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Appunti Storia della danza e del mimo, Appunti di Storia del Teatro e dello Spettacolo

Appunti delle lezioni tenute dalla professoressa Caterina Pagnini nell'anno accademico 2019/20

Tipologia: Appunti

2020/2021

In vendita dal 22/03/2021

giulio-dispensieri
giulio-dispensieri 🇮🇹

4.8

(14)

11 documenti

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Scarica Appunti Storia della danza e del mimo e più Appunti in PDF di Storia del Teatro e dello Spettacolo solo su Docsity! STORIA DELLA DANZA E DEL MIMO LA DANZA PRIMITIVA La prima accezione del gesto della danza, seppur non con questo nome bensì con quello di “gestualità”, si ebbe nell’epoca primitiva. Si vuole evidenziare come la danza possa essere intesa come un primo metodo complesso di linguaggio, dei gesti con precise finalità. Gli antropologi si sono molto dibattuti nell’individuare un’universalità del linguaggio dei gesti, senza riuscirci: la danza non è un linguaggio universale, ma specifico di ogni società. Ogni tribù aveva un preciso linguaggio del corpo, non riconoscibile da tutti ma che si sviluppava all’interno della specifica civiltà al fine di codificare dei punti fermi rappresentabili e comprensibili da chi vi apparteneva. Dobbiamo però partire da una premessa: chi studia adesso e chi ha studiato in passato la danza? Si tratta di una disciplina relativamente giovane, che fino agli anni Trenta apparteneva soltanto agli antropologi che studiavano le pitture rupestri delle società tribali. Fondamentale per lo studio della danza il saggio di Curt Sachs intitolato “Storia universale della danza” (1933), volume che tratta in maniera monografica e precisa la danza dandole la dignità di una disciplina scientifica che si rendesse autonoma dagli altri campi. A pochi anni dall’uscita il volume diventa un caso scientifico grazie alla traduzione in inglese, mentre la prima versione italiana è soltanto del 1966. Questo saggio è importante anche perché per la prima volta considera la storia della danza distaccata dalla trattazione della musica. Il volume è composto di sette capitoli: cinque dedicati alla danza preistorica, uno a quella orientale e uno che va dal periodo greco-romano fino all’età del tango. Con quest’opera Sachs tenta un approccio storicizzante per la danza, per stabilire un equilibrio tra prospettiva culturale e descrizione tecnica. Nell’introduzione Sachs definisce la danza come una disciplina che è stata completamente trascurata dalla musicologia, considerata come una sorta di accessorio alla ricerca musicologica. Oltre a questo dice che la danza è un elemento fondamentale per la musica e fortemente legato alla storia dell’uomo: da questo momento la danza verrà quindi considerata come una disciplina autonoma, con una propria storia e con una propria materia di studio. La danza non è solo pura gestualità, ma è legata a una precisa finalità di tali gesti. Non dobbiamo pensare che l’uomo abbia danzato fin dalle origini solo perché gli studi antropologici lo hanno constatato. Se la danza fosse solo un gesto istintivo non sarebbe neanche interessante studiarla; invece, la danza si sviluppa in modo diverso, dotandosi di una forza e di una finalità che la rendono una disciplina culturale, utile per conoscere la storia dell’uomo. Per risalire alle prime danze bisogna andare all’epoca del paleolitico: erano composte da persone in gruppi oppure singole. I ritrovamenti di pitture su roccia testimoniano il modo di esprimersi con la danza delle culture, come ad esempio ad Altamira (Spagna), nella grotta di Chauvet (Francia), a Magura (Bulgaria) o a Kakadù (Australia). Quest’ultimo è uno dei più importanti punti di riferimento per la ricostruzione antropologica, perché presenta tante bellissime pitture di soggetti danzanti. L’uomo primitivo danzava ad ogni occorrenza (nascite, circoncisioni, matrimoni, raccolti, feste ecc…), quindi la danza era un elemento fondamentale all’interno della tribù. Per questo bisogna distinguere tra danza estatica (astratta) e rappresentativa (o imitativa), sebbene non si tratti di una differenziazione di genere. I fini infatti sono più o meno sempre gli stessi, mentre cambia il modo in cui l’interprete dei movimenti si rapporta con l’esterno. La danza rappresentativa (o imitativa) è una danza che cerca di connettersi con l’esterno, che cerca un rapporto con qualcuno che guarda; chi la agisce ha dunque la necessità di rapportarsi con qualcuno (un pubblico, il resto della tribù) e di rappresentare qualcosa. La danza estatica (o astratta) invece non ha una finalità rappresentativa figurativa, ma si pone semplicemente al servizio di un’idea, di un fine religioso, senza imitare con una pantomima forme, gesti della vita e della natura. Proprio per questo si definisce astratta, cioè senza un soggetto rappresentativo. Questa danza si manifesta e si inserisce in un ambito prettamente cultuale religioso, dove il danzatore deve ottenere un contatto con la divinità attraverso un movimento vorticoso, disarmonico, che attraverso la ripetizione compulsiva sempre più veloce determini uno straniamento di chi lo compie. Questo movimento deve essere colto sia da chi lo realizza sia da chi lo guarda. Ma come mai c’è questa necessità così forte di un rapporto con la divinità? Bisogna considerare che l’uomo primitivo non conosce il processo naturale di causa-effetto, immaginando quindi figure misteriose che determinano la vita e che possono essere evocate o allontanate con azioni magiche. Questo è possibile soltanto in uno stato di ebbrezza, in cui una forte emozione prende il sopravvento sulla volontà e sul pensiero. Ogni danza è e produce estasi, quello straniamento fondamentale per entrare in contatto con le divinità. Di fronte a questi atteggiamenti si leverà una forte critica a partire dall’epoca romana, proseguendo nel Medioevo e fino all’Ottocento: il movimento del corpo disarmonico e senza scopi leciti verrà considerato un qualcosa da censurare. Tornando a Sachs, egli dice che l’idea dello straniamento attraverso il movimento del corpo è qualcosa che ha molto a che fare con la figura fondamentale del buffone, del giullare, o meglio ancora del performer. La follia sacra dà vita a danze non solo cultuali e mistiche, ma anche burlesche; ciò ci porta ad individuare quegli elementi figurativi che poi saranno determinati per la nascita del professionismo e delle arti figurative. Il giullare è un personaggio fuori dalla realtà, che fa da tramite tra il mondo reale e quello sovrannaturale (che non è solo il paradiso, ma piuttosto un aldilà inteso come mondo degli inferi). Nell’immagine che abbiamo visto notiamo delle figure animalesche, che adottano una postura molto diversa da quella dell’uomo e che indica una distorsione, uno straniamento, un avvicinamento ad una realtà diversa dalla società del tempo. LA DANZA NELLA SOCIETA’ GRECA Per la società greca lo spettacolo era considerato esclusivamente in funzione dell’educazione del cittadino. Era stabilito in tempi e momenti ben precisi, in cui i cittadini si spostavano fuori dalle città verso i teatri (i teatri infatti erano edificati fuori dalle città, in paesaggi naturali). Lo spettacolo era un qualcosa di occasionale, che avveniva poche volte durante l’anno e solo in occasione di determinanti eventi come ad esempio dei riti verso le divinità. Il teatro era concepito come educazione del cittadino, che si acquisiva grazie alla catarsi, cioè la sensazione di svuotamento e di purificazione dalle passioni che avviene proprio attraverso il godimento e la visione dello spettacolo. Per quanto riguarda la danza, per i greci rappresentava una delle attività più importanti per la coesione della società e per lo sviluppo dell’individuo. Essa, insieme a musica e ginnastica, era considerata parte integrante dell’educazione dei giovani e della loro preparazione alla guerra. In Grecia la danza veniva indicata con due termini: orchesis e choros. Il primo ha un significato molto ampio e comprende varie attività basate su movimenti ritmicamente ordinati; si riferiva per lo più ai balli di coppia o solistici, quasi esclusivamente realizzati da danzatori professionisti. Il choros invece indica una pratica collettiva, e quindi molto più diffusa; in particolare si riferisce a un tipo di danza eseguita in cerchio chiuso o in fila, con le donne separate dagli uomini e ancora oggi usata nei balli tradizionali greci. La danza era legata al canto e alla poesia, tanto che inizialmente il termine musiké non comprendeva solo la musica, ma anche la poesia e la danza. Quest’idea dell’unione delle tre arti verrà ripresa anche nei secoli successivi. In Grecia la danza ha anche un potere mimetico, nel senso che può rappresentare i caratteri, le passioni e le azioni (come dice Aristotele). Per farlo si serve degli schèmata, ovvero unità espressive che possono coinvolgere sia tutto il corpo sia alcune LA DANZA ROMANA LA DANZA DEGLI ETRUSCHI A Roma la danza è definita come saltatio, e rispetto all’importanza che essa assume nella cultura greca, non è concepita come un fattore culturale rilevante quantomeno nei primi tempi. Questo al contrario di uno dei popoli italici più importanti come gli etruschi, che furono molto influenzati dai greci e davano molta importanza alla danza e alla musica, così come alle rappresentazioni teatrali, relazionandole a vari aspetti della vita privata e sociale. La danza era variegata e molto raffinata, e poteva essere di tipo guerrescho (pirrica), conviviale (matrimoni e funerali) e cultuale (danze dionisiache). Quindi come vediamo, generi molto simili a quelli dei greci. A darci testimonianza della pratica della danza nella società etrusca sono le tombe: in alcune di esse troviamo rappresentazioni di banchetti, acrobati, suonatori di cetra e di lira, oppure di danze dionisiache con satiri, silemi e menadi che fanno il corteo insieme a Dioniso con movimenti danzanti. La danza era concepita come solistica ma anche e soprattutto come gesto collettivo, sempre in riferimento alla pirrica greca. LA DANZA NELLA SOCIETA’ ROMANA La danza a Roma è definita saltatio. I romani la consideravano una pratica barbara, indegna per un uomo libero e nobile. Cicerone, nella sua Orazio pro Murena, si scaglia contro la danza dicendo che nessun uomo sobrio può danzare; ciò accade solo se si è in solitudine o impazziti. Successivamente però anche i Romani furono conquistati dai danzatori di origine greca e orientale, in particolare quest’ultima (pantomima) diventò la tipologia più apprezzata nell’età imperiale. La presenza della danza nel mondo romano cambia a seconda delle tre età storiche che la costituiscono: • Roma antica: danze collettive di uomini appartenenti a corporazioni o gruppi sociali; • Roma repubblicana: danze etrusche e greche; la danza assume un ruolo sociale e diventa “pratica di società”; • Roma imperiale: danza imitativa. Pantomima o Fabula Saltica (da saltatio, danza arcaica di tipo rurale). Le tipologie coreutiche che venivano praticate a Roma erano di due tipi: le danze guerresche (Bellicrepa, Saltatio salica, Lusus Troiae) e le danze propiziatorie (Lupercalia, Arvalia, Ambarvalia). Le prime servivano anche per allontanare gli spiriti maligni, mentre le seconde si riferivano all’idea della fecondità e del ringraziamento per il raccolto. Per quanto riguarda le danze guerresche, la Bellicrepa era una sorta di pirrica che si dice sia stata inventata da Romolo in ricordo del Ratto delle Sabine. La Saltatio salica indicava il movimento del salto, e si realizzava nelle cerimonie di apertura e chiusure delle guerre. Il Lusus Troie, solitamente eseguito nel campo di Marte, era una danza guerresca a cui partecipavano tre schieramenti di giovani guerrieri armati e che imitava la battaglia con le armi. Per quanto riguarda le danze propiziatorie, la Lupercalia era una festa di purificazione e fecondazione eseguita nel mese di febbraio. L’Arvalia si svolgeva invece nel periodo di maggio e durava per qualche giorno; in questa festa si facevano dei sacrifici alle divinità agresti. Infine l’Ambarvalia era sempre celebrata dai sacerdoti ed era la cerimonia ufficiale di purificazione dei campi che si teneva a fine maggio. LE FORME TEATRALI PRIMITIVE E LA DANZA IN ETA’ REPUBBLICANA Tra le forme teatrali più primitive dell’età romana ci sono la sàtura, la fabula atellana, i fescennini e gli spettacoli di mimi etruschi. La sàtura era uno spettacolo popolare che comprendeva buffonerie, danze, canti e dialoghi. La fabula atellana era basata sull’improvvisazione di attori dilettanti che utilizzavano delle maschere fisse. I fescennini erano una tipologia spettacolare più grossolana e lasciva, basata su scambi di battute veloci e molto elementari. Negli spettacoli di mimi etruschi, infine, venivano chiamati questi professionisti etruschi a Roma per realizzare le danze. Tra le fonti che ci riportano alla pratica dei mimi etruschi a Roma c’è quella di Tito Livio, che ci parla appunto di mimi etruschi che danzavano al suono della tibia e che furono chiamati a esibirsi a Roma. Dalla pratica dei mimi etruschi si sviluppò un tipo di spettacolo nel quale gli istrioni si dedicavano a delle rappresentazioni quasi tutti basate sulla gestualità e accompagnate da musica. A partire dal secondo secolo a.C., con la conquista della Grecia e della Magna Grecia, la società romana cominciò a instaurare rapporti sempre più forti con la cultura ellenica. Questo permise anche uno sviluppo del raffinamento del gusto dei romani. Molti attori, musicisti e mimi greci e orientali iniziarono a esibirsi ma soprattutto a impartire lezioni di musica e danza ai fanciulli delle famiglie più in vista della città. Ben presto dunque i romani, soprattutto i patrizi, cominciarono a interessarsi molto alla danza. Lo sviluppo delle scuole in cui essa si insegnava divenne molto ampio, tanto che nelle scuole tradizionali romane si cominciò ad avere preoccupazione per questo interesse sempre più ampio nei confronti della danza. Contrario a tutto ciò era Scipione l’Emiliano, che si batteva per la chiusura delle scuole di danza perché secondo lui traviavano il comportamento dei giovani. La misura restrittiva di Scipione l’Emiliano si rivelò però inutile, perché ormai la musica e la danza di origine greca si erano diffuse in maniera irreversibile nella società. Esse cominciarono allora ad essere praticate anche dalle matrone romane nelle famiglie nobili. LA DANZA RAPPRESENTATIVA: IL MIMO E LA PANTOMIMA NELL’ETA’ IMPERIALE Il gusto romano era quasi esclusivamente riversato verso le pratiche del mimo e della pantomima, introdotta intorno al 22 a.C. dai mimi orientali Pilade e Batillo, che furono tra i pochi istrioni che godettero di importanti privilegi come la protezione delle famiglie più importanti di Roma. Quando essi arrivarono a Roma diventarono degli idoli per il pubblico, che si divise tra chi preferiva l’uno e chi l’altro con scontri anche abbastanza accesi. Per risolvere la questione i due decisero di dedicarsi a due repertori diversi: Pilade a quello tragico e Batillo a quello comico. In questo modo il pubblico poteva godere di entrambi, senza doversi schierare. Nella pantomima, a differenza del mimo, l’attore si può togliere la maschera e fa tutto utilizzando soltanto i gesti, mimando tutto. Egli era da solo sulla scena, si dava da solo il ritmo con gli strumenti, e raccontava scene tratte dalla tragedia e dalla commedia classica. Molto della sua rappresentazione era demandato dalla mimica facciale, ed è questo il motivo per cui il pantomimo si toglie la maschera. Un’altra pratica che aiutava molto l’attore nell’efficacia della rappresentazione era quella della cheironomia, cioè l’uso della gestualità