessivo. Farà lo stesso anche nella seconda sezione sul 400, riassorbendo la specificità di ognuno nel moto collettivo, per giungere a tematizzare l’eccezionalità di pochi. 09\03\22 Giulio II aveva cominciato ad allestire nel cortile del Belvedere una raccolta di sculture antiche, fra le quali pone il Laocoonte ritrovato nel 1506, il Torso del Belvedere, allestite all’aperto. Questo cortile era stato riprogettato da Bramante su due piani. Le sculture erano lì conservate e visitate da artisti italiani e di tutta Europa, che vi si recavano per studiarle e copiarle. Vasari riconosce a questo fondamento sull’antico una delle chiavi per il raggiungimento della perfezione. Attraverso la copia di questi modelli il disegno perde l’aria secca spesso attribuita agli artisti della seconda epoca e gli artisti raggiungono la perfezione. Gran parte di questi disegni sono conservati nel Museo Pio Clementino. Da Leonardo a Vinci a Michelangelo, Vasari tratta gli artisti della terza età concentrandosi sui tre astri, così come li chiama, i tre artisti che brillano nella terza epoca della perfezione più degli altri. Per Vasari la categoria di giudizio maggiore è quella del disegno, maggiore di ogni arte. Tratta gli artisti veneti e in particolare Tiziano in modo ben diverso da un Michelangelo ad esempio. LA STRUTTURA DELLE VITE La vita di ciascun artista ha più o meno una struttura ricorrente, generalmente tripartita. 1) Generalmente ci sono diverse righe di un’introduzione generale, che può essere un giudizio, c’è una rievocazione dell’infanzia e della giovinezza, che consentiva di condurre un’analisi sulle predisposizioni caratteriali e sull’ambiente di formazione dei singoli artisti. ➔ Qui sentiamo forte l’eredità del modello degli uomini illustri. C’è l’idea che il carattere e le frequentazioni siano fondamentali per capire un uomo cosa ha fatto. 2) Poi c’è una descrizione e una valutazione delle opere realizzate (nella seconda versione della Giuntina questa parte si dilunga maggiormente); ➔ Ogni vita è costellata di aneddoti raccolti che servono per illuminare aspetti particolari del carattere o il rapporto con i committenti; fatto originale, perché per Vasari la biografia non è solo quella dell’uomo illustre, ma molte opere potevano esser condizionate dai committenti. ➔ Ci possono essere cenni o anche sottobiografie di Allievi, scolari di bottega, ossia la scuola che l’artista ha creato, soprattutto nell’edizione giuntina. Questo aspetto viene potenziato nella seconda edizione. Quando gli è noto c’è il racconto della morte, l’epitaffio e la restituzione delle lodi di chi lo conobbe. Un lavoro importante Vasari lo fa nella raccolta di testimonianze orali, soprattutto per la terza epoca, da parte di chi ha conosciuto tali artisti. 3) Le Vite si chiudono con una valutazione più d’insieme sulla maniera o di carattere etico dell’artista. Entrambe le edizioni delle Vite iniziano con la nascita di Cimabue nel 1240 ed entrambe sono scandite in 3 età. La prima chiudeva con Lorenzo de Bicci ed era la fase in cui gli artisti avevano preso coscienza di tutti i problemi formali e spaziali che verranno risolti nel 400. La seconda età coincideva con i maestri del 400 che avevano dato impulso alle arti aggiungendo la regola, ordine, misura, disegno e maniera. Leonardo da Vinci è per Vasari un elemento fondamentale nella distinzione fra la 2 e la 3 età, artista chiave che inaugura l’epoca moderna della perfezione. Vasari dice nella sua biografia che l’errore degli artisti della seconda età fu sottolineato dall’opera di Leonardo che dà testimonianza della terza maniera. Le categorie di giudizio su Leonardo sono: - il disegno, che raggiunge massima cura; - la capacità di imitare la natura al massimo, in tutti i dettagli, da un punto di vista quasi scientifico; - grazia, misura, la capacità di dare motto e fiato, ossia creare figure che sembrano vive. Attraverso l’abilità del disegno e l’imitazione della natura vi è la capacità di restituire qualcosa di verosimile. Leonardo è il pittore della restituzione del vero naturale. Raffello è invece il pittore della grazia per Vasari e questo tipo di giudizio si è sedimentato nella storiografia. Vasari dice che Raffaello, graziosissimo, primeggiò fra tutti. Raffaello insieme a Leonardo e Michelangelo è uno degli astri ma primeggia su un piano diverso rispetto a Leonardo. Una delle caratteristiche di Vasari è quella di aver messo a punto un nuovo modo di descrivere le opere. In Raffaello coglie la capacità di aver modulato la natura e di scegliere e selezionare restituendo grazia a tutte le figure, rifacendosi agli antichi ma superandoli. I tre astri hanno come massimo culmine Michelangelo per Vasari. Nella versione del 50’ Michelangelo chiude la Terza Età, mentre nella seconda edizione sarà la figura di Vasari stesso. Vasari scrive che il suo obbiettivo è di raccogliere le vite ma anche descrivere tutte le opere. Vuole scrivere con giudizio, anche di merito. Anche all’interno della stessa biografia vuole osservare ciò che hanno realizzato, la maniera, descrivendo e giudicando ogni opera. L’idea di spiegare al pubblico come e perché le arti sono peggiorate, migliorate e in che misura. Deve insegnare a giudicare l’arte. Non aveva in questo una bibliografia pregressa. L’obbiettivo importante era raccogliere informazioni per scrivere una storia biografica ma che costituisce anche un percorso evoluzionistico. IL DISEGNO Per Vasari il disegno ha un’importanza fondativa, è il padre delle tre arti. All’inizio dell’Introduzione all’arte della Pittura, Vasari spiega come nell’intelletto dell’artista si sviluppasse una forma, un disegno interno, che la mano attraverso l’instancabile esercizio materializzava poi nell’opera d’arte. Procede dall’intelletto e dà vita a una forma, frutto dell’idea della natura. L’idea del disegno che indaga le proporzioni naturali e le fa proprie riporta a Piero della Francesca, ma sotto certi aspetti anche a Leonardo e Leon Battista Alberti. Tramite il disegno io acquisisco le regole della natura e le faccio mie. Il disegno altro non è che l’espressione e dichiarazione di ciò che si ha nell’animo, è il fondamento della formazione intellettuale dell’artista. Permette all’artista di capire la natura e fare sue le sue regole. Anche tutte le Accademie successive danno un’importanza cruciale al disegno, come elemento di formazione dell’artista, perché attraverso di esso capisco come sono costruiti i corpi, come si collocano le cose nello spazio, Colgo le regole della rappresentazione e le faccio mie. Il disegno per Vasari non è solo imitazione della natura, ma selezione delle parti migliori di quest’ultima. È lo strumento che consente di acquisire nella mente la realizzazione delle immagini. Nella concezione vasariana la storia del progresso artistico era la storia dei progressi del disegno fino all’età della perfezione. Guardando i disegni degli artisti Vasari legge il progresso dell’arte. Più un artista è bravo a disegnare e più sarà bravo come artista. Secondo lui gli artisti Veneti, non essendo esperti del disegno, non raggiungono il livello dei toscani. Su questo discrimine nascerà una grande polemica e cominceranno a svilupparsi le scuole regionali degli artisti. LA MANIERA Per Vasari la parola maniera ha un significato più ampio di quello attuale e viene usata con ambivalenza. Di norma indicava i differenti tratti stilistici di un artista, di una scuola, di un’epoca, ma anche il repertorio delle idee che accompagnavano una composizione figurativa. Maniera è utilizzato per giudicare lo stile di un’epoca, un certo modo che accomuna lo stile di un’epoca, i progressi dell’arte, segna quindi l’evoluzione stilistica di un artista. La parola maniera in Vasari non ha un valore negativo di per sé, ma ha valore di descrizione dello stile. Diventa negativo nei casi in cui l’artista lavora di maniera, ossia quando l’artista invece che cercare di migliorare si accontenta di imitare gli artisti che l’hanno preceduto. Lavora di maniera quando si limita a ripetere stancamente il proprio repertorio o a copiare meccanicamente lo stile altrui. Un esempio è Perugino. In questo caso la maniera è la ripetizione di qualcosa che l’artista sa fare e che non lo porta ad avanzare. Da qui deriva la categoria storiografica di maniera. Come il disegno anche la maniera conosceva una parabola evolutiva. Vasari, infatti, narrò le crescenti misurazioni sull’antico, l’elaborazione delle regole prospettiche, l’indagine anatomica, il progresso nell’imitazione della natura, per spiegare cosa si potesse intendere, per “giovinezza” dell’arte: una stagione di grandi conquiste, eppure ancora incapaci di scioltezza, acerba al punto da definirne “secca” la maniera. Dalla buona maniera antica dell’arte greca e romana, si era passati alla goffa maniera “vecchia” del Medioevo, caratterizzato dalla maniera bizantina (greca) e gotica (tedesca). Nell’epoca della rinascita si era giunti a una maggiore naturalezza con Giotto e poi nella Terza età al naturalismo perfetto di Leonardo. Vi erano, però, delle vite fuori norma, come quella di Donatello, inadatto al suo “contenitore”, che offriva a Vasari l’occasione d’insistere sulla doppia natura del proprio lavoro di ricognizione. L’insofferenza per le coercitive strettoie della periodizzazione e della cronologia anticipa la modernità. Come aveva intuito, le partizioni della materia simulano cesure statiche laddove il tempo e le cose umane rimangono flusso. Per tradurre questo flusso Vasari assegna a ciascun biografato uno specifico ruolo migliorativo, così da lasciar trasparire il lento svolgersi del fatto artistico. Il fine della narrazione è la terza età, il 500, al quale riconosce piena maturità formale, individuando in esso grazia, che nasconde la fatica degli studi (come la sprezzatura nel Cortegiano di Castiglione). Focalizzò un’altra virtù del secolo, legandola però questa volta solo a Michelangelo: la capacità d’infrangere gli schemi stilistici ed espressivi correnti. MICHELANGELO Egli venne rappresentato come vertice delle tre arti, sintesi creativa del secolo e, insieme suo limito invalicabile. La figura di Michelangelo e il rapporto anche personale che ebbe con Vasari verosimiglianza. L’idea di lasciare in bianco viene condivisa con Borghini. Rimane l’impostazione generale. Tutta la storiografia della seconda metà del 500 e la prima metà del 600 si muove sul dibattito sulla differenza tra la vita di Michelangelo e quella di Tiziano. 11\03\22 BIOGRAFIA di TIZIANO vs BIOGRAFIA di MICHELANGELO La biografia di Tiziano raccoglie tutti gli aspetti delle Vite vasariane. In un passaggio significativo Vasari dice che sentendo Sebastiano del Piombo, egli gli disse che se Tiziano avesse visitato Roma e visto l’operato di Michelangelo, Raffaello e le statue antiche, avrebbe imparato a disegnare come lui e fatto cose stupendissime. Ritorna l’idea del disegno come metro di giudizio per un buon pittore. Quando Vasari parla con Sebastiano del Piombo Tiziano ancora non era stato a Roma. Vasari in questo passo parla spesso di sé in terza persona. Non è una critica tout court a Tiziano, che fu grande imitatore della natura. Del primo Tiziano Vasari parlò come di un grande talento, appena frenato dal mancato studio del ‘500 romano e delle antichità. La carenza disegnativa invece accompagnò le descrizioni delle opere adulte. Vasari attribuisce delle qualità a Tiziano, anche quando tratta della Fuga in Egitto, dove si nota la capacità di rendere la natura, ritratti in modo verosimili, restituire la percezione delle stoffe. Nelle categorie interpretative di Vasari se il disegno è il padre delle arti, Tiziano costruisce le figure soprattutto con il colore. Le pagine tradiscono lo spregio per una pennellata che nel dipinto si fa alternativa al disegno. Certo Vasari comprese la grandezza del colorista e gli riconobbe quella grazia, capace di dissimulare la fatica. Questa sua lettura di Tiziano Vasari la esprime attraverso due episodi, due fonti orali, le discussioni con Sebastiano del Piombo e Michelangelo. Per far passare il proprio giudizio critico usa una fonte orale, che dà l’impressione che la testimonianza sia più affidabile. Noi sappiamo che in realtà Tiziano disegnava e costruiva le proprie opere anche attraverso il disegno. La categoria vasariana è funzionale all’esaltazione della scuola fiorentina. Queste scorribande tizianesche spiegavano la differenza tra la maniera toscana e quella veneta, con qualche ovvia partigianeria. Il tema del disegno negli anni 30-40 era già molto vivace. Vasari era stato a Venezia. Nella prima parte della vita di Tiziano manca un’introduzione filosofica, come quella magniloquente che introduceva la vita di Michelangelo, la più estesa di tutte. In Tiziano si passa direttamente ai dati biografici. Nella conclusione Vasari dice che Tiziano era un uomo gentilissimo e di maniera dolcissima. Probabilmente qui Vasari gioca con la parola maniera, riferendosi sia all’atteggiamento che alla sua pittura. Nella descrizione delle opere michelangiolesche Vasari utilizza un lessico trionfale. Quando scrive il testo Vasari non aveva a disposizione un’ampia bibliografia, ma si faceva ricorso alle ekphrasis. Vasari utilizza aggettivi e sostantivi volta a spiegare perché un artista era diverso da un altro. Nella biografia di Michelangelo utilizza una varietà di aggettivi che costruiscono per la prima volta quella che diventerà la critica d’arte. Anche i committenti vengono citati in continuazione. Ricostruire per tutti gli autori citati una biografia così attenta alle opere e a cosa, dove, quando è un lavoro immenso. Viene citato Pietro Aretino. A proposito del viaggio documentato a Roma del 1546 di Tiziano, Vasari colloca la serata mondana a casa del Cardinal Farnese e la discussione con Michelangelo, a cui attribuisce il commento su Tiziano che nonostante fosse stato a Roma non si era lasciato influenzare dal disegno. Si chiude con i giudizi sulle opere tarde di Tiziano, che Vasari nota esser ben diverse dalle opere della gioventù. C’è anche una lunga parte sugli allievi. Soprattutto nella Giuntina le biografie diventano occasioni per parlare di altri artisti, i questo caso fra tutti Paris Bordon, nato a Treviso e condotto a Venezia giovane. Inserisce una microbiografia nel capitolo di Tiziano. Crea una sorta di famiglia di artisti, inserendo elementi di interesse nella biografia principale. Altro elemento ricorrente è l’attenzione alle arti applicate. Alla fine c’è una mezza pagina sui mosaici di San Marco. Alterna notizie documentarie, descrizione delle opere con giudizi critici. Lo stesso accade nella biografia di Michelangelo. È una novità per la storiografia dell’epoca. Di Michelangelo si parla del rapporto con i papi. Un altro dei temi ricorrenti è quello della rivalità tra gli artisti. Vasari vive anch’egli il clima di corte dove si competeva con gli altri artisti\intellettuali. Un dettaglio che torna in entrambe le vite è che Vasari scrive quanto costarono le opere. Questo serve a Vasari per restituire al lettore competenza e conoscenza. Ciò ha a che fare con la lettura di corte secondo cui l’opera era denaro. E’ uno degli stratagemmi per far capire che è un testimone affidabile. Probabilmente è il primo o uno dei primi casi. Vi è anche un’attenzione allo stato di conservazione delle opere. Tutte le vite sono disseminate da racconti, episodi in cui le opere sono state manomesse o distrutte. Per lui sono legittimi gli interventi di restauro in cui un artista interviene su opere deteriorate o precedenti, ma non se un artista sconosciuto interviene su opere di artisti famosi. Vasari mette insieme diversi aspetti del metodo che ne faranno enorme fortuna, sarà ripubblicato ogni secolo fino ai giorni nostri ed è oggetto ancora oggi di assestamenti critici e valutazioni. Charles Hope è convinto che in realtà il testo di Vasari sia un testo collettivo, non riconducibile ad una persona, ma a più mani e in tempi diversi. Ha scritto un testo intitolato Can you trust Vasari? Egli assimila a Vasari quasi la figura di Omero. Pensa che le Vite non siano un’opera individuale, ma frutto di un autore multiplo. Per capire ciò che succede dopo Vasari, bisogna analizzare la bibliografia a lui contemporanea. A spiegarci la sensazione di difesa di Vasari nelle Vite, si deve considerare che mentre Vasari scriveva le Vite, si levavano delle voci assolutamente opposte alla sua. Pietro Aretino (1492-1556) La più intrigante è quella di Pietro Aretino, poeta e scrittore, legato agli ambienti cortigiani del 500. Nato ad Arezzo, ha girato il Centro Italia per un periodo, ha vissuto a Roma, a Mantova. Fu uomo di corte, autore di commedie, tragedie, trattatelli licenziosi. Fu molto legato sia ai pittori, che ai letterati del tempo. Fu consulente diplomatico molto legato ad alcuni ambasciatori. A partire dal 1527 si stabilisce a Venezia e lì elegge la città come sua patria elettiva. Fine osservatore e interprete della pittura del suo tempo, ne lasciò testimonianze critiche nei versi quanto nell’epistolario. Fu esegeta accurato dell’opera tizianesca. Per lungo tempo ha rapporti anche cordiali con Vasari. Nel 1542 chiamerà Vasari a fare la scenografia di uno spettacolo, l’Atalanta, inscenato a Venezia. Avevano un rapporto cordiale, che si incrina drasticamente attorno al 45’\46’. Sono gli anni in cui Tiziano è a Roma e Aretino che era molto amico di Tiziano, e uno dei letterati più in vista, scrive alcune lettere a Michelangelo, prima amichevoli, poi minacciose. Pietro lo ammirava molto e tentò di condizionarne l’opera fornendogli suggerimenti inventivi per il Giudizio universale della Sistina. Secondo alcuni egli ravvisava nella terribilità michelangiolesca qualche coincidenza con la sua stessa poetica, talora amante degli eccessi. Michelangelo lo scostò e ignorò, provocando una reazione molto dura. Il poeta gli indirizzò una missiva dove criticava il Giudizio perché lo considerava troppo licenzioso e irriverente, con troppa nudità, per il tema del Giudizio, nonostante ne riconoscesse l’eccellenza formale. Questa lettera verrà stampata, indirizzata a Alessandro Corvino. La critica sui santi nudi del Giudizio durerà a lungo. Accusa Michelangelo di empietà con toni molto pesanti, letta in chiave anti-struttura vasariana, con l’intendo di difendere Tiziano e la pittura Veneta, tradendo il bisogno di aprire lo sguardo ad altre maniere, valutando la via veneta del colore rispetto a quella disegnativa tosco-romana. Paolo Pino (1534-1565) Sulla stessa linea e negli stessi anni sono le opere di Paolo Pino, pittore e scrittore veneziano, di cui abbiamo pochissime notizie biografiche. Paolo Pino, come Ludovico Dolce, teorizza la centralità del colore nella pittura veneta, in antitesi al primato toscano del disegno. Era già attivo come pittore negli anni 40’. Fu allievo di Savoldo e sappiamo che a Venezia si trovava tra gli anni 30-60. Si conosce, edito nel 1548, prima dell’edizione Torrentiniana, un Dialogo di pittura. È un dialogo, tra Lauro, un veneto e Fabio, un toscano, due artisti che rappresentano l’area veneziana e quella toscana. Nel trattato ritroviamo i motivi classici del secolo: gli interrogativi sulla sostanza della bellezza, il richiamo alla natura liberale del dipingere, nonché il paragone fra pittura e scultura e l’elogio della “prestezza”. Qui Paolo Pino riprende i discorsi di Alberti, Piero della Francesca, su cos’è la pittura veramente. Riprende il concetto di pittura come arte intellettuale che sa imitare la natura. La definisce arte nobilissima, rimarca la capacità dei pittori di inventare storie così come i poeti, secondo l’ut pictura poesis. Il suo obbiettivo era promuovere una nuova scansione dei fondamentali del dipingere. Anche qui riprendendo la famosa tripartizione della retorica dice che la pittura può esser divisa in disegno, invenzione e colorito. Do una scossa alla formula albertiana di circoscrizione, composizione e ricezione dei lumi. Fa riferimento alle ripartizioni della retorica di Cicerone e Quintiliano, inventio, dispositio e locutio. Pino amplifica la nozione di “invenzione”, dicendo che l’artista deve saper trovar “poesie et historie da sé”, in quanto intellettuale autonomo. Pino consigliò di comporre e persino inventare attraverso le tinte. L’esplicitazione della natura cromatica e non prioritariamente chiaroscurale del modellato pittorico, nonché l’esaltazione dell’autonomia inventiva dei pittori, poteva incrinare la preminenza del disegno come luogo fondativo dell’opera. Se lo confrontiamo con Vasari, il testo di Vasari aveva un forte impatto critico e polemico. Pino fa parte della tradizione veneziana e rivendica il ruolo del colore rispetto al disegno. Alla tessitura delle tinte affidava la perfezione imitativa. Fabio fa le domande e Lauro risponde sconsigliando ai pittori di dilettarsi col disegno, per imparare a maneggiare i colori e imparare a dipingere adeguatamente. Pino è un critico che ha un’idea non solo veneziano-centrica. Dà giudizi positivi su tantissimi artisti, come Alberti, Durer ecc. Invocando l’equilibrio proporzionale, criticò implicitamente le formazioni e gli accenti eclettici dei manieristi. Nell’elenco dei pittori eccellenti ritiene pittori come Tiziano e Michelangelo baluginare continuo del numero 7, 7 erano stati i saggi dell’antica Grecia e 7 erano i pianeti conosciuti, che influenzavano la natura umana. Sono testi più teorici che tecnici, dove le ragioni teoriche di un sapere assai distante dal nostro e le ragioni tecniche della produzione artistica, precipitarono nella scrittura, aumentandone esponenzialmente i riferimenti naturali e filosofici, sino a renderla incomprensibile. Robert Klein motiva questa complessità in relazione al coevo ambiente culturale. Per Lomazzo fondamentale è la prospettiva nella costruzione del disegno, la prospettiva era per lui il principio organizzatore del dipingere. Ad essa affidava la corretta costruzione della scena, ma anche l’opportuna distribuzione di moti e soggetti. Legandola a necessità di decoro, costringeva il senso stesso della regola a scivolare dall’ambito matematico a quello etico, in perfetta rispondenza con le derive ideologiche del tempo. L’intima connessione tra Trattato e Idea sta nell’idea che la prospettiva, in quanto principio d’ordine, gli pareva riprodurre l’immagine quello stesso potere costruttivo e organizzato che intuiva nella creazione cosmica. Lomazzo era uno studioso che collegava anche temi di astrologia, il rapporto tra i pianeti e gli elementi naturali. Tutta la diatriba Firenze-Venezia era guardata da un unico punto di vista. Il testo più importante è L’idea del tempio della pittura, del 1590 a Milano, che spiega quale posto la pittura stessa occupasse nell’ordine delle cose. I due lavori furono pensati uno come spiegazione e esplicitazione dell’altro. Lomazzo intendeva la bellezza come grazia divina, inattingibile e soprannaturale, qualcosa che però poteva comporsi con la materia creata e informarla, a patto che fosse distribuita secondo discrezione. Era quest’ultima specialità a regolare la partecipazione dei singoli corpi all’idea superiore del bello. Lomazzo diede il massimo rilievo al genio individuale, vero regista della pittura. Le sue indicazioni potevano solo essere strumenti per favorire la corretta maturazione di chi già possedeva una propria virtù. In quest’opera difende Vasari che era stato accusato di essere troppo filo-toscano. Il testo di Lomazzo però cercava una mediazione in qualche misura. Lomazzo attinse dall’opera di un altro lombardo, Giulio Camillo, che aveva elaborato il progetto di un Teatro della memoria, basato su un sistema di associazioni mnemoniche per immagini → Camillo aveva immaginato una sorta di enciclopedia del sapere, strutturata come un teatro, dove ogni dettaglio aiutava a ricordare per via simbolica, un determinato argomento. Questo modello viene ripreso anche nel Trattato di Lomazzo, che elabora una sorta di prontuario dove si potessero reperire non solo tutte le indicazioni materiali, tecniche e speculative per giungere al compimento di un dipinto, ma anche un’ampia casistica delle potenzialità iconografiche e simboliche attingibili per suo tramite. Il teatro pensato da Camillo sopravvive nel tempio di Lomazzo, che si presentava come un edificio allegorico, a pianta centrale e di ascendenza bramantesca. Lui immagina in modo allegorico la pittura come un tempio sorretto da 7 colonne cui corrispondo i grandi pittori canonici, detti i Governatori dell’arte, tratti dal Rinascimento. Il sette è un numero ricorrente. Ogni pittore è collegato ad un pianeta. Ogni pianeta è collegato ad un temperamento, a delle caratteristiche caratteriali. 