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Appunti storia delle teoriche del cinema - Cinema: percorsi storici e questioni teoriche, Appunti di Teoria Del Cinema

Il file contiene gli appunti della seconda parte del libro Il cinema percorsi storici e questioni teoriche. Troverai all'interno i riassunti di tutti i saggi.

Tipologia: Appunti

2020/2021

In vendita dal 24/05/2021

splendini
splendini 🇮🇹

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Scarica Appunti storia delle teoriche del cinema - Cinema: percorsi storici e questioni teoriche e più Appunti in PDF di Teoria Del Cinema solo su Docsity! SAGGI STORIA DEL CINEMA L’ATTORE Uomini e api: prolegomeni dell’attore cinematografico - L’attore cinematografico costituisce una costante per il cinema: sin dalle origini la presenza di interpreti incaricati di costituire e sostenere una rappresentazione, ha qualificato ampia parte dei prodotti cinematografici. Questi sono tutti istruiti per produrre personaggi, parte imprescindibile della narrazione. I confini costitutivi e operativi dell’attore cinematografico sono sempre stati difficili da specificare per la riflessione storiografica e teorica sul medium. Anzi, la parte delle riflessioni si è incentrata sul fenomeno del divismo → solo pochi interpreti sono star e la loro presenza non cancella quella di altre tipologie attoriali. In buona sostanza, si può dire che: l’attore qualifica e specifica il cinema; nonostante questa rilevanza, è un oggetto elusivo. La rappresentazione cinematografica può generare personaggi indipendentemente dal fatto che dei soggetti si siano fatti carico di produrli, attraverso una sequenza di gesti, posture, atteggiamenti. I personaggi possono formarsi grazie a elementi non umani. Una rapida conferma è riscontrabile lungo la storia del cinema: una delle prima produzioni dei fratelli Lumière, Les repas de bébé (1895), inscena un luogo, un’azione articolate in una breve porzione temporale e dei personaggi; il grado di intenzionalità dei soggetti incaricati di produrre i personaggi è variabile, in base alla consapevolezza di ognuno di sé stesso e della condizione rappresentativa. Similmente L’ape Maja e le sue avventure di Wolfram Junghans (1925), impiega immagini documentarie di insetti per costruire una narrazione fondata sul popolare romanzo di Bonsels. L’uno e l’altro esempio sarebbero stati inconcepibili nella rappresentazione dal vivo antecedente all’invenzione del cinema. Corpi e macchine: il ruolo della tecnologia - L’introduzione di tecnologie di ripresa e riproduzione tecnica delle immagini, a cavallo tra XIX e XX secolo, ha avuto una serie di conseguenze. In prima istanza una ritrovata centralità della dimensione corporea, nel quadro di una più generale egemonia del visivo. Il corpo costituisce, appunto, un modo di generare significato. Al dominio del corpo si associa la riscoperta di una soggettività profonda e catturata dall’obiettivo. Come sostiene il teorico che maggiormente elaborò tale posizione, Béla Balàzs → “l’uomo della cultura visiva, infatti, non sostituisce con i suoi gesti le parole, come fanno ad empio i sordomuti con il loro linguaggio dei segni. I suoi gesti non esprimono affatto concetti, bensì il suo io immediato e irrazionale, e ciò che si esprime nel suo volto e nei suoi gesti proviene da uno strato dell’anima che le parole non potranno mai portare alla luce”. Questo pensiero ci fu fino agli anni ’60, e venne ripreso anche nell’ambito della psicologia del profondo. L’idea di un corpo capace di produrre senso a dispetto della coscienza di un soggetto individuale è alla base anche di specifiche poetiche di autore; tra queste, una delle più note è la poetica dei modelli di Robert Bresson. Così scrive il cineasta francese “Modelli. Movimento dell’esterno verso l’interno. (attori: movimento dall’interno verso l’esterno). Non è importante quanto mi mostrano, ma quel che mi nascondono, e soprattutto quel che non sospettano che vi sia in loro”. Si tratta di cogliere un elemento di senso generato inconsapevolmente da un corpo, a prescindere da una coscienza e da un’intenzionalità psicologica. In opposizione a questo modello si è diffusa un’ipotesi alternativa: il corpo-macchina. Tale modello coincide con la celebrazione della dimensione tecnologica del medium. Per riprendere le affermazioni di Lev Kulesov → “abbiamo bisogno di persone straordinarie, eccezionali, abbiamo bisogno di mostri. I mostri sono persone in condizione di allenare i propri corpi e ottenere la completa padronanza della loro costruzione meccanica”. In parti tempo, il corpo-macchina è un tema ampiamente diffuso nella cultura della modernità e postmodernità, come dimostra l’insistenza di figure robotiche → es. Io Robot (Proyas, 2004). Ci sono 2 fattori rilevanti: la frammentazione e l’autonomia dell’immagine rispetto all’istanza produttrice. Rispetto all’interpretazione teatrale, in quella cinematografica è il corpo stesso dell’interprete a essere sezionato per valorizzarne singole componenti nell’articolazione delle immagini. Conseguentemente, ciò comporta un differente impiego del corpo attoriale, e una sua diversa concezione da parte dello stesso interprete. Da una parte, l’unità fisica dell’attore è pregiudicata dall’organizzazione della successione delle immagini → è il caso di alcuni celebri esperimenti di montaggio, quali quelli compiuti da Kulesov, con i quali di producevano personaggi sintetici combinando inquadrature di parti corporee di differenti attori; ma anche della pratica consueta di stuntmen e controfigure. Da un’altra parte, ciò ha condotto a una valorizzazione di specifiche parti del corpo è soprattutto il volto, attraverso l’impiego del primo piano. A partire dai primi decenni del XX secolo, il primo piano ha costituito un elemento per definire l’identità dei personaggi, renderli verosimili alludendo attraverso il loro volto a processi psicologici e pertanto alle motivazioni delle loro azioni, per organizzare la sintassi delle immagini a partire da un personaggio che guarda ed è osservato nelle proprie reazioni → si è afferma progressivamente l’idea della personalità. Il volto è divenuto anche la sede cui più chiaramente si affermano le emozioni; il volto è inoltre l’oggetto meglio capace di specificare tratti identificativi non solo di un soggetto, ma anche di una classe o di una tipologia. Questa valorizzazione del volto dell’attore e la prossimità dello spettatore a esso implicano spesso l’esigenza di una recitazione attenuata in particolar modo nel cinema hollywoodiano classico, fondato sull’underplaying. In ambito cinematografico, l’attore deve segmentare la propria partitura per rispondere alle necessità del set, e conseguentemente lavorare in maniera puntuale anziché continuativa. Infine, lo stesso controllo da parte dell’interprete sulla propria immagine è di fatto impossibile, salvo in virtù di specifiche clausole contrattuali o di scelte poetiche particolari: l’immagine è svincolata dall’attore che ha contribuito a produrla, e può essere maneggiata, alterata, riprodotta e diffusa ben al di là della sua volontà. L’alienazione dell’attore cinematografico dal proprio lavoro è anche all’origine dell’attenzione prestata alla dimensione dell’organizzazione testuale, da un lato, e alla figura dell’autore identificato con il regista, dall’altro. C’è da dire che il contributo di ogni interprete alla rappresentazione cinematografica appare unico. Basti pensare ai casi limite di moltiplicazione testuale, quali i remake, o le versioni multiple realizzate soprattutto nei primi anni dell’avvento del sonoro, nelle quali si mantenevano prevalentemente la scenografia, la sceneggiatura e per lo più la messa in scena, sostituendo gli interpreti in base alla lingua della versione realizzata in ragione del mercato di destinazione. Ad esempio, si fatica a non percepire trasformazioni rilevanti nel passaggio di testimone avvenuto tra la recitazione composita di Paul Muni in Scarface (Howard Hawks, 1932) e quella nevrotica di Al Pacino nel remake omonimo di Brian De Palma (1983). Talvolta un diverso interprete è addirittura in grado di cambiare il genere del film. Una questione di stili: le forme dell’attore cinematografico - L’attore cinematografico è soggetto a variare in base alla trasformazioni storiche, estetiche e produttive della rappresentazione cinematografica stessa. Nel cinema dei primi tempi, ad esempio, la recitazione è una delle serie costitutive di quello che lo storico André Gaudreault ha definito il cinema-attrazione. Il cinema dei primi tempi organizza materiali provenienti da altri ambiti per aggregazione, in maniera prevalentemente paratattica. Di conseguenza, la recitazione spesso mantiene integralmente i codici stabiliti nell’ambito originario: il circo, la prestigiazione, la danza o il teatro di prosa. La funzione dei gesti e della mimetica è spesso dimostrativa, e a carattere discreto, come nella pantomima. Tuttavia, nei contesti produttivi statunitense ed europeo il ruolo del gesto e della mimica era consolidato nella cultura rappresentativa teatrale e pittorica, in base a un sistema codificato di pose (attitudes): è questo stile di recitazione a imporsi nel corso degli anni ’10 e a uniformare il gusto del pubblico. Il modo di rappresentazione negli USA nel corso degli anni ’10 ha maggiormente integrato la recitazione in un sistema nel quale la dominante è costituita dalla narrazione e le differenti componenti le sono in qualche modo funzionali. Ciò ha implicato una serie esplosione, il cui corpo è faticosamente contenuto nell’inquadratura come in Per un pugno di dollari (Sergio Leone); dall’altro lato, profili rigidi e stabili, centrati, come le figure delineate in Il sospetto (Francesco Maselli). Tra i due gruppi di prestazioni, le prove più eclatanti dell’attore sono sotto la direzione di Elio Petri, sempre in bilico tra controllo ed esplosione → il commissario di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970), l’operaio di La classe operaia va in paradiso (1972) e il politico di Todo modo (1976). I due modelli corrispondo anche a modalità di messa in scena del corpo attoriale differenti: dalla prevalenza del volto, nei film di Leone e Damiani, al privilegio maggiore accordato al corpo, negli altri film. L’attenzione alla figura di Volonté nella storia dello spettacolo, si individua nelle sue prove di attore la coesistenza di diverse eredità attoriali: il sapere e l’efficacia scenica del teatro italiano all’antica, appresi nell’accademia d’arte drammatica; l’approccio critico al personaggio e alla parte e la coscienza politica del lavoro di attore, diffusi nella cultura scenica italiana del secondo ‘900; il ruolo del corpo e la prassi recitativa come atti militanti, proprio al teatro di intervento e agitazione nell’Italia degli anni ‘60/’70, confermati dal contributo di Volonté a Vento dell’est (Godard, 1970). A questo insieme di elementi si aggiunga la versatilità interpretativa. Infine, lo stesso contributo performativo dell’interprete, capace di definire con eccezionale precisione grafica una galleria di caratteri e propone una lettura critica, corrisponde alla ridefinizione del sistema dei ruoli nel cinema italiano degli anni ’70, in cui le figure dei caratteristi possono assurgere a ranghi più alti. Volonté può essere considerato anche nei termini di una star. Infatti, l’interprete non si definisce esclusivamente in virtù del proprio stile recitativo, ma i personaggi eccessivi, i militanti politici, i ritratti inquietanti e grotteschi delineano due aspetti concomitanti: una coerenza interna tra le parti interpretate, attraverso un discorso critico sulle condizioni sociali, antropologiche e politiche coeve; una competenza performativa promossa quale valore primario rispetto a modelli alternativi di recitazione. Tutto ciò, unito a singole scelte esistenziali, contribuisce a definire un divo minoritario, ma celebrato per il proprio stile di vita, per confermare le proprie opzioni identitarie attraverso la predilezione per questo eccezionale interprete. - L’AUTORE - Ragionare per autore - Il concetto di autore orienta i nostri gusti cinematografici, il modo in cui andiamo al cinema; riguarda la pratica critica, storiografica e teorica. La nozione di autore ha subito una lenta erosione in sede teorica. Non solo: è qualcosa che sembra veramente resistere oltre che alle revisioni anche agli scossoni più pesanti → la nozione di autore in uso non è qualcosa di definito, qualcosa che è sempre stato così: è una nozione che ha una storia, uno sviluppo, un processo di definizione piuttosto lungo e contrastato. Appare indicativa la differenza che viene a crearsi, già dai primi anni, tra il cinema europeo e quello americano: se infatti nella tradizione americana il lavoro intellettuale è completamente integrato nel ciclo produttivo, l’intellettuale europeo ha spesso privilegiato una relazione diretta con il pubblico. Si tratta qui più dell’immagine che due culture costruiscono dell’intelletuale e dell’artista che non della realtà dei fatti; tuttavia, sta di fatto che a Hollywood il regista, dopo aver visto riconosciuto il suo ruolo professionale, tenderà a ritagliarsi spazi di autonomia realizzativa all’interno del ciclo produttivo, e sarà quello il campo di eventuali rivendicazioni. In Europa, il riconoscimento del regista precederà di pari passo con l’attribuzione alla sua figura di una competenza espressiva e comunicativa che egli dovrà valorizzare e difendere. Diventerà, agli occhi del pubblico, il garante comunicativo del film. Possono essere almeno tre le accezioni a cui ci riferiamo parlando di autore cinematografico. - Diritto d’autore - Autore viene inteso in questo caso come colui che detiene la proprietà intellettuale dell'opera, nel nostro caso del film. Ciò comporta che il film stesso venga considerato opera d'arte o, quantomeno, opera di ingegno e pertanto ricada tra gli oggetti disciplinati dalle varie normative, nazionali e internazionali, che compongono il diritto d’autore. Anche da questo punto di vista lo statuto dell’autore cinematografico ha subito notevoli modificazioni → la possibilità di individuare un autore, è fondata in ultima analisi sulla lingua e sulla parola, e proprio la mancanza di parola costituirà lo scoglio principale per l’ammissione del cinema nella cerchia delle arti tutelate dal diritto d’autore. Per questa stessa ragione, l’ingresso dei letterati nell’industria cinematografica, a partire dagli anni ’10 del ‘900, ha avuto un ruolo importantissimo nel processo di definizione dell’autore cinematografico. - Autore come ruolo professionale - A inizio ‘900 si vanno definendo nel cinema ruoli professionali specifici. Questo processo è integrato in una progressiva istituzionalizzione del cinema → il cinema comincia ad avere un prodotto specifico, il film, che viene fruito come oggetto autonomo e identificabile. Il passaggio è sostanziale perché , proprio in quanto oggetto autonomo, il film può essere quantomeno proposto come oggetto artistico a cui corrisponda un’intenzione d’autore. Il cinema di quegli anni vive dunque una contraddizione: al film, non corrisponde un soggetto altrettanto facilmente individuabile, l’autore, e questo proprio a causa del processo di differenziazione dei ruoli professionali della produzione cinematografica. In questa contraddizione l’attribuzione della paternità autoriale rimane a lungo incerta, come nel caso della diatriba tra lo sceneggiatore e il regista. Durante tutti gli anni ’10 accade che a essere indicati come possibili autori siano anche lo scenografo, l’operatore, l’attore e soprattutto anche le case di produzione. È interessante notare come un esponente della prima avanguardia francesce, Louis Delluc, a fronte della difficoltà di definire con sicurezza un ruolo autoriale preciso, lanci nel 1921 il termine cinéaste, “cineasta”, a indicare chiunque sia coinvolto in qualche misura nell’attività cinematografica. Solo a partire dagli anni ’30 il termine assume quella valenza più ristretta con cui viene adoperato anche oggi. - - Autore come ruolo estetico - In questa accezione l’autore è individuato come soggetto responsabile di una intenzione d’autore, di una volontà autoriale che diviene il presupposto e il criterio generativo dell'opera. Essa è implicitamente legata alle accezioni precedenti e in parte le presuppone: perché vi sia un’attribuzione estetica è necessario non solo che il film appaia come un’opera autonoma, ma anche se sia possibile individuare un responsabile materiale o ideativo e realizzativo del film stesso. Nell’ambito del discorso cinematografico si comincia a parlare di autore di film proprio nel momento in cui si va perfezionando l’assegnazione al ruolo professionale del regista e delle maggiori responsabilità creative. Potremmo dire che l’ascesa del regista è in gran parte parallela al diffondersi di una nozione di autore inteso come artista, artefice e unico responsabile del valore estetico di un film. In Francia, tra la fine degli anni ’10 e i primi anni ’20, fu un gruppo di giovani intellettuali, legati alle esperienze dell’avanguardia letteraria e artistica, e approdati al cinema con l’idea di valorizzare le possibilità di un’arte nuova, a dare un impulso decisivo alla diffusione del discorso autoriale in campo cinematografico. Gli esponenti della prima avanguardia elaborarono in maniera più o meno implicita