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Appunti storia economica del mondo contemporaneo, Appunti di Storia Economica

Sbobine del corso di storia economica del mondo contemporaneo integrate con le slides del docente

Tipologia: Appunti

2021/2022

Caricato il 09/06/2022

Alessia_Scattolon
Alessia_Scattolon 🇮🇹

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Scarica Appunti storia economica del mondo contemporaneo e più Appunti in PDF di Storia Economica solo su Docsity! STORIA ECONOMICA CONTEMPORANEA Il capitalismo Il termine capitalismo è stato a lungo un termine molto controverso; per decadi intere non è andato assolutamente di moda parlare di storia del capitalismo, non si faceva in quanto essa richiamava, tra gli anni ’50 fino ai Novanta, termini con una fortissima connotazione politica e geopolitica. La spiegazione di questo fenomeno è chiara: era un termine divisivo e controverso soprattutto nel contesto della Guerra Fredda, lo scontro tra una parte del mondo che funzionava seguendo le logiche e i principi capitalistici e dall’altro una parte del mondo con una struttura ispirata al socialismo. Poi con lo scioglimento dell’URSS è finito il socialismo e nel dibattito storico, economico, filosofico e politico si è fatta di nuovo largo ed è ritornata di moda. Dopo la fine della Guerra Fredda un politologo americano, Francis Fukuyama, ha pubblicato un libro in cui ha scritto che con la fine del socialismo e dell’URSS è finita la storia perché è finita la dialettica che era esistita nell’economia internazionale nei 50 anni che avevano preceduto la caduta dell’Unione Sovietica (la sua era una provocazione) basata sulla contrapposizione tra socialismo ed economia di mercato, tra Paesi che funzionavano a economica di mercato e Paesi che funzionavano a economia pianificata. Dal punto di vista di Fukuyama, il futuro dopo la caduta dell’URSS avrebbe dovuto essere una convergenza verso la democrazia liberale da un lato e dall’altro verso un sistema globale di economia di mercato. La storia futura secondo lui sarebbe stata non una vera e propria storia ma una cronologia in cui una serie di Paesi avrebbero cominciato ad abbracciare la democrazia liberale o l’economia di mercato. È un’impostazione antistorica e per questo è stato molto criticato. Si può innanzitutto questionare che la democrazia liberale coincida con l’economia di mercato; non è detto che la fine del socialismo possa coincidere con l’estensione di un sistema politico ed economico liberale. In secondo luogo, il modello stesso del funzionamento dell’economia internazionale ha mostrato non tanto l’adesione a un modello liberale deregolamentato (assenza di attori statali in economia) ma, tramite diversi attori ed eventi (la crisi del 2008 per esempio), che anche guardando al solo capitalismo ed economia di mercato si può ricostruire una storia del capitalismo perché il capitalismo nelle diverse fasi storiche ha avuto delle strutture e declinazioni caratterizzanti. Ad esempio, il sistema economico europeo e quello americano, anche se entrambi capitalisti, hanno caratteristiche profondamente diverse con radici e dinamiche storiche che hanno influenzato la loro evoluzione. Dopo la crisi finanziaria del 2008, ma anche già a partire dagli anni Novanta, gli storici economici ed economisti hanno cominciato ad interrogarsi e ad utilizzare il termine “capitalismo” per studiare il passato, per scrivere la storia del capitalismo e capire quali sono le modificazioni e radici di questo tipo di sistema. Le origini del termine Capitalismo deriva da “capitale”, termina che si ritrova nel lessico commerciale-economico già da diversi secoli (XV- XVI), espanso poi dai primi economisti nel XVII secolo. A questo termine in maniera abbastanza precoce viene affiancato quello di capitalista. Il termine capitalismo, invece, emerge curiosamente solo alla metà dell’Ottocento, due secoli dopo i primi utilizzi del termine capitale. Inizialmente il termine “capitale” è usato soprattutto nel lessico commerciale e solo successivamente entra nella riflessione politico-economica nel corso del XVII e XVIII secolo. Nasce infatti come sinonimo di denaro per poi disgiungersi da esso e assumere una connotazione più prossima a quella di “patrimonio”, comprendendo oltre al denaro una serie di valori mobiliari e immobiliari. Il passaggio che fa sì che il capitale diventi sempre di più un termine di riflessione scientifica che descriva e studi pratiche economiche avviene quando i primi economisti hanno cominciato a identificare il capitale con il patrimonio che è indirizzato ad una attività specifica, ovvero l’investimento. Il capitale è un patrimonio finalizzato all’investimento, rivolto al profitto a cui esso deve condurre (Adam Smith, 1776). Per uno storico, il capitale può essere considerato tale solo quando è rivolto all’investimento e all’accumulo e non al consumo. Da questa idea centrale è emersa poi tutta una riflessione sulla nascita del capitalismo come nascita di un comportamento economico che ha smesso di concepire il denaro come semplice mezzo di scambio e ha iniziato a concepirlo come un fine in sé, come un qualcosa che vada accumulato il più possibile e riutilizzato attraverso l’investimento. Il termine accumulazione è stato coniato da Adam Smith, il quale inseriva il capitale nel ciclo dell’economia: ad un certo punto l’imprenditore/il capitalista deve risparmiare i soldi non per farli dormire ma per reinvestirli e far crescere il proprio capitale. 1 Riformulando il discorso, in una società che fa uso del denaro per scambiare le merci, il denaro viene utilizzato per misurare il valore delle merci e quindi interpretato solamente come mezzo di scambio che serve a misurare il valore delle cose, compararle e scambiarle tra di esse. Nell’ottica invece descritta dai primi economi politici come Adam Smith, il denaro non è più un mezzo per accedere al mercato e allo scambio ma diventa il fine dell’agire economico e le persone sono portate ad accumulare denaro per investirlo e farlo crescere sempre di più. Il denaro smette di essere una semplice misura delle cose finalizzata al mercato e diventa un fine a sé stesso, accumularlo e investirlo per farlo crescere. Dal termine “capitale” deriva quello di Capitalista, un termine che ritroviamo a partire dal XVII secolo all’interno dei primi trattati di economia politica. Il capitalista è colui che possiede i capitali: il suo mestiere è quello di investire questi soldi per ottenere interessi e profitti, vive degli interessi maturati dagli investimenti (Adam Smith li definisce così). Inizialmente questo termine poteva essere identificato soprattutto con una classe di capitalisti ben precisa, ovvero i capitalisti che traevano gli interessi e i profitti sostanzialmente da delle attività di natura commerciale e finanziaria. I capitalisti descritti nei primi trattati di economia politica sono i grandi mercanti e banchieri, persone che hanno accumulato ingenti fortune e che reinvestono in attività commerciali e finanziarie. Successivamente, “capitalista” viene progressivamente utilizzato per descrivere anche chi compie investimenti di natura industriale. Il termine esce così da un significato puramente finanziario e commerciale per denotare anche chi compie investimenti produttivi nell’industria (non a caso sono gli anni della Rivoluzione industriale: Adam Smith osserva questo fenomeno crescente). Questo passaggio del capitalista come agente del mondo commerciale- finanziario a qualcosa di più vasto che include l’industria fa sì che il termine capitalista diventi un termine divisivo con accentuazione di classe: esce dai trattati di economia politica ed entra nel linguaggio politico, nel linguaggio della nascente lotta di classe della metà del XIX secolo (1848-1849). Da questo momento il termine capitalista è diventato un termine di lotta politica che serviva a identificare la classe che opprimeva l’altra classe, quella dei lavoratori. In questo ambito appare per la prima volta il termine capitalismo, utilizzato in seguito largamente nel corso della metà del XIX secolo. Inizialmente veniva utilizzato non per descrivere un processo storico ma come un termine politico, in particolare per dare un nome a un qualcosa considerato come un abuso, un sopruso, quindi per fare lotta politica. Ad esempio, una delle prime definizioni di capitalismo viene da Louis Blanc, un socialista francese (1850): il capitalismo è l’appropriazione del capitale da parte degli uni ad esclusione degli altri. Per lui è un sistema economico, politico e sociale che concentra le ricchezze nelle mani di pochi a discapito di molti, coltivando la disuguaglianza. Un’altra definizione viene da PJ Proudhon (1851): il mercato parigino degli affitti è la “fortezza del capitalismo” (critica il comportamento speculativo). Identifica il capitalismo non come un termine che può essere studiato da un punto di vista scientifico, analizzato da un punto di vista delle scienze sociali, ma come il nemico da combattere. Queste visioni ci aiutano a capire perché il termine capitalismo è stato a lungo divisivo e difficilmente utilizzabile nella ricerca storica ed economica. Wilhelm Liebknecht, uno dei padri della socialdemocrazia tedesca, nel 1872 nel cercare di parlare della povertà della classe operaia tedesca diceva che la colpa era del “Moloch del capitalismo”, quindi identificava il capitalismo come un mostro mitologico che tutto fagocitava. Marx curiosamente non ha quasi mai utilizzato il termine capitalismo ma ha contribuito a caratterizzarlo: utilizzava di più l’aggettivo “capitalistico”. Secondo lui, il modo di produzione capitalistico (oltre ad essere un mostro da distruggere) è caratterizzato dal mercato al centro del sistema: esso poggia sul mercato perché esiste la divisione del lavoro; le persone scambiano le merci non solo sul mercato ma su un processo di accumulazione che fa sì che la divisione del lavoro non sia senza un processo di disuguaglianza. All’interno della divisione sociale c’è da un lato la divisione del lavoro e dall’altro la divisione tra classi, ovvero per Marx la società è caratterizzata da divisione/contrapposizione forte tra chi detiene capitale e chi la forza lavoro. Da questa divisione del lavoro, predominanza del mercato e società divisa ne deriva non solo un sistema economico ma anche un sistema politico, sociale, basato sullo sfruttamento della manodopera da parte dei detentori di capitale. Marx non nega che il capitalismo possa essere esistito prima dell’industria, ma è interessato a spiegare le dinamiche del capitalismo industriale perché è la fase storica in cui lui vive e che vuole descrivere. Marx è importante non tanto perché le sue tesi oggi siano ancora condivise e importanti nello studio del capitalismo ma perché è stato uno dei primi che ha cercato di spiegare dinamiche che trasformano il mercato da un semplice mezzo a qualcosa di diverso. Ad esempio, spiega che prima del capitalismo, nell’economia precapitalistica il denaro 2 Contemporaneo a lui, un altro sociologo e pensatore è Karl Polanyi, il quale si interessava anch’esso del legame tra capitalismo e mercato ma lo faceva in modo un po’ diverso. Nel 1944, nel testo La grande trasformazione, afferma che il capitalismo coincide più o meno con il mercato: il mercato, tuttavia, non è sempre uguale, anzi è mutevole e nelle varie epoche ha avuto forme estremamente diverse. Tuttavia, la più grande trasformazione di questo mercato è data dal fatto che nella storia plurisecolare del mercato si è passati da una forma di mercato autoregolato in cui sono gli attori economici che si danno delle regole a un mercato che è sempre più regolato dallo Stato, il quale diventa un agente pianificatore e controllore del mercato stesso. Polanyi osserva come nel corso della Prima Guerra Mondiale e negli anni Trenta, quindi nel periodo successivo al Grande Depressione, il ruolo dello Stato nell’economia è cresciuto esponenzialmente ed è andato ad intaccare i principi liberali del mercato. In molti casi lo Stato, ad esempio, fissava i prezzi di alcune merci, la quantità delle merci da produrre, pianificava la produzione industriale e gli investimenti dei privati modificando la natura stessa del mercato. Nel mercato liberale chi fa il prezzo è l’incontro tra la domanda e l’offerta; nell’economia della grande trasformazione è lo Stato che coordina il mercato. Second Polanyi questo non è ancora socialismo: il capitalismo esiste ancora solo che lo Stato ha un ruolo completamente nuovo. Questo succede perché il mercato non sempre è efficiente, a volte non riesce a soddisfare la domanda, ad allocare ottimamente tutte le risorse perché gli attori economici non hanno la visione d’insieme sullo stato generale di un Paese. La grande novità è quella di pensare il mercato come quella qualcosa che, se lasciato libero a sé stesso, non sempre è in grado di funzionare correttamente. Uno dei primi storici ad interessarsi direttamente alla storia del capitalismo e a cercare di capire quali sono state le dinamiche che hanno plasmato l’economia internazionale nel lungo periodo è Fernand Braudel. Nel suo libro del 1979 Civilisation matérielle, éeconomie et capitalisme ritorna sulle dinamiche storiche che hanno creato il capitalismo, analizzando la sua nascita e il suo sviluppo e le ragioni che vi stanno dietro. Dà una definizione di capitalismo che non coincide con quella di libero mercato, mentre fino ad ora mercato e capitalismo in un certo qual modo erano due termini che si tenevano insieme. Il capitalismo non si è creato nel mercato ma in una struttura economica diversa che lui chiama contro-mercato. Gli scambi, l’economia, nei quattro secoli di storia europea che studia, possono essere divisi in tre grandi istituzioni: 1. Civiltà materiale : in questa non c’è il mercato o lo scambio, è quella delle persone comuni che nei secoli XV, XVI, XVII e XVIII vivevano di autoconsumo e autoproduzione (civiltà contadina che caratterizzava la società europea). 2. Mercato : anche nelle società dell’epoca moderna, anche nelle società che vivevano di autoconsumo e autoproduzione esisteva il mercato (nelle città italiane soprattutto) il quale serviva per scambiare dei beni, comprare quello che non si poteva produrre da soli. Ci sono diverse forme di mercato: mercato monetario n cui si usa la moneta, e il baratto. In quest’ottica il mercato preesiste al capitalismo. 3. Contro-mercato : a partire dal XV secolo e in maniera crescente nei secoli successivi si è sviluppato una forma specifica di mercato, il contro-mercato, ovvero il mercato dei piani alti, il mercato delle grandi transazioni finanziarie e della grande speculazione internazionale. Questo mercato compra e vende merci che vengono da molto lontano (ha un vasto raggio), è caratterizzato da beni di lusso, da altissimi profitti. Secondo Braudel questi mercati non sono competitivi, in essi non vige la legge della domanda-offerta ma vige la legge del monopolio e dell’oligopolio, della speculazione e delle asimmetrie informative. Si basa su un fortissimo legame con il potere politico.  Secondo Braudel il capitalismo è nato in questi piani alti del contro-mercato e non ha a che fare con la concorrenza ma piuttosto con il monopolio e l’oligopolio. Un suo allievo, Wallerstein, aveva una visione leggermente diversa perché vedeva nel capitalismo una specie di forza espansiva, un sistema economico in grado di estendersi progressivamente in tutto il globo, nelle zone extra-europee, con le buone o con le cattive. Nel filone di pensiero di Braudel c’è un altro studioso e sociologo che è Giovanni Arrighi. Nel libro Il lungo XX secolo si è interessato alle logiche che sottintendono alla creazione di un capitalismo globale. A differenza di Braudel dice che già nel XIII secolo ci sono le prime forme di capitalismo e contro-mercato. Tuttavia, secondo Arrighi, l’aspetto che caratterizza il capitalismo non è tanto da identificare come fa Braudel nel contro-mercato e commistione tra potere e politico ma l’essenza del capitalismo è piuttosto la disgiunzione tra il potere economico e il potere politico. I veri capitalisti della storia non sono i commercianti veneziani o i medici a Firenze o la Compagnia delle Indie, bensì i banchieri genovesi del XIII secolo che, anche se avevano una piccola 5 repubblica, all’interno di questa il potere economico e quello politico non erano la stessa cosa. Dietro questa disgiunzione sta l’essenza del moderno capitalismo che arriva fino alle multinazionali moderne. J. Kocka dà una definizione di capitalismo basata sul decentramento, mercificazione e accumulazione. “as an economic system, or a type of economy, distinguished by three sets of criteria: first, capitalism is based on individualized property rights and decisions. These decisions lead to results – both gains and losses – that are ascribed to individuals, that is, to individual persons, groups, associations, or firms”. Ci sono tre criteri che caratterizzano il capitalismo: 1)Il capitalismo si basa sulla proprietà privata e decisioni individuali che conducono a risultati (sia guadagni che perdite) che si possono ascrivere a individui nel senso di persone, gruppi associazione e imprese. La proprietà privata viene messa al centro: non può esistere un sistema capitalistico senza proprietà privata. Si tratta di una proprietà privata che può essere collegata anche alla proprietà da parte di uno Stato, di un gruppo o di un’associazione e non solo al singolo: uno Stato che possiede risorse minerarie e che le sfrutta direttamente o indirettamente non è necessariamente un Paese socialista o non capitalista (ad esempio la Francia a partire dal 1811 aveva creato una legge, il Codice minerario, col quale sosteneva che tutte le ricchezze del sottosuolo erano di proprietà dello Stato, eppure non era assolutamente un Paese socialista. Lo Stato dava delle concessioni alle imprese private per utilizzare queste risorse). Il contrario della proprietà privata in questa accezione è la non proprietà (e non la proprietà dello Stato). 2)Nel capitalismo la coordinazione tra i diversi attori economici viene effettuata nel mercato attraverso meccanismi di mercato e di prezzi, siano essi in competizione o cooperazione tra domanda e offerta e negli scambi tra le merci. La mercificazione delle risorse e prodotti è centrale e nel sistema capitalistico si può considerare come una merce anche il lavoro regolato da sistemi contrattuali. Il mercato centrale è qualcosa di importante, include sia il mercato competitivo che quello cooperativo, i prezzi sono importanti perché in qualche modo influenzano le azioni degli attori economici e sono la base sulla quale vengono prese delle decisioni e in questo tipo di mercato tutto è merce, compresa la forza lavoro. Questa definizione può tenere insieme i mercati come la Borsa di Milano e un mercato indiano. 3)Il capitale è centrale alla definizione di capitalismo. In un sistema capitalistico si usa il capitale immaginando quella che è la sua possibilità in termini di investimenti futuri con la prospettiva di un suo aumento futuro. In questa definizione, è la prospettiva della crescita fa considerare il capitale come qualcosa di caratteristico al sistema economico anche se poi magari l’investimento finisce male e si traduce in una perdita. In questo caso è sempre un modo di pensare al capitalismo perché quello che conta è la prospettiva. Paperon de Paperoni non è un capitalista, non investe molto: personifica il tirchio che conserva il più possibile il suo denaro. L’ottica del capitalismo proposta da Kocka è un po’ diversa: quello che è importante è l’investimento e il rischio che vi sta dietro. Definizione operativa di capitalismo: 1. Proprietà privata definita nella sua accezione più larga, 2. Il mercato che può essere non solo competitivo e 3. Capitale come propensione all’investimento. Secondo Kocka non è corretto parlare di fasi del capitalismo ma è più giusto immaginare una storia del capitalismo dove queste tre entità e caratteristiche (proprietà privata, mercato e capitale) prendono delle forme diverse: - Il capitalismo commerciale (dalle Compagnie delle Indie ai Traders multinazionali di oggi) - Il capitalismo agrario e minerario (dalla rivoluzione agricola del XVI secolo alle piantagioni, dalle imprese minerarie del XVIII secolo alle grandi conglomerate minerarie di oggi) - Il capitalismo industriale (dalla proto-industria, alle grandi imprese industriali di oggi) - Il capitalismo finanziario (dai banchieri fiorentini e genovesi alla Goldman Sachs) Tuttavia, non si tratta di analizzare le continuità, ma anche i cambiamenti che contribuiscono a modellare il mondo economico nella storia Altri approcci centrati sulla storia del capitalismo Secondo questa idea delle forme mutevoli, quindi di una definizione comune ma della possibilità comunque di sfumare e di capire delle peculiarità specifiche, di analizzare come all’interno di questa grande categoria noi possiamo 6 scovare delle differenze e capire quali sono le specificità territoriali degli attori economici che hanno dei comportamenti specifici, Peter Hall e David Soskice nella loro opera Varieties of Capitalism hanno coniato il termine varietà del capitalismo: il capitalismo varia, ha delle caratteristiche specifiche nei diversi settori, Paesi e regioni in cui noi lo osserviamo. Nel capitalismo, se diamo un’occhiata al mercato, esistono due approcci diversi al mercato: 1. LME (liberal market economies) in cui gli attori economici interagiscono attraverso la competizione. Il mercato svolge un’azione di coordinamento e influenza l’agire degli attori economici (il prezzo lo fa il mercato). Il mercato è immaginato come l’unione della domanda e dell’offerta attraverso delle forze competitive. 2. CME (coordinated market economies) in cui gli attori interagiscono fra loro su basi collaborative anziché competitive. Il mercato non svolge un’azione di coordinamento, ma l’equilibrio è raggiunto da un’interazione tra attori (il prezzo lo fa l’attore economico). Nel primo caso si immagina che il mercato sia la forma più efficiente per coordinare l’agire economico; nel secondo si considera il mercato come mezzo importante per scambiare ma i suoi fondamenti vanno definiti in un altro modo. In entrambi i casi si tratta di capitalismo. LME e CME possono essere considerate come delle “istituzioni”, alla Douglass North, costruite storicamente in dialogo con le organizzazioni. Lo storico Alessandro Stanziani, ritornando sul problema del mercato libero, nella sua opera Rules of Exchange ha proposto questa idea: indipendentemente dal concetto di mercato liberale, il mercato si è sempre sviluppato attraverso delle regole in cui anche quello che si chiama il mercato libero, il mercato competitivo, in realtà storicamente si è sempre sviluppato attraverso un set di regole ben determinate per rendere possibile ed efficiente il mercato. Possono essere regole che i mercanti e i loro clienti si danno in autonomia attraverso camere di commercio, contratti standardizzati, interventi di avvocati, notai ecc. oppure regole che possono essere create dagli Stati per evitare gli abusi del mercato, speculazioni troppo forti, per evitare che la competizione troppo esacerbata si trasformi in disagio sociale e che un mercato lasciato a sé stesso si traduca in disordine politico ed economico. Se si guarda alla storia della Francia del XIX secolo ci sono tutta una serie di leggi che pur istituendo il libero mercato, il concetto secondo cui sia il mercato a decidere il prezzo e a coordinare le attività degli attori economici, il teorema è intervenuto per limitare gli abusi e gli eccessi per dire cosa è lecito o no fare. Prima dello Stato erano gli stessi stati ad essersi dati delle leggi. Nell’ottica di Stanziani, nella storia del capitalismo non è tanto il libero mercato la cosa su cui bisogna centrarsi, ma la sua regolamentazione che nella storia ha cambiato le sue forme. 7 Wallerstein non parla di globalizzazione ma di sistema mondo che si estende a livello planetario. Da un punto di vista europeo tale sistema mondo inizia nel 1500, ma se diamo uno sguardo alle civiltà extraeuropee si arriva a una estensione del sistema mondo solo tra il 1750 e 1850. È difficile quindi stabilire una data di inizio univoca e proprio in questo dibattito entrano in gioco O’Rourke e Williamson. Questi sostengono che il commercio internazionale esiste da molto tempo, ossia dal 1200. Dicono anche però che la globalizzazione è qualcosa di diverso dal solo commercio internazionale ma piuttosto un fenomeno che vede la convergenza complessiva dei prezzi internazionali, ossia quando nei diversi mercati mondiali ubicati in varie zone del mondo si assiste a una progressiva armonizzazione dei prezzi. Anche Foreman-Peck, storico economico, parla della creazione del one price mondiale per le merci. Secondo O’Roucke e Williamson quindi prima che vi fosse la convergenza dei prezzi i mercati internazionali giocavano invece sull’asimmetria dei prezzi stessi, fino al 1800 quando diverse dinamiche portano i prezzi mondiali a convergere sempre di più. Come mai i prezzi convergono? Secondo i due studiosi convergono perché vi sono delle dinamiche economiche in atto:  il declino dei costi di trasporto che sono estremamente ridotti. Ciò è risultato di nuove tecnologie ed infrastrutture come reti ferroviarie o canali (Suez) che collegano i centri di produzione a quelli di scambio con una velocità mai vista prima.  incremento delle informazioni sempre più veloci e quasi in tempo reale riguardo al movimento dei prezzi. Vi furono importanti invenzioni come il telegrafo e il telefono che rendono possibile conoscere i prezzi quasi in tempo reale all’interno dell’economia globale. Prima di questo tipo di tecnologie le informazioni arrivavano con la merce.  