7 pittori che fanno da colonne portanti di questo tempio e 7 “parti dell’arti”. I governatori costituivano una rosa di modelli artistici molto differenti tra loro ma tutti capaci di interpretare un canone, simboleggiavano 7 modi del perfetto dipingere. A ogni pittore corrisponde un pianeta e una caratteristica dominante, la proporzione, moto o espressione, forma, lume, composizione o grazia, prospettiva e colore. Ogni artista ha un pianeta d’ispirazione collegato al temperamento. Michelangelo è Saturno e il disegno, la proporzione, Leonardo il sole e la luce, il lume, Tiziano la luna e il colore, Raffello Venere e la composizione, Gaudenzio Ferrari Giove e il moto, Polidoro da Caravaggio Marte e la forma e Mantegna Mercurio e la prospettiva. C’è l’idea che ogni pittore ha delle caratteristiche predominanti, ma tutti insieme tengono il tempio della pittura. Secondo l’autore ognuno di loro aveva raggiunto l’eccellenza, le loro maniere erano diverse perché innervate della passione per l’uno o l’altro aspetto della pittura, cui tutti gli altri caratteri s’erano accordati. Di fatto il suo obbiettivo era inverare in precisi casi storici alcuni esempi di grandezza, così da sottolinearne tanto l’equivalenza qualitativa quanto la discontinuità, voleva illuminare la natura multipla e contrastiva della bellezza. Dall’altra parte mette assieme artisti di epoche diverse, quindi si allontana dalla visione evoluzionistica di Vasari. Non fece questioni di priorità cronologica, né di appartenenza ambientali. Sottolinea come ciascun artista può primeggiare in caratteristiche precise della sua maniera. Sono artisti dai caratteri quanto mai differenziati ma appartenenti alla penisola italica, legati a maniere diverse e tante diverse perfezioni. Questa è una cosa che ci spiega la pittura di fine 500 e inizio 600. Il canone comincia a disgregarsi. La cosa che esista la varietà diventa qualcosa di positivo. Ogni pittore per diventare grande doveva riconoscere la propria vocazione e imitare la maniera dei maestri più affini. In base al proprio temperamento dovevano poi saper provare emozioni per suscitare un’analoga commozione nell’osservatore. Da ciascun pittore discendeva come un albero genealogico una serie di pittori che a quelle sue caratteristiche si ispiravano. I 7 Governatori costituivano dei modelli ideali e allo stesso tempo rivelavano le radici delle maniere generate dalle loro concretissime opere. Tali maniere venivano elencate nel trattato come diramazioni di un albero genealogico che giungeva fino all’epoca contemporanea. La contrapposizione tra Michelangelo e Raffaello della seconda metà del secolo andò ad alimentare una più antica controversia circa la superiorità tra pittura e scultura. Una vera e propria disputa tra le due arti incardinata sulla maggiore o minore capacità di imitare la natura. La serrata discussione su pittura e scultura finì per produrre un’inchiesta sulla maggioranza delle arti. In gioco c’era anche la determinazione degli artisti rinascimentali di uscire dalle corporazioni delle arti meccaniche per accedere allo status di arti liberali. Il tema della disputa sulle arti è centrale. È un tema rinascimentale. Nella storiografia precedente fino al ‘500 c’erano state delle posizioni, per ciascuno degli scrittori c’era propensione per la pittura o la scultura ecc. Nel 1546-47 Benedetto Varchi inaugura una vera e propria inchiesta. Chiede per iscritto il parere di alcuni artisti dell’epoca quale fosse la più importante delle arti. Benedetto Varchi (1503-1565) Era un fiorentino con una formazione da giurista e storico. Studia a Bologna e Padova. Aveva abbandonato la giurisprudenza per dedicarsi alla filosofia e alle lettere. Nel 1543 diventa console all’Accademia Fiorentina. Scrive Storia fiorentina, un’opera di 16 libri dedicata alla storia contemporanea di Firenze dalla caduta di Alessandro De Medici fino alla salita di Cosimo I. Era un’opera molto impegnativa per la quale Varchi ci racconta come avesse iniziato ad usare fonti diverse, libri dei conti, carteggi, per ricostruire questa storia. Varchi indirizza questa inchiesta di una serie di artisti, su quale sia l’arte maggiore. Questi artisti erano stati interpellati in occasione di due lezioni tenute nella stessa Accademia e pubblicate tre anni dopo. Di questa inchiesta pubblica i risultati in un testo, Due lezzioni di Benedetto Varchi. La seconda lezione è il resoconto di quest’inchiesta. Invece di adottare il dialogo, pubblica le lettere di risposta che i singoli artisti gli avevano dato. Disputa della maggioranza delle arti fu pubblicata dal Torrentino nel 1549. Le risposte sono almeno 8 (Vasari, Bronzino, Pontormo, Sangallo, Buonarroti, Tasso, Tribolo, Cellini), le riceve per iscritto. L’inchiesta in sé confermò il prestigio culturale e sociale raggiunto dalle arti, che avevano ottenuto una sorta di “fortuna mediatica”. Inoltre, questa fu per gli artefici l’occasione per confrontarsi con un intellettuale che non praticava né scultura né pittura. Abbiamo dunque di fronte l’inizio di un dialogo, che diverrà battaglia: a chi spetta il discorso sulle arti? Tutti, pretestuosamente, autodenunciarono la propria incapacità letteraria, laddove, al contrario, ben note rimangono le loro prodezze storiografiche. Da un lato gli artisti difesero le distinte qualità delle loro discipline, dandosi battaglia; dall’altro Varchi pervenne alla filosofica parità di scultura e pittura, profittando delle parole per astrarre dalle differenze materiali, tecniche e insomma proprio dalle specificità che gli artefici avevano a cuore. Tre artisti si dichiarano a favore della pittura, quattro a favore della scultura e Michelangelo restituisce un giudizio intermedio. Alla fine, pose le sue conclusioni, dichiarandosi imparziale, dicendo che dipende dai singoli casi. ➔ Secondo Varchi Pittura e scultura sono due arti nobili in quanto sorelle, legate da una comune matrice, il disegno, e un comune obbiettivo, l’imitazione della natura. Benvenuto Cellini dice che l’arte della scultura è la maggiore 7 volte fra tutte le altri, perché dimostra la natura in modo più pratico ma soprattutto perché nella scultura c’è più disegno che in tutte le altre arti. La scultura si può guardare da diversi punti di vista e da tutti i punti di vista è frutto del disegno. Il disegno è ancora una volta la categoria su cui si fonda la supremazia della scultura. Il disegno corrispondeva all’idea primaria dell’opera d’arte, emanazione diretta dell’idea generatrice. Cellini dice che Michelangelo viene detto il miglior pittore ma solo perché si è formato lavorando con le sculture. Bronzino e Vasari difendono la supremazia della pittura, come arte dove c’è maggiore intelletto. Vasari dice che la scultura ha meno capacità mimetiche rispetto alla pittura. La pittura riesce a restituire per lui le impressioni, gli affetti e ei sentimenti ecc. Si inserisce nella visione toscana. Tripolo aveva parlato della durevolezza, perché la pittura durava di più. Pontormo rivaluta la fatica fisica, ma dice che la pittura è più verisimile. Ritornano le categorie importanti per Vasari. Oggi la disputa ci permette di rilevare la vitalità con cui, a metà del 500, un lessico tecnico maturava a supporto di tali disquisizioni. Dal punto di vista metodologico è interessante, perché lo storico si tira fuori dalla contesa e raccoglie le impressioni altrui. Varchi optò per la parità delle due arti, differenti negli accidenti ma non nella sostanza poiché corrispondenti a un unico fine: l’imitazione della natura. Ad oggi sembra più conclusiva la risposta di Michelangelo, riconduceva il valore delle arti alla singola opera e al singolo artefice. È nell’”intelligenza” dell’artista che va ricercato il discrimine che avvalora l’esperienza rappresentativa, non in una presunzione d’eccellenza disciplinare, né nell’astrazione filosofica. 14\03\22 L’influenza di Vasari sulla storia della critica d’arte sul 1600 è molto rilevante. È il secolo che più risente delle polemiche pro e contro Vasari. Queste polemiche di fatto favoriscono una riflessione su un allargamento, mentre il modello biografico dal punto di vista del modo di raccontare ha una grandissima fortuna, l’opposizione o la difesa delle posizioni di Vasari contribuirà ad un allargamento sia dal punto di vista cronologico (da Cimabue in poi, che porterà alla riscoperta dei cosiddetti “primitivi” artisti provinciali precedenti a Cimabue, per contrastare la visione di Vasari), che geografico, poiché si cominciano a studiare artisti anche non toscani. Questo Bologna a Roma. Il suo ritratto viene attribuito o a Domenichino e ad Annibale Carracci. Come segretario di cardinali e papi è anche consigliere del cardinale Ludovico* Ludovisi, che a Roma negli anni 20’ del 600 allestisce una mostra di dipinti e sculture fondamentale per l’epoca. Agucchi era lui stesso collezionista ed ebbe un ruolo importante nell’orientamento delle iconografie ad esempio di Palazzo Farnese. Termina la sua vita a Venezia perché negli ultimi anni della sua carriera viene inviato da papa Urbano VIII come nunzio apostolico a Venezia. In queste 3 città della sua vita vengono rimescolate le carte della storia dell’arte, per frantumare la visione fiorentino centrica di Vasari nel 600’. Fu erudito, antiquario e uomo di lettere, molto apprezzato per la grande abilità stilistica, fu dedito alla matematica e all’astronomia. Di Agucchi conosciamo alcuni scritti intitolati Trattato della pittura, ma non c’è nel 1600 un testo suo pubblicato a stampa. Ciò che circolava a stampa nel 600 era un pezzo trascritto nell’introduzione di Diverse figure, nel numero di ottanta disegnate, di Giovanni Antonio Massari, fedele segretario di Agucchi, nel 1646. Massani stralciò questo frammento dal più ampio manoscritto che possedeva, attribuendolo a Graziadio Machati, pseudonimo già utilizzato dall’Agrucchi. La stesura delle idee di Agucchi si fa risalire al primo quindicennio del 1600. La parte di Agucchi viene trascritta da questo Massari, che dice di aver trovato il manoscritto. Nel 1600 era noto solo attraverso questa trascrizione. Tra le fonti del Trattato ci furono Plinio e Alberti, Lomazzo e Federico Zuccari. Troviamo una contraddizione, fra una parte teorica incentrata sulla dottrina dell’Idea, di impronta normativa e classicista, e un’altra di carattere storico, in cui l’autore si preoccupa di esaltare l’Annibale Carracci della Galleria Farnese, alla luce di una divisione in scuole regionali della pittura italiana. Agucchi mostra una visione evoluzionistica come quella Vasariana, ma qui manca la cesura tra secoli bui e rinascita che in Vasari si evince. Dice che la pittura come ogni altra arte inizia imperfetta e viene perfezionata nel corso del tempo con il susseguirsi degli artisti. La pittura inizia come imitazione della natura come dice Plinio, di cui riprende una lista di nomi di artisti antichi. Anche se qualcuno è stato più eccellente di altri, tutti hanno puntato al miglioramento. Mantenendo il perno sulle classificazioni aristoteliche dell’imitazione e recuperando il paragone pliniano della Naturalis Historia tra forme e generi nell’oratoria e della pittura, individua nello stile un parametro per distinguere ma anche per raggruppare le maniere dei singoli artefici che imitando il vero e selezionando il più bello dalla natura, hanno la stessa intenzione seppur con le loro particolari differenze. Il criterio dell’imitazione arretra fino all’antichità, in una serie di combinazioni tra natura, antico e modelli, che andranno a costituire nuove e normative categorie di giudizio. In questo momento per Agucchi coloro che sanno di arte vengono detti “intendenti”. C’è una distinzione importante tra il volgo e l’intendente, tra coloro che si appagano dell’imperfezione di ciò che appare e chi invece sollevando il pensiero all’idea del bello viene rapito da questo e lo contempla. In questo secolo si sviluppa il collezionismo e iniziano a nascere figure specifiche di conoscitori, ossia figure di artisti o intellettuali che fanno da consulenti per i collezionisti. Gli intendenti secondo lui possono capire come un maestro dopo l’altro ha contribuito a perfezionare l’arte. Per lui però l’Idea è attingibile potenzialmente da tutti gli uomini. C’è l’accettazione di una grande diversità e diverse maniere, che però hanno teso alla perfezione. Si sgretola l’idea che esista un canone che lega la perfezione alla capacità del disegno. Agucchi è uno dei primi storiografi nei quali si definisce scuola la discendenza stilistica da un maestro. Tutti quelli che cercano di imitare un artista sono di quella scuola. Un’altra differenza si trova nella visione della pittura, che deve essere imitativa della natura, ma ci sono anche artefici che hanno prediletto altre strade. Il suo ragionamento prende avvio dalla constatazione della diversa attitudine che i pittori hanno manifestato di fronte alla rappresentazione della natura, gli uni imitandola così come appariva, senza cercarvi nulla di più, gli altri sforzandosi di innalzarsi “più in alto con l’intendimento” e comprendendo così “nella loro Idea l’eccellenza del bello”. Si articola diversamente il giudizio sull’arte. Agucchi accetta le diversità degli artisti. A partire dalla divisione di Plinio dei maestri antichi secondo aree geografiche, Agucchi si sforza di incanalare le differenti maniere nell’alveo di comuni tendenze regionali, sottraendo la considerazione della pittura al rischio centrifugo della dissoluzione in “tante maniere di dipingere quanti sono stati gli operatori”. Dice che la scuola romana di Raffaello e Michelangelo ha seguito la bellezza delle statue e gli antichi, i veneziani con a capo Tiziano imitavano la bellezza della natura, i toscani ancora avevano un’altra maniera… di fatto individua 4 aree, l’ambito romano che ha come caratteristica l’imitazione degli antichi, l’ambito trevigiano e veneziano che ha a capo Tiziano e imita la natura, la scuola lombarda di Correggio che imita la natura ancor meglio perché in modo tenero e nobile, e poi la fiorentina di Da Vinci e Andrea del Sarto più artificiosa. Riconosce inoltre, pur non dedicandovi molto spazio, una tripartizione fuori d’Italia accennando alle scuole della Germania, della Fiandra e della Francia. Narra la storia dell’arte per aree geografiche, che per l’inizio del 1600 è una messa a fuoco importante. È una reazione al modello di Vasari. Quello che interessa Agucchi sono le variazioni del linguaggio figurativo. Quello che lui apprezza non è inseguire la norma ma capire quali sono le peculiarità di ogni artista. Ci si allontana dall’importanza della biografia e le vicende biografiche per determinare lo stile, ma si inizia a individuare delle maniere che accomunano gli artisti. Individuate le gradazioni della riproduzione del reale ci si interrogava su come i diversi soggetti dovessero essere rappresentati. Sull’accezione vasariana di “maniera” si vanno a sovrapporre l’identificazione dei tratti distintivi dell’artista e una nuova categoria costituita dall’intersezione tra il cosa si dipinge e il come. L’assestamento del concetto di genere corre in parallelo con la codificazione dello stile, da riconoscere e distinguere per gli antichi maestri, da applicare e declinare correttamente per i moderni. Si cominciano anche ad individuare aree geografiche saranno le scuole pittoriche settecentesche. Tutto ciò è motivato dall’esaltazione che lui porta ai Carracci, Annibale soprattutto, che vengono celebrati perché sanno congiungere insieme la finezza del disegno della scuola romana e la vaghezza del colore di quella lombarda, in particolare del Correggio. La motivazione di questa individuazione delle diverse scuole pittoriche, si ricerca nei Carracci, con i quali aveva lavorato e che conosceva. Vi vede l’unione di due scuole pittoriche. Questa visione ci fa dire che è un po’ il precursore di Bellori. Giovanni Baglione (1573-1644) La produzione di artisti che trattano degli artisti del 1600 è amplissima e si espande. Esistono produzioni genovesi, lombarde. È un fenomeno molto ampio. Importante è il ruolo di Giovanni Baglione, pittore e storiografo che vive a cavallo tra 500 e 600’. Vive a Roma dove lascia opera per tutta la città. Inizia collabora col cavalier D’Arpino, entra poi nell’Accademia di San Luca, alla quale dona il proprio autoritratto. Baglione ha un rapporto tormentato con Caravaggio e con i caravaggisti. Di fatto converte il proprio stile al caravaggismo, tanto da esser criticato da Caravaggio stesso. Nel 1603 Baglione querela Caravaggio, Gentileschi e Onorio Longhi per aver diffuso versi offensivi nei suoi confronti. L’opera che scrive è le “Vite de’ pittori, scultori ed architetti” del 1642, dunque in pieno modello vasariano, dal pontificato di Gregorio XIII fino ai tempi di Urbano VIII. Sceglie quindi di ordinare gli artisti contemporanei in base alla successione dei papi, adottando una prospettiva che poneva la città pontificia al centro delle eccellenze della produzione artistica e della committenza, e si dipanava intorno a un itinerario topografico che consentiva di ridurre le biografie a scarni cenni informativi spesso fortemente orientati. Sono vite di artisti lui contemporanei. Viene pubblicato nel 1642 e ripubblicato più volte nel corso dei secoli. È una presa diretta di ciò che succedeva. La prima edizione contiene una canzone in versi elogiativa scritta da Bellori, che inizia a scrivere in quegli anni e che si “rimangia” questa dedica. Il testo è in forma di dialogo e vuole proseguire ciò che avevano tralasciato Vasari e Borghini. Un gentiluomo romano gli fa fare un giro e gli racconta dei principali artisti romani del tempo. Per ogni artista ci sono scarse notizie biografiche, ma una grandissima quantità di opere, le cui notizie e datazioni sono considerate attendibili. Tutto il testo è visto come una difesa e un encomio che vuole affermare la supremazia della pittura romana. Rubens, per Baglione, è la dimostrazione che solo a Roma “reggia del mondo”, grazie alla mirabile concentrazione di tutte le possibili esperienze figurative, è possibile perfezionarsi in quella “maniera buona italiana”. Dunque, seppur sulla scia di Vasari, si discosta dalla sua visione. La struttura riprende comunque quella vasariana. Carlo Cesare Malvasia (1616-1693) Carlo Cesare Malvasia nasce e vive a Bologna. È stato tanto studiato da Andrea Migliani, storico dell’arte bolognese. Ebbe un’ampia formazione umanistica, inizia come pittore dilettante per poi diventare canonico del Duomo di Bologna. Partecipa alle Accademie erudite dell’epoca. A fine anni 30’ soggiorna a Roma, ma spende la maggior parte della sua vita a Bologna. È stato consulente per Leopoldo de Medici, un collezionista aggiornato e quindi interessato a opere delle varie aree geografiche, grazie all’aiuto di esperti, come Baldinucci, Boschini e Malvasia stesso. Chi scriveva di arte diventava consulente per gli acquisti → non sono più i pittori a fare da curatori delle collezioni quando si mette a punto la figura dell’esperto d’arte. Qui ancora chi è esperto d’arte è ancora artista, ma piano piano questa cosa verrà negata, fino a dire che chi è artista non può fare il critico d’arte poiché coinvolto personalmente. Il primo esercizio di scrittore è una lettera al Monsignor Albergati sulla “Cena in casa di Simone il fariseo” (di Giovanni Andrea Sirani del 1652), conservata al San Girolamo della Certosa di Bologna. In questa lettera egli si esercita nella descrizione dell’opera. È una scrittura molto barocca, con formule retoriche (dove si va rapidamente al soggetto, mentre si tralasciano annotazioni pratiche su dimensioni ecc). Si trattano le impressioni che i personaggi restituiscono. Si sofferma su una figura di spalle con dei piatti in equilibrio. C’è una visione quasi teatrale. L’opera storiografica più importante è Felsina pittrice, pubblicata a Bologna nel 1678 dopo un lungo lavoro di redazione iniziato negli anni 50’. Nella premessa dell’opera, Malvasia dichiara le sue ascendenze vasariane in chiave antibelloriana, criticando implicitamente il fatto di aver occultato l’opera di chi non era meritevole, riportando nella sua raccolta solamente gli artisti degni di nota. Malvasia segue le orme di Vasari e sceglie di aderire al modello delle Vite, rinnovandolo alla luce di più aggiornate esigenze storiografiche. nel campo medico. Ogni artista ha una funzione precisa ispirata alle funzioni biologiche delle parti del corpo: - Michelangelo → colonna vertebrale\spina dorsale, per il “fondamento del suo sapere” (ossatura, storia della pittura con il disegno). Assegna gli organi vitali a quelli che per lui sono gli unici veri maestri universali, nonché massimi rappresentanti delle scuole toscana, veneta e lombarda, in ordine di merito. - Raffaello → fegato (idea di copiare dall'antico per trovare la grazia, come il fegato che filtra e purifica il sangue e nutrimento). La fortuna di Raffaello possiede inoltre, come il fegato, la virtù di rigenerarsi. - Tiziano → cuore (riceve il sangue dal fegato e lo perfeziona) - Correggio → cervello (saggio delle più eccelse operazioni). Secondo Scannelli è l’apice della pittura da difendere in quanto poco stimato da chi lo conobbe superficialmente. L’opera di Correggio incarna l’’idea stessa della pittura. Individua 3 scuole pittoriche: 1) scuola romana (originata nella toscana e arrivata alla più adeguata perfezione con Raffaello) 2) scuola veneta (veramente copiosa e molto laudabile, raggiunge la perfezione con Tiziano) 3) scuola lombarda (include Parmigianino e i Carracci e arriva alla perfezione con Correggio) Puntando tutto sulla fortuna di Correggio, cui riconduce i Carracci come esempio di massima sublimazione della sintesi e descrivendo la Galleria farnese come apice insuperato della pittura contemporanea ma con un’ascendenza tutta lombarda, Scannelli smonta i raggruppamenti di Agucchi e nega qualsiasi autonomia alla scuola romana. Inoltre, Scannelli propone un’Annibale Carracci bolognese, col baricentro orientato su Correggio, quasi in opposizione all’Annibale romano che si rifaceva all’antico e a Raffaello, innescando un nodo di contrapposizione interno al fronte dell’idea e dell’imitazione selettiva. Oltre la perfezione toccata da Annibale non rimangono gli abiti e gli orpelli inutili e fuorvianti cui Scannelli riconduce i contemporanei. Scannelli sottopone a