un’idea autoriale perfettamente funzionale a un progetto la cui posta in gioco era il rinnovamento radicale del cinema francese. Delluc non aveva dubbi nel considerare Abel Gance l’autore di “la decima sinfonia” (1917) una contraddizione soltanto apparente perché proprio in quanto cineasti a tutto tondo, capaci di riunire le diverse competenze ideative e creative della produzione cinematografica, Gance, L’Herbier, Dulac, Epstein e lo stesso Delluc erano al di là di ogni dubbio gli autori dei propri film. Così la decima sinfonia, opera fondativa della prima avanguardia e riferimento estetico per una generazione di cineasti, fu probabilmente il primo film d’autore, inteso in senso estetico, della cinematografia francese. Se quello di Gance fu il primo film d’autore prodotto in Francia, si potrebbe affermare che il primo film d’autore francese fu in realtà americano, i prevaricatori (de mille, 1915). Si trattò del primo grande avvenimento estetico socialmente riconosciuto a svolgersi in una sala cinematografica, che coinvolse l’élite intellettuale della capitale. Fu allora che molti intellettuali compresero le potenzialità artistiche del cinema e alcuni di essi decisero di dedicarsi a quello che sembrava un terreno vergine e ricco di promesse. Dunque, per quanto quella dell’autore cinematografico sia una storia europea, furono americani i primi cineasti a essere considerati - in Francia - autori a pieno titolo. Ciò avvenne perché il cinema americano appariva un serbatoio di straordinarie innovazioni, ma anche perché i critici raffinati come Delluc o teorici dell’avanguardia come Epstein avevano di quel cinema una visione europea. Per quanto brillanti fossero le loro analisi, essi scambiarono per caratteri originari del cinema americano quelle che invece erano sperimentazioni già pronte a trasformarsi in standard produttivi di un cinema che viaggiava molto velocemente verso l’istituzionalizzazione e la produzione industriale. L’autore tra dogma, rituale e modernità. La definizione a livello internazionale della nozione di autore cinematografico, riconosciuto nella figura professionale del regista, è dunque debitrice della prima avanguardia francese. Percorsi analoghi si possono rinvenire nelle principali cinematografie europee. Già alla metà degli anni ‘20 l’identificazione tra autore e regista sembra acquisita una volta per tutte → visto che le discussioni si concentrano, nei due decenni successivi, sul ruolo che l’autore deve avere: sociale, politico, estetico. Dal punto di vista estetico, nuovamente dalla Francia arriva quella che appare come una parziale sovversione: per la politique des auteurs, così definita da Truffaut. Se è vero che l’autore non può che essere il regista, tuttavia non tutti i registi sono autori: appare così nel discorso autoriale un discriminante di ordine estetico-valutativo che definisce la nozione moderna di autore cinematografico e che, sia pure in una forma assai più convenzionale, arriva fino a noi. Per i critici della politica degli autori, il soggetto del film è la sua messa in scena, la quale è la materia stessa del film. La registrazione oggettiva è l’elemento che struttura non solo quel rapporto proprio del medium cinema tra potere di riproduzione fenomenologica della realtà e potere di rivelazione di legami spirituali profondi, ma anche un altro tratto che, ad esempio, separa l’immagine dell’autore da quella della sua divulgazione sul terreno nordamericano. Se nell’autorialismo di Andrew Sarris possiamo individuare una teoria interessata a promuovere indiscriminatamente l’idea dell’autore come soggetto che esprime se stesso in modo il più possibile libero da vincoli e condizionamenti oggettivi e un’idea dello stile come il luogo esatto in cui si esprime questa libertà, questa personalità di un autore, nella critica francese non dà isomorfismo tra autorialità e riconoscibilità stilistica. ************* Prodotti di genere/prodotti di marca: l’autore come brand e la logica autoriale del postmoderno Di che cosa parliamo, allora, quando parliamo di cinema d’autore in epoca di postmoderno? Per molto cinema d’autore postmoderno, quella di Quentin Tarantino, Wes Anderson, la questione fondamentale e costruire sé stessi all’interno dei film. O meglio, costruire sé stessi come autori e come “marchi di fabbrica” sembra funzionare. Es. Kill bill vol.1 e vol.2: in questo film suddivido in due puntate, Tarantino lavora esattamente sulla costruzione di sé stesso come soggetto di referenza di tutto quell’universo che, si terrebbe in alcuna maniera. Se c’è qualcuno che lo rappresenta nel film, questo è Bill, che ricopre esattamente tale ruolo: colui che ha organizzato tutto e colui a cui tutto ritorna. A sua volta, lo spettatore è chiamato a occupare una posizione analoga, è chiamato cioè a un riconoscersi immediato. È chiaro perciò come l’interesse dello spettatore non è più tanto rivolto alla trama (non solo), ma è un interesse di tipo autoriale rispetto a uno stile del regista. Il film è l’esito di un’attività industriale, è destinato al mercato, è si trova quindi in regime di concorrenza con prodotti analoghi. Si rende quindi necessario lo sfruttamento di un marchio. Questo sfruttamento passa quindi attraverso il cinema e gli altri mezzi di comunicazione. La presenza di un carattere fisso, di un elemento a cui riferirsi che etichetti il prodotto e lo renda - Gli anni ’70 segnano la cinefilia tanto quanto il rinnovato orizzonte mediale di riferimento. Le novità provenienti dal sistema televisivo e il lento affermarsi dei videoregistratori mutarono lo scenario in maniera radicale. La diffusione delle nuove tecnologie ha a che fare con processi apparentemente lontani, come ad esempio i primi tentativi di studiare il linguaggio del cinema nelle scuole, la diffusione di una sensibilità per il cinema d’autore, la possibilità di accedere a contenuti cinematografici impensabili in precedenza. I cineclub persero la propria centralità mentre lo spettatore casalingo diventò il principale consumatore di cinema. La cinefilia apparve spiazzata, mentre tutta la cultura che le era nata intorno sembrava obsoleta. Tuttavia, gli anni ’80 e i primi anni ’90 possono essere considerati a posteriori la prova generale di quel che avverrà nell’epoca a noi contemporanea: è l’inizio del periodo in cui il cinema non è più il medium principale. Da una parte si avverte il declino, dall’altra si comincia a parlare di culturalizzazione del cinema, di nobilitazione dell’opera-film all’interno dei diversi supporti su cui migra. Ecco, dunque, che nuove generazioni di cinefili possono formarsi attraverso le grandi rassegne televisive o i film in videocassetta. Cresce una nuova cinefilia, segnata dal rapporto dello spettatore con i film fuori dalla sala: il collezionismo casalingo, la programmazione televisiva cinefila notturna e alternativa, i grandi investimenti pubblici per la divulgazione cinematografica negli eventi cittadini, l’ingresso del cinema nelle università, sono tutti aspetti che stimolano la pratica cinefila, pur mutandone ancora una volta i connotati. - Cinefilia postmoderna - La data simbolica del 1995, centenario della nascita del cinema, ha costituito uno spartiacque simbolico anche per la cinefilia. C’è la consapevolezza che, grazie al lavoro degli storici e degli archivisti, alla ricerca delle università e al ruolo delle nuove tecnologie, la storia del cinema sia ormai emersa nella sua completezza. Per lo stesso motivo, tuttavia, si insinua il sospetto che il medium cinematografico, dominante nel ‘900, sia ormai marginalizzato da altri mezzi, in particolare dagli strumenti informatici e digitali. La produzione cinematografica, a sua volta, privilegiando il patchwork di modi e stili preesistenti, ha fatto parlare di fase manieristica e postmoderna del cinema, della critica e infine della stessa cinefilia, impegnata più che altro ad amministrare il passato. Tra le novità più eclatanti, va annoverata una tendenza internazionale, dedicata alla rivalutazione del cinema popolare. Che lo si chiami trash, stracult, bis, o cinema di serie B, serie Z ecc., questo vasto repertorio nutrito di horror, erotico, arti marziali, poliziesco, demenziale, ibridi vari, ha scatenato un seguito imponente, di stampo chiaramente cinefilo: ora come allora, sono necessarie competenza filmografica, sapienza filologica e passione per le riscoperte. Ora come allora, si ricorre alle interviste documentate ed erudite nei confronti di registi non abituati a essere presi sul serio, a revisioni analitiche del giudizio critico, a polemiche nei confronti del gusto ufficiale, con la dichiarata intenzione di rovesciare il canone storiografico che il centenario aveva imposto. Collane di VHS e DVD, festival specializzati, rivista di settore, siti web e ad altri luoghi di alta visibilità hanno identificato un movimento che ha rappresentato l’ultima grande comunità cinefila. Per il resto, i film degli anni ’90 hanno interiorizzato lo sguardo cinefilo fino a sostituirsi a chi di solito lo rappresentava, ovvero gli spettatori. Registi come Tarantino o i fratelli Coen e altri superano di slancio la nostalgia dei registi-storiografi della New Hollywood (→ Coppola, Scorsese, Allen, Spielberg) per esibire la cinefilia nel gesto di chi realizza il film invece che lasciarne lo spazio di manovra a chi guarda. Un mutamento storico segna un’altra tappa della cinefilia. - Nuova cinefilia - Le nuove tecnologie degli anni 2000 mettono a disposizione nuovi luoghi per spartire la pratica cinefila. I social network, i blog e i forum sono diventati negli ultimi anni indispensabili strumenti per la trasmissione della memoria cinematografica e per la condivisione delle proprie idee: si tratta del corrispettivo del cineclub d’un tempo. Sono nate numerose testate online, piattaforme di streaming legale (es. MUBI), si è creato persino un movimento – che va sotto il nome di New Cinephilia – che teorizza un cambio di paradigma: la nuova cinefilia rinuncia a difendere a tutti costi la sala cinematografica, pratica il peer-to-peer per scambiarsi lungometraggi e filmografie, vede film su qualsiasi supporto e si connette con altri appassionati. Va da sé che da alcuni queste modalità vengono accusate di spregiudicatezza, così come la consistenza culturale dei cosiddetti blogger che è stata recentemente contestata. LA CRITICA Introduzione La critica cinematografica compie un secolo negli anni ‘10 nel nuovo millennio. Gli spazi che quotidiani e settimanali dedicano alle recensioni di film è in via di assottigliamento da tre decenni, se non di più. D’altra parte, nell’epoca di Internet, la critica si configura come un’attività del pensiero sempre più a portata di mano. In particolare l’attenzione è concentrata su due paesi in cui la cultura cinematografica è stato una parte estremamente significativa dell’identità nazionale: Francia e Italia. Dai primi passi al consolidamento istituzionale La stampa specializzata di tipo corporativo-professionale vede la luce relativamente tardi rispetto alla data ufficiale di nascita del cinematografo sia in Italia sia in Francia. In Italia, nel biennio 1907-1908 si colloca la “soglia iniziale di una pratica discorsiva” con la fondazione di alcune riviste di cinema (→ la lanterna, café chantant, la rivista fono-cinematografica). L’aumento della durata dei film e la nascita di un sistema sono fattori determinanti nello spostare l’attenzione sui problemi estetico-espressivi del nuovo mezzo. Intorno alla metà degli anni ’10 nasce l’uso di affidare ai letterati le rubriche cinematografiche. A questo punto la questione dell’artisticità del cinema è posta, anche grazie ai primi scritti teorici di Papini, Luciani e Canudo. Ci si interroga anche sullo statuto dell’autore cinematografico, cioè sulla figura che istituzionalmente può essere ritenuta responsabile del risultato estetico del film. In Francia, già a partire dal 1914, la stampa cinematografica specializzata si espande in modo energico (tanto che si parla di una prima epoca d’oro delle riviste di cinema). Se i primi entusiasti sostenitori della settima arte non potevano essere considerati critici cinematografici (in quanto erano soprattutto teorici o artisti), il ruolo di critico in senso stretto è invece appropriato per Louis Delluc. Le riflessioni più celebri di Delluc riguardano il concetto di fotogenia e il ruolo dell’attore cinematografico. Egli mette in luce un approccio ai singoli film che già contiene le caratteristiche poi attive nella critica cinematografica moderna del secondo dopoguerra: la predilezione per il cinema americano bilanciata da un’attenzione a tutto campo per i generi minori come il documentario. Un posto particolare tra le riviste dell’epoca è occupato dalla prima serie di La Revue du Cinéma. Diretta e fondata da Jean-George Auriol nel 1928, ha vista breve ma fa da palestra per molti critici delle generazioni successiva. In Italia gli anni ‘30/’40 sono un periodo di consolidamento delle istituzioni cinematografiche sotto il controllo del fascismo. Bisogna ricordare il ruolo avuto da una rivista come “Cinematografo” di Alessandro Blasetti, che negli anni a cavallo tra il muto e il sonoro ingaggia una campagna per il rilancio della produzione italiana, prestando attenzione agli aspetti tecnici ed estetici del cinema. Alle iniziative giornalistiche si accompagnano quelle istituzionali: l’unione del cinema educativo, il centro sperimentale di cinematografia che ha avuto come antesignana la scuola nazionale di cinema presso l’accademia nazionale di Santa Cecilia. Grazie ad alcune firme (Mario Soldati, Nicola Chiaromonte, Emilio Cecchi) cominciano a circolare discorsi di una certa complessità sul cinema americano, il divismo, il rapporto tra cinema e cultura di massa. La critica cinematografica conquista dignità sui quotidiani. Si assiste allo sviluppo della pubblicistica cinematografica sulle riviste culturali, popolari e specializzate. Sono per lo più intellettuali di formazione umanistica a occupare il ruolo di critici cinematografici sui grandi giornali: Filippo Sacchi sul Corriere della Sera dai primi anni ’30, Mario Gromo sulla Stampa. La partecipazione dei letterati produce una costante delle cultura cinematografica italiana: la dipendenza dei modelli teorico-critici dalle categorie estetiche dominanti nel campo letterario. La rivista Cinema, sotto la direzione prima di Vittorio Mussolini e poi di Gianni Puccini, tra gli anni ‘30/’40 ospita una serie di giovani firme talvolta destinate al successo in campo registico. A lungo il contributo culturale di questa rivista è stato ascritto all’ambito delle cosiddette riviste di fronda, cioè quelle iniziative che, dall’interno del regime si proponevano di intaccarne i principi in vari campi. Benché oggi sia legittimo dubitare dell’alto grado di opposizione al regime ascrivibile a Cinema, non si può negare che la pubblicazione produca le riflessioni più interessanti sul legame tra realismo e ambientazione, sul rapporto tra cinema italiano, paesaggio e identità nazionale, sull’importanza della tradizione letteraria italiana, su una nuova idea di cinema che anticipa per molti versi la poetica neorealista del secondo dopoguerra. Infatti, è nel dopoguerra che il cinema riconquista rapidamente il centro della scena culturale nazionale francese e italiana. In Francia il periodo è propizio e il boom editoriale delle riviste sembra conformarlo: il terreno è reso ancor più favorevole dal successo dei ciné-clubs e dalla pubblicazione delle riviste più importanti dell’immediato dopoguerra. A L’écran français si aggiungono Tele- Ciné, Image et son, la seconda serie di La revue du cinéma, cahiers du cinéma e positif. Sono soprattutto Alexandre Astruc e André Bazin a favorire il cambiamento delle categorie critiche nel dopoguerra. Astruc è l’autore di una trentina di articoli influenti all’epoca all’interno del dibattito sul realismo, e viene ricordato soprattutto per la definizione della caméra-stylo: il cinema è un linguaggio attraverso il quale l’artista può esprimere pensieri e ossessioni servendosi della macchina da presa esattamente come un saggista o un romanziere fa con la penna. Bazin scrive articoli per Esprit, Les Temps Modernes e la Revue di cinéma. Bazin partecipa al dibattito teorico mettendo a punto distinguo tra diverse forme di realismo. È un operatore culturale impegnato nell’attività dei cineclub e nella diffusione di film francesi e stranieri. Nella cultura cinematografica postbellica si colloca tra spinte al rinnovamento delle categorie critiche, teorizzazioni sul realismo e apporto fenomenologico all’interpretazione dell’immagine. Inoltre, partecipa al lancio dei Cahiers assieme a Valcroze e Lo Duca. Il primo numero esce nell’aprile del 1951. I cahiers del primo periodo dimostrano un eclettismo abbandonato quando all’interno della redazione si fanno largo i collaboratori più giovani, tutti futuri registi in prima linea del cinema moderno → Truffaut, Godard, Rivette e Rohmer, i cosiddetti giovani turchi. Con loro nasce la politica degli autori. La nascita della critica cinematografica moderna in Francia Atto di nascita della politica degli autori è considerato l’articolo di Truffaut “Alì Babà e la politica degli autori”. La politica non ha mai sostenuto la tesi della promozione generica del cinema d’autore. L’aspetto specifico della politica è di avere applicato la categoria di autore su terreni inediti, cioè soprattutto sul terreno del cinema hollywoodiano. Ma i registi americani non sono l’unico oggetto d’amore. Altri europei sono al centro del dibattito: Rossellini, Bresson, Renoir e Becker. L’articolo di Truffaut prende le difese di un film minore di Becker ed espone le caratteristiche principali della politica degli autori: 1. Il volontarismo dell’amore. Truffaut scrive: “alla prima visione, Alì Babà mi ha deluso, alla seconda annoiato, alla terza appassionato e rapito. Superato lo scoglio della cifra 3, ogni film prende il suo post nel mio museo privato e ristretto.” → prevede la visione ripetuta e l’intimità con il film da amare e non semplicemente amato. La politica degli autori prevede che si segua una procedura: più visioni a distanza ravvicinata, discussione a fine proiezione. La procedura risponde a un imperativo: non bisogna semplicemente provare piacere e amore per certi film d’autore, bisogna farseli piacere. Anche di fronte ad Alì Babà, Truffaut ammette il proprio imbarazzo ma confessa che, anche se non gli fosse piaciuto, lo avrebbe difeso in nome della politica degli autori. Poi, in soccorso del critico, è arrivato il “rituale”. 