dimensione politica legata al declino delle tariffe doganali. Prima del 1800 era normale avere delle tasse sullo spostamento di merci non solo da un paese all’altro ma anche all’interno dello stesso paese, dove ogni singola entità locale chiedeva tasse per il passaggio di merci o persone. A partire dal XIX secolo si creano i presupposti affinché si riducano e armonizzino le nuove tariffe doganali.  si crea una maggiore interdipendenza tra i mercati, sempre più interconnessi e globali come, ad esempio, il mercato del grano, che ha il proprio centro negli Usa e Canada e in Russia definiti come i granai del mondo. Con la creazione di questo sistema diminuiscono anche crisi e carestie di cibo e si creano anzi i presupposti contrari, ossia con crisi di sovrapproduzione.  si creano i prezzi lontani dai centri di produzione. Nei mercati di antico regime le crisi produttive locali avevano ripercussioni solo su quel mercato. Con l’integrazione dei mercati i prezzi non vengono più formati a livello locale ma diventano sempre di più il risultato di negoziati, informazioni raccolte e azioni commerciali che avvengono nelle principali sedi di scambio planetario. Ad esempio, il prezzo del grano commerciato in Europa viene deciso nelle piazze di commercio a Chicago o New York. I mercati sono quindi sempre più interconnessi con prezzi unici globali che si formano in maniera lontana ed indipendente dai centri locali di produzione. Questo fa dire ai due studiosi che la globalizzazione è data dalla grande novità del XIX secolo, ossia la convergenza dei prezzi. Altro approccio ci arriva da Harold James, autore del libro La fine della globalizzazione. James ci dice che le dinamiche che abbiamo appena descritto sono tipiche della globalizzazione ottocentesca. Tuttavia, la globalizzazione non è un processo a senso unico, ossia una volta creata non è detto che duri per sempre. Dice infatti James che nella storia esistono anche delle fasi di deglobalizzazione, in cui il prezzo unico mondiale e l’interconnessione di merci e capitali svanisce e viene rimpiazzata da sistemi nazionali. James studia il periodo tra le due guerre (1914-1939) come un periodo di profonda deglobalizzazione. Da un punto di vista concettuale ci dice anche che la globalizzazione non può essere placata da un giorno all’altro, la fine della globalizzazione non ha una data precisa ma piuttosto il periodo dopo la WW1 è caratterizzato da diversi contraccolpi o backlashes che hanno contribuito a frenare, far ridurre e poi finire la globalizzazione. Da storici è difficile affrontare la globalizzazione perché non ha una vera data di inizio o di fine ma piuttosto diverse tendenze o dinamiche che si alternano. In altre parole, vi sono fasi di globalizzazione e deglobalizzazione che non sono avviate in un momento preciso ma piuttosto da grandi avvenimenti: la WW1, la grande depressione e la WW2. 10 Questo grafico mostra chiaramente come la globalizzazione non debba essere intesa come un periodo unico ma bensì come un susseguirsi di fasi di globalizzazione, deglobalizzazione, ri-globalizzazione o ri-accelerazione. Tale grafico cerca di misurare la globalizzazione mediante un indicatore che è quello dell’apertura commerciale, dato che determina la possibilità di pensare ai mercati come interconnessi con prezzi convergenti. Tale indicatore viene calcolato mediante la somma di import ed export come percentuale del PIL dei 17 paesi più industrializzati. Tale indicatore ci dice la percentuale del commercio internazionale sul PIL dei paesi più avanzati. Mediante questo indicatore si vede bene come la fase prima della WW1 è una fase di intensa globalizzazione con una grande apertura commerciale. Questa fase è considerata la globalizzazione ottocentesca. La seconda fase mostrata dal grafico (1939- 1945) indica una fase di deglobalizzazione seguendo l’ottica di James, in quanto l’indicatore ha livelli molto bassi che crollano con lo scoppio delle due guerre mondiali raggiungendo picchi in negativo alla fine del secondo conflitto. Dopo la WW2 assistiamo a una seconda ondata della globalizzazione, anche se il periodo post bellico fino agli anni ’90 è più una compresenza di due periodi che una vera e propria globalizzazione: il primo periodo in cui c’è un livello di apertura commerciale relativamente basso rispetto a quello della fine della WW1 e per questo non ci porta a pensare alla presenza di una globalizzazione; il secondo periodo a metà degli anni ’70 rappresenta una profonda accelerazione fino a raggiungere dei livelli simili a quelli dell’800. Negli anni ’90 i livelli esplodono e quindi si può parlare di globalizzazione. Si può quindi parlare di una fase di preparazione alla globalizzazione degli anni ’90 che ha coinciso con il sistema di Bretton Woods, in cui si pongono le basi per integrare nuovamente i mercati a livello internazionale. Tale periodo viene identificato come periodo multilaterale in cui si creano delle istituzioni che sono multilaterali dove i diversi paesi armonizzano le proprie politiche economiche: le organizzazioni di questo periodo sono la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, il GATT (che poi diventerà WTO). Crollato il sistema di Bretton Woods nel 1971 si arriverà negli anni ’90 a una vera e propria seconda globalizzazione. Nel grafico sono presenti i grandi eventi mondiali ma anche le diverse invenzioni che hanno aiutato o che sono state alla base della progressiva integrazione nelle carie fasi. Linea rossa: commercio internazionale effettivo Linea tratteggiata: linea di tendenza che immagina la crescita ottocentesca costante nei decenni successivi. 11 The growth of world trade mostra il problema del commercio internazionale per capire quali sono le tendenze storiche nella crescita del commercio internazionale. Se si analizza la globalizzazione in relazione al commercio internazionale si nota come questo sia cresciuto in maniera rapida e costante nella fase di globalizzazione ottocentesca. Guardando il grafico si nota chiaramente come a partire dalla WW1 fino agli anni ’50 il commercio si affossi rispetto alla linea di tendenza. Il periodo tra le due guerre è un periodo di deglobalizzazione e di riduzione del trend del commercio internazionale, mentre a partire dagli anni ’50 si ha una linea effettiva più ripida rispetto alla linea di tendenza, ciò non è altro che l’effetto del periodo multilaterale in cui si creano i presupposti per una nuova globalizzazione. La linea effettiva e la linea di tendenza tornano a coincidere negli anni ’80, finché negli anni ’90 non si arriva al superamento della linea effettiva rispetto a quella di tendenza (iper-globalizzazione). La globalizzazione ottocentesca (1860-1913) È stata la prima grande globalizzazione dei mercati, ossia quella che è più consona chiamare così. La globalizzazione ottocentesca è un tipo di integrazione economica internazionale che ha delle regole del gioco ben specifiche ed è un tipo di istituzione economica che, anche se descritta per indicare un modello globale, ha una forte derivazione inglese. Il modello attraverso cui si avvia il processo di integrazione economica segue dei precetti plasmati su idee politiche economiche, commerciali e monetarie inglesi. La prima caratteristica della globalizzazione è di derivazione inglese ed è di natura monetaria. Durante questa globalizzazione si impone progressivamente il Gold Standard, ossia il primo sistema monetario internazionale. Nel Gold Standard le monete hanno una parità fissa nei confronti dell’oro. Quindi una moneta vale un corrispettivo di oro fisso e costante. Tale invenzione è inglese, in quanto dopo le guerre napoleoniche nella Bank of England si adotta il Gold Standard in sostituzione al modello bimetallico, in cui le monete erano convertibili o in oro o in argento. In questo sistema il valore delle monete era dato dal contenuto di metallo in queste monete. Nel Gold Standard invece si cambiano le monete nel loro corrispettivo in oro. La seconda caratteristica della globalizzazione ottocentesca è la crescente libertà nelle varie mobilita (capitali, persone e merci), ovvero il tipo di approccio commerciale che si intende dare all’economia internazionale: il libero scambio mediante cui si basa il funzionamento dell’economia sul libero scambio. Anche il libero scambio ha le sue radici nella politica inglese con la legge dei vantaggi comparati di Ricardo. Secondo l’ottica liberista un Paese deve produrre solo ciò che gli conviene produrre e ciò in cui è più competitivo. Un esempio che fa Ricardo è quello che mostra come il vino venga dal Portogallo mentre il ferro dall’Inghilterra. Questo libero scambio basato sui vantaggi comparati ha significato un profondo cambiamento nella politica economica inglese, soprattutto quando nel 1846 sono state abbattute le corn laws, ossia le leggi che proteggevano l’agricoltura inglese. Il governo inglese decide di non proteggere più l’agricoltura perché pensa di poter importare grano a prezzi minori rispetto a quelli di produzione. Importando grano a minor prezzo quindi i salari possono essere abbassati e la competitività dell’industria aumenta. L’Inghilterra adotta questa politica perché a metà dell’800 è il paese più industrializzato al mondo ed è la patria della rivoluzione industriale. Nel corso dell’800 il processo di globalizzazione ha coinciso con l’estensione geografica di queste regole del gioco, con un numero crescente di paesi che hanno adottato il Gold Standard e con un numero crescenti di paesi che hanno adottato il libero scambio a sfavore di politiche protezioniste o mercantiliste. In questa fase grazie alla base monetaria comune, alla riduzione delle tariffe doganali e alle innovazioni tecnologiche si arriva ad aumentare le possibilità di scambiare in sempre più libera non solo le merci ma anche i capitali e le persone. La globalizzazione ottocentesca è caratterizzata anche da una estensione dell’industrializzazione non solo in Inghilterra ma anche in altri paesi che alla fine dell’800 arriveranno ad essere più industrializzati rispetto al caso inglese, come Germania ed USA. Per quanto riguarda le politiche di integrazione commerciale e riduzione tariffaria una data importante per l’integrazione dei mercati è rappresentata dal 1860 con un tratto commerciale liberoscambista molto importante: il trattato di Cobden-Chévallier. Tale trattato stipulato tra Inghilterra e Francia vede impegnarsi i due paesi a ridurre sensibilmente le tariffe doganali. Questo trattato è importante per due motivi: il primo perché la Francia nel 1860 ha un sostrato economico profondamente industrialista. In altre parole, la Francia pensa di potersi industrializzare più velocemente attraverso il libero scambio più che attraverso la protezione. Ciò fu un cambiamento di pensamento importante e alla base vi sono le idee sansimoniane del primo ministro francese Chévallier che immagina un futuro francese industriale. Per questo l’inserzione nei mercati internazionali della Francia la avrebbe aiutata nel processo di industrializzazione anziché arrestarla. Il libero scambio viene quindi immaginato come un volano di crescita industriale. 12 In conclusione, possiamo dire che la globalizzazione ottocentesca noi la chiamiamo per convenzione globalizzazione ma bisogna sottolineare come questa si basi su tre livelli diversi: 1. Il primo livello di ispirazione inglese, in quanto le regole del gioco sono plasmate ad uso e consumo dell’Inghilterra e delle sue istituzioni economiche 2. È un processo di integrazione dei mercati globali, però vi sono delle nazioni che sfruttano maggiormente questo processo, ossia l’Europa e gli USA. Altri paesi invece subiscono la globalizzazione o vi partecipano in maniera subalterna e secondaria. 3. I paesi del nord del Mondo sono i veri beneficiari di questa prima globalizzazione Da un punto di vista di periodizzazione la globalizzazione ottocentesca prende fine con la WW1. Dopo la WW1 fino alla WW2 si cercherà di ricostruire la globalizzazione ottocentesca, con il Gold Standard Exchange nel 1925 o con la creazione della Lega delle Nazioni o della Camera del Commercio internazionale per aiutare l’integrazione dei mercati. Tale tentativo però fallisce per le ragioni presentate da James, ossia per via dei backlashes come la crisi del 1929 che porterà nel 1931 alla fine del Gold Standard Exchange per mano della stessa Inghilterra. Durante le due guerre in più non vi è un commercio integrato e globale ma piuttosto un commercio frammentato che si basava per lo più su scambi bilaterali. Durante le due guerre il perno centrale era la Bank of England che da sola non riusciva più a reggere l’intero sistema. Proprio per questo dopo il periodo bellico non si pensava più a un sistema di funzionamento dei mercati basato sul controllo nazionale dei governi ma piuttosto su una architettura specifica che deve svolgere il ruolo di garante del funzionamento economico: questa architettura si baserà sul Fondo Monetario Internazionale, sulla Banca Mondiale e sul GATT. Tale periodo, ossia dopo le due guerre, non viene definito come nuova globalizzazione ma piuttosto come periodo multilaterale, in cui per garantire crescita e stabilità dei mercati non vi era però la libertà di trasferimento dei capitali. Ad esempio, se ci si doveva recare all’estero anche solo per turismo si necessitava di particolari permessi, per non andare ad inficiare la stabilità monetaria complessiva. Vi era quindi un forte controllo statale complessivo. Il periodo multilaterale viene messo in crisi da Nixon nel 1971- il Gold Standard Exchange era stato riportato in auge con un sistema di cambi fissi basati sul dollaro che verrà fatto cessare da Nixon appunto- e termina definitivamente nel 1973, lasciando spazio a una nuova ondata di globalizzazione che presenta delle peculiarità differenti rispetto a quella ottocentesca: vi sono nuovi paesi (i BRICS), a partire dalla metà degli anni ’70 non vi sono più cambi fissi ma variabili dove le monete e i loro valori fluttuano e cambiano giorno per giorno. To sum up: globalizzazione 800esca, WW1, tentativo di ricreare una nuova globalizzazione che fallisce, WW2, periodo multilaterale in cui si creano i presupposti per una nuova globalizzazione liberale, nuova globalizzazione che salvo alcune differenze ricorda quella dell’800. Lo Stato, le politiche economiche e lo sviluppo economico Il ruolo dello stato nello sviluppo economico può prendere diverse forme che cambiano nel corso della storia da paese a paese e in base alle regole del gioco dell’economia. Tali forme possono essere analizzate in base alle azioni che lo stato compie nei confronti dell’economia attuando delle vere e proprie politiche economiche. Innanzitutto, lo stato può intervenire in economia attraverso una serie di politiche economiche ben definite. Lo stato può ad esempio farsi promotore di politiche tariffarie determinate, di dazi doganali, di politiche monetarie come leva economica. Lo stato può agire anche in maniera indiretta, ad esempio, fissando delle regole del gioco ben determinate per incentivare lo sviluppo economico. Lo stato può quindi pensare a delle politiche economiche il cui fine è quello di creare degli incentivi: ad esempio una politica protezionistica del 1800 non serve ad impedire le importazioni ma piuttosto a creare degli incentivi affinché queste siano ridotte. Oggi, ad esempio, lo stato crea un bonus per la caldaia, questo bonus è un incentivo perché si cambino le caldaie, ma di certo a cambiarle non arriva lo stato. Anche attraverso le politiche monetarie lo stato può adottare politiche espansive aumentando la liquidità e il capitale circolante o restrittive, al fine di modificare i parametri complessivi all’interno di un’economia. Ad esempio, uno stato in crisi può avere delle politiche monetarie espansive per aumentare il contante circolante oppure può adottare delle politiche restrittive per cercare di arginare l’inflazione. Questi sono esempi di interventi indiretti. Nel corso della storia lo stato ha fatto però anche degli interventi diretti diversi in base al tipo di intervento. Lo stato può intervenire direttamente diventato proprietario di imprese, industrie e settori produttivi attraverso le nazionalizzazioni. Nella storia vi sono molti esempi di interventi statali diretti accompagnati da politiche di pianificazione, in cui lo stato non osserva in maniera passiva lo sviluppo economico ma impone dei piani all’industria privata, diventando suo partner. Tali esempi si rifanno ai paesi capitalistici e non socialisti. Nei paesi socialisti lo stato 15 possiede direttamente i vari reparti dell’economia e non ha bisogno di creare delle pianificazioni intese come alternanza tra pubblico e privato. Infine, lo stato può attuare delle politiche indirette volte a creare dei presupposti per lo sviluppo economico. Un esempio può essere la politica sul capitale umano in cui si cerca di incentivare in un sistema economico delle competenze considerate importanti nello sviluppo economico nel suo complesso, ossia spese in ricerca ed educazione. Le modalità economiche, nel corso della storia, mediante cui lo stato è intervenuto all’interno dell’economia dipendono a seconda dell’epoca in cui ci troviamo. Lo scopo di questo capitolo è quello di immaginare le relazioni che esistono tra il mondo degli affari e i governi pubblici ponendoci come research question il come e il perché cambia il ruolo dello stato in economia e quali sono i legami complessi che possono esistere nella storia tra attori pubblici e attori privati. Partiamo da un concetto chiave: se oggi pensiamo all’impresa pubblica, ossia statale, questa viene recepita come uno sperpero di soldi pubblici, la quinta essenza dell’irrazionalità economica. Questo è il risultato della storia, in quanto a partire dagli anni ’50 l’intervento dello stato in economia affermava l’esatto contrario. Infatti, nella mente di un economista degli anni ’50 lo stato non è immaginato come una macchina inefficiente nel ruolo economico ma piuttosto come il contrario esatto, in cui certi settori strategici sono troppo importanti per essere lasciati in mano ai privati, ma anzi da questi settori normati dallo stato si parte per attuare lo sviluppo economico generale. Nella pubblicazione di Pierangelo Toninelli si avvia la riflessione sul problema dell’impresa pubblica e l’intervento dello stato. Presenta questa storia come un processo di ascesa e declino dell’impresa statale. In effetti in una fase di ascesa delle prerogative dello stato in economia si è succeduti ad un declino. Le imprese statali sono un esempio paradigmatico che mostrano quali sono le ragioni dell’intervento dello stato in economia. Analizzando in maniera più larga e generale le relazioni tra intervento statale in economia e mondo degli affari possiamo pensare alla periodizzazione degli ultimi due secoli caratterizzata dalle seguenti fasi di sviluppo.  La prima fase di sviluppo (XVII sec. e prima metà XIX sec.) è strettamente collegata a quanto visto nel capitolo della globalizzazione. Da principio, nell’ottica liberale che deriva dalla logica della mano invisibile del mercato di A. Smith, le prerogative dello stato in economia sono basse e limitate. Secondo Smith lo stato deve limitarsi a un ruolo di supervisore senza mai intervenire direttamente. Questo approccio ha caratterizzato il modello di economia politica all’inglese. L’Inghilterra, infatti, nel corso della rivoluzione industriale si è sviluppata attraverso uno stato minimo nell’economia, fomentata invece da attori privati ossia imprese o imprenditori. In questa prima fase quindi lo stato ha un ruolo marginale e viene immaginato solo come un attore che possa incentivare l’efficienza del mercato (mediante i trattati visti ieri ad esempio).  La seconda fase coincide con gli anni 80 e 90 del XIX secolo e viene denominata come fase del neomercantilismo. In questa fase i diversi paesi europei ripensano all’ottica del capitalismo liberale e all’intervento minimo da parte dello stato. Cresce così una serie di politiche protezionistiche da parte dei diversi governi, i quali intervenendo nelle politiche tariffarie cercano di modificare l’equilibrio normale del mercato. Prima del XIX secolo quasi tutti i governi adottavano delle politiche di tipo protezionistico ma queste non erano indirizzate allo sviluppo industriale ed economico ma venivano attuate solo per salvaguardare le finanze. Per questo il movimento che parte alla fine del XIX viene denominato neomercantilismo. Il neomercantilismo è una fase nuova perché in questo caso i diversi governi pensano che il mercato e il libero scambio non siano più sufficienti a garantire uno sviluppo industriale. Per questo intervengono con delle politiche tariffarie per attuare un nuovo protezionismo.  Una fase successiva è quella del periodo tra le due guerre. La WW1 ha rappresentato un caso importante in cui lo stato è intervenuto in maniera nuova per pianificare e regolamentare i mercati durante lo sforzo bellico. Successivamente ha dovuto continuare a mantenere delle politiche durante e dopo la crisi del 1929 e infine durante gli anni ’30, che hanno rappresentato un momento massimo di deglobalizzazione. Il periodo tra le due guerre nel suo complesso ha visto lo sviluppo di una serie di nuove prerogative dello stato che anche nel periodo successivo si sono mantenute.  La fase di Bretton Woods che va dal 1946 al 1971. Questo fu un periodo di crescita economica senza precedenti. Il ruolo dello stato nel periodo tra le due guerre e in quello successivo ha avuto delle finalità e dei ruoli completamente diversi, anche se le modalità di intervento sono simili. Durante le due guerre l’intervento dello stato in economia si configurava in un’ottica di nazionalismo economico e di declino della globalizzazione e degli scambi internazionali. L’intervento statale era finalizzato al riarmo, a politiche di potenza o a politiche che non avevano come obiettivo lo sviluppo del benessere nazionale. 16 Nel periodo di Bretton Woods invece lo stato è una componente importante dello sviluppo economico inteso come espansione del benessere, riduzione delle disuguaglianze, creazione dei presupposti affinché il nazionalismo fosse superato in chiave multilaterale dell’economia. Qui lo stato è attore centrale di coordinamento sia nazionale che internazionale. Si sviluppa infatti in questi anni il concetto di economia mista, in cui l’impresa pubblica e quella privata cooperano insieme per lo sviluppo economico. Nel periodo di Bretton Woods tale agire economico era rappresentato dalla politica del pieno impiego, per ridurre la disoccupazione affinché tutti potessero guadagnare ed accedere al mercato per aumentare il benessere nazionale. Per fare ciò l’impresa pubblica era un volano fondamentale di queste politiche.  La fase dopo Bretton Woods che coincide con una crisi economica molto importante. Di fronte alla crisi i diversi paesi hanno esteso l’intervento statale per cercare di arginare e ridurre il peso della crisi economica sull’economia nazionale, arrivando molto spesso in casi in cui il ruolo dello stato smette di essere solo funzionale allo sviluppo economico ma si trasforma invece in un progressivo assistenzialismo. Ad esempio, se una impresa avesse fallito a causa della crisi, questa sarebbe stata semplicemente rilevata dallo stato per salvare i posti di lavoro. In Italia ci sono stati dei rilevamenti di imprese non strettamente strategiche per la crescita economica, come nel caso della Motta (impresa dolciaria) statalizzata alla fine degli anni ‘70  Dopo questo forte intervento dello stato in economia si è passati a una fase in cui l’efficienza economica si pensava mediante una riduzione dello stato in economia. Il nuovo paradigma neoliberale, che si rifà ad economisti della scuola di Chicago, ha immaginato il ruolo dello stato non più come fattore di crescita ma come un fattore negativo da limitare e che stava impedendo il pieno sviluppo delle forze del mercato. Ridurre il ruolo dello stato in economia per dare maggior spazio al mercato è una visione prettamente eurocentrica caratterizzata da forti privatizzazioni che si sono manifestate nel corso degli anni 80 e 90. Infatti, in questo periodo vi sono comunque zone in cui lo stato era fortemente presente con il suo intervento, come nel caso dei BRICS ad esempio. Secondariamente ridurre il ruolo dello stato non significa necessariamente la riduzione delle spese pubbliche. Grafico costruito dai dati di Angus Maddison economista che si è occupato di misurare gli andamenti economici di tutti i paesi dell’economia mondiale con delle metodologie che sono state riprese anche dall’OCSE per misurare il PIL e il suo andamento. Il grafico confronta il livello di spesa pubblica nel 1913 in tre paesi europei più gli USA (pezzettino rosa) con il livello di spesa pubblica del 2008. Le spese pubbliche vengono misurate come % del PIL. Nel 1913 il livello complessivo della spesa pubblica era relativamente basso in tutti i paesi, si andava dal 7-8% degli USA al 17% della Germania. Nel 2008 il ruolo della spesa pubblica in economia nonostante le politiche economiche neoliberali che avrebbero dovuto ridurre il ruolo dello stato in economia, si vede bene come il dato della spesa pubblica sia molto più alto. Se nel 1913 si avevano idee liberali, queste erano presenti anche negli anni 2000 ma con una spesa pubblica che aumenta e non diminuisce tornando ai livelli tardo ottocenteschi. Noi oggi abbiamo la tendenza a pensare al ruolo dello stato in economia come secondario ma in realtà questo dato ci da un’idea completamente diversa. Ciò che è cambiato tra il 1913 e il 2008 sono le prerogative dello stato in economia, ossia la maniera in cui lo stato pensa ad intervenire per favorire lo sviluppo economico. 