giudizio anche la tradizione storiografica artistica. Così come le opere anche gli scritti sulla pittura, classificabili anch’essi in un sistema di scuole, vanno analizzati e contemperati con l’osservazione diretta delle opere, che va ponderata sulle peculiarità del singolo dipinto, relativizzare per qualità nel percorso degli artisti. Dopo la sezione dedicata allea teoria del Microcosmo, il testo inizia un percorso di descrizione e confronto delle opere negli edifici religiosi e nelle gallerie d’Italia, che diventano il luogo privilegiato per l’esercizio dell’attività di intendente. Anche queste sono sottoposte a una valutazione comparativa. Anche Scannelli, come Mancini, ragiona sul mercato e sul tema delle copie e degli originali. La necessità di poter esercitare un esame diretto sulle opere, sempre più al centro della letteratura artistica, mette in evidenza la questione degli incontrollabili spostamenti di opere verso le collezioni europee, ma anche quella dell’accessibilità delle raccolte private, di cui si preoccupava anche Boschini. Il tema centrale diventa l’osservazione diretta dell’opera, Marco Boschini (1602-1681) Una stoccata all’idea che si potessero ecletticamente congiungere le diverse maniere dei grandi maestri del Cinquecento muove, in nome della libertà del colorito veneziano, dalla “Carta del Navegar Pitoresco” di Marco Boschini. La negazione decisa della possibilità di mantenere unite le diverse maniere è una delle prime argomentazioni teoriche del testo e costituisce il pretesto per l’elogio di Tiziano come apice della scuola veneta e della pittura. E’ stato scrittore, poeta, pittore, restauratore, incisore, cartografo, mercante, perito, consulente per acquisti d'arte. Educato alla conoscenza della pittura dalla formazione nella bottega di Palma il Giovane, è indissolubilmente legato al mondo del collezionismo e traccia un manifesto programmatico della scuola veneta calato nelle dinamiche del mercato contemporaneo. Martinioni lo descrive “così pratico e intendente della pittura e di conoscer le maniera de pittori che e prencipi e altri personaggi di stima facevano capo con esso sì per accrescere le lor gallerie, si anco per formarne”. Si tratta di un personaggio d’interesse, perché riassume in sé la triplice funzione di artista, mercante e scrittore d’arte. Si muove con agio nel mondo del mercato artistico, frequenta pittori veneziani e forestieri, è in contatto con amatori e collezionisti locali e diviene mediatore e agente di Leopoldo de’ Medici. Per Boschini non si usa la parola conoscitore, ma “intendente”. Boschini è totalmente ostile a Vasari ed è convinto dell'assoluta superiorità della pittura veneziana. Innamorato di Venezia, ne esaltò le glorie artistiche, considerandola superiore a qualunque altra scuola e città. Il fine che si propone con le due opere era di fornire una bussola ai non intendenti, in modo che fossero in grado di riconoscere la qualità dei quadri e di conseguenza effettuare buoni acquisti. Scrive “La Carta del navegar pitoresco, dialogo tra un Senator venetian deletante, e un professor de Pitura soto nome d'Ecelenza e de Compare. Compartì in oto veti con i quali la Nave veneziana vien conduta in l'alto Mar dela Pitura, come assoluta dominante de queli, a confusion de chi non intende el bossolo della calamita”. È un viaggio di esplorazione via mare in un'immensa galleria che corrisponde alla città di Venezia. Si tratta di un viaggio metaforico nel gran mare della pittura veneta attraverso palazzi e chiese. È un dialogo in versi in lingua veneziana tra un senatore, forse Giovanni Nani (“Ecelenza”) e un professore di pittura (“Compare”). Il genere del dialogo viene adattato a un contesto mercantile e borghese. Si tratta di un lungo poema in quartine d’endecasillabi, in dialetto veneziano e dedicato all’arciduca Leopoldo Guglielmo d’Asburgo, grande collezionista d’arte veneta. La Carta è dominata dalla metafora della nave della pittura, di cui è ammiraglio Tiziano e a bordo della quale ognuno degli altri pittori ha una sua specifica mansione. Tiene alla varietà delle fonti di informazione, ma è sempre attento al controllo di documenti. È diviso in 8 capitoli (chiamati “venti” come i venti delle carte nautiche). Fa uso di tutta la retorica barocca. Difende la maniera veneziana e cerca di mettere in chiaro le sue peculiarità. È contrario al modello di Vasari e contrario alla pittura di genere e i dipinti di piccolo formato fiamminga → I piccoli formati e i soggetti quotidiani a basso prezzo facilitavano l’acquisto anche da parte dei ceti meno abbienti, costituendo una minaccia dal punto di vista commerciale per l’arte veneta. Nel Vento I contesta l'impostazione di Vasari e di Ridolfi che si dilungavano sui fatti biografici senza entrare nelle vere questioni della pittura e senza una presa diretta delle opere, mentre loda Scannelli perché riprende i veneti e riposiziona Tiziano in un ruolo importante, a differenza di Vasari. Attribuisce alla scuola veneziana grandi lodi sia sul disegno, che sul colore, rendendola patria della pittura. Il clima (“aria sana e giocondo il sito”) e il governo (repubblica) sono resi in modo estremamente gradevole e vivibile. Dedica alcuni versi a stabilire che i veneziani studiano e disegnano le statue antiche con la mente “perché la natura stessa non assolve completamente a questo dovere”. Il disegno è quindi importante, ma non essenziale. Per lui la quantità va disegnata, la qualità va colorita. Nel Vento V c’è la descrizione dei caratteri della pittura veneziana. A fine Vento VII e inizio Vento VIII il signore dilettante chiede a Boschini come allestire una galleria. Vi è una galleria immaginaria con opere incise a corredo (al posto dei ritratti di tradizione vasariana). E’ interessante che i pittori vengano rappresentati da un'opera e non più da una biografia. Egli appare attento innanzitutto alla descrizione dei quadri, di cui fornisce spesso un affascinante equivalente poetico, grazie al suo linguaggio. Nucleo dell’estetica boschiniana è la concezione della pittura come operazione di magia, che inganna, fa confondere realtà e fantasia, è in grado di superare la natura; l’esaltazione dell’artificioso, dell’eccessivo, del moto, gli sbattimenti di luce → L’artista è un mago o ingannatore, dotato di qualità soprannaturali. Si nota una discrasia fra il linguaggio utilizzato e l’oggetto dell’attenzione, nel senso che a un’estetica e uno stile barocchi, corrispondono le opere cinquecentesche. Fermo alla triade Tiziano, Veronese e Tintoretto, è come se l’autore forzasse le opere, enfatizzandone in chiave barocca gli artifici manieristici. Già nell’estetica cinquecentesca l’artificio risultava centrale, con la differenza che in quel caso la fatica doveva essere dissimulata con la sprezzatura, mentre nell’ottica boschiniana barocca doveva apparire. I lemmi “maniera, macchina, artificio”, compendiamo la concezione estetica dell’autore, caratterizzato da un approccio sensuale alla pittura, che doveva coinvolgere vista e tatto. Scrive “Ricche minere della pittura veneziana, compendiosa informazione... non solo delle pitture pubbliche di Venezia, ma delle Isola ancora circonvicine” (due edizione 1664 e 1674). Quest’opera contiene una “Breve instruzione per intender in qualche modo le maniere de gli auttori veneziani”. In questa introduzione spiega come la questione non è più il diritto di chi non è pittore a giudicare le pitture, ma la possibilità di individuare, con il raffinarsi delle armi del mestiere, delle sfumature tra intendenti in grado di esercitare un’intelligenza dello stile e dilettanti. Le Ricche Miniere è un’opera scritta in italiano, in cui l’autore cerca di chiarire agli amatori di pittura quale sia la distinzione fra le varie maniere, insegnando loro a discernere ciò che è buono e ciò che non lo è. Precisa subito, però, che coloro che non sono artisti non potranno mai comprendere a fondo la pittura, le tecniche, l’uso dei colori, la resa della luce e così via, perché ciò non può essere insegnato a chi non è del mestiere. Qui le due figure sono idealmente divise da un cristallo che consente ai dilettanti di osservare solamente la mensa con le prelibatezze della pittura di cui si nutrono gli intendenti che hanno maturato un contatto diretto con le opere. Bisogna essere artista per poter giudicare le maniere, fa una metafora (“come una persona che pensa di gustare una tavola imbandita attraverso un vetro che li divide”) attraverso cui afferma che il dilettante non si può davvero avvicinare all'arte. Aggiunge una descrizione topografica della città di Venezia (chiesa per chiesa con rispettive opere con date, nomi, accenni rapidi attraverso aggettivi e giudizi). Nella Breve introduzione afferma che si occuperà solo di artisti veneziani e mostra un interesse proiettato nel presente. Si limita ad affermare che la rinascita veneta si dovette a Giovanni Bellini. Dedica quindi una serie di capitoletti a vari artisti, fra cui Giorgione, Tiziano e i suoi allievi. Si sofferma poi sulla “Distinzione di 7 maniere in certa guisa consimili”, parlando di 7 artisti che risentirono della maniera di Tiziano, Tintoretto e Veronese. Nell’ultima parte dell’Introduzione, infine, si sofferma sulla classica tripartizione della pittura, prendendo in esame il disegno, il colorito e l’invenzione, in cui eccelsero rispettivamente Tintoretto, Tiziano, Veronese. 18\03\22 Boschini difende strenuamente la scuola veneziana, polemizza contro Vasari e propone poi una galleria. Il suo testo * critica le vite vasariane che si concentravano eccessivamente su dati inutili. Individua come formula quella del dialogo itinerante attraverso la laguna tra un Senato veneziano dilettante e un professore di pittura, quindi un intendente, che gli permette di esaltare le peculiarità stilistiche della pittura veneziana in dialetto. Questa scelta sfocia in un dichiarato orientamento antibiografico e antivasariano, che si disinteressa ai dati biografici per focalizzarsi sulle testimonianze figurative, poiché “l’opera da per sì parla e rasona”. Apprezza invece Scannelli* e difende Venezia, come patria della cultura. Il governo veneziano è lodato così come il suo paesaggio naturale. Diventa il luogo dove la pittura ha primeggiato per Boschini. Dice che Venezia è vaga, singolare e unica al mondo. Il tema del legame tra ambiente fisico e il risorgere delle arti sarà una caratteristica che riprenderà anche Winckelmann. Si dice che Venezia era un luogo dove era piacevole vivere e dunque dove la pittura si è sviluppata in modo migliore. Giustiniani. È uno dei più precoci estimatori di Caravaggio del quale tenterà di comprare la Morte della Vergine. Fu collezionista e mercante, più per guadagno che per tenere una sua collezione. Conosceva il mercato nascente e possedeva un’importante collezione. Apprezzava la corrente classicista, Carracci, Albani, Guido Reni, artisti all’avanguardia. Tra il 1623 e il 1630 diventa medico di papa Urbano VIII. Scrive molto e su diversi argomenti, ma nessun’opera fu pubblicata. Di lui abbiamo un testo manoscritto → un testo molto noto seppur non fu stampato fino all’edizione di Luigi Salerno del 1956, Considerazioni sulla Pittura. Le Considerazioni vengono stese in tre fasi, dal 1617 al 1628. Lionello Venturi le definisce “la fonte essenziale per conoscere le tendenze del gusto, le idee estetiche e l’interesse storico-artistico della Roma contemporanea a Caravaggio e Carracci”. L’opera tocca molti argomenti. Dal suo punto di vista questo trattato è scritto per chi non sa e vuole imparare a giudicare la pittura. L’opera è divisa in due parti. ➔ C’è un’introduzione di carattere generale, in cui espone i suoi intendimenti e rivendica il diritto, per chi non è pittore, di parlare d’arte. ➔ Dopodiché si sofferma in 8 capitoli, sulla definizione generale della pittura e dei modi di dipingere, sulle nazioni che hanno dipinto dall’antichità in avanti, sull’importanza della pittura in Roma nel corso della sua storia, sul ruolo dei pittori, inserendo le notizie essenziali sui più celebri, sui generi, i requisiti che un quadro deve avere per essere considerato buono, sulla ricognizione della pittura, cioè come riconoscere una copia o un originale. Dedica un primo capitolo sul diritto di chi non è pittore a giudicare un’opera di pittura. La rivendicazione su cui si incentra il primo capitolo delle Considerazioni sulla Pittura riflette la vivacità del dibattito che agli esordi del ‘600 si focalizzava su chi governasse gli strumenti del giudizio. Lo slittamento del baricentro dell’equazione dell’ut pictura poesis a favore della letteratura apriva così le porte alla possibilità dell’elaborazione di un giudizio formulato anche da chi non aveva maturato una adeguata competenza tecnica. Trascinato nello stesso terreno dell’arte poetica il giudizio di valore sulle testimonianze figurative può svincolarsi dal saper fare e essere rivendicato dagli eruditi. Gli artisti diventando i meno indicati per giudicare il loro operato “onde il pittore non considerando interamente la natura delle cose imitate, non può dar perfetto giudizio della pittura”. C’è un contrasto tra l’intendente e il pittore. Durante il ‘700 ci sarà un notevole spostamento dall’altro lato. I pittori erano considerati all’inizio quasi esclusivamente per poi giungere nel ‘700 a dire che erano troppo coinvolti. Il secondo capitolo era sulla “pittura e le sue specie cavate dai differenti modi di dipingere”. Tratta della pittura e le sue specie, il ruolo della pittura a Roma e le nazioni che hanno dipinto. Mancini divide la pittura in generi anche lui. Tratta poi dei requisiti che le pitture devono avere, come bellezza, decoro, grazia, proporzione, colore e bruttezza. In conseguenza della riforma protestante e la controriforma, si sviluppa una storiografia sull’arte diffusa e fatta di botta e risposta, volta a stabilire quali sono gli artisti che rispettano il concetto di decoro e come vanno dipinti i soggetti religiosi. Il tema del decoro è molto forte dal Concilio di Trento in poi. Tra i principali motivi della contesa religiosa c’è anche la difesa delle immagini sacre condannate dal protestantesimo. Ci sono aspre critiche al giudizio di Michelangelo ad esempio. Altro tema è la ricognizione delle pitture. Mancini cerca di circoscrivere lo stile insieme alla descrizione del processo che ne comportava il riconoscimento. Si addentra sul genere del colorito, dicendo che è facile distinguere i diversi modi di colorire ma è più difficile stabilirne una cronologia, quindi i tempi in cui sono state fatte. Altro tema che lo occupa molto è il tema degli originali e delle copie, sul quale era molto impegnato → È una questione difficile per il dilettante perché sono diffuse copie, falsi, dice lui. È un capitolo dove si capisce come si sviluppasse l’idea di saper distinguere i falsi. Dice ad esempio che i falsari non sanno ricopiare alla perfezione i dettagli anatomici. Mancini, però, citando un aneddoto su Annibale Carracci che imitò perfettamente Sebastiano del Piombo, dice anche che una copia fatta bene a volte era meglio dell’originale, perché riuniva l’arte dell’inventore e quella dell’imitatore, e valesse molto denaro. Lascia intendere che ciò che conta è la qualità, ovunque si trovi, anche in una copia. Nel capitolo dedicato alla bontà delle pitture inserisce una breve biografia di Caravaggio, fonte diretta, dove gli riconosce come maggior merito “il colorir che ha introdotto”. Il topos dell’irregolarità e la stravaganza del pittore fanno da cornice alla biografia. Nonostante non sia esplicito, si evince che a Mancini non dovesse essere estranea la riserva nei confronti della mancanza di decoro delle opere caravaggesche, altro topos della critica seicentesca. Prosegue con il capitolo sulle regole per comprare, collocare e conservare le pitture. Dà indicazioni pratiche, entrando nel dettaglio delle regole di mercato e le modalità di ordinamento nella collocazione delle opere sulle pareti delle residenze più modeste e delle gallerie dei principi, indicando la collocazione più appropriata per soggetto, genere e epoca. Un amatore deve saper maturare la capacità di discernere e giudicare ma anche formulare stime economiche. Si rivolge in particolare al ceto medio in attesa di un riconoscimento socio-professionale. Nell’introduzione fa una dichiarazione molto esplicita → * Premettendo che non sa dipingere, la sua intenzione è dare i requisiti grazie ai quali si può giudicare un dipinto. Una delle cose interessanti che introduce in tutte le sue descrizioni è il fatto che non esiste una categoria di giudizio prefissata. La storicizzazione del presente si gioca ancora una volta sul tema dell’imitazione, e il confronto tra le maniere è ormai una prassi consolidata, tanto da proiettarsi all’indietro anche sulla costruzione storiografica della disciplina, accogliendo la relatività di giudizio punto cardine del sistema vasariano. Scrive che se un secolo è superiore all’altro non significa che ogni artista del secolo inferiore sia peggiore degli artisti del secolo superiore. Dunque, l’evoluzione continua in cui credeva Vasari viene scardinata. Masaccio è superiore a molti artisti della seconda età per esempio. Va giudicato il singolo artista anche in base ai tempi. Getta una nuova luce sulla rivalutazione dei primitivi, che Mancini si sforza di inquadrare in un sistema di scuole. Anche lui divide la pittura in 4 tipologie. Anche lui ha una visione evoluzionistica per epoche della pittura, ma nella contemporaneità, che risulta più difficoltosa da suddividere rispetto ai grandi maestri, vede 4 scuole o maniere che inverte più volte nell’ordine: una è di Caravaggio (e i suoi emuli o seguaci), la seconda è dei Carracci, quella classicista, la terza è del cavalier D’Arpino e la quarta riguarda tutti gli altri, che non seguono questi tre artisti. L’impossibilità di individuare dei modelli contraddistingue proprio questo quarto raggruppamento. Ai Carracci riconosce una pittura più intellettuale, la ricerca del bello, mentre in Caravaggio è riscontrata l’assenza di decoro, per cogliere la restituzione del vero senza un filtro intellettuale. Quando fa questa ricognizione delle pitture, inserisce la biografia di Caravaggio. Conoscendo le frequentazioni che Mancini aveva col cardinal del Monte e con Caravaggio stesso questa biografia diventa una fonte primaria. Vi è un riconoscimento a strettissimo giro dalla vita di Caravaggio al suo ruolo, come pittore dalla grande influenza. Mancini mostra una fonte diversa sul mito di Caravaggio che nasce da umili origini. Mancini dice che Caravaggio invece nasce da famiglia altolocata. Già da ragazzo era stravagante. Già a quell’epoca girava la voce del fatto che la modella per la Morte della vergine fosse una cortigiana. Tratta poi del presunto fratello sacerdote di Caravaggio. Da una serie di notizie che sembrano voler rimarcare che fosse un cronista affidabile della vita di Caravaggio. Nella conclusione riafferma nuovamente la sua stravaganza, come elemento che ha reso la sua vita breve e tormentata. Sappiamo con certezza che Mancini provò a comprare diverse opere di Caravaggio, forse ne aveva una oggi perduta. Provò anche a comprare il quadro sopracitato rifiutato dai committenti. Scrive una serie di lettere a ridosso del dipinto dove dice di volerselo aggiudicare. Sa che è un’opera indecorosa ma ben fatta. E’ spropositata di lascivia dice, sa che verrà criticato ma tenta in tutti i modi di averla. Purtroppo il Duca di Mantova se l’aggiudica. Il tema del decoro ritorna importante, ma è uno dei primi che riconosce in Caravaggio una capacità che supera la questione del decoro. Nel 10 capitolo, Regole per comprare, collocare e conservare le pitture, Mancini parla del prezzo di un’opera, la collocazione, verniciatura e lavatura. È un capitolo che tratta in parte del restauro. Sul prezzo Mancini fa un lungo discorso nel quale come nel giudizio sugli artisti relativizza il giudizio. Dice che il prezzo dipende da una serie di variabili che possono variare in base alla fama dell’artista, il nome dell’artista. Dipende da chi lo compra e dalla situazione in cui lo compra. Il ruolo del mercato d’arte diventa un tema importante per la storiografia artistica. Il proliferare delle raccolte apporta nuove riflessioni alla storiografia artistica attraverso l’applicazione di nuove modalità di collocazione delle opere d’arte nelle residenze. Una volta che sono stati acquistati i quadri devono esser collocati secondo una precisa regolamentazione, dice lui. Esisteva un collezionismo alto, del quale parla Mancini, e uno medio-basso. Se ho solo una o due stanze l’unico principio da considerare è la luce, la giusta illuminazione. È un testo pratico. I disegni vanno raccolti in album da mostrare all’occorrenza e vanno separati secondo le materie, l’argomento, i tempi, ossia l’epoca, la grandezza del foglio, le nazioni e le tecniche. Tutte le categorie di classificazione potevano variare ma sono interessanti perché disegni e stampe non sono divisi per artista, ma la prima categoria è la materia trattata. Mancini raccomanda di seguire un ordine cronologico subordinato a una suddivisione per scuole: prima le oltramontane, poi le lombarde, poi toscane e romane. Sarà un esercizio più tipicamente del 700 dividere per scuole pittoriche, poi cronologie, poi artisti. Dopo si considerano le pitture. Paesaggi e cosmografie vanno nelle gallerie. Veneri e donne nude nei giardini e nei luoghi privati. La pittura andava giudicata soprattutto per il tema, con una categoria di genere. Dall’altro l’aspetto tematico serviva anche per ragioni di allestimento della casa. Le pitture con tema civile o di guerra si ponevano nelle sale dove entrava l’ospite e si negoziava. Il passaggio avviene dall’occhio, che esercita il confronto, alla memoria visiva, che alimenta la capacità di formulare giudizi in amatori e intendenti. Dalla comparazione scaturisce la conoscenza e l’intelligenza dei raggruppamenti, tramite un’operazione di sollecitazione visiva che l’ordinamento delle pareti deve agevolare, con la collocazione in dialogo delle opere. Secondo Mancini, le Madonne “antiche alla greca” con cornici gemmate si dovevano collocare nei gabinetti adibiti a studio delle grandi residenze romane, mentre le tavole quattrocentesche trovano luogo di esposizione nelle gallerie. Sebbene lo statuto artistico dell’arte medievale non sia ancora considerato alla pari dell’arte antica e l’arte contemporanea, si apre il molto animata da costruzioni edilizie, come quella della famiglia Ludovisi, che rinviene nel giardino della loro villa delle statue da restaurare. L’artista che restaurava metteva molto del suo. Grandi artisti si dilettano con questa attività. Duquesnoy restaura anche la collezione Giustiniani stessa, distribuita tra le diverse residenze del Giustiniani. Giustiniani commissiona diversi restauri e comincia a chiedersi come distinguere statue antiche da quelle moderne, laddove la scultura antica aveva ancora valore di fondamento e veniva studiava e collezionata anche a favore degli artisti. Negli anni 20’ Giustiniani fa stampare la Galleria Giustiniana, catalogo in due volumi con 330 incisioni ordinate per soggetti, che rappresentano la propria collezione. Ad essa collaborarono molti disegnatori e incisori, tra i quali Lanfranco e Duquesnoy. Non c’è testo, quindi non è un catalogo illustrato, ma un raccolta che testimonia l’attenzione all’antico. Il mondo del collezionismo influisce sul gusto e sulla storiografia. Giovan Pietro