2. Il dovere di seguire l’opera nel suo farsi. La necessità di amare l’opera di un regista si collega al fatto che l’oggetto da amare non è il singolo film. L’apprezzamento estetico si deve rivolgere a qualcosa che è da sempre più piccolo o più grande del film esemplare. Più piccolo, perché i critici della politica non difendono la nozione di capolavoro né le categorie estetiche che ne rendono possibile il riconoscimento nella tradizione, ma lo scarto, il particolare secondario nell’opera maggiore, oppure le opere meno riuscite di un autore amato, la capacità del sacrificio e del fallimento in nome di un’ossessione. Più grande, perché accanto all’elogio dell’imperfezione si trova l’idea che non è il singolo film a contare ma il corpus delle opere. Ciò che garantisce per l’integrità è l’autore stesso. Nella rete esistono le tracce di una tradizione che resiste al passaggio in digitale. La recensione è un esempio di persistenza. Essa rimane uno dei format di scrittura tuttora più praticati da blogger e critici del web. Tuttavia la dimensione del cambiamento che il web ha introdotto nel mondo della critica cinematografica è evidente. E può essere riportata a tre considerazioni principali. In primo luogo, assistiamo a una commistione delle tipologie discorsive. Anche la recensione è sempre più liberata da vincoli. Nelle recensioni sui blog troviamo: disarticolazione della dispositio tradizionale, riarticolazione del format intorno a modelli nuovi, scelte lessicali basso-mimetiche, uso di un linguaggio colloquiale che si richiama alla forma diaristica. In secondo luogo, tramite internet si assiste a una ridefinizione della nozione di gusto. Nel modello tradizionale della sociologia del gusto le pratiche di consumo e apprezzamento culturale sono formate e determinare da network sociali preesistenti. In rete si assiste a un fenomeno complementare e inverso: i differenti stili di consumo e apprezzamento culturale influenzano e/o generano reti sociali. Tutto ciò produce una società del giudizio generalizzato a cui anche i critici cinematografici cominciano a adeguarsi. Ad esempio impegnandosi a garantire un’affermazione costante della propria expertise online e un consolidamento del ruolo di taste maker trasversalmente al sistema dei media, scrivendo sui giornali cartacei ma tenendo anche rubriche sui siti, dibattendo di cinema sui social network ecc. In terzo luogo, online si ridefinisce il ruolo dell’expertise. Sul web si contendono la scena diversi dispositivi di influenza culturale: troviamo siti come Amazon o MYmovies dove trionfano le recensioni di utenti comuni e critici non professionisti, ma anche la sopravvivenza di forme di expertise più tradizionali. Sempre MYmovies ha una sezione dove viene raccolta una rassegna stampa. Nuovi recensori si affacciano sempre sulla scena. L’expertise tradizionale è continuamente rimediato attraverso siti, blog, pagine personaggi, riviste online; funziona come un sistema senz’altro meno affidabile e chiuso quello di un tempo, ma anche molto più testabile. Il sistema di valutazione incrociato tra film, prodotti culturali, lettori e recensori professionali, testimonia in eloquente quanto la nostra contemporaneità sia uno spazio culturale in cui è tutt’altro che superfluo controntarsi a fondo con la funzione orientativa al consumo. Infine, tutti i fenomeni qui considerati rispondono a una logica profonda di deistituzionalizzazione della critica cinematografica. Al punto che per i più scettici si può parlare di una vera e propria scomparsa: la critica si sarebbe dissolta nel trionfo dell’opinionismo molecolare reso possibile dal web. Malavasi sostiene, ad esempio, che la maggior parte dei portali di cinema italiani si ispira a un modelli di critica conservatore, interamente costruito sull’emulazione delle formule proprie della critica cartacea, rivolto a uno spettatore ideale ingordo di film ma sostanzialmente indifferente alla qualità della scrittura e del pensiero. E per quel che riguarda i blog, la situazione non è molto diversa. D’altra parte, i difensori della rete insistono sull’effetto quantitativo: il web ha generato l’avvicinamento di un gran numero di utenti al discorso critico, cosa che è da considerarsi in termini positivi. Inoltre, pare che tale avvicinamento, più che avere distrutto la cultura degli esperti, le si sia affiancata. Oggi online troviamo complicati saggi accademici, recensioni di seri professionisti e il dilettantismo più assoluto. Il mondo della critica e quello della cinefilia sono radicalmente cambiati nel corso degli ultimi anni. IL GENERE Ripetizione e variazione Barry K. Grant, nell’introduzione all’antologia di saggi da lui curata sui generi cinematografici, esordisce così: “Per dirla con semplicità, i film di genere sono quei lungometraggi commerciali che, attraverso la ripetizione e la variazione, raccontano storie note con personaggi noti in situazioni note. Questi film incoraggiano anche attese ed esperienze simili a quelle di film simili che abbiamo già visto”. L’industria del cinema ha fatto ricorso ai generi sin dalle sue originali, per ovvie ragioni finanziarie. Da un lato, se racconto sempre la medesima storia, con piccole variazioni, risparmio sui materiali narrativi. E se possiedo dei teatri di posa, posso riutilizzare in maniera sistematica set e costumi. Dall’altro, i generi – così come i divi – producono meccanismi di fidelizzazione, spesso stabilendo un rapporto privilegiato con certi segmenti di pubblico. Il cinema ha ereditato i generi dalla letteratura e dal teatro dell’800. A sua volta, il cinema ha lasciato in eredità a media nati successivamente, innanzitutto la televisione, il sistema dei generi che ha elaborato. Il risultato è che, in molti casi, i generi si configurano come grandi contenitori di storie e personaggi, che trovano espressione contemporaneamente in più media che si influenzano reciprocamente. Si prenda, ad esempio The Walking Dead. La serie è l’adattamento di una storia a fumetti che si rifà alla lunga tradizione del film sugli zombie → iniziata con La notte dei morti viventi di George Romero (1968). A tale filone cinematografico hanno guardato i creatori della serie televisiva, che in tal modo risulta al centro di una rete intermediale, in cui troviamo anche un videogioco e una miniserie per il web. Se un film di genere è “un film che abbiamo già visto”, è ovvio che il genere è legato a fenomeni come il remake, il sequel e alla propensione dell’industria del cinema a realizzare sempre nuovi adattamenti di romanzi particolarmente fortunati. Ma un film di genere non è esattamente un film che abbiamo già visto, si basa su una dialettica tra ripetizione e variazione. Il film per essere percepito dallo spettatore come appartenente a un certo genere deve presentare vari elementi → musical = ballo e canto / horror = eventi spaventosi. In questo senso, bisogna notare che i generi si definiscono in base a criteri disomogenei. Alcuni sono caratterizzati dalla collocazione spazio-temporale: un peplum (o storico-mitologico) è un film che si svolge nel mondo antico, un Bergfilm (cioè un film di montagna) racconta una vicenda ambientata in una valle alpina di lingua tedesca, un fantasy narra una storica collocata in un medioevo fantastico. Altri generi, invece, si definiscono sulla base dell’impianto narrativo: la commedia romantica racconta una storia d’amore a lieto fine (se invece il finale è tragico siamo nel melodramma), mentre un biopic ricostruisce la vita di un personaggio illustre. Altri generi, ancora, si connotano per l’ambientazione sociale: i gangster movies, la commedia all’italiana. Ma ci possono anche essere marche stilistiche che caratterizzano un genere → noir e war movies. Dall’altro lato, accanto allo standard, c’è la variazione. Un genere cinematografico prevede sì un sistema di norme, ma pure la loro trasformazione, sino al punto della violazione vera e propria delle regole. Ad esempio, per tutti gli anni ‘50/’60, la fantascienza si presenta come un genere legato in buona parte al cinema di serie B. Sono film con effetti speciali realizzati in economia, dove mostri giganti o invasori alieni distruggono le metropoli americane. Ma alla fine degli anni ’60, film come 2001: Odissea nello spazio (Kubrick, 1968) o Il pianeta delle scimmie (Schaffner, 1968), trasformano in maniera radicale il genere, che dà forma “umile” diviene genere di serie A. Spesso i generi sono stati descritti attraverso metafore biologiche: in ogni genere sarebbe possibile riscontrare un’infanzia, un’età adulta e una decadenza. Ma se andiamo a osservare con più attenzione la storia del cinema di fantascienza, ci rendiamo conto che le cose sono più complicate. Alle origini del genere troviamo opere come Metropolis (Fritz Lang, 1927). E la lettura ispirata alla metafora biologica non tiene neppure se esaminiamo il panorama della fantascienza successivo al “salto di crescita” di 2001. Gli anni ‘70/’80 vedono l’uscita di film “adulti”, come Blade Runner (Ridley Scott, 1982). Ma quello è anche il periodo in cui esplode il fenomeno di Star Wars, una saga di nove lungometraggi, realizzati tra il 1977 e il 2019, che per molti versi “riporta” la fantascienza al livello del divertimento infantile e adolescenziale. I generi, dunque, sono un campo di forze dove agiscono tendenze diverse, in alcuni casi contrastanti, soprattutto in rapporto all’inevitabile cambiamento dei gusti e della mentalità del pubblico. Il finale di Il lungo addio (Altman, 1973), dove il protagonista, il detective Philip Marlowe – personaggio chiave della letteratura e del cinema noir – spara a sangue freddo al suo amico è in sintonia con il clima disincantato degli anni ’70, e sarebbe stato inaccettabile per il pubblico del periodo classico. Inoltre, sul tema dei generi cinematografici, i produttori, se da un lato possono essere propensi a riutilizzare soluzioni già sperimentate, dall’altro hanno anche l’esigenza di presentare il nuovo film come diverso rispetto a quelli dei concorrenti. Secondo Altman, i produttori preferiscono ragionare in termini di ciclo, più che di genere. Mentre il genere è un’etichetta ampia, che mette insieme i prodotti di case di produzione diverse, omologandoli tra loro agli occhi dello spettatore, il ciclo è una serie di film più piccola, che si muove dentro l’orizzonte del genere, ma che si staglia in maniera chiara all’interno di quel contesto. Il “ciclo” è proprietà di una singola casa di produzione, che in questo modo si distingue dalle altre. Ad esempio, dentro il genere spionistico, un ciclo dalla longevità straordinaria è quello di James Bond, iniziato nel 1962 e che, attraverso l’alternarsi di più attori nel ruolo dell’agente segreto, ancora non si è esaurito. Ma il fatto che il ciclo sia strettamente legato ai suoi produttori non significa che i concorrenti non possano tentare di copiarne le caratteristiche → negli anni ’60 ci sono diverse imitazioni di Bond, anche se le imitazioni continuano ancora oggi, parliamo per esempio di Jason Bourne, Matt Helm (più parodico) o Harry Palmer (declinazione più realistica – realizzato da molti che avevano già lavorato con Bond). Un ciclo può anche essere strutturato attorno a personaggi e situazioni semplicemente affini. Ad esempio, dopo il successo di Casablanca (1942), Humphrey Bogart interpreta, sempre per la Warner Bros, altri due film come Il giuramento dei forzati e Acque del Sud, in cui vengono riproposti molti elementi della pellicola del 1942: la tipologia di eroe, le situazioni e i temi e drammatici, oltre a molti degli attori. I generi si trasformano nel corso del tempo, tendono anche a ibridarsi tra loro. L’esempio forse più radicale di ibridazione è la parodia, dove un film comico mette in ridicolo i codici di un genere serio. Prendiamo, ad esempio, La finestra sul cortile (Hitchcock, 1954). Di primo acchito, siamo portati a collocare questo titolo nella categoria del giallo. Ma accanto alla detection corre una seconda linea narrativa, la storia d’amore tra Stewart e Kelly). Il meccanismo è quello tipico della commedia. La love story non è un semplice materiale di contorno. Anzi, per molti versi, è l’indagine a essere subalterna funzionale alla vicenda sentimentale. Il film ha due finali, uno per ciascuno dei generi in cui si inscrive. Il primo finale è quello giallo: il colpevole viene arrestato. Nell’ultima scena, vediamo James Stewart che sonnecchia. Grace Kelly è sdraiata sul letto, intenta a leggere un libro di viaggi e il suo abbigliamento è totalmente estraneo rispetto alla figura presentata in tutto il film. Appena lei si accorge che lui dorme, mette via il libro e prende una rivista. È un tipico finale da commedi romantica, dove, all’ultimo istante, i giochi si riaprono, perché si tratta di un genere che ha al centro una vicenda che strutturalmente non si può chiudere: l’eterna lotta tra gli uomini e le donne. Il cinema americano per eccellenza Il cinema western nasce sulla scorta di una tradizione precedente: il grande bagaglio di storie e leggende sulla conquista delle terre dell’ovest che la cultura americana, nel corso dell’800 raccoglie e mette in forma, dalla letteratura agli spettacoli. Il western nasce già nel periodo del cinema muto. Spesso si dice che il primo sia stato The Great Train Robbery (Porter, 1903). In realtà, agli inizi del ‘900 il genere ancora non esiste nel cinema. Il western si costituisce come genere solo negli anni ’10, e nel decennio successivo troviamo alcuni, primi, titoli di grande rilevanza, quali I pionieri e il cavallo d’acciaio. Ma con l’arrivo del sonoro il western subisce un’involuzione. Negli anni ’30 si presenta come genere di serie B, il cui principale sottogenere è il western musicale. La grande trasformazione avviene tra la fine degli anni ’30 e inizio anni ’40, innanzitutto grazie a, che, da lì sino agli anni ’70 il western rimane uno dei generi portati dal cinema hollywoodiano, sviluppando un ricchissimo catalogo di temi e situazioni drammatiche, personaggi, spazi e convenzioni stilistiche. A rigore, un film western racconta una vicenda ambientata nella parte occidentale del nord America nel XIX secolo. Ma molti film che non rispondono a questa definizione sono assimilati al western perché presentano situazioni affini e/o perché sono stati realizzati da attori e registi legati al genere. Per esempio il mucchio selvaggio (Peckinpah, 1969 → il principale regista western della New Hollywood), che si svolge in Messico negli anni ’10 del ‘900, e che però, per trama e personaggi, non si può che definire un western. Talvolta, lo sfasamento temporale, può essere molto più ampio, e allora ci troviamo di fronte al cosiddetto western contemporaneo. È indubbio che tra Ombre rosse e I cancelli del cielo, si verifichi una trasformazione del modo in cui il genere guarda al contenuto mitologico cui si alimenta. Il western è stato definito “il cinema americano per eccellenza” perché mette in scena il grande mito di fondazione della nazione. Ma progressivamente, questo mito viene messo in discussione. Già il cinema degli anni ’40 e ’50 iniziava a mostrare il lato oscuro dell’epopea della frontiera: i primi film pro-indiani, quali il massacro di Fort Apache (Ford, 1948), oppure film con eroi segnati da una dimensione nevrotica, al limite della psicosi, come Il fiume rosso (Hawks, delicato. Da un certo punto di vista è possibile affermare che Griffith utilizza il cinema per dare forma alla concezione del mondo di un paese in ascesa, dinamico, multietnico e multiculturale, certamente (anche) capitalista. In questo paese, il cinema era il mezzo espressivo più influente ed efficace per raccontare la presa del potere da parte di una nazione e di quel suo stranissimo popolo composto da una borghesia in potenza. Dunque un proletariato che scavalca la tradizionale prospettiva della dialettica e dello scontro di classe. Questo popolo, una massa ignorante e indistinta, inconsapevole e addomesticata, era pur sempre un popolo. Da questo, che oggi si chiamerebbe cultural clash, deriva una serie di conseguenze che appaiono per certi aspetti ancora significative a un secolo di distanza da eventi da cui tutto si origina. Il film d’arte e l’arte del film È