17 territorio possono essere una barriera per lo sviluppo economico. Le riforme agrarie mirano alla crescita economica sul lungo periodo, diminuendo le distinzioni sociali e aumentando la crescita di un mercato interno. Un altro esempio che si può fare è quello della gestione delle risorse naturali da parte di un governo. Come nel caso del Code Minier del 1810 in piena epoca napoleonica. Tale Code è una legge che stabilisce che tutte le risorse del sottosuolo sono proprietà dello stato francese. Non è una forma di socialismo perché lo stato si rende conto che da solo non è in grado di ottimizzare queste risorse e prevede la creazione di concessioni lunghe a privati che possono sfruttare queste risorse. Lo stato francese, quindi, sorveglia mediante dei controllori o ingegneri di stato, formati e pagati dallo stato stesso, cui compito era quello di sorvegliare affinché i privati sfruttassero correttamente le risorse del sottosuolo. Questo è un esempio precoce di alternariato tra pubblico e privato. Lo stato riconosce quindi che le risorse minerarie sono troppo importanti per essere lasciate solo ai privati, ma da solo non riesce a sfruttarle in maniera efficace e per questo si affida a privati. La proprietà pubblica viene quindi affiancata alla razionalizzazione privata. Napoleone fece questo nel pieno delle guerre napoleoniche, momento in cui la Francia scontrandosi con l’Inghilterra si rende conto del suo ritardo industriale e quindi di conseguenza anche militare (in altre parole i cannoni francesi non competevano con quelli inglesi). Per Napoleone quindi lo sviluppo economico era anche uno sviluppo militare strategico. Il tutto ruotava attorno a ferro, carbone e acciaio ossia 3 produzioni che fanno parte del sistema tecnologico della rivoluzione industriale. Per chiudere quindi per Gerschenkron esistono diversi fattori sostitutivi, cui più importante è lo stato. I diversi paesi applicano anche delle politiche differenti con pratiche e modalità differenti. Il dibattito a partire da Gerschenkron ha prodotto grandi bibliografie e per anni si è discusso di politica statale come fattore sostitutivo per lo sviluppo economico. Ad esempio, in Italia per molto tempo l’interpretazione chiave per lo sviluppo economico è stata quella di Franco Bonelli con il suo articolo presente nell’annale 1 dal titolo Il capitalismo italiano, linee generali di interpretazione. Prima di dedicarsi a questo articolo si era concentrato sull’acciaio, prendendo in esame la Terni. La linea generale di Bonelli è la seguente: l’Italia è un paese ritardatario, povero, con livelli salariali tra i più bassi in Europa, sottosviluppato e che ha completato il processo di unificazione tardi. È un paese in cui il problema de sottosviluppo economico non può essere ovviato solo mediante le forze del mercato, anzi lo stato ricopre un ruolo centrale nel processo di industrializzazione. Tale ruolo non è diretto inizialmente, ossia lo stato non possiede fabbriche, ma piuttosto un ruolo che si articola nelle varie fasi storiche mediante azioni diverse:  Attraverso le sovvenzioni dirette: lo stato mediante delle commesse, ossia acquisti verso i privati, si sostituisce al mercato come nel caso delle imprese dell’acciaio come la Terni. Le sovvenzioni dirette vedono quindi lo stato sostituirsi al mercato.  Attraverso un intervento diretto: si compiono delle statalizzazioni come nel caso delle ferrovie nel 1907. Gli interessi privati falliscono e si arriva quindi nel 1907 per necessità ad avere lo stato come proprietario delle ferrovie. A questo esempio se ne seguono altri come l’IMI (istituto mobiliare italiano a cui lo stato affida dei pacchetti azionari comprati alle banche esposta alla grande crisi degli anni ’30) e l’IRI (istituto per la ricostruzione industriale dopo la crisi del ’29 che ha il controllo diretto su alcune imprese) mantenuto anche dopo WW2 e a cui nel 1962 si affianca anche l’EFIM (ente finanziario industria meccanica), che ha permesso allo stato di allargare la propria presenza anche in altri settori dell’industria italiana.  Attraverso un ruolo specifico, ossia l’utilizzo della Banca Centrale (la Banca d’Italia) come potente strumento di finanziamento industriale, concedendo crediti alle industrie oppure alle banche che finanziavano le industrie. Tali interventi non devono sorprendere in quanto nel corso dell’800 in Italia non si sviluppa un mercato del consumo (che arriverà sono negli anni 70 del ‘900) e nemmeno un vero e proprio mercato dei capitali, ossia una borsa in grado di finanziare lo sviluppo industriale. Fino agli anni ’30 infatti sono sempre state le banche a garantire i prestiti alle imprese. Con la creazione di IMI e IRI sarà lo stato stesso a sostituirsi alle banche. Quindi lo sviluppo non deriva dal mercato ma piuttosto dallo stato che agisce in diverse maniere in base alle diverse fasi storiche. Nel caso della Francia analizziamo il pensiero di Maurice Lévy-Leboyer, il corrispettivo di Bonelli ma per il caso francese. Lévy-Leboyer è uno storico economico che, assieme a Jean-Claude Casanova, ha proposto uno studio sulla storia dell’economia francese che si chiama Tra lo stato e il mercato. In questo studio l’idea di fondo è che lo sviluppo industriale complessivo della Francia ha seguito un percorso che implicava una azione costante dello stato come fattore sostitutivo rispetto al mercato. Secondo Lévy-Leboyer il mercato interno francese non era sufficiente ad alimentare lo sviluppo economico. Per questo i mercati esteri potevano essere uno sbocco utile, ma per Lévy-Leboyer 20 questi sono difficili da raggiungere per l’industria francese in quanto vi è una grande concorrenza internazionale in cui la Francia non può competere a causa dei grandi gradi di arretratezza tecnologica. Per questo nel corso dell’800 lo stato si sostituisce al mercato diventando un consumatore di beni strategici, che hanno la possibilità di favorire il processo di industrializzazione. Ad esempio, lo stato diventa uno dei più grandi consumatori di acciaio o dei prodotti siderurgici in generale. Il caso francese si distacca da quello italiano perché in Francia emerge successivamente una tendenza da parte dello stato a sostituirsi non solo al consumo di beni strategici ma anche alla pianificazione delle imprese. La Francia, quindi, adotta forme di pianificazione: le prime sono fatte durante la WW1 quando per rendere più efficace lo sforzo bellico lo stato assume il ruolo centrale di pianificatore nell’economia. Nel corso degli anni ’30 invece dopo la crisi economica internazionale si ripropone il dibattito (conosciuto come economie dirigie) sulla pianificazione dello stato per indirizzare l’economia nazionale e ciò porterà lo stato francese a nazionalizzare alcune imprese o settori, in particolare nel 1938 con la creazione delle SNCF ossia l’equivalente francese delle Ferrovie dello Stato. Dopo la WW2 la pianificazione diventerà centrale in Francia in quanto lo stato diventa proprietario di settori importanti per lo sviluppo economico del paese, con delle nazionalizzazioni nel settore del carbone (con la creazione dello CDF nel 1946) e dell’energia (ossia l’EDF). In tutti gli altri settori, dove lo stato non interviene direttamente, l’economia non è lasciata libera di svilupparsi ma si creano una serie di piani (su tutti il piano Monnet) in cui si fissano i limiti di produzione e si danno linee guida per ogni reparto produttivo. Il caso francese mostra come lo stato pensi che alcuni settori siano troppo importanti per essere lasciati ai privati, come l’energia che serve a tutte le produzioni, ma mostra anche come gli altri settori anche se non direttamente sono normati da linee guida per lo sviluppo complessivo sempre di natura statale. Tali piani rimarranno in auge sino agli anni ’70, dove lo stato è pianificatore mediante interventi diretti (nazionalizzazioni di settori strategici) ma anche indiretti con indirizzi di sviluppo a ogni industria o settore industriale. Lo stato in Francia fa questo perché dopo la crisi degli anni ’30 perché si rende sono che il mercato da solo è un’arma pericolosa, in quanto se le industrie non seguono i piani di sviluppo si ha una economia depressa. Tali idee saranno funzionali per due decenni sino alla crisi degli anni ’70 appunto. Il primo piano più famoso e da ricordare è quello di Monnet. Anche i paesi sotto al nazismo e al fascismo pianificavano l’economia? Si. Negli anni ’30 ci sono dei paesi come Italia, Germania ma anche Inghilterra che attuano una grande pianificazione ed estendono le prerogative dello stato in economia come preparazione alla guerra. La spesa militare e lo sviluppo industriale strategico assumono un ruolo fondamentale. In quegli anni il problema dello stato non era quello di incrementare il benessere o i consumi ma al contrario di ridurre i consumi per indirizzare tutte le risorse nazionali all’ambito militare. Ciò ha avuto effetti ambivalenti: paesi come Inghilterra e Germania hanno attuato queste politiche e sono arrivati preparati alla guerra, mentre altri come USA e Francia sono arrivati totalmente impreparati alla WW2. Negli anni ‘50 e ‘60 quando si applicano le nuove pianificazione l’ottica statale non è più quella di concentrarsi solo sugli armamenti ma di sviluppare il pieno consumo e la crescita del benessere complessivo del paese. Quindi la finalità dello stato cambia radicalmente. Ora diamo uno sguardo fuori dall’Europa, sempre parlando di intervento statale. In America Latina, citando il lavoro di Raúl Prebisch Capitalismo periferico, il problema del sottosviluppo o mancato sviluppo è un problema che difficilmente si può affrontare attraverso il libero mercato. Un paese sottosviluppato ha interessi a commerciare e a inserirsi nell’economia internazionale ma lo deve fare cercando di sfruttare al massimo le occasioni che l’economia internazionale offre, non subendole quindi. È per questo che Prebisch pensa che uno stato poco sviluppato debba mettere in campo delle politiche che mirino progressivamente alla sostituzione delle importazioni. Questo si ottiene mediante l’adozione di politiche moderatamente protezionistiche. La logica è la seguente: nel passato l’esempio inglese ha mostrato come uno stato entrasse nell’economia internazionale esportando ciò che sa fare meglio. In questo meccanismo vi sono però paesi che esportano prodotti industriali ed altri solo materie prime. Dice Prebisch che esportare solo materie prime sia un grosso problema per un paese perché i prezzi di queste materie prime sono altalenanti e quindi anche il livello di benessere di un paese è legato a queste fluttuazioni. Ad esempio: se siamo un paese esportatore d i cacao, se questo costa molto è un bene ma se costa poco dice Marco che sono “dolori”. Quando i costi delle materie prime cambiano, lo stato ha meno risorse ma deve comunque continuare ad importare beni necessari che costano però molto. In più i prezzi delle materie prime non sempre sono controllati dai paesi esportatori ma piuttosto dai pesi importatori. Prebisch dice quindi che il ruolo di uno stato che vuole sviluppare la propria economia non è semplicemente quello di inserire la propria economia nella globalizzazione ma piuttosto di favorire uno sviluppo bilanciato con una struttura 21 produttiva che non si basi solo sulle materie prime ma che includa tutti i settori dell’attività industriale. Così non si dipende dall’estero per l’importazione delle tecnologie e si è maggiormente al riparo dalle fluttuazioni cicliche dell’economia internazionale. Per Prebisch lo stato è importante per la creazione di politiche di import substitution mediante delle tariffe doganali: quello che dice rispecchia quanto accaduto anche alla fine dell’800 da diversi paesi europei e non solo. In questo periodo, infatti, si applicano tariffe doganali a protezione della propria industria nazionale. Le politiche protezionistiche hanno caratterizzato a lungo gli USA rispetto alla grande logica liberale di natura inglese. Gli USA sono un’eccezione al libro scambio da cui si allontanano alla metà dell’800 per sposare una serie di politiche di protezioni doganali. Alcune industrie specifiche negli USA negli anni ’80 dell’800 hanno dazi doganali protettivi del 100%, come il caso dell’acciaio. Ciò permette all’industria nazionale di svilupparsi in maniera protetta. Il grafico mostra chiaramente i livelli tariffari elevati degli USA. Ciò mostra che Prebisch non si era inventato nulla di nuovo sul capitalismo periferico ma ha davanti a sé modelli storici che si sono sviluppati mediante politiche protezionistiche. Ciò che va inteso è come le istanze protezionistiche non possano giocare a sfavore delle economie nazionali da un lato i prezzi interni salgono rispetto a quelli risultanti dalle importazioni, dall’altro alcune imprese producono a prezzi alti protetti dalle tariffe ma non competitivi all’estero. Un buon livello sarebbe quello di proteggere fino almeno ai costi dei mercati internazionali per far sì che le imprese nazionali possano comunque competere. Un esempio odierno di materia prima cui prezzo non è fatto dai produttori è il petrolio. Tale questione sarà centrale nella parte legata alla finanza. Intervento da casa avendo un mercato interno protetto però non si è spinti a fare innovazione. Marco aggiunge che ci sono degli esempi che mostrano il contrario, come Giappone e Corea del Sud ossia i due paesi in assoluto maggiormente sviluppati. Questi paesi hanno però seguito le politiche protezioniste citate poco sopra. Nel caso del Giappone vi è un ministero specifico, ossia il MITI, in cui ci si occupa da un lato di imprese interne oligopolistiche con prezzi elevati, dall’altro favoriva le esportazioni all’estero. Così le imprese giapponesi avevano politiche di doppio prezzo, aiutando lo sviluppo tecnologico nazionale ma senza rompere il legame con i mercati esteri. In questo caso il protezionismo doganale, quindi, favorisce lo sviluppo tecnologico. Concludendo effettivamente l’emergere dello stato come elemento pianificatore centrale è una caratteristica internazionale dell’economia degli anni tra le due guerre. La WW1 come grande conflitto industriale ha mostrato la necessità da parte dello stato di portare avanti delle politiche di industrializzazione strategica. Dopo la WW1 il problema dello sviluppo economico diventa un problema anche di natura industriale. Nella pubblicazione di David Edgerton, Warfare State, si mostra l’ascesa e il declino delle politiche economiche volte allo sviluppo delle industrie degli armamenti. La logica sia della pianificazione industriale inglese ma anche negli altri stati europei è legata alla necessità non di sviluppare il benessere o il mercato civile, ma piuttosto di attivare e migliorare la produzione nei comparti necessari allo sforzo bellico. Tutto ciò avveniva a discapito della spesa sociale o attribuita ad altri settori dell’economia. Per questo non si tratta di politiche keynesiane (che mirano invece allo sviluppo sociale nel suo 22 La teoria che precede le idee di Rifkin è la teoria dei cicli economici di Schumpeter. Secondo Schumpeter, infatti, c’è un legame stretto tra l’innovazione tecnologica e lo sviluppo economico. Questo legame stretto è dato dal fatto che, secondo Schumpeter, si possa interpretare la storia come un susseguirsi di ondate di innovazione, dove ogni ondata di innovazione corrisponde a un vero e proprio paradigma tecnologico che è rappresentato da un cluster di innovazioni tra di esse collegate. Ad esempio, secondo Schumpeter, una prima ondata di innovazioni tecnologiche non si lega solamente all’invenzione della macchina a vapore del 1874 ma in realtà anche una serie di innovazioni, che tra di esse creano un legame e si auto-influenzano, hanno contribuito a creare un vero e proprio paradigma tecnologico. Secondo Schumpeter quindi, il quale ha descritto e studiato solo le prime tre ondate del grafico, un’innovazione tecnologica da sola non è sufficiente a spiegare il processo di crescita economica e di paradigma tecnologico. È piuttosto la relazione che esiste tra diverse tecniche -ad esempio il vapore influenza i trasporti, ma i trasporti sono possibili solo se si produce ferro e si hanno competenze meccaniche sennò a locomotiva sta bea ferma in stasion- a spiegare la crescita economica; quindi, un cluster di innovazioni tra loro relazionate. Secondo Schumpeter la storia dell’economia è caratterizzata da dei cicli, ossia da fasi di rapida crescita e di crisi economiche che si ripetono. Le crisi economiche sono determinate dal passaggio da un paradigma tecnologico ad un altro, ossia da un cluster ad un altro. Ciò accade perché quando nasce una nuova tecnologia e comincia a diffondersi, le vecchie tecnologie entrano in crisi così come gli utilizzatori di queste. È l’effetto della creazione-distruttrice, dove alla base vi è l’innovazione. L’innovazione annienta ciò che c’era prima ma non del tutto e in maniera rapida. Infatti, i paradigmi tecnologici precedenti continuano anche dopo l’emergere delle nuove tecnologie. Anche altri storici economici si sono interessati al concetto di paradigma tecnologico o cluster sviluppato da Schumpeter. In particolare: B. Gilles parla di sistemi tecnologici per definire le relazioni intrinseche che esistono in una fase tecnologica precisa, oppure N. Rosemberg che studia la tecnologia nell’ottica di network di innovazioni, ossia concepire le innovazioni tecnologiche non come aumento quantitativo della produzione ma piuttosto come estensione progressiva in termini di opportunità di produzione. Tutte queste visioni ci mostrano come non si debba isolare una tecnologia nell’evoluzione storica, ma piuttosto all’interno di questa vi siano dei condizionamenti reciproci tra tecnologie differenti. Per fare un passo avanti e cercare di spiegare meglio questo legame complesso tra l’innovazione tecnologica e lo sviluppo economico, rispetto ad immaginare lo sviluppo economico come derivante da una semplice innovazione o invenzione, Marco il magnifico ci propone alcuni dibattiti storiografici sul concetto di rivoluzione industriale. Diamo quindi uno sguardo a come viene concepita la rivoluzione industriale e come si è sviluppato il pensiero intorno all’esistenza di successive rivoluzioni industriali. 25 Per lungo tempo gli storici economici si sono focalizzati su una research question in particolare, ossia perché l’Inghilterra fosse stato il primo paese industrializzato al mondo. La spiegazione del primato inglese ha caratterizzato l’ottica degli storici economici sino agli anni 80 e 90. A questo primo dibattito, che puntava all’eccezionalità inglese rispetto al panorama internazionale, si è affiancata una seconda visione meno anglo-centrica che cerca di capire perché l’industria si fosse sviluppata in Europa, cercando di capire l’evoluzione industriale ed economica di una macroarea europea. Tale approccio è di tipo globale e cerca di comparare una storia transnazionale dell’innovazione tecnologica e dell’industrializzazione. Infine, il dibattito storico economico ha cercato di capire quale sia il legame esistente all’interno di ogni paese tra l’innovazione tecnologica e lo sviluppo economico, analizzando le caratteristiche proprie di ogni paese che possono descrivere il sistema di innovazione nazionale (perché alcuni paesi sono innovati mentre altri no). Il termine rivoluzione industriale Il termine rivoluzione industriale è un termine antico coniato ed utilizzato per la prima volta da Arnold Toynbee, storico inglese, nel 1884 per definire il processo di crescita economica che l’Inghilterra aveva conosciuto dal 1760 al 1830. Toynbee utilizza il termine rivoluzione non tanto perché la rivoluzione industriale assomigliava a un fatto politico scatenante, come la Rivoluzione francese, che ha cambiato radicalmente l’ordinamento politico ma piuttosto perché la rivoluzione industriale è stata una frattura profonda caratterizzata da una serie di mutamenti che si sono verificati in questo periodo. Toynbee aveva misurato quindi una serie di mutamenti che avevano caratterizzato l’Inghilterra tra 1760 e 1830 dove il paese aveva subito una rapida urbanizzazione, una accumulazione di capitale per la produzione, una crescita della produttività agricola che ha consentito di sostenere la popolazione urbana e infine una crescita dei redditi e della ricchezza. Questa, quindi, era una frattura nella storia inglese in quanto non vi era mai stata una trasformazione tale nella società intera in precedenza, anche dal punto di vista tecnologico. Per Toynbee quindi la rivoluzione è stata una frattura rapida che ha contribuito a trasformare profondamente l’Inghilterra rispetto a cosa era prima. Successivamente molte delle idee di Toynbee sono state confutate e diversi storici economici hanno cominciato a misurare il grado di crescita economica dell’Inghilterra, rendendosi conto che questa si sia sviluppata nel tempo attraverso dei ritmi di crescita estremamente moderati, ossi tra lo 0.5 all’1% di PIL massimo. La trasformazione non è stata così rapida come potesse sembrare, così come per le accumulazioni dei capitali dove molti storici hanno mostrato come i capitali necessari nella prima rivoluzione fossero relativamente bassi, in quanto le tecnologie impiegate erano a bassa intensità di capitali. Anche la crescita dei redditi e della ricchezza è stata confutata da molti, in quanto le condizioni dei lavoratori erano miserabili come magistralmente presentato nei romanzi di Charles Dickens. Tutti questi studi che hanno cercato di misurare le performance inglesi nel lungo periodo hanno portato alla conclusione di non parlare di rivoluzione industriale, in quanto vi è un andamento graduale nelle trasformazioni economiche in atto. Anche nel libro Storia economica del mondo, di Cameron e Neal, si arriva alla definizione di rivoluzione industriale rimarcando la propria infondatezza storica del termine. «Probabilmente, nessuna espressione del lessico dell’economia ha riscosso maggior successo di quella di rivoluzione industriale. Ciò è deplorevole, in quanto l’espressione non ha di per sé alcun valore scientifico, e trasmette un’idea grossolanamente fuorviante della natura del mutamento economico» Tale giudizio mostra come la rivoluzione industriale non sia una rivoluzione, ma piuttosto sia un processo graduale e fluido caratterizzato da una seri di cambiamenti. Si deve quindi ridimensionare il parere che si ha avuto sulla rivoluzione industriale.  La rivoluzione fu un processo graduale e lungo, in cui anche quando vi è una innovazione questa ha una maturazione lunga e una applicazione che incontra delle resistenze. Ad esempio, basti pensare alle macchine a vapore, risalenti agli anni 40 del ‘700 e messe a punto solo a fine secolo. Anche le prime locomotive risalgono agli anni ’20 del XIX secolo quindi anni dopo rispetto all’applicazione del vapore alle macchine. Per produrre la prima macchina a vapore quindi si necessitò di un periodo di incubazione molto lungo. 26  Anche all’interno delle entità statali spesso esiste uno squilibrio regionale nel processo di sviluppo economico o industriale. Secondariamente esiste anche un grosso squilibrio da industria a industria. In altre parole, all’interno di uno stesso paese la crescita non è uguale in tutte le zone ma al contrario vi sono zone più industrializzate e sviluppate e altre meno. Quindi quando si analizza un processo di crescita come quello inglese molto spesso tale crescita si registra in industrie specifiche o arre specifiche che hanno adottato nuove tecnologie, ma non in tutto il paese. quando si analizza un paese si devono tenere in considerazione gli squilibri interni economici, tecnologici e di sviluppo.  Molto spesso il processo di rivoluzione industriale inglese si spiegava quasi esclusivamente a partire da fattori endogeni ossia interni all’Inghilterra, anche se in realtà si devono considerare i legami globali che collegavano l’Inghilterra al resto del mondo. Basti pensare al cotone, una merce globale e coloniale non prodotta su suolo inglese. In più la produzione industriale inglese non trovava sbocchi solo in Inghilterra ma al contrario necessitava di reti commerciali globali. In altre parole, la rivoluzione industriale ha avuto gli effetti principali in Inghilterra ma questo non sarebbe potuto accadere senza le connessioni globali con il resto del mondo. La rivoluzione è tutto tranne che un processo strettamente endogeno.  La rivoluzione industriale non fu un processo che portò reddito o ricchezza. Alcune classi ne trassero vantaggio, ossia gli industriali, mentre altre come il proletariato urbano subirono solo un peggioramento delle condizioni di vita rispetto a un’epoca precedente. Vi sono delle opinioni espresse da storici economici che dicono che nonostante questa rivoluzione non fosse stata così dirompente, rapida e diffusa in realtà sia comunque corretto utilizzare il termine rivoluzione, in quanto la prima rivoluzione industriale ha coinciso con la nascita dell’industria. La vera frattura sta quindi nell’avvio di un lungo processo di industrializzazione che poi si è diffuso anche al di fuori dell’Inghilterra. Ad esempio, David Landes, nel suo Prometeo Liberato, dice che la rivoluzione industriale fu simile al gesto che compì Eva mangiando il frutto dall’albero della conoscenza, in quanto da quel momento in poi il mondo non fu più lo stesso. Landes, anche se la rivoluzione industriale ha tratto origine in Inghilterra, descrive questo processo in una durata ancora più lunga rispetto a quella di Toynbee. Per lui il processo è iniziato nel 1750 ma si è protratto fino alla fine dell’800. Per Landes ciò che conta non è il termine rivoluzione ma piuttosto industriale, per capire il cambiamento industriale in generale nella società europea ma anche negli altri paesi industrializzati. Landes, anche in un altro suo libro dal titolo La favola del cavallo morto, descrive la rivoluzione industriale come il cavallo di una favola che non vuole mai morire ma piuttosto resite a tutto. Tale libro è un manifesto contro la New Economic History, ossia contro la storia economica che studia i cambiamenti quantitativi e misurabili a discapito di quelli qualitativi. Per Landes la New Economic History ha portato ad accantonare l’idea di rivoluzione. Ciononostante, è bene utilizzare questo termine perché anche se la rivoluzione è stata lenta e diseguale ha designato comunque dei cambiamenti profondi nella società e nell’economia: cambiamenti economici, sociali ma anche intellettuali e culturali. Per Landes la rivoluzione industriale non è stata solamente l’applicazione alla produzione di alcune tecnologie ma piuttosto è stato un processo di lunga durata che ha contribuito a plasmare la società moderna nel suo complesso, una società dove l’industria plasma il ruolo dello stato ma anche i rapporti interpersonali nel loro complesso. Con la rivoluzione industriale non nasce solo la moderna industria ma nascono anche il moderno capitalismo industriale, la società dei consumi e si diffonde l’economia di mercato. Un’altra visione è quella proposta da Eric Hobsbawn, che fu tra i primi a porre l’accento sul legame che esisteva tra l’impero inglese e l’industrializzazione. Hobsbwan definisce la rivoluzione industriale come la più profonda trasformazione della vita umana in tutta la storia universale. Per lui il termine rivoluzione si addice in quanto si avvia un cambiamento radicale della vita con l’industrializzazione. Per riassumere, nella storia economica vi sono quindi due visioni: chi considera la rivoluzione come tutto tranne che un evento rivoluzionario e chi al contrario la considera una trasformazione senza eguali nella società e nell’economia. Ciò che è interessante è cercare di capire perché in certi contesti gli attori economici percepiscano delle invenzioni tecnologiche come la base produttiva per certi settori. 