Bellori (Roma 1613-1696) È stato un critico d’arte a lungo ignorato, seppur studiato per buona parte del 1700. Panofsky lo considerava il più grande studioso dell’arte e archeologo del suo tempo, per Schlosser di tutta Italia e tutta Europa, nel 1600. C’è stato uno schiacciamento di Bellori a teorico del classicismo seicentesco, contro il naturalismo di Caravaggio. Più recentemente è stata rivista la sua figura, valutandone le diverse sfaccettature, riconsiderando tutta la sua attività di antiquario, poco considerata fino a quel momento. Egli aveva l’incarico di commissario dell’antichità e belle arti a Roma, un sovrintendente papale che si occupava dell’esportazione e importazione di opere. Si sono rilette poi le sue Vite con attenzione più filologica a ciò che scrive, allontanandosi da questa dicotomia tra classicismo e naturalismo. Nasce a Roma da una famiglia di umili origini lombarde. Viene molto presto, dal 1630, preso in casa da Francesco Angeloni, che gli garantirà un’istruzione colta e una formazione antiquaria, e proteggerà Bellori per tutta la vita. Tommaso Montanari, grande studioso di Bellori, ha pensato che potesse essere un figlio illegittimo, perché il padre di Angeloni si chiamava Giovan Pietro. I genitori di Bellori abitavano vicini ad Angeloni e vengono considerati con Bellori nel testamento di Angeloni. Francesco Angeloni era stato segretario del cardinale Aldobrandini, era un prelato, un protonotario apostolico. Esser legato al cardinale Aldobrandini, significa esser vicini a Clemente VIII e una posizione filobolognese a Roma. A Roma i bolognesi avevano avviato una fortissima corrente classicista. Anche Caravaggio non avendo una scuola avvierà una grande scuola a lui ispirata. Nell’epoca di Bellori si affermano queste due tendenze. Angeloni era amico di Agucchi, collezionava moltissime opere dei Carracci, ospitava molti artisti facendo della sua casa un circolo culturale. Frequentava Domenichino e conosceva Poussin. Questa grande collezione è detta Museo Angelonio, dove raccoglie pezzi antichi, incisioni, disegni, quadri moderni. Angeloni è celebre per alcune opere di stampo antiquario. Nelle pubblicazioni del 1600 cominciano ad apparire incisioni delle opere trattate. La sua opera del 1641 è chiamata Historia Augusta da Giulio cesare insino a Costantino il Magno illustrata con la verità delle antiche medaglie. Si affermava l’idea che la storia antica non dovesse esser studiata solo dalle fonti, ma anche attraverso le prove materiali, come le medaglie. Manca ancora una cronologia, un’attenzione agli stili ect, ma gli studiosi studiavano le immagini delle figure oggetto di studio come testimonianza del passato e non come opere d’arte. Angeloni era un uomo aggiornato e questo testo illustrato con medaglie lo dimostra. Nel 1660 Bellori viene nominato da papa Clemente X Commissario delle antichità di Roma e numerosissimi saranno gli scritti rivolti alla descrizione e ricognizione del patrimonio artistico antico, cui si dedicò appassionatamente col fine di custodire e difendere le antichità romane. Lo studioso lungo tutto l’arco della sua carriera mantenne viva l’attenzione sia al passato che al presente, focalizzando il proprio interesse su alcuni momenti chiave dell’arte cinque- seicentesca al fine di sottolineare la continuità fra eccellenza antica e moderna, attraverso l’esempio di Raffaello e i Carracci. I Carracci attraverso l’unione dell’osservazione della natura e la copia dell’antico avevano rinnovato la pittura, come dice anche Agucchi. Dai Carracci era giunta una corrente classicista di origine bolognese a Roma, che rappresentava la corrente classicista. Guido Reni, Domenichino, allievo dei Carracci, Guercino, Albani, Poussin, che arriva più tardi ma si aggancia a quella corrente. Dall’altra parte come novità prorompenti abbiamo Pietro da Cortona, Lanfranco. C’era un clima molto vivace e combattuto, attivo dal punto di vista polemico. Dagli anni ‘40 in vita, Bellori diede alle stampe numerose opere antiquarie e letterarie, fra cui il lungo poema Alla pittura del 1642, premesso alle Vite di Giovanni Baglione, che in seguito disconobbe, avendo cambiato idee. Le prime opere di Bellori sono delle monografie dedicate a singole imprese pittoriche molto importanti. Negli anni ‘50 sta già lavorando alle Vite, progetto che ha origini lunghe, ma le prime due opere cui si dedica sono una sui Carracci e l’altra sul ciclo pittorico di Raffaello. Nel 1657 esce l’Argomento della galeria farnese dipinta dal 1597 al 1607 da Annibale e Agostino Carracci, considerato il primo libro illustrato della storia dell’arte. È un libro a stampa che unisce testo e immagini. È una raccolta di stampe con trattato. Dopo la dedica ai lettori c’è l’illustrazione del tema iconografico complesso della galleria farnese. Vi è poi la descrizione dei diversi scomparti. L’opera, illustrata da Carlo Cesio, riflette l’esercizio mirato a decifrare e descrivere il linguaggio visivo dell’antichità. Dal rapporto tra immagini e testo scaturivano nuove modalità di interazione tra il linguaggio della documentazione grafica e quello della storiografia artistica. Un’altra opera pubblicata postuma è la Descrizione delle immagine dipinte da Raffaello d’Urbino nelle camere del Palazzo Apostolico Vaticano → È una descrizione del ciclo affrescato da Raffello. Rimane sulla carta e viene pubblicato dopo la sua morte. Non siamo ancora in un’epoca in cui si descrivono i materiali e le tecniche, ma l’attenzione è iconografica e stilistica. Interessante è che nell’edizione settecentesca si pubblica un manoscritto in cui si descrive il restauro degli affreschi di Raffaello nella Loggia di Psiche alla Farnesina, ad opera di Maratti. La conservazione e il restauro avevano assunto verso la fine del secolo un carattere pubblico. Le opere sono testimonianze dirette dello stile e ne va mantenuta l’integrità e la corretta percezione da parte degli intendenti, ma soprattutto degli artisti che ne ereditano la tradizione. Per Bellori Maratti è l’unico che può ripristinare il temperamento delle tinte di Raffaello. Altra opera prima delle Vite è la Nota delli musei, librerie, galerie e ornamenti di statue e pitture ne’ palazzi, nelle case e ne’ giardini di Roma → È una ricognizione delle gallerie e collezioni dell’epoca. Emerge subito in Bellori un’attenzione alla dispersione delle collezioni. È un testo che riprende i testi di Mancini e Giustiniani, con l’attenzione al collezionismo, alle raccolte minori, che si diffondevano nei palazzi non solo aristocratici di Roma. Il formato è tascabile. Uno dei testi più celebri è il Discorso sull’Idea del pittore, dello scultore e dell’architetto scelta dalle bellezze naturali superiore alla Natura, tenuto in Accademia di San Luca del 1664. Il Principe ossia il direttore era Carlo Maratti. L’Accademia era un luogo di formazione degli artisti e di orientamento del gusto, che veniva insegnato tramite la copia dall’antico, dal vero e la rielaborazione della produzione contemporanea. In Accademia c’erano classi di pittura, scultura e architettura. Bellori rivestì diverse cariche all’interno dell’Accademia di San Luca. Nel 1652 fu nominato segretario, nel 1664 curatore de’ forestieri, nel 1678 primo rettore. Davanti al contesto accademico Bellori tiene un discorso orale che viene inserito nell’edizione delle Vite come una sorta di capitolo introduttivo. È anche il motivo per cui le Vite sono state lette come lo specchio di questo discorso. Il discorso è intitolato l’Idea del pittore, dello scultore e dell’architetto scelta dalle bellezze naturali superiore alla Natura. Questo discorso in fondo rispondeva all’esigenza di ribadire lo statuto nobile delle discipline artistiche, di cui si metteva in rilievo il legame con l’antichità greco-romana, a livello teorico e iconografico, insistendo molto sulla connessione tra pensiero classico e estetica attuale. I continui richiami ai grandi del passato servivano a connettere le istanze delle arti moderne del disegno alla nobiltà dei tempi trascorsi, enfatizzando i nessi fra poesia e arti figurative per sottolinearne il carattere eminentemente intellettuale. Bellori afferma che l’idea della bellezza è varia, come varie e tutte ammirabili sono le fattezze degli dei e degli eroi antichi. L’idea che Bellori ha della perfezione della pittura si crea già nella mente dell’artista, partendo dall’imitazione della natura e dell’arte antica, i marmi, si forma nella mente dell’artista come selezione del migliore della natura e vien espressa attraverso l’arte. Compito dell’artista è trascegliere il meglio della natura sulla base di un’idea che egli possiede dentro di sé, ma che di fatto è ancorata all’esperienza → È un’idea intellettuale del fare artistico. La capacità dell’artista ben formato è di selezionare dei modelli sui quali si esercita. Per essere ottimo l’artista nella raffigurazione deve seguire un percorso idealizzante a partire dall’esperienza che la realtà gli fornisce; solo dopo essersi formato nella mente un’idea di bellezza, secondo un processo astrattivo e generalizzante, può tornare alla rappresentazione della natura, avendola depurata e resa migliore, anche grazie agli esempi antichi. Questo accento marcato sul ruolo della mente dell’artista e l’immaginazione creativa non è nuovo, ma nuova la soluzione di adattarlo a una selezione mirata di artisti moderni. Uno degli elementi sul piano del mercato che inizia ad affermarsi è la concorrenza di tutto il mercato fiammingo della pittura locale influenzata da quella fiamminga. Quell’arte lì perde valore secondo la visione di Bellori. Bellori è difensore di una corrente pittorica di quelle che animavano la città. Contemporaneamente un’idea del genere del fare artistico chiude la questione sulla supremazia della pittura o della poesia La pittura diventa azione dell’intelletto che supera la descrizione dell’oggetto. I pittori devono tranne il meglio e il bello dalla natura e dall’arte degli antichi attraverso l’uso dell’intelletto. Chi copia pedissequamente non è un pittore. Due sono gli errori che individua: il primo è di chi si forma l’idea sulla pratica, basandosi sugli esempi dei propri maestri e prescindendo dalla natura; il secondo è quello dei naturalisti, che rinunciano del tutto all’Idea, limitandosi alla mera imitazione della realtà, senza saper dipingere senza modelli. Questo secondo errore è più pericoloso perché gli artisti rinunciano alle proprie prerogative, a rivendicare la propria superiorità rispetto a un sentire comune, guadagnandosi le simpatie del popolino. Questa idea della selezione del meglio dalla natura aveva caratterizzato anche il modo di costruire di Agucchi. Nel proemio del suo Trattato sulla pittura, Agucchi mette in chiaro un discorso assimilabile a quello di Bellori. Nella sua esaltazione dei Carracci Agucchi aveva sottolineato lasciano ampie tracce anche a Roma. Poi abbiamo i grandi allievi, Zampieri, Lanfranco, Algardi e a seguire Poussin, Reni, Sacchi e Maratti. Il ruolo predominante del profilo di Annibale, restauratore della pittura, esordio e culmine insuperato del sistema delle Vite, si sovrapponeva ad un’idea di progresso delle arti, che se da un lato allude all’impianto evoluzionistico vasariano, dall’altro rifletteva il parallelo tra antichi e moderni, scongiurando la decadenza della produzione artistica. Annibale rappresenta il progresso per il suo linguaggio di sintesi, nobilissima eredità di Raffaello, che in quanto perfetto esempio di imitazione selettiva si configura come aspirazione e parametro di giudizio dei contemporanei. Ci sono elementi ricorrenti all’interno di ciascuna biografia, anche se Bellori rispetto a Vasari riesce a variare più lo schema. Le altre vite si articolano intorno al primato di Annibale e incarnano le combinazioni delle diverse componenti delle arti visive, comprese architettura e scultura, che vengono valutate in base ai gradi dell’imitazione. LA STRUTTURA Abbiamo il proemio, che introduce la biografia. Abbiamo informazioni sull’aspetto fisico, aggiungendo ritratti e incisioni allegoriche. Ci sono notizie di tipo narrativo sulla vita, molto ampliata è la descrizione delle opere, dove Bellori spinge al massimo la capacità di ekphraris, che ha a che fare anche con la retorica del 700. Nelle descrizioni che sostengono il testo, rafforza il primato dell’invenzione e declassa il colore. Questo perché il colore è parte integrante della mediazione selettiva imprescindibile per gli artisti, mai libero artificio e secondo lui “l’intelletto e non l’occhio è giudice del colore”. Queste Vite sono contemporanee a Boschini, poco successive a Volpi. Infine, vi sono delle considerazioni stilistiche. Lo schema non è rigido come in Vasari. EDIZIONE del 1672 L’edizione del 72’ segue tutta una serie di edizioni manoscritte che già circolavano prima di questa data. Questa prima edizione arriva fino a Poussin. Bellori viene riedito più volte anche nel 700’, con edizioni più complete che comprendono anche gli ultimi tre artisti. Ci sono poi frammenti e appunti su altri artisti. Pur con qualche assestamento in corso d’opera l’imitazione selettiva trovava in questo modo una sua sistematizzazione storiografica e letteraria che si proponeva di non menzionare neppure chi non meritava secondo Bellori di essere commentato. Una formula così ridotta prevedeva però la presenza di alcune biografie di peso, tali da sostenere come architravi l’intero sistema. Altre minori avevano la funzione di difendere la credibilità dell’opera e assicurarne la diffusione internazionale, come nel caso di Rubens e Van Dyck. Perché inserire Caravaggio? Il fatto che Caravaggio venga incluso, pur non corrispondendo all’idea di bello di Bellori, è significativo. Caravaggio, infatti, era campione di quell’indirizzo naturalista che egli aveva denigrato nell’Idea. Bellori riconosce a Caravaggio la riscoperta della natura che nel modello belloriano è comunque un passaggio fondamentale per superare il manierismo. L’importanza di Caravaggio viene riconosciuta da Bellori nell’inserirlo. A Caravaggio riconosce la riscoperta della natura attraverso una nuova verosimiglianza del colore come antidoto alla decadenza del manierismo. Bellori derivò dalle fonti precedenti alcuni elementi, altri li introdusse ex novo, fondando una vulgata sul Caravaggio destinata ad avere largo seguito. Il gioco sfacciato della mancanza di decoro, che non trasforma l’umanità reale in figure sacre non idealizzate, ma anche la carenza di invenzione e la pedissequa imitazione della natura, sono le critiche che Bellori fa a Caravaggio. Bellori riconosce l’eccellenza di Caravaggio come colorista e inserisce un viaggio a Venezia che non torna nei documenti, volto a creare un legame tra Caravaggio e Venezia, in particolare Giorgione. Questo legame è da un punto di vista coloristico e d’ispirazione del naturale, ma vuole anche smorzare la novità e l’originalità di Caravaggio e dire che prese ispirazione da Giorgione. Pur ammettendo l’importanza del pittore, tuttavia, non è un caso che ne venga sottolineata la programmatica indifferenza nei confronti dello studio dei modelli antichi. La proposta di Caravaggio risulta inconciliabile con gli insegnamenti dell’accademia. Inoltre, Bellori sottolinea l’aspetto caratteriale maledetto, poco chiaro, torbido, che ha partecipato alla creazione del suo mito. Caravaggio elesse la natura a unica maestra, rinunciando colpevolmente a ogni correzione idealizzante, sacrificando così il suo grande talento. Torna anche nella biografia di Bellori l’importanza della committenza e il fatto che le sue opere furono spesso rifiutate per questioni di decoro. Bellori descrive delle opere dipinte in San Martino, ma alcune delle opere, così come le notizie sulla vita di Caravaggio non sono attestate e questo accade anche per altre biografie. Alla fine, Bellori tratta brevemente di alcuni seguaci che si ispirano a lui. Caravaggio non ha una scuola formata e questo è un altro aspetto negativo per Bellori, perché nel modello dell’Accademia formare gli allievi e farli crescere è importante. Caravaggio non creò una bottega ma ebbe enorme fortuna figurativa. In conclusione, Bellori ammise che l’esempio di Caravaggio aveva giovato alla pittura perché aveva richiamato gli artisti, sviati dal vizio manieristico, all’importanza della natura e aveva rinvigorito il colore togliendogli ogni “belletto o vanità”. A causa di una resa troppo cruda della realtà, egli vide rifiutate dai committenti alcune sue opere, giudicate sconvenienti e rifiutate. LE INCISIONI nell’OPERA delle VITE Nelle Vite sono state contate 43 incisioni tra ritratti, vignette decorative, due incisioni con la statua di Antinooo. Significativi sono le vignette e il ritratto per ogni pittore, e le allegorie sintetiche che dovrebbero richiamare le peculiarità dei singoli pittori. Caravaggio ha la praxis, la pratica, l’imitazione senza modelli, Domenichino, campione nella resa degli affetti, la conceptus imaginatio, l’artificio di Lanfranco è associato alla natura, mentre Poussin la sapienza di lumen et umbra. Van Dyck, che oggi ci sembra più naturalistico di come lo legge Bellori, ha una vignetta allegorica con una donna che si guarda allo specchio, con il piede schiaccia la scimmia e la scritta Imitatio sapiens. Bellori riconosce a van Dyck la capacità di ritrattare. Fa una lista lunga di ritratti noti o meno noti. Per quanto riguarda Poussin, quello che Bellori descrive è un Poussin romano, che a Roma decide di rimanere e operare dopo la parentesi del viaggio a Parigi, sempre con lo scopo di attestare il ruolo imprescindibile del contesto artistico romano. Nel 1673 viene pubblicata una recensione sul Giornale dei letterati, in cui si coglie l’aspetto più militante e stringente dell’opera. Bellori non si accontenta di citare le opere, ma le descrive attentamente, parte per parte, riflettendoci e cogliendo ogni aspetto sul colore, lo stile, la grazia ecc. Quindi gli si riconosce grande capacità di descrivere le opere. 25\03\22 NEOCLASSICISMO Neoclassicismo è una parola che viene introdotta in una fase tarda con accezione negativa, per indicare la nuova passione per l’arte antica che caratterizza il secondo settecento. Questa attenzione al classico, ai modelli classici figurativi è in realtà caratteristica di ogni secolo. Il neoclassicismo crea una frattura rispetto a delle tendenze classiciste che non smettono mai. Di fatto questa frattura non esiste. Sicuramente c’è una nuova lettura dei classici, ma le tendenze di fatto convivono tra di loro. Durante il diciottesimo secolo ci sono alcuni fenomeni della cultura scientifica che hanno un impatto pervasivo su tutti gli aspetti del sapere. È un secolo dove la circolazione del sapere è molto ampliata, la comunicazione è facilitata da riviste specializzate, gazzette letterarie, che restituiscono le recensioni dei libri in modo veloce. C’è una conoscenza reciproca tra gli intellettuali, uno scambio anche fisico di pubblicazioni e di idee, perché il mondo della cultura è molto connesso, più che nei secoli precedenti. Tutto questo ebbe un’influenza anche sulla storia della critica. Una delle questioni cruciali delle riflessioni tra la fine del seicento e l’inizio settecento è il rapporto tra scienza e antiquaria, tra scienza e storia. Il dibattito attorno all’attendibilità delle fonti storiche, che coinvolse anche le opere d’arte. Due fenomeni segnano la distanza tra 600 e 700. Per primo un cambiamento del mondo delle scienze che viene dal pensiero di Newton, considerato il padre della scienza moderna. NEWTON Nel 1700 diventa un punto di riferimento, si celebra e pubblica in tutte le versioni per tutto il secolo. Il suo apporto culturale si gioca su due fronti. Da un lato l’apporto generale che porta al sapere, stabilendo una volta e per sempre che la scienza si basi sul rifiuto di una spiegazione che prescinda da una verifica sperimentale e su un rapporto di causa e effetto. Fino a quel momento si giustificavano i fenomeni anche facendo ricorso all’oltranaturale. Ogni ragionamento deve essere basato su un procedimento analitico o sintetico che comunque consideri il rapporto di causa e effetto. Questo avrà una progressiva influenza. Nel 1687 pubblica Philosophiae naturalis principia mathematica che avrà un’influenza su ogni aspetto. La disciplina diventa disciplina scientifica nel ‘700. Questo porta progressivamente nel mondo della storia dell’arte a guardare sempre più gli oggetti per cosa sono portatori. Si stava sviluppando già un linguaggio capace di scrivere lo stile e nel 700 comincerà a svilupparsi un linguaggio per descrivere la materialità dell’oggetto, la tecnica, proprio grazie alla scoperta di un carattere sperimentale dell’osservazione. Arnaldo Momigliano individuava in questo momento il passaggio dall’antiquaria basata sulle fonti letteraria, all’antiquaria fondata sugli oggetti e le immagini. C’è un bisogno di fondare scientificamente ogni ragionamento, secondo il concetto dell’hypotheses non fingo, il rifiuto per qualsiasi spiegazione della natura che prescindesse dalla verifica sperimentale delle ragioni di causa-effetto. L’altro contributo importante è dato dai suoi studi sull’ottico. Era un matematico, fisico e alchimista, membro della Royal Accademy. Fondamentali sono i suoi studi sulla luce, riesce a provare e dimostrare fisicamente la composizione della luce, che è composta di tutti i colori attraverso il prisma. Le idee di Newton vengono riprese a lungo, da Goethe che scrive dei colori, Algarotti? scrive un libro per spiegare Newton alle dame, intitolato Il newtonianismo per le dame. Pur morendo nel 1727 egli diventa uno dei padri fondatori della cultura settecentesca. Viene studiato anche da Voltaire e celebrato da Boullée nel progetto per il suo cenotafio, 60 anni dopo la sua morte. LINNEO Roger de Piles (1635-1709) Roger de Piles è una fonte che risponde al modello vasariano nel contesto francese. De Piles porta il dibattito al di fuori dell’accademia reale per ampliarlo agli amatori curiosi di cui Parigi brulicava. Fu segretario d’ambasciata e pittore lui stesso. Era un esperto di Rubens, su cui scrive La vie de Rubens, scrive sulla supremazia del colore sul disegno. All’imitazione selettiva di Poussin incentrata sull’invenzione e sul dominio del disegno, unica impostazione teorica che aderiva ai principi dell’accademia, si opponeva il genio inafferrabile di Rubens, erede di Tiziano e dei Veneziani. De Piles riconosceva a Rubens di aver portato con le sue riflessioni la scienza del chiaroscuro più lontano di qualsiasi altro pittore. In Dialogo sul colore, riafferma la centralità del colore, che costituiva l’essenza stessa della pittura. Per ribadire l’importanza del concetto di coloris (diverso da couleur) medita sul rapporto tra il vero naturale e la resa delle emozioni. Il chiaroscuro rientra nella categoria del colorito. È noto per l’Abrégé de la vie de peintres (1699), in cui enuclea gli strumenti del perfetto connoisseur. Senza pretese esaustive, l’autore intende offrire a un pubblico fatto di amatori dilettanti un’efficace sintesi di tutta la storia della pittura, dalla Grecia all’Europa contemporanea, in cui le brevi vite sono intervallate da riflessioni critiche sull’opera dei più importanti fra loro. Il libro fu composto fra il 1696 e il a1697 quando era prigioniero in Olanda. L’Abrégé è introdotto da un’Idea del pittore perfetto, dove dice che il genio è la prima cosa che si deve supporre in un pittore, perché non si può acquisire né con lo studio, né con l’esercizio. La