espressiva delle mani e quindi degli arti superiori. Il pantomimo interpretava tutti i ruoli, inscenando solitamente delle storie in cui intervenivano diversi personaggi da egli stesso interpretati anche con cambi di vesti. Per cambiarsi di abito e passare da un ruolo all’altro c’erano degli interludi musicali che potessero dargli il tempo per farlo. Molto spesso c’erano dei commenti cantati o recitati affidati a un interprete o a un coro esterno. Il pantomimo si dedicava a mimare e illustrare la vicenda che magari era stata prima sintetizzata dal coro. Erano presenti solitamente anche dei musicisti che suonavano strumenti a fiato o a corde, oppure a percussione che davano il tempo scenico all’attore. Quindi riassumendo: nel mimo la rappresentazione era affidata non solo alle parole ma anche alla gestica, alla recitazione corporea e alla danza accompagnata dalla musica. Tipica del mimo la presenza della maschera. Nella pantomima invece abbiamo un solo danzatore, che recita esclusivamente attraverso la danza e i gesti simbolici, legati al movimento delle mani e all’espressione del volto (da qui la differenza con il mimo, ovvero la non presenza della maschera). LA DANZA CULTUALE: I BACCANALI E I MISTERI I baccanali erano una tipologia performativa nella quale la danza aveva un ruolo fondamentale. In essi si celebravano danzando i misteri dionisiaci, quindi il culto del dio Dioniso che nella cultura romana prende il nome di Bacco (da qui il termine baccanale). All’inizio i baccanali si tenevano tre volte all’anno, e venivano eseguiti da delle matrone romane con atteggiamenti molto sobri. Poco dopo però il rito degenerò in processioni e orge notturne in cui erano presenti sia uomini che donne, e cominciò a essere eseguito più volte all’anno e al mese, diventando una pratica piuttosto ricorrente e perdendo il suo carattere pratico a favore di quello popolare. Come vediamo dalle fonti che ci tramandano la pratica dei baccanali (bassorilievi), essi venivano concepiti come una sorta di processione nella quale si alternavano uomini e donne, con atteggiamenti molto lascivi e mirati ad immedesimarsi nell’ebbrezza che il dio Bacco ispirava. Erano cortei a cadenza coreutica, che si sviluppavano secondo movimenti di danza astratta e disarmonica, riprendendo molto le caratteristiche delle danze astratte primitive che appunto servivano a raggiungere un contatto con la divinità. Anche qui troviamo la testa piegata all’indietro e, dal punto di vista estetico, folte chiome libere come capigliatura. LA DANZA RAPPRESENTATIVA: LE ACCUSE DEI TRADIZIONALISTI Esisteva un gruppo di tradizionalisti appartenenti per lo più alla classe senatoria che accusava i danzatori di essere eccessivamente effemminati e licenziosi e di corrompere i costumi tipici della cultura romana. Ricordiamoci che la pantomima è un genere assimilato da una cultura barbara, quella orientale, e i romani erano spesso contrari a tutto ciò che era straniero. Uno dei più celebri accusatori della pantomima fu Tacito, il quale diceva addirittura che gli attori erano diventati più eloquenti degli oratori, che erano una delle categorie più importanti della società romana. A partire dal secondo secolo d.C. si scatenò quindi un feroce dibattito. La summa di queste idee contrastanti l’abbiamo nel trattato di Luciano di Samosada, un filosofo sofista, intitolato De Saltatione. In esso si cerca di sostenere la legittimità di quest’arte rappresentativa che è la danza. Questo trattato è di fatto un dialogo tra un sostenitore della danza, Licinio, e un detrattore (Cratone), anche se poi di fatto diventa un monologo del primo. In un passo fondamentale, Luciano di Samosata fa il paragone tra l’eloquenza dell’oratore, che è di tipo orale, e quella del danzatore, che invece si affida al gesto. La danza viene considerata un’arte nobile al pari dell’oratoria, capace di far “sentire” anche ai sordi. I punti fondamentali dell’opera: Cratone porta avanti la teoria critica, dicendo che gli spettacoli pantomimici erano effemminati e scostumati, non all’altezza del teatro letterario alto come quello della tragedia. Secondo Cratone il pantomimo porta chi lo pratica ad un uso del corpo illegittimo, al di fuori delle norme, e priva lo spettatore della propria libertà. Licinio risponde dicendo che la danza ha un’origine divina, figlia della danza antica (orchesi greca) e quindi in quanto tale nobile. Dopodiché enumera le tante virtù del pantomimo, che sono le stesse dell’oratore: la memoria (ricordarsi i gesti della rappresentazione), la chiarezza (ogni azione rappresentata deve essere eloquente e comprensibile anche senza narratore esterno), e soprattutto l’altissimo grado del valore dell’interpretazione. L’attore deve essere perfettamente a conoscenza della letteratura, del mito, della cristianità la danza era considerata pratica lecita anche all’interno delle chiese, utile per avvicinarsi alle divinità attraverso la gioia dello spirito. Come abbiamo visto però, col tempo le cose cambiano e la Chiesa comincia a condannare la danza in quanto si era iniziato ad eseguirla attraverso un uso non consono del corpo. Non c’era più la gioiosità del movimento che avvicinava a Dio, a favore invece di un uso improprio del corpo che portò la Chiesa ad ostracizzare la danza (anche in senso monumentale, ovvero non si poteva più ballare dentro le chiese). Cacciata dalla chiesa, la danza si rifugia dunque all’esterno: sul sagrato, ad esempio, sebbene anche questa fosse una pratica non ben vista dalla Chiesa visto che era il luogo dove passavano i fedeli per entrare nella casa di Dio. Tutte le critiche che abbiamo visto precedentemente si scagliarono in particolare contro le donne che danzavano. Ma quale era il repertorio di mosse degli istrioni medievali? Mostrare la lingua, fare smorfie con la bocca, inarcare le sopracciglia, ribaltare gli occhi nelle orbite, sono tutti elementi di una tecnica cinesica usata dal giullare per trasformare il volto in una maschera capace di subire rapide metamorfosi. Il tutto per indurre il pubblico a ridere, subendo quindi una sorta di catarsi. La Chiesa riteneva pericolosa la visione di questi spettacoli perché capaci di farci vedere le cose senza però la mediazione dell’intelletto, che viene estorto da una visione dell’occhio che stimola invece la nostra emotività. Altri movimenti tipici erano i ribaltamenti del corpo, mettendo sopra ciò che sta sotto e viceversa, sempre nell’ambito di movimenti irregolare e acrobatici. Di questa categoria facevano parte le tecniche del ponte e della verticale. Il giullare era sempre accompagnato dalla musica, eseguita da strumenti o percussione. Possiamo dunque dire che il giullare era un danzatore, perché faceva tutto con il corpo e con i gesti. I balli del giullare potevano essere solistici oppure comuni, processionali o a cerchio, che coinvolgevano gli spettatori. Con tutto questo, in poche parole, il giullare sconvolgeva il Codice civile della società in cui operava, ribaltandone i canoni ma anche stimolando la riflessione su quanto essi fossero giusti. Gli spettacoli dei giullari, tra il XII e XIII secolo, cominciarono ad includere anche una dimensione drammaturgica con il giullare che cominciava a porre in scena dei caratteri differenziali, accompagnando l’azione con una gestualità precisa per ogni categoria umana rappresentata. Questo provocò la nascita di una micro- drammaturgia, che poi si sviluppò particolarmente soprattutto in Francia. Tra queste rappresentazioni abbiamo le ballate, composizioni poetico-musicale al ritmo delle quali veniva eseguita una semplice danza pantomimica. Il contenuto del testo era quindi tradotto in gesti dal giullare, che spesso interpretava più personaggi. Oltre alle ballate c’erano anche altre composizioni come i rondò, composizioni musicali monotiche che prevedevano dei ritornelli, con balli cantati eseguiti in coro (tipologia del cerchio). Un’altra forma coreutica importante era la càrola, che significava “danzare in cerchio”. LE DANZE DI ISTERIA Si tratta di danze che si riallacciano direttamente alla pratica coreutica primitiva, propiziatorie e astratte, che vengono recuperate nel Medioevo dopo che erano state soppiantate dalla danza rappresentativa nel mondo greco e romano. Oltre che occasioni di divertimento e incontro, la danza era anche espressione di fervore mistico per il popolo, in un’epoca caratterizzata da una forte inquietudine sociale. Si creavano lunghi cortei di vecchi, giovani, donne e uomini che percorrevano le strade danzando convulsamente e contagiando con il loro movimento straniante gli spettatori che assistevano. Queste danze furono poi definite “di isteria religiosa” e comprendevano il ballo di San Vito e il ballo di San Giovanni. Sempre nello stesso periodo si sviluppò anche il tarantismo, una danza che durava ininterrottamente per giorni e giorni e che serviva per espellere tutto il veleno se si veniva morsi da una taranta. Questo rituale affondava le sue radici in un passato antico, primitivo, e intendeva la danza come rito purificatorio e terapeutico. Il ballo della taranta veniva indicato nelle fonti più tarde con il nome di Tarantella. L’iconografia definisce questa danza come di carattere ossessivo, che terminava con lo sfinimento come segno di avvenuta purificazione. Interessante a questo proposito la testimonianza di Giraldo Cambrense nel suo “Itinerarium Cambriae”, che durante i suoi viaggi ebbe modo di assistere a queste danze. Egli parla di uomini e donne che si gettano a terra restando immobili, poi saltano su come presi da furore e imitano i lavori proibiti nei giorni festivi; infine essi entrano nella chiesa e portano offerte all’altare, risvegliandosi stupefatti e ritornando in sé. Nell’XI e XII sono sempre più frequenti le testimonianze di uomini e donne che, presi da un impulso irresistibile, si mettevano a danzare nelle chiese o nei cimiteri, fino a che non si fermavano in uno stato di incoscienza per poi svegliarsi senza ricordarsi niente di ciò che era loro successo. Un genere particolare che può essere associato a ciò è la danza macabra, in riferimento appunto alla tomba e all’ambiente del cimitero. Si tratta di un ballo isterico a tutti gli effetti, che aveva come tema fondamentale quello della morte. Il messaggio della danza macabra è che la morte è un qualcosa di incombente che prima o poi spetta a tutti, senza fare distinzione di situazione sociale. In una civiltà in cui le disparità sono enormi, la morte è l’unico elemento democratico. Le danze macabre venivano eseguite in modo processionale, con l’alternanza dei protagonisti della vita sociale quotidiana (quindi tutte le classi sociali) e dei giullari, che rappresentavano la morte. I primi avevano movimenti sobri e armonici, mentre i secondi assumevano posture disarmoniche. IL REPERTORIO DELLA DANZA MEDIEVALE Caròla: è una danza citata anche da Dante nella Divina Commedia e da Boccaccio nel Decameron. E’ una danza in cerchio in cui si alternano liberamente le forme del circolo e della catena: l’uno si può aprire e trasformarsi nell’altra, che si intreccia e prima o poi si chiede. Farandola: è una danza collettiva in fila o processionale, con uno schema molto semplice. C’è un passo base spesso saltellato in cui il capofila sceglie i cambi di direzione determinando serpentine e intrecci. La Farandola è una danza dedicata ai riti agrari propiziatori. Virelai (Virelè): è una danza che si diffonde nella Francia del nord e poi viene esportata in Italia e Spagna. Si basa su una struttura musicale molto semplice e può essere sia di ambito sacro che profano. E’ una danza generalmente di corteggiamento, ballata a coppia. Ma come canto sacro e forma di ballo per il tripudio dei fedeli è più probabile una configurazione in cerchio. Estampie/estampida: danza lenta e strascicata, in cui si batte il piede sugli accenti ritmici. Rispetto alla carola, essa si caratterizza per essere più propriamente una forma musicale strumentale. Saltarello: danza di carattere vivace, praticata sia a livello popolare che nobiliare. E’ eseguita a coppie accompagnata dal ritmo deciso del tamburello e della viella, antico strumento ad arco usato da trovadori e menestrelli. LE FONTI DELLA DANZA MEDIEVALE Codice italiano conservato a Londra: è una delle fonti manoscritte più importanti della musica italiana del Trecento. Contiene numerosi brani dei compositori dell’ars nova italiana. Tra i 123 pezzi che contiene ce ne sono 15 finalizzati alla danza. Robertsbridge Codex: è un altro codice conservato a Londra, manoscritto risalente alla metà del 1300 che contiene le Cronache della abbazia di Robertsbridge. Tra esse troviamo sei composizioni che sono arrangiamenti per tastiera di organo a voce, scritte per essere dedicate alla danza. Chansonnier du Roi (Canzoniere del Re): conservato alla biblioteca nazionale di Parigi, raccoglie oltre 600 canti di cui alcuni scritti da trovatori e trovieri celebri, molti altri anonimi. Tra essi troviamo 11 estampie, 8 delle quali con l’appellativo Real (le altre 3 senza titolo). Ogni Estampie Real era chiamata con il rispettivo numero ordinale (Prima, Seconda, Terza ecc…). LA LEGITTIMAZIONE DELLA DANZA DA PARTE DELLA CHIESA A partire dal XII-XIII-XIV secolo si assiste a un progressivo processo di legittimazione del performer. Alcuni autori come Ugo da San Vittore, che prima lo criticava in toto, comincia ad operare delle distinzioni gerarchiche che riqualificano sia culturalmente che socialmente gli attori e il loro mestiere. Tale pensiero culminerà nelle concezioni di san Tommaso d’Aquino, uno dei capisaldi della Chiesa, e soprattutto di san Bonaventura: entrambi riqualificano l’arte coreutica, con il secondo che opera addirittura una legittimazione totale (pur sottostando a determinati vincoli). La riqualificazione della danza passa soprattutto attraverso la pratica degli ordini mendicanti, che sono fondamentali per aiutare la Chiesa a riappropriarsi dell’attenzione del fedele. Questi ordini metteranno al servizio dell’educazione religiosa dei fedeli l’uso eloquente del gesto e della rappresentazione. Vediamo dunque il pensiero di san Bonaventura. Egli diceva che lo spettacolo di danza non era cattivo in sé, ma diventava cattivo per quattro cause: il modo, quando esso è lascivo; il fine, quando esso è quello di provocare libidine; il tempo, cioè quando si pratica la danza nei momenti considerati “di tristezza” dalla Chiesa (per esempio la quaresima); la persona, cioè quando la danza non viene praticata da un religioso. Se la danza va al di là di queste condizioni, allora è ammissibile. Questa ultima frase fu straordinariamente innovativa, e permise all’eloquenza del gesto di diventare uno dei mezzi fondamentali per richiamare l’attenzione dei fedeli. I giullari non si limitavano ad eseguire danze e balli all’interno delle chiese, ma diventavano loro stessi un membro della comunità, svestendosi degli abiti profani e trasformandosi secondo una precisa codificazione che rispettasse le leggi della Chiesa. Un’altra citazione importante è quella di Ruggero Bacone. Egli spiega come l’efficacia retorica della nuova predicazione consiste non solo nella bellezza delle parole, ma anche nelle emozioni, nei gesti, nelle movenze ritmiche del corpo atte a raggiungere la santità dalla dottrina. Questa gestualità addirittura, secondo Bacone, può commuovere il pubblico anche fino alle lacrime. L’emozione è difficile da ottenere attraverso la parola, mentre ci si riesce se alle parole si affianca un gesto, un movimento del corpo, un’espressione del volto. Si ritorna dunque alla catarsi, e al concetto di teatralità e spettacolo che avevano i greci: per raggiungere la catarsi c’è bisogno di vedere qualcosa, e di