27 Alessandro Nuvolari ha sviluppato una serie di studi per misurare l’impatto economico delle macro-innovazione proposte da Mokyr, che possiamo chiamare anche general purpouse technologies ossia le tecnologie generaliste. Tale impatto può essere misurato in base al numero di brevetti che seguono e sono collegati a ogni general purpouse technology (ad esempio il numero di brevetti collegati alla macchina a vapore). Tale discorso sull’innovazione è sicuramente di matrice shumpeteriana. Non dobbiamo però dimenticare che Schumpeter aveva una visione larga ed estesa sul concetto di innovazione rispetto alla semplice innovazione tecnologica. Schumpeter distingueva infatti tra 5 tipi di innovazioni:  Innovazione prodotto , quando si inventa un prodotto nuovo  Innovazione processo , quando non si inventa un prodotto nuovo ma si scopre un nuovo procedimento produttivo per fare lo stesso prodotto. Ad esempio, l’alluminio si produceva fino alla fine dell’800 con un processo di riduzione chimica costosissimo. Quando si scoprì l’elettrometallurgia fu applicata all’alluminio che divenne metallo economico, cambiando la natura di questa industria.  Innovazione approvvigionamento è una innovazione legata a cambiare la materia prima. Questo spesso implica anche un cambiamento di processo produttivo, ma non sempre. Ad esempio, all’inizio la plastica la si faceva dal carbone, poi la plastica è stata prodotta dal petrolio.  Innovazione organizzativa è l’innovazione che non si lega al prodotto ma piuttosto all’organizzazione della produzione. Ad esempio, l’organizzazione industriale di Ford, ossia la catena di montaggio.  Innovazione commerciale , ossia trovare nuovi usi a prodotti vecchi. Ad esempio, la Coca Cola che inizialmente era un medicinale per poi essere trasformata in bibita. Per Schumpeter quindi il problema dell’innovazione è qualcosa che va oltre la semplice tecnologia e ha a che fare piuttosto con lo spirito di imprenditorialità. Arrivati a questo punto il dibattito che si sviluppa in sede storiografica è sul perché l’Inghilterra abbia sperimentato questa rivoluzione. Una proposta è quella che ci arriva da B. Allen, il quale sostiene che vi siano dei fattori economici che ci aiutano a capire come mai alcuni paesi adottino in maniera più efficace di altri la meccanizzazione produttiva, ossia che riescono ad immaginare più facilmente l’applicazione di macchinari alla produzione industriale avendo più successo nel processo di industrializzazione. Allen dice che non tutti i paesi percepiscono la meccanizzazione come incentivo. Il caso inglese è singolare in quanto vi era un sostrato culturale favorevole all’industrializzazione ma anche perché vi era l’energia a basso costo (il carbone costava pochissimo e ve ne era in abbondanza) e soprattutto i salari erano più alti rispetto a quelli di altri paesi europei. Proprio per questo la comunità scientifica si è adoperata per cercare di sostituire la manodopera costosa con le macchine, incentivo che non ci sarebbe stato in paese a basso costo di manodopera in quanto i macchinari sarebbero costati di più rispetto alla manodopera stessa. Quindi per la spiegazione di Allen sul perché l’Inghilterra dobbiamo considerare il fattore energetico da un lato, e dall’altro l’alto costo della manodopera. Le idee di Allen non sono completamente nuovo ma si rifanno alle idee di un economista, Habbakkuk, che aveva studiato il processo di meccanizzazione dell’industria inglese e americana, sostenendo che quest’ultima fosse ancora più meccanizzata di quella inglese in quanto negli USA la manodopera costava ancora di più rispetto a quella inglese (e per questo vi fu una meccanizzazione ancora più intensa). To sum up: è importante la cultura ma sono importanti anche i fattori energetici e produttivi. Questo dibattito sull’Inghilterra è stato successivamente spostato su un’ottica regionale, ossia su macro-zone che possono estendersi anche oltre i confini nazionali. Pollard, nel suo studio La conquista pacifica, ci dice due cose molto interessanti: 1. La storia conta, e quando/dove avviene il processo di industrializzazione è particolarmente importante perché a seconda dei paesi dove avvengono i processi di industrializzazione si hanno dei risultati completamenti diversi. Ad esempio, aver utilizzato per primi la forza vapore per l’Inghilterra ha significato lo svilupparsi di competenze tecnologiche specifiche che hanno fatto si che le innovazioni si diffondessero in tutti i settori. Così la tecnologia basata sul vapore diventa la base di diverse industrie con tante applicazioni. Dalla forza vapore si passa alla costruzione delle caldaie che hanno sostenuto l’industria meccanica prima e ferroviaria poi, con le costruzioni di migliori infrastrutture. È una innovazione a cascata che ha ricadute su tutti gli altri settori. Nei paesi late comers 30 questo utilizzo della stessa tecnologia non ha significato necessariamente una influenza a cascata anche sugli altri settori. Questo accade perché quando si studia l’applicazione delle tecnologie si deve tenere in considerazione il differenziale della contemporaneità. L’utilizzo della stessa tecnologia in momenti diversi dello sviluppo tecnologico sortisce degli effetti diversi. L’esempio che Pollard porta è quello delle ferrovie, che sono state un volano estremamente importante per l’Inghilterra e che hanno portato a influenze a cascata anche per gli altri settori. Le ferrovie non hanno sortito lo stesso effetto per la Russia che nonostante abbia applicato la stessa tecnologia non è riuscita a far fiorire un processo di industrializzazione basato sulla ferrovia. Quindi le tecnologie non riescono a produrre in tutti i paesi lo stesso risultato, perché appunto vi è un differenziale tra questi. 2. Il processo di industrializzazione lo si può banalizzare come un processo che nasce in Inghilterra e poi si diffonde nel resto del mondo, ma in realtà nelle regioni che avevano delle peculiarità simili a quelle inglesi si ha avuto lo stesso processo di industrializzazione. Ad esempio, se si osserva l’industrializzazione contemporanea a quella inglese di Francia, Belgio e di una parte della Germania si può notare a livello regionale dei pattern simili a quelli inglesi. Proprio per questo il processo di industrializzazione non è corretto da immaginare come solo prerogativa inglese ma piuttosto deve essere concepito come una storia transnazionale che trova delle applicazioni anche altrove, soprattutto in macroaree provviste di carbone e manodopera ad alto costo come quelle citate sopra. Questi concetti furono quelli che portarono Pollard a parlare di conquista pacifica. Il processo di industrializzazione ha spesso utilizzato delle tecnologie e delle basi energetiche diverse da un contesto all’altro. Se da un alto troviamo i paesi carboniferi, dall’altro zone non carbonifere che ha seguito dinamiche differenti che hanno portato ad incentivi tecnologici completamente diversi. Ad esempio, dove non c’era il carbone si è utilizzato l’energia idraulica e quindi l’assenza del carbone non ha determinato l’assenza di industria. Allo stesso modo la sovrabbondanza del carbone in Inghilterra ha fatto sì che qui non si sviluppassero altre forme energetiche, come appunto l’elettricità e l’idroelettricità. Infatti, l’Inghilterra era disincentivata a trovare fonti energetiche alternative al carbone, al contrario di zone come Francia, Italia settentrionale e Canada. Quindi per Pollard a contesti diversi corrispondono tecnologie ed energie diverse e gli incentivi che si possono trovare in un paese non è detto che funzionino in un altro. Questo svolge un ruolo performativo molto importante nei paesi che si industrializzano dopo, quando l’industria non utilizza più solo il carbone. Pollard ci aiuta quindi a capire processi transnazionali e regionali ma anche processi che non seguono prettamente il modello all’inglese. Approfondimento David Edgerton, The shock of the old. Questo libro ci aiuta a concepire ed interpretare la compresenza pollardiana di diversi paradigmi tecnologici. Quindi l’industrializzazione non è legata solo al modello inglese ma è invece più complessa. Edgerton sostiene che l’innovazione esista ma che gli storici si interessino soprattutto al cambiamento di paradigma, ossia la nuovo. Tuttavia, si deve tenere in considerazione anche il fatto che le vecchie tecnologie non scompaiano così facilmente, ma anzi persistono e possono avere anche delle fortune postume molto importanti. Questo avviene perché le transizioni energetiche sono rese più complesse da incentivi economici, politici o geopolitici. È facile utilizzare una tecnologia quando questa è resa disponibile in maniera economica, ma la sua economicità perdura nel tempo come stiamo vedendo al giorno d’oggi con il gas. Due esempi chiari sono: la benzina con aumenti enormi dopo gli shock petroliferi che hanno trasformato la benzina da prodotto economico a prodotto costoso, anche senza effetti che portassero alla creazione di un sostituto come carburante. Altro esempio è il carbone, ancora oggi in auge nonostante lo si pensi come prerogativa della prima rivoluzione industriale. Ogni anno si registra il record di aumento della produzione di carbone! Edgerton spiega questi approcci parlando di un differenziale nel grado di sviluppo: paesi all’avanguardia possono utilizzare tecnologie nuove grazie alle loro competenze scientifiche e tecniche, paesi più arretrati invece utilizzano tecnologie più antiquate è più facile gestire una centrale a carbone piuttosto di una centrale nucleare così come è più facile aggiustare una macchina a carburante che l’ultimo modello di Tesla. Quindi ancora oggi vi sono resistenze di vecchie tecnologie. Per capire le transizioni in un paradigma tecnologico non si devono considerare solamente i fattori sociali e culturali ma anche fattori esterni che svolgono un ruolo di spin off tecnologico determinante. Un esempio è la guerra, in quanto le guerre hanno fatto sì che vi fosse un avanzamento tecnologico innegabile (soprattutto dopo la WW1). 31 Capiamo bene ora quindi come il problema dell’innovazione tecnologica e dello sviluppo industriale in un paese sia un problema molto complesso e che per essere concepito debba fare appello a diversi fattori come imprenditorialità, cultura, ricerca scientifica, fattori economici e storici. Ciò ci induce a trovare una linea mediana tra i diversi approcci per capire meglio come l’innovazione plasmi lo sviluppo economico. Da un punto di vista teorico gli economisti dell’innovazione che si sono occupati di tale argomento hanno proposto diversi modelli per interpretare la tecnologia e il suo legame specifico con lo sviluppo industriale. Il primo modello è quello esogeno o esterno proposto da Solow. Tale modello interpreta la tecnologia come uno stock di conoscenze che è indipendente dal lavoro e dal capitale, ossia la tecnologia si può trasferire in maniera indipendente rispetto al capitale umano e alle azioni delle imprese. Questa tecnologia non è immobile ma si arricchisce grazie al processo di innovazione tecnologica. Questo modello è esogeno perché è indipendente dal lavoro e dal capitale, e concepisce la tecnologia come motore delle opportunità e della crescita economica. Una volta creata una tecnologia, questa e sufficiente per creare delle opportunità di investimento. Questo modello funziona nei paesi in cui vi è convergenza economica e vi siano caratteristiche simili. La macchina a vapore, ad esempio, non conta che sia stata inventata dagli inglesi ma conta che si possa trasferire a paesi con caratteristiche simili a quelle inglesi dove si è incentivati ad utilizzare queste nuove tecnologie. Al contrario tale modello non funziona con paesi arretrati o con caratteristiche differenti rispetto a quelle inglesi. Il secondo modello è quello endogeno proposto da Romer. La tecnologia non è semplicemente uno stock applicabile nei diversi paesi. L’innovazione e il cambiamento tecnologico sono legati alle attività degli attori economici presenti nei diversi contesti. Questo fa sì che a parità di tecnologia vi siano paesi che la applicano meglio e altri peggio. Un chiaro esempio oggi è quello delle tecnologie informatiche utilizzati in tutto il mondo, anche se le maggiori competenze informatiche si trovano nelle zone asiatiche. Secondo Romer il processo di innovazione endogeno in ogni singolo paese si innesta su: il proprio capitale umana (ossia le conoscenze scientifiche), su condizioni macro- economiche complessive (integrazione economica che permette di esportare o importare tecnologie estere) e su condizioni istituzionali e sociali (il frutto delle innovazioni tecnologiche in un paese non è il risultato di attori privati ma anche di politiche pubbliche). Solow e Romer a seconda del paese e della tecnologia possono essere modelli efficaci. Il modello che li ha superati e li ha integrati è quello basato sul National System of Innovation (NSI). Tale modello afferma che la tecnologia sia una stock internazionale, in quanto l’innovazione tecnologica evade i confini nazionali e difficilmente la si tiene imbrigliata nei confini nazionali. La tecnologia non è importante inventarla ma soprattutto applicarla, e questa applicazione dipende dal NSI ossia dalla possibilità di ogni singolo paese di percepire le opportunità legate all’innovazione e quindi di essere in grado di utilizzarla e adattarla al proprio contesto. Così facendo si mettono assieme gli attori privati (che applicano la tecnologia) e quelli pubblici (che creano il sostrato che fa sì che la tecnologia venga concepita dal capitale umano diffuso all’interno di un paese). L’applicazione di questi concetti trova un esempio importante nello studio di Murmann, in cui si vede chiaramente come diversi paesi abbiano applicato la stessa identica tecnologia, a partire dal concetto di NSI e di coevoluzione (ossia NSI + tecnologia). Murmann ci presenta l’esempio dei coloranti artificiali che sono la base dell’industria chimica e farmaceutica moderna. I coloranti sono stati inventati nell’800 in Inghilterra da Perkin ma, nonostante ciò, l’Inghilterra non è diventata la patria della chimica moderna. Tale ruolo guida nell’industria farmaceutica e chimica è stato ricoperto dalla Germania invece con industrie come la Bayer (hanno inventato l’aspirina). Come spiegare che un’invenzione inglese abbia generato uno sviluppo economico in Germania, ossia un paese non molto industrializzato o un late comer)? La risposta di Murmann è che tale avvenimento è il risultato di un migliore sviluppo del proprio NSI che deriva a sua volta da una co-evoluzione di strategie, dinamiche e fattori storici tra imprese, tecnologie ed istituzioni nazionali. Quindi al tempo stesso in cui si sviluppavano le imprese chimiche, la Germania aveva un sistema di innovazione nazionale che era alimentato da grandi politiche di innovazione tecnologica statale. La Germania, infatti, nel corso dell’800 aveva applicato una grande riforma universitaria, in cui si crea una università pratica e sperimentale basata 32 Non si può analizzare l’evoluzione dei sistemi finanziari senza tenere conto del legame specifico che esiste con il potere politico, in quanto è questo che nel corso della storia si è fatto garante delle regole del gioco proposte ed utilizzate per consentire il funzionamento dei mercati finanziari. Analizziamo quindi in dettaglio i singoli punti. Dalla società di capitali alla società per azioni (evoluzione storica) La S.p.A. è molto più antica rispetto a quello che pensiamo. Infatti, delle forme di associazioni di capitali esistono da diversi secoli, sin dall’antichità. Larry Allen invece identifica le prime forme di società di capitali, legate a ricchezze e risorse non di una singola persona ma di più persone e famiglie, a partire dal XV secolo. Le prime società di capitali avevano alcune caratteristiche principali: le prime società di capitali, a differenza delle moderne S.p.A., erano delle società che sorgevano con delle finalità commerciali limitate. Ad esempio, venivano create delle società per ogni singola spedizione o per ogni singolo atto commerciale. Tale aspetto è importante quando parliamo del commercio transoceanico del XV e XVI secolo, dove le spedizioni erano estremamente costose e rischiose. Infatti, creando una singola società per ogni nuovo carico si può disgiungere il rischio legato al singolo carico con la fortuna complessiva di una persona o da una famiglia. In altre parole, se una ricca famiglia spedisce dieci carichi e uno affonda si perde solo il carico affondato e non tutta la fortuna. Altra caratteristica delle società per capitali è che queste vengono create con responsabilità limitate. Le persone investono dei capitali in queste società per un singolo carico e seva male perdono solo la somma investita, mentre se la spedizione va a buon fine guadagnano solo in proporzione alla somma investita. Queste forme sono importanti per mettere insieme denaro per imprese molto costose ma anche per diluire il rischio legato a queste. Le prime società di capitali servono quindi a toccare solamente i capitali investiti e non la ricchezza complessiva di un investitore o di una famiglia che investe. Questo è un aspetto importante perché consente di creare degli incentivi nei confronti dei facoltosi a investire più facilmente il denaro in operazioni commerciali. A differenza delle S.p.A., queste società di capitali non hanno una durata illimitata ma sono pensate invece per una singola attività commerciale (finanzio la tratta che porta le spezie da Bordugo a Mussolini una volta sola). Oggi si finanzia non la singola tratta Bordugo-Mussolini ma si investe nel complesso. Dalla prima forma della società di capitali ne deriva la seconda, quella che Adam Smith definisce come società regolamentata chiamata anche Charted Company. Le società regolamentate si sviluppano a partire dal XVII e XVIII secolo in avanti. Queste società hanno sempre delle responsabilità limitate, dove chi investe è responsabile solo del denaro investito. Inoltre, queste sono società stabili, in quanto non sono più create piccole società per semplici attività commerciali ma ci si stabilizza per ripetere le operazioni nel tempo. Queste società si formano per sopravvivere nel tempo e quindi necessitano di essere garantite dal potere politico. Quindi tali società per raccogliere capitali ed operare hanno bisogno di una autorizzazione governativa e politica e non sono più create in maniera estemporanea. L’autorizzazione politica indica anche la zona geografica in cui le società possono operare; quindi, vi è un legame stretto con il potere politico. Nel caso inglese di espansione imperiale vengono create, ad esempio, una serie di charted companies che detengono da un lato l’autorizzazione politica per operare e dall’altro la concessione dei monopoli in specifiche zone imperiali (la compagnia delle Indie orientali o la compagnia dei mari del Sud). Queste società di monopoli hanno quindi uno stretto legame politico, e per questo si differenziano con le moderne S.p.A. Tuttavia, nonostante il forte legame politico, le società regolamentate ricordano le moderne S.p.A. per alcuni aspetti centrali: la durata illimitata, i profitti garantiti dal monopolio statale ma soprattutto la possibilità di trasferire le quote da una persona all’altra. L’investimento quindi si slega dalla persona stessa e chi detiene un’azione la può tramandare ai figli, la può vendere o può comprarne altre. Questo avviene in principio in maniera informale per poi essere sempre più formalizzato. Tali scambi di azioni passano quindi da essere effettuai nei caffè per arrivare alla creazione della Borsa di Londra alla fine del XVII secolo dove si ufficializzava la compravendita delle azioni. Si crea così un mercato finanziario in cui le persone hanno ora un luogo fisico in cui scambiano o vendono dei titoli finanziari. La differenza tra uno scambio informale e uno formale sta nella trasparenza della transazione: se inizialmente si poteva anche non conoscere il valore di una transazione questo non poteva accadere nella borsa, dove tutto era alla luce del sole (sta 35 proprio qui la base della creazione della moderna borsa valori). Si passa quindi da un sistema di scambio bilaterale tra due privati a un sistema multilaterale chiaro a tutti e che si basa sul mercato. Si arriva quindi, in altre parole, alla creazione del sistema finanziario moderno basato sulla borsa. In centri finanziari importanti, come Londra, la borsa assume caratteristiche importanti: da quando si consente lo scambio di azioni, questo attrae un numero crescente di investitori attratti dal monopolio ma anche dalla creazione dello stock standardizzato. Di fatto quando gli strumenti finanziari diventato sempre più standardizzati è più facile venderli. Tale attrazione azionistica ha creato nel 1720 la prima bolla speculativa nel mercato finanziario, causata dalla South Sea Company. Questa bolla nasce perché si era creata una ulteriore charted company per il commercio nei mari del sud in accordo anche con la corona spagnola. Quest’ultima però non paga avendo ripercussioni sui profitti che fanno calare il prezzo delle azioni, creando appunto una bolla finanziaria. Questa bolla è importante per le conseguenze che ha avuto dal punto di vista normativo sul mercato finanziario di Londra. Infatti, da quando si era formata la borsa di Londra c’era stata una progressiva tendenza ad affiancare alle charted company anche delle imprese informali che non richiedevano il permesso governativo in quanto non toccavano l’impero. Quando si crea il panico per la bolla speculativa e molte persone perdono capitali investiti, la corona inglese corre ai ripari e vieta la formazione delle imprese indipendenti e autorganizzate in quanto le considera uno strumento rischioso, non controllato e che crea insicurezza nel mercato dei capitali londinesi, disincentivando quindi la propensione all’investimento. Questo fu un punto importante per l’Inghilterra, in quanto qui sono nate le antenate delle S.p.A. moderne ma si è anche vietato fino al 1856 di creare società non regolamentate. In Inghilterra quindi fino al 1856 si possono creare delle imprese solo se si passa sotto all’iter governativo. Le antenate delle S.p.A. quindi nascono qui ma sono S.p.A. sui generis limitate a specifici ambiti fortemente influenzati dal monopolio governativo. La moderna S.p.A., che non ha bisogno di autorizzazione governativa e che non è legata ad alcun monopolio governativo, nasce invece in Francia nel 1807. Con il Code du Commerce si definiscono le prime S.p.A. libere svincolate dall’autorizzazione e dal monopolio governativo. Questa fu un’altra grande evoluzione del periodo napoleonico. Il Code du Commerce è molto importante in quanto anche la Francia aveva adottato la funzionalità delle charted company. Tale codice però sancisce l’abolizione dell’obbligo per le imprese di chiedere un atto speciale al governo. Le imprese, quindi, non hanno più bisogno di chiedere il permesso al potere politico per la loro creazione. Ciò fu importante perché con il modello inglese legato alla sfera politica, il consenso per la creazione di una società non veniva data a tutti ma ci si basava su prerogative specifiche quali: l’autorevolezza del richiedente, la sua reputazione, i capitali personali e le reti di relazione. Tale sistema si poggiava quindi fortemente sulla reputazione dei mercanti e dei finanzieri. Nel sistema francese invece le autorizzazioni governative si traducevano in fenomeno di corruzione, in cui il mercante aveva le autorizzazioni ma pagando le tangenti per la concessione. Questo aveva effetti negativi sul mercato finanziario, in quanto non era una leva finanziaria per tutti ma poteva essere accessibile a pochi. Per questo nel caso francese si decide di abolire l’atto governativo per creare maggiore trasparenza e democrazia nel mercato finanziario (tutti possono parteciparvi). Ciononostante, non si deve pensare che abolendo l’atto governativo lo stato si ritiri definitivamente dalla sorveglianza finanziaria. Anzi il Codice del Commercio viene incrementato da una burocrazia necessaria per la creazione di imprese per azioni ma anche con una sorveglianza rigida da parte del governo per queste S.p.A. con controlli periodici dei bilanci ad esempio. Questo fa si che nonostante la Francia abbia liberalizzato la creazione delle imprese per azioni, queste non si siano sviluppate in maniera eccessiva in quanto rimane un ligio controllo statale per tutto il periodo napoleonico. Le S.p.A. subiscono una accelerazione dopo la restaurazione (1820-1830) quando si ha una progressiva trasformazione da un controllo governativo sulle S.p.A. a una forma di auto-controllo, esercitato dalle camere di commercio. Con l’autoregolamentazione si danno quindi delle linee di condotta da seguire fornite dalle camere stesse per la creazione e la condotta delle S.p.A. In Francia le S.p.A, liberate dal controllo diretto dello stato, diventano uno strumento fondamentale per l’industrializzazione francese. Queste vengono utilizzate in maniera crescente da imprese per la costruzione di canali ed infrastrutture, nella costruzione di ferrovie (dove le S.p.A. erano necessarie per via del tempo e del costo di costruzione) e a nuove industrie che utilizzano la forma della S.p.A. come metodo di finanziamento delle loro operazioni (un’impresa che subisce questa sorte è l’impresa vetraia Saint Gobain, creata nel 1655 e trasformata in S.p.A. nel 1820). 