sua opera si propone come un vademecum per un nuovo genere di lettore, l’amatore curioso guidato dal proprio gusto. L’introduzione è seguita da 29 capitoli che trattato dei più diversi argomenti: il genio e la sua necessità, rapporto natura-antico, il gran Gout, disegno, colorito, espressione ecc. L’Idea si chiude poi con un capitolo dedicato alla conoscenza dei quadri, i criteri per distinguere buono e non buono, copia e originali. Seguono poi le 7 parti del compendio sulle vite dei principali pittori greci, romani e fiorentini, veneziani, lombardi, tedeschi e fiamminghi, francesi. Scrive anche “Cours de peinture par principes avec une balance de peintres del 1708, un compendio delle riflessioni di de Piles. E’ scritto per educare il pubblico e dare un metro di giudizio sull’arte. Dice che non esistono canoni assoluti per giudicare la pittura e vuole spiegare il suo. Prende in considerazione le 4 categorie tradizionali: composizione, disegno, colore e espressione. Dà un punteggio da 1 a 18 a diversi artisti, attribuendogli un voto per ogni categoria. Nella lista dei 56 pittori scelti, Rubens e Raffaello risultano con un punteggio complessivo maggiore, seguiti dai Carracci, Le Brun, Van Dyck e Poussin. Anche lui riconduce il giudizio al confronto e al riconoscimento di una pluralità di gradi di perfezione. Si può decodificare un passaggio dal giudizio critico intuitivo destinato solo agli artisti. Dice però che non tutti possono giudicare. Jonathan Richardson (1665-1745) Nella prima metà del XVIII secolo la polemica sulla legittimità del giudizio artistico si ampliò e si arricchì della voce di nuove figure intente ad accreditarsi come conoscitori. L’espansione del mercato d’arte contribuiva ad articolare il mestiere e ad affinare gli strumenti critici. La questione delle attribuzioni si innestava nel clima culturale animato dalla scienza sperimentale di Newton e la sistematizzazione delle scienze naturali di Linneo. A spiegarci cos’è un conoscitore nel 700’ è Jonathan Richardson. Era anche un pittore dilettante, molto interessato ai ritratti, ma principalmente era scrittore, letterato e grande collezionista. La sua passione per i ritratti è importante. Riesce a comprare dei disegni di Vasari e si scandalizza perché i suoi coetanei avevano smembrato questa raccolta. Il lavoro che fa sulla sua raccolta di dipinti e di disegni è di cominciare a costruire delle cronologie geografiche. L’idea delle scuole pittoriche che si era composta era generica. Non era stato fatto un lavoro di classificazione di tutte le opere che circolano nelle varie zone. Ora si vuole popolare di opere questa divisione in scuole. La sua raccolta è una delle prime dove gli artisti non sono più divisi per temi o generi pittorici, neanche per confronti, ma vanno per scuole e cronologie. È un lavoro immenso che fa nei suoi album di disegni, ma anche di dipinti. Questa idea di lavorare materialmente sulle opere si porterà dietro un modo di scrivere della storia dell’arte. Nel 1719 scrive Two discourses, scritto in inglese e tradotto in francese. Un saggio sull’arte della critica e Un argomento sulla scienza del conoscitore (connoisseur). È un piccolo e tascabile trattatino sulla scienza del conoscitore, scritto in un inglese accessibile a tutti. Qui Richardson azzera il dibattito tra artisti e eruditi sulla possibilità di giudizio, rivolgendosi direttamente a un pubblico di non esperti. Ambiva a trasferire la questione sul piano della pura razionalità, per promuovere la connoisseurship come disciplina scientifica. Il testo è tutta una dimostrazione polemica sul fatto che per essere conoscitori basta saper ragionare. La capacità di essere conoscitore è accessibile a tutti. Bisogna avere delle qualità ma non è più prerogativa di artisti o intelletti sublimi. Parte a elencare 4 caratteristiche che deve avere un conoscitore (scritto in francese). Ciò che è necessario è essere un buon logico, le stesse facoltà sono usate nello stesso modo di un filosofo ma si applicano all’arte invece che alla filosofia. Quindi chiunque sapesse esercitare la razionalità poteva acquisire capacità di giudizio. Nel momento in cui l’incisione diventava strumento indispensabile per la conoscenza sull’arte. Cresceva parallelamente il dibattito sulla qualità e attendibilità delle riproduzioni e sul rapporto tra originale e incisione. Un buon conoscitore presterà attenzione a non confondere le cose nelle quali ci sia una reale differenza. Deve cogliere differenze, somiglianze e affinità. Un buon conoscitore presterà attenzione a non fare differenze dove non ci sono; quindi, deve cogliere la differenza tra copia e originale. È un inglese poco raffinato e accessibile per il 700, perché per lui è un testo di uso comune. L’ultima caratteristica riguarda il ragionamento che si basa sulle prove e procede per deduzioni progressive. Dà poi una serie di categorie di giudizio per giudicare un artista e per ciascuna di quelle categorie decide se l’artista è advantage, pleasure, sublime. Ciò che è difficile è riconoscere le diverse mani degli artisti, dice. Invita a osservare le opere dicendo che non esistono due artisti al mondo che dipingono allo stesso modo, bisogna individuare delle caratteristiche e dettagli anatomici che ci aiutano a ricondurre opere già viste a quella. Richardson recuperava la sua esperienza come ritrattista e assimilava il procedimento del conoscitore sui dipinti a quello mentale che porta a riconoscere il volto di una persona già nota. Se abbiamo già visto tanti dipinti di un artista saremo in grado di riconoscerlo. È interessante la trasposizione nel modo di riconoscere gli artisti sul piano razionale. In questo senso dice che bisogna costruire la storia dell’arte partendo da quell’approccio. Attribuendo le opere, facendo questo lavoro di riconoscimento e creando famiglie di appartenenza di opere, come faceva Linneo per il mondo naturale, per ogni artista chiarisco come realizza panneggi, mani ecc e mi formo una distinta idea. Anche nell’appartenenza delle scuole pittoriche avveniva una suddivisione ulteriore. Osservare direttamente e paragonare è il procedimento. Richardson si mostra interessato soprattutto alla diffusione del mestiere. Il secondo discorso, dedicato alla scienza del conoscitore, intendeva provare come ogni inglese colto e illuminato potesse acquisire queste capacità, per giocarle sul piano personale e sociale. Determinante era la conoscenza della storia e in particolare della storia dell’arte e della pittura. Invitando a costruire una storia che tracciasse gli avanzamenti dell’arte attraverso le epoche, ne sintetizzava i passaggi fondamentali, dall’esordio in Persia e in Egitto, fino ai principali artisti italiani, con qualche considerazione sulle peculiarità delle scuole pittoriche. Un’altra opera di Richardson è Descrizione di statue, bassorilievi, disegni e dipinti in Italia, pubblicato dopo un viaggio in Italia assieme al figlio. È una specie di descrizione che vuole essere come una specie di guida. Quando lui descrive dei monumenti o opere, soffermandosi su ciò che gli piace, sta attento alla collocazione, alla provenienza, al supporto e allo stato di conservazione. L’attenzione si va spostando sul dato materiale. Dopo troviamo l’inquadramento dell’opera nell’attività dell’artista, la composizione e poi giudizi personali e impressioni. C’è sempre però un’attenzione alla parte materica dell’opera e un lavoro di confronto con le incisioni note, che circolavano tantissimo. Pierre Crozat & Pierre Jean Mariette (1694-1774) A proposito di raccolte di incisioni si sviluppa nel ‘700 un modello storiografico che in Italia si chiama raccolta, in francese recueil e ha come modello riconosciuto la Recueil Crozat, un volumone che viene promosso da Pierre Crozat e Pierre Jean Mariette. Mariette ebbe un ruolo cruciale nella promozione dei recueils, che impose come strumento didattico fondamentale per l’esercizio dell’occhio. Crozat è un banchiere parigino, punto di riferimento a Parigi, presso cui passano tutti gli artisti dell’epoca. La sua casa è un salotto culturale e artistico. È il proprietario di una delle più copiose collezioni di disegni dell’epoca. Immaginò una pubblicazione che unisse incisioni della migliore qualità con la riflessione storiografica sugli artisti e la descrizione delle opere. Mariette fa parte di un’antica famiglia di incisori, diventa un conoscitore di incisioni, stampe e disegni, collezionista e scrittore d’arte. Mariette è una figura centrale del periodo, per la dinamica tra attività materiale e produzione intellettuale, che rappresentò una delle cifre distintive dei conoscitori. Si fa una cultura attraverso un viaggio in Italia e diventa importantissimo nella storia dell’arte francese del tempo. Fondamentale fu l’esperienza del 1717 nel riordino delle raccolte di incisioni e disegni del principe Eugenio a Vienna, dove dispose almeno parzialmente le stampe per scuole e cronologie. Diventa conoscitore e storiografo. Nei suoi appunti aveva iniziato un immenso abecedario di pittori, anche minori. Seguivano un ordine alfabetico. La stampa del recueil Crozat testimonia precocemente il suo metodo, mettendo a punto una nuova tipologia di catalogo d’arte. Non più solo raccolta di incisioni per illustrare la munificenza di un collezionista o la superiorità di una scuola pittorica, ma strumento critico, composto di testo e immagini, indispensabile nella costruzione storiografica. Non è più solo una raccolta di incisioni o solo testo, è l’unione stretta delle due cose. Nella prefàzione dicono esplicitamente che ciò che vogliono fare è raccontare la storia pittorica romana, attraverso testo e immagine. Dicono che le opere sono fondamentali per la ricostruzione storica. Crozat aveva speso tantissimi soldi per inviare dei disegnatori a riprodurre le opere. Il dibattito sulle stampe d’àpres* era vivacissimo. Si rifletteva su quali incisori siano in grado di partire dal XVI secolo si perdettero le tracce del buon gusto e si imposero i manieristi. La situazione peggiorò con l’avvento di forestieri, cui Zanetti tende ad attribuire tutte le colpe del degrado artistico Zanetti mostra un impegno anche nella tutela. Nel 1773 viene nominato ispettore alle Pubbliche Pitture, una sorta di sovrintendente delle pitture nei palazzi veneziani, chiese e scuole. Elabora un sistema di tutela, che detta al Consiglio dei Dieci affinché diventi legge, che imponeva all’ispettore di vigilare sui quadri pubblici per evitare che venissero modificati o restaurati senza permesso, ma soprattutto che non venissero venduti. L’ispettore era responsabile delle pitture della città e ogni due mesi doveva fare un sopralluogo per verificare le condizioni delle pitture. Chi si occupa di storia dell’arte comincia ad assumere ruoli di tutela del patrimonio. E’ una delle figure emblematiche di come nel 700 inizia ad articolarsi il mestiere di storiografo e ci si avvicina al alla tutela del patrimonio. Conte di Caylus (1692-1765) Nato a Parigi da una famiglia nobile francese, viene avviato alla carriera militare e partecipa alle guerre di successione in Spagna. Presto lascia la carriera militare per dedicarsi alla storia delle arti. È stato incisore, collezionista e studioso, rinomato tra i suoi contemporanei, a lungo trascurato dalla storiografia e oggi celebrato come uno dei padri fondatori della moderna archeologia. Parte per un Grand Tour nel 1714, che lo porta in Italia. Pubblica Voyage d’Italia. Vede poi anche la Grecia, la Turchia e l’Asia Minore. E’ un’esperienza che sarà determinante anche per il modo di guardare le antichità con uno sguardo ampio. Questa è la differenza tra lui e Winckelmann. Quando torna a Parigi inizia un’importante collezione d’antichità, in cui raccoglie oggetti di varia natura. Si occupa di monete, la numismatica era molto in voga. Diventa membro delle Accademie maggiori, come l’Accademie Royale. Frequenta Watteau, nel cui studio compie l’apprendistato come incisore e si interessa di incisioni. Entrò in stretto contatto con l’entrourage dei conoscitori europei e partecipò con 30 tavole alla Recueil Crozat. L’opera che lo distingue da Winckelmann è Recueil d’antiquitées égyptiennes, Etrusques, grecques et romaines del 1752-67. Quest’opera segue tutta una serie di pubblicazioni in collaborazione con Mariette, come Recueil dea peintures antiques del 1757, impresa editoriale che riproduceva con incisioni a colori, in sole trenta copie, i disegni di Pietro Santi Bartoli tratti dagli affreschi romani. La recueil d’antiquitées è composta da 7 volumi di grande formato ed è dedicata ai colleghi dell’Académie des Inscriptions et belles lettres. Nel testo si criticavano gli antiquari e alcuni grandi studiosi del passato, come Bellori, per aver descritto le antichità in modo poco aderente alla realtà. L’idea di un repertorio delle cose migliori note fino a quel momento in un ordine è frutto del lavoro dei conoscitori. Caylus prende tutte le antichità a lui note e le divide in egizi, etruschi, greci e romani, quindi una divisione geografico-evolutiva. C’è un’introduzione dell’arte di quei popoli e poi scheda per scheda la catalogazione degli oggetti. La cosa importante che Caylus rivendica è il tema dell’osservazione diretta dell’oggetto. Nella premessa del primo volume dice che ha fatto disegnare i reperti provenienti dalla propria collezione personale, raccolti in anni di meticolose ricerche, con la più grande esattezza e lo stesso vale per le descrizioni. Una delle caratteristiche pregnanti della sua opera è di non essersi accontentato di incisioni preesistenti, ma di aver avviato una campagna di copia diretta degli oggetti. Vuole trasferire ambiziosamente l’oggettività scientifica del medico al lavoro dell’antiquario. Bisogna ispezionare i monumenti e raffrontarli accuratamente per scoprirne l’uso. Nell’Advertissement, fa un paragone tra il metodo degli scienziati e quello dei conoscitori per introdurre un procedimento scientifico, sottolineando l’importanza della comparazione. L’osservazione diretta delle opere fu in effetti il fondamento del suo operare, che privilegiava il dato materiale anche rispetto allo studio dei testi. Se gli antiquari avevano guardato alle opere esclusivamente come prove per la storia come oggetti isolati su cui esercitare le proprie congetture, Caylus trasferiva nell’analisi dell’antichità i procedimenti messi a punto dai conoscitori di dipinti. I monumenti non erano più semplici prove della storia, come era stato per Maffei e Montfaucon, ma diventavano prove del gusto di un’epoca. La tecnica e lo stile costituivano gli elementi fondanti dell’analisi e consentivano di riflettere sulla società antica nel suo insieme. Dal punto di vista della narrazione storica, lo studioso concordava con quanti vedevano un percorso evolutivo dall’origine presso gli egizi fino all’apogeo dell’arte greca, per poi leggere un inevitabile declino. All’interno di questo schema sottolineava però le peculiarità di ciascun popolo e i legami trasversali tra le diverse culture. A partire dal terzo tomo tratta degli antichi popoli gallici, riconoscimento di un’antichità autoctona francese. Per Caylus i greci rappresentano la sommità dello sviluppo dell’arte, però la cosa che lo distingue drasticamente da Winckelamnn è la tipologia di oggetti che attirano la sua attenzione, il modo in cui li presenta. Gli oggetti sono rappresentati sotto diversi punti di vista. Non si tratta solo di statue, ma anche oggetti più o meno preziosi di uso quotidiano. L’unica di misura appare spesso sulla tavola, per dare una scala metrica e restituire un diretto aggancio con la realtà. Intere tavole rappresentano frammenti e oggetti poco preziosi, talvolta falsi, oggetti di vita quotidiana o frammentari. Caylus accuserà Winckelmann di non aver tenuto in conto questi oggetti. La critica verso gli antiquari riguardava anche la qualità delle riproduzioni: Caylus rivendicava di aver riprodotto solo opere che aveva visto personalmente e fatto disegnare dal vero, spesso mostrandole da più punti di vista. Accusa Winckelmann di non essere un vero antiquario per non aver visto direttamente ciò di cui si parla. Criticava chi lavorava con conoscenze di seconda mano, mentre lui aveva visto personalmente ogni oggetto rappresentato. Per ogni popolo e epoca, brevemente introdotti, vi sono una serie di oggetti numerati. Nel repertorio veniva registrata la provenienza, i precedenti proprietari, luogo e anno del ritrovamento, stile, dimensioni, materiali e uso dell’oggetto. Si abbina al metodo usato da Mariette*, nella sistematizzazione del noto dentro uno schema cronologico. Winckelmann viceversa lo accuserà di essersi perso in dettagli del tutto insignificanti e di non essere sufficientemente colto, perché pare che non conoscesse il greco e il latino. Un altro tema importante per Caylus è la lezione di metodo dove per assimilarsi al metodo degli scienziati, Caylus rivendica anche il valore ipotetico. Anche l’ammissione di non sapere qualcosa è ammettere che c’è una parte di conoscenza che è difficile di acquisire. Non ha la pretesa di costruire un sistema chiuso, ma di proporre delle ipotesi di carattere sperimentale. La natura provvisoria delle conclusioni, spesso introdotte con “mi sembra”, ”mi pare” sottolineava questo aspetto. Questo carattere sperimentale del suo modo di ragionare lo porterà a confrontarsi con chimici e medici, per ricercare le tecniche esecutive antiche e i materiali costitutivi. Molto interessato a vedere se sugli oggetti si potevano trovare i segni delle tecniche raccontate da Plinio. Per lo studio degli oggetti in vetro chiede a un chimico se può studiarne la composizione. Johann Joachim Winckelmann (1717-1807) L’immagine che ci viene data da testi e manuali è di Winckelmann come l’inventore della storia dell’arte e il fondatore dell’archeologia. Si nota in lui un cambiamento di paradigma nel modo di raccontare. Per certi versi la parola inventore è stridente. Nel 1700 cambia il modo di raccontare la storia dell’arte, per un’influenza del racconto della storia dell’arte antica. Winckelmann è stato ritratto da Mengs quando era ancora in Germania. Winckelmann nasce nel 1717 a Stendhal in Sassonia, figlio di un calzolaio. Viene avviato allo studio della teologia, la matematica e la medicina nelle università di Halle e Jena. Negli anni 40\50 va a Nothnitz presso Dresda con un incarico di bibliotecario del conte Heinrich von Bunau e con l’impegno di raccogliere una documentazione per scrivere una storia dell’Impero Romano, impegno che lo terrà molto attivo. Questa occasione gli consentì di studiare diverse lingue e aggiornarsi sulle più importanti pubblicazioni che circolavano in quel momento. In questi anni lesse e annotò un’infinità di testi, patrimonio di conoscenze cui attinse per tutta la vita. Contemporaneamente la frequentazione di Dresda lo mette in contatto con la Galleria. L’osservazione di molti dei dipinti di Dresda sarà uno degli elementi che gli porterà conoscenza e interesse per l’evoluzione dello stile. E’ molto interessato alla scuola italiana e presta grande attenzioni a tutte le fonti che potevano aiutarlo a ricostruire i percorsi stilistici delle diverse scuole pittoriche. Ammirava gli artisti della scuola romana, in particolare la pittura classicista del 600’, spesso messa a paragone con gli antichi. Winckelmann in questo periodo ha una conoscenza dell’antichità tutta libresca. Conosceva le lingue antiche, il francese e il tedesco. Era estremamente colto, ma la sua conoscenza dell’antico, come ci testimonia il ritratto di Mengs, si basava sui testi. In questo contesto formativo scrive e pubblica nel 1755 a Dresda i Pensieri sull’imitazione dell’arte greca in pittura e scultura, opera di estetica principale, pubblicata in anonimo e in sole 50 copie. Con un linguaggio aforistico e frammentato sanciva alcuni dei concetti portanti del suo pensiero. Stabilisce l’unicità e la superiorità dell’arte greca, in base a delle caratteristiche ambientali e geografiche, riprendendo le teorie sul clima di Dubos e Montesquieu. Il fatto che la Grecia fosse una democrazia e il clima fosse mite, vi fosse qualità fisica dovuta all’esercizio ginnico e libertà di costumi, si rifletteva in un giudizio positivo che si esemplificava nello sviluppo dell’arte e faceva della Grecia un modello per il gusto contemporaneo. “Nobile semplicità e quieta grandezza” è il riassunto della sua estetica. Nel 1755, dopo la conversione, su invito del cardinale Archinto, nunzio apostolico a Dresda, parte per Roma, grazie a una pensione concessagli da Augusto IIII, re di Polonia, e prima si converte al cattolicesimo. Roma in quel momento era la tappa privilegiata del Grand Tour, che dopo gli scavi di Ercolano e Pompei e i monumenti della Magna Grecia, si era esteso fino al meridione. Roma era la meta più ambita per ogni uomo colto. Arriva a Roma nel novembre del 55’ e diventa bibliotecario del cardinale Alessandro Albani, che era in quel momento uno dei maggiori collezionisti di sculture antiche. Villa Albani, progettata da Marchionni*, era ancora in costruzione. Oltre ai famosi scavi di Ercolano e Pompei degli anni 30-40, subito dopo anche Roma diventa teatro di grandissimi scavi, soprattutto nelle zone suburbane. Seguendo le fonti antiche, esistevano delle imprese di scavo che vi si recavano e cercavano reperti antichi. Erano scavi finalizzati alla scoperta e lo studio dell’antico. A Roma Winckelmann è incaricato di sistemare la sua collezione d’antichità in Villa Albani, del cui restauro si occupava Bartolomeo Cavaceppi, A Roma l’interesse per la pittura rimane costante poiché continuò a studiare le collezioni di disegni del cardinale Albani e di Cavaceppi, omettere Winckelmann, staccandosi del metodo di repertoriare tutto il noto, come Montfaucon e Caylus, perché il suo obbiettivo è la coerenza narrativa e la celebrazione dell’arte greca, anche dal punto di vista della civiltà. Passando alla trattazione vera e propria, si sofferma sull’influsso delle condizioni atmosferiche sulla struttura fisica dei popoli e sul loro modo di pensare, nella convinzione che il clima formi “le usanze dei popoli, la loro figura e il loro colore” e quindi anche sui canoni artistici. La teoria dei climi, già presente nei Pensieri, tornava su un arco cronologico e geografico più esteso: per ogni popolo e periodo storico la produzione artistica era letta come frutto dell’ambiente fisico e della struttura politica e sociale. Alla Grecia era assegnato un ruolo d’eccezione, culminante nell’epoca di Fidia, sia il cima mite, che per l’educazione e la forma di governo, che trovarono nella Grecia di Pericle una sintesi perfetta. La struttura in parte si ripete tra la prima parte e la seconda parte. Segue una storia dell’arte che pur prendendo in considerazione epoche e stili diversi, assume come modello l’Atene del V secolo ac. La Grecia di Winckelmann è una Grecia mitizzata e lontana da quella reale, ed in questo contesto l’arte raggiunge la perfezione assoluta. Nel capitolo Sull’essenza dell’arte, nonostante ammetta una certa relatività del bello, riconosce la regolarità, l’armonia, l’uniformità e la semplicità come caratteri peculiari della bellezza. Distingue fra piacevole e bello, fra bellezza individuale e universale, dicendo che scopo dell’arte è attingere al bello universale, perché il suo fine è quello di elevare la mente e di non compiacere i sensi. Nobile semplicità e quieta grandezza, è la definizione dell’ideale winckelmanniano di bellezza. Questo racconto prescinde