sufficiente notare che i 4 grandi nomi della nascente Hollywood che fonderanno assieme la United Artists, erano nati in angoli remoti dell’impero e venivano da famiglie e situazioni economica a dir poco problematiche. Giovanni Pastrone, come molti dei suoi colleghi, aveva ricevuto un’istruzione regolare, come si conveniva in una famiglia borghese dell’epoca, diplomandosi contemporaneamente in ragioneria e in violino. Il suo trasferimento a Torino, dunque, avvenne per prendere parte all’orchestra del Teatro Regio e da lì passò poi al cinema per seguire un’estrosa vocazione. Sono sufficienti questi pochi cenni biografici per comprendere le ragioni profonde che portarono Pastrone a chiedere a D’Annunzio una legittimazione culturale per un film che necessitava dell’imprimatur di opera d’arte al fine di accreditarsi presso l’audience nazionale, tanto quella borghese quanto quella popolare da cui era in gran parte composto il suo pubblico. Non è che negli USA non valessero le logiche distintive che hanno riguardato le differenze fra cultura alta e cultura bassa popolare. Anzi, in quanto nazione giovane, gli USA sono stati il luogo d’elezione di una serie di analisi che hanno dimostrato come la nascita di questo concetto di cultura si svolga come sempre in parallelo all’emergere di un’aristocrazia locale. Già nelle parole degli intellettuali, il rapporto appare svilupparsi in forme decisamente diverse rispetto al contesto europeo in generale e italiano in particolare. Se si legge il testo di Victor Oscar Freeburg che raccoglie lezioni e riflessioni svolte fra il 1915 e il 1917, ci si accorge subito che all’utilizzo di categorie desunte delle arti tradizionali per inquadrare culturalmente il cinema e promuovere la realizzazione di film qualitativamente migliori si affianca una sensibilità per le esigenze del mercato che è, a dir poco, rarissima nei suoi colleghi d’oltreoceano. Per Freeburg la natura industriale del cinema, la sua necessità di capotali ingenti e, dunque, di riferirsi costantemente a un pubblico popolare solo le basi di partenza di ogni discorso sul cinema. Si tratta di costruire una dialettica positiva, che porti i film e il pubblico a incentivare reciprocamente uno sviluppo in senso qualitativo. Analogamente, negli anni ’30, uno dei più raffinati esperti di arte colta del ‘900, Erwin Panofsky, formula alcune considerazioni che vanno nella stessa direzione di Freeburg. Come possiamo leggere in Medium and Style in Motion Pictures → oggi non si può negare che i film siano arte; ci piaccia o no, è il cinema a formare, più di ogni altra cosa, le opinioni, il gusto, il linguaggio, le abitudini, il comportamento e perfino l’aspetto fisico di un pubblico che conta oltre il 60% della popolazione terrestre. Panofsky non si limita a impostare la questione in termini di legittimità e di vitalità del prodotto per antonomasia dell’industria culturale, ma arriva a perorare la causa della comunicatività e della commerciabilità del prodotto, che sono correlativi oggettivi della sua popolarità, in quanto portatrici di un valore aggiunto → il requisito della comunicabilità rende l’arte commerciale più vitale, e perciò potenzialmente molto più efficace, nel bene e nel male. Come dimostrano i molti film eccellenti che si sono dimostrati anche dei grossi successi commerciali, il pubblico non rifiuta i buoni prodotti quando gli vengono proposti. Il fatto che ciò non accada molto spesso è dovuto non tanto al fattore commerciale come tale, quanto allo scarso discernimento e, per quanto possa sembrare paradossale, a un’eccettiva prudenza nell’applicare i criteri commerciali. Non solo Panofsky non ritiene che debba esservi alcuna contraddizione in termini fra le potenzialità commerciali e artistiche di un prodotto, istituendo anche una relazione fra commerciabilità e comunicatività di un prodotto, ma si spinge fino ad affermare che un oggetto è tanto più capace di riflettere ed influenzare i processi sociali in atto, quanto più è commerciabile. In seno allo stesso cinema americano, questa dialettica fra cultura popolare e atteggiamenti elitari è costantemente rimarcata anche sul piano diegetico all’interno di opere di grande impatto e diffusione. Frank Capra, con Il treno di Minnie (1928), dove si narra di un celebre attore di Broadway che durante un viaggio entra in contatto con una compagnia teatrale di provincia. Il modo di mettere in scena una storia epica da parte di tale compagnia è così naif per la sua sensibilità sofisticata di cittadino metropolitano che decide di trasferire a NY la filodrammatica. Qui essi otterranno uno straordinario successo ma in termini comici, diventando loro malgrado una parodia di sé stessi. Un successo che rifiuteranno sdegnati, preferendo di gran lunga tornare al loro pubblico, magari rozzo ma sinceramente appassionato. Il film di Capra è emblematico per due ragioni: la prima consiste nella durezza con cui viene castigata la violenza simbolica → ciò che viene immediatamente individuato è infatti il rapporto che esiste fra un pubblico culturale e i suoi codici e il suo pubblico di riferimento. Quel tipo di teatro è pensato per quel tipo di pubblico (poco sofisticato, ma non per questo meno degno). Il fatto che un altro pubblico, socialmente e culturalmente più elevato come quello di Broadway, si senta in diritto di ridere a crepapelle per la rudimentale ingenuità di quella rappresentazione è inquadrato, appunto, nei termini di un violenza simbolica nei confronti di altri spettatori, percepiti come inferiori. Per Frank Capra è chiarissimo che la cultura di gusto nasconda in realità un rapporto fra due soggetti (il pubblico alto e quello basso) mediato da un oggetto (la rappresentazione teatrale). A confrontarsi sono due tipi di audience che si differenziano, in termini di stratificazione sociale, in maniera del tutto diversa rispetto alla tradizione europea. Un pubblico che si accalca per divertirsi con spettacoli musicali e di intrattenimento estremamente densi ed elaborati sotto il profilo formativo, ma del tutto indipendenti dalla logica auratica della legittimazione culturale e della tradizione, contrapposto a un pubblico che è semplicemente ancora indietro, fermo a una dimensione provinciale. La cultura elitaria di cui parla il film, allora, non è la cultura delle élite nel senso classico del termine, ma riguardano una classe in via di formazione e una percentuale risibile della popolazione americana dei primi decenni del ‘900. Così mentre un musicista come Cole Porter in You’re the top sublimava la nascita di quella che vista da occhi europei sarà chiamata dispregiativamente industria culturale, nel segno di un’ironia che più avanti sarà definita postmoderna, nello stesso periodo Preston Sturges concepiva la satira diabolica di un film come I dimenticati. In questo film, che diventerà un manifesto grazie all’omaggio che gli renderanno i fratelli Coen, si racconta di un regista diventato ricco e famoso grazie a brillanti commedie hollywoodiane. Insoddisfatto per la sua frivolezza di un cinema che egli è il primo a giudicare di evasione, John Sullivan decide che realizzerà un grande affresco epico e impegnato per raccontare e denunciare le condizioni della popolazione prostrata dalla grande depressione. Determinato a conoscere lo stile di vita dei derelitti che intende mettere in scena nel suo film, Sullivan vivrà una serie di avventure che lo porteranno a cambiare radicalmente la sua prospettiva. Alla fine, si renderà conto che un film impegnato e drammatico non apporterebbe alcun beneficio alle persone in nome delle quali l’opera si presenterebbe, mentre costoro provano enorme conforto di fronte a un cinema di intrattenimento magari elementare ma capace di comunicare con loro su un piano difficilmente concettualizzabile e di intrattenerli, alleviando la loro fatica quotidiana. Il film di Sturges è naturalmente discutibile sul piano ideologico, ma ha il merito di essere di una sottigliezza e di un’intelligenza micidiali. Si può osservare che Sturges infilza un’altra serie di caratteristiche della cultura alta: il registro serioso, la pulsione epica, la pretesa etica e quella pedagogica, ma soprattutto la vocazione realistica e il narcisismo che si cela dietro un’arte che guarda con cipiglio e sospetto l’intrattenimento popolare. La nemesi non tarderà a manifestarsi in una doppia forma. Mentre i suoi compagni ridono di gusto, guardando Mickey Mouse che rappresenta una perfetta metafora delle peripezie quotidiane che quei poveracci di carcerati devono affrontare per sopravvivere, Sullivan ha un’illuminazione. Per capire il popolo bisogna prima di tutto mettersi al suo livello. La seconda nemesi è rappresentata dal film di Sturges in quanto tale. Nello sviluppare questa commedia brillante, Sturges – di fatto – realizza anche il dramma impegnato di cui si parla dentro il film. Nel nome del popolo italiano La storia ufficiale del cinema italiano prende forma sulla base di una prospettiva istituzionale. C’è la storia del paese genericamente intesa e la storia degli apparati connessi al cinema. Le case di produzione, le leggi che regolano questa produzione, le prassi realizzative, una serie di figure individuali che offrono un contributo creativo nei limiti politici e tecnologici a loro imposti. Da tutto questo derivano film che manifestano uno stile e veicolano messaggi. Sono rivolti a un pubblico che sceglie di andare a vederne alcuni piuttosto che altri, ricavandone maggiore o minore gratificazione e un certo grado di utilità. Per quanto Adorno e Horkheimer si fossero sforzati si fossero sforzati di spiegare che l’industria culturale trascinava con sé la morte dell’arte, è ancora il principio artistico a stabilire ciò che deve essere privilegiato. Questo processo di canonizzazione fa sì che le opere dei maestri ampio spazio e che quelle solitamente rubricate sotto etichette quali di genere o commerciali siano relegate a cenni catalografici sintetici. Poiché tutti i film sono commerciali, in quando prodotti tramite l’investimento di capitali che si spera di recuperare attraverso l’incasso del prezzo di un biglietto, e tutti i film, in qualche modo, sono di genere, se ne deduce che tali film sono semplicemente considerati meno importanti perché meno belli oppure rivolti a un pubblico meno intelligente. È l’opera di Pierre Bourdieu a spiegare le ragioni di questo fenomeno. Possiamo infatti tranquillamente ipotizzare che lo storico e il critico debbano sottostare alle regole del campo intellettuale, e in qualche caso si potrebbe supporre che la loro autorevolezza dipenda proprio dalla dimostrazione di possedere un habitus mentale adeguato alle regole del gioco. Resta il fatto che l’arbitrarietà di queste attribuzioni è tale da poter essere tranquillamente messa in discussione. È esattamente quanto accade con la nascita di vere e proprie comunità e della critica tradizionali, ribaltano la gerarchia degli oggetti e, attraverso il filtro di testimonials prestigiosi, pretendono un loro spazio all’interno delle istituzioni culturali. Esemplare è il caso di una rivista come “Nocturno” e degli innumerevoli siti o blog a essa collegati, sulle cui pagine la produzione di genere e commerciale viene trattata da community o di critici/fan con lo stesso linguaggio e competenza, nonché sottoposta alle stesse attenzioni di ricostruzione e interpretazione del testo che la critica e la filologia tradizionali riservavano ai capolavori canonici o in via di canonizzazione. Questo non solo è lecito, ma produce anche risultati visibili sia in termini strategici sia in termini di ampliamento oggettivo delle conoscenze relative al cinema, lasciano inalterata però la struttura essenziale del campo intellettuale nel quale si inserisce. Non si intende con questo formulare una critica nei confronti di un’operazione comunque meritoria e perseguita con ammirevoli competenza e passione, ma crediamo che la riprova di quanto appena affermato consista nel fatto che tale prospettiva è preferibilmente rivolta al passato o a opere che si muovono ai margini del circuito commerciale mainstream ai confini dell’underground, secondo un meccanismo di inclusione che deve comunque prevedere regole di esclusione altrettanto rigide. In realtà, storicamente la cultura cinematografica italiana è un ambiente che si sviluppa in parallelo al contorto processo di modernizzazione del paese nel suo insieme, elaborando alcune strutture nel corso degli anni ’30 e precisandole nel corso degli anni ’60. Uno studioso di letteratura Vittorio Spinazzola a proporre il primo studio davvero pionieristico e, per molto tempo unico, su ciò che è stata definita correttamente la rappresentatività sociale del cinema. Avendo intuito ciò che verrà ben concettualizzato da Pierre Sorlin solo diversi anni più tardi, ovvero che il cinema può essere specchio della società solo in quanto è realtà sociale esso stesso, Spinazzola cerca di adottare nei confronti dello spettacolo cinematografico un approccio descrittivo che parte appunto da una realtà inconfutabile. Il cinema è quello che viene visto in sala dal più ampio numero di componenti di una società. Così, ogni sua analisi da parte del lato relativo agli incassi, senza reputare ingenuamente che si tratti di un indicatore assoluto, ma nella convinzione che si tratti di un presupposto oggettivo con cui si deve fare i conti, proprio perché ci si muove comunque sempre all’interno di un contesto industriale/commerciale e di massa. Questo non significa tralasciare come non pertinente qualsiasi considerazione di carattere etico o estetico, bensì problematizzarla. Non è una variabile indipendente ma qualcosa che ha sempre delle ragioni, specie se il dato non è relativo alla riuscita contingente di una singola opera ma riguarda un filone, perciò un trend. Semplificando si può dire che Spinazzola parta dal presupposto che se il pubblico rifiuta qualcosa che dovrebbe interessarlo per adottare diverse abitudini di consumo → Il pubblico non è un organismo amorfo ed eterodiretto, ma un insieme di soggetti che estrinsecano, anche attraverso la fruizione cinematografica, un agire sociale dotato di senso. Spinazzola manifesta una lucidità e una coerenza straordinarie, pur senza avere mai la pretesa di offrire un quadro storico coerente ma restando sempre saldamente ancorato al viene portata avanti per numerose puntate. Ogni frammento in genere si interrompe proprio in un momento di massima tensione, lasciando il protagonista in una situazione apparentemente disperata, in attesa di una risoluzione che arriverà (forse) soltanto con l’episodio successivo. Che la produzione di contenuti audiovisivi adotti meccanismi simili a quelli della produzione industriali non è necessariamente un male. I prodotti seriali non sono oggetti tutti uguali. Al contrario sono il frutto di una modalità produttiva che, pur limitando alcuni costi, ad esempio attraverso il riciclo dei set o l’uso di attori ricorrenti, non lesina sull’innovazione. La struttura tipica dei prodotti seriali, infatti, rende possibile numerose invenzioni sul piano narrativo, favorendo l’inserimento di varianti, spesso costruite come episodi speciali, omaggi, citazioni ed episodi “what if” che aprono la narrazione su altri mondi possibili e su linee narrative ancora poco esplorate, senza per questo alterare la fisionomia del prodotto. In sostanza, il fruitore non si trova in difficoltà davanti a episodi anomali rispetto al canone della serie che portano i personaggi in situazioni diverse da quelli abituali, poiché sa che le variazioni sul tema sono solo temporanee e, per questo, ancora più gradite. Pensiamo agli episodi doppi delle sit-com, che in genere spostano i protagonisti dagli ambienti abituali e impongono significativi twists narrativi: è il caso, ad esempio dei numeri episodi doppi in Friends, spesso ambientati al di fuori di NY (Las Vegas, Londra ecc.), di frequente posizionati a conclusione di una stagione e in cui hanno luogo eventi che rimettono tutto in discussione (matrimoni, litigi ecc.) lasciando nello spettatore la curiosità di saperne di più. Le forme seriali per la televisione A partire dagli anni ’80 la produzione di narrazioni seriali per la televisione ha coinciso con l’affermarsi di nuovi modelli narrativi e con peculiari forme di produzione. Indicativamente con la serie Hill Street giorno e notte (1981-1987) si inaugura la stagione della costruzione drammaturgica multistrand, cioè una narrazione multilineare, che affronta contemporaneamente più vicende e più personaggi e permette quindi di mettere in atto quei processi di fusione tra serie e serial che sono alla base dei processi di serializzazione della serie tipici della televisione contemporanea. Di fatto il prodotto “serie” come lo si era inteso fino a quel momento, cioè come insieme di episodi autoconclusivi uniti tra loro solo dai personaggi fissi, viene soppiantato da un modello nuovo che prevede la sospensione della narrazione e la flessibilità dei personaggi tipica delle soap opera. Colombo incontra Beautiful e quel che ne esce è la forma seriali degli anni 2000: un prodotto ibrido, in cui alcune questioni trovano soluzione all’interno del singolo episodio (o blocco di episodi) e altre si protraggono invece per tutta la durata della stagione. Pensiamo, ad esempio, a una serie ad alta tensione come 24 (2001-2010) → in questa serie il grado di serializzazione è molto