36 Cosa succede begli altri paesi che fanno leva sul mercato finanziario per lo sviluppo economico Uno dei primi paesi in cui si adotta il modello francese ma senza il controllo governativo e le camere di commercio sono gli USA. Qui prima della guerra di Indipendenza vigevano le stesse regole inglesi, dove le imprese che commerciavano erano sotto licenza governativa. Dopo l’indipendenza si sviluppano delle società di capitali non regolamentate che a partire dal 1837 vengono riconosciute come lecite e che possono essere create mediante dei registri specifici e standardizzati. L’impresa si svincola dai permessi e dalla reputazione della persona e la sua creazione viene resa come semplice atto amministrativo che deve essere registrato. Tale modello viene applicato anche in Germania nel 1850. Solo successivamente si consente anche in Inghilterra la creazione delle moderne S.p.A. svincolate dal permesso governativo, mediante un atto denominato Joint-Stock Companies Act del 1856. Nel 1865 anche la Francia abbandona definitivamente la sorveglianza statale rimasta dal codice napoleonico e si crea quindi la possibilità di creare S.p.A. in maniera libera e seguendo solo atti di natura legislativa. Per riassumere, vi sono due tendenze storiche importanti nella creazione della società per azioni: la tendenza a passare da un permesso e monopolio governativo per poi creare delle procedure standard ed oggettive per la creazione delle S.p.A. Altra tendenza è invece quella che vede la standardizzazione delle procedure e dalla forma delle imprese come base per creare i moderni mercati finanziari, dove le borse sono sempre più delle organizzazioni in cui negoziare, scambiare e vendere i titoli è facile e trasparente. Tali mercati saranno fondamentali anche per la costruzione e il finanziamento delle imprese stesse. Ieri abbiamo visto l’evoluzione dei mercati azionari come una leva importante per mobilizzare delle risorse, che poi sono utilizzate da imprese per garantire fenomeni di sviluppo. Ci siamo fermati sul caso inglese e sulle costringenti regole finanziarie adottate che fanno sviluppare meno il paese rispetto ad altri. La S.p.A. si sviluppa maggiormente infatti in Francia, Germania e negli USA. Cerchiamo ora di capire come si articolano nel corso della storia le S.p.A. e analizziamo il sistema creditizio specifico di ogni paese, in quanto un conto è creare le S.p.A. come strumento che può attirare investitori mentre un altro è capire come e se gli investitori colgono l’opportunità di investire nel mercato finanziario. Nella geografia economica internazionale ci sono due grandi tipologie di finanziamento/sistema creditizio delle imprese e di organizzazione dei mercati dei capitali che si sviluppano a partire dal 1800: 1. Il sistema market-oriented, ossia un sistema in cui il legame che esiste tra le imprese, le S.p.A. e gli investitori è mediato dal mercato. Le imprese vendono le proprie azioni in mercati specifici (le borse valori) dove si possono trovare direttamente gli investitori. Le banche e gli operatori di borsa sono quindi intermediari finanziari e aiutano l’incontro tra imprese e investitori. Il modello per antonomasia del sistema market-oriented è quello degli USA, in quanto sin dalla fine dell’800 si sviluppa la borsa di Wall Street che sarà fondamentale per il finanziamento industriale. Su scala minore anche la City di Londra rappresenta un modello market-oriented, non tanto perché questa finanzi l’industria ma piuttosto perché nella City vi sono molte opportunità di investimento anche internazionale. 2. Il sistema bank-oriented, dove vi è una configurazione diversa dell’intermediazione finanziaria. Le borse valori sono insufficienti a finanziare la crescita delle imprese e delle industrie. A finanziare le imprese sono quindi delle grandi banche non il mercato o gli investitori. In questi sistemi ritroviamo un modello anticipato con Gerschenkron ossia la banca mista. La banca mista è una istituzione finanziaria specifica che raccoglie i capitali e li utilizza per fare investimento industriale. Questi due sistemi non sono a compartimento stagno e nel corso della storia possiamo trovare delle peculiarità ibride tra i due, come ad esempio le borse valori nei sistemi bank-oriented. Tali modelli hanno anche però delle evoluzioni storiche successive, legate alla regolamentazione dei mercati, molto importanti e a tratti anche simili. I cambiamenti nei sistemi market-oriented Ad esempio, nel corso del XX secolo il mercato americano, dinamico e grande, viene posto sotto una forte regolamentazione governativa. A seguito della crisi del 1929 (una delle più grandi crisi borsistiche) il regolatore americano si rende conto che la leva finanziaria di questo mercato comporta dei grandi problemi di speculazione e di 37 merce che si vuole, vanno quindi specificate le merci per grading (ossia voglio solo grano duro americano E NON grano duro argentino a tot soldi alla tonnellata ad esempio). Questi ordini sono bilaterali tra un utilizzatore e un fornitore. 3) I contratti futures. Nei contratti futures non si comprano merci fisiche (che può essere acquistata nei due mercati precedenti). Ci si rivolge ai contratti futures quando si ha la necessità di ridurre il rischio legato alla fluttuazione dei prezzi sui mercati ordinari. Ad esempio, ho un panificio e compro 800 tonnellate di grano all’anno. Se il prezzo del grano sale abbiamo dei problemi. Quindi possiamo andare alla borsa merci e comprare dei contratti futures, scommettendo che il prezzo del grano sarà basso nei prossimi mesi. Se il prezzo non diminuisce posso vendere i contratti futures bassi e il margine allevia i danni che causa la fluttuazione del prezzo. Per i produttori accade esattamente l’opposto e si acquistano dei futures a prezzo alto. Questo tipo di mercato per funzionare ha bisogno di contratti standard in cui le quantità sono prestabilite e definite (un tot di kilogrammi di una certa merce). Tali contratti sono tutti uguali e per questo sono venduti su una borsa merci. La domanda che ci poniamo ora è: chi ci compra queste merci? Vi solitamente tre categorie di operatori su questi mercati: i produttori, i consumatori e infine gli speculatori, che investono in questi mercati considerandoli come dei semplici prodotti finanziari. Gli speculatori sommettono sulla fluttuazione dei prezzi per fare dei profitti (come avviene nel film Una poltrone per due). Per uno speculatore ciò che importa è che il prezzo vari e che riesca a ricavare un profitto su questa variazione. Non tutte le merci possono essere ottimali per i futures: infatti le merci devono essere conservabili (una banana marcisce mentre il grano si mantiene), sono merci standardizzate (grading), necessitano mercanti specializzati e infine devono essere prodotti con una forte domanda per ridurre il rischio delle fluttuazioni. Il ruolo dei mercati a termine è esattamente quello dei mercati azionari, cioè di fornire liquidità al sistema, di ridurre il rischio legato alla fluttuazione. I mercati a termine vengono inoltre utilizzati come dei price discovery system; quindi, i contratti forward e spot vengono fatti calcolando un prezzo che tiene conto del prezzo futures (il prezzo del gas, ad esempio, tiene conto del prezzo futures). I mercati futures sono possibili in quanto sono estremamente legati all’integrazione dei mercati. Infatti, prima i futures non si sviluppano in quanto: non si poteva trasportare facilmente le commodities, non era facile comunicare il prezzo di queste e mancavano le tecnologie di stoccaggio. I futures (o mercati a termine) sono figli della globalizzazione, dell’innovazione tecnologica e dell’economia che si sviluppa alla fine dell’800. Nonostante l’integrazione dei mercati esistono principalmente tre mercati che competono: Londra, New York/Chicago e Parigi. Questi mercati sono inseriti in piazze finanziarie che competono le une con le altre, quindi queste piazze finanziarie non forniscono solo sevizi alle industrie delle commodities ma generano profitti finanziari legati all’andamento dei mercati finanziari. Le diverse piazze competono in due dinamiche: la prima è quella delle facilitazioni finanziarie (dove per rendere credibile una di queste piazze non è importante solo che abbia dei buoni contratti o dei buoni commercianti ma c’è bisogno che ci sia una finanza solida alle spalle); la seconda è quella di regolamentazione (più un mercato è libero più attira speculazione, ma ciò è pericoloso quindi il governo deve intermediare). Questi strumenti futures hanno una grande importanza per le merci agricole al giorno d’oggi. Servono quindi a rendere possibile un commercio a lunga distanza che non sarebbe altrimenti possibile. La storia dei futures è interessante perché se da un lato si sviluppano gli stessi strumenti, nello stesso periodo con dinamiche simili nelle diverse piazze, per lungo tempo i mercati dei futures sono stati utilizzati per l’essenziale da pochi speculatori e sono stati a lungo dei mercati considerati fondamentali solo per gli attori implicati in questi mercati. A partire dagli anni ’70 del ‘900 si ha avuto una tendenza sempre più importante verso la finanziarizzazione dei mercati. 40 Come si vede nel caso del grano se compariamo il volume dei kili negoziati mediante i futures e la produzione annuale fisica si ha un rapporto equo inizialmente (i futures sono maggiori perché possono essere venduti più volte). A partire dagli anni 60 invece il rapporto tra grano e futures non è più 1 a 10 ma piuttosto 1 a 30 o 1 a 40. Questo significa che per un kilo di grano comprato fisicamente altri 30 o 40 sono comprati nei mercati a termine. Questo è l’effetto della finanziarizzazione, ossia le opportunità finanziarie legate a questo tipo di mercato che prendo il sopravvento rispetto alle necessità fisiche e oggettive per cui questi mercati erano stati creati. [The] pattern of accumulation in which profit making occurs increasingly through financial channels rather than through trade and commodity production (Krippner 2004: p. 14) Financialization means the increasing role of financial motives, financial markets, financial actors and financial institutions in the operation of the domestic and international economies. (Epstein 2005: p. 3) Queste sono due definizioni date sulla finanziarizzazione; in entrambi i casi si dice che sia la parte finanziaria che prende il sopravvento sulla parte fisica. Nelle commodities ciò si vede in maniera preponderante. Perché esplode la finanziarizzazione? È la crescente instabilità dei prezzi che fa crescere la finanziarizzazione, in quanto i futures sono collegati alla variazione dei prezzi. Questi mercati per la loro variazione dei prezzi attirano sempre più investitori o speculatori che fanno profitti su questa variazione appunto. 41 Questi sono due esempi di come si possa da un punto di vista legislativo arginare gli effetti nefasti della speculazione. Il primo è il modello americano: gli USA come hanno creato la SEC per i mercati borsistici, hanno creato anche dei sistemi di sorveglianza dei mercati futures delle commodities. Negli anni ’20 nel grano e poi negli anni’ 30 in tutte le commodities nazionali fino ad arrivare nel 1974 ad una legislazione onnicomprensiva di tutti i mercati a termine con la Commodities Futures Trading Commission. Un mercato che non è riuscito ad arginare la speculazione è quello di Parigi, dove all’inizio del processo di finanziarizzazione una grande speculazione sul mercato dello zucchero è arrivata a far fallire l’intero mercato di Parigi. Da questo fallimento poi ha adottato un sistema di regolamentazione simile a quello degli USA. Per concludere, la speculazione è fondamentale per dare liquidità a questi mercati. Se la speculazione è eccessiva però questi mercati diventano inaffidabili, ossia il contrario esatto di quello per cui sono stati creati. Nel processo di regolamentazione di questi mercati svolge un ruolo importante la necessità di attirare investitori però mantenendo una regolamentazione governativa su di essi. L’unica eccezione autoregolata rimane Londra, ma questa è una piazza finanziaria che si sviluppa sulla reputazione dei traders e non sugli eccessi del mercato. Impresa e imprenditore Tutte le questioni che affronteremo da questo momento alla fine del corso sono maggiormente attinenti a un approccio microeconomico o al limite meso-economico, dove macroeconomico è l’analisi delle tematiche di natura generale che hanno un approccio che cerca di capire i funzionamenti delle istituzioni complessive dell’economia e quali sono le dinamiche inerenti agli stati e alle ragioni. Passiamo ora ad un approccio focalizzato sul micro e meso (medio, tra i due livelli): ci occupiamo di imprese, di imprenditori, di gruppi di imprese, di tutti gli attori economici che contribuiscono a plasmare l’economia nella quale vivono. Queste prime lezioni cercano di definire da un punto di vista teorico e storico gli attori economici dell’ impresa e dell’imprenditore, due attori imprescindibili dell’economia nella quale noi oggi ci troviamo. L’imprenditorialità è considerata una caratteristica, un valore, un fattore economico di crescita importante; tuttavia, non si sa bene come definirla. È un termine di cui difficilmente si riesce a dare una definizione e a capire di cosa si tratta. Deriva dal concetto di imprenditore che deriva a sua volta dal concetto di impresa; tuttavia, sia il concetto di imprenditore che quello di impresa sono dei concetti e delle definizioni estremamente mutevoli nel corso della storia. Quello che noi oggi consideriamo un imprenditore ha delle caratteristiche che magari sono completamente diverse rispetto a quello che era considerato un imprenditore all’inizio del XIX secolo o del XVIII secolo. C’è un altro termine che lega il concetto di imprenditore a quello di impresa, ovvero quello di manager. Imprenditori e managers oggi sono spesso considerati due figure in parte contrapposte: l’imprenditore è colui che ha lo spirito imprenditoriale, mentre il manager è semplicemente colui che amministra. In realtà cercare di capire la relazione che esiste tra un imprenditore e un manager sottintende a cercare di capire qual è il ruolo della direzione nell’organizzazione di un’impresa. Cercare di capire qual è il legame che esiste tra un imprenditore e un manager è in realtà una problematica legata alla comprensione di cos’è un’impresa e come funziona un’impresa. Questo corso parte quindi dal concetto di imprenditore, cerca di spiegare come si è sviluppato durante la storia, quali sono le caratteristiche principali che da un punto di vista teorico sono state affidate all’imprenditore e sfocia nell’analisi e comprensione di cosa sia l’impresa e quale sia il ruolo dell’imprenditore all’interno di essa. La definizione del termine “imprenditore” Il concetto di imprenditore ha una storia che è legata all’evoluzione storica dell’economia, della cultura e della politica, quindi è un termine il cui significato è costruito lungo il tempo attraverso vari livelli. 1. Comprensione del ruolo dell’imprenditore all’interno della società nel suo complesso, quindi la giustificazione e legittimazione politica e sociale dell’esistenza di un ruolo di direzione nell’economia. Molti pensatori a partire dal XVIII secolo si sono interrogati sulla figura dell’imprenditore non tanto per capirne le funzioni economiche ma per giustificarne la ricchezza acquisita. Successivamente, si parla di ruolo sociale dell’imprenditore non tanto per giustificarne i profitti quanto per giustificarne una funzione sociale considerata come positiva. 2. Funzioni economiche specifiche: nel pensiero di diversi economisti che si sono occupati della definizione di imprenditore al di là delle finalità di giustificazione politica e sociale troviamo in realtà un dibattito su cosa fa l’imprenditore, quali sono le sue funzioni specifiche e cosa caratterizza un imprenditore.  La giustificazione e il ruolo politico sociale dell’imprenditore assieme ai suoi attributi economici variano nel corso delle epoche, della storia e dei diversi sistemi di capitalismo all’interno dei quali possiamo introdurre questa figura. 42 identificavano in una specie di roulette russa e gioco d’azzardo; l’imprenditore di Say è qualcuno che grazie alla sua capacità di giudicare e capire può a quel punto assumere dei rischi che sono calcolati. Per questo sostiene che da un lato l’imprenditore sì dev’essere coraggioso che deve prendere dei rischi ma questa capacità deve essere sempre giudicata e ponderata. Non è un mestiere per tutti, non ci si nasce, richiede qualità precise che quindi attribuisce una centralità all’uomo rispetto al mercato nella teoria economica. Say da un lato non attribuisce un’importanza all’imprenditore dal punto di vista dell’innovazione, non lo ritiene necessariamente qualcuno che innova ma piuttosto qualcuno che è in grado di organizzare in maniera ottimale il processo produttivo; dall’altro, le decisioni che prende sono estremamente importanti per la riuscita, per il profitto e per la strategia della propria impresa. Non è il mercato di per sé a guidare l’impresa in modo meccanico ma è l’imprenditore che, analizzando il mercato, prende delle decisioni conseguenti. Una delle teorie economiche per le quali Jean-Baptiste Say è più conosciuto è la legge degli sbocchi: non esistono sovraproduzione e le crisi cicliche in economia perché l’imprenditore analizzando il mercato può sempre scegliere di abbassare il prezzo fino a quando qualsiasi merce piò essere venduta. La regolazione del mercato non viene svolta in modo automatico ma è il risultato del giudizio dell’imprenditore, dell’attore economico, che decide a quanto vendere una determinata merce. Contemporaneo di Say, Saint-Simon inserisce nel dibattito francese il problema dell’innovazione, dell’imprenditore come innovatore. A differenza dei pensatori precedenti che già aveva insistito sul ruolo dell’imprenditore come innovatore, pensava che l’innovazione introdotta dall’industria non avesse un carattere solamente privato, un impatto solo per l’industria e per le imprese, ma ha un carattere pubblico, ha delle esternalità positive sulla società. Per questo motivo, il ruolo dell’imprenditore non è solo un ruolo privato da iscrivere nella strategia di un’impresa ma anche un ruolo pubblico e dei benefici complessivi nella società nel suo contesto. Di un parere simile a Jean-Baptiste Say e legato al problema dell’innovazione troviamo John Stuart-Mill che si iscrive nella matrice liberale. A differenza dei classici, Mill ciconosce all’imprenditore delle competenze specifiche, un ruolo chiave nell’economia. Da un punto di vista filologico introduce il termine “imprenditore” questo termine nel linguaggio inglese ripescandolo da Cantillon e quando deve descrivere questa figura non parla di undertaker o capitalist ma utilizza “imprenditore” per stabilire che le moderne imprese e organizzazioni hanno bisogno di una nuova figura che non designa solo il padrone/proprietario e detentore di capitali, ma è qualcuno che sa amministrare e impiegare anche i capitali altrui. Mill partendo dall’idea di imprenditore progressivamente ci sta descrivendo il manager salariato moderno: qualcuno che ormai non è più proprietario della propria impresa ma che per le sue capacità specifiche e tecniche, la sua capacità di innovare, gestire e amministrare e di creare prfitto è chiamato dai proprietari per far funzionare l’impresa moderna. Mill diceva che le ferrovie hanno bisogno di un imprenditore, sono talmente complesse da un punto di vista gestionale, manageriale e della proprietà (ci voglio molti capitali quindi la proprietà è diffusa) che hanno bisogno di una figura come quella dell’imprenditore. Mill descrive tutto ciò con un sentore negativo, la vede come una degenerazione dell’economia: l’economia è andata talmente avanti che ormai i proprietari non riescono più da soli a fare fronte ai bisogni dell’impresa moderna. Arriviamo pian piano al concetto moderno di organizzazione e di capacità organizzative da parte di un imprenditore. Nella storia del pensiero economico dopo i classici ci sono i neoclassici come Jevons, Walras e Menger che definiscono una nuova teoria economica complessiva basata su un’idea di valore economico delle cose completamente diverso rispetto ai classici: per Smith & co il valore delle cose è dato dal lavoro che è contenuto; i neoclassici sostengono che il valore dipende dall’incontro di domanda e offerta e non semplicemente dai costi di produzione + profitto. Questa nuova teoria del valore ha un impatto molto importante sulle capacità manageriali organizzative delle imprese, perché a partire da queste teorie l’economia e la gestione delle imprese viene progressivamente matematicizzata. Gli imprenditori, a partire dalle idee di questi tre economisti, hanno sempre di più a loro disposizione degli strumenti matematici per capire la curva dell’utilità valore delle cos e capire fin dove spingersi a produrre, a investire, a prezzare i propri prodotti. Con questi approcci si hanno degli strumenti sempre più utili e complessi per gestire le moderne imprese industriali dove ormai la direzione delle imprese, le decisioni prese riguardo a investimenti, produzioni e strategie commerciali non sono più frutto di una specie di amatorismo che può fare anche semplicemente un possidente di capitali che è diventato un industriale, ma ormai sono competenze sempre più complesse e sofisticate e utili ad essere utilizzate per prendere questo tipo di decisioni. Queste necessità di nuove competenze e conoscenze (spesso conoscenze matematiche, fisiche e ingegneristiche) fanno sì che noi abbiamo una definizione più complessa e organica di organizzazione: essa non è più semplicemente far incontrare capitale e lavoro ma è essere in grado di portare avanti analiticamente, di sostenere e giustificare le scelte 45 strategiche che vengono compiute all’interno dell’impresa. In questo caso la funzione dell’imprenditore è corredata da tutte queste capacità analitiche. Un allievo di Jevons, Alfred Marshall (un neoclassico anche lui) sintetizza quest’idea dicendo che è proprio per questa complessità, per questi strumenti conoscitivi e analitici a disposizione, che l’organizzazione è una funzione specifica della produzione. Senza organizzazione un’impresa non può funzionare da sola. La necessità di perpetuare l’organizzazione, di farla diventare una routine operativa, è compito del manager: è una specie di quarto fattore accanto al lavoro, al capitale e alla terra (tre fattori economici principali). L’impresa, secondo Marshall che è il primo che trasferisce il suo interesse dalla persona dell’imprenditore all’impresa come campo d’indagine, è un organizzazione sociale specifica che chi la dirige deve essere in grado di amministrare e organizzare seguendo due direzioni principali: la prima è capirla e organizzarla a partire dalle sue economie interne (come funziona com’ès trutturata come assegnare i vari compiti; poi economie esterne (come si inserisce nel suo contesto, nel suo mercato e territorio). L’imprenditore molto spesso può sia fare appello alle risorse interne della propria impresa che alle risorse esterne, a quelle della comunità di imprese all’interno della quale sorge. A partire dal concetto di economia esterna Marshall ha inventato il concetto di distretti industriali (gli imprenditori dei distretti industriali hanno la capacità di fare appello a delle risorse che sono esterne alla propria impresa ma che fanno parte del contesto in cui si trova). L’imprenditore che ormai ha tutte queste capacità non più innate ma anzi acquisite è la negazione stessa dell’imprenditore capitalista proprietario. C’è una disgiunzione completa tra imprenditore e padrone/capitalista? Alla fine del XVIII secolo nella teoria economia studiosi come Pareto, Veblen e Taylor hanno disgiunto l’impresa dalla sua proprietà e la direzione dell’impresa dai capitalisti. Pareto nella sua teoria delle élite economiche dice che deve dirigere chi è capace di dirigere, non chi possiede semplicemente. Veblen dice che i proprietari non devono mettere bocca nelle decisioni dei manager salariati perché gli interessi dei proprietari spesso possono essere conflittuali addirittura agli interessi dell’impresa. Gli interessi proprietari non riuscirebbero mai a portare alle massime ed estreme conseguenze delle strategie di crescita perché i proprietari, per paura magari di perdere i propri soldi, non azzarderebbero certi investimenti. Gli ingegneri o manager, invece, sono in grado di calcolare, razionalizzare e mostrare ai proprietari come andare oltre a un determinato limite. Taylor si è interessato alla possibilità di insegnare e applicare una teoria scientifica del lavoro, quindi fornire ai managers e alle imprese tutta una serie di competenze necessarie a organizzare ottimamente un’impresa, facendola diventare una disciplina scientifica, quindi ricercabile e insegnabile. Questo approccio è molto simile a quello di Henri Fayol (non la chiama organizzazione scientifica del lavoro ma amministrazione) il quale sostiene che la caratteristica principale di chi organizza un’impresa e ha il compito di gestirla è la capacità amministrativa, dove per amministrazione si intende una serie di caratteristiche che sono la previsione, l’organizzazione ecc, tutte caratteristiche proprie del manager contemporaneo. Questo pensiero presenta una differenza importante rispetto a Taylor: mentre Taylor vedeva l’impresa come un macchinario, un insieme di ingranaggi dove il manager ha potere su tutto, aziona la macchina e decide lui come farla andare, secondo Fayol la capacità amministrativa era diffusa in tutta l’impresa, ce l’aveva anche l’operaio, il quadro intermedio ecc e la capacità amministrativa cresce salendo nella gerarchia dell’impresa. Queste teorie che cercano di separare il capitalista/proprietario dall’imprenditore come qualcuno che detiene il controllo sulla scatola nera del funzionamento di un’impresa sono diverse e sfaccettate, hanno delle specificità proprie. L’approccio che le accumuna tutte è legittimare il fatto che la direzione dell’impresa ormai è separata dalla proprietà. Questo è dato da diversi fattori, tra cui la crescita delle imprese, la creazione di società per azioni e di imprese in cui è sempre più diffusa la proprietà e la complessità crescente che il processo di industrializzazione comporta. Il problema dell’innovazione non riguarda più l’avere un’idea geniale e applicarla, è un problema complesso, fisico, matematico ingegneristico che deve essere affrontato da competenze specifiche. Lo stesso vale per il profitto, la crescita economica, la necessità di remunerare gli investimenti che non sono più fattori che possono essere lasciati ad una specie di amatorismo della classe imprenditoriale ma hanno bisogno di competenze sempre più importanti e crescenti. 