un po’ dalla storia reale. Di arte fenicia o persiana Winckelmann forse non aveva visto nulla. In realtà non aveva esperienza neppure dell’arte greca, che conosceva solo tramite copie romane. E’ un racconto forte dal punto di vista ideologico, suggestivo e convincente. La storia dell’arte viene raccontata come un processo unitario, in evoluzione, mentre le differenze territoriali e la geografia culturale diventano uno degli elementi chiave nella lettura stilistica e nella scansione del racconto. Winckelmann non è il primo a scrivere una storia dell’arte come racconto storiografico continuo, esiste un testo di Pierre Monier, Histoire des arts qui ont rapport au dessin che Winckelmann stesso cita. Fu Winckelmann stesso a proporre la propria opera storiografica come innovativa e così venne recepita dai suoi contemporanei. Vuole distaccarsi dal metodo degli antiquari: la sua storia sintetizzava le conoscenze acquisite fino a quel momento, proponendole in un discorso unitario di assoluta coerenza. L’arte greca viene distinta in 4 fasi differenti dall’origine alla decadenza, ma l’opera estende la sua considerazione a tutto il mondo antico e non solo. Viene affrontato anche il problema dell’arte moderna, se pur in modo sintetico e compendiario. La distinzione in 4 fasi si riflette anche nell’arte italiana del ‘500 e ‘600. Non mancano aperture sulla contemporaneità, d’altronde il testo stesso è dedicato a Mengs, pittore contemporaneo, cui si intende affidare l’arduo compito di una rifondazione della pittura. Le sorti dell’arte contemporanea sono care a Winckelmann e si comprende che l’indagine sul passato è finalizzata alla trasformazione positiva dell’epoca contemporanea. Winckelmann lascia trapelare la sua avversione dei confronti dell’arte del suo tempo, bisognosa di un riscatto che può venire solo dal ritorno alle forme della classicità. Antidoto al degrado attuale è l’imitazione intesa come interpretazione creativa nei riguardi dell’antico, contrapposta alla mera copia passiva. Winckelmann e Caylus non si sono mai incontrati, non si scrivevano direttamente, ma avevano diversi corrispondenti, il loro rapporto si articolò a distanza. ** (confronto fra i due). I due non si conoscevano personalmente, Winckelmann era più giovane di 25 anni, ma i due si lessero reciprocamente. Nei manoscritti di Winckelmann si trovano una serie di annotazioni tratte dal Recueil dove gli riconosceva “la gloria d’aver aperto per primo il cammino che, nell’arte, rivela la sostanza dello stile degli antichi popoli”. Nelle opere a stampa, invece lo studioso tedesco criticò molto spesso le ricerche di Caylus, arrivando a rinfacciargli di non essere mai stato a Roma. Lo stile era per entrambi lo strumento privilegiato di analisi dell’opera, mentre la distanza maggiore tra i due si può misurare oggi sul piano metodologico e sull’obbiettivo finale del lavoro: Caylus fu interessato ad analizzare nel dettaglio una grande quantità di opere, fondando il proprio metodo sulla prova, data dall’osservazione diretta, arrivando a comporre sette tomi di grande formato. In realtà anche Winckelmann nella sua Storia volle soffermarsi solo ed esclusivamente sulle opere che ebbe modo di vedere di persona e ripetutamente. Il tema dei falsi era ancora molto fluttuante, le cose che si conoscevano dell’antichità erano infinitamente minori rispetto ad oggi. Arriva a Roma quando ha già pubblicato la Geschichte. Se nella storia dell’arte Winckelmann aveva ripetutamente criticato gli antiquari, la sua unica opera scritta in italiano e pubblicata a Roma guardò invece proprio a quel mondo. Nel 1767 pubblica Monumenti antichi inediti, dedicato al cardinale Albani, dove riprende le sue idee sulla superiorità dell’arte greca, ma la fonda su oggetti ritrovati, copie romani di oggetti greci, che lui fa incidere personalmente. È un libro illustrato, costituito da due preziosi volumi in-folio dove il testo illustra, concentrandosi su questioni iconografiche, e descrive le opere. Difendendo le novità del proprio metodo, Winckelmann criticava Boiardo, Bellori e Montfaucon, mentre lui si proponeva di trattare opere inedite o delle quali non era mai stato indagato il significato. In questo libro in italiano ci sono numerose tavole illustrate. Lo studioso doveva essere ben consapevole di inoltrarsi in un terreno insidioso, dato lo spirito polemico di pubblicazione, riassunto nel secondo volume in cui compariva un indice degli autori citati e un indice degli autori da correggere, di cui definisce gli errori da correggere. Nel 1768 decidendo di fare un viaggio in Germania insieme al suo restauratore di fiducia Bartolomeo Cavaceppi. Abbiamo la descrizione del viaggio fatta e pubblicata da Cavaceppi, grandissimo restaurato e uno dei pochissimi dell’epoca che scrive un trattato teorico sull’arte del restauro. Cavaceppi faceva del suo rapporto con Winckelmann un grande orgoglio. Cavaceppi pubblica nei suoi trattati la descrizione di questo viaggio, ultima testimonianza di Winckelmann in vita. Attraversate le Alpi decide di tornare in dietro e Cavaceppi continua il suo tour per la Germania. Winckelmann si ferma a Trieste nel viaggio di ritorno e lì viene assassinato. Sembra che Winckelmann avesse invitato in camera una persona interessata alle sue monete. Questa morte così misteriosa ha accresciuto il suo mito. Cavaceppi poteva rivendicare di essere il restaurato di un grandissimo studioso, collegato a tutti gli eruditi del tempo. La sua opera viene percepita come importantissima. Winckelmann riporta come frequentare un restauratore gli aveva permesso di cogliere aspetti particolari delle opere. Winckelmann era consapevole che il tema del restauro era pericoloso e che poteva portare gli eruditi a scrivere il falso. In Germania inizialmente il suo programma culturale non viene recepito affatto. Dei 1200 esemplari del 1764 moltissimi rimangono invenduti nel 1824. Abbiamo un censimento del magazzino dove erano conservati e nel 1824 rimanevo molte copie. Il suo modello estetico non viene recepito dai tedeschi. Progressivamente però la riscoperta di Winckelmann fu il terreno su cui rivendicare alla cultura tedesca la paternità della nascita di una disciplina. Già nel 76’ viene promosso un’edizione francese, che Winckelmann non apprezza, perché insoddisfatto dalla trasposizione dei suoi concetti nella lingua più diffusa del momento, ma che circolerà molto. In Francia Winckelmann viene recepito rapidamente su due fronti→ Il fronte degli antiquari francesi che faceva capo a Caylus criticava questo testo. Ciò che viene accolto è il gusto alla greca, ossia l’idea della storia dell’arte degli antichi come linea estetica che vedeva nell’arte greca il momento più alto dell’arte antica. Anche nello stile impero dell’arredamento si era acquisito questo gusto. Il giro dei phylosophes apprezza questo programma. Anche i rivoluzionari prendono Winckelmann come uno dei modelli da prendere, che apprezzano l’assimilazione tra la Grecia di Pericle e la grandezza dell’arte, che si rifletteva nella Francia rivoluzionaria, che voleva riportare a risorgere della arti. In Italia esce un’edizione del 79’, di Carlo Amoretti, dove si sottolinea il valore di Winckelmann come compendio. A partire dal 1783\84 ne verrà fatta un’edizione grande, su foglio, con tavole illustrate e note di arricchimento sulle singole opere con correzioni e osservazioni erudite, che segnarono la ricezione dell’opera di Winckelmann nell’ambiente antiquario romano. Cambia totalmente l’aspetto e lo scopo del volume. Questa edizione viene curata da Carlo Fea che aggiorna le opere, pubblicando tre volumi per intenditori. Esisteva un tipo di letteratura artistica molto diverso. Si pubblicano tutta una serie di testi sugli scavi di Ercolano e Pompei, prima senza incisione poi con. Nel dibattito entrò anche Winckelmann, che visitò il museo di Portici più volte. Inviò alcune relazioni all’amico Bianconi a Dresda, fatte pubblicare sull’Antologia romana nel 1779, mentre dedicò all’argomento due saggi in forma di lettera. Le severe critiche mosse alla condotta degli scavi, che gli procurarono l’astio dell’ambiente partenopeo, non gli impedirono di affrontare problemi topografici, esami filologici dei papiri e analisi stilistiche delle opere. Nel contesto francese architetti e studiosi pubblicavano testi su sopralluoghi fatti anche in luoghi lontani. James Stuart e Nicholas Revett, un architetto e un pittore studioso, dopo una spedizione ad Atene, pubblicano diversi volumi, come il volume 2 sull’Acropoli di The Antiquities of Athens. Questo volume uscito a Londra tra il 1762 e il 1816 fu un vero successo editoriale. Questa spedizione ad Atene del 1751, finanziata dalla Società dei Dilettanti, produsse un’edizione di grande formato con le dettagliate misurazioni effettuate direttamente sui monumenti. Queste opere erano molto note dalle fonti letterarie, ma conosciute concretamente a pochi e solo attraverso i rari disegni dei viaggiatori seicenteschi. Questo porta in Europa le prime immagini accessibili su quel monumento. Le incisioni mostrano come l’Acropoli fosse una città medievale, poi rasa al suolo. L’approccio all’antico è scientifico, gli elementi decorativi sono rappresentati nel modo più realistico possibile. C’è un’attenzione reale alle metope, i rilievi e i monumenti dell’Acropoli, con la capacità di riprodurle fedelmente nello stato frammentario, fornendo ad artisti ed eruditi un primo repertorio dettagliato di quel patrimonio. Fino al 1810, quando Elgin le espone a Londra, le opere dell’antichità classica non erano state viste direttamente. Sono tra le pubblicazioni che transitano una fruizione diretta delle antichità in Europa. Sono incisioni da traduzione. Mentre Winckelmann elaborava il suo compendio tutto storiografico, altri studioso avevano tutto un altro approccio. Le rovine del palazzo di Diocleziano di Adams vengono rappresentate in una serie di incisioni. Il lavoro che i conoscitori, poi gli storici dell’arte fanno nei musei è determinante. La catalogazione dei musei rappresenta un aspetto importante dell’elaborazione storiografica dell’arte. Nel 1700 sicuramente è stato così. illustrare il testo della Collezione Bevilacqua. Queste incisioni erano l’unico mezzo per far conoscere al di fuori di chi frequentava quei luoghi tali oggetti. Di fatto, però, prevale decisamente la parola scritta rispetto alle immagini. Nel frattempo Maffei si dedica alla costruzione di un museo maffeiano, costruito tra gli anni 30- 40. Il museo accoglie le iscrizioni della città, che trovano posto nel teatro Filarmonico di Verona. L’ambiente che accoglie queste iscrizioni antiche è all’antica e divenne laboratorio di un nuovo metodo espositivo, in cui il razionale ordinamento dei reperti era funzionale alla loro fruizione da parte di un pubblico consapevole. Nel 1700 il museo si assimila ad un tempio. L’idea di utilizzare il pronao di un tempio per richiamare il contenuto del museo perdura nell’800. Nel portichetto più basso lineare vi sono le iscrizioni esposte. L’altra cosa importante è l’ordinamento, non più basato su un criterio espositivo di tipo estetico, ma su criteri topografici e cronologici. Le epigrafi vengono ordinate per geografie e cronologie: etruschi, greci, romani, cristiane, medievali, esotiche e poi le spurie, ossia le incerte. E’ importante che sulle epigrafi si capiva di che epoca erano. All’epoca era visto come un museo molto innovativo, visitato durante i Grand Tour. Era una novità del momento, che metteva in ordine cronologico gli oggetti fisici. Il catalogo, chiamato Museum Veronense del 1749, viene pubblicato postumo, in latino. C’è anche un pianta del museo e una descrizione delle antichità con riferimenti diretti alle tavole illustrate. Le tavole sono riprodotte nello stato in cui erano. Dal punto di vista storiografico non ci sono novità rilevanti rispetto all’antico. Non c’è attenzione allo stile delle parti figurative. L’esigenza di sistematicità e razionale classificazione investì precocemente l’ambito delle arti figurative, sul versante sia teorico che operativo, contribuendo a innovare profondamente, come si è accennato, la prassi museografica. Musei e collezioni, per loro stessa vocazione punti di convergenza tra opere e conoscitori, diventarono i luoghi privilegiati per mettere in pratica e in discussione gli assestamenti storiografici su geografie e cronologie. Furono elaborati nuovi criteri per studiare e catalogare le opere dell’antichità, con attenzione alla dimensione materiale, tecnica, e conservativa. Le opere antiche non vengono considerate solo in relazione alle testimonianze storiche o letterarie di cui costituivano in qualche modo un riflesso, ma come manufatti da studiare nelle loro intrinseche caratteristiche. Allo stesso tempo guardare le opere ordinate sulle pareti consentì ulteriori valutazioni critiche, espresse nei cataloghi a stampa. Il formato e il linguaggio dei cataloghi divenne più accessibile parallelamente all’intensificarsi della discussione sulla funzione sociale e l’apertura al pubblico delle collezioni. LA CREAZIONE dei PRIMI MUSEI Da circa il 1730 in avanti, a Roma si svilupparono i grandi cantieri dei Musei Capitolini e del Pio-Clementino, con i quali i papi vollero contrastare l’onda di esportazioni che interessò Roma all’epoca del Grand Tour. I MUSEI CAPITOLINI Il Museo Capitolino è di centrale importanza e ebbe immediata fortuna critica. Come definizione di spazio museale la fondazione risale al 1733, quando Clemente XII compra la collezione Albani, che stava per partire per l’Inghilterra, investendo tanti soldi, per evitare che le opere si disperdessero. Allestisce un luogo di allestimento, il palazzo sul Campidoglio, con lo scopo di aprirle al pubblico. Nomina come presidente Alessandro Gregorio Capponi, nobile appassionato d’antichità. La distribuzione delle sculture non va in ordine cronologico come le epigrafi, perché mancava la letteratura per farlo. Queste sculture erano appena emerse dagli scavi o erano frutto di un collezionismo più antico. Vengono distribuite non come pezzi di arredo, ma per ordinamento tematico, quindi per soggetto. Uno dei saloni è quello dei Centauri Furietti, appena emersi dagli scavi e comprati da Cavaceppi*. Le sculture sono posizionate lungo le pareti o al centro della sala. Vengono usati come sostegni dei pezzi antichi, pezzi di fontane, sarcofagi ecc. C’è una mediazione tra il tema di arredo e il tema di studio. A fare la differenza sono la sala dei Filosofi e la sala degli Imperatori. Vengono considerate la cosa più interessante che si potesse vedere per i visitatori. In queste due sale la letteratura relativa questi personaggi, posti in ordine cronologico, trovava riscontro nei volti. C’era la possibilità di seguire l’evoluzione dello stile, in particolare nella sala degli imperatori, che posti in ordine cronologico ci mostrano le differenze stilistiche. Gli osservatori dell’epoca cominciano a cogliere quest’evoluzione. Questo tipo di sale erano innovative. Il catalogo viene affidato a Giovanni Gaetano Bottari, linguista fiorentino, conoscitore della lingua toscana, accademico della Crusca, che si è occupato anche di pittura. Giovanni Gaetano Bottari ( Trasferitosi a Roma nel 1730 Bottari come segretario del cardinale Corsini, coltiva interessi critico-estetici e antiquari. Un marcato interesse per la veridicità delle fonti lo rese editore di opere di documentazione per la storia dell’arte, dai repertori di antichità cristiane al catalogo del Museo Capitolino. Lo scrive in latino e lo pubblica per la prima volta nel 1741 in 4 volumi dal grande formato in-folio. È un catalogo molto erudito, illustrato dai migliori incisori degli anni 30-40. Non solo romani ma anche da Venezia. C’è la necessità di avere illustrazioni di altissima qualità, diverse l’una dall’altra perché realizzate da diversi incisori, fra cui Giovan Domenico Campiglia. In alcuni casi c’è una doppia visione davanti e dietro. Il testo segue quindi il modello degli studi antiquari, per la suddivisione tematica dei volumi, ma soprattutto per il contenuto delle schede analitiche. Da un lato c’è un’attenzione fisica agli oggetti nelle incisioni, dall’altro c’è l’attenzione al soggetto e la sua storia. Ci sono anche confronti ad altre opere ma sempre in relazione al soggetto. Non c’è attenzione allo stile né al pezzo inteso come materico e frutto di un lavoro tecnico. C’è uno studio storico-letterario. Bottari trattava le sculture come fonti per la storia, senza particolare attenzione né alla consistenza materiale né alle differenze di stile, così come le opere erano occasione per dotte disquisizioni si personaggi e le citazioni letterarie. Il cambiamento in atto si può registrare in modo emblematico con la pubblicazione nel 1782 dell’ultimo volume del Capitolino, in cui i due Visconti optarono ancora per un ordine tradizionale secondo le classi dell’antiquaria, ma cambiarono radicalmente il modo di descrivere le opere. Visconti intendeva differenziarsi dagli antiquari precedenti, proponendo un sapere capace di selezionare, comprensibile al pubblico e strettamente legato al giudizio di qualità sulle singole opere rispetto alla cronologia e allo stile. Nelle ricche schede sulla cultura fornisce informazioni sulla materia, luogo di ritrovamento, tecniche, qualità e tipologia del marmo, restauri, ipotesi di datazione. In questo modo ogni opera che usciva dagli scavi veniva allestita nel museo e diventava occasione di verifica del sistema di Winckelmann. 01\04\22 Il Museo Pio Clementino in Vaticano viene allestito contemporaneamente alla prima edizione della Geschichte di Winckelmann, che era già noto. Si tratta di uno dei primi musei allestiti dai papi a Roma, all’interno del Palazzo del Vaticano. Il Capitolino era stato costruito simbolicamente in Piazza del Campidoglio, che simboleggiava la città di Roma. Il corpo di fabbrica attuale, costruito da Canova nel 1720* circa non c’era. Già Giulio II aveva utilizzato come si utilizzava nel Rinascimento, il grande cortile del Belvedere per collocare le sue sculture più pregiate. Il pontefice sceglie una zona in fondo al cortile, dove nel 500’ era stato costruito un piccolo cortiletto quadrato, con a fianco dei magazzini1edifici di risulta, e lì fa costruire il museo. Il primo papa che commissiona il museo è Clemente XIV. Il papa comincia a comprare tutta una serie di collezioni private, come quella Mattei, da famiglie in crisi, ma anche i frutti dell’intensissima attività di scavo archeologico. La campagna romana iniziava fuori dalle mura aureliani e qui gli imprenditori di scavi, con le fonti alla mano, portarono avanti questi scavi. La legge prevedeva che 1\3 dei ritrovanti andava a chi finanziava lo scavo, 1\3 al proprietario del terreno e 1\3 allo stato pontificio, che poteva scegliere per primo i pezzi. Ennio Quirino Visconti e suo padre Giovanni Battista Visconti si occupano dell’allestimento e costruiscono il museo attorno ai ritrovamenti e successivamente scrivono un catalogo sulle opere contenute. Dall’epoca di Clemente XIV lo spazio intorno al cortile viene rimodernato, mentre dal 1775 con Pio VI vengono costruite tre nuove sale monumentali. Inizialmente il museo si chiamava Museo Clementino, successivamente Pio decide di anteporre il suo nome. Clemente XIV mantiene l’ingresso dagli appartamenti pontifici, Alessandro Dori aggiunge un altro piccolo vestibolo, modifica il cortile e costruisce a grande galleria delle statue, abbattendo alcuni affreschi di Mantegna e diverse opere rinascimentali, per creare un’unica galleria che contiene le sale dei busti. A partire dal 1775 si modifica l’ingresso, come mostra la pianta del catalogo. Nel cortile ottagono, sotto i portici sono conservate le statue più famose, il Laocoonte, l’Apollo del Belvedere, una serie di sarcofagi e successivamente, con le requisizioni napoleoniche, vi vengono poste le opere di Canova. La galleria delle statue, con la sequenza di finestre e statue, segue un andamento che si adatta allo spazio, statue basse sotto le finestre e alte davanti ai pilastri. Tutte le sculture vengono restaurate nel laboratorio interno per essere esposte. Vennero chiamati stuccatori che decorarono la zona alta. In fondo vi sono le due Sale dei busti, decorate con stucchi di Gaspare Sibilla e la sua bottega. Una caratteristica dell’epoca è la ricerca della luminosità e del colore. I musei del 1700 non erano quei musei in rosso pompeiano tipici dell’800, ma tendevano a colori chiari che si adattavano al marmo. Quando sale al soglio pontificio Pio VI, papa importantissimo per la città, colui che commissiona l’opera di bonifica, si costruiscono le tre nuove grandi sale. Si sposta l’ingresso, che non è più dagli appartamenti pontifici, ma dà sulla città. Viene costruita la grandissima Scala Simonetti, dall’architetto Michelangelo Simonetti, fatta con materiale di spoglio, colonne di granito emerse dagli scavi e che il papa si aggiudica. La costruzione di questo Galleria di Vienna La Galleria di Vienna, viene costruita da Maria Teresa D’Austria per essere aperta al pubblico. A scegliere cosa collocare nel nuovo museo pubblico sono Christian Von Mechel, che si occupa dell’ordinamento e Johann Rosa, pittore custode. Sono due personaggi opposti, Rosa era un pittore accademico, che aveva viaggiato a Roma, un classicista, che rappresentava le generazioni che si erano occupate delle collezioni principesche; Von Mechel rappresenta la nuova generazione di conoscitori d’arte, faceva parte di una famiglia di stampatori, studiò incisone e diventa esperto d’arte e dello studio della storia dell’arte sulle incisioni. Dal 1757 al 1760 aveva fatto il suo apprendistato nell’atelier parigino di Wille, dove va aveva conosciuto Mariette e a Roma aveva incontrato Winckelmann. Fra il 1778 e il 1781 una selezione amplissima della raccolta di dipinti viennese viene dislocata dentro questa galleria e sottoposta a una revisione complessiva. Nel 1600 i dipinti venivano spesso inseriti in impianti decorativi, venivano allargati o tagliati per entrare in questi impianti, mentre Von Mechel impone un sistema di classificazione scientifica. Consapevole di imprimere un notevole cambiamento dal punto di vista della fruizione, confermato dalla presenza di cartellini indicativi e dall’apertura 3 giorni a settimana, l’ordinamento voleva imitare quello delle biblioteche, per rendere più chiara ai visitatori la filiazione tra le opere. Nel 1781 il museo viene aperto al pubblico e nell’83 Von Mechel pubblica il Regesto dei dipinti, una guida piccola e topografica in tedesco, che segue alla lettera la disposizione parete per parete. Nell’85 esce in francese. Qui forse più che in ogni altra fonte dell’epoca viene esplicitato il legame tra la creazione di una storia dell’arte raccontata nei testi e quella ordinata fisicamente nei musei Nella Premessa dice che lo scopo della sua impresa era utilizzare l’enorme edificio affinché l’esposizione fosse istruttiva e costituisse una storia dell’arte visibile. Questo nuovo ordinamento vuole dividere le opere come una storia dell’arte. Sulle pareti del museo lui compone la storia dell’arte come la conosce. Lo scopo era educare così come in una biblioteca, luogo dove i libri erano classificati per materie e sotto materie. Il visitatore poteva trovare opere di ogni sorta e periodo e diventare conoscitore d’arte nel museo, perché era allestito classificando non solo i capolavori, ma mostrando opere di qualsiasi genere e epoca, da contemplare e comparare. Non è solo diletto, ma anche apprendimento. Quando il museo diventa pubblico si comincia a ragionare su come insegnare la storia dell’arte attraverso il museo. Poiché di alcuni artisti aveva moltissime opere, come nel caso di Tiziano e Rubens, vi fa una sala monografica. Questa era una novità assoluta e diventerà il criterio con cui si sono allestiti musei e mostre fino ai primi anni 2000. Al di là di questi proponimenti, leggendo il catalogo, che contiene la pianta del primo piano e del secondo, è evidente come la divisione fosse spazialmente molto chiara. Coniugò la disposizione per scuole con le rispettive cronologie. Da un lato vi era la scuola italiana e dall’altra quella fiamminga al piano terra e al secondo piano da un lato quella tedesca e dall’altro sempre la fiamminga. La sala della scuola italiana era ulteriormente divisa tra veneziana, romana, fiorentina, bolognese e lombarda. Due sale sono per Rubens. Il catalogo era tascabile e conteneva poche notizie, ma spesso le dimensioni e la tecnica. Una studiosa tedesca è riuscita a ricostruire le pareti ricollocando i dipinti e mettendo in evidenza. Vi era l’idea di creare legami visivi per spiegare a chi non sapeva le scuole pittoriche. Nella scuola fiamminga le opere erano tantissime e tra di esse appare il medioevo, seppur tardo. Questo arretramento che avveniva nella storiografia a fine 1700 era sdoganato e si creavano a volte delle sale apposite, anche di ciò che non era apprezzato. Questo ordinamento suscitò anche critiche e polemiche, in cui si legge una contrapposizione tra l’idea di una collezione come piacere per l’occhio ed esposizione di modelli per gli altisti secondo gli insegnamenti accademici e quella di una collezione istruttiva sul piano della storia dell’arte per conoscitori, amatori e un pubblico più ampio. 