elevato: poiché la minaccia è sempre incombente gli episodi non si concludono mai con una risoluzione, ma lasciano sempre lo spettatore con il fiato sospeso. È però altrettanto vero che ogni 4/5 episodi assistiamo alla risoluzione di alcune vicende: ciò garantisce una momentanea tregua allo spettatore e permette l’introduzione di nuove tematiche. Ritroviamo un meccanismo simile anche in altre serie contemporanee come Lost. Il modello della serie serializzata vede i singoli segmenti che la compongono mantenere un alto grado di autonomia: all’interno di ogni episodio c’è sempre una storia centrale (detta anthology plot), che si conclude all’interno dell’episodio stesso, ma c’è anche una cornice che si prolunga per più episodi (detta running plot), che costituisce l’elemento di novità della formula e che, fa sì che anche il piacere dello spettatore si prolunghi o, perlomeno, si dilati. All’episodio completamente autosufficiente e non concatenato viene così aggiunto un elemento di progressione temporale e di parziale apertura narrativa, assente invece dalla formula tradizionale. Il ritorno del già noto La serialità cinematografica degli anni ’80, ad esempio, era costituita da gruppi di film che potremmo chiamare “serie”, all’interno della quale singole pellicole funzionavano come episodi delle narrazioni seriali televisive. Sostanzialmente, i singoli film, potevano essere fruiti in maniera abbastanza indipendente un dall’altro. La struttura dei rimandi seriali faceva sì che la maggior parte del meccanismo fosse costruito e organizzato intorno al personaggio principale, che tornava a riproporre al pubblico le stesse identiche situazioni, lo stesso tipo di tensione e di struttura narrativa → ad esempio Rambo e Rocky. Secondo Canova, questo tipo di prodotto possiede, fin dal titolo caratteristiche che lasciano supporre una qualità standard del prodotto, uno sviluppo lineare e progressivo del récit, un rigoroso controllo dello spazio e del tempo diegetico. I singoli film che compongono la serie Rambo e Rocky non sono la continuazione o la ripresa dell’episodio precedente, ma sono invece una nuova storia, autosufficiente e dotata di una sua chiusura narrativa. Possono essere fruiti da uno spettatore attento, che conosce ogni singolo episodio che compone la serie, ma possono essere apprezzati anche da chi ne veda uno solo o da chi li fruisca in un ordine non strettamente cronologico. Parallelamente, a partire dalla metà degli anni ’80, assistiamo a un cambiamento nelle forme seriali cinematografiche che sembra rispecchiare quello che avviene in ambito televisivo. Pensiamo ad esempio alla trilogia di Ritorno al futuro (Zemeckis, 1985-1990) o a Kill Bill (Tarantino, 2003-2004). Nel caso di Zemeckis, il modello narrativo di riferimento è quello della serie serializzata: ogni singolo episodio presenta una risoluzione solo parziale delle vicende narrate, concludendosi in modo aperto e rimandando già all’episodio successivo. Con Tarantino, invece, siamo davanti a un prodotto concepito come un unico film, ma distribuito e fruito in due puntate assolutamente concatenate. Infine va ricordato il caso di Matrix (Wachowski, 1999), che ha riscosso un successo superiore alle aspettative e che ha dato origine a 2 sequels concepiti come due capitoli del medesimo racconto e distribuiti nei cinema a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro. Le formule di racconto seriale prestano, infine, alla migrazione di contenuti narrativi su diverse piattaforme di fruizione, nonché al riciclo e riuso di nuclei tematici considerati secondari dalla narrazione principale. I modi in cui questo avviene sono numerosi, assistiamo infatti con grande sequenza all’offerta di sequels, remakes, spin-offs e crossovers e pratiche di reboot. La produzione di seguiti e remakes è tipica della storia del cinema → con i sequels c’è la ripresa di personaggi già noti al pubblico di cui vengono raccontate vicende cronologicamente successive a quelle narrate in un precedente episodio → es. Il padrino (Coppola, 1972-1990). Il remake è una pratica che spesso si basa sulla conoscenza diretta dell’originale che viene utilizzato come materia prima, ritrovando un’attualità perduta attraverso accorgimenti tecnici e culturali. Lo spettatore viene, cioè, sedotto da trame solo apparentemente attuali e la curiosità dei cinefili viene catturata dalla consapevolezza dell’originale. Storie, personaggi e situazioni si ripetono, mentre a cambiare è lo strumento con il quale viene realizzato il rifacimento. A cambiare è, inoltre, il contesto culturale da cui il prodotto audiovisivo prende le mosse e inevitabilmente il modo in cui ogni singolo regista decide di mettere in scena la medesima storia. Ogni racconto, oltre a rappresentare la stessa storia dei suoi predecessori, non può fare a meno di fare i conti con la scelta di rappresentazione che essi hanno fatto, arricchendosi in profondità e sfumature. Pensiamo ad esempio al King Kong di Peter Jackson (2005) remake del classico del 1933. I prodotti derivati Spin-off e crossover sono pratiche tipiche della serialità televisiva, ma di cui si possono trovare occorrenze anche in ambito cinematografico. Lo spin-off riguarda l’utilizzo di un personaggio secondario di una serie come protagonista di un nuovo prodotto. I casi sono numerosissimi, tra i più significativi → Angel spin-off di Buffy l’ammazzavampiri. In ambito cinematografico il caso del film Il gatto con gli stivali, in cui il protagonista è apparso per la prima volta in Shrek 2. La pratica dei crossover, si esplicita solitamente attraverso la sovrapposizione di due diversi universi narrativi, facendo incontrare personaggi che appartengono a prodotti diversi. Si tratta di un sistema molto praticato in ambito televisivo, per ragioni promozionali e di marketing, spesso usato per lanciare un nuovo prodotto attraverso il rimando a uno già consolidato simile per target, modalità di messa in onda e caratteristiche narrative. Per esempio l’incontro tra i personaggi di ER – Medici in prima linea e quelli di Squadra emergenza che hanno in comune il produttore. Anche al cinema troviamo modalità simili di incontro tra mondi diversi come Freddy vs Jason che sovrappone i protagonisti di due saghe cinematografiche horror, Freddy Krueger e Jason Voorhees. A tenere insieme molte di queste modalità con un solo prodotto ci pensa poi Star Wars di George Lucas composto da 3 trilogie. Fra le tendenze più recenti, infine, la produzione di reboot, accade infatti che il pubblico distolga l’interesse da prodotti, personaggi e ambienti che fino a quel momento avevano riscosso un buon successo. Il reboot punta a rinfrescare prodotti in calo di popolarità, svecchiandoli, adattandoli alle nuove audience e alle nuove tecnologie di diffusione e di fruizione → quindi, si punta a riscrivere, interamente o parzialmente, eventi che sono già stati raccontati in altre sequenze di racconti riutilizzando una materia narrativa già nota (e, dunque, dal punto di vista del produttore, economizzando) con l’intento di ricavarne qualcosa di nuovo. Es. il reboot della trilogia di Batman diretta da Christopher Nolan. In ambito televisivo un esempio è la serie Battlestar Galattica, trasmessa nel 1978 e oggetto di reboot nel 2004. Dal cinema alla televisione e ritorno Un caso peculiare di rapporto seriale tra cinema e televisione è, infine, quello di film per il grande schermo ispirati a serie TV o, viceversa, quello di serie TV ispirate a film per il grande schermo. Nel primo caso si fa leva sul piacere di “ritrovare” il già noto, che lega lo spettatore al prodotto televisivo, dandogli pertanto la possibilità di continuare a ritrovare anche al cinema o, meglio, nella forma narrativa del film, personaggi e situazioni che ha imparato a conoscere attraverso le serie televisive. In certi casi, il carattere di prequel enfatizza il meccanismo, regalando allo spettatore un episodio che presuppone tutta la conoscenza di quanto avverrà successivamente ai protagonisti → accade con Twin Peaks di David Lynch, che si apre con il ritrovamento del cadavere di Laura Palmer, la quale è anche la protagonista di Fuoco cammina con me, prequel cinematografico alla serie, in cui si racconto le ultime settimane di vita della ragazza. Prodotti di questo genere sono spesso frutto di un intervallo di tempo trascorso tra la messa in onda della serie e l’uscita del film. Questo intervallo di tempo contribuisce a costruire un sistema di attese che si radica nell’apprezzamento dimostrato nei confronti della serie. Nel caso opposto, quando è il film a essere oggetto di un trasbordo verso il mezzo televisivo, pare invece che la conoscenza del film di riferimento non sia necessaria. In questo passaggio, infatti, vengono ripresi e riproposti per lo spettatore personaggi, ma soprattutto ambienti, situazioni e dinamiche presenti nel testo di riferimenti, ma è anche vero che la frammentazione della narrazione in episodi riempie il prodotto televisivo di elementi utili alla comprensione dello spettatore che non ha visto il film → il film di Buffy l’ammazzavampiri (1992). Conclusioni Il modello produttivo e narrativo della serialità si è spostato negli ultimi anni anche sul web, con esiti interessanti → es. Freaks! serie italiana di fantascienza nata per il web nel 2011, che nonostante un produzione low budget, è diventata famosa su YouTube. Le webseries riescono a soddisfare i bisogni di un pubblico sempre più esigente, offrendo contenuti di qualità ma con costi contenuti (in molti casi anche con produzioni grassroots, cioè appunto nate spontaneamente e in maniera amatoriale e non finanziate dall’industria dell’intrattenimento). Si tratta di prodotti a episodi, di breve durata (10 minuti), adatti a essere fruiti su diversi dispositivi. Il loro punto di forza è sicuramente rappresentato dalla facile accessibilità, nonché dal fatto di essere prodotti pensati e plasmati per sfruttare al massimo le possibilità interattive di internet, elaborando un nuovo linguaggio e creando un’esperienza di fruizione innovativa. IL SONORO Il suono, una questione teorica Vincent LoBrutto ritiene che il 50% dell’esperienza cinematografica è uditivo. Il centro della questione è nella nozione di esperienza: il cinema potrà essersi imposto per la sua storia visuale, ma poi alla resa dei conti quando uno spettatore entra in una sala cinematografica quella che lo investe è un’esperienza altrettanto uditiva quanto visiva. Se questo è evidente per lo spettatore moderno, forgiatosi sul Dolby System di Arancia meccanica o sul THX di Star Wars, altrettanto lo era per lo spettatore del cinema nel 1905 o del 1914, ammaliato dalle parole di un imperioso imbonitore, travolto dalla musica di impotenti orchestre ai suoni in, suoni sincronizzati a una sorgente sonora che l’inquadratura sta mostrano nello stesso istante – il vero regno del suono è tuttavia il fuori campo: il sonoro, infatti, esercita una potente forza centrifuga sull’immagine, premendo continuamente ad andare oltre i bordi dell’inquadratura. Il fuori campo diviene attivo, rendendo lo spettatore consapevole dei limiti del suo sguardo e del desiderio di superarli, soprattutto quando il suono è off (fuori quadro), in procinto di far apparire sulla scena alla successiva inquadratura la sua sorgente, solo momentaneamente è più o meno a lungo sottratta alla vista. I suoni over provengono da un altrove esterno alla diegesi, dalla extradiegesi, un luogo radicalmente escluso dal campo visivo dello spettatore come quello che in Rapina a mano armata (Kubrick, 1955) orienta lo spettatore nell’incastro di flashback e sequenze parallele. Lo spazio del suono, dunque, si caratterizza per queste tre aree, fra le quali occorrono continui scivolamenti e spostamenti, potendo la sorgente sottrarsi o offrirsi alla vista da un’inquadratura all’altra e persino l’extradiegesi ridefinirsi quale parte del mondo della storia, come nelle narrazioni a flashback. Sono inquadrature sonore tra le quali sono sempre possibili e spesso frequenti gli scivolamenti, gli scambi e anche le ambigue sovrapposizioni che hanno frustrato la teoria in una continua moltiplicazione di etichette (come nel caso, da alcuni definito on, delle voci interiori), zone fluttuanti pronte a essere rimesse in discussione da ciò che sta per fare la sua comparsa nell’inquadratura o che sono destinate a lasciare una traccia di ciò che si è reso assente dallo schermo. Come aveva già evidenziato Bela Balàzs, l’inquadratura sonora è di per sé un’illusione; il suono, infatti, non può letteralmente essere inquadrato, vivendo proprio nel suo essere pura emanazione e della sua assenza di lati, e l’inquadratura sonora è dunque il risultato di un lavoro di montaggio con l’immagine che porta per associarla o meno a un oggetto. La classificazione dei suoni elaborata dalla teoria sembra dunque insufficiente a cogliere il pieno portato dell’esperienza audiovisiva del cinema. Si determina progressivamente un sovvertimento che sposta sempre più la riflessione sulla natura del suono filmico e si affaccia la consapevolezza che immagine e suono lavorano in strettissima simbiosi condizionandosi reciprocamente e che l’ascolto e la visione insieme producono qualcosa di qualitativamente differente dalla somma degli elementi visivi e sonori. Come mostrano gli studi di Rick Altman e di Michel Chion, alla nozione di colonna sonora subentra il recupero della più autentica dimensione audiovisiva e all’arbitraria scomposizione dei suoni l’attenzione alle dinamiche della visione e dell’ascolto filmico: una rivoluzione alimentata anche dalle provocazioni visivo-uditive di cui dal cinema moderno in poi i film si sono fatti portatori. I moderni media sonori innescano nuove tipologie d’ascolto, mettendo l’uomo di fronte a una situazione di présence acousmatique. La riflessione sulla dimensione acusmatica, che in ambito cinematografico ha avuto Michel Chion tra i suoi principali teorici, rappresenta uno dei momenti più innovatici della teoria recente sul sonoro e, particolarmente nel caso della voce cinematografica, porterà una vera rivoluzione. Ormai, si fa strada la consapevolezza che il suono filmico eccede sempre l’immagine e opera dunque in una condizione di inafferrabilità in cui ora è presente nell’immagine, ora sfugge a ogni visualizzazione. La dimensione acusmatica specifica del cinema in cui anche la solidarietà del sincronismo è appunto un atto forzoso di matrimonio tra suono e immagine, si fa poi particolarmente radicale nella voce filmica, acusmatica per eccellenza; qui, la dimensione originale assume tutta la forza, e la voce filmica appare dotata di un potere misterioso, si configura come voce ipnotica, che si misura in termini di potere e di dominio, esercitato sul visivo, sullo spazio dell’immagine ma anche e soprattutto sullo sguardo e sullo spettatore, che diviene appunto il perno dell’esperienza filmica. Gli esempi che si possono citare sono moltissimi, a partire da quelli classici al centro della riflessione di Chion – la voce onnipotente della madre di Psycho o quella ubiqua del computer Hal in 2001: odissea nello spazio. Ambiente e paesaggio: la materia del suono La rivalutazione del suono e la presa d’atto dell’incapacità delle categorie teoriche formulate di cogliere la relazione audiovisiva portano a un riesame approfondito dello statuto del suono filmico, prima e al di là del rapporto. Già di fatto Ejzenstejn aveva finito con l’integrare perfettamente il sonoro tra quelle componenti che partecipano alla dialettica dell’immagine cinematografica dandole piena legittimità: il montaggio verticale aveva modificato il principio del contrappunto limitandosi non più alla combinazione della linea sonora e di quella iconica, ma alla scomposizione e quindi all’integrazione degli elementi costitutivi di suono e immagine, non dunque la correlazione solo di due differenti montaggi, quello visivo e quello sonoro, ma anche dei vari stimoli simultanei provenienti da differenti sfere percettive. Ejzenstejn offriva come esempio la sequenza della battaglia sul ghiaccio in Alessandro Nevsky. Tuttavia non è la natura del suono ma la sua stessa matericità a cambiare. Fin dall’origine del cinema sonoro, si è subito intuito che quella del suono non era una questione di semplice registrazione sonora ma di resa; tuttavia, il criterio dominante che muoveva l’industria cinematografica era sempre quello della maggior intellegibilità possibile, fosse quella razionale della parola, che doveva riuscire comprensibile anche attraverso un urlo o un sussurro, o del rumore, la cui funzione denotativa o connotativa doveva essere inequivocabile, dal pathos del rombo di un tuono alla mescolanza di versi con cui nel 1933 l’urlo di King Kong rendeva l’idea della ferinità e della violenza compressa del primate e della sua wilderness. L’evoluzione tecnologica del cinema ha tuttavia enfatizzato il valore materico del suono e la razionale intellegibilità non è più stata un elemento sufficiente per il travalicare continuo di margini tra materie sonore. Il musicista Michel Fano negli anni ’80 ha suggerito di valutare quella cinematografica non come una colonna sonora – un complesso dotato di una propria unità interna e caratterizzato da relazioni solidali tra i suoi componenti – ma come un campo a spessore semantico variabile e a spessore semantico nullo, il campo vede al centro tutta una serie di suoni