46 Questo è uno dei primi diagrammi d’impresa che viene da un libro di Fayol in cui si immagina la crescita dell’impresa come una crescita di complessità organizzativa. È all’interno di questi concetti che vedono l’impresa come un organismo sempre più complesso e sofisticato che sostanzialmente si adopera questa distinzione tra da un lato i proprietari e dall’altro i managers e imprenditori. Tuttavia, i managers e gli imprenditori hanno all’interno delle loro funzioni due tipi di attività principali, ovvero da un lato quelle amministrativo-organizzative (far funzionare la routine, essere garanti del buon funzionamento dell’impresa) e dall’altro la capacità di innovare, esplorare, far crescere la propria impresa. gli imprenditori esterni non proprietari sono chiamati dalla proprietà non solo per amministrare l’esistente ma soprattutto per fr crescere l’impresa che diventa una delle prerogative del lavoro dei manager. È per questo che Fayol immaginava il processo di crescita di un’impresa, perché le imprese crescono, si sviluppano sotto l’impulso delle strategie dei manager, non sono statiche. Il rapporto che esiste tra i managers e la proprietà è stato studiato e teorizzato negli anni Trenta da due economisti americani, Berle e Means, che hanno analizzato il problema del controllo dell’impresa. studiando le società per azioni americane e notando che la proprietà di queste imprese era ormai estremamente diffusa tra moltissimi azionisti, si sono chiesti chi detenesse il controllo e la proprietà di questo tipo di organismo, chi dirigesse e come si potesse legittimare la direzione non proprietaria di questo tipo di impresa. Hanno analizzato che esistono in effetti diverse forme di controllo per quanto riguarda questo tipo di impresa: ci sono le forme di controllo di maggioranza (quando la maggioranza dei proprietari è d’accordo su una linea/persona/impostazione specifica per quanto riguarda la strategia dell’impresa); controllo di minoranza (una minoranza corposa di azionisti può arrivare a decidere chi nominare come amministratore/manager di un’impresa); esistono infine delle forme di impresa più autoritarie dove il controllo è quello degli amministratori che riescono addirittura ad imporre ai consigli d’amministrazione e alle platee degli azionisti le scelte dell’impresa. Berle e Means criticavano quest’ultima visione secondo cui gli amministratori agiscono in modo indipendente dalla proprietà, però è quello che studiano nel periodo tra le due guerre visto che negli anni Trenta la tendenza era proprio questo controllo da parte degli amministratori. Il processo di crescita dell’impresa è quindi determinato dalla crescita di strutture, organizzazioni, burocrazie, organizzazioni sociali sempre più complesse dove l’imprenditore delle origini, ovvero l’innovatore un po’ spregiudicato che si lanciava nel rischio, ha un ruolo sempre meno influente e che invece viene progressivamente sostituito da un manager preparato, nominato quando va bene, ma che invece ha una specie di prerogativa e diritto rispetto alla conduzione dell’impresa. Schumpeter criticava questa che lui considerava una deriva del capitalismo moderno. Diceva che l’età delle grandi corporations, dell’azionariato diffuso, dei managers salariati è l’aberrazione dello spirito imprenditoriale, è la fine del capitalismo stesso. Nel volume Socialismo, Capitalismo e Democrazia descriveva una specie di futuro distopico in cui oramai le grandi imprese erano pura amministrazione manageriale dove non si faceva più innovazione, non creavano più processo di sviluppo sostenibile e non c’era più spirito imprenditoriale. Tuttavia, Schumpeter è l’unico che negli anni Quaranta critica questa evoluzione della grande impresa e del ruolo manageriale dell’imprenditore. Peter Drucker dice infatti che Schumpeter si sbaglia perché l’impresa manageriale ha delle risorse, una forza, delle capacità specifiche che un singolo imprenditore eroico fuori del comune non può possedere. Le grandi imprese sono delle organizzazioni estremamente complesse e che, se guidate da buone strategie e strutturate in buone organizzazioni, possono consentire la crescita economica complessiva molto di più dei vecchi imprenditori eroici. Drucker nel dire questo analizza due casi separati: quello di Ford, imprenditore eroico dell’automobile, e quello di General Motors, una grande impresa manageriale in cui non c’è un proprietario ma un manager salariato estremamente brillante che consente alla General Motors di diventare un’impresa molto più performante e attiva della Ford stessa. Ormai siamo nel quadro di cercare di capire non solo qual è la funzione dell’imprenditore ma come, perché e quali sono le dinamiche di crescita dell’impresa. L’impresa non è più semplicemente un’emanazione dell’imprenditore ma è 47 passato. Se i Robber barons erano una visione detrattrice del ruolo dell’imprenditore nelle grandi imprese americane, nelle università si insegnava una visione apologetica, mitica ed eroica che serviva a dare agli imprenditori del domani degli esempi da seguire. Questi due approcci non sono scientifici perché non sono fondati su comparazione né hanno una profondità nell’utilizzo di fonti, metodologie e teorie fondate dal punto di vista economico. Chandler all’inizio degli anni Sessanta fa un’operazione diversa e facendo così fonda la moderna storia dell’impresa. Il suo scopo era capire ruolo di imprese e imprenditore nello sviluppo del sistema capitalistico americano. La sua research question era: perché gli Stai Uniti sono diventati il primo paese industriale al mondo? Perché l’economia americana è diventata così performante? Nel rispondere a questa domanda Chandler ha dato un’occhiata alla dimensione microeconomica cercando di stabilire qual è stato il ruolo delle imprese americane. Sono state le imprese americane a determinare la leadership economica internazionale degli USA? Se sì, perché? Come? Seguendo quali dinamiche? Chandler ha fatto uno studio comparativo (ha utilizzato documenti, archivi e rapporti), prima delle prime 100 imprese americane, poi delle prime 200, poi delle prime 500, cercando di capire le costanti che si ripetevano nella storia di queste imprese. Si è focalizzato sullo studio di due dinamiche specifiche di queste imprese: da un lato, quali sono le strategie (le visioni imprenditoriali e le scelte adottate) delle imprese; dall’altro, quali sono le strutture delle imprese. Il binomio chandleriano per eccellenza è strategia- struttura: la strategia ha a che fare con l’imprenditore, quindi con il ruolo di visione strategico-competitiva dell’imprenditore, mentre la struttura ha a che fare con l’organizzazione, quindi come le imprese sono state strutturate seguendo la strategia impostata dall’imprenditore. Chandler nel fare questo è in disaccordo con Schumpeter, il quale ad ogni ciclo economico vedeva corrisposti grandi imprenditori che hanno creato cluster tecnologici, che hanno fatto sì che si sviluppassero cicli ci crescita economica successivi. Secondo Schumpeter l’arrivo della grande impresa e dei manager e la fine dell’era eroica degli imprenditori significherà la fine dei cicli economici di crescita e dello sviluppo economico, la fine della storia gloriosa dell’industria. Chandler dice che non è così, perché non sono gli imprenditori da soli gli attori principali della storia dello sviluppo economico ma le imprese e l’unione di visioni imprenditoriali, di organizzazioni, di gerarchie e modalità di gestione degli affari sono protagonisti dello sviluppo economico nel suo complesso. È un approccio prettamente storico il suo. Chandler ha quindi costruito una generalizzazione: tutte le grandi imprese americane che hanno contribuito a creare l’ossatura del sistema produttivo ed economico americano sono state dei first movers del proprio settore, cioè sono caratterizzate da imprenditori che hanno colto un’opportunità tecnologica, innovativa e strategica (Chandler si riferisce agli imprenditori della seconda rivoluzione industriale, cioè tutta una serie settori innovativi che vanno dalla meccanica all’elettrochimica), e nel creare la propria impresa hanno compiuto un triplice e simultaneo investimento: 1) tutti i first movers sono imprenditori e imprese che hanno scommesso sull’economia di scala, cioè hanno prodotto utilizzando le economie di scala di una tecnologia, hanno calcolato qual era la produzione ottimale da produrre seguendo una determinata tecnologia così da abbassare il più possibile i costi unitari di produzione. Ogni tecnologia ha una taglia d’efficienza minima, se si produce sotto quella taglia il prodotto non avrà un costo competitivo. Produrre seguendo le economie di scala è quindi necessario per avere dei costi di produzione unitari bassi e competitivi. Gli imprenditori della seconda rivoluzione industriale hanno capito che, se non raggiungevano la taglia d’efficienza minima, non valeva la pena utilizzare le nuove tecnologie e che potevano risultare anche più costose di quelle vecchie. Questo non è sufficiente però, è necessario alimentare costantemente la propria produzione a monte e valle, cioè verso le materie prime e verso il mercato. La strategia di economie di scala dev’essere integrata da una strategia di  2) diversificazione produttiva e integrazione verticale. L’azienda si deve integrare verso tutte le componenti di base (carbone) che le servono per produrre il prodotto (acciaio) e si integrerà poi verso il mercato (produrrà barre, lastre, pentole ecc), e questo processo di trovare progressivamente nuovi sbocchi fa parte dell’integrazione verticale. Allo stesso tempo le imprese portano avanti, nel trovare nuovi prodotti legati alla tecnologia originaria dell’impresa, una strategia di diversificazione produttiva, cioè a partire da una tecnologia le imprese trovano una serie di nuovi ambiti di applicazione che possono essere utili per portare avanti il loro business. 3) creazione di moderne gerarchie manageriali: se un’impresa non è in grado di organizzare i flussi di lavoro, i flussi di spostamento delle merci, di organizzare l’attività produttiva con un apparato gestionale adeguato, non sarà in grado di funzionare correttamente. Parte integrante dello sforzo di quello che diventerà il big business, quindi la grande impresa americana, è dato da delle strutture di marketing moderne ed efficienti. Progressivamente l’impresa diventa orientata verso il mercato, 50 verso i clienti e si lancia alla conquista del mercato nazionale nel caso degli Stati Uniti cercando di soddisfarlo in maniera capillare con agenti, negozi e fornitori sparsi in tutto il paese. Queste tre grandi strategie accomunano quindi tutti i first movers e hanno fatto grande l’impresa americana da un lato, e l’intero sistema capitalistico americano dall’altro. Per dare un’idea di cosa sia l’investimento in management e che le imprese fanno nella creazione di gerarchie manageriali complesse e sofisticate che siano in grado di tenere assieme le tre strategie, Chandler ha costruito questo tipo di schema dal quale sono passate tutte le grandi imprese americane tra la fine del XIX secolo e la Prima Guerra mondiale. Sono imprese che hanno tutte dei comparti, delle unità, delle funzioni specifiche e che servono ad armonizzare, a controllare e supportare le strategie di economia di flusso, di economia di scala e diversificazione dell’impresa. Tralasciando la parte alta della dirigenza, cioè quello che è riservato al consiglio d’amministrazione, all’imprenditore e al manager, Chandler identifica le parti più interessanti dello schema nel management intermedio e in quello basso, perché mano a mano che l’impresa porta avanti delle strategie di integrazione verticale e di diversificazione diventerà un’impresa con diverse unità produttive sparse in diverse fasi della produzione rispetto a una tecnologia. Quindi avremo diversi impianti. Al tempo stesso, la produzione di questi impianti andrà armonizzata con i fornitori esterni, con il mercato, la rete commerciale e la struttura delle vendite e infine questi diversi poli dovranno continuare a dialogare. Secondo Chandler, l’innovazione manageriale di questo tipo di imprese è stata la divisione della struttura amministrativa dell’impresa attraverso delle utilities (per quello Chandler chiama questa impresa U-Form): l’impresa è gestita attraverso dei grandi poli (un polo produzione, un polo vendite, un polo finanza, un polo acquisti, un polo ricerca e sviluppo, un polo traffico) e tutte le imprese che si sono confrontate con la complessità della produzione in scala, con la diversificazione e l’integrazione, alla fine del XIX secolo hanno adottato questo tipo di struttura U-Form, ovvero l’impresa multifunzionale o multi unità. Dalle vendite si può notare che c’è una ripartizione geografica, nel senso che l’impresa costruisce diversi capannoni, depositi e attori commerciali vari che sono sparpagliati all’interno della regione. Nella U-Form l’impresa è quindi divisa in diverse utilità: la finanza, le vendite, la produzione, gli acquisti e ricerca e sviluppo; poi pian piano l’organizzazione scende verso il basso. La strategia viene dall’alto, si sposta progressivamente verso il basso fino ad avere esecuzione in tutti gli impianti, uffici e laboratori. Allo stesso tempo, il capo dell’esecutivo (il manager p l’imprenditore) risponde in qualche modo alla proprietà e in qualche maniera viene aiutato dallo staff di cui fanno parte i consiglieri o persone che si occupano di dinamiche specifiche. Questo staff è separato dalla gerarchia: ad esempio, l’esperto di ingegneria non è a capo del laboratorio di ricerca e sviluppo ma dialoga con il capo dell’esecutivo. Il punto è che fino ad ora la teoria dell’imprenditore ci aveva detto che questo doveva conoscere, sapere, applicare; in realtà, non è poi un superuomo che possiede conoscenze in qualsiasi ambito che sia inerente all’attività della propria impresa, ma è colui che prende decisioni dopo aver interpellato altre persone con delle competenze specifiche ed 51 essere stato consigliato. C’è quindi un dialogo tra lo staff e l’esecutivo, tant’è che l’esecutivo (l’imprenditore) organizza a seconda della strategia e delle dinamiche di crescita della propria impresa delle utilità diverse che fanno capo non ai suoi esperti e al suo staff ma direttamente a lui. Chandler dice che l’impresa non muore secca come una pianta e l’innovazione viene eliminata come pensava Schumpeter, ma anzi l’innovazione tecnologica subisce una strutturazione specifica attraverso la creazione di un ufficio e di diversi laboratori che sono preposti all’innovazione tecnologica. I first mover che sono stati in grado di creare un’impresa moderna gestita in questo modo alla fine del XIX secolo continuano a investire, a diversificare, ad integrare fino a creare delle forme ancora più complesse e sofisticate di gestione dell’impresa che sono le M-Form. Tra la fine del periodo delle due guerre e successivamente dopo la Seconda Guerra Mondiale le imprese americane che erano riuscite ad avere successo nel periodo precedente reinvestono i propri utili e profitti, gli imprenditori americani colgono nuove opportunità e nuove dinamiche di diversificazione produttiva e creano delle strutture ancora più complesse e sofisticate: le M-Form, dove per M si intende “multi-divisionale”. Nell’impresa M-Form il processo di diversificazione produttiva e di estensione delle economie di scala, il reinvestimento degli utili determinato dal successo nell’applicare il triplice investimento d’azione di first mover riesce a innescare dei processi di crescita ancora più importanti che necessitano di strutture organizzative ancora più complesse. Se nella vecchia impresa che era già multi-unità bastava, ad esempio, un solo laboratorio di ricerca e sviluppo; ora, un’impresa attraverso la diversificazione si occupa di talmente tanti prodotti diversi tra loro che anche la ricerca e sviluppo necessita di competenze specifiche. Fare ricerca e sviluppo nella plastica non è la stessa cosa di fare ricerca e sviluppo nei coloranti o negli esplosivi, perché anche se sono tutti prodotti chimici hanno delle peculiarità estremamente importanti. Lo stesso vale per l’organizzazione della produzione: siamo all’interno dello stesso ambito tecnologico, però ogni prodotto avrà delle peculiarità proprie. E lo stesso vale anche per le vendite. Secondo Chandler avvengono due cose nel processo di crescita dell’impresa: 1. l’organizzazione attraverso divisioni: quello che prima era gestito da un’impresa ora viene consegnato nelle mani di una divisione. L’organizzazione attraverso divisioni permette quindi di gestire complessità crescenti per l’impresa. 2. tutto quello che prima era stato maggiore (consiglieri) ora viene strutturato in una maniera molto più precisa nella parte alta. Le necessità finanziarie, tecnologiche, i rapporti col personale diventano sempre più complessi e vanno affidati a strutture sempre più complesse. Il primo schema si poteva applicare alla Ford prima della Prima Guerra Mondiale. La Ford faceva un solo modello di macchina, il modello T, e aveva delle economie di scala e di flusso enormi ed era tutto estremamente standardizzato. La ricerca per Ford poteva essere, per esempio, cercare di migliorare il modello T. Il secondo schema si può applicare alla General Motors perché al posto di esplosivi, pellicole ecc. si hanno poi diverse marche di macchine, pullman, camioncini, trattori. Era un’azienda molto più diversificata che produceva veicoli per tutti i gusti e per tute le necessità. Fare ricerca e sviluppo (/vendere) per migliorare una macchina utilitaria non è la 52 Competitività, cartelli e associazioni d’impresa Il problema storico dei cartelli e delle forme di organizzazione industriale economica non competitiva sono l’argomento di questa settimana. Cerchiamo di analizzarli facendo un’operazione di forte contestualizzazione e di forte relativizzazione di questo tema, in quanto al giorno d’oggi i cartelli sono praticamente il sinonimo di una brutta parola dal punto di vista giuridico, economico e giuridico (la prima cosa a cui pensiamo sono i cartelli della droga infatti). Noi studieremo questo argomento cercando di non rimanere invischiati in questa definizione estremamente contemporanea che li associa a fenomeni negativi. Secondariamente, noi oggi viviamo in un’istituzione (alla Douglas North) in cui pensiamo che la direzione principale, lo scopo principale, il virtuosismo principale di ogni agire economico sia la competizione e che questa abbia plasmato e continui a plasmare complessivamente la storia, l’economia e la società e che questa sia la forza principale da privilegiare e attivare da un punto di vista normativo, tant’è che oggi esistono leggi e misure antitrust ad ogni livello e in ogni pase. Quando analizziamo i cartelli da un punto di vista storico dobbiamo cercare da un lato di non attribuire al passato tutte le regole, le filosofie politiche e i preconcetti culturali dell’oggi, e dall’altro dobbiamo capire bene cos’erano i cartelli nel passato in quanto la definizione del cartello di oggi è molto diversa da quella avrebbe potuto dare un uomo d’affari degli anni Venti del Novecento o prima. Alfred Chandler che aveva cercato di spiegare le cause della grandezza e successo del capitalismo americano e lo aveva definito, ed era questa la chiave del successo che aveva evitato che il big business americano diventasse una forma opprimente e statica di capitalismo industriale, come un capitalismo manageriale ma soprattutto competitivo perché anche quando le grandi imprese raggiungevano il loro apice, alla loro più complessa, elaborata ed allargata di organizzazione industriale, continuavano ad avere uno stimolo competitivo le une contro le altre che evitava la formazione di cartelli, di monopoli e di organizzazioni industriali che sarebbero potute andare contro l’interesse dei consumatori. Analizzando la Germania, Chandler diceva che essa aveva fatto bene fino a un certo punto: aveva creato sì un capitalismo di tipo manageriale ma che non era riuscito a mantenersi competitivo perché l’eccessiva adozione di forme di cooperazione industriale tra imprese aveva fatto sì che il capitalismo manageriale tedesco non superasse mai per forza, per performance e per grandezza quello americano. Da un punto di vista regolamentativo, in effetti gli USA erano l’unico paese in cui alla fine del XIX secolo vigeva già una legge antitrust, ovvero lo Sherman Act (1890). È 55 stata una legge unica e rivoluzionaria perché negli USA faceva due cose: da un lato vietava i cartelli, cioè le imprese non potevano prendere accordi tra di loro, non potevano accordarsi sul prezzo di un merce, spartirsi il mercato e le quote e mettere i campo delle forme di riduzione della concorrenza nel loro mercato; dall’altro lato, prevedeva che, in casi di monopolio manifesto, le imprese potevano essere suddivise e smembrate in imprese di entità più piccola. Il caso più famoso di intervento legislativo da parte degli USA e in particolare della Federal Trade Commission è stata la divisione della Standard Oil nel 1911 (aveva una posizione monopolistica nel mercato del petrolio americano) in 7 diverse imprese. Questo sistema non solo riconosceva qualcosa di negativo nella cooperazione, nel monopolio, negli accordi che potevano essere fatti dalle imprese, ma riconosceva addirittura un valore in sé alla competizione, al punto che il governo poteva intervenire e creare lui stesso la concorrenza nei mercati dove questa non c’era. Dopo lo Sherman Act ci sono altre leggi: il Clayton Act (1914) perfeziona lo Sherman ed estende le zone attività della FTC, ad esempio stabilisce che le imprese non possono prendere accordi tra di loro neanche per condotte antisindacali. Tuttavia, queste due leggi vengono in parte ridotte nel loro operato da una terza legge, ovvero la Webb-Pomerene Act (1918) la quale deroga il principio dell’antitrust alle imprese americane: alle imprese americane che, sebbene nel mercato nazionale fosse vietato creare cartelli e parteciparvi, in casi e condizioni specifiche potevano partecipare a dei cartelli internazionali. Ma perché il governo degli USA decide di creare una legge del genere? Fino alla Prima Guerra Mondiale gli USA non esportavano un granché, erano un mercato nazionale talmente vasto da soddisfare che le imprese americane potevano focalizzarsi quasi esclusivamente sul mercato americano. Durante la Prima Guerra Mondiale, l’industria americana fa un grande boom produttivo perché vi partecipa fornendo una serie di macchinari, di prodotti e commodities che le industrie europee non riuscivano a produrre per far fronte alla guerra che fa sì che le imprese americane diventino ancora più grandi e che la loro capacità produttiva ha ora bisogno di esportare nei mercati internazionali che sono quasi tutti controllati e organizzati da cartelli internazionali. Quindi se le imprese americane vogliono esportare ed entrare nei mercati internazionali devono farlo dialogando con i cartelli internazionali. E una serie di imprenditori e manager convince il Congresso che per difendere gli affari americani all’estero bisogna fare delle deroghe allo Sherman Act Ci sono due piani: da un lato abbiamo una legislazione specifica degli USA che ha una sua storia e uno sviluppo ed è legata ad una caratteristica puramente nazionale di questo sistema; e poi c’è il resto del mondo dove tutto il resto dell’economia nazionale tiene conto del fatto che esistono dei cartelli internazionali. Rispetto alla visione semplicistica di Chandler possiamo dire due cose: 1. Anche le imprese americane partecipano a dei cartelli internazionali e lo fanno anche prima del 1918, quindi è una forma di organizzazione industriale che interessa anche le imprese americane. 