04\04\22 Luigi Lanzi (1732-1810) Il lavoro dei musei comincia a combinarsi con la riflessione sulla critica d’arte. Questo legame fra il lavoro del museologo e le sue posizioni come storico si ritrova nella figura di Luigi Lanzi. È una di quelle persone che incarna la duplice vocazione presente negli storici dell’arte, di combinare azioni per la tutela e lo studio e ricerca dei propri studi, che vengono pubblicati. Nasce in provincia di Macerata nel 1732, studia presso i Gesuiti di Fermo, come era solito nel corso del 1700, per poi entrare nella Compagnia di Gesù nel 1749, e progressivamente si appassiona allo studio dell’antico e soprattutto degli etruschi. Segue un percorso di studi improntato all’approfondimento delle lingue classiche, della filosofia e della teologia. Insieme al grande disegno sull’arte antica di Winckelmann, comincia a svilupparsi un’attenzione anche diversa. Caylus, come molti altri, inizia ad interessarsi anche dal punto di vista documentario, ad altri popoli antichi. Nasce il collezionismo di antichità etrusche o italiche. Lanzi si appassiona agli etruschi, in un momento di riscoperta e attenzione critica. In contemporanea a Pompei comincia la scoperta delle tombe nel Lazio e in Toscana. Lanzi diventa esperto anche di lingua etrusca, la cui scrittura rimaneva indecifrabile. Era un antiquario e studioso, ma che riesce a farsi chiamare grazie all’intermediazione di un prelato, per l’ordinamento degli Uffizi. Gli Uffizi erano contenuti nel palazzo della famiglia Medici. Era una collezione che aveva avuto il primo nucleo alla fine del 500’. Egli possedeva sia uno studiolo e partire dagli anni 80’ del 500, si fa costruire da Bernardo Bontalenti e Ligozzi la Tribuna, uno degli spazi più significativi oggi a Palazzo Vecchio. E’ uno spazio ottagonale altamente simbolico. Ci sono riferimenti all’antichità, alla Famiglia Medici, alle passioni di Francesco I, quindi gli elementi naturali, in quanto lui apprezzava l’alchimia. La tribuna accoglieva alcuni dei capolavori di XVI e XVII secolo più importanti della collezione, dipinti di Raffaello e di Andrea del Santo, ma anche sculture e oggetti preziosi. Intorno alle pareti correvano delle mensole con dei cassettini. Al centro del tavolo c’era uno scrigno di ebano che conteneva medagli, pietre, oggetti preziosi. Era una collezione che univa diversi tipi di oggetti, una sorta di scrigno enorme. Nel palazzo poi vengono allestite sculture antiche, ritratti, monumenti celebrativi della famiglia Medici. Nel corso del tempo la collezione si ampia. Cosimo III a fine 600’ investe molto nella raccolta. Nel palazzo si conservavano porcellane, bronzi, disegni, medaglie, e una grandissima Farmacia, la Fonderia, che conteneva curiosità naturale, interessanti per i collezionisti. Anche gli oggetti scientifici erano molto apprezzati. Prima dell’arrivo di Lanzi, nel 1737 la dinastia dei Medici si estingue perché Gian Gastone muore senza eredi. Anna Maria raccoglie tutto il patrimonio e sapeva che sposandosi questo sarebbe passato ad un'altra famiglia. Con una Convenzione lega per sempre la collezione dei medici alla città di Firenze. Stabilisce che il patrimonio storico artistico ha un valore civico per il quale indipendentemente dal proprietario doveva rimanere a Firenze. Questo atto ribadisce come nel 700’ il patrimonio e la sua tutela e fruizione comincia a diventare un tema presente. I musei assumono un valore pubblico perché si riconosce al patrimonio un significato di educazione della popolazione. Per vie ereditarie nel 1765 diventa granduca di Toscana Pietro Leopoldo di Morena, figlio di Giuseppe II d’Austria, un granduca aggiornato sulle tendenze dell’epoca. Compie un’attività di riforma del granducato di Toscana, che riguardava le finanze, il catasto, le tasse ecc. All’interno di questo sistema di riforme pensa anche ad una riforma della gestione della raccolta d’arte e all’apertura di un museo pubblico. Già negli stessi anni anche Maria Teresa d’Austria pensava le stesse cose. All’interno di questa attività di riforma che prevede una nuova gestione del regolamento e funzionamento degli Uffizi, viene instaurato un organismo burocratico di gestione del museo. Pur rimanendo un museo privato esisteva une gestione autonoma del museo, vi erano orari di apertura, un sistema di controllo, la registrazione dei visitatori. Gli Uffizi avevano un laboratorio di restauro dentro il museo che si occupava della manutenzione delle opere. La riforma spinge Leopoldo nel 1775 a nominare contemporaneamente due figure molto diverse, direttore Giuseppe Pelli Bencivenni, funzionario statale, che veniva dall’amministrazione statale, e Luigi Lanzi. Egli era un giovane antiquario, appassionato di arte, che viene inizialmente nominato aiuto di Bencivenni e custode antiquario del gabinetto delle gemme e delle medaglie. Lanzi, scontrandosi con alcune resistenze di Pelli Bencivenni, propone un riordinamento aggiornato di tutto questo patrimonio, frutto di un progressivo accumulo. Lanzi impiega diversi anni per studiare la raccolta e modificarla nella direzione dei conoscitori, in virtù di una più rigorosa classificazione degli oggetti secondo i nuovi criteri scientifici. Lanzi stesso ci ha lasciato nel 1780 uno scritto sulla galleria, prima presentato al granduca sotto forma di relazione e poi pubblicato sul giornale dei letterati nell’82, come Descrizione della Real Galleria di Firenze. Il testo, dedicato a Pietro Leopoldo, è pensato per soddisfare e illustrare le novità sia a chi studiava da lontano che a chi visitava la galleria, rimandando la redazione di un catalogo più ragionato in futuro. E’ significativo che nella varietà degli scritti sull’arte che comincia ad ampliarsi, tra lettere, abbecedari, si sviluppa una riflessione sul museo. Lanzi porta al superamento di una galleria frutto dell’accumulo dinastico, ma che non era mai stata ordinata sistematicamente. Erano una serie di oggetti diversi, che vengono riorganizzati in 20 gabinetti, che contenevano classi omogenee di oggetti. Altro aspetto che Lanzi assume come base è che la galleria deve essere aperta al pubblico e quindi essere educativa e chiara nell’ordinamento. Eliminerà quindi tutto ciò che era inutile e superfluo. Fa rimuovere dagli Uffizi l’armeria, che sposta a Palazzo Pitti. Le armi erano considerate oggetti di rarità, da collezionare. Toglie poi tutti gli oggetti di scienze naturali, gli strumenti scientifici. Tutto ciò diventa il nucleo di un Museo di fisica e storia naturale, aperto al pubblico. Gli Uffizi diventano una raccolta d’arte, mentre accanto nasce questa raccolta di storia naturale. Questa scelta è frutto della rivoluzione scientifica del tempo. Altra azione è quella di selezionare i pezzi migliori, cercando di colmare le sezioni lacunose. Vengono trasportate sculture antiche si trovavano a Roma in Villa Medici. Vengono anche fatti acquisti se qualcosa mancava per i criteri di ordinamento. Presta grandissima attenzione all’arte etrusca, che in Toscana era molto studiata perché autoctona. Questo popolo antico poteva valorizzare l’orgoglio cittadino. Come Mechel, si richiamò al modello di classificazione delle biblioteche e la disposizione seguì criteri variabili e sperimentali, costruendo legami storici, stilistici e territoriali tra le opere. Tenta un primo ordinamento per classi di oggetti. Non può fare un ordinamento storico e scientifico perché ad esempio non aveva una pinacoteca così amplia da coprire ogni epoca. L’idea è di sottoporre a criteri di classificazione oggetti eterogenei. Tutti i suoi principi Lanzi li enuncia nell’introduzione. Lui dice che Marte e Venere erano uniti, quindi armi e arte, ma vengono separati per sottoporli ad un criterio scientifico. Lanzi conosceva quello che Von Mechel stava facendo a Vienna negli stessi anni. Lanzi parte modificando l’ingresso. Si entrava prima da una scala stretta e scomoda, sostituita da uno scalone monumentale. Lavora poi sulla quadreria, ispirandosi a Vienna, pur avendo meno ciclico tradizionale, interpretandolo nel senso di una progressiva ascesa, seguita da un invitabile declino. Pur all’interno delle singole scuole e delle differenti epoche, dunque, il principio è unico e viene individuato nella necessità di mostrare a colpo d’occhio l’essenziale. Lo storico deve agire secondo il principio albertiano della compositio, costruendo una scena in cui si sia riservato il giusto rilievo ai diversi personaggi, a seconda della loro importanza della disciplina. E’ dunque la valutazione qualitativa delle opere a determinare lo spazio da dedicare ai singoli artisti. Altro aspetto importante è quello di dare uno strumento utile ai conoscitori, che però non è un elenco delle stampe, ma un racconto sintetico, uno strumento per collocare dentro un sistema geografico e storico gli artisti. Così Lanzi si prefiggeva l’obbiettivo di contribuire all’avanzamento dell’arte, rendendo note le dinamiche che governavano sviluppi e regressi della storia della pittura. Si sottolinea nuovamente la differenza tra il pittore e il conoscitore, con una preferenza verso i conoscitori. Lanzi si richiama esplicitamente ad Anton Maria Zanetti, acuto conoscitore, cui aveva il merito di aver diviso le epoche, descritto gli stili, bilanciato i meriti di molti pittori, in Della Pittura veneziana, dove proponeva una storia dell’arte, articolata con chiare periodizzazioni fondate sui mutamenti stilistici. Cita Zanetti, suo primario modello, ma ciò che lui aveva fatto per Venezia lo fa per tutte le scuole, senza però dilungarsi, quindi omettendo i pittori viventi e selezionando i quadri migliori per raccontare l’evoluzione storica. Le epoche sono segnate dai cambiamenti di gusto. Realizzare una storia come compendio, voleva dire scegliere “ciò che possa interessare maggiormente e istruire”, rielaborando in un complesso lavoro imitatio e variatio la storiografia precedente, ma superando il modello degli abbecedari. La ricerca bibliografica crebbe nel tempo anche grazie alla fitta rete di corrispondenti su tutto il territorio che gli fornivano manoscritti inediti. Nonostante ciò, Lanzi fondò il suo operato sulla verifica autoptica delle opere, acquisita durante i numerosi viaggi per esplorare il panorama figurativo italiano. 06\04\22 La scuola lombarda che aveva iniziato a prendere forma viene suddivisa al suo interno in ulteriori 5 scuole\famiglie, che al loro interno sono divise per epoche. Non è un sistema costante, ma un sistema logico molto stringente che fa capire la suddivisione per stile. Ogni epoca, per Lanzi, ha ragione di esistere anche grazie agli artisti minori o negletti. Il lettore così si abituerà a valutare attraverso il metodo del confronto. Lui vuole fare una storia dello stile, raccontare la storia d’Italia come non era mai stato fatto, contribuire alla conoscenza che i conoscitori devono avere dell’arte. Il passaggio di secolo fra 600 e 700 segna il secolo dei compendi della storia dell’arte, ossia dei riassunti. A proposito nel modello delle scuole Lanzi rifiuta il metodo nei naturalisti di Linneo, vuole superare il metodo dei conoscitori di inizio 700, che facevano le raccolte dei dipinti. È cosciente del fatto che la molteplicità degli stili e il loro intreccio, vista la complessa rete delle influenze, rendendo impossibile il rigido metodo dei naturalisti. Lanzi non vuole fare una raccolta delle opere dei singoli artisti, non è una raccolta biografica, ma una storia dove l’aspetto narrativo del filo conduttore dello stile conduce il racconto. Non è neppure un catalogo completo, modello che si era affermato nella prima metà del secolo. Il modello più vicino è Winckelmann che aveva assegnato ai diversi popoli delle geografiche e all’interno del popolo aveva costruito la storia dello stile. Lanzi però si avvale ampliamente della tradizione dei conoscitori. Il suo punto di vista è fortemente influenzato dall’estetica neoclassica di Winckelmann, tuttavia si sforzò di non offrire un’interpretazione parziale e obbiettiva delle diverse epoche e i vari stili, cercando di mettere in luce il valore dei singoli artisti in relazione agli altri e il sistema delle reciproche influenze e mostrando una notevole capacità di individuare gli aspetti peculiari dei pittori. Gli artisti ai quali va la preferenza sono i grandi classicisti: Raffaello, i Carracci, Guido Reni. Nel descrivere ogni scuola dà il carattere generale, non i dettagli, e divide poi in 3\4 epoche in base al cambiamento di gusto. Altro tema presente è quello dei conoscitori e come riconoscere le diverse maniere. Lanzi dice che l’occhio si deve abituare, facendo attenzione ai dettagli che fanno riconoscere la mano di un’artista, come le teste, le vesti ecc Per diventare conoscitore di dipinti il conoscitore deve prima studiare i disegni, le incisioni. L’attribuzione era la questione più complicata. Assimila il modo di dipingere al tema della scrittura. E’ interessante che nel 700 si cominciano a sviluppare la paleografia e la diplomatica. Il modo con cui un documento è scritto può aiutare a datare un documento anonimo. Per Lanzi se si ragiona in questo modo si può riconoscere l’artista dall’adattamento della mano. L’artista ha un proprio “giro di pennello” che non cambia, una sorta di calligrafia. A forza di guardare e riguardare le opere, come facevano i conoscitori, si poteva riconoscere lo stile di un artista. Altra questione è il tema della distinzione fra copie e originali. Vi era l’esigenza di differenziarle, anche sul mercato. Lanzi cerca di trovare un modo per distinguere una copia da un’opera originale. Era un tema di Richardson e Winckelmann, che aveva ancora meno possibilità e conoscenze. Lanzi dice che il copista ha uno stile più timido e stentato e inoltre in alcuni dettagli non farà a meno di inserire il proprio stile nei dettagli che sembrano meno importanti. Lì emerge la differenza. Sempre su questo tema c’è un’attenzione a guardare i materiale con cui è composto un dipinto. C’è l’idea che si possa consultare un chimico per capire se i materiali sono antichi oppure no. C’è una vicinanza tra il mondo delle arti e delle scienze. Nella seconda parte della Prefazione Lanzi parla della professione del conoscitore, la distinzione chiara tra conoscitore e pittore e la consapevolezza che il conoscitore ha un ruolo importante nel mercatore. Saper essere un buon conoscitore significa anche non far pagare al proprio collezionista più di quanto l’opera vale e non inserire in una raccolta pregevole opere che non hanno un valore particolare. Lanzi era già stato consulente di Pietro Leopoldo di Lorena. Il conoscitore ha anche un ruolo nell’avanzare delle conoscenze. È più raro trovare un vero conoscitore che un buon pittore, dice. Ha un orgoglio di distanza tra il mestiere del conoscitore e il pittore, così come la consapevolezza che la formazione è diversa e non si lavora nello stesso modo. Il passaggio dallo scrittore d’arte-artista e lo scrittore d’arte-conoscitore non è definitivo, ma è una tendenza che progressivamente prenderà il sopravvento. Caravaggio viene inserito da Lanzi nella Scuola romana. Lanzi è consapevole che la scuola romana è difficile da circoscrivere, perché molti artisti sono passati per Roma e da essa sono stati condizionati, per poi allontanarsi. Per Lanzi Caravaggio starebbe bene nella Lombardia, anche a Venezia, dove passò secondo Bellori, ma va messo nella scuola romana, perché vi visse e influì sul gusto. Lanzi usufruisce di fonti diverse e differenziate per costruire il proprio racconto. Da un lato c’era Caravaggio, dall’altro il Cavalier D’Arpino e Annibale Carracci che riuscì a sintetizzare la natura col bello ideale. Lanzi dedica due paginette a Caravaggio, perché manifestò avversione nei confronti sia del barocco che del naturalismo. Su Caravaggio non ci sono nozioni sulla vita, sparisce l’aspetto aneddotico. Caravaggio dal punto di vista coloristico diventa modello per artisti che non sono caravaggeschi. L’eredità della pittura veneziana di Giorgione in Caravaggio viene da Bellori, che però lo dice in funzione anti-caravaggesca. Bellori aveva bisogno di diminuirne la portata rivoluzionaria, per fare emergere la corrente classicista. Lanzi riesce a mantenere l’equilibrio, non tutto gli piace, come lo sfondo omogeneo privo di luce, ma il suo interesse è quello di un vero storiografo senza giudicare, ma tirando fuori le peculiarità dello stile. Fa il salto verso una storiografica per l’arte utile per la contemporaneità. Fa una velata critica ma dice che non dobbiamo cercare in Caravaggio la selezione del bello. Constata che Caravaggio usasse persone comuni per ritrarle nei suoi dipinti, però il tema del decoro non è più un problema morale, ma una caratteristica stilistica del pittore. Cita Bellori, quindi è chiaro che utilizzi Bellori come fonte per raccontare di Caravaggio. Per Bellori i caravaggisti erano peggio di Caravaggio, perché Lanzi si presenta come un critico che si concentra sugli aspetti stilistici?. Seroux D’Agincourt (1730-1814) Seroux D’Agincourt è stato un ricco aristocratico francese, figlio di una famiglia benestante di Parigi, dove frequenta i salotti culturali della Parigi degli enciclopedisti e dei conoscitori, e pittori come Fragonard. Nella prefazione della sua opera si dice allievo di Caylus. Alla fine degli anni ‘70 viaggia in Europa, tra Germania, Paesi Bassi, Italia e Inghilterra, che in quel momento stava riscoprendo il suo passato gotico. C’era Horace Walpole e diversi studiosi, soprattutto in architettura, che con l’idea di riscoprire l’antichità pre-Giotto locale, riscoprono il gotico. Fa un viaggio in Italia nel 1777, dove incontra Tiraboschi, Lanzi e altri eruditi italiani. Nell’81 si stabilisce a Roma, dove rimane per tutta la vita. Già durante il suo tour europeo avviò la raccolta di disegni, terrecotte, opere d’arte bizantina e medievale, che costituì parte del materiale per la sua produzione storiografica. Sappiamo che nel 1789, allo scoppio della Rivoluzione francese, la sua opera era terminata ma la stampa fisica viene rimandata a causa degli eventi legati alla rivoluzione. La stampa avviene nel 1810, prima in fascicoli, poi con una stampa complessiva in volumi separati. La Rivoluzione Francese interrompe quindi questa pubblicazione. Il suo lavoro, però, avrà grande influenza sugli artisti dell’epoca. La sua opera è Histoire de l’art par les monuments, depuis sa décadence au IVe siècle jusqu’à son renouvellement au XVIle, pubblicata a Parigi in 6 volumi. La stampa avviene prima in fascicoli, in modo da rendere più accessibile l’acquisto delle opere. Chi sottoscriveva l’abbonamento pagava l’opera meno. L’opera comincia a circolare attorno al 1810, mentre nel 1823 esce un’edizione integrale in 6 volumi, con l’aiuto di Léon Dufourny. È un’opera che verrà tradotta in italiano nel 1824. L’esigenza prioritaria è quella di dedicarsi al segmento della storia dell’arte, che Seroux non apprezza affatto, ma che ritiene importante per la conoscenza e che era la fetta temporale tra Winckelmann e Vasari. Presenta la sua opera come la continuazione della storia dell’arte di Winckelmann che, avendo “scelto la miglior parte, lo aveva spinto a trattare un funesto periodo in cui l’arte sottoposta al decadimento sembrava essersi spenta. Seroux non apprezza quell’arte, ma si separa evidentemente la ricerca del bello ideale e la ricostruzione storica. Enfatizzando la mancanza di studi complessivi su quei secoli, d’Agincourt rivendica la necessità di conoscerli per conservarne memoria e vestigia. Ciò non gli impediva di considerare l’arte medievale un periodo lontano da ogni bellezza ideale, per il quale erano inapplicabili i criteri estetico-stilistici elaborati per la scultura antica e la pittura moderna. La sua storia sarebbe stata utile agli artisti per opposizione, perché Winckelmann aveva mostrato loro cosa si doeva imitare e lui avrebbe mostrarìto cosa dovevano evitare. Si va verso un’epoca moderna nella storia della storia dell’arte. La storia dell’arte è intesa come storia della pittura, scultura e architettura, trattate separatamente. La caratteristica peculiare di tutta l’opera è di essere una storia dell’arte illustrata. Sono 1400 monumenti e opere, molti dei quali non erano mai stati rappresentati fino a quel momento. Ci sono 325 tavole illustrate. Le illustrazioni servivano a esporre agli occhi lo sviluppo dell’arte, riconoscendo alle immagini un ruolo centrale nella comprensione dell’evoluzione artistica. I monumenti dovevano parlare, secondo d’Agincourt. In questo senso metteva assieme la tradizione dei cataloghi figurati con il racconto storiografico, dando alla cronologia un ruolo determinante nell’organizzazione dei materiali. La scelta di opere, monumenti e luoghi lo portano ad avvalersi di una serie di numerosi artisti di varie nazionalità, fra cui Canova e Léon Dufourny stesso, e architetti pensionnaires dell’Accademia cambiamenti artistici. Nella sua analisi, più che le dinamiche tra gli artisti e le scuole, erano le condizioni civili, religiose, militari e politiche segnavano una linea franca che separa le epoche l’una dall’altra, con un’influenza immediata anche sullo sviluppo dell’arte. Individuava essenzialmente due “ruote motrici” nella religione e nella costruzione dello Stato, tanto che non sembrava possibile scindere la storia delle arti da quella politico-religiosa. Senza allontanarsi sul piano del metodo da quanto era stato discusso nell’ultimo secolo e nella storiografia artistica recente, rivendica l’assoluta necessità di una formazione artistica come fondamento per il giudizio sull’arte. Per un giudizio critico corretto servivano a suo avviso capacità pratiche nel disegno e uno sguardo affinato da molteplici comparazioni. Uno degli esiti più importanti della sua attività fu tuttavia l’aver trasmesso una conoscenza dell’arte italiana e tedesca prima di Raffaello e Durer, questione che si rivelerà un presupposto imprescindibile nella rivalutazione degli artisti del Medioevo. 