conseguenza il gesto e la rappresentazione erano gli unici modi per ottenere la completa attenzione e il totale coinvolgimento dello spettatore. LA DANZA DI CORTE NEL BASSO MEDIEVO La danza va man mano acquisendo un valore sociale, e anche una rinnovata veste spettacolare nell’ambito delle occasioni che si riferiscono a momenti importanti della famiglia nobile (come ad esempio nascite, matrimoni, accoglienza di ospiti illustri). Lo spettacolo diventa la scansione del tempo del principe, e in particolare viene utilizzata appunto la danza perché è una pratica che comprende il coinvolgimento degli invitati, senza limitarsi all’osservazione. Al centro di tali occasioni Domenico da Piacenza, “De arte saltandi et choreas ducendi”: è un trattato in forma manoscritta (visto che ancora la stampa non è stata inventata) che circola in pochi esemplari tra i membri della corte. Domenico da Piacenza visse e operò a lungo presso la corte estense di Ferrara, motivo per cui è chiamato anche Domenico da Ferrara. In questa corte, tra il 1441 e il 1455 ideò e scrisse il suo trattato. Il titolo in latino serve per dare l’idea di una cultura alta e per riprendere i termini antichi della danza, il tutto sempre al fine di legittimare la disciplina. Il riferimento è alla saltatio dei romani e al choreas dei greci. Il trattato si presenta come una speculazione filosofica. Guglielmo Ebreo da Pesaro, “De pratica seu arte tripudii”: questo maestro, come capiamo dal nome, inizialmente era ebreo e poi si convertì al Cristianesimo cambiando il nome in Giovanni Ambrosiano. Era un allievo di Domenico da Piacenza e come lui titola in latino la sua opera, che poi invece (come la precedente) è scritta in lingua volgare. L’opera tratta la pratica della danza come un’arte, supportata da un pensiero filosofico. “Tripudium” è un altro termine con cui ci si riferiva alla danza nella latinità. Questo trattato contiene l’unica iconografia diretta della danza nel Quattrocento. Antonio Cornazzano, “Libro sull’arte del danzare”: questo personaggio non era un maestro, bensì un funzionario degli Sforza di Milano. Nel 1455-65 ca. egli decise di fare un compendio dei due trattati precedenti per spiegarne i contenuti in maniera più semplice ed immediata, al fine di insegnarli alla figlia del capofamiglia degli Sforza. Questo trattato è molto importante per noi, in primis perché conferma quanto fosse importante la danza nelle corti e di quanto rappresentasse, prima ancora che un divertimento, un codice di comportamento (il nobile doveva avere l’arte del danzare tra le sue caratteristiche peculiari). Seconda di poi, il fatto che Cornazzano decida di semplificare i trattati dei suoi predecessori aiuta anche noi a comprenderli più facilmente, specialmente in alcuni passi particolarmente “oscuri”. La nuova posizione assunta all’interno delle corti spinge i maestri a rendere la danza una disciplina di alto livello, oltre che a dover ribattere le sempre presenti accuse della Chiesa. I primi due trattati sono concepiti in due parti: la prima è una trattazione filosofica dell’arte della danza, in cui si descrive la danza come una pratica spirituale, necessaria all’educazione del nobile. La danza deve essere riconosciuta come un’arte al pari delle altre arti liberali. La seconda parte dei trattati si basa invece sulla descrizione di alcuni balli, eseguiti anche nelle corti in cui i due maestri lavoravano. Non ci aspettiamo però di trovare spiegazioni di come eseguire la danza, perché tutto è limitato a una descrizione discorsiva del ballo focalizzata al massimo sul modo in cui le coppie si dovevano posizionare nello spazio. Non si trovano spiegazioni specifiche perché siamo comunque in un momento in cui il maestro si sta ancora inserendo nella corte; sebbene egli ne sia un elemento importante, il suo ruolo non è ancora stato legittimato e codificato in maniera formale. Domenico da Piacenza inoltre fu insignito del titolo di cavaliere, a dimostrazione di come il suo ruolo fosse diventato importante e simbolo dell’inizio della considerazione sociale del maestro di danza. Del trattato di Domenico non abbiamo una versione definitiva ma solo una bozza, come possiamo capire dall’impaginazione molto spartana. Lo si capisce anche da alcune correzioni a margine. Tutt’altra consistenza ha invece il trattato di Guglielmo Ebreo da Pesaro, che riesce a pubblicare il suo lavoro in una versione completa in tutti i suoi dettagli, in primis l’iconografia che rappresenta una fonte fondamentale per la storia della danza. NEOPLATONISMO E COREUTICA NEL QUATTROCENTO I due trattati analizzati finora si inseriscono in un determinato contesto che è quello filosofico del neoplatonismo, un recupero del pensiero platonico (dei classici) adattato alla nuova società cortese che si codifica nel Quattrocento. La riflessione filosofica e intellettuale del Quattrocento si basa principalmente sul recupero del pensiero Platonico, che invece era stato quasi del tutto accantonato nel Medioevo. Nel dipinto di Domenico Bigordi vediamo ritratti i maggiori artisti del Quattrocento: Marsilio Ficino, Girolamo Landino, Agnolo Poliziano e Gentile de’ Becchi. Il recupero del pensiero platonico ci fa capire in quale ambito si colloca la produzione dei primi maestri di danza. Vediamo quale era il contesto storico: nel 1438 si apriva il Concilio di Ferrara (spostato poi a Firenze) per trattare la riunificazione delle Chiese d’Oriente e d’Occidente. Ciò favorì l’arrivo a Firenze di intellettuali bizantini, che incentivarono la riscoperta dei classici greci, in particolare i testi di Platone. La figura determinante per la diffusione del Platonismo nel Quattrocento fu Marsilio Ficino, il quale rappresentò una figura di riferimento per tutti gli artisti che, nella Firenze dell’epoca, ruotavano intorno alla famiglia de’ Medici. Ficino tradusse e interpretò vari testi di Platone, commentando inoltre il Simposio, nel quale viene esposta quella teoria dell’amore che avrà una forte influenza sugli scrittori italiani del Rinascimento. Nel 1462 viene fondata l’accademia neoplatonica da Lorenzo il Magnifico, su idea del nonno Cosimo de’ Medici; l’accademia si poneva idealmente come erede di quella dell’antica Grecia fondata da Platone in persona. Venne donata a Marsilio Ficino la villa di Careggi per ospitarvi un cenacolo platonico. Dell’accademia facevano parte anche Pico della Mirandola, Angelo Poliziano e Cristoforo Landino. Il neoplatonismo riprende il pensiero di Platone integrato da altri elementi della filosofia greca e interpretato alla luce di parametri introdotti da Plotino e successori. L’idea era quella di onorare Dio attraverso la bellezza del creato, praticando le arti liberali. L’universo platonico era caratterizzato infatti dall’armonia tra le parti, data dalla proporzione tra di esse. In questo contesto si inserisce quindi perfettamente il concetto del recupero dell’attività coreutica come mezzo attraverso cui raggiungere l’armonia divina. Un elemento utile per capire il concetto di armonia del movimento è il patrimonio iconografico che lo rappresenta, al cui interno troviamo le opere di Sandro Botticelli in particolare “La nascita di Venere” e “La Primavera”. I due quadri furono eseguiti per Francesco de’ Medici e ambedue servivano a decorare la villa di Castello. La descrizione che ne dà Vasari è quella di due opere dipendenti l’una dall’altra che dovevano essere viste e concepite insieme. “La nascita di Venere” inaugura lo stile iconografico del Rinascimento, inserendosi in una serie di allegorie profane che rimandano alla filosofia platonica. I soggetti dei quadri cominciano a essere concentrati su personaggi che appartengono alla mitologia, cosa che fino ad allora non era accaduto a favore invece di soggetti religiosi. Per questo motivo i due quadri di Botticelli vengono considerati l’inizio della cultura rinascimentale. La tela rappresenta l’arrivo della dea Venere, spinta da venti Eolo e Borea (a sinistra) sulla Terra, dove una delle ore (ninfe che personificavano le stagioni, a destra) corre a coprirla dalla sua nudità con una veste di fiori ed erbe che rappresenta la natura. Il senso profondo del dipinto risale alle teorie neoplatoniche: Venere rappresenta la bellezza spirituale, attraverso la dolcezza e la semplicità delle sue linee e la purezza della sua nudità. Il quadro è illuminato in modo molto rasserenante e armonico, la luce riempie tutto con la sua onnipotenza; la dea Venere mostra affinità con la Venere celeste di Platone, che apparteneva a una sfera immateriale e la cui bellezza apparteneva alla bellezza universale della divinità. Passiamo ora ad analizzare l’altro quadro di Botticelli, “La Primavera”. In questo caso la Venere ha un significato diverso: essa pare rappresentare la Venere volgare, intesa come naturale principio generatore della vita. A differenza della bellezza dell’altra Venere, immateriale, la bellezza di questa Venere è invece divina, che si realizza nel mondo corporeo e fa sì che noi possiamo risalire a Dio attraverso l’amore, percependolo con i sensi. Al centro del quadro si trova appunto Venere, stavolta riccamente vestita e ornata di gioielli. Sopra di lei il figlio Cupido nell’atto di scagliare una freccia intrisa d’amore. Il vento Zefiro afferra la ninfa, sulla destra, alla quale si unirà per generare l’esplosione di erbe e fiori della Primavera. A sinistra vediamo la danza delle tre Grazie (simbolo di bellezza, castità e piacere), perfetta rappresentazione della danza che veniva praticata nelle corti del Quattrocento. Nell’estremità sinistra si trova Mercurio, simbolo della ragione, facoltà esclusivamente umana che fa da tramite tra la Natura e Dio. Possiamo concludere dunque ribadendo che il neoplatonismo del Quattrocento portò all’idea di adorare Dio attraverso la bellezza per mezzo delle arti liberali, tra cui appunto anche la danza. Intima è la connessione tra etica e armonia: il corpo umano viene dipinto nella sua nudità senza intento erotico, ma per significare che l’armonia (bellezza) esteriore corrisponde a quella interiore. All’armonia ci si poteva avvicinare attraverso le sue incarnazioni terrene, date dalle arti che si fondavano sulla geometria; le danze di corte venivano quindi strutturate in maniera precisa e geometrica. In quanto sostenuta da uno scheletro matematico, geometrico, la danza fu elevata ad arte vera e propria. IL TRATTATO DI GUGLIELMO EBREO DA PESARO Analizziamo in modo approfondito il “De Pratica seu arte tripudii” di Guglielmo Ebreo da Pesaro. Nell’incipit notiamo subito la veste formale del trattato, l’accuratezza dell’impaginazione degna delle più importanti corti italiane. In carta 4 troviamo esternato l’intento e l’ispirazione neoplatonica del trattato, specificando quali sono le nuove regole da utilizzare affinché la danza venga considerata legittima. In carta 5 vengono elencate le sei regole della danza che corrispondono ai vari capitoli del trattato: misura, memoria, partire di terreno, aiere, mayniera e movimento corporeo. Capitolo I, Misura: si tratta del fatto che il danzatore deve eseguire dei passi che si adattino alla geometria del tempo musicale. Solo in questo modo la danza è legittima e quindi praticabile dal nobile. Questa teoria permette di cominciare a recuperare l’importanza della musica nella danza. Capitolo II, Memoria: qui troviamo la considerazione della danza intesa come arte liberale neoplatonica. La danza non è una pratica corporea ma dell’intelletto, e da esso deve passare affinché si possano ricordare i passi dettati dalle regole geometriche. Chi non lo fa non potrà riuscire a danzare in modo legittimo, cadendo invece in una danza ludica che non si basa sulla geometria ma sull’improvvisazione (quindi non accettata nelle corti). Capitolo III, Partire di terreno: si tratta di una regola fondamentale, che si riferisce al contesto spaziale in cui si pratica la danza. Occorre capire lo spazio in cui ci troviamo, avendone cognizione, al fine di muoverci di conseguenza e in modo sempre armonioso. Capitolo IV, Aiere: indica un atto di danzare molto leggero (idea dell’aria appunto), che non consiste nel saltare (era vietato) bensì nel muoversi leggiadramente utilizzando soprattutto gli arti inferiori per realizzare un movimento sollevato ma appunto leggiadro, dal significato spirituale. Questo modo di muoversi è fondamentale per arrivare ad un concetto di danza che possa essere legittimo e che possa sembrare a chi guarda degno di lode e armonioso. Capitolo V, Mayniera: si associa a quello dell’Aiere e ne rafforza il significato. Mayniera è il modo di danzare consono, con un’attenzione precisa non solo all’insieme della danza ma anche e soprattutto dinamici (danzatori in movimento, passi base della danza medievale) che prevedevano i seguenti passi: semplice e doppio. Sulla macrostruttura della bassa danza invece i maestri italiani seguono fedelmente il modello francese; concatenazione di tre parti (misure) che si articolano in base alle battute musicali: bassa danza, ritorno della bassa danza e infine saltarello. Per concludere il discorso sulla bassa danza, analizziamo l’attività di Lorenzo il Magnifico il quale fu autore di ben due basse danze: la bassa danza Lauro e la bassa danza Venus, che vengono riportate in tre manoscritti. Queste basse danze furono composte per un’unica coppia di danzatori, anche se niente vietava di praticarle in collettività (pur senza interazione tra le coppie). Il nome della prima bassa danza si riferisce all’autore: Lauro come corrispondente di Lorenzo e anche di alloro (simbolo della gloria). Come accennato prima, la danza italiana viene acquisita da quella francese ma in modo più libero, con una struttura meno rigida. Tutto è adattabile a discrezione del maestro di danza, il che rende la bassa danza italiana molto più fluida fino ad arrivare addirittura al saltarello. Tutto ciò in relazione alla volontà delle corti italiane, meno austere di quelle francesi (come sappiamo la danza doveva riflettere il carattere della corte). In ogni caso anche nella bassa danza italiana era richiesto un movimento contenuto, vuoi anche per le vesti ingombranti e pesanti indossate dalle dame: muovere ampiamente braccia e gambe era pressocché impossibile. D’altronde la danza era diventata parte integrante dell’essere nobile, e quindi la si eseguiva con le stesse vesti che si indossavano nella vita di corte quotidiana. I cavalieri avevano invece indumenti più attillati che permettevano una maggiore mobilità; le gambe scoperte erano simbolo di virilità, sebbene sempre in un contesto molto sobrio. Il costume è dunque il primo tassello della connotazione sociale del danzatore nobile. A proposito del comportamento delle donne nel ballo è molto interessante l’opinione di Guglielmo Ebreo, il quale dice che la dama doveva essere dolce, moderata e soave, quindi seguire ancor più dell’uomo le sei regole della danza. Il saper ben danzare, accordandosi a tutte le regole e le misure di decenza e portamento, rendono la dama nobile e la contraddistinguono da coloro che danzano a caso, senza attenersi all’ideologia neoplatonica della danza di corte. LA DANZA DI CORTE TRA ‘400 E ‘500: IL BALLO TEATRALE Ciò che era stato codificato dai maestri di danza nel 400 fu utile anche per il secolo successivo, così che diventa fondamentale trattare proprio il periodo di passaggio tra un secolo e l’altro. Ci concentriamo in particolare sulla danza teatrale, sullo spettacolo concepito come strumento di potere, di manifestazione e di propaganda della famiglia nobile. Questo concetto si stabilisce proprio nel passaggio da 400 a 500, ovvero quel periodo in cui la corte si stabilisce e comincia a prendere pieno potere in modo ufficiale. In