2. Probabilmente, la forma dei cartelli non è sicuro che sia semplicemente la causa del fatto che le altre economie al di fuori degli USA hanno avuto uno sviluppo industriale inferiore a quello degli USA. Possiamo anche chiederci: ma i cartelli potrebbero essere non solo la causa di uno sviluppo economico inferire ma anche una conseguenza del fatto che al di fuori degli USA le istituzioni economiche e le regole de gioco funzionavano in un’altra maniera? Nel resto del mondo non esistono altre leggi antitrust in questi anni. In alcuni paesi esistono dei registri in cui le imprese registrano il loro accordo e comunicano al governo che lo hanno stretto. La logica del registro non è quella di vietare gli accordi, ma al contrario di renderli più efficaci perché se un accordo è segreto diventa imbarazzante farlo rispettare, mentre se è pubblico e registrato le imprese possono andare anche davanti a un tribunale. Questo avviene perché al di fuori degli Stati Uniti in quasi tutti gli altri paesi dove c’è uno sviluppo industriale si riconosce ai cartelli una specie di desiderabilità, si pensa che abbiano degli aspetti positivi. Dal punto di vista normativo e della filosofia economica c’è una grande divergenza che si crea a partire dalla fine del XIX secolo: da un lato l’approccio americano (la concorrenza è tutto); dall’altro l’approccio europeo (la concorrenza non è un bene in sé, ma anzi i cartelli possono giocare dei ruoli positivi nella società e nell’economia). In Europa poi si riattiva un fenomeno di convergenza verso le politiche della competizione e della concorrenza che è relativamente tardivo rispetto alla storia dell’industria e internazionale dell’economia. Ad esempio, una legislazione antitrust in Europa comincia di fatto ad esistere solo alla fine degli anni ’70 e in realtà le implementazioni decisive per creare una vera politica della concorrenza che assomiglia a quella americana le abbiamo solo negli anni ‘90. Prima abbiamo delle forme estremamente embrionali. Bisognerà aspettare il 1962 per avere a livello europeo una 56 regolamentazione che stabilisce cos’è l’antitrust ma rimase lettera morta fino all’inizio degli anni ’80. È a partire dagli anni Novanta che ci sono delle autorità antitrust in ogni paese della comunità europea. Infine, se c’è uno sviluppo di legislazioni antitrust che hanno a che fare con un livello nazionale o sovranazionale europeo, in realtà ancora oggi non esiste una autorità preposta al controllo, allo scioglimento e al sanzionamento di cartelli internazionali che abbiano una portata realmente globale. Le singole autorità nazionali possono quindi sanzionare un’impresa nazionale se fa all’interno di quel mercato delle attività anticoncorrenziale ma non esiste un’autorità mondiale che in qualche maniera sanzioni e controlli cos’è giusto dal punto di vista del mercato internazionale. È quello che sta accadendo nei mercati delle materie prime dove anche l’operato di alcuni cartelli come quello del petrolio influenza i corsi dei prezzi. Nel problema della regolamentazione dei cartelli c’è quindi un problema della extraterritorialità, un fenomeno globale ma con delle regolamentazioni che hanno avuto spesso un approccio estremamente locale o nazionale. A Chandler possiamo pertanto dire due cose: 1. Al di fuori degli USA il mondo funzionava attraverso i cartelli; 2. Le industrie americane stesse non sono completamente al di fuori della logica dei cartelli. Il tutto è riassunto molto bene da J. Fear in questo articolo: prima del 1945, ma in realtà anche successivamente fino agli anni ’60-’70, la visione che derivava dall’ideologia del libero mercato di Smith secondo cui la competitività è forza vitale dell’economia e invece la cooperazione e l’accordarsi sono un qualcosa di negativo al di fuori degli Stati Uniti non trovava un grande consenso né dal punto di vista economico, e gli stessi poteri politici e governi non erano così inclini a seguire la logica americana di mettere in campo delle politiche specifiche per combattere i cartelli o incentivare la creazione delle imprese. Fear dice che, tuttavia, i cartelli proprio per il fatto che sono stati molti, sono stati pervasivi, hanno interessato lo sviluppo di tantissime industrie nel loro complesso, vanno studiati non come un’eccezione rispetto a un mainstream dominante: non si deve pensare alla storia dell’economia come una storia dominata sempre e comunque dalle logiche della concorrenza dove i cartelli sono un’eccezione, infatti diversi studi ci suggeriscono il contrario, cioè che prima degli anni ’60 e ‘70 la regola fosse quella di formare cartelli rispetto a quella di non formarli. Inoltre, i cartelli stessi non sono il contrario semplicemente del liberalismo e dell’economia della concorrenza. Le imprese, ad esempio, competono anche all’interno di un cartello, svolgono della attività imprenditoriali nei cartelli. Da un punto di vista di un’impresa, entrare, gestire o combattere un cartello sono degli atti imprenditoriali maggiori per un’impresa. Infine, Fear dice che studiando i cartelli ci rendiamo conto che il problema della concorrenza tutto sommato è un problema importante ma non l’unico: i cartelli definiscono gli standard produttivi, trasferiscono tecnologie da un’impresa all’altra e aiutano le imprese a ridurre il rischio di investimento. Non si può quindi ridurre tutto alla cospirazione. Rispetto al fatto che i cartelli non siano il contrario del liberalismo possiamo dire una cosa: noi oggi in economia usiamo il termine “neoliberale” per definire tutte quelle politiche che mirano a ridurre ed eliminare l’intervento dello stato in economia; il termine neoliberalismo è stato inventato nel 1938 durante un congresso internazionale di economisti e uomini d’affari a Parigi da Louis Marlio, un imprenditore francese e presidente del cartello internazionale dell’alluminio. Per lui creare un cartello e gestirlo fa parte delle opzioni imprenditoriali di un’impresa, la libertà di creare un cartello fa parte delle attività economiche che un’impresa deve portare avanti. La cosa che lui combatte, ed è per questo che inventa il termine neoliberale, è l’eccessiva presenza dello Stato in economia: l’intervento dello stato in economia crea una serie di inefficienze, cosa che invece non fanno i cartelli che rispondono a una logica liberale di autoregolazione delle imprese. 57 Queste sono delle stime fatte da J. Fear per cercare di trovare il numero esatto di cartelli domestici che esistevano nelle economie europee a partire da dati d’archivio, documenti ecc. Ci sono paesi come la Germania dove la preponderanza dei cartelli domestici è incredibile rispetto agli altri paesi. È un fenomeno che si sviluppa già prima della Prima Guerra Mondiale ma si arriva alla vigilia della Grande Depressione con circa 2000 cartelli d’impresa. Ci sono diversi paesi che per i quali non si hanno dati accurati come quelli della Germania per il fatto che in Germania in cartelli non solo erano consentiti ma erano anche legalizzati e osservati dai poteri pubblici. Negli altri paesi come Cecoslovacchia, Ungheria, Svizzera e Francia si possono fare solo stime, non esiste un registro nazionale di questi cartelli. In Austria esiste invece un registro che ci permette di avere tutt’ora una serie abbastanza completa dei registri. Qual è l’economia nazionale che ci può sorprendere dal punto di vista del numero dei cartelli? La Cecoslovacchia ha moltissimi cartelli ed è strano perché è una piccola economia e quindi dovrebbe essere molto competitiva, ma è proprio per questo motivo che ci sono così tanti cartelli, perché il mercato è molto piccolo e limitato e deve esportare tantissimo, quindi per essere competitiva all’esportazione una delle strategie degli imprenditori cecoslovacchi nel periodo tra le due guerre è quella di fare dei cartelli domestici e quindi avere un controllo del mercato domestico anche i termini di prezzi, di quote, di sicurezza degli investimenti e quindi essere più competitiva all’estero. Il caso del Belgio è molto simile: si tratta di una piccola economia con un mercato domestico relativamente limitato però con una capacità di esportare molto grande. Per esportare si fanno prima dei cartelli sul mercato domestico, che possono essere anche accordi sulle esportazioni. Anche il caso della Germania è simile, anche se qui il mercato domestico era già più largo. Ed infine anche la Svizzera è un caso simile a quello della Cecoslovacchia. Abbiamo quindi molti paesi piccoli con un mercato interno limitato e il cartello azionale è una forma di organizzazione della competitività internazionale di questi paesi. In questa tabella il vero intruso può essere considerato la Gran Bretagna. A priori ci saremmo potuti immaginare che la cartellizzazione internazionale non avesse interessato così tanto l’Inghilterra, un paese dove c’è una protezione minima e un approccio liberale nei confronti del capitalismo industriale, e invece anche in Inghilterra abbiamo 60 tantissimi cartelli domestici che vengono fatti a partire dal periodo successivo alla Prima Guerra Mondiale. L’Inghilterra dopo la 1WW è un paese che cerca di costruire un ordine economico internazionale imperniato sul liberalismo economico, quindi nel 1921-1922 l’Inghilterra sta già cercando di pensare a un superamento delle barriere doganali che erano stato adottate durante il conflitto militare e che avevano causato il declino della globalizzazione. Nel 1925 si arriva a creare un sistema monetario nazionale basato sul libero scambio e con la sterlina al centro. Il motivo in realtà è un altro ed è legato alla Prima Guerra mondiale perché tutte le industrie internazionali soprattutto quelle belligeranti hanno avuto un’espansione economico-produttiva enorme soprattutto le industrie più facilmente cartellizzabili (materie prime, meccanica metallo) perché la domanda militare ha creato il mercato creando degli sbocchi estremante importanti ai quali le industrie nazionali hanno dovuto rispondere sovrainvestendo rispetto alle capacità produttive che erano necessarie per la domanda civile. L’eredità della Grande Guerra è stata per le industrie nazionali un marcata sovraproduzione, un marcato sovradimensionamento e sovrainvestimento che, dopo la fine della guerra, tuttavia, né gli imprenditori né i governi nazionali erano disposti a eliminare per motivi diplomatici, economici e politici. I cartelli diventano allora una risposta per dare governance all’economia nazionale, quindi per definire quote di produzione, per definire prezzi, regole del mercato, servono a disciplinare una situazione economica che altrimenti, se lasciata alla libera concorrenza, avrebbe portato al fallimento di molte imprese e a un danno economico complessivo per tutti. Negli anni Venti e Trenta i cartelli svolgono quindi, anche nelle economie relativamente liberali come il Regno Unito, il ruolo di adattamento al ciclo economico. Quando la Prima Guerra finisce e questo è vero in Francia, in Inghilterra e Italia e in parte anche in Germania, succede che lo Stato progressivamente abbandona tutte le regolamentazioni pubbliche sul mercato e si cerca di costruire un mercato privato, quindi con i prezzi che non sono più fissati politicamente, con il protezionismo che viene progressivamente smantellato, con il smantellamento di tutto l’apparato militare-produttivo che era stato creato e questo crea un periodo di forte incertezza per le imprese private che erano abituate ad un regime economico diverso durante il periodo della guerra. A questo rischio le imprese reagiscono con la formazione di cartelli che avevano la funzione di autoregolamentazione privata delle imprese dal punto di vista del mercato. Loucheur e Rathenau avevano proposto l’idea di una transizione dall’economia di guerra all’economia di pace che ha significato una trasformazione della domanda, la fine della regolamentazione statale del mercato e una necessitò di adattare ingenti investimenti che sono stati fatti durante il periodo di guerra all’economia di pace. È stata una transizione da un’economia estremamente protetta, controllata, gestita dagli stati a un’economia che torna progressivamente liberalizzata. Dicono che il ritorno alla normalità quindi l’abbandono delle prerogative dello stato in economia dal punto di vista nazionale e il ripristino del commercio internazionale può passare dai cartelli perché essi hanno la funzione di cercare di adattare il ciclo economico. Sono delle forme di governance sovranazionale che viene pensata in questi termini durante il periodo tra le due guerre. Come e quando le imprese formano cartelli? È possibile fare un cartello in ogni tipo di industria oppure ci sono delle limitazioni? Quando nascono e muoiono i cartelli? Queste domande se le è poste per primo Dominique Barjot (1994) il quale dice che ci sono dei fattori che possono spiegare la formazione dei cartelli che possiamo dividere in fattori esogeni (esterni alla storia delle imprese e delle industrie che in qualche maniera influenzano la formazione dei cartelli, che li favoriscono o sfavoriscono) e fattori endogeni (propri di ogni singola industria che possono fa sì che dei settori produttivi siano più inclini a fare dei cartelli rispetto ad altri). Fattori esogeni  Le leggi che possono impedire o favore i cartelli  I cicli produttivi: per lungo tempo, ad esempio, si è pensato che i cartelli fossero figli della difficoltà, degli strumenti avviati durante i periodi di crisi economica. In realtà le ricerche hanno mostrato che i cartelli sì si sviluppano durante la crisi economica ma crisi troppo forti e feroci possono anche far naufragare i cartelli che esistevano precedentemente.  La cultura economia complessiva, cioè il pensiero generale che si ha nella politica, nella cultura e nell’economia rispetto ai cartelli. Ad esempio, Louis Loucheur e Walter Rathenau dopo la pace di Versailles hanno pensato che i cartelli avrebbero potuto ricostruire la pace tra Germania e Francia. Negli anni Venti parlare di cartello era un metodo riconosciuto legittimo di organizzazione industriale 61 Fattori endogeni  Ola struttura industriale dell’oligopolio favorisce i cartelli perché poche imprese e pochi produttori sono in grado di accordarsi meglio;  Tecnologie ad alta intensità di capitale, cioè dove bisogna fare molti investimenti e c’è bisogno di programmarli bene e di avere una remunerazione costante;  I prodotti devono essere iper-standardizzati: non è possibile formare i cartelli dove ci sono troppe varietà di prodotto (nelle automobili difficilmente si potranno fare dei cartelli); In alcuni casi, secondo Casson e Nussbaum, i cartelli possono essere una soluzione alternativa alla creazione di imprese multinazionali, perché in determinate situazioni dove è difficile per un attore economico investire in un paese ostile un accordo di cartello può essere considerato una forma alternativa di organizzazione industriale. I cartelli hanno dei fattori esogeni ed endogeni. A questi possiamo aggiungere altre due considerazioni: 1. Tra i fattori endogeni, cioè quelli che spiegano perché la cartellizzazione è più facile in alcune industrie rispetto ad altre abbiano elencato una serie di fattori come tecnologie, la standardizzazione del prodotto, l’oligopolio e possiamo aggiungerne una ulteriore che è stata identificata da Micheal Porter perché non solo ci sono questi fattori endogeni generali, ma i cartelli sono più facili e si sviluppano meglio quando le imprese appartengono allo stesso gruppo strategico, ovvero hanno la stessa visione strategica della propria impresa, fanno leva sulle stesse considerazioni strategiche rispetto all’evoluzione della propria impresa. Ad esempio, un’acciaieria privata e una acciaieria statale anche se appartengono allo stesso identica industria e tecnologia, in realtà appartengono a due gruppi strategici diversi perché l’interesse ultimo delle due è diverso: il fine ultimo di un’impresa privata è il profitto, mentre un’impresa pubblica può produrre per motivi diversi come per mantenere il lavoro, per mantenere viva una produzione strategica e quindi le scelte imprenditoriali delle due imprese di fronte al ciclo economico possono divergere. Un imprenditore privato di fronte alla crisi può decidere di chiudere l’acciaieria; l’imprenditore pubblico potrebbe prendere la scelta opposta perché gli interessa mantenerla attiva per questiono sociali, politiche ecc. Queste visioni diverse rendono impossibili per le due imprese prendere un accordo di cartello perché le due visioni divergono profondamente. 2. Deborha Spar dice che in fin dei conti i cartelli per funzionare devono avere sì una serie di prerequisiti economici, ma quelli più longevi sono tutti cartelli in cui esiste un forte commitment dalla parte degli imprenditori che appartengono alle industrie cartellizzate, in cui c’è una specie di economia relazionale per cui di fatto gli imprenditori considerano la propria industria, anche se appartengono a paesi ed economie diversi come una specie di club nel quale ci sono regole che non si possono infrangere. Questa spiega perché dietro alla scelta di fare un cartello ci sono compromessi che vengono presi dagli attori economici. Queste impostazioni ci aiutano a capire perché Stigler avesse torto a dire che i cartelli sono delle organizzazioni effimere: il fatto che i cartelli siano un compromesso e possano prendere delle visioni strategiche e forme organizzative che si adattano alle scelte e alle necessità dei vari componenti ci dà delle idee per capire che è comprensibile che alcuni cartelli internazionali siano durati decine di anni grazie alla loro capacità di essere resilienti rispetto alla propria associazione al club che viene stabilito. Di fatto è più facile che il cartello venga adattato alle condizioni economiche generali e al cambiare delle visioni strategiche degli attori rispetto al fatto che il cartello fallisca per decisone dei suoi membri o per una malafede dei suoi membri rispetto alle regole dei cartelli. 62 immediatamente successivo ha portato avanti una vera e propria battaglia di decartellizzazione internazionale, obbligando le imprese americane a dissolvere i cartelli, favorendo la dissoluzione di cartelli tedeschi tipo la IG-Farben ecc. La stessa sorte non tocca agli accordi inter-governamentali sulle materie prime, quindi ai cartelli gestiti dai governi e non dalle imprese private perché nel periodo dopo 1945 gli accordi sulle materie prime gestiti dai governi diventano una delle ossature principali su cui si regge l’economia di Bretton Woods. Questi strumenti vengono considerati funzionali alle politiche di sviluppo dei diversi paesi esportatori delle materie prime. Tutti questi ICA cercano di migliorare il reddito percepito dai paesi esportatori di materie prime per migliorare la propria condizione economia e stabilizzare la propria economia internazionale, per aiutare lo sviluppo di quelle economie che altrimenti sarebbero state alla mercè delle fluttuazioni economiche internazionali. Solo durante gli anni ’70 e ’80 e progressivamente negli anni ’90 vengono smantellati tutti questi accordi inter- governamentali che erano qualcosa di diverso rispetto ai cartelli. La differenza tra i cartelli e gli ICA era data dalla partecipazione ma anche dalla visione politico-strategica che era affidata a questi strumenti: i cartelli cercano di dare una autoregolamentazione alle industrie e alle produzioni, mentre gli ICA sono anche legati alle politiche economiche e di sviluppo dei diversi paesi. Dietro gli ICAs spesso e volentieri c’era il Fondo Monetario Internazionale come finanziatore delle operazioni, degli stock ecc. Analizziamo ora il problema della diplomazia industriale che esiste dietro ai cartelli: dagli anni Venti essi sono considerati degli strumenti di politica economica internazionale. Tutta una serie di studi che si focalizzano sui cartelli (accia, alluminio ecc.) hanno sempre proposto questo tipo di analisi: i cartelli hanno sì valenza economica ma anche una valenza politica. Per rendercene conto basta dare un’occhiata alla cronologia specifica dei vari cartelli nazionali degli anni Venti: nel 1921 abbiamo la proposta Loucheour-Rathenau, la quale nel 1924 sembra realizzarsi in alcuni settori. Il primo è quello della Potassa, un prodotto chimico: i produttori francesi e tedeschi fanno un accordo per spartirsi le esportazioni nel mercato americano; qualche mese dopo viene fatto un cartello nazionale per il Carburo di Calcio, un prodotto elettrochimico. E prima della fine del 1924 viene creato Phoebus, il cartello internazionale delle lampadine e viene riattivo un accordo anche nel settore dell’alluminio. Tutti questi accordi dove partecipano anche le imprese tedesche preparano la normalizzazione economica della Germania che viene progressivamente riammessa nei commerci e organizzazioni internazionali, preparano il Piano Dawes che è un piano finanziario finalizzato alla stabilizzazione mondiale tedesca e alla normalizzazione dopo le riparazioni di guerra che le era state richieste. Nel 1925 Loucheour, forte di questi successi diplomatici, lancia l’idea di utilizzare i cartelli per riunificare il commercio internazionale e integrare il commercio economico delle materie prime e prodotti industriali. Nel 1926 vengono così creati tutta una serie di cartelli: il Cartello dell’Acciaio, il Cartello della Potassa, dell’Alluminio e del Rame. Nel 1927 la proposta di Loucheour diventa argomento di discussione nella Conferenza Economica Nazionale della Società delle Nazioni Unite tenutasi a Ginevra in cui si è parlato dei cartelli come strumento di integrazione economica internazionale e dove il punto di vista di Loucheur era che i governi, per questioni politiche non erano ancora pronti ad abolire il protezionismo, le barriere doganali e ad unificare il mercato europeo mentre i i cartelli potevano anticipare e spianare la strada questo tipo di operazione. Domeratzky scrive su un libro sul cartello internazionale che prima della Prima Guerra Mondiale i cartelli erano semplicemente delle associazioni economiche mentre oramai hanno assunto una valenza diplomatica e politica estremamente importante e la League of Nations a partire dalla Conferenza Economica del ’27 comincia a tenere traccia dei cartelli internazionali che esistono (infatti considera la proposta di Loucheour come molto importante). Se durante gli anni Venti i cartelli vengono pensati come strumento di integrazione dei mercati, negli anni Trenta invece le cose cambiano: i cartelli non servono più ad integrare i mercati, diventano resilienti rispetto alla grande depressione e alla deglobalizzazione e diventano progressivamente uno strumento di adattamento congiunturale e di adattamento alle politiche nazionali. 