che subiscono continui scivolamenti l’uno sull’altro sia per la materia di cui sono fatti sia per la pressione esercitata dal visivo, verso l’una o l’altra estremità; a ciò si è aggiunto il fatto che il processo di creazione del suono ha giocato sempre di più sui confini tra questi elementi. Ne sono un esempio la colonna sonora di A.I – Intelligenza artificiale (Spielberg, 2001), in cui il rumore di un sommergibile è reso dall’opportuna manipolazione di un coro di voci bianche, o quella di Matrix. Questi suoni portano pian piano a una consapevolezza non solo della complessità del suono ma anche della sua sempre maggiore autonomia dalla razionalità del visivo, ponendosi, inoltre, come elementi di forte valore teorico nell’esibire e costringere a riflettere sulla natura stessa dell’ascolto tanto filmico quanto cinematografico, quando non dell’ascolto tout court. In quest’ottica i rumori si offrono come una zona intermedia e variabile, suscettibile di continui scivolamenti verso l’uno o l’altro estremo, in base non solo alla loro ridondanza ma soprattutto alla forza o meno della funzione denotativa, la capacità cioè di rinviare all’immagine e ancora alle pressioni e modificazioni che su di essa esercita l’aspetto culturale anche come mondo messo in atto dal film. Il rumore si fa proprio per questi motivi banco di prova di molte delle moderne ricerche sul suono. Se da sempre il rumore aveva esercitato un ruolo eversivo all’interno del film, faticando a sottomettersi ai dettami dell’immagine, a partire dal cinema moderno esso diventa sempre più protagonista, fino all’epoca contemporanea in cui è, non a caso, oggetto privilegiato del sound designer. Il suono si accinge a conquistare il ruolo di oggetto sonoro, per riprendere un’altra definizione di Schaeffer, sganciato non solo dal visivo dell’immagine ma anche dal primato culturale del visuale: un’entità sonora sulla cui intellegibilità prevale una fascinosa ed evanescente sensorialità. I film sound studies hanno fatto dell’ascolto una dimensione prioritaria, unita alla consapevolezza, maturata nell’ambito della cosiddetta ecologia acustica, che l’età moderna – e il cinema in particolare – ha reso visibile che come esseri umani siamo circondati – e riempiti – di un campo ininterrotto di suono, da suoni esterni al nostro corpo così come d suoni interni metabolici e che al suono non si sfugge, essendo pervasivo come l’aria che lo trasmette. Il suono domina lo spazio anche dell’ascoltatore; diversamente dalla vista esso è avvolgente, circonda e domina l’ascoltatore che ne può essere persino penetrato: non lo lascia a distanza di sicurezza, come nella visione, ma lo chiama direttamente in gioco. Calato nella situazione filmica, il suono diventa un’esperienza totalizzante non solo nei cosiddetti action movies ma anche nel tessuto filmico in generale, da Miami Vice a Gomorra, con la quale il cinema contemporaneo si misura sempre più frequente, connotando l’audiovisione come un’esperienza non limitabile allo schermo ma che unifica e ingloba spazio dello schermo e spazio della sala. Basti pensare al ruolo crescente dei canali surround, con l’alto numero di altoparlanti piazzati sui lati e alle spalle detto spettatore, che spostano il baricentro dell’azione dallo schermo, e per certi versi dall’immagine, alla sala cinematografica, oppure all’importanza crescente nei moderni sistemi audio dei low-frequency effects (effetti a bassa frequenza) spesso esaltati dai subwoofers, che funzionano come vere e proprie vibrazioni di forte intensità che colpiscono dall’interno lo spettatore. È a partire da queste considerazioni che nella teoria moderna non si parla di sonoro né tanto meno di colonna sonora, ma invece sempre più di ambiente sonoro: la consistenza dello spazio subisce un cambiamento con l’ingresso del suono; non solo l’avvento del sonoro muta una spazialità sostanzialmente lineare in una volumetrica e gli indizi spaziali contenuti nei suoni liberano finalmente l’immagine dalla bidimensionalità, come spesso è stato sottolineato, ma è destinato a modificarsi anche il luogo della fruizione in cui lo spettatore è immerso in uno spazio sonoro unico, e la tridimensionalità è quella determinata dalla relazione ora anche fisica che si viene a creare tra gli spettatori, l’altoparlante e l’ambiente circostante. Sia l’illusione dell’ambiente sonoro indicato da Rick Altman o sia quello artefatto della registrazione, che è secondo Chion il soundscape del film, non è solo il cinema ma tutto un mondo, basato prevalentemente su un primato dell’occhio e delle percezioni visive, ad abbandonare il distacco tipico della vista per la pervasività propria del suono. LO SPETTATORE Introduzione Nel 1914 Emile Altenloh pubblica la sua tesi di dottorato: Per una sociologia del cinema – l’intrattenimento cinematografico e gli strati sociali dei suoi fruitori. Nel volumetto Altenloh espone i risultati della sua ricerca sul profilo sociale degli spettatori che, in quei primi anni ’10, affollano le sale cinematografiche di Mannheim e che Altenloh ricostruisce attraverso alcune migliaia di questionari. Questa indagine costituisce un’anomalia nel panorama degli studi sulla nascente audience cinematografica. Anzitutto perché si tratta di una ricerca sul campo. In secondo luogo, perché il baricentro della ricerca di Altenloh non è su quanto accade allo spettatore dentro la sala cinematografica e di fronte allo schermo, quanto sulla relazione fra il suo ambiente di vita, la classe sociale a cui appartiene e l’andare al cinema. Infine, perché dal lavoro di Altenloh emergono un giudizio complessivamente positivo sull’esperienza cinematografica e un’immagine di spettatore attivo, in contrapposizione all’idea corrente e ampiamente condivisa, al di qua e al di là dell’oceano. Classical views Il modello di spettatore che si afferma in coincidenza con il processo di istituzionalizzazione del cinema è, infatti, quello di uno spettatore concentrato in modo esclusivo sullo schermo e immerso nei mondi fittizi che i film costruiscono. All’inizio del ‘900 il setting dell’ipnosi offre ai nascenti studi sulla spettacolarità cinematografica un efficace e convincente quadro interpretativo, dando voce e forma alla preoccupazione con cui gli intellettuali e osservatori guardano alla diffusione delle nuove forme di intrattenimento di massa. Il cinema come potente strumento di manipolazione e di persuasione delle categorie considerate “a rischio”: i bambini, le donne e, negli USA, gli immigrati. L’esperienza di fruizione da parte dei bambini, nei primi decenni del ‘900 diventa oggetto di un numero crescente di interventi e di ricerche, che culminano nel progetto voluto dal reverendo William Short e finanziato dalla Payne Study and Experiment Fund, tra gli anni ‘20/’30, che raccoglie un impressionante volume di dati sugli effetti deleteri del consumo di cinema nei bambini e negli adolescenti. I PFS corroborano i peggiori timori che la società occidentale nutre nei confronti del cinema e, in generale, dei mezzi di comunicazione nella difficile congiuntura che prepara il secondo conflitto mondiale. I PFS rappresentano un fondamentale snodo negli studi sulla spettatorialità cinematografica: da quella esperienza il Gotha degli studiosi americani di area umanistica, si dipartono, infatti, su due linee di ricerca che per i successivi cinquant’anni agglutineranno la riflessione e le ricerche sulle audience, sviluppandosi tuttavia sottotraccia, come tema minoritario di indagine. Da un lato, le ricerche sui pubblici di cinema, sulla loro ampiezza e composizione, sulla frequenza e la abitudini di consumo, che assumono un tratto schiettamente amministrativo; dall’altro lato, una riflessione di carattere marcatamente teorico che, molti anni dopo, Janet Staiger bollerà come meramente speculativa, e che accompagna i Film Studies. Dagli anni ’40, la questione del pubblico di cinema diviene marginale: un occupare la posizione di termine minore di un sillogismo la cui premessa riposa sul medium e sulle sue caratteristiche. LO STILE Il cinema e le aporie dello stile Nel celebre aforisma di de Buffon “Lo stile è l’uomo” ritroviamo tutta l’ambiguità di una nozione vaga e multiforme di stile, ambito che da sempre è soggetto a molti studi. La formula di Buffon sintetizza subito la sua oscillazione tra i poli individuale e collettivo. Tradotta in termini artistici, questa dicotomia chiama in causa da un lato l’emergere di un “tocco personale”, dall’altro il riconoscimento di una scuola o di un’epoca, di un’intera cultura o di una nazione. D’'altro canto, lo stile individuale è in via del tutto intuitiva un modo di riconoscimento immediato, uno scarto o un’infrazione rispetto a una norma, a un canone stabilito. Ma stabilire che cosa sia la norma, come e perché venga a costituirsi un eventuale insieme compatto di parametri, cioè uno “stile collettivo”, non fa che rilanciare il problema. Antoine Compagnon in delle più significative rivisitazioni della nozione di stile nella teoria letteraria contemporanea dichiara che lo stile ricopre molti campi, dalla moda, alla storia e alla critica d’arte → ha sempre definizioni diverse e questo è grave, dunque forse bisognerebbe ripulire la parola dal suo significato per ricavarne un concetto. Calato nel perimetro degli studi sul cinema, l’interrogativo posto da Compagnon mantiene intatto il suo spessore e anzi aggiunge delle complicazioni. Si vedrà subito come una “stilistica del cinema”, ottenuta mutando dalle categorie della retorica l’idea invero improbabile di un “bello stile del linguaggio cinematografico”, urti contro l’evidenza della molteplicità di elementi che entrano in gioco nel testo filmico. Se per stile intendiamo l’arsenale di procedimenti espressivi della lingua tra cui scegliere, notiamo come al cinema tale arsenale si trovi all’incrocio di un complesso orizzonte di variabili economiche, produttive, tecnologiche e storiche, cui l’idea di linguaggio cinematografico non può dar contro se non in una chiave più semplificata e astratta. Intrecciate allo stile, si assommano e confondono pertanto questioni legate alle periodizzazioni della storia del cinema, all’autorialità, al sistema produttivo e a quello dei generi, alla recitazione, alla tecnologia. Quando diciamo “lo stile espressionista” o “Audrey Hepburn icona di stile”, non ci muoviamo solo dentro variazioni dello stesso termine, ma evochiamo un arco di significati differenti. È lecito chiedersi se in questi passaggi lo stile non subisca di volta in volta mutazioni di senso che ne precludono una definizione più o meno simile o, viceversa, se proprio in questa plasticità risieda in via definitiva la sua vera forza d’attrattiva. Lo stile e gli studi sul film Anzitutto è necessaria una premessa. Se negli studi di cinema non esiste una definizione condivisa stilistica, ciò non si deve soltanto all’inafferrabilità della nozione ma anche a una precisa coincidenza storica. Il cinema faceva il suo ingresso nelle università mentre la stilistica veniva radiata o dichiarata superata dai paradigmi allora in voga: lo strutturalismo, la semiologia, la psicoanalisi. A partire dalla metà degli anni ’80, lo sviluppo di altri indirizzi di ricerca, il venir meno dell’egemonia strutturalista e il conseguente ritorno di una rinnovata sensibilità storiografica riportano invece all’attenzione degli studiosi anche la questione dello stile. Un secondo motivo riguarda la metodologia. A lungo, l’analisi dello stile filmico ha investito solo i codici visivi, tralasciando altri aspetti decisivi del film. Limitato al visivo, lo stile era una categoria rigidamente formalizzata e tutto sommato poco spendibile. Riaffermatosi invece come → lo stile esteso fino ad abbracciare molteplici aspetti dell’esperienze filmica, diventa la nozione attorno alla quale costruire nuove relazioni tra la storia, la teoria, la critica e l’analisi. Questa rinnovata attenzione alla nozione di stile cinematografico ha innescato la necessità di uno sguardo retrospettivo sia sulla storia del cinema, sia sulla storia della teoria. Interrogandosi su come la teoria abbia messo a tema, nel corso della sua storia, la nozione di stile, Buccheri propone di distinguere quattro categorie (teorie classiche, formalismo, approccio semiotico, approccio sociologico/storiografico). Tom Gunning scriveva nel suo lavoro su Griffith, “uno dei primi compiti dello storico del film deve riguardare la costruzione di una successione storica degli stili”. Le ipotesi messe in gioco negli studi sul cinema classico e in quelli sul cinema delle origini danno luogo a concezioni dello stile diverse. Stile, tecnologia, forma Nell’elaborazione dell’idea della classicità come sistema stilistico coerente, proposta nel The Classical Hollywood Cinema da Bordwell, Staiger e Thompson, l’analisi dello stile è affiancata a quella del modo di produzione, un concetto proveniente dalla storiografia marxiana con cui si definisce lo sviluppo storico della relazione tra le strutture sociali e sistemi produttivi. La dimensione dell’analisi dello stile incontra le questioni di una storia economica e tecnologica dell’industria hollywoodiana. Principi stilistici e norme produttive viaggiano in parallelo e definiscono una fase “classica” del cinema americano che i tre studiosi collocano tra il 1917 e il 1960. Quel che interessa è sottolineare la stretta interdipendenza che intercorre qui tra stile, tecnologia ed economia. Attorno al nodo dello stile convergono questioni storiografiche, la costruzione di un linguaggio e dinamiche tecnologiche connesse al modo di produzione. Qui lo stile funziona come un paradigma. Un insieme di prescrizioni da intendere come costante tensione tra norma e scarto, tra un automatismo e invenzione individuale. Uno spazio in grado di assorbire le trasformazioni della tecnologia e del linguaggio senza mutare i suoi assunti di fondo. Per pensare a uno stile come macrosistema, Bordwell, Staiger e Thompson operano su un insieme statistico di film, intercettando per approssimazione la cosiddetta produzione media, il più possibile rappresentativa della cifra seriale e standardizzata del cinema americano classico. In particolare a Bordwell si lega lo sviluppo di un modello di analisi cosiddetto problem solving, in cui la scelta stilista emerge di volta in volta come soluzione di regia a un problema di natura anzitutto tecnica. Mettendo al centro dell’indagine il rapporto tra stile e narrazione, Bordwell propone di considerare almeno tre modi di sviluppo della forma filmica che esulano dal cinema classico, ovvero: art cinema, esemplificato dal film d’autore europeo sviluppato tra gli anni ’50 e ’70 (es. Godard); historical-materialist, in riferimento alle ricerche sul montaggio nel cinema sovietico negli anni ’20; parametric, applicabile a casi isolati di autori e film che appunto non fanno “sistema” (es. Bresson). Il rapporto tra stile, tecnologia e storia del cinema viene esplorato ulteriormente e in modo più radicale da Barry Salt. La statistical style analysis proposta da Salt si configura come un censimento sistematico della ricorrenza di figure di linguaggio e di procedimenti tecnici in determinati periodi storici, affidati a grafici e tabelle quasi in un apertura polemica con il più tradizionale impianto umanistico degli studi sul film. Se i limiti di questo approccio, ovvero il rischio di “piattezza”, possono sembrare evidenti, si possono però anche sottolineare i meriti di un lavoro che offre dati preziosi da interpretare. Quello di Salt è un lavoro sullo stile che a modo suo ha contribuito a sensibilizzare gli studiosi di cinema nei confronti dell’importanza di una storia della tecnologia che già muova di pari passo con l’analisi estetica. Stile, cultura, discorso Trasferito nell’ambito della storia del cinema delle origini, lo studio dello stile si apre invece su una prospettiva diversa. Se in quella formalista di Bordwell e Thompson o in quella statistica di Salt lo stile è anzitutto in rapporto con il modo di produzione e la tecnologia, ora diventa l’interfaccia tra un testo e un contesto i cui confini non sono affatto dati ma resi oggetto essi stessi dell’analisi storica ma interpretativa. Lo sviluppo di un nuovo modo di intendere la storiografia del cinema che prende piede dal convegno di Brighton del 1978, dedicato ai film prodotti tra il 1900 e il 1906, ma che ovviamente risente anche della cosiddetta Nouvelle histoire francese, cioè una storia della mentalità e dei contesti sociali che in quegli anni si sostituisce alla storia tradizionale fatta di grandi eventi, muove infatti dall’interrogazione dello scarto culturale, prima che tecnico o estetico, trai primi film e il cosiddetto modello classico. I lavori sul cinema delle origini testimoniano così l’apertura delle questioni stilistiche verso l’analisi del sistema culturale di cui un film è parte. Qui intravediamo lo stile come cultura → in quest’ottica, l’analisi filmica può entrare in rapporto con la storia sociale. Le questioni legate allo stile diventano, cioè, un terreno di scambi su cui far confluire lo studio dell’immaginario, la storia del cinema e la storia culturale. Si tratta di un campo di ricerche vasto ed eterogeneo che si può mettere in relazione anche con l’impulso dato all’ampliamento degli studi culturali dal New Historicism americano alla fine degli anni ’80. Il New Historicism ha giocato un ruolo propulsivo nel superamento di un’idea di testualità legata a caratteri di unicità e autonomia dell’opera nei confronti del contesto in cui essa di genera e di quelli in cui viene letta. Così, nelle ricerche del neostoricismo americano, è in particolare nei lavori di Stephen Greenblatt, si insiste sulla frattura anziché sulla pacifica coincidenza di arte e società, sull’isteria di una serie di pratiche negoziali e conflittuali che devono essere rinvenute a partire dalla circolazione di energia sociale che le opere mettono in gioco e che non si esauriscono all’interno del testo. Lo scopo non è tanto capire il contesto entro il quale le opere hanno preso forma e sono state lette, ma ricostruire un più vasto sistema di credenze condivise, specifico di una determinata epoca: la vasta rete di significati in cui le opere sono immerse e al contempo contribuiscono a produrre. L’interpretazione culturale delle immagini, secondo una linea di pensiero si pone in questo caso come ricostruzione di un’intera cultura, dei suoi meccanismi e dei suoi conflitti. Nella prospettiva visualista si esercitano ricerche che coniugano l’estetica, la storia e la critica culturale, che interrogano il rapporto tra stile e cultura nazionale, secondo una linea che riprende i concetti fondamentali di storia dell’arte pubblicati da Heinrich Wöllflin nel 1915, dove la lettura delle forme si metteva in relazione alle singole fisionomie nazionali, ma certo per superarla e problematizzarla in un orizzonte non nazionalistico. Per restare nell’ambito del cinema italiano, si possono richiamare i lavori di Bernardi e Buccheri. In queste ricerche, pur evidentemente diverse tra loro, lo stile diventa una forma di discorso sociale. Ovvero, come ricorda Buccheri → se è vero che i film, oltre che delle opere dotate di un senso, sono dei discorsi che circolano in una società, e in quanto tali assimilabili ad altri tipi di discorsi sociali, si tratterà di studiare lo stile dei film non come mediazione tra un contenuto di pensiero e delle forme espositive, ma come formazione discorsiva, come discorso tra i discorsi. L’idea di stile nel progetto culturale del cinema moderno Studiare lo stile nell’ambito del cinema moderno significa confrontarsi con un bagaglio di teorie e discorsi elaborati da quella tradizione critica francese che ha nel corpus degli scritti di Bazin il suo epicentro. Allo stile spetta il compito di favorire il più possibile la vocazione realistica del linguaggio cinematografico, di limitare i trucchi e le manipolazioni, di trasformare l’atto stesso delle riprese in un momento conoscitivo e in generale di proporsi in un superamento dell’orizzonte spettacolare del cinema in favore di un riscatto fenomenico del reale. Se questa circolarità tra e tensione verso il reale definisce il moderno in senso stilistico, vanno qui richiamati ulteriori motivi etici e/o politici senza i quali il progetto della modernità cinematografica non è comprensibile in tutta la sua portata → il moderno funziona come un’ideologia. Un discorso culturale complesso che ha nell’idea di autore un primo motivo di riconoscimento. Non è al moderno che spetta la scoperta dell’autorialità, ma qui essa si declina anzitutto come un atto di responsabilità etica ed estetica della messa in scena; un’idea riassunta nella formula godardiana del “carrello come questione morale”. I problemi dello stile i dilatano così in un orizzonte stilisti. Nel perseguimento di un’etica dello sguardo, il tema di una responsabilità morale del film non riguardava più soltanto i soggetti e temi da portare sullo schermo. Il ruolo decisivo del tournage, la responsabilità individuale della messa in scena e dell’atto di ripresa spostano il baricentro dalla parte delle scelte stilistiche. Esemplare in tal senso è Kapò di Pontecorvo (1961), che ricostruisce le vicende dei campi di concentramento; il film condannato ferocemente da Jacques Rivette, sulle pagine dei Cahiers, a causa di un movimento di macchina ritenuto immorale (e dunque di una presunta spettacolarizzazione della morte). In tal senso, l’articolo di Rivette costituisce una preziosa testimonianza dei canoni interpretativi, della filosofia di fondo della modernità francese e delle tensioni etiche, estetiche e politiche che si trasferiscono nell’idea di stile. L’intreccio di responsabilità morale della messa in scena e delle scelte stilistiche che emerge dalla linea Bazin-Rivette-Daney non è l’unico motivo della modernità, ma resta uno dei momenti decisivi per comprendere la portata del suo orizzonte. Con il moderno, le questioni dello stile non si legano solo a un progetto di riscatto del reale ma a una storia critica a e un progetto culturale che sono essenzialmente francesi, o sviluppati sotto l’influenza del dibattito francese. Come per molte esperienze del modernismo radicale nell’arte del XX secolo, l’ideologia della modernità cinematografica è stata pensata con accenti differenti strati di emulsione, tra loro sovrapposti e opportunamente separati, ognuno reso sensibile a una diversa gamma di lunghezze d’onda; il loro successivo accoppiamento ai relativi coloranti produce la formazione dei tre colori nella pellicola sviluppata, uno per ciascuno strato del materiale sensibile. Quanto al suono, la presenza di un codice è ancora più evidente per il fatto che, anche in questo caso, è una scrittura della luce a incidere su pellicola positiva la colonna sonora. Infatti, quest’ultima si presenta sotto forma di una colonna ottica ad area variabile derivata dall’impressione di segnali luminosi su un lato della pellicola, i quali, affinché possano essere riprodotti i suoni, devono essere letti o decodificati da un’apposita cellula fotoelettrica del proiettore. L’immagine digitale, nella sua duplice articolazione fotonumerica e infografica accentua la problematicità delle immagini cinematografiche tradizionali in direzione di uno statuto ancora più ossimorico: quello di oggetti che, nel qualificarsi strutturalmente matematici, sembrano non potere e non volere prescindere dalla dimensione di traccia che, in un modo o nell’altro, continua a contraddistinguere la genesi. Se infatti in ambito fotonumerico, vista la permanenza di un processo di fissazione di un’impronta su una superficie fotosensibile, nell’ambito della computer-generated imagery lo sbilanciamento sulla componente software appare più marcato ** La trasparenza del mondo Quella delle origini è una cinematografica connotata dalla necessità di espletarsi alla luce del sole. Se ciò è evidente nei casi di riprese in esterni, agli inizi anche in studio è la luce naturale a costituire la principale fonte di illuminazione, come testimonia la struttura in vetro attrezzata da Mélièes a Montreuil, vicino a Parigi, e, negli USA, il Black Maria, un teatro di posa rotabile dotato di una parte superiore e frontabile apribile per poter garantire la massima illuminazione con la luce solare. Luce e trasparenza sono le parole chiave di tale transizione epocale. Lice che illumina ogni cosa, rendendo penetrabile quel che Walter Benjamin definisce l’inconscio ottico della realtà, rivelando, grazie alla mediazione del dispositivo, una visibilità altrimenti inaccessibile all’occhio empirico. Trasparenza come condizione propria delle superfici- interfaccia attraverso le quali quella luce espleta la sua azione. Anche la pellicola cinematografica positiva, grazie alla sua semitrasparenza, si lascia d’altronde attraversare dalla luce. La trasparenza e l’azione della luce sono anche alla base dei primi effetti visivi ai quali molte delle attuali meraviglie del digitale si aspirano, come avviene nel caso del rotoscoping, procedura brevettata dai fratelli Max e David Fleischer nel 1917 per dotare i personaggi delle loro opere d’animazione (es. Betty Boop) di un movimento quanto più realistico e naturale possibile: la trasparenza in questo caso è quella del foglio di celluloide posizionato sul vetro smerigliato attraverso il quale vengono proiettate fotogramma per fotogramma, per essere ricalcate a mano, le immagini di una controfigura umana preventivamente immortalate in live action con una normale cinepresa (tale tecnica è la progenitrice di alcune tra le metodologie più impiegate attualmente per l’animazione dei personaggi digitali: la motion capture e la derivata performance capture, sistemi mirati a prelevare il movimento del corpo umano e le espressioni facciali per attribuirli a personaggi realizzati integralmente al computer. Sul gioco fra trasparenza e superfici riflettenti si fonda, poi, uno dei trucchi maggiormente impiegati dal cinema espressionista e quindi da Hollywood: l’effetto Schufftan, basato sull’utilizzo di uno specchio biriflettente posto a 45 gradi rispetto alla cinepresa in modo da riprodurre il rifletto di miniature e oggetti collocali frontalmente (fuoricampo) in maniera ingrandita, mentre parti del vetro raschiate lasciano guardare la macchina da presa in trasparenza in direzione di personaggi e sezioni scenografiche reali che, così, si integrano con i modellini. Infine c’è un effetto che prende il nome di trasparente, uno dei trucchi più utilizzati dal cinema hollywoodiano e, in particolare, da Alfred Hitchcock: impiegato per la prima volta da Norman O. Dawn nel 1913 in The Drifter, esso consiste nella retroproiezione di sequenze paesaggistiche su uno schermo traslucido di fronte al quale si posizionano gli attori. Black Box L’ontologia dell’immagine cinematografica non può dunque essere indagata senza essere posta in relazione con le caratteristiche specifiche del dispositivo tecnico da cui deriva, e di conseguenza con tutta la serie di mediazioni e codificazione da esso svolte. Il riferimento va prima di tutto alla cinepresa o macchina da presa, da intendersi in quanto assunzione dell’insieme di un processo tecnico, che si sviluppa attraverso un insieme di operazioni tecniche che caratterizzano appunto il cinema in quanto mezzo di riproduzione. All’origine di un simile dispositivo è la camera oscura: questo apparecchio rappresenta il peccato originale del cinema. Ciò, almeno, è quanto viene espresso dalla teoria materialista che negli anni ’70 condanna ideologicamente l’apparato di base proprio per il fatto di confermare e moltiplicare il principio della prospettiva centrale collocandosi al centro del sistema della rappresentazione, conquista il posto di Dio. Denunciare la problematica dell’inscrizione del cinema come nascente di un determinato momento socio- storico significa così porre in relazione tale congiuntura con quella che si fonda sul parallelismo tra applicazione tecnica del principio della prospettiva e, all’alba dell’epoca capitalista, volontà di dominio economico e politico sul mondo da parte dell’Europa. È del resto un fatto che la macchina da presa di imponga nella versione del cinematografo Lumière quale oggetto di matrice tipicamente capitalistica: fondato sull’impiego di una pellicola larga 35mm e azionabile manualmente con una manovella che, ogni due giri, provoca lo scorrimento di 16 fotogrammi al secondo (contro i 24 odierni), questo apparecchio risulta infatti mirato a ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo. Il cinematografo è dunque un vero e proprio sistema tecnologico integrato che anticipa i più moderni dispositivi di ripresa in cui prendono avvio dal medesimo congegno, anche se in maniera immediata, le fasi di acquisizione, elaborazione e restituzione delle immagini: qualsiasi camcorder (termine che indica la fuzione della camera con il recorder, differenziando tale appartato dalla telecamera, che è solo un dispositivo di ripresa privo della possibilità di registrare) può infatti istantaneamente riprodurre ciò che è stato girato. A ciò si aggiunga che fino alla metà degli anni ’20 la macchina da presa è anche il luogo in cui si effettuano i primi visual effects ottenuti semplicemente riavvolgendo e quindi reimpressionando il negativo in concomitanza con la chiusura graduale del diaframma o dell’interruttore (quando questo diverrà variabile). Dal punto di vista esteriore, i primi apparecchi risultano analoghi a quelli fotografici proprio come oggi le nuove macchina digitali di standard HD e Super HD assomigliano a quelle funzionanti a pellicola. Già dai primi anni ’20 si vanno poi diffondendo i dispositivi leggeri e compatti che anticipano le attuali handycams, come testimonia il film manifesto L’uomo con la macchina da presa di Vertov (1929). L’avvento del sonoro tornerà a limitare la mobilità degli apparati di ripresa con profonde ricadute sul piano dello stile e dell’estetica filmica: per neutralizzarne il ronzio, facilmente captabile dai primi microfoni non ancora direzionali, la cinepresa viene infatti posizionata all’interno di vani insonorizzati che, pur dotati di ruote, impediscono di fatto le carrellate, costringendo i registi a optare per brevi panoramiche attraverso le finestre della cabina per mantenere l’azione al centro dell’inquadratura, rendendo così la panoramica di aggiustamento una cifra stilistica comune, senza contare che tutto ciò costringe gli attori a muoversi innaturalmente e a recitare scandendo chiaramente e lentamente ogni sillaba. Con l’esplosione del secondo conflitto mondiale le necessità belliche richiederanno un nuovo tipo di macchina da presa speciale che garantisca in ogni momento funzionalità e semplicità operativa. Si diffonde così, a partire dal 1936, la Arri della Arriflex, una macchina leggera fatta apposta per le riprese a mano e per l’impiego in esterni. Un dispositivo che, insieme ad altre, successive tipologie di cinepresa, unitamente alla produzione di pellicole di maggiore sensibilità, avrà una profonda ricaduta sullo sviluppo del cinema moderno. L’irruzione del postmoderno, imporrà la ricerca di un’immersività che troverà espressione in quel bagno di sensazioni in cui molto cinema contemporaneo si prefigge di calare lo spettatore ricorrendo a una serie di innovazioni tecnologiche contraddistinte, oltre che, sul piano sonoro, dall’avvento del sistema Dolby – inaugurato nel 1977 con Star Wars – dall’uso di nuovi sistemi di ripresa capaci di sancire, da un lato, la completa separazione dal corpo dell’operatore e, dall’altro, al contrario, la totale simbiosi tra uomo e macchina. Nel primo ambito si pongono sistemi come la louma – gru snodata in cima alla quale è fissato il mezzo di ripresa munito di controllo a distanza – o i più recenti droni che, conducendo in volo il mezzo di ripresa, consentono punti di vista impossibili e impraticabili con l’ausilio dei tradizionali carrelli e dolly; nel medesimo contesto è da collocare anche il sistema del video-assist o controllo video, forma di videosorveglianza consistente nell’incorporazione di una microcamera nella macchina da presa al fine di inviare al regista, su monitor. Si tratta di un apparato brevettato da Blake Edwards nel 1967, ai tempi delle riprese di Hollywood Party (1968), e rappresenta perciò la prima occasione in cui l’immagine elettronica entra nel mondo della produzione cinematografica con un ruolo eminente di servizio. Nell’orizzonte della fusione tra biologico e macchinico si collocano invece i nuovi microdispositivi innestabili sul corpo umano come la GoPro, fotovideocamera definita anche action cam per le sue potenzialità d’impiego in ambito sportivo, ma prima di tutto la steadycam, emblema di quella tecnologia che, a partire dagli anni ’80, si è sviluppata attorno al corpo, producendo una progressiva cyborgizzazione dell’essere umano. Questo congegno, brevettato a metà degli anni ’70 dall’operatore Garrett Brown, possiede la peculiarità di filtrare, correggere, ammorbidire, grazie a un apposito sistema di molle e contrappesi, le imperfezioni della tradizionale macchina a mano, dando vita a movimenti impersonali e fluidi, eppure non ancora sena corpo (→ es. movimenti di macchina nei corridoi dell’Overlook Hotel e nel labirinto vegetale di Shining – Kubrick, 1980). L’esito più espremo è rappresentato, nell’orizzonte digitale, dalla virtual camera (tipicamente impiegata nei videogiochi ma anche in molto cinema “sintetico”), un sistema funzionale a simulare i movimenti di macchina all’interno di ambienti totalmente costruiti al computer: sebbene apparentemente sganciata da qualunque dispositivo fidico, anche la virtual camera conserva una propria corporeità determinata dalla presenza di comandi materiali azionati da un operatore in carne e ossa che previsualizza su un monitor il frutto del suo lavoro traslato nello spazio simulato, come è accaduto sul set di Avatar (2009), in cui il regista James Cameron ha potuto impiegare un simile dispositivo con una libertà decisionale e un’agilità totali. A proposito di nuove tipologie di black box sempre più votate all’immersività, deve essere dedicata al sistema 3D, il cui grande ritorno in auge nell’epoca digitale non rappresenta altro che il recupero e il potenziamento di quanto sperimentato in un lontano passato, precisamente nel 1838, quando Charles Wheatstone presenta alla Royal Society il primo dispositivo di visione stereoscopica. Tale tecnica viene impiegata dal cinema soprattutto negli anni ’50, periodo durante il quale il grande schermo deve rispondere alla concorrenza proveniente dalla televisione. Dopo un revival negli anni ‘70/’80, le indagini tecniche proseguono negli anni ’90 con il sistema di fruizione IMax 3D e quindi, con il nuovo millennio, con l’introduzione