questo contesto la danza si configura sempre di più come strumento essenziale per la corte, soprattutto nei festeggiamenti con presenza di ospiti. In questo contesto lo spettacolo, il ballo assume il significato di rappresentazione del potere. Il ballo teatrale, eseguito non in un teatro bensì in uno spazio che prevede una posizione frontale degli spettatori, assume un significato allegorico, che rappresentano il potere della corte. L’esecuzione dei balli e delle basse danze da parte di dame e cavalieri avveniva davanti agli invitati, che giudicavano le loro prestazioni e i loro abiti, assumendo quindi i caratteri di una vera e propria propaganda, di una magnificenza della corte. La festa di corte diventa quindi il momento culminante della figura del principe (per festa si intende un periodo molto lungo, fatto di eventi dentro e fuori dalla corte). Questi festeggiamenti solenni offrivano un’immagine splendida della corte e del suo potere, e avvenivano in occasione di festività come il carnevale o di rituali religiosi, oltre ovviamente a nozze, finanziamenti illustri, nascite di eredi, conquiste militari e visite di personaggi importanti (su tutti il Papa). In tutte le occasioni sopra elencate la danza assumeva il ruolo di divertimento per gli invitati, ma soprattutto di celebrazione dell’immagine del signore al fine di rafforzarne il potere. La configurazione delle danze possiamo trovarla nelle tante fonti che abbiamo, come ad esempio le lettere degli ambasciatori e dei personaggi che furono invitati nelle corti per vedere gli spettacoli. In lettere in cui si parlava di accordi politici, di battaglie e di conquiste, si trovavano anche riferimenti agli spettacoli, simbolo di come essi fossero ormai completamente compenetrati all’interno della vita delle famiglie nobili e della società. La ricchezza della corte veniva esternata attraverso la ricchezza degli abiti, la sontuosità degli allestimenti della sala e dei banchetti, cose di cui troviamo precisi riferimenti nelle lettere. Da queste fonti emerge come la danza potesse avere luogo nelle sale signorili, con il pubblico intorno che poteva rimanere in piedi o stare seduto a seconda del rango e del sesso. Le donne avevano una collocazione precisa ed erano divise dai cavalieri. Lo spettatore faceva parte dello spettacolo, e per questo la sua posizione non poteva essere lasciata al caso. Come esempio di festeggiamenti possiamo prendere quelli del 1459 per il passaggio di Papa Pio II a Firenze, con al seguito Galeazzo Maria Sforza, figlio del duca di Milano Francesco. Ci interessa particolarmente Galeazzo Maria perché ci ha tramandato delle fonti importanti per la ricostruzione di quello spettacolo. A festeggiamenti avvenuti scrisse infatti una bellissima e accurata testimonianza al padre, che è arrivata fino a noi. Da quello che sappiamo questo ballo fu eseguito su un immenso palco costruito sull’occasione, da 150 donne nobili e della ricca borghesia fiorentina, splendidamente vestite. A loro si unirono un centinaio di giovani uomini appartenenti alle principali famiglie fiorentine. Il ballo eseguito fu il saltarello. DANZE DI GENERE A USO IMITATIVO E TEATRALE Se in precedenza abbiamo analizzato il repertorio delle danze astratte, andiamo ora a vedere quello dei balli a uso imitativo e teatrale sempre all’interno delle corti del 400. Il repertorio in realtà era lo stesso, perché tutte le danze che abbiamo visto prima (bassa danza, piva, saltarello, brando) potevano essere eseguite sia a uso astratto che rappresentativo. C’erano poi delle danze che invece erano utilizzabili solo in modo imitativo, come ad esempio la Moresca. Altre danze di genere ad uso imitativo erano la Gelosia, la Mercanzia, la Sobria (queste di carattere pantomimico) e la Chiaranzana. Andiamo ad analizzare tre tipologie di ballo che vengono trattate da Domenico da Piacenza, e che riguardano tematiche amorose legate al concetto di amor cortese. Erano balli con elementi drammatici, pantomimici che, seppur molto semplici, richiedevano buone capacità di interpretazione da parte dei nobili. Questo perché tali balli rappresentavano delle situazioni di corteggiamento amoroso. I contesti drammaturgici si riferivano sempre alla disponibilità o ritrosia della dama nei confronti del cavaliere. Questi balli servivano a educare, insegnando ai cavalieri il giusto modo di corteggiare le dame. Gelosia: ballo per tre coppie. I tre cavalieri, uno dopo l’altro, all’inizio illudono la prima dama, poi civettano con la seconda rivolgendo uno sguardo eloquente al suo cavaliere. Infine attraggono la terza dama che vede dunque fuggire il suo precedente spasimante. Si tratta dunque di una concatenazione di schemi coreutici precisi che vuole fungere da esempio visivo per quelli che erano comportamenti amorosi inadeguati. Mercanzia: in questo ballo si mostrava l’amore mercenario, che non si riferisce a una dimensione spirituale bensì carnale, e che quindi non va praticato. Cornazzano riprende gli scritti di Domenico e ce li semplifica: egli dice che l’amore illegittimo è quello mercenario, ovvero quello di una dama che si intrattiene e che da considerazione in modo alternato a tre o più cavalieri (da qui il concetto di “mercanzia degli amanti”). Sobria: era l’opposto della mercanzia, e prevedeva cinque uomini e una donna. La dama qui si attiene solo a colui che per prima l’ha condotta in ballo. E’ quindi una dama sobria, completamente dedita all’amore spirituale, che non si lascia distogliere dai corteggiamenti degli altri cavalieri rimanendo fedele al suo. LA MORESCA Una trattazione a parte la merita la Moresca, danza pensata esclusivamente per l’uso imitativo. Essa era praticata da professionisti che venivano chiamati all’occorrenza dalle famiglie nobili e che realizzavano acrobazie e movimenti molto difficili rappresentati combattimenti e scontri formali. Tali movimenti erano perfetti per intrattenere la corte e i suoi ospiti. A seconda del periodo storico- culturale in cui queste danze venivano eseguite, esse acquisivano caratteristiche ideologiche diverse. Si passa dal tema più astratto della lotta tra il bene e il male (chiaro e scuro) allo scontro tra i cristiani e gli infedeli (cioè i Mori e le popolazioni orientali che insidiavano il predominio della Chiesa cristiana). Passando all’analisi della danza in sé, particolare la presenza degli oggetti di scena che servono per rappresentare il combattimento; inoltre con il loro percuotersi sono fondamentali per dettare il ritmo della danza. I movimenti di scontro si esprimono attraverso l’avvicinamento dei due schieramenti che combattono nel centro, oppure si traducono in momenti di scontri individuali a coppia. Al centro c’è il coràgo, una sorta di direttore dello scontro che detta il tempo e le regole. Ciò che era importante nella Moresca non era solo la tipologia coreutica rappresentativa, ma anche l’abbigliamento diverso per i due schieramenti. Quello dei cristiani indossava abiti dell’epoca tendenti al bianco (simbolo del bene), mentre quello dei Mori indossava abiti orientali, con trucco scuro in volto per simboleggiare la popolazione barbara e anche il male. Altro particolare dell’abbigliamento era la presenza di sognagli sotto il ginocchio o alle caviglie, che servivano per connotare in maniera esotica il danzatore e anche per dare ritmo alla danza. I danzatori tenevano in mano scudi e spade. LA DANZA NEL CINQUECENTO Tutto ciò che abbiamo trattato finora prende corpo in modo definitivo nel Cinquecento. In questo periodo, nelle corti del Rinascimento, la danza viene ufficialmente definita come l’etichetta della corte. Non è più un divertimento, ma un vero e proprio codice di appartenenza della corte, che chi ne fa parte deve conoscere. Ogni singolo membro della corte deve saper praticare la danza in modo corretto. Il corpo parla per le persone: se lo usi nel modo corretto significa che sei un nobile, in caso contrario che non lo sei. Fin dall’epoca medievale l’appartenenza alla corte presupponeva il rispetto di determinate regole di comportamento, denominate nel complesso con il termine “cortesia”. I costumi hanno subito un processo di perfezionamento nel corso del tempo, fino a generare un nuovo modo di concepire la vita del signore, in cui la spontaneità lascia posto alla regola codificata. In questo senso assumono un ruolo fondamentale i maestri di danza, che diventano i primari protagonisti di questa istruzione al comportamento nobiliare. Questo processo, come abbiamo visto, era iniziato già nelle corti italiane del 400. La danza nel 500 diventa ancora di più un evento di rappresentazione, di dimostrazione della nobiltà della famiglia, oltre che un modo per mettere in mostra le capacità atletiche dei cavalieri, sempre sia all’interno della corte che all’esterno. Anche quando la danza è praticata all’interno delle corti solo per intrattenimento, è comunque auto- rappresentativa della condizione della corte. Il ballo (e tutte le altre attività pubbliche) è codificato nel trattato di Baldassar Castiglione “Libro del cortegiano”, un’opera in forma dialogica ambientata a Urbino e utile per formare il perfetto cortigiano (una sorta di galateo). Il cortigiano deve rimanere danze: esse potevano essere eseguite in modo diverso a seconda della nazione in cui ci si trovava (viene quindi fatto il paragone tra la stessa danza in versioni diverse: italiana, francese, spagnola ecc…). Un’ultima considerazione va fatta nei confronti delle pagine finali del trattato, che contengono un indice delle regole e dei balli. Questo ci fa capire come il manuale fosse un vero e proprio strumento di consultazione, che si poteva sfogliare in modo semplice e che poteva essere utilizzato all’occorrenza, per imparare un particolare ballo, senza bisogno di leggerlo tutto. La necessità di fruire velocemente del trattato apparteneva a professionisti e autodidatti, che appunto studiavano da soli, e non ai membri della corte che invece si rifacevano esclusivamente alle lezioni private dei maestri. IL TRATTATO DI CESARE NEGRI A Milano Cesare Negri, maestro professionista, fondò un’Accademia di danza e creò un importante ballo in onore di Margherita d’Austria (di cui parla anche nel suo trattato). La sua opera rappresenta una fonte importantissima per i secoli a venire, ed ebbe talmente tanto successo che fu rieditata con delle aggiunte. Nel frontespizio (dell’edizione rivista) troviamo l’auto-presentazione dell’autore come magnifico maestro di ballo, oltre che una sorta di anteprima dei balli che troveremo nell’opera, con riferimento ancora una volta alla caratterizzazione territoriale e nazionale. Come per Caroso, anche nel trattato di Cesare Negri detto “il Trombone” troviamo un ritratto dell’autore (nell’età che aveva al momento della riedizione). L’opera è strutturata in tre parti: nella prima ci sono i nomi dei più famosi danzatori dell’epoca, oltre che i luoghi e le corti in cui l’autore ha danzato o in cui sono state eseguite le danze da lui inventate. Nella seconda parte invece troviamo le regole del “ben portare”, cioè le regole da seguire per effettuare un ballo degno della corte. Ogni regola è corredata da un’immagine che la spiega ancora meglio. Nella terza parte ci sono le partiture musicali, molte delle quali realizzate da Cesare Negri stesso. Alla fine dell’opera troviamo ancora una volta l’indice analitico, a dimostrazione di come anche questo fosse un trattato di pronta consultazione, utile all’occorrenza. IL TRATTATO DI ANTONIO ARENA Siamo di fronte a un amatore, un intenditore di danza con una grande preparazione ma che non era un vero e proprio maestro di danza come i precedenti. Il trattato, scritto in un latino contaminato dal volgare italiano e dal francese, è molto interessante a partire dal titolo “Ad suos compagnones studiantes”. In realtà questo titolo è solo la forma breve di quello completo, che è lunghissimo e che di fatto narra il passato militare di Antonio Arena. Egli scrive questo trattato per i suoi compagni nell’esercito per due motivi: il primo era per alleviare le difficoltà del vivere in trincea lontani dalla madrepatria; il secondo, quello più importante, era che imparando a danzare questi soldati potevano reinserirsi facilmente nelle regole della società civile una volta tornati in patria. Questo ci fa capire molto bene che anche lo strato sociale dei militari si dedicava alla danza, che serviva per socializzare. IL TRATTATO DI THOINOT ARBEAU Si tratta di un’altra opera molto importante, realizzata da un religioso francese che visse nei dintorni di Digione. In questo trattato Thoinot Arbeau fa riferimento alla danza classica dei greci, con il termine orchesis. Si tratta di un’opera in forma di dialogo attraverso la quale tutti possono apprendere e praticare l’esercizio delle danze. Siamo di nuovo di fronte quindi a un manuale che può servire a tutti, senza distinzione di classe sociale, al fine di imparare a ballare. Il dialogo avviene tra il maestro di danza (Arbeau) e l’allievo, secondo lo stesso schema dell’opera di Luciano di Samosada. Nell’opera sono presenti tutte le intavolature della musica, e poi sono spiegati nel dettaglio tutti i passi che devono essere fatti. Ci sono anche delle illustrazioni che esemplificano in maniera più eloquente i movimenti di determinati balli. Molto interessanti le spiegazioni di alcuni balli composti dall’autore, che si aggiungono al repertorio classico cinquecentesco. LO SPETTACOLO DEL POTERE La danza nel Cinquecento, come abbiamo già detto, si può concepire come uno spettacolo del potere. La trasposizione del potere nella scena avviene in particolar modo nella corte dei Medici, attraverso gli intermedi. L’intermedio parte dal concetto di “intromesso”, ovvero quei momenti di divertimento tra le portate dei banchetti; l’intermedio invece si inserisce tra gli atti recitati della commedia. Commedie latine o greche venivano intramezzate da intermedi cantanti, recitati e poi sempre di più danzati. La massima sperimentazione spettacolare alla corte medicea si ha nel 1589, in occasione delle nozze tra Ferdinando I e Cristina di Lorena. In particolare ci riferiamo al VI intermedio de La Pellegrina di G. Bargagli. Nessun altro evento raggiunse mai un livello così alto. Si trattava di un ballo narrativo, che nel VI intermedio chiudeva drammaturgicamente l’intero spettacolo; è la prima volta in cui la danza si fa drammaturgica, narrativa. Se non ci fosse il VI intermedio La Pellegrina non avrebbe conclusione. Un’altra corte sede di spettacoli di potere era quella degli Estensi di Ferrara, in cui venivano eseguite moresche da professionisti ma anche dai nobili stessi. Sono quattro gli eventi importanti di questa corte: 1579 arrivo a Ferrara di Margherita di Gonzaga; 1528 Carnevale, gran ballo nuovo per otto dame; 1594 Ballo armato (moresca) per dodici dame; 1597 morte di Alfonso II e ritorno a Mantova di Margherita. Questi quattro eventi mostrano perfettamente come la moresca potesse essere eseguita anche dai membri della corte, pur con caratteristiche diverse rispetto ai professionisti. La tipologia spettacolare eseguita alla corte di Ferrara negli anni dal 1571 al 1594 era quella di un ballo rappresentativo delegato all’esecuzione della regina (duchessa) e delle sue dame. Dunque una tipologia spettacolare esclusivamente femminile, che negli anni si sviluppa anche con grande dispendio economico. Questo ballo prendeva il nome di “ballo delle dame” o “ballo della duchessa”. L’evento che gli diede inizio fu quello sopra citato dell’arrivo a Ferrara di Margherita Gonzaga nel 1579. Le coreografie di questi eventi erano concepite per un gruppo danzante di otto o dodici danzatrici, quindi tutte dame appartenenti alla corte della duchessa. L’ESPORTAZIONE DEL MODELLO FIORENTINO IN EUROPA: IL BALLET DE COUR FRANCESE Il modello del ballo spettacolare fiorentino è stato esportato anche in altre corti europee, come ad esempio quella francese e quella inglese che andremo ora ad analizzare. In Francia la tipologia coreutica era quella del ballet de cour, una tipologia spettacolare ibrida che presenta sia una grossa parte recitata, sia una parte cantata e strumentale, sia una parte danzata (preminente). A fissare le caratteristiche fondamentali del ballet de cour fu il coreografo Baltazarini. Il ballet de cour ha avuto diverse evoluzioni nel corso della sua storia: inizialmente si chiamava ballet comique, con il re e la sua corte che mettevano in scena delle rappresentazioni di tipo mitologico (sull’esempio della versione italiana). Poi prese il nome di ballet-mascarade, che aveva invece una trama più esile. Un terzo tipo era il ballet melodramatique, che presentava un livello poetico più alto e che voleva ispirarsi a un ballo eseguito alla corte di Mantova. Ultimo tipo è il ballet a entrée, che aveva una maggiore autonomia delle varie scene e un’intonazione satirica e burlesca dei suoi soggetti. Il ballet de cour ebbe una battuta d’arresto alla morte di Luigi XIII, per poi riprendersi dopo il 1650 grazie ai testi poetici di Benserade e all’arte di Lully, che trionfò come ballerino nei più celebri ballet de cour del periodo. Soffermiamoci su una delle più famose esecuzioni del ballet de court, ovvero quello del 1581 eseguito a Parigi e denominato Ballet Comique de la Renne. Si tratta del primo balletto di corte francese a presentare delle caratteristiche codificate e quindi a essere interpretato come il primo ballet de cour omogeneamente definito. L’omogeneità di questo balletto è data dal fatto che possedeva un unico regista, il coreografo Baltazarini (i ballet precedenti apparivano invece molto frammentari perché composti da spezzoni curati ognuno da un regista diverso). Nella prima scena, grazie all’iconografia, vediamo la presenza di un coreografo al centro della corte, e di fronte a lui gli ospiti e i membri della corte tra cui Caterina de’ Medici vestita in abiti vedovili. Le varie entrée avevano ognuna un tema diverso, come ad esempio quello marino, quello musicale o quello allegorico. Al termine delle entrée veniva eseguito un ballo conclusivo. L’ESPORTAZIONE DEL MODELLO FIORENTINO IN EUROPA: IL MASQUE INGLESE Questo ballo veniva eseguito presso la corte inglese degli Stuart e si basava sul masque, una tipologia coreutica tipica della tradizione britannica. La versione che si codifica nella corte degli Stuart è fortemente influenzata dal modello fiorentino. Dall’inizio del regno degli Stuart, con l’espressione Queen’s Masques si va ad indicare lo spettacolo che ogni anno, nella notte dell’Epifania, veniva rappresentato a corte a cura proprio della regina. Ogni anno dal 1604 fino al 1611 Anna di Danimarca (regina e moglie di Giacomo I) allestiva questo spettacolo di corte che era l’evento più atteso dell’intero calendario festivo. Tra i vari balli realizzati in questo periodo, analizziamo il secondo, quello del 1605, intitolato The Masque of Blackness. L’allestimento è curato da Inigo Jones, il testo da Ben Jonson e la musica da Antonio Ferrabosco. Il masque ha una struttura ibrida, e anche se i rappresentanti della corte sono sempre presenti sulla scena, è tassativamente proibito loro di parlare. A parlare sono solo gli attori protagonisti, che agiscono in scena insieme a loro. Un altro elemento molto importante di questo ballo è la scenografia, molto ricca soprattutto dal punto di vista dei costumi. Addirittura per il suo primo masque Anna di Danimarca chiese di utilizzare come vestiti di scena gli abiti della regina precedente. Tornando al caso particolare del The Masque of Blackness, ne abbiamo uno schizzo che rappresenta proprio Anna di Danimarca. Essa si presenta in scena con il volto, le braccia e le mani dipinte di nero, scelta molto audace per l’epoca perché il nero rappresentava gli infedeli, i barbari, quindi qualcosa di minaccioso. Con questa scelta la regina voleva dare un messaggio di propaganda a tutte le corti europee, mostrando come a soli due anni di insediamento sul trono d’Inghilterra la dinastia Stuart fosse già diventata un punto di riferimento per tutta l’Europa. Anna rappresenta una figlia del Niger che desidera recarsi alla corte degli Stuart per essere purificata. Purificazione che avviene nel masque successivo, The masque of Beauty del 1606, con le figlie del Niger che arrivano alla corte inglese e al cospetto di Giacomo I ricevono questa illuminazione che le trasforma da scure a chiare. Le facce e le mani dipinte di nero furono una visione talmente triste per gli spettatori che li mise di malumore, e addirittura non permise loro di riconoscere la regina e le sue cortigiane (lo sappiamo dalle corrispondenze degli ospiti). LA DANZA NEL SETTECENTO Il 700, cosiddetto secolo illuminato, è un periodo in cui si rimette in discussione la codificazione di tutte le arti e in particolare le scienze. Andremo quindi a vedere cosa fanno gli esperti del settore per risollevare la danza come arte performativa, che possa essere ammirata ma che allo stesso tempo abbia una funzione educativa che serva all’intelletto per ampliare le sue conoscenze. L’Illuminismo ripensa in modo intellettuale tutte le arti, perché esse devono essere, oltre che piacevoli alla vista, anche utili all’intelletto; quando questo non succede e l’arte rimane solo un mezzo di godimento estetico, allora arrivano le critiche. Il 700 è il secolo delle riforme, e anche la danza ne ha bisogno. Gli illuministi sostenevano che se la danza non riesce a togliere tutti i difetti che noi abbiamo dalla nascita, essa può comunque servire per limitarli o nasconderli. Vediamo quale era la situazione della danza alla fine del 600, poco prima quindi del periodo illuminista: era in voga l’operà-ballet, una sorta di opera teatrale dove la danza, insieme alla musica e al canto, prendeva il sopravvento ai danni della componente drammaturgica. L’operà-ballet era di fatto una successione di entrée di ballo, l’una scollegata dall’altro, senza un tema conduttore e senza una trama comune. Dal punto di vista estetico e del divertimento questi spettacoli ebbero un grande successo. Questo genere, avendo puramente uno scopo estetico, fu aspramente criticato dagli Illuministi con l’eccezione del “Lesindes Galantes”. Il pubblico comunque apprezzava molto l’operà-ballet, tanto che nel 1708 fu eseguito per la prima volta uno spettacolo del genere aperto al pubblico comune (non solo alla corte e ai nobili). Gli Illuministi storcevano il naso di fronte al fatto che la massa popolare apprezzasse uno spettacolo così meramente estetico, senza alcun fine se non quello di provocare piacere. Vediamo dunque quali sono i problemi e le critiche fondamentali degli Illuministi, che stanno poi alla base della necessità di una riforma. A mortificare i valori espressivi della danza, che già erano abbastanza limitati, erano anche i costumi che non erano di tipo coreutico ma di uso quotidiano. Questi costumi, che di fatto costumi non erano, impacciavano molto i movimenti dei danzatori impedendo la riproduzione sulla scena di quelle caratteristiche coreutiche che erano state frutto di lunghi insegnamenti. Un’altra critica degli Illuministi riguardava l’accademismo puro, che sconfinò in eccessi divistici e persino rivalità tra opposte fazioni (un po’ come successe con Pilade e Batillo, ma stavolta con la Camargò e la Sallè). All’inizio del 700, pian piano, si comincia a praticare l’uso della corsa e dei piccoli e grandi salti, al posto dei passi scivolati e strascicati dei secoli precedenti; questa nuova maniera prende il nome di danse haute (danza alta) per distinguerla dalla bassa danza. Si diffonde la tendenza verso un’espressione più drammatica del balletto, verso un’eliminazione dell’eloquenza orale per tornare ad esprimere il significato solo attraverso i movimenti. MARIE-ANNE DE CUPIS DE CAMARGO’ Cominciò la sua carriera a Bruxelles, città natale, e debuttò all’Opéra di Parigi in uno spettacolo in cui ebbe la possibilità di mettere in mostra le sue grandi capacità atletiche. Era una brillante solista, che riusciva a compiere delle mosse atletiche incredibili, al punto da riuscire a portare sulla scena un passo che apparteneva al repertorio maschile (un salto in cui si batte la parte alta delle gambe per quattro volte in elevazione). Fu la prima ad usare una gonna più corta e delle scarpe senza tacco, che le permettessero di muoversi con maggiore disinvoltura. MARIE SALLE’ Si tratta dell’antagonista della Camargò. Le rivalità non nascevano direttamente dai protagonisti, ma venivano create dal pubblico che si divideva in fazioni sostenendo l’una o l’altra. La Sallè è importantissima perché è stata la prima danzatrice coreografa, quindi la prima donna a comporsi le coreografie da sola. Infranse la tradizione della danza nobile francese, ballando a capelli sciolti e indossando abiti molto leggeri. La Sallè era una danzatrice molto abile nella tecnica, ma si concentrò maggiormente sull’espressività del movimento, sul portare un significato sulla scena. La Sallè si ritirò dalle scene pubbliche nel 1740, continuando però ad esibirsi per molti anni all’interno delle corti. I RIFORMATORI DELLA DANZA: HILVERDING, ANGIOLINI E NOVERRE Come abbiamo detto il 700 rappresenta un punto di svolta fondamentale per tutte le arti, e necessita quindi di essere analizzato in modo specifico perché determina tutto ciò che poi è arrivato ai giorni nostri. Alcuni coreografi realizzano delle sperimentazioni e delle riflessioni che si svolgono in poli geografici ben precisi. Tra essi la corte di Vienna, dove operano Franz Anton Hilverding, l’italiano Gasparo Angiolini e il francese Jean-Georges Noverre. Il primo riformatore che prendiamo in considerazione è Hilverding, personaggio molto importante seppur poco studiato dai teorici. Hilverding è un danzatore e coreografo austriaco, che lavora appunto per la maggior parte della sua vita alla corte viennese, mentre nella seconda parte di carriera lavora in Russia. Hilverding credeva che le qualità spirituali potessero essere rappresentate dal gesto; la danza non era quindi solo rappresentativa delle gesta acrobatiche, ma anche trasmettitrice degli stati d’animo e delle caratteristiche psicologiche dei personaggi. Si ritorna dunque al concetto antico della danza, che provocava catarsi nello spettatore, quindi la danza pantomima. La danza poteva essere una disciplina intellettuale e psicologica, caratteristiche che secondo gli Illuministi erano mancate nei secoli precedenti. Invitato alla corte russa della zarina Elisabetta, Hilverding creò insieme al drammaturgo Sumarokov il primo balletto “di uomini e donne russe”, perfettamente integrato nel clima culturale e storico della Russia del tempo. Hilverding credeva nel grande potere rappresentativo della danza, e sosteneva dunque che essa poteva essere usata non solo per rappresentare il mito, ma anche la storia contemporanea e patriottica. Gasparo Angiolini fu un allievo di Hilverding, sebbene fu comunque un personaggio che “si fece da sé”, essendo cresciuto in un contesto familiare di grandissime capacità artistiche. Nel 1754 raggiunge l’apice della sua vita artistica, quando viene assunto come maestro di ballo presso la corte di Vienna dallo stesso Hilverding, che aveva bisogno di essere sostituito visto che sarebbe andato in Russia e non ebbe dubbi nello scegliere il suo allievo prediletto. A Vienna Angiolini incontra Gluck, grandissimo compositore del periodo, e Ranieri de’ Calzabigi, poeta italiano. Questi tre personaggi creano un campo di azione comune: l’opera in musica, che Gluck voleva riformare, aveva le stesse problematiche della danza, che invece era nell’interesse di Angiolini. Il ruolo dei cantanti, il loro virtuosismo, stava diventando dominante rispetto alla vicenda rappresentata. Bisognava dunque correre ai ripari e Gluck stava facendo proprio questo. In questo contesto nel 1761 viene messo in scena il primo balletto della riforma di Angiolini, il primo balletto pantomimico in uno dei più importanti teatri di Vienna. In questo spettacolo la danza la fa da protagonista, recuperando la sua piena capacità narrativa come negli antichi; non ci sono dunque né cantanti né narratori, perché la danza basta da sé. La dissertazione premessa al programma del ballo fu accolta come il nuovo manifesto della danza riformata. In questo manifesto Angiolini chiarisce diverse cose, dicendo ad esempio che la danza ha finalmente recuperato la sua potenzialità drammaturgica, epurando il virtuosismo eccessivo nella rappresentazione. Per questo si torna a parlare di pantomima, seppur molto più accentuata rispetto a quella degli antichi. I danzatori di Angiolini tolgono la maschera, perché è al volto che viene delegata la maggiore potenzialità della rappresentatività del gesto coreutico. Il virtuosismo viene quasi tolto del tutto, ed usato solo nei momenti in cui bisogna fare un approfondimento psicologico su un personaggio. I movimenti della pantomima devono essere sobri, chiari e comprensibili, esattamente come il canto dell’opera in musica. Possiamo dunque dire che la pantomima è paragonabile all’opera in musica: quando si deve rappresentare psicologicamente un personaggio, nella prima entra in gioco il virtuosismo mentre nella seconda entra in gioco la grande capacità di canto dell’attore (quasi incomprensibile, ma che trasmette emozione). Altro anno fondamentale è il 1762, in cui viene rappresentato “Orfeo ed Euridice”, prima opera della riforma di Gluck e di cui Angiolini crea le coreografie. Siamo nella seconda fase della riforma della danza, che ci fa capire come la danza dovesse essere recuperata in modo adeguato anche all’interno dell’opera in musica. Essa deve essere di tipo drammaturgico, quindi non si deve distaccare dal senso e dalla trama dell’opera. Tra le danze di “Orfeo ed Euridice” c’è quella degli spiriti beati che rappresenta un momento importantissimo, perfettamente integrato con la vicenda, senza la quale l’opera mancherebbe di una parte fondamentale. Questo a dimostrazione di come la danza stessa fosse narrazione. Tra il 1761 e il 1762 si ha quindi il totale recupero della danza. Altro momento importante p il 1765, ancora sull’asse della collaborazione tra Gluck e Angiolini; i due producono il balletto “Semiranis”. In occasione di questo ballo Angiolini fa una dissertazione in cui ribadisce ancora una volta che la sua riforma si basa sulla pantomima degli antichi. Tra il 1766 e il 1772 Angiolini va in Russia per sostituire di nuovo Hilverding, che fa il percorso opposto tornando a Vienna a fine carriera. Angiolini stupisce la corte russa con le sue grandi creazioni, in particolare la “Didone abbandonata”, un ballo eroico in tre atti su libretto di Metastasio. Nel 1772 Angiolini torna a Milano e ci rimane fino al 1775, periodo in cui si svolge la famigerata querelle tra Angiolini e Noverre, con le “Lettere di G. A. a Monsieur Noverre sopra i balli pantomimi”, documenti importantissimi per capire il pensiero di Angiolini sulla coreutica e sulla rappresentazione. La querelle è originata dal fatto che a un certo punto della sua carriera Noverre scrive delle lettere sulla danza in cui ha la malaugurata idea di dichiararsi come l’inventore della danza pantomima, e quindi come padre della rivoluzione pantomima. Tutto ciò ovviamente scaturisce la rabbia di Angiolini, che decide di rispondere (per nostra fortuna) con le lettere suddette che per noi rappresentano un patrimonio straordinario. Angiolini si sente in dovere di scrivere queste lettere per difendere il suo maestro Hilderving, per dire che è stato lui l’inventore della riforma pantomima e non certo Noverre. Andiamo quindi a trattare nello specifico la storia di Jean-Georges Noverre. Nonostante la storiografia francese lo abbia fatto passare in modo negativo per via delle lettere di cui abbiamo parlato prima, Noverre ha fatto anche tante cose buone nel corso della sua carriera. Noverre nasce come danzatore non troppo dotato, tanto che ben presto smette di ballare e si dedica alla coreografia. Dimostra di essere un grandissimo compositore coreutico, attivo inizialmente in maniera saltuaria tra varie corti europee. Finalmente nel 1964 si conferma come coreografo nell’organizzazione del famoso balletto “Les fetes chinoises” all’Opéra Comique. Il balletto fu apprezzato in particolare dall’attore David Garrick, che addirittura definì Noverre lo Shakespeare della danza. Tra i due nasce un sodalizio e un’amicizia, e si terranno in contatto con delle lettere straordinarie che sono arrivate fino a noi. A Londra Noverre concepisce le lettere di cui abbiamo balletto ha un’ambientazione gotica, molto scura, quasi surreale, tipica del Romanticismo (ritorno alle atmosfere oscure medievale). Dall’iconografia di questo balletto notiamo come a un certo punto entrano in scena delle figure bianche (le monache) che creano un forte contrasto con l’ambientazione invece molto scura. Le monache sono guidate dalla badessa Helena, che esegue in scena una danza leggera, aerea, sulla nuova e sperimentale tecnica delle punte. L’idea che viene trasmessa è quella della donna aerosa (vedi Guglielmo Ebreo) che si innalza in una postura totalmente innaturale, con anche l’abbigliamento bianco che la fa sembrare uno spirito che viene dall’aldilà. Tutto ciò sconvolse gli spettatori, che rimasero estasiati dall’ambientazione e dalle capacità tecniche e acrobatiche di Maria Taglioni. Lo stesso protagonista, che era in scena, rimase sconvolto e suggerì a Filippo Taglioni di creare un balletto autonomo basato proprio su questa tipologia coreutica realizzata dalla figlia. Una delle più belle iconografie del “balletto delle monache” è quella di Edgar Degas, che fu uno degli spettatori del balletto. MARIA TAGLIONI E IL PRIMO BALLETTO ROMANTICO FRANCESE: “LA SYLPHIDE” Andiamo quindi a vedere quella che è stata la storia di Maria Taglioni, che ebbe un’infanzia difficile a causa del fatto che il padre la sottopose ad allenamenti durissimi fin da piccola. Da sempre essa aveva sperimentato la tecnica delle punte, arrivando ad utilizzarla in modo perfetto tanto che fu considerata come la creatrice di questa tecnica. Furono tante le ballerine che provarono ad eguagliare le capacità tecniche ed espressive della Taglioni, diventandone delle vere e proprie antagoniste; d’altronde eravamo nel periodo delle grandi dive, delle grandi ballerine che diventano il punto di riferimento della pratica coreutica. Maria Taglioni incarnava la bellezza spirituale, la donna eterea, un’entità sovrannaturale che si muove con una leggiadria che la pone in una posizione di elevazione rispetto al contesto in cui si esprime (in primo luogo il teatro). Tornando al discorso che facevamo prima, quindi alla richiesta di creare uno spettacolo interamente dedicato al balletto di Maria Taglioni, Filippo Taglioni creò nel 1832 “La Sylphide”, che può essere considerato il primo balletto romantico francese. La struttura della Sylphide, e quindi del balletto romantico, è quella di un balletto in due atti che hanno caratteristiche completamente diverse: il primo si riferisce ad un’ambientazione realistica, riferita alla vita quotidiana e con colori molto vivaci; il secondo invece si riferisce ad un’ambientazione sovrannaturale, solitamente in un contesto onirico o in un luogo scuro, con pochissime luci e pochissimi colori se non il bianco e il nero che contrastano tra di loro. Altra innovazione parziale era il fatto che la Taglioni usava la tecnica delle punte per tutto il secondo atto, indossando una scarpa da ballo perfezionata ad hoc. La Sylphide introduce anche un nuovo costume di scena, il tutù, ideato da Eugène Lami per Marie Sallé e modificato poi proprio per la Taglioni. Il tutù era un costume espressivo, parte integrante del personaggio femminile, che concorreva a creare l’essenza del personaggio etereo e sovrannaturale grazie ai lunghi veli che, quando la ballerina ricadeva dopo un salto, davano l’effetto della leggerezza. Oltre a tutto ciò che abbiamo appena detto, si usava anche un’illuminazione a gas in scena, così che anche la luce veniva usata in modo drammaturgico (ad esempio per illuminare la ballerina in un determinato modo e momento). L’unico neo della Sylphide è la mancanza di una partitura originale: ciò significa che non era stata realizzata una musica apposita per questo ballo, ma erano state prese delle musiche già esistenti che erano state adattate alle scene. “GISELLE” Se La Sylphide viene considerato il primo balletto romantico francese in assoluto, “Giselle” è invece quello che rappresenta il classico per eccellenza, che verrà rappresentato più di tutti nei tempi a venire. Si tratta di un balletto pantomimo in due atti, in cui avviene un pieno recupero del virtuosismo espressivo. Giselle è rappresentato nella stessa serata in cui viene rappresentata l’opera in musica di Rossina “Mosè in Egitto”, quindi non possiede ancora una serata esclusivamente dedicata. La prima rappresentazione avvenne nel 1841 all’Operà di Parigi. L’autore del libretto è Gautier, il quale è anche il vero e proprio inventore del balletto, mentre la coreografia è di Jules Perrot. Gautier riflette molto su ciò che mancava nella Sylphide, al fine di realizzare un balletto tutto suo (nonostante fossero altri e ben più illustri i generi di cui solitamente si occupava) anche per via dell’amore che provava nei confronti di una danzatrice molto giovane e brava che operava in quel periodo. Nel suo lavoro Gautier si ispira alle vicende nordiche, in particolare alla storia delle Villi, creature mitologiche della tradizione tedesca: esse erano di fatto delle giovani donne che amavano ballare e che morivano improvvisamente spesso a causa di delusioni d’amore. Tuttavia, una volta morte, non trovano pace nell’aldilà ma rimangono in un limbo che ogni notte le spinge ad attirare gli uomini che le hanno deluse o tradite all’interno di una foresta, dove li spingono a ballare allo sfinimento fino a farli morire. Il primo ostacolo che Gautier trovò fu quello che l’Operà di Parigi non accettava un balletto curato da un coreografo che non era quello ufficiale dell’Operà, ovvero Corallì (e come abbiamo visto il coreografo di questo balletto era Perrot). Gautier però non demorde e si mette d’accordo con Perrot facendo in modo che nelle scritture ufficiali comparisse il nome di Corallì nel ruolo di coreografo. In verità Perrot si occupò delle parti soliste, compiendo un lavoro impegnativo e straordinario, mentre Corallì mise mano solo alle parti d’insieme. La danzatrice per il quale era stato pensato il balletto della Giselle era Carlotta Grisi (compagna di Perrot). Nonostante tutto questo gran lavoro, Gautier capisce che manca ancora una cosa fondamentale, la stessa che mancava nella Sylphide: una musica apposita. Si arriva quindi alla completa e definitiva comprensione di quello che Angiolini aveva detto un secolo prima. Gautier si affida dunque a Adolphe Adam, che realizza una musica appositamente pensata per Giselle. Quella di Adam è un’operazione straordinaria: egli si rende conto che per dare la possibilità alla danza di essere ancora più drammaturgica, è necessario che la musica diventi un commento alla vicenda, che possa bastare anche da sola per far capire allo spettatore cosa sta succedendo. Nella Giselle si fa infatti largo uso del cosiddetto leitmotiv, ovvero il “motivo conduttore”; un esempio è il motivo dell’amore che ricorre in maniera drammaturgica tra il primo e il secondo atto e che Giselle utilizza nella famosa scena della pazzia. Vediamo in sintesi la trama dell’opera: Giselle è una giovane fanciulla che vive in campagna con la madre, la quale gestisce una locanda. Questa ragazza ama ballare, ma avendo una saluta precaria deve stare attenta a praticare la danza con troppo entusiasmo. Giselle si innamora poi di un giovane, che ricambia il sentimento ma non le dice di essere un principe del posto già promesso sposo ad una donna nobile. Nel frattempo c’è anche l’intrusione di un altro personaggio maschile, dello stesso livello sociale di Giselle e anch’esso innamorato di lei, quindi geloso del principe. Un giorno alla locanda arriva la donna promessa sposa del principe per rifocillarsi dopo una passeggiata nel bosco. Il principe, sconvolto, tenta di non farsi scoprire ma viene smascherato dal concorrente che rivela tutto a Giselle. Di fronte alla sconvolgente verità Giselle perde il senno (scena della pazzia) e comincia a ballare in un moto forsennato che la porta alla morte tra le braccia della madre. Il principe rischia il linciaggio da parte della famiglia di Giselle e di tutto il popolo, così che è costretto a fuggire con lo strazio nel cuore perché si rende conto di essere stato la causa della morte della sua amata. La scena della pazzia è senz’altro quella più pantomimica, perché Giselle mima tutti i bei momenti passati con il principe. I costumi sono colorati, la luce viene utilizzata per rappresentare il sole in scena. Completamente diverso, come da “regolamento”, il secondo atto che invece presenta una ambientazione scura e tenebrosa: vediamo la tomba di Giselle, dove il povero principe si reca per commemorarla. Siamo all’interno della foresta incantata delle Villi, che realizzano un coro condotto dalla loro regina con l’intenzione di uccidere il giovane principe, in quanto causa della morte di Giselle. Giselle quindi si palesa al suo innamorato, in un momento di grande emozione in cui la ragazza si oppone all’uccisione di lui da parte delle Villi. Il suo sacrificio salva il principe e le permette di trovare la pace, abbandonando il coro delle Villi; è questa l’unica consolazione del principe, che invece non potrà mai liberarsi del dolore e del rammarico per la morte della sua amata. Giselle è quindi l’apoteosi del Romanticismo, sotto tutti i punti di vista. La complessità di questo balletto, oltre a quello che abbiamo detto finora, è proprio il ruolo della protagonista. Esso è molto sviluppato dal punto di vista psicologico, il che presuppone una capacità espressiva e attoriale molto elevata da parte della ballerina. Inoltre essa si trova a rappresentare due personaggi completamente diversi: la Giselle del primo atto è emotiva, vitale, che realizza una danza molto virtuosistica, mentre quella del secondo atto è una creatura sovrannaturale, eterea, che soffre e deve trasmettere questo sentimento attraverso un virtuosismo non eccessivo, ma che si contiene in movimenti aerei, sospesi, trattenuti. Il momento di passaggio da una versione all’altra della protagonista Giselle è proprio la scena della pazzia. La difficoltà della rappresentazione e la straordinaria bravura di Carlotta Grisi ne segnò il definitivo successo e la consacrazione come ballerina per tutti i secoli a venire. AUGUSTE BOURNOUNVILLE Dopo Giselle, all’Operà di Parigi si susseguono tantissimi balletti ad esso ispirati e interpretati dalle più importanti ballerine dell’epoca, che prendono come punto di riferimento Maria Taglioni. Parigi rimane dunque il fulcro del balletto romantico e chi si dedica a questa pratica deve sottostare alle rigide norme dell’Accademia di danza. Uno dei paletti più difficili da rispettare era la totale prevalenza del personaggio femminile, con la conseguente inconsistenza di quello maschile. Tra i ballerini e coreografi che più di tutti trovarono difficoltà ad attarsi a queste norme c’è Auguste Bournounville. Egli vinse una borsa di studio all’età di 15 anni per perfezionare la sua arte a Parigi. Dopo un periodo in Francia, tornò in patria (Danimarca) dove succedette il padre alla guida del Balletto Reale Danese. Bournounville si oppose alle regole dell’Accademia di Parigi, attribuendo al ballerino (e quindi alla danza maschile) la stessa importanza della ballerina. Dopo aver assistito alla Sylphide, egli vorrebbe riproporla in Danimarca ma l’Operà di Parigi chiedeva una cifra troppo alta per i diritti. Bournounville decise allora di ispirarsi alla Sylphide, ma creando qualcosa di nuovo: la coreografia della “Sylphide di Bournounville” è molto importante perché è stata usata anche nei secoli successivi, contribuendo alla caratterizzazione della scuola danese come luogo di formazione di grandi interpreti maschili (che invece erano denigrati dall’Operà di Parigi). Quello che Bournounville porta in Danimarca è uno stile francese puro, adattato alle necessità del posto; ad esempio i palcoscenici erano molto piccoli, e questo lo portò a sviluppare al massimo il veloce lavoro dei piedi e l’elevazione. I lavori di Bournounville sono caratterizzati da cambi di direzione frequenti, rapidi e improvvisi e da salti in verticale. Altra differenza con lo stile francese è che in Danimarca si tende a preferire l’uso della mezza punta, che spesso supera quello della punta. principe Desirée, colui che risveglierà Aurora (e l’intera corte che si era addormentata insieme a lei) con il bacio del vero amore. Viene quindi mostrata la Fata dei Lillà che fa apparire al principe la visione di Aurora, convincendola ad andare da lei e baciarla. L’effetto è molto bello perché Aurora agisce in scena nelle vesti di una visione, perché in realtà lei sarebbe addormentata. Il terzo atto è sicuramente quello più lussuoso e magnificente dal punto di vista della scenografia. Abbiamo infatti l’annullamento del maleficio con il bacio del principe e il lieto fine con il matrimonio tra Desirée e Aurora, che si svolge nella Reggia di Versailles sempre in omaggio a Luigi XIV. Molto bello il fatto che, ad omaggiare il matrimonio, ci sia una sfilata dei personaggi di tutte le fiabe di Perrault e di altri famosi autori. Nell’apoteosi viene presentato, discendente dalle nuvole, il dio del Sole che altro non è che la rievocazione di Luigi XIV nella sua prima apparizione come Re Sole nel Ballet Royal de la Nuit. Concentriamoci sul personaggio della Fata dei Lillà, importantissimo per la storia e che nella prima rappresentazione è interpretato da Marie Petipa, figlia di Marius. Questo personaggio viene desunto dalla tradizione russa, quindi non dalle fiabe di Perrault; secondo i russi, infatti, il Lillà era il fiore della saggezza. In effetti la Fata dei Lillà, vestita come la dea della saggezza Atena, è fin dall’inizio il personaggio che porta equilibrio tra il bene e il male, e quello che riesce ad evitare il peggio portando al lieto fine. Considerazioni finali sul balletto “La bella addormentata”: ebbe un successo straordinario, sia per la coreografia di Petipa che per la colonna sonora di Chaikovski. Tra i due vi era un rapporto molto solido che portò risultati stupefacenti, e che rientra nei grandi incontri tra artisti che hanno caratterizzato la storia della danza. LO SCHIACCIANOCI Passiamo alla seconda collaborazione tra Petipa e Chaikovski, che è anche la terza e ultima creazione di Chaikovksi per il balletto (la musica per il “Ballo dei cigni”, che vedremo dopo, era stata infatti realizzata precedentemente per il balletto di un altro coreografo che non era Petipa). Lo Schiaccianoci viene rappresentato nel 1892 al teatro Marijnksy, ancora una volta nel periodo natalizio. La trama è tratta dal racconto di Hoffmann “Schiaccianoci e il re dei topi”. Questo balletto nasce sulla scia dell’enorme successo de “La bella addormentata”, con Petipa che commissiona a Chaikovski la realizzazione di una musica per un balletto in due atti. Nel frattempo il compositore viaggia molto per lavoro e, proprio quando dovrebbe presentare la musica, sua sorella muore e quindi chiede una proroga per la consegna. Sopraggiungono dunque dei problemi con la trama, che risulta essere troppo complessa e di difficile realizzazione dal punto di vista coreutico. Ne deriva un balletto in due atti dove non c’è un legame tra la parte realistica e quella fantasiosa, e soprattutto dove ci sono veramente dei gravi problemi di resa drammaturgica. Il primo atto è molto carico di azione e di personaggi, che per lo più sono bambini; inoltre c’è tutta la vicenda dello schiaccianoci che di notte si sveglia e ingaggia un combattimento con il re dei topi, riuscendo a sconfiggerlo e a portare la giovane fanciulla Clara nel mondo dei dolci e delle fate. Il problema che si riscontra nel primo atto è appunto questo repentino passaggio dalle atmosfere della notte di Natale a quelle del regno incantato, che non hanno alcun collegamento tra di loro. Il secondo atto invece è completamente statico, privo di storie da raccontare se non le esibizioni dei personaggi del mondo delle fate davanti a Clara che assiste estasiata. Tutto ciò porta inevitabilmente ad uno scarso successo, quantomeno per il pubblico del tempo. Oltre a questo bisogna considerare anche che i protagonisti di questo balletto sono dei bambini della scuola di ballo, che quindi non possono realizzare coreografie troppo complesse. Altro problema l’assenza di protagonisti veri e propri, di un primo ballerino e di una prima ballerina sostanziosi e di effetto. Oltre a tutti questi problemi ne accade un altro: durante la composizione della coreografia, anche Petita viene colpito da un lutto familiare (la figlia quindicenne muore di cancro). Petita stesso si ammala gravemente per la disperazione, il che lo porta a dovere interrompere la realizzazione dello Schiaccianoci per oltre un anno. A questo punto il lavoro passa in mano al collega Ivanov, mentre il secondo meitre diventa Cecchetti. Non abbiamo notizia certa della partecipazione attiva di Petita alla conclusione della realizzazione della coreografia, anche se comunque le parti più importanti li aveva già finiti prima della tragedia familiare. IL LAGO DEI CIGNI Si tratta della terza collaborazione tra Petita e Chaikovski, nella versione 1895. Come abbiamo accennato prima, la musica del Lago dei cigni fu composta da Chaikovski una ventina di anni prima per una produzione che non era di Petita ma di Raizenger (ai tempi era la sua prima partitura per un balletto). Tuttavia questa prima versione del Lago dei Cigni (1877) non aveva avuto fortuna, anche a causa del coreografo Raizenger che non seppe nemmeno scegliere in modo corretto i ballerini. Dopo questo fiasco, come abbiamo visto la situazione cambiò grazie al successo della Bella Addormentata e all’esperienza dello Schiaccianoci. Petipa capì che la partitura del Lago dei Cigni era in realtà straordinaria, e decise di “riesumarla”. L’accordo venne raggiunto, ma purtroppo Chaikovski morì proprio nel momento in cui Petipa aveva cominciato a lavorare alla coreografia. Si decise di portare comunque avanti al lavoro, anche per dare un omaggio a Chaikovski; alcune piccole modifiche necessarie alla musica furono realizzate da Riccardo Drigo sotto l’attenta supervisione del fratello di Chaikovski. La coreografia viene composta da Petipa per il I e III atto, e da Ivanov per il II e IV. Rispetto alla versione di Raizenger viene cambiato il finale. Il ruolo della ballerina venne affidato alla giovane Pierina Legnani, che recitava nel doppio ruolo di Odette e Odile (la seconda è la versione malvagia della prima, quindi fisicamente uguali ma con caratteristiche diverse). Petipa decide di fondere i due personaggi, facendoli interpretare dalla stessa ballerina, proprio perché rappresentavano i due poli opposti della stessa personalità. Si tratta quindi di un ruolo molto difficile, simile se vogliamo a quello di Giselle, e diventa un banco di prova importante per la ballerina Pierina Legnani. Per quanto riguarda il cambiamento del finale, il motivo fu che non si voleva dare un finale tragico come nella versione originale (morte di Odette con trionfo del male) bensì un lieto fine, vista la situazione della morte di Chaikovski. Drigo cambia dunque i due minuti finali della partitura, facendo sì che i due amanti decidono di suicidarsi per continuare a stare insieme nella morte. Questo porta alla distruzione della maledizione, così che i due tornano in vita e Odette si libera della sua parte malvagia. Per quanto riguarda il pubblico occidentale, fu ancora una volta Nurayev a restituirgli la versione originale con finale tragico (che oggi però non viene quasi mai rappresentata). La musica del balletto oggi è diventata una sinfonia, tanto che spesso viene eseguita da sola al di fuori di tutto lo spettacolo. LA DANZA NEL NOVECENTO Nel Novecento abbiamo la cesura della danza libera e l’accademismo dei Ballet Russes. Ciò significa che la danza si trova in una situazione in cui si crea una divergenza: il balletto romantico, unica tipologia di danza teatrale esistente, persiste nella sua tradizione (anche se il massimo livello lo aveva raggiunto nell’Ottocento con Petipa e i suoi successori). Si comincia però a sentire una necessità di rinnovamento artistico, stimolata dalla riflessione di Delsarte nella sua “Estetica applicata”. Il balletto romantico di fine Ottocento e inizio Novecento si era inserito in un concetto di Neoclassicismo che si rifaceva alla danza accademica di Petipa, ma cercava nuove influenze derivanti dalla riflessione ottocentesca. Con la riflessione di Delsarte avviene invece la rottura totale dell’accademismo e la nascita del nuovo concetto di danza chiamato “danza libera”. La danza libera si codificherà poi nella modern dance, con le pioniere Fuller, Duncan e St. Denis. Dalla fine dell’Ottocento in poi, dunque, la danza libera e l’accademismo dei Ballets Russes viaggiano in parallelo, talvolta anche incontrandosi. FRANCOIS DELSARTE Era un filosofo, insegnante, mancato musicista che si rivelò fondamentale nella riflessione sulle arti del Novecento, provocando la divisione della danza in due filoni: uno di totale distacco dall’accademismo e l’altro relativo ai Ballets Russes. Delsarte era un ottimo cantante d’opera, ma un problema vocale lo portò a interrompere quel tipo di carriera. Egli era sicuro che la causa della sua afonia fosse il cattivo insegnamento ricevuto in conservatorio, interamente basato sulla convenzione e sull’artificio. Si dedicò dunque allo studio e all’elaborazione di un suo metodo di insegnamento, che poi trasmise ai suoi allievi. Il suo stile di recitazione intendeva collegare le emozioni espresse in scena da attori e cantanti a un preciso codice di gesti, movimenti ed espressioni che egli aveva messo a punto a partire dalle proprie osservazioni dell’interazione sociale tra le persone. Alla base del suo complesso sistema pedagogico, denominato “estetica applicata”, stava la convinzione che a ogni umana disposizione interiore corrispondesse una modalità espressiva esteriore secondo una vera e propria “legge di corrispondenza”. Secondo Delsarte, ogni parte del corpo umano corrispondeva a qualcosa: capo → intelletto, tronco → emozioni, arti → fisico. Questa riflessione di Delsarte portò alla necessità di ritrovare l’unione tra interiorità ed esteriorità, con conseguente eliminazione degli artifici accademici e di tutto ciò che potesse impedire questa corrispondenza. Vennero abolite tutte le posizioni rigide che non erano naturali dell’essere umano, oltre che tutti gli accessori come i costumi (tutù) e le scarpe da punte, con conseguente liberazione del corpo e del piede che tornò ad essere nudo. Vediamo dunque come viene recepita l’estetica applicata di Delsarte, precisando che lui non si occupa mai strettamente di danza ma sono i suoi allievi ad applicare i suoi dettami a questa disciplina. Tra gli allievi uno dei più importanti è Steele MacKaye, che applica l’estetica di Delsarte alla danza e la trasferisce negli Stati Uniti denominandola “Delsarte System”. Il secondo step è quello in cui MacKaye e l’allieva Stebbins definiscono un nuovo metodo di insegnamento coreutico, denominato ginnastica armonica, che mette al centro il principio delsartiano della corrispondenza tra moto interiore ed espressione esteriore. Il terzo step è la riflessione della Stebbins, che codifica le leggi di corrispondenza che vengono desunte dalla filosofia di Delsarte. Corrispondenza tra interiorità ed esteriorità vuol dire che il corpo, inteso come entità unitaria, viene riportato al centro dell’indagine coreutica; viene reintrodotto il concetto di fonte del movimento, che indica quella zona del corpo da cui viene emanato ogni gesto. Per la Stebbins quella zona è il diaframma, ma altri MARTHA GRAHAM Arriviamo dunque alla danzatrice che viene considerata universalmente come la madre della modern dance americana. Essa ha una vita molto longeva e con la sua arte attraversa quasi un secolo di storia, facendosi interprete dei cambiamenti nel corso del tempo e accogliendo con grande entusiasmo tutte le novità. Martha Graham si forma a Los Angeles nella scuola di St. Denis, per poi trasferirsi nel 1923 a New York, dove balla in una delle più importanti compagnie statunitensi. In questa grande metropoli la Graham comincia a impartire lezioni di danza in modo autonomo, secondo una tecnica originale e un proprio metodo da lei elaborato. Attraverso il lavoro quotidiano con gli allievi sviluppa un nuovo linguaggio che parte da un presupposto fondamentale che aveva accomunato le pioniere della modern dance, ovvero la liberazione del corpo. Su questo aspetto la Graham fa un lavoro straordinario, concentrandosi in particolare sul rapporto tra il corpo e la veste, che deriva direttamente dall’ispirazione avuta dalla Fuller. Nelle immagini della Graham, in effetti, si notano vari rimandi alla Fuller con la veste che diventa parte integrante del corpo, una sua amplificazione, che non lo impedisce ma lo esalta. La danza della Graham scaturisce dai ritmi vitali della respirazione, del battito cardiaco, della contrazione e rilassamento di ogni movimento corporale. La sua è una danza anti-descrittiva, perché comunque rappresenta la pulsione interiore dell’essere umano ma lo fa eliminando ogni forma di pantomima. Il corpo non si usa per rappresentare delle vicende, bensì per trasmettere le emozioni interiori. Ogni azione, secondo la Graham, ha una sua precisa motivazione. Nel 1926 la Graham crea la sua prima coreografia, e l’anno successivo fonda una scuola con il suo nome, che ancora oggi esiste a New York e forma straordinari danzatori. Nel 1930 realizza la straordinaria coreografia “Lamentation”, in cui la veste diventa parte integrante del corpo danzante, che sembra coprirla ma in realtà le dà emanazione. I capolavori della Graham sono tantissimi, e da “Lamentation” in poi è un susseguirsi di successi. Alla fine degli anni Sessanta la Graham abbandona le scene, ma rimane comunque un’icona intramontabile del settore, restando in contatto con i danzatori e gli artisti formatisi nella sua scuola. La sua autobiografia del 1991 ha influenzato fortemente gli esponenti della generazione successivi, che si sono formati nella sua scuola. I BALLETS RUSSES DI SERGEJ DIAGHILEV Si tratta di un artista eclettico che crea una compagnia di ballo, i ballets russes, al fine di esportare in Europa la tradizione coreutica russa. I Ballets Russes, dunque, non sono altro che un metodo di propaganda ideata da Diaghilev e dai suoi collaboratori. Da grande impresario e conoscitore delle dinamiche della produzione spettacolare, Diaghilev inventa dunque questa compagnia composta da ballerini russi e guidata da coreografi russi. Questa compagnia viene creata appositamente per “vivere” al di fuori della Russia, con puro fine propagandistico e di diffusione del modello coreutico russo. I protagonisti di questa avventura son proprio i coreografi della compagnia, che adesso andremo ad analizzare nel dettaglio: MICHAIL FOKIN: l’interesse di Diaghilev si rivolge molto presto all’arte della danza, così che affida a Fokin le coreografie di tutta una stagione di balletti di scena a Parigi. Fokin si era formato presso la scuola dei balli imperiali, affiancando alla sua attività di ballerino fin da subito anche quella di insegnante e coreografo. Fokin sostiene l’idea di un balletto classico riformato, e ne abbiamo testimonianza in un’intervista rilasciata al quotidiano Times. Fokin è dunque l’autore della prima stagione francese dei ballets russes, per la quale produce balletti straordinari tra cui “Il principe Igor”. Fokin si inserisce pienamente nell’idea del balletto romantico come rivelazione di un mondo esotico (Petipa) e il successo dei suoi balletti spinge Diaghilev di selezionarlo anche per la stagione successiva all’Operà di Parigi. Grande successo di questa stagione sarà “Sherazade”. VASLAV NIJINSKIJ: autore di straordinarie coreografie che rappresentano il fondamento della produzione coreutica del Novecento. I Ballets Russes sono diventati ormai una compagnia indipendente dai teatri imperiali, riscuotendo un grande successo nel pubblico parigino. Nijinskij si mette in luce come il protagonista di balletti importantissimi; egli aveva delle straordinarie capacità espressive, sia del volto che del corpo intero, con le quali trasmetteva grandi emozioni nel pubblico. Le sue coreografie saranno riprese anche da Nureyev. Nijinskij si ispira alle figurazioni dei bassorilievi antichi e da luogo a una serie di movimenti plastici che danno vita a una straordinaria sensazione anche di erotismo. Divenuto subito coreografo al posto di Fokin, soppiantato in maniera anche abbastanza brusca, Nijinskij crea il balletto “Jeux”, che fa nascere delle polemiche per via di scelte coreografiche che scardinano le posizioni istituzionali accademiche a favore di movimenti ispirati allo sport del tennis. Altro balletto fondamentale dalla produzione di Nijinskij è “Petruska” in collaborazione con Stravinskij. Concludiamo con il balletto “La sagra della Primavera”, sempre con Stravinskij, che segna un punto di svolta non solo nella coreutica ma anche nella storia della cultura musicale per via delle sue tendenze selvagge, primitive e barbariche. L’esperienza coreografica di Nijinskij termina nel 1914, quando Diaghilev decide di allontanarlo dalla compagnia a causa del suo matrimonio improvviso con la danzatrice Romola de Pulszky, e lo sostituisce richiamando Fokin. Nel giro di pochi anni Nijinskij si ammala mentalmente, dovendo interrompere un’attività coreografica ancora nel pieno del successo. LEONID MASSINE: dopo il periodo di ritorno di Fokin, la storia dei ballets russes si lega a un altro straordinario coreografo che è Massine (francesismo per il cognome originale Mjasin). Egli viene chiamato da Diaghilev come danzatore, per poi succedere a Fokin come coreografo. Uno dei capolavori di Massine è sicuramente il balletto “Parade”, simbolo dell’avanguardia della musica francese legato alle composizioni di Eric Satie. In questo balletto Massine coglie perfettamente il gusto artistico della Parigi dell’epoca, mettendolo in scena in un ambiente surreale tipico del mondo del circo. Danzatori con atteggiamenti marionettistiche incarnano il clima farsesco dell’epoca attraverso il genere del musical. In questo periodo, nonostante i grandi successi, la compagnia dei ballet russes perde il monopolio della scena teatrale parigina, a causa di forti concorrenti. Nel 1921 Diaghilev decide quindi di provare un esperimento molto ardito, ovvero la messa in scena a Londra di un estratto de “La bella addormentata” di Petipa. Il risultato è fallimentare, soprattutto dal punto di vista finanziario a causa delle ingenti spese di allestimento. Diaghilev è dunque costretto a legarsi al teatro di Montecarlo per garantire alla compagnia un sostegno economico costante. In questo modo i ballets russes superano la crisi e lanciano Fominicna Nizinskaja, sorella di Nijinskij che, dopo l’addio di Massine, ne prende il posto come coreografa. GEORGE BALANCHINE: fu un altro straordinario collaboratore, danzatore e coreografo, di Diaghilev. L’incontro tra i due avviene nel 1924, con Balanchine che fugge dalla Russia e si trasferisce a Parigi dove diventa coreografo per i ballet russes. Egli realizza uno dei capolavori della coreutica novecentesca, ovvero il balletto “Apollòn musagete”, ancora una volta con musiche di Stravinskij (tra i due si crea un rapporto artistico straordinario). Questo balletto fu rappresentato per la prima volta a Parigi nel 1928 e fa emergere definitivamente le caratteristiche dello stile di Balanchine: a partire da una stretta relazione con la partitura musicale, si fa strada una danza astratta tesa a recuperare la bellezza formale classica attraverso la conquista della purezza e della perfezione formale. Viene abbandonato completamente il concetto di pantomima. Balanchine nel 1934 lascia i ballets russes e si reca negli Stati Uniti, dove fonda la School of American Ballet, che diventa ed è ancora oggi la sede istituzionale del New York City Ballet. Balanchine fu dunque il traghettatore del balletto classico negli Stati Uniti, ed è grazie a lui che in questo continente i balletti classici vengono affiancati a tutti gli effetti alla modern dance. La storia dei ballets russes si conclude nel 1929 con la morte di Sergej Diaghilev. RIASSUNTO MANUALE DI A. PONTREMOLI (PARTI NON TRATTATE A LEZIONE) La danza è caratterizzata da una «doppia relatività», perché a vivere l’esperienza dell’incontro fra corporeità in azione e fruitore sono pur sempre due sguardi: quello oggettivo del tempo, del luogo e del genere di una manifestazione coreica; e quello dello spettatore, portatore della cultura cui appartiene. Il corpo non ha, tuttavia, solo una valenza sociale, ma anche e soprattutto una valenza personale, secondo un duplice vissuto: quello del «corpo proprio» (in tedesco Leib), che mi fa dire che «io sono un corpo»; e quello del «corpo organico» (in tedesco Körper), in base al quale posso affermare che «io ho un corpo». La danza è una manifestazione, una rivelazione dell’essere umano, che è l’unico «animale» a riconoscere come «danza» certi movimenti. La danza riguarda quindi l’uomo nella sua totalità, in quell’unità ontologica di corpo e mente, ossia di corpo organico e sistema simbolico che solo con una forte astrazione possiamo spezzare. In quanto modalità dell’umana esistenza, la danza è anche modalità del pensiero e della coscienza. Non esiste danza se non in presenza di un corpo pensante, che proprio per la sua struttura si pone nel mondo come una prospettiva, come un punto di vista situato in uno spazio e in un tempo, come «il punto zero» – in termini filosofici – di ogni esperienza conoscitiva. NIETZSCHE E IL DIO CHE DANZA Alcune importanti suggestioni circa l’interrogativo filosofico sul corpo dell’uomo che danza ci vengono dall’opera di Friedrich Nietzsche. La nuova umanità postulata dal filosofo tedesco non riconosce nulla che sia posto al di fuori del corpo, affidando a quest’ultimo il compito di farsi portatore del senso della vita. Recuperando l’Essere in seno al corpo Nietzsche attribuisce all’uomo l’incarnazione del divino. Se dunque non c’è più alcuna distanza fra l’Essere e il corpo, l’uomo che danza è un dio creatore. L’arte è così ricondotta all’agire di un dio vivente, incarnato. In questa prospettiva la danza appare come la condizione affinché sia possibile la rivelazione della vita e dell’Essere attraverso la manifestazione del corpo vivente dell’uomo. In quanto movimento essa è epifania del principio vitale nel suo continuo ed eterno autorigenerarsi: un corpo che danza incontra la vita in questo perpetuo movimento e incarnandola la rivela e la fa accadere. PAUL VALERY: LA DANZA COME CORPO DEL SENSO Con Valery ci imbattiamo nella figura del filosofo-poeta o filosofo-artista, che al sapere della ragione dominante propone di sostituire il sapere dell’anima, ovvero il sapere del corpo. Il pensiero prodotto dal corpo non si contrappone, tuttavia, al sapere razionale, in quanto il primo è il presupposto del secondo. Al filosofo-poeta la danza appare come la più adeguata modalità di dizione dell’essere, è attestazione dell’assoluto, momento originario del pensiero. Paul Valéry espone questa concezione in alcune opere dedicate espressamente alla danza. Chi danza viene a coincidere con la danza tout court, senza potersi distinguere da essa. Nell’esperienza del danzare la dimensione fisica, quella psichica e quella spirituale sono solo nomi di un’unica realtà: il corpo che si manifesta nella danza come simbolo, come ciò che tiene insieme tutte le componenti della persona. La danza è, per Valéry, un’autonoma concezione del movimento, che diviene insegnamento strutturato di una tecnica originale e feconda quanto quella più nota della sua quasi coetanea Martha Graham. Ispirandosi a La nascita della tragedia di Nietzsche, la coreografa americana individua nell’opposizione fra il principio apollineo e il dionisiaco i fondamenti della sua teoria sul moto. Apollo rappresenta la raggiunta perfezione della stabilità e della razionalità, mentre Dioniso è l’attrazione del pericolo, il desiderio dell’oblio della soggettività. Riferiti all’equilibrio del corpo i due principi vengono interpretati dalla Humphrey rispettivamente come la «morte statica», ovvero l’equilibrio simmetrico del movimento che porta il corpo alla stasi, e la «morte dinamica», vale a dire un disequilibrio spinto alle estreme conseguenze e quindi non più recuperabile ma destinato alla dissoluzione. In mezzo a queste due «morti» si sviluppa il moto, ritmico oscillare della «materia organica», simbolica rappresentazione della lotta dell’uomo per la sopravvivenza. Ogni azione naturale dell’uomo è la manifestazione della eterna lotta tra forze opposte, del dramma umano quotidiano della sopravvivenza in un ambiente fisico dominato da realtà spesso ostili e spinte fra loro contrarie. Il movimento, in particolare, che la Humphrey analizza secondo le sue componenti fondamentali – respirare, stare in piedi, camminare, correre, saltare, spostare il peso, cadere e sollevarsi – e i suoi principi primi – ritmo, dinamica (o qualità del moto) e design – è rivelatore permanente della convivenza non sempre pacifica dell’uomo con la gravità. Come lei stessa precisa, «la vita oscilla tra la resistenza e la resa alla gravità». La tecnica di Doris Humphrey, intrinsecamente teatrale e dinamica, dotata di molteplici sfaccettature e possibilità, diviene in breve tempo, accanto al sistema elaborato da Martha Graham, uno dei punti di riferimento imprescindibili per la formazione del danzatore contemporaneo. MARTHA GRAHAM (vedi appunti lezioni) LA MODERN DANCE SECONDO JOHN MARTIN E LOUIS HORST Nel 1933 John Martin pubblica un saggio di grande importanza per la storia della danza e delle sue estetiche, “La modern dance”. Martin dà, anzitutto, una valutazione positiva dell’operato artistico delle pioniere della danza moderna, in particolare di Isadora Duncan e di Ruth St. Denis, che intendevano liberarsi del vocabolario arbitrario e limitante della danza accademica per arrivare al senso senza curarsi delle parole. Questo senso, a suo parere, viene ricercato, dalle due danzatrici, nella loro personale esperienza: ogni soggetto, pur con tutta la sua umanità e col peso della sua storia particolare, è anche il risultato della sedimentazione di una cultura e può, pertanto, trovare in sé elementi di universalità da tradurre in movimento. La danza è una manifestazione originaria dell’umano e sia dal punto di vista antropologico che dal punto di vista storico il disporsi delle sue forme avviene da sempre lungo due assi, molto difficili da ordinare secondo una mai del tutto accertata priorità di antecedenti: da un lato quello dell’esibizione di un singolo danzatore, il così detto assolo, nel quale la creazione coreica coincide, nella maggior parte dei casi, con la dinamica corporea del suo stesso creatore; dall’altro il dispiegarsi del movimento collettivo, sia come sommatoria di singole esibizioni concomitanti, sia come unisono di gesti e azioni concordate nel gruppo o regolate da una autorialità creatrice. Secondo Martin, la danza delle pioniere, che egli definisce romantica, benché rappresenti una svolta significativa nel panorama culturale del Novecento, evidenzia i suoi punti deboli nel suo rapporto troppo convenzionale con la musica di cui si avvaleva, e in seconda istanza nell’eclettismo tecnico e stilistico, che spaziava dal passo classico al gesto pantomimico, dalla postura statuaria a pseudo orientalismi di maniera. La modern dance nasce come compimento degli ideali della danza libera e romantica, soprattutto perché riscopre il movimento del corpo come materia prima dell’espressione. Per gli esponenti della modern dance il movimento, che è l’esperienza fisica più elementare della vita umana, è generato da ogni vissuto intellettivo ed emozionale ed è il risultato dell’incontro fra un corpo, come presenza di un soggetto nel mondo, e il senso del mistero. Secondo Horst, altro grande teorico della modern dance, ciò che conta veramente nell’esperienza artistica è soprattutto la «motivazione», ancora prima del disegno coreografico, della dinamica e del ritmo; motivazione che è in grado di realizzare una forma espressiva a prescindere dall’emozione vissuta dal singolo interprete. Per Martin, la danza moderna è la sintesi reale, viva, carnale di un’unità di mente e corpo; è l’esito artistico consapevole della metacinesi, vale a dire della stretta relazione fra movimento, aspetto corporeo, esperienza personale, temperamento, ecc. Ne consegue che non è più possibile una didattica standardizzata, che pretenda da tutti i danzatori l’esecuzione dello stesso identico movimento. MERCE CUNNINGHAM: LA DANZA COME “MANDALA” Partendo da un evidente rifiuto degli psicologismi della modern dance, dal punto di vista tecnico Cunningham si riavvicina alle linee pure e astratte della danse d’école, che a partire dagli anni Trenta George Balanchine aveva sviluppato in America. Il rifiuto della dimensione interiore come motore drammaturgico e delle emozioni come esito della narrazione porta a concepire la danza come arte del rigore formale, arte dell’astrazione, libera da qualsiasi condizionamento ideologico, senza pretese didascaliche o intenti descrittivi. La terna concettuale attorno alla quale muove tutta la ricerca del coreografo americano, vale a dire spazio, tempo, immobilità, nasce come corrispettivo della speculazione artistico-teorica dell’amico e compagno Cage, che ripensa negli stessi anni gli elementi costitutivi dell’arte musicale: suono, tempo, silenzio. Spazio e tempo sono per Cunningham un’unica prospettiva, che è compresa appieno solo quando la danza viene a coincidere con l’immobilità. Cunningham intende ripensare la danza, il corpo e la sua relazione con la scena in una prospettiva non comunicativa: la danza non è latrice di messaggi, né può fornire (perché non intende farlo) visioni precise della realtà. Questa matrice dell’evento coreografico non esclude, per Cunningham, che lo spettatore possa avere reazioni, idee e sensazioni. Per Cunningham il corpo che danza è inevitabilmente soggetto a un addestramento e quindi all’utilizzo di una tecnica. Tuttavia, la tecnica non rende il corpo uno strumento dell’espressione, ma è parte integrante dello stesso corpo vivente concepito come luogo della creazione, in sé stesso espressivo. Questa espressività intrinseca del corpo è slegata in Cunningham da ogni intenzionalità comunicativa. Come un mandala tibetano la danza di Cunningham è un insieme di tracce assai complesse che il danzatore disegna al suo passaggio, ma immediatamente è invitato a cancellare disperdendole nell’oscura immanenza dello spazio-tempo. Il valore e il senso attribuiti al movimento e al corpo dallo sguardo dell’osservatore esterno sono possibili proprio per il carattere di esaustività della forma, che fa sì che ogni cosa sia quello che è, e proprio per questo motivo possa anche essere, simbolicamente, ogni altra cosa. ALVIN NIKOLAIS E LA “MOTION” Un altro grande padre della coreografia contemporanea occidentale e fautore di una danza come «arte visuale del movimento qualificato (motion)» è Alwin Nikolais. Fautore di una danza antipsicologica, Nikolais mette a punto un sistema didattico molto efficace, ispirato alla sua particolare estetica del movimento. In contraddizione con i principi della danza libera, Nikolais nega ogni ipostatizzazione di un centro come origine del moto corporeo e ribalta, nel loro nucleo portante, anche le affermazioni dei teorici della modern dance sostenendo che non è l’emozione a generare il movimento, bensì il contrario. Nikolais ribadisce che è la motion a essere fonte di emotion. Danza trascendente, dunque, generata attorno a un nucleo originario, quello della motion, appunto, sorta di forza generatrice, potere pre-espressivo del gesto, unica realtà con la quale il danzatore ha a che fare nell’esercizio della sua arte. Nel processo creativo Nikolais privilegia la forma «astratta», che ritiene governata dalla necessità della comunicazione e che definisce «somma matematica delle dinamiche impiegate». E le dinamiche di cui si parla sono le caratteristiche fondamentali della motion, ovvero le qualità primarie del gesto che operano sulla coscienza del tempo, sullo spazio e sulla forma. Il «movimento qualificato» è dunque essenza e significato ultimo dell’esperienza coreica e le leggi che lo regolano sono la sostanza della danza come arte al contempo cinetica e visuale. Quello che con Niikolais appare assodato è il valore di una metodologia di insegnamento fondato sulla trasmissione non tanto di passi e di sequenze, quanto piuttosto di principi, come base che permetta al danzatore di sviluppare una danza del tutto autonoma e personale. Il corpo di Nikolais è un corpo sezionabile in molte parti, tutte fra loro unite da articolazioni multiple che possono diventare in ogni momento fuoco di un nuovo movimento o di un’azione. I movimenti delle singole parti del corpo o del corpo nella sua totalità, a loro volta possono essere di tre specie: periferici, rotatori, locomotori; e si compiono nella motion in base a scelte spaziali, temporali e dinamiche. Un corpo allenato alle qualità del movimento è un corpo che è in grado di danzare secondo tutti gli stili e i «vocabolari» possibili, perché è un corpo tecnico, nel senso che Nikolais dà a questa parola, vale a dire un corpo che possiede «l’insieme dei mezzi usati per giungere al fine desiderato». La danza di Alwin Nikolais, generata da un corpo privo di emozione, spersonalizzato, ridotto alle sue caratteristiche fisiche di massa, peso, volume, è un corpo che non racconta nulla, non deve esprimere nulla di soggettivo e di personale, è unicamente motion, qualità e forma del moto corporeo nello spazio. Con le sue opere Nikolais dà vita a un teatro dell’illusione e del sogno, caratterizzato da un caleidoscopio di forme colorate e cangianti, che devono soddisfare soprattutto la visione, spesso deformata da strumenti tecnologici.
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