65 Non si pensa più di poter gestire in maniera unitaria il mercato internazionale: i diversi cartelli che vengono riformulati e riadattati a queste nuove condizioni internazionali diventano cartelli che cercano di separare i mercati, riservare i mercati e non più di organizzare il mercato globale di una singola commodity ma, anzi, vengono impiegati per dare ad ogni singola economia adattamenti congiunturali. Degli esempi sono il Cartello dell’Acciaio, idem per la Gomma e per lo Stagno. Il momento in cui si prende coscienza del fatto che i cartelli privati, gli accordi tra imprese, non funzionano più per integrare i mercati ma devono essere adattai in qualche maniera alle politiche nazionali dei diversi governi è nel 1937 quando alla Conferenza Economica Internazionale che si tiene a Berlino viene presentata questa dicotomia: i cartelli privati non funzionano più e bisogna sostituirli con gli accordi tra i governi. Questo è il passaggio che sancisce da un punto di vista politico e diplomatico il tramonto progressivo dei cartelli come autoregolamentazione dell’industria in favore di un’implicazione dei governi nelle regolamentazioni dei mercati delle materie prime. Gli ICAs si mostrano quindi più consoni a risolvere i problemi dell’economia internazionale rispetto ai cartelli. Incontro con il professor Luciano Renato Segreto Il libro L’economia mondiale dopo la Guerra Fredda (2018) del professor Segreto parla dell’inizio di alcune dinamiche che oggi sono sotto gli occhi di tutti: il ruolo della Russia e della Cina nell’economia internazionale, i paesi emergenti e di alcune dinamiche che hanno radici storiche di lungo periodo ma che naturalmente hanno avuto una serie di percorsi che si sono avviati in tempi relativamente recenti. Partiamo dal tema del ruolo dell’economia russa nel contesto economico e geopolitico internazionale. La Russia non solo ha smesso di essere un Paese a economia di stampo socialista ma ha cambiato radicalmente la sua fisionomia 66 economica nel corso degli ultimi 40 anni: non è solo diventata un paese capitalista ma ha assunto un ruolo completamente diverso da quello che storicamente aveva costruito nei decenni precedenti. Per capire cos’è diventata la Russia in questi anni bisogna prima capire brevemente che cos’era. Dal punto di vista politico-istituzionale era un regime sovietico a partito unico e il modello socialista che si era sviluppato, che è cambiato nel corso del tempo dal 1917, era anche un modello che dal punto di vista economico doveva per forza essere alternativo e completo allo stesso tempo rispetto al modello capitalista. Il problema di un regime socialista è che non puoi comportarti come ti comporti nell’economia di mercato: esso deve rispondere a tutte le esigenze della popolazione, un’idea che faceva parte della logica anche politica ideologica di chi aveva guidato la Rivoluzione d’Ottobre. Quindi il modello che si è venuto a creare non era solo un’organizzazione burocratica centralizzata ma era anche un modello che doveva essere ad ampio spettro: tutti i settori industriali dovevano essere sviluppati. Le risorse che il paese aveva a disposizione avevano favorito alcuni settori rispetto ad altri, ma poi c’era anche una visione in parte ideologica e in parte razionale basata sull’idea che il processo dell’industrializzazione si fa partendo dalle industrie di base (metallurgia, siderurgia, industria meccanica pesante e l’industria energetica = idroelettrica) rispettando le enormi potenzialità che ha la Russia dal punto di vista della quantità e qualità di minerali a disposizione. Tutto ciò ha complessivamente costruito un sistema industriale non efficiente e non in grado di offrire la stessa qualità dei prodotti, ma era comunque un sistema industriale che era secondo come dimensioni unicamente a quello americano. C’erano tutti i settori, nessuno escluso. Il messaggio ideologico, culturale e politico che passava era che la Russia era in grado di fare tutto quello che faceva un sistema capitalistico. Questo era un sistema irrazionale anche da questo punto di vista: doveva offrire per forza il ventaglio della sua competenza, delle produzioni industriali, dei beni che si potevano produrre nei diversi settori industriali. Questo ha creato progressive difficoltà e inceppamenti nel sistema produttivo proprio perché il produrre tutto costi era in contrasto con un sistema che dal punto di vista burocratico e organizzativo è centralizzato e dove la capacità di reagire alle sollecitazioni della domanda interna non esiste. Questo sistema è andato lentamente in crisi (non è stata una crisi drammatica) e si è progressivamente calcificato. Da un punto di vista esterno questo impediva di capire quali fossero le dinamiche del sistema sovietico. La CIA aveva analizzato l’economia sovietica degli anni 70-80 e dai documenti stessi della CIA su cui si basava la ricerca si capiva che il sistema continuava a vivacchiare ma niente faceva capire che sarebbe crollato. La cosa interessante è che gli uomini politici americani del momento accusavano la CIA di non averli informati riguardo alla crisi russa, di non aver svolto bene il suo mestiere. Da lì cominciò un dibattito negli anni 90 prima tutto solo nel mondo politico americano e in quello degli specialisti. La CIA è stata a lungo in silenzio e solo verso la fine degli anni 90 e poi nel 2001 ha dato le sue risposte dicendo che essa non doveva prevedere la caduta dell’Unione Sovietica, non era nel suo compito dire che il sistema stava per saltare per aria anche perché effettivamente non c’erano segnali. Questa lunga premessa è necessaria perché se ci spostiamo subito dopo la fine dell’Unione Sovietica vediamo cos’è la Russia che nasce dal 1991 in poi e vediamo che c’è un problema che oggi percepiamo molto bene. All’epoca si disse “Beh la Guerra Fredda l’hanno vinta gli USA e ora vanno all’incasso”; dall’altra parte, USA, le istituzioni economiche internazionali e i paesi in Europa occidentale hanno fatto di tutto per facilitare il passaggio dell’URSS/Russia all’economia di mercato e ad una democrazia. Però in realtà lo sforzo maggiore è stato sul primo aspetto, cioè sia con le grandi banche d’affari americane e le società di consulenza hanno svolto un ruolo fondamentale nell’aiutare il nuovo governo del presidente El'cin a trasformare l’economia ex sovietica in un’economia di mercato. Questo è stato un salto molto duro e difficile che ha comportato enormi sacrifici per la popolazione russa (pensa che il primo anno dopo la fine dell’URSS l’inflazione era del 2500%) tanto che è stata chiamata shock therapy riprendendo così il termine ma anche il contenuto del modello polacco (della sua shock therapy). Il contenuto consisteva neltenere sotto controllo alcuni prezzi e liberalizzare tutto il resto rapidamente. Nello stesso tempo vennero avviate delle privatizzazioni per cercare di recuperare risorse che dovevano poi essere reinvestite nel sistema. Invece, in quella che era la dimensione politico-istituzionale non ci fu nessun accompagnamento da parte di istituzioni analoghe (OSCE, Nazioni Unite): è un po’ come se fosse stato detto “beh non preoccupatevi, se privatizzate l’economia ed entrate in un sistema di economia di mercato il resto seguirà automaticamente” e invece il resto non ha seguito perché i meccanismi politico-istituzionali che sono stati messi a punto sono stati molto imperfetti: la centralizzazione del processo decisionale in poche persone e i rapporti fra il potere esecutivo e il potere legislativo sono sempre stati basati sulla predominanza del primo rispetto al secondo. L’effetto ultimo di questa operazione è stato quello di creare un’economia che a quel punto rispetto a prima razionalmente decise “che cosa voleva fare da grande”. A questo punto, in un sistema non più socialista, non era più necessario che tutti i settori industriali fossero tenuti in vita e sviluppati com’era stato fatto (male) durante l’epoca socialista sovietica. Lasciando lavorare il mercato (internazionale prima di 67 importata e non la loro. E appena la competitività russa ha toccato e disturbato i mercati internazionali gli abbiamo insegnato che si poteva inventare. Molti settori che hanno disturbato effettivamente i mercati internazionali a partire dall’entrata della Russia nel commercio internazionale come nichel e alluminio sono tutti settori che poi sono diventati oggetto di accordi internazionali La Cina invece entra nel mercato internazionale in una maniera completamente diversa, senza disturbare più di tanto il suo mercato interno. La sua entrata nell’economia internazionale è stata anche governata dal punto di vista delle organizzazioni internazionali: essa entra giocando le regole del gioco che erano state già imposte, tant’è che molti vedevano nella Cina una vera opportunità per investire, per delocalizzare, per far crescere altre economie. Ma quali sono le strutture e le organizzazioni che in qualche modo possono governare la crescita di questi nuovi paesi emergenti? Si parla molto del gruppo BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), ma rappresenta veramente un’alternativa rispetto all’economia globale? I BRICS, dice il professor Segreto, hanno avuto la loro stagione e ad oggi questa stagione è passata perché non sono stati in grado di creare quella massa critica capace di portarsi dietro altri paesi e creare delle dinamiche di crescita economica e sociale che fossero in grado di mostrare ad altri sistemi economici e organizzazioni sovranazionali che questo modello poteva avere qualche vantaggio. Ma come nascono? I BRIC nascono come un tentativo politico di rispondere alla fallimentare riunione convocata a Londra nel 2009 per discutere delle misure da prendere per uscire dalla crisi che da finanziaria era diventata anche economica. I risultati furono molto inferiori alle aspettative e quindi l’anno dopo si riunirono questi quattro paesi ((Brasile, Russia, India, Cina). L’iniziativa fu probabilmente cinese, visto che la Cina si stava immaginando già una iniziativa di sviluppo economico di iniziative in campo economico internazionale che avessero bisogno di una sede entro le quali diventare più ascoltate. Probabilmente il fatto di essere con la Russa nel Gruppo di Shangai (dove è stato il primo contatto tra le due) ha consentito a questi due paesi di proporre a India e Brasile di avere un luogo entro cui discutere e proporre delle soluzioni che, vista l’entità economica potenziale dei quattro paesi, potevano essere in grado di far ripartire l’economia mondiale. In quegli anni, mentre l’economia mondiale perdeva diversi punti di crescita e il PIL era negativo nei paesi più avanzati, quello di Cina e India tra il 2007 e il 2011 aumentò del 40-60%. Il motore comunque era quello cinese, mentre gli altri paesi avevano caratteristiche più deboli su tanti versanti. Quindi è molto difficile in realtà creare un motore di crescita che si aggiunga ai motori nazionali per il fatto di tenere insieme 4-5 paesi che potenzialmente all’epoca già avevano il 25% del PIL mondiale. Quando si va a guardare dal 2014-15 cosa è stato fatto veramente da parte dei BRICS i risultati sono veramente molto scarsi. Non a caso è nel 2014 che la Cina lancia un’altra iniziativa strategica, “La nuova via della seta”, per creare sei corridoi, che sono infrastrutture sia terrestri che marittime, per collegare il mercato cinese coi mercati di sbocco, sia in Asia che nell’Africa nord-orientale e in Europa. Ma tutto nasce sempre e solo dalla Cina che offre sostegno ai paesi asiatici attraversati da questi corridoi per creare infrastrutture e migliorare quelle esistenti. Tutto ciò non è accompagnato da una iniziativa di carattere politico-culturale che faccia sentire questi paesi parte di un progetto più ampio: il modello cinese non riesce ad essere catalizzatore e propulsore di altri messaggi oltre a quello economico- commerciale e di altri valori condivisi. È qui il limite del messaggio cinese, cioè il soft power. Organizzazioni internazionali e governance economica Come si governa dal punto di vista economico il mondo? Come i diversi stati da un lato si approcciano al problema di dare un governo all’economia mondiale, quindi creare delle regole, seguirle ed espanderle? 70 A lato di questa discussione ci sta la tematica del capire qual è il ruolo dei paesi e delle organizzazioni internazionali nel creare regole, norme e quindi nel cercare di costruire un’architettura. Le organizzazioni internazionali sono moltissime, ad esempio l’ONU, la NATO, il Gruppo BRICS. Noi in questo corso ci interessiamo alle organizzazioni che hanno un maggiore ruolo economico e cerchiamo di capire a cosa servono da un punto di vista economico visto che il loro ruolo sotto questo profilo è cambiato durante la storia. È interessante capire come si moltiplica il ruolo economico di queste nel corso della storia Lo studio delle organizzazioni di stampo economico è legato alla Global Economic Governance, ovvero un insieme di norme e istituzioni che sono generate per amministrare l’economia internazionale. Quando parliamo di istituzioni, di norme e regole il riferimento che viene fatto è legato a quello che pensava Douglas North delle istituzioni: da un lato abbiamo le istituzioni come insiemi di norme scritte e non scritte che sono utilizzate e sfruttate dalle organizzazioni, dagli stati, dai paesi e dalle imprese. La cosa interessante delle organizzazioni internazionali è che possiamo considerarle a metà strada tra delle organizzazioni e delle istituzioni, perché da un lato le istituzioni internazionali danno delle regole del gioco, fanno parte di quel set di norme scritte e non scritte che governa l’economia internazionale; dall’altro lato, le organizzazioni stesse sono anche organizzazioni, sono anche attori nel gioco economico che possono esse stesse contribuire a plasmare delle nuove regole. Da un punto di vista della storia economica e seguendo l’approccio istituzionalista, l’aspetto interessante nello studiare questo tipo di organizzazioni non era tanto il fatto di cercare di capire le origini e se poi queste organizzazioni hanno seguito gli scopi originali oppure meno, ma è cercare di capire come rispetto agli scopi originari le organizzazioni spesso modificati il loro scopi, vengono create per dei motivi che in corso d’opera vengono stravolti del tutto, assumono nuove competenze e finalità e questo ha fatto sì che queste organizzazioni diventassero oggetto di studio in sé per gran parte degli storici economici e di studi internazionali. Nella storiografia si ha avuto una percezione che è profondamente cambiata rispetto alle organizzazioni internazionali. Ad esempio, i dati statistici sul commercio, sulla produzione, sulle tariffe doganali provenienti da organizzazioni internazionali per moltissimi anni sono stati utilizzati dagli storici economici come base documentale senza interrogarsi sull’organismo che li aveva prodotti. Anche la storia diplomatica stessa spesso e si è interrogata sulla storia di queste organizzazioni, cercando di capire i trattati che le facevano funzionare e quali erano le loro leggi basilari, oppure cercavano di studiare la storia di un paese in relazione ad un’organizzazione internazionale (quando ci era entrato/uscito). Ci si è accorti che in realtà queste organizzazioni hanno anche una valenza geopolitica che è legata al tipo di osservazione di Douglas North: sono organizzazioni a cui partecipano molti Stati, che ufficialmente sono uguali gli uni con gli altri. Ma in realtà anche queste organizzazioni sono portatrici di rapporti di forza specifici che esistono tra i Paesi stessi. Quindi a partire dagli anni Ottanta gli storici economici hanno cominciato a studiare le organizzazioni internazionali sotto u altor punto di vista focalizzandosi su come funzionano davvero, su quali sono le loro forze interne e cercando non più di utilizzare i dati di tali organizzazioni ciecamente, ma cercando di studiare queste organizzazioni come un oggetto specifico, capendo qual è il loro impatto nella governance economica internazionale e quindi capire non solo quali sono gli intenti, i trattati e le architetture che sottintendono a queste organizzazioni, ma anche quali sono le dinamiche internazionali che sono influenzate, create e risolte/causate da queste specifiche organizzazioni. Uno degli studi più importanti sotto questo punto di vista che ha cercato di capire qual è stato il ruolo di una delle principali organizzazioni tra le due guerre è lo studio di Patricia Clavin: indipendentemente dalle motivazioni che hanno fatto nascere la League of Nation nel 1920, questa ha assunto tutta una serie di competenze economiche che, tra la loro creazione e gli sviluppi successivi, hanno cambiato radicalmente. Negli anni Venti, i problemi che erano al cuore della governance economica internazionale erano cercare di ripristinare la globalizzazione, l’integrazione dei mercati ed eliminare le tariffe doganali. Negli anni Trenta, con la crisi economica internazionale, tutto questo viene spazzato via, e la LON assume delle caratteristiche completamente diverse da quelle degli anni Venti, ad esempio il problema di come risolvere la crisi, come combattere nazionalismo ecc. Con l’aggressione imperialista dell’Italia all’Europa la LON diventa un organismo sanzionatore. Patricia Clavin studia quindi la LON come un insieme di regole scritte e non scritte, un insieme di rapporti di forza tra diversi paesi e diversi interessi economici e cercando di capire che il funzionamento di questa istituzione è al tempo stesso modificato dal contesto economico internazionale. Questo non è l’unico studio di questo genere. A partire dagli anni Novanta fino all’inizio degli anni Duemila ci sono un sacco di studi che si rifanno a questo tipo di concetto per studiare le organizzazioni internazionali da un punto di vista economico e come oggetto di indagine a sé. Ad esempio, una delle prime ricerche è di Mathias KI che ha tentato di studiare il processo di costruzione dell’Europa non dal punto di vista della storia diplomatica, ma dal punto di vista di qual è stato l’impatto degli interessi economici francesi sulla creazione dell’Europa e come le politiche economiche 71 del governo francese degli anni Cinquanta hanno influenzato nel creare l’UE che fosse prossima a questo tipo di interesse economico. Due studiosi – hanno studiato la storia nel lungo periodo dell’OCSE, cercando di capire cosa è stato l’OCSE nella storia, a cosa è servito e come si è modificato. La tesi di questi due storici è che l’OCSE è sempre stato una specie di club dei Paesi ricchi e degli interessi economici dei Paesi nel Nord del mondo che hanno cercato attraverso l’OCSE di imprimere delle direzioni specifiche alla governance dell’economia internazionale. Questi interessi erano per esempio liberalizzare per sempre l’economia internazionale per importare materie prime a costi bassissimi. Sulla Lega delle Nazioni c’è anche lo studio di uno storico svizzero che l’ha studiata dal punto di vista della regolamentazione economica internazionale, cioè come questa organizzazione ha cercato di risolvere i problemi economici del periodo tra le due guerre. Poi c’è uno studio più recente sulle trasformazioni dell’Europa a partire dagli anni Ottanta. X si è chiesto: l’Europa quando è nata era un’Europa sociale, orientata sul welfare e sulla presenza forte dello stato in economia; progressivamente si è trasformata in un qualcosa di diverso che ha un’impronta molto più neoliberale, legata alla globalizzazione e X si è chiesto quali sono state le dinamiche e cause che hanno trasformato radicalmente l’Europa. Le istituzioni sono sempre le stesse, ma gli scopi, le dinamiche e le politiche sono cambiati come dinamiche storiche spiegabili dal punto di vista dell’analisi economica. Uno dei punti di vista che possiamo adottare quando studia le organizzazioni economiche internazionali è quello di cercare di capire le organizzazioni in base alla comprensione del loro scopo. Questa citazione di Bertrand Russel (1943) dice che il mondo ha bisogno di organismi internazionali, globali, per evitare le guerre. Egli suggerisce implicitamente che, se avessimo avuto delle organizzazioni internazionali efficaci, funzionanti, avremmo potuto evitare la Seconda Guerra Mondiale. Il problema rispetto all’efficacia, rispetto al bisogno di avere un certo tipo di governance e cercare di trovare delle soluzioni multilaterali e collettive ai problemi economici e politici del mondo riassunti in questa frase effettivamente sono anch’essi legati alla storia perché le organizzazioni internazionali e il bisogno di avere delle regole e degli organismi sovranazionali e multilaterali che diano degli standard, sono importanti anche per la storia. Prima del XIX secolo sostanzialmente non esistevano organizzazioni internazionali che si occupavano di interessi economici collettivi e di approcci multilaterali. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, si sono poste le basi per creare delle moderne organizzazioni internazionali il cui scopo e la cui azione diventava realmente globale (basta vedere le differenze tra la LON e le Nazioni Unite). Il bisogno di avere delle organizzazioni internazionale da un punto di vista economico deriva effettivamente da un processo che è laterale e parallelo all’istituzione di queste organizzazioni, ovvero il processo della globalizzazione dell’economia, dell’industrializzazione ed integrazione dei mercati che in qualche maniera ha creato i presupposti affinché diventasse necessario la creazione di un organismo internazionale che governi certi aspetti della vita economica quando nei secoli precedenti erano sufficienti dei trattati bilaterali tra Paesi o addirittura delle istituzioni completamente informali. Vediamone degli esempi. Prima della Grande Guerra esistevano già delle organizzazioni internazionali, cioè delle entità alle quali partecipavano diversi paesi e venivano create per degli scopi precisi. Avevano tutte a che fare con l’integrazione dei mercati, l’innovazione tecnologica e il commercio internazionale.  1865: Prima Convenzione del Telegrafo internazionale  gli Stati membri che aderiscono all’organizzazione aderiscono ad uno standard su come si comunica al telegrafo. Senza questa organizzazione si sarebbero adottati degli standard di comunicazione diversi in ogni Paese e quindi da innovazione tecnologica estremamente utile il telegrafo sarebbe diventato un qualcosa di troppo difficile da utilizzare a livello globale.  1874: Standardizzare il servizio poste nei Paesi  vale lo stesso discorso del telegrafo  1881: Fair Trade League  è una delle prime organizzazioni internazionali non governativa che cercava di porre uno standard sui livelli salariali e sfruttamento della manodopera a livello internazionale  1883: Prima Convenzione sui brevetti  Ogni Paese aveva delle regole diverse sui brevetti, e la cosa ancora più grave era che i brevetti di un Paese non erano riconosciuti altrove. È stata avviata una riflessione su come creare delle regole da un punto di vista formale che evitassero il problema dell’innovazione tecnologica.  1884: Convenzione sulle zone orarie (Greenwich)  estremamente importante per il commercio e per l’integrazione economica internazionale perché fino a quel momento, per il fatto che i trasporti erano estremamente lenti e l’economia era poco integrata, non si era reso necessario nemmeno creare i fusi orari, o almeno non dare una standardizzazione delle diverse ore nei diversi luoghi del mondo.  1905: International Institute for Agricolture  Assomiglia più di tutte ad un’organizzazione moderna. Viene creata a Roma ad opera di David Lubin con lo scopo di raccogliere statistiche sull’agricoltura e capire se la produzione agricola era sufficiente per sfamare la popolazione mondiale. Traeva ispirazione dalla progressiva integrazione del mercato alimentare e dei mercati dei grani. Infatti, a partire dagli anni Ottanta e Novanta in poi con l’arrivo dei grani dall’America, dalla Russia e delle regioni dell’est Europa grazie all’integrazione della ferrovia si è creato un nuovo mercato mondiale per il grano che da un lato ha eliminato le crisi e le carestie che 72 I problemi economici nel periodo tra le due guerre non erano solo quelli legati alla moneta ma anche quelli legati alla necessità di reintegrare nuovamente l’economia internazionale, abolire il protezionismo, creare un mercato efficiente a livello internazionale dopo lo shock della 1WW e della Grande Depressione, però tutto sommato le istituzioni che erano preposte a lavorare per questo scopo avevano una portata veramente limitata: della LoN non facevano parte tutti i paesi; in secondo luogo, il ruolo della LoN non era quello di “imporre” o coordinare una politica commerciale ma quello di discutere, dibattere e di far sedere a tavolino diversi paesi ma poi sostanzialmente dal punto di vista pratico era scarsa. Lo scopo era quello di favorire il dibattito ma poi l’obbligatorietà e l’implementazione delle cose di cui si discuteva era estremamente manchevole. La Camera di commercio internazionale dal canto suo non aveva nessun tipo di potere. Quando l’economia internazionale negli anni Venti prosperava, i diversi paesi su questi paesi erano riusciti a costruire un sistema economico internazionale zoppicante ma che funzionava e che era basato sul Gold Standard Exchange, sulla sterlina, la volontà da parte dei diversi paesi di mettere nell’agenda politica l’integrazione economica del mondo la quale tutto sommato si scontrava contro quello che gli storici economici sono concordi nel considerare un nazionalismo economico che ha caratterizzato sia gli anni Venti ma soprattutto gli anni Trenta. Negli anni Venti la ricostruzione delle varie parità auree e del valore delle monete aveva causato una vera esacerbazione delle politiche monetarie dei diversi paesi, i quali avevano cercato di riguadagnare il valore prebellico della propria moneta. Questo aveva significato dei grandi scompensi da ogni tipo di economia e aveva portato diversi paesi a cercare di attirare l’oro nelle proprie casse per fortificare la propria produzione. Quando crolla il Gold Standard Exchange nel 1931 diversi paesi cominciano ad adottare delle politiche economiche iper-particolaristiche che in alcuni casi hanno coinciso con le politiche di riarmo (Italia, Germania, in parte Inghilterra) e che sono tutte caratterizzate dalla progressiva distruzione del sistema economico monetario internazionale. Tutto questo nazionalismo e particolarismo hanno fatto sì che nella seconda metà degli anni Trenta si ponessero le basi per delle politiche di riarmo che hanno portato alla Seconda Guerra Mondiale. Sulle debolezze del Gold Standard c’è il libro Golden Fetters di Barry Eichengreen che mostra che tutti i diversi paesi nel periodo tra le due guerre e soprattutto negli anni Venti quando vigeva ancora il Gold Standard Exchange giocavano al gioco economico internazionale non con uno sguardo d’insieme ma con logiche sempre particolaristiche che avevano il risultato di minare la forza e l’efficienza di questo sistema economico internazionale: i diversi paesi anziché assecondare la creazione di un mercato per le monete liberale cercavano di imbrogliare sulle regole del gioco cercando di attirare all’interno delle proprie casse sempre più oro per rafforzare la propria moneta. A questo punto a Bretton Woods emerge un approccio completamente diverso ai problemi economici monetari e commerciali internazionali. Nell’estate del 1944, quando la guerra è ancora in corso ma ormai l’avanzata nazista si è fermata, le due principali potenze economiche e militari del momento si riuniscono a Bretton Woods e avviano una conferenza monetaria per discutere di quale sarà l’ordine economico mondiale in vigore nel periodo dopo la Seconda Guerra Mondiale una volta che sarà finita. L’idea di fondo di BW è quella che il sistema economico internazionale del periodo precedente ha fallito perché mancavano delle organizzazioni in grado di vigilare rispetto al funzionamento delle regole del gioco economico internazionale. Era mancata una visione unitaria, un commitment da parte dei diversi paesi nel rispettare le regole del gioco e veniva quindi riconosciuta la necessità di affidare tutta una serie di dinamiche centrali per il funzionamento dell’economia internazionale non più alla volontà dei singoli paesi ma a delle organizzazioni internazionali che facendo l’interesse di tutti i paesi avrebbero dovuto vigilare affinché queste regole funzionassero. A BW si decide di creare il Fondo Monetario Internazionale (FMI) il quale è responsabile del valore delle monete, delle riserve monetarie dei singoli stati, delle politiche monetarie dei singoli stati e che vigila sullo strumento e di fatto è alla base della salute finanziaria, monetaria ed economia di ogni singolo stato, cioè della loro bilancia dei pagamenti. Il sistema monetario che viene ricreato a Bretton Woods è un sistema che, come quello precedente, è ancora basato sulla parità e stabilità del valore delle monete però il mantenimento di questo valore non è più ad appannaggio del tesoro dei singoli stati o della banca di emissione dei singoli stati ma è garanti dal FMI. Ad esempio, se un paese ha degli squilibri nella bilancia dei pagamenti, cioè ha una posizione internazionale che genera il rischio di svalutare la propria moneta, il FMI gli presta dei soldi, aiuta il paese a ritornare in equilibrio perché viene riconosciuto che