08\04\22 Il formato è maneggevole, non in foglio di grandi dimensioni. E’ un racconto sull’evoluzione dello stile. Ciascuna realtà geografica si articolava in una serie di epoche. Quando tratta delle Epoche dice che la sua scansione cronologica non si basa sulle vite degli artisti, ma assume come principio periodizzante i fatti politici. Nella loro crescita e nel loro declino le arti dipesero dalla religione e la costituzione dello stato. I cambiamenti religiosi e politici scandiscono per lui il tempo. Assume come elemento, per scandire la sua storia, un elemento nuovo. Ci sono dei legami con Winckelmann, che aveva costruito le grandi epoche parlando della realtà politico-geografica, ma lui ragionava per grandi periodi e popoli. E’ un’apertura di metodo, questo legame tra la storia dell’arte e altri aspetti della storia della cultura. La prima epoca va da Cimabue a Raffaello, la seconda da Raffaello ai Carracci e poi dai Carracci a Mengs. La sua idea è di superare la divisione di Lanzi, che aveva segmentato eccessivamente le scuole italiane. Vi erano troppe scuole distinte. Questo passaggio da biografie, scuole, fino alla dissoluzione di questa storia per scuole, è un passaggio importante dal 700’ all’800, in cui non si parlerà di scuole, intese come discendenze. Uno dei motivi per cui questo sistema rigido per scuole non funziona, è che Fiorello tra gli obbiettivi vuole raccontare la scuola della pittura in Germania → In Germania mancava la letteratura artistica per fare una cosa del genere. Il racconto è animato dai fatti politici più che da una stretta linea geografica. Altro aspetto per cui Fiorillo si sente distante da Lanzi è il tema delle competenze dello statuto dell’arte. Fiorillo critica Lanzi per non esser stato un artista, perché per lui per valutare l’arte sono fondamentali la capacità del disegno e della comparazione, come fa uno studioso di diplomatica. Per Fiorillo fondamentale è la conoscenza della pittura nel modo di dipingere o muovere il pennello e lui che si definiva dotto pittore, riconosceva in quel tipo di formazione, la formazione giusta. Bisogna saper dipingere e fare confronti di tipo filologico. Lanzi diceva che l’incisore si formava guardando e riguardando le incisioni, viceversa Fiorillo predilige lo sguardo del pittore su cui innesta la conoscenza della storia, per cui per Fiorillo non è sufficiente saper individuare la mano di un artista, ma bisogna mettere in connessione i fatti storici per capire l’evoluzione dell’arte. Tutto questo lo possiamo connettere con il forte desiderio di individuare peculiarità dell’arte tedesca nelle singole epoche. Questo aspetto sarà cruciale per tutto l’800, secondo in cui si formano le grandi nazioni. La riflessione sullo stato nazionale è importante, e anche nel mondo della critica d’arte l’orgoglio nazionale diverrà importante. In questo senso molti sono i passaggi della sua opera che sottolineano questo aspetto. Individua una peculiarità anche antica dell’arte tedesca, cercando di smentire gli italiani e i francesi convinti che l’arte tedesca fosse inferiore. C’è sempre l’idea di una storia dell’arte che illumina territori oscuri. Una recensione uscita subito dopo il primo volume, sottolinea come in quest’opera molte opere poco considerate sono valorizzate dal punto di vista storico- artistico e furono così salvate dalla distruzione che le minaccia. Sono gli anni delle requisizioni francesi napoleoniche. Mentre conquista i paesi europei, al seguito delle truppe manda una commissione a scegliere le migliori opere d’arte di questi paesi, che verranno poi portate la museo del Louvre. Poi quando Napoleone cade queste verranno restituite ai paesi di provenienza. Il tema dell’orgoglio nazionale, unito a questa depredazione di opere, ci mostra come queste opere storiografiche intendessero difendere il valore culturale del territorio. L’attenzione per la Germania si porta dietro anche l’attenzione per il Medioevo. Era tappezzata di chiese gotiche e romaniche. Fu un critico fondamentale perché riconsidera romanico e gotico come fasi importantissime per l’identità di quel paese. Leopoldo Cicognara (1767-1834) Oltre a riflessioni di carattere teorico, il nuovo interesse per la plastica determinò anche la nascita di opere storiografiche di ampio respiro. L’ultimo dei nostri compendiatori è Cicognara, che nasce a Ferrara, studia a Modena, fu letterato, appassionato di poesia, pittura. La sua formazione ci sono importanti viaggi per l’Italia, a Napoli, in Sicilia e Abbruzzo. A fine ‘700 soggiorna a lungo a Roma, dove conosce d’Agincourt. E’ aggiornato sulla sua opera, terminata entro l’89 a Roma. Frequenta l’Accademia del Campidoglio, quella di San Luca e l’Arcadia. Fonda con alcuni un’accademia privata per lo studio del nudo. Frequenta aristocratici e collezionisti romani, la famiglia Borghese, quella Colonna, di cui può visitare le raccolte. Studia arte e scultura moderna, ma anche antica. Uno dei suoi scritti è Le belle arti, in versi sciolti, sulla natura e il bello. La cosa interessante è di legare l’evoluzione dell’arte alle caratteristiche climatiche e ambientali del luogo. Era un tema di Winckelmann, in parte di Fiorillo. Gli viene fatto un ritratto nel 1825, dove appaiono due libri, sotto la testa di Beatrice di Canova, che sono la Geschichte di Winckelmann, e l’Histoire di d’Agincourt. Dopo il periodo romano vive tra Roma e Ferrara. Partecipa all’occupazione francese, diventa poi un estimatore di Napoleone. A Roma frequenta Canova, che ne fa un busto. Si trasferirà a Venezia e diverrà nel 1808 Presidente dell’Accademia di Belle arti di Venezia, fondata a fine 1700. La sua idea è di riformare l’Accademia, trovare il modo per fare luogo di promozione degli artisti, vuole che prenda posizione. Credeva nel ruolo dell’Accademia e della sua utilità pubblica, dunque si impegnò per una sua maggiore incidenza nella vita culturale cittadina. La raccolta che era dell’Accademia di belle Arti diventa il nucleo inziale del Museo delle Gallerie dell’Accademia. Il nucleo originale era il patrimonio dell’accademia che Cicognara trasforma in museo pubblico. È impegnato anche sul fronte della conservazione e del restauro. Cicognara negli ultimi anni è stato rivalutato molto dalla critica. Nell’ultimo allestimento delle Gallerie dell’Accademia, il direttore ha deciso, concludendosi le sale con gessi di Canova, di installare una sala dove i busti di Canova, Napoleone e Cicognara si guardano, con la cattedra e la sedia di Cicognara. La fama di Canova è legata proprio a quel momento storico e a Napoleone. Sicuramente la sua fortuna storiografica dipende da Cicognara. Cicognara è il quarto personaggio intento a scrivere una storia complessiva. Scrivendo la prima storia dell’arte della scultura in Italia dalla fine dell’età antica fino a Canova, cercò di piegare il piano e il metodo delle storie enciclopediche illuministe alle esigenze di una nuova idea di Nazione italiana minata dall’esperienza napoleonica. Scrive la Storia della scultura dal suo risorgimento in Italia, il primo volume del 1813 è sino al secolo di Napoleone, il secondo del 1824 è sino al XIX secolo. La seconda edizione rivista e ampliata reca il seguente sottotitolo “Dal suo risorgimento in Italia fino al secolo di Canova per servire di continuazione all’opere di Winckelmann e D’Agincourt.” Napoleone viene sconfitto e dopo il Congresso di Vienna cambia la dedica. Quella di Cicognara è una storia di compendio, ma dedicata solo alla scultura. C’è un legame con Winckelmann, ma la scultura per Cicognara diventa rivendicazione di orgoglio nazionale. Dice che la scultura è singolarmente nostra, ossia degli italiani, citando l’amico Pietro Giordani. Vede un primato della scultura in Italia, perché dopo Winckelmann fino a Canova è stata la nazione in cui la scultura ha primeggiato, per lui. Nel Discorso preliminare Cicognara mette in chiaro le sue intenzioni. Al lato ci mette dei titoletti. Cicognara dice che sembrerebbe facile nell’abbondanza delle fonti scrivere una storia generale, ma al contrario la difficoltà sta nella selezione. Il passaggio tra 700 e 800 è importante, perché dalle storie particolari, si sente l’esigenza di scrivere una storia generale, basata sull’osservazione diretta delle opere. La difficoltà sta nel realizzare un compendio e non un elenco di notizie. Spiega poi perché si era dedicato alla scultura, che è per lui un aspetto importante per l’identità nazionale. Cita Lanzi e lo critica velatamente, perché solo dotto ma non un’artista. In realtà anche Cicognara non era un’artista, ma era molto legato all’Accademia e al mondo degli artisti. Fa poi una critica a Fiorillo, anche se gli riconosce una mole importante di lavoro. Sottolinea che la sua opera era senza stampe e in tedesco. Gli riconosce gli studi sulle epoche più antiche. Sottolinea l’ampiezza geografica della sua opera. Di fatto, deve anche criticarlo perché deve giustificare il fatto che lui tratta solo di arte italiana. Dice che non lo convince il modo con cui ha scandito le epoche. Dal punto di vista dell’ordinamento cronologico il suo modello più vicino è Winckelmann, con il quale condivide gli ideale estetici, come quello del bello ideale. Dice però che ciò che lo ha convinto di più è che la sua storia ha basi filosofiche. Ciò che hanno in comune è il modo di raccontare una storia. E’ tutto finalizzato a esaltare un’epoca. Cicognara individuava diverse scuole, ma costruiva il percorso per cronologie. Divide la storia in 5 epoche, prendendo lo stile come elemento fondamentale per stabilire le epoche, a ognuna delle quali precede un prospetto del contesto politico-letterario. Nella storia dell’arte comincia a inserirsi altri temi. La cosa fondamentale è di seguire lo stile degli artisti. Indica poi la cronologia delle epoche: il risorgimento, da Nicola Pisano a Donatello escluso, l’incremento da Donatello a Michelangelo, la perfezione con Michelangelo e il suo tempo, corruzione ossia Bernini e lo stato attuale con Canova. Canova primeggia come astro assoluto e punto di riferimento, ed è grazie a lui che la scultura stava vivendo una gloriosa rinascita nella sua epoca. Quella che informa l’opera è una concezione ciclica, che vede succedersi nella storia della scultura fasi alterne di ascesa e di decadenza e naturalmente i giudizi dell’autore sono improntati a principi neoclassici. Da Winckelmann riprende l’idea della scultura e le grandi epoche e non scuole nazionali. Da Seroux riprende l’idea di fare un testo che è una strettissima combinazione di testo e immagini. Da Fiorillo riprende le grandi cronologie, anche se critica l’idea di farle discendere dalla politica invece che dall’arte. Il Musée Napoleon, che apre nel 1800, è un grande museo costruite sull’idea della presentazione del meglio dell’arte europea, diviso per scuole e con una divisione cronologica all’interno delle scuole. Per le scuole italiane può fare riferimento su Lanzi, mentre per l’ordinamento delle pitture del Nord Europa ebbe più difficoltà, dunque mise a punto un allestimento meno sistematico, perché fatico a trovare una fonte sicura che chiarisse le differenze tra scuola fiamminga, olandese e tedesca. Cerca di spiegare i legami visivi tra allievi e maestri. C’è una collezione d’antichità, che viene riallestita al Louvre, fra cui la collezione Pio Clementino. Il direttore è Ennio Quirino Visconti, che si converte alla Rivoluzione e si trasferisce a Parigi. Viene allestita una sala a recuperare la Sala delle Muse del Vaticano. Le antichità ancora non sono in ordine cronologico. Il Louvre del 1814 rappresentava l’esempio di museo più completo che rispondesse al desiderio di presentare al pubblico una storia generale dell’arte. E’ un museo famosissimo in quel momento, che termina con Napoleone. Contemporaneamente si cominciano a sollevare voci contrarie al museo e all’idea del prelevamento delle opere per portarle in Francia. Antoine de Crysosthome Quatremère de Quincy (1755-1849) Molto precoce su questo aspetto è Antoine de Crisosthome Quatremèere di Quincy, aristocratico francese, contrario alla Rivoluzione e favorevole a una Monarchia Costituzionale e illuminata. La sua voce autorevole si levò contro i saccheggi che stavano colpendo l’Italia e Roma. La critica più aspra alla politica museale negli anni rivoluzionari viene da lui. Nasce a Parigi da una famiglia nobile e nel 1776 viaggia a Roma dove stringe un sodalizio intellettuale con Antonio Canova. Influente scrittore d’arte e teorico d’architettura, scrisse un importante Dictionnaire d’architecture. Attivo sul fronte della critica d’arte in una campagna contro le accademie, partecipò ai primi anni della rivoluzione, divenendo membro dell’Assemblea legislativa, ma ostile ai radicalismi, si schierò a favore della monarchia costituzionale. Nel 1792 dovrà lasciare la Francia e ritirarsi in clandestinità, scrivendo delle lettere in esilio. Sono lettere fortemente contrarie agli ideali rivoluzionari. Sono interessanti perché si occupa dell’idea del museo, al quale si oppone. Non bisogna leggerlo come anticipatore del nostro tempo. Mostra una contrarietà anche rispetto a ciò che la rivoluzione stava facendo in ambito museale. Ad oggi è un invito a riflettere sul rapporto tra le opere e il loro contesto. E’ una follia, scrive, immaginare di restituire l’effetto che l’opera suscita nel suo paese, raccogliendo le opere in un museo. L’operazione di riunire tutte le scuole pittoriche in un museo secondo lui non è legittima, e anzi isolare i pezzi, tirandoli fuori dal loro contesto, crea dei problemi. Quatremère è una delle prime voci che nella storiografia sottolinea la problematicità del museo, anche se lo fa con posizioni tradizionaliste dal punto di vista politico. Apre, però, un tema che nei secoli successivi sarà fondamentale. Le lettere del 1796, edite a Parigi, si chiamano Lettres sur le prejudice qu’ occasionnereoient aux Arts et à la Science, le déplacement des monuments de l’art.. note come Lettere a Miranda, Francisco de Miranda, che era un generale francese contrario alla rivoluzione. Si tratta di un libro di grandissimo rilievo per la profondità delle riflessioni che contiene in merito ai problemi della conservazione e fruizione elle opere d’arte. E’ un pamphlet di 8 lettere indirizzate a questo generale. Come sempre la forma epistolare non si dà per lettere private. Come formato sono piccole e maneggevoli. Invocando i principi della Repubblica delle lettere, di cui si sente membro, come comunità internazionale, Quatremère contestava apertamente il presupposto che assegnava alla Francia l’appannaggio della difesa della libertà e di conseguenza il diritto di possedere ed esporre al pubblico le opere d’arte di tutti i paesi conquistati. Il caso su cui si soffermava era quello italiano, la cui peculiarità e fama potevano fornire alle sue tesi particolare efficacia. Nella sesta lettera dedicata alle scuole pittoriche, riconosceva il primato della scuola italiana. Il depauperamento dell’Italia, e in particolare di Roma, avrebbe condotto a un danno generale, privando l’Europa della possibilità di un’istruzione completa. L’incipit della seconda lettera insiste sul fatto che proprio la natura particolarissima dell’Italia, sorta di museo a ciel aperto, ha contribuito alla continuità in essa delle tradizioni dell’antichità, diventando traino per gli altri paesi europei nel rigoglio delle arti. Quatrèmere si scaglia contro lo spoglio dei musei di Roma, perché gli altri possono sempre essere ricostruiti, mentre quello di Roma no. Ogni scuola pittorica dunque non poteva essere pienamente compresa se non alla luce del suo contesto geografico e storico. Lo smembramento delle collezioni e il dislocamento delle opere antiche dalle loro originarie e naturali collocazioni sono atti sbagliati perché determinano la perdita di valore delle opere e, isolandole artificialmente, le privano dei nessi da cui deriva il loro senso. La nozione di contesto in Quatremère, assume dei connotati inediti, ampi e modernissimi, includendo anche la dimensione della memoria e dell’esperienza. Trapelano in queste considerazioni le idee di Winckelmann, che citava spesso, le teorie del clima. Da Winckelmann riprende anche la passione per l’antico, alimentata dalla fiducia nella sua capacità di influire sull’arte attuale e sostenuta dall’auspicio di un potere rigenerante. Nella sesta lettera parlava del fenomeno della divisione in scuole, mostrandosi in sintonia con Lanzi. Il tema delle scuole, gli fornì lo spunto per un duro attacco contro l’idea stessa di museo, con la sua pretesa di aiutare a comprendere lo svolgimento dell’arte condensando in un unico luogo una campionatura significativa dei diversi stili. Un aspetto importante è l’idea di allargare enormemente il concetto di opera d’arte, aspetto determinante della storiografia sull’arte nel 1800. Si supera i concetto dell’arte come pittura, scultura e architettura. Oggi parliamo di patrimonio e beni culturali, ma già Quatremère include nel patrimonio di Roma stucchi, affreschi, bassorilievi, materiali da costruzioni, mobili e utensili. C’è un’apertura verso una varietà di oggetti del patrimonio etno-antropologico. C’è anche la consapevolezza del legame inscindibile tra la possibilità di leggere le opere e il territorio che li ha prodotti. La geografia non è più solo il contesto di provenienza. Oltre alla geografia ci sono i rapporti geografici, le relazioni tra oggetti, le tradizioni locali e gli usi. C’è un’attenzione quasi antropologica. Con un’appassionata rivendicazione della natura storica delle opere d’arte, Quatremère muoveva dunque una lucida condanna all’idea stessa di museo così come andava configurandosi e al contempo esigeva una concezione della storia dell’arte che relativizzasse l’importanza dei maestri. Mosso da motivi politici egli sviluppa temi ottocenteschi che assumono per lui rilevanza. Sottolinea l’importanza dello studio delle opere d’arte nel loro contesto fisico e culturale. L’arte di Roma è presentata come un insieme organico, di cui tutti gli aspetti vanno letti insieme e non smembrati in un museo. Quatremère è stato molto rivalutato negli anni 70’ del 900 quando anche nell’arte contemporanea si parla di studiare l’arte nel proprio contesto. Piano piano si cominciano a studiare sia oggetti che periodi prima non emergenti, meno fortunati criticamente. Quando Napoleone viene sconfitto e esiliato, i paesi europei includono nei trattati di pace le clausole sulla restituzione delle opere d’arte confiscate. I rappresentanti dei paesi dovranno recarsi al Louvre a riprendersi le proprie opere. Per Roma sarà Canova, che scriverà diverse lettere in cui sottolinea la difficoltà a individuare esattamente le opere prelevate. Vengono portati a Parigi anche manoscritti, spartiti musicali. Canova farà fatica, anche perché il direttore del Museo del Louvre non lo aiuta. La maggior parte delle cose partite per la Francia tornano nei loro paesi di provenienza. Questo atto pose simbolicamente fine all’utopia del museo enciclopedico nata nell’illuminismo e difesa fino all’ultimo da Vivant Denon. Questo evento che era stato trasportare le opere e vederle partire per poi riappropriarsene, ha delle conseguenze importanti sulla consapevolezza dell’importanza del proprio patrimonio. Il 1800 infatti diventerà il secolo d’oro dei musei, perché tutte le nazioni si costruiscono un museo nazionale. Si avvia una grande riflessione sull’importanza di avere nelle capitali europee, un grande museo nazionale. Negli anni precedenti, con l’allestimento del museo, l’istituzione parigina aveva proposto una visione d’insieme delle diverse scuole artistiche europee, inedita per la sua ampiezza e corrispondente a un’idea di museo enciclopedico. I musei fondati allora dopo la Restaurazione si dovettero confrontare con quel modello. Contemporaneamente si avvia una riflessione spesso animata dagli storici dell’arte che lavorano sulla tutela, con un forte carattere nazionale. Al loro ritorno in patria le opere diventavano simboli del patrimonio nazionale, dunque s’innestò una discussione sulla loro appartenenza e la loro futura collocazione. Insieme alle opere d’arte tornarono anche incunaboli, e fondi archivistici. Si avviò in Europa un’ondata di fondazioni di nuove istituzioni. Eugène Emmanuel Viollet le Duc (1814-1879) In Francia uno dei personaggi cruciali è Eugène Emmanuel Viollet le Duc, architetto restauratore, ingegnere e scrittore, a lungo etichettato come un falsificatore di monumenti, ad oggi rivalutato nell’ambito del restauro e della critica d’arte. Il suo metodo di lavoro era uno studio molto dettagliato dei monumenti. Parte da posizioni più moderate fino a giungere a interventi molto più fantasiosi. Viollet le Duc fa parte di tutti gli organismi dello stato che in Francia dopo la Rivoluzione si occupano della tutela del patrimonio. Fu ispettore generale dei monumenti nazionali e antichità storiche e che insegnò all’Ecole des beaux arts. Un fatto importante riguarda la distruzione di una parte del patrimonio medievale che viene messa in atto una volta abbattuta la Monarchia. Le tombe degli antichi re vengono distrutte simbolicamente per sancire la fine dell’Ancien Régime. Si distruggono le teste ritratto nei re in Notre Dame. Spesso quelle opere erano gotico-romaniche. Dopo la Rivoluzione in Francia si avvia un grande processo di rivalutazione del gotico. Non è una novità assoluta, ma dopo la rivoluzione questo assume un valore di Restaurazione, recuperando l’arte che celebrava la gloriosa storia reale di Francia. L’idea di recuperare il gotico è da una parte riscoprire l’antichità locale, dall’altra un’attenzione dei circoli intellettuale nella rivalutazione delle monarchie francesi. Il mood culturale nel quale si mosse era teso fra una visione romantica di matrice letteraria e il rigore degli studi positivisti in piena affermazione. Numerosi spunti letterari avevano favorito la rimonta del gotico nell’immaginario collettivo, condizionandone il recupero critico e le valenze nazionali. Vi si vedeva conservato il retaggio della tradizione francese e occidentale. Viollet le Duc si inserisce in questo clima culturale ed è in larga parte a lui che si deve il merito di avere trasformato lo slancio romantico verso il Medioevo, in spunto per l’innovazione strutturale dell’architettura moderna e per il recupero di quella passata. Le sue opere storiografiche sono dedicate essenzialmente all’architettura. Egli individuava nello stile francese consolidatosi tra l’XI e il XIV secolo la chiave di volta per una nuova generale teoria dell’architettura. La più importante è Dizionario ragionato dell’architettura francese dall’XI al XVI secolo. Il secondo volume del 1858 è Dizionario ragionato del mobilio francese dall’epoca carolingia al Rinascimento. Non è una storia, è un dizionario per termini, ma la cronologia è importante. L’attenzione principale è data al XIII secolo, che è l’apice dell’architettura. Aveva acquisito una conoscenza diretta e analitica dei monumenti medievali, soprattutto gotici, nella sua qualità di restauratore al servizio della commissione di Mèrimée. Da un lato recupera lo studio del medioevo di Seroux, ma lui non lo apprezzava, mentre per le Duc il
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