di apparati di ripresa ditigali impiegati nella direzione di una naturalezza della rappresentazione opposta alla logica dell’effetto speciale, ricalcando questo avvenuto nell’ambito della CGI negli anni ’90, quando film come Jurassic Park, determinando la transizione da un iniziale scetticismo nei confronti dell’animazione computerizzata a una piena ed entusiastica accettazione, segnano il trionfo del fotorealismo, ovvero della capacità di falsificare non già la nostra esperienza percettiva e materiale della realtà, ma solo la sua immagine fotografica. Lo zoom o trasfocatore – risalente al periodo a cavallo degli anni ‘30/’40, impiegato in maniera diffusa dalla fine degli anni ’50, ma già conosciuto in fotografia dalla fine dell’800 – allargando e restringendo l’attenzione sulla scena grazie alla sua lunghezza focale variabile, è l’erede d mascherini e iridi di epoca muta. Si tratta perciò di una tecnologia della virtualità visto che nasce per simulare, senza alcuno spostamento fisico della macchina da presa, avvicinamenti o allontanamenti di quest’ultima, oltre che a consentire, grazie alla propria versatilità, quell’immediatezza di approccio al profilmico caratteristica del cinema degli anni ‘60/’70, come attesta Roberto Rossellini, pioniere del pancinor, sorta di zoom di prima generazione impiegato per la realizzazione di lunghe carrellate ottiche. L’altro caso è quello della sala cinematografica nella sua qualità di spazio pubblico, movie house che rende possibile la trasformazione del film in cinema. Tale dispositivo, con l’avvento della digitalizzazione, sta subendo una vera e prorpia rivoluzione copernicana visto che il nuovo orizzonte mediale ha progressivamente condotto, tramite la diffusione di portable devices di ogni genere, a quella che Casetti ha definito la rilocazione dell’esperienza spettatoriale e di conseguenza all’inversione del rapporto tra pubblico e spettacolo filmico, se è vero che non è più il primo a doversi muovere per raggiungere il secondo, ma sono le immagini a installarsi nei dispositivi personali di ognuno per essere fruite in tempi, luoghi e modi non ortodossi. La stessa sala cinematografica del futuro/presente, in conseguenza dello switch off al digitale, è un luogo in cui il sistema proiettore-schermo, al pari di qualsiasi televisore domestico, riceve il film non più sotto forma di supporto delle condizioni storiche, culturali e tecnologiche che determinano l’esperienza percettiva dei soggetti sociali. La condizione moderna ha investito il soggetto di una serie di rapide e scioccanti trasformazioni e il ruolo del cinema in questo contesto è duplice. Per un verso, esso partecipa dell’irruzione di nuove e spiazzanti modalità percettive: in particolare il cinema libera un inconscio ottico. Per altro verso, però, il cinema può rappresentare un sistema di training e di assuefazione dei soggetti sociali alle nuove condizioni di percezione artificializzata proprie della modernità, permettendo dunque una nuova innervazione della sensibilità moderna. L’idea che il cinema possieda un impatto sociale si esprime, d’altronde, in altre forme. Interessante è il caso dell’Italia dove i vari intellettuali sono molto attenti alle macro e micro trasformazioni introdotte dal cinema nel tessuto sociale e nella nascente cultura di massa degli anni ’20 e ’30. Discipline Il secondo dopoguerra è caratterizzato da due ordini di fenomeni correlati. In primo luogo il cinema, ormai divenuto un’istituzione centrale della società occidentale, avvia una riflessione su sé stesso, le proprie capacità di riproduzione del reale e il tipo di piacere che suscita: è sempre più frequente il caso di registi- teorici e di teorici-registi. In secondo luogo, la riflessione sul cinema si istituzionalizza all’interno di università e centri di ricerca. Si tratta di due tendenze opposte, che alternano momenti di distacco a momenti di dialogo. Il primo ordine di fenomeni viene bene espresso dal gruppo di critici e teorici raccolti intorno ai cahiers du cinéma. Il suo fondatore, Bazin, esalta il rapporto privilegiato che il cinema possiede con il reale rispetto ad altri: il cinema non solo riproduce ma prolunga e differisce la realtà; esso offre, dunque, un’esperienza esistenziale che richiama tanto gli autori quanto gli spettatori a precisi criteri di responsabilità. Si tratta di una teoria che permetteva sia di recuperare alcuni registi del periodo classico in base a una politica degli autori, sia di esaltare il coevo neorealismo italiano, sia di dare avvio alla nuova generazione di registi della nouvelle vague che nella redazione dei cahiers muovono i primi passi. La seconda tendenza si esprime attraverso la nascita della filmologia, un tentativo di inserire il cinema tra gli oggetti di studio accademici grazie a un approccio interdisciplinare. A partire da una distinzione tra fatto filmico e fatto cinematografico, la filmologia coinvolge psicologi, psicoanalisti, sociologi e antropologi, filosofi ed estetologi, storici dell’arte. I suoi esiti sono differenti, ma tutti improntati a una controllata contaminazione di strumenti. Jean Mitry, in un testo summa della riflessione del periodo, riprende il filone linguistico delle teorie e propone l’idea che l’immagine cinematografica costituisca un segno in quanto sottrae l’immagine alla singolarità dell’oggetto ripreso combinandola con altre immagini e portandola a un più alto livello di astrazione e generalizzazione. Un evento capitale per l’istituzionalizzazione della riflessione sul cinema e l’avvento nella cultura francese dell’inizio degli anni ’60 di nuovi paradigmi disciplinari desunti dalla linguistica e dall’antropologia strutturali, capaci di rinnovare profondamente il panorama delle scienze umane. Nel nuovo contesto la riflessione sul cinema si definisce nel dialogo sempre più ampio e complesso con una rete di discipline nuove o profondamente rinnovate: semiotica, sociologia, psicoanalisi, psicologia, filosofia politica, più tardi scienze cognitive e neuroscienze; dialogo che vede prevalere ora i profili disciplinari, ora i profili degli oggetti cinema e film. È proprio in questo contesto che si definisce il termine teoria per marcare il carattere disciplinare della riflessione sul cinema. È interessante a questo proposito confrontare le posizioni di Mitry richiamate sopra con quelle mediante le quali Christian Metz inaugura la semiotica del cinema. Anche per Metz il cinema è un linguaggio, ma tale natura linguistica non deriva più dai processi di distacco dell’immagine cinematografica rispetto all’evidenza immediata dell’oggetto reale, ma piuttosto dall’ipotesi di applicare al cinema concetti elaborati in riferimento alle lingue naturali della linguistica strutturale. La nuova collocazione disciplinare inaugurata da Metz possiede due ordini di conseguenze e di sviluppi per la riflessione sul cinema. Per un verso, la semiotica del cinema segue lo sviluppo della semiotica tour court: da un interesse per i problemi del segno filmico essa si sposta dapprima verso un interesse per il testo filmico, i codici che esso mobilita, le strutture di organizzazione, i processi di scrittura che vi operano; per poi leggere il testo nei suoi rapporti con il contesto di recezione. In quest’ultimo ambito emergono sia teorie di tipo enunciazionale, attente a comprendere come il testo filmico offra una specifica posizione al proprio spettatore, sia teorie di tipo pragmatico o semiopragmatico, che esaminano in che modo fasci di determinazioni socioculturali e meccanismi testuali lavorino congiuntamente per dar modo all’esperienza spettatoriale di funzionare a dovere. Per altro verso, la semiotica si contamina con altri approcci tipici dello stesso ambiente culturale, in particolare la psicoanalisi e la critica delle ideologie. Sul versante psicoanalitico è forte l’influsso della revisione freudiana attuata da Jacques Lacan: lo spettatore cinematografico viene integrato in un dispositivo che, da una parte, lo immerge in uno stato di regressione simile al sogno e, dall’altra, gli permette di rivivere l’esperienza primaria del riconoscimento allo specchio che fonda la costituzione del Sé del bambino – con la differenza che egli è ora chiamato a identificarsi non con la propria immagine ma con il proprio puro sguardo. Altri lavorano in chiave semiotico-psicoanalitica non sul cinema ma sui film: ad esempio, Raymond Bellour analizza millimetricamente alcuni film classici (soprattutto Hitchcock) per mostrare come la narrazione in filigrana del racconto edipico spieghi tanto scelte narrative e rappresentative più ampie quanto dettagli minimi della messa in scena. Sul versante della critica dell’ideologia, L'influsso principale proviene dalla revisione di Marx attuata in quegli anni da Louis Althusser, che porta al centro dell’attenzione il concetto di rappresentazione. Il cinema è visto in questo caso come una macchina di produzione e riproduzione delle ideologie per due ordini di ragioni: da un lato i contenuti che veicola, dall’altro la sua natura di prodotto della tecnologia capitalista capace di naturalizzare la propria peculiare rappresentazione del mondo in base a un’illusoria e consolatoria impressione di realtà. La discussione coinvolge vari intellettuali che ruotano intono alle riviste cinéthique e cahiers all’inizio degli anni ’70. Nel frattempo il dibattito derivante dalla semiotica e dalle sue contaminazioni si estende dall’ambito francese a quello anglosassone: nel 1071 viene fondata in Inghilterra la rivista “Screen”, mentre negli USA la teoria del cinema sul modello francese si sposa con il rinnovamento post 1968 degli interessi accademici. In questo contesto nascono i feminist studies, molto attenti alla congiunzione tra semiotica, psicoanalisi e cristica dell’ideologia. Ad esempio, Mulvey osserva come il piacere dello sguardo offerto dal cinema classico possieda un’origine e una destinazione essenzialmente maschili: la donna viene costantemente posta nella condizione di oggetto passivo dell’attività scopica tanto del personaggio quanto dello spettatore. Proprio all’interno del dibattito anglosassone emergono nel corso degli anni ’80 due forme di reazione polemica alla teoria continentale. Da un lato, gli studi culturali dedicano particolare attenzione al ruolo della cultura pop, dei media e del cinema; il tipo di spettatore o di spettatrice che essi configurano è lontano da quello della semiotica degli anni ’70, fortemente determinato dalle dinamiche testuali: per un verso questa nuova figura di spettatore risente delle determinazioni culturali, per altro verso è però in grado di autodeterminare creativamente i propri percorsi di fruizione. Il nuovo interesse per lo spettatore in quanto soggetto sociali si traduce sia in studi sulla contemporaneità sia in un rinnovato interesse per l’esperienza dello spettatore delle origini del cinema, all’alba della modernità. Dall’altro lato gli studi cognitivi attaccano ancora più duramente la Grand Theory semiotico-psicoanalitica continentale in quanto onnicomprensiva, astratta e fondata su una serie di oscurità e imprecisioni argomentative; gli studiosi propongono piuttosto la costruzione di teorie ben formulate nei termini della filosofia analitica; che ritornino a considerare lo spettatore reale. La cornice disciplinare proposta è quella del cognitivismo, un aggregato di discipline che modellizza i processi di conoscenza a partire dall’idea che la mente umana funzioni come un software; essa processa informazioni percettive che arrivano dal basso con l’intervento dall’alto di schemi complessivi. Questa posizione viene espressa nel volume collettivo di Bordwell e Carroll; Bordwell aveva peraltro già riformulato le teorie continentali dello stile e della narrazione filmica in chiave cognitivista. L’approccio cognitivista è orientato a valorizzare gli aspetti della cognizione fredda propri dell’esperienza filmica; tuttavia, alcuni studiosi hanno applicato i suoi modelli anche alla cognizione calda: ad esempio, Smith ha ripensato ai problemi dell’identificazione dello spettatore con il personaggio; e vari autori lavorano sui temi delle emozioni vissute dallo spettatore, considerando le emozioni come un particolare strumento di processualità immediata della conoscenza. Pensieri Nel corso degli anni ’90 del ‘900 si precisano le condizioni che determinano il panorama attuale della teoria del cinema. La prima condizione consiste nella conferma della natura istituzionale della ricerca, evidenziata da uno spostamento dei Film Studies dalla teoria alla filosofia del film. Il ritorno della riflessione vero l’area filosofica possiede due implicazioni. Essa permette anzitutto che alcuni temi e approcci degli anni ’70 e ’80 vengano aggiornati e rilanciati: ad esempio, Zizek riprende l’approccio psicoanalitico al cinema e valorizza la categoria lacaniana del reale rispetto a quelle dell’immaginario e del simbolico; Rancière sottolinea il potere del cinema di rinnovare le partizioni del sensibile e, dunque, l’esperienza che i soggetti sociali fanno del mondo, evidenziando la carica politica di tale potenziale. Inoltre, l’intervento della filosofia permette di precisare e di dichiarare gli ascendenti della riflessione, mettendo in particolare risalto l’opposizione tra approcci analitici e approcci fenomenologici. La seconda condizione della riflessione contemporanea è la graduale sparizione del cinema in quanto istituzione ben determinata e riconoscibile: con i nuovi devices digitali i film vengono visti non solo al cinema ma altresì in casa, al computer, in areo, per strada ecc. Inoltre, i procedimenti cinematografici rifluiscono in video, serie televisive, videogiochi, installazioni artistiche. Nel complesso cambiano quindi tanto l’individualità dell’oggetto film quanto la relazione fattuale e somatica che lo spettatore intrattiene con esso. Tale stato di cose spiega i 3 principali fuochi del dibattito contemporaneo: i criteri di definibilità del cinema all’interno della galassia dei media; il rapporto tra cinema e corpo; una riflessione metateorica sulla storia e il destino della stessa teoria del cinema. Un primo nucleo riguarda la definizione del cinema e quindi i criteri della sua individualità all’interno della galassia mediale contemporanea. La questione è del tutto simile a quella che ponevano i teorici classici degli anni ’10 e ’20; tuttavia in quel caso le risposte si basavano sugli aspetti tecnologici del cinema, mentre le teorie contemporanee criticano qualunque spiegazione della specificità dei media in termini di tecnologia, e affermano piuttosto che un medium viene definito in termini di saperi sociali e di pratiche culturali. Su questa base si definiscono due posizioni. Da un lato, c’è chi vede nella dispersione di elementi propri del cinema all’interno delle nuove culture digitali un segno di vitalità. Ad esempio, Manovich afferma che il cinema ha costituito una fondamentale interfaccia culturale, ovvero uno strumento di accesso dei soggetti alle informazioni attraverso forme strutturate di esperienza; in quanto tale, il cinema ha trasmesso molte delle sue componenti alle interfacce digitali → es. il formato dello schermo. Su posizioni simili Casetti: quello che chiamiamo cinema è in effetti il prodotto di un temporaneo assemblaggio di elementi culturali all’interno di un dispositivo riconoscibile; tali elementi da una parte preesistono e dall’altra sopravvivono al dispositivo stesso: di qui una gamma di possibili e inaspettate rilocazioni del cinema nella contemporaneità. Dall’altro lato, c’è chi ritiene che il digitale trasformi radicalmente l’esperienza dello spettatore tanto da non poter più parlare legittimamente di cinema nella condizione presente: tali, ad esempio, le posizioni di Andrew e di Bellour. Il secondo nucleo di riflessioni degli studi contemporanei sui film riguarda la relazione tra il cinema e il corpo. La riflessione cinematografica risente in questo caso del riaffiorare dell’approccio filosofico e fenomenologico, tanto nella formulazione di Bergson quanto in quella di Husserl e Merleau-Ponty. Sul versante bergsoniano lavora il filosofo francese Gilles Deleuze → secondo lui il cinema rende percepibile l’idea bergsoniana di un mondo composto di immagini in sé, immerse in un flusso di movimento infinito e indistinto che preesiste a ed è autonomo da la percezione da parte del soggetto. Il cinema è il luogo in cui si può sperimentare la percezione non umana di un universo di immagini a-centrato e immanente alle cose stesse. Su un aspetto, tuttavia, il cinema recupera l’andamento del corpo umano e della sua esperienza: il cinema classico pone al proprio centro relazioni cronologiche e causali tra le immagini, introducendo dunque un principio sensomotorio, ovvero una percezione legata all’azione che si manifesta nel movimento. Tuttavia, il cinema ha dimostrato di poter andare oltre il modello classico: nel cinema moderno, il nesso tra percezione e azione viene rotto o sospeso aprendo un inedito ventaglio di possibilità; in particolare, se il movimento permetteva una presentazione indiretta del tempo, abbiamo ora una presentazione diretta del tempo in quanto coesistenza di passati, presenti e futuri molteplici. Il progressivo successo della complessa opera di Deleuze ha avuto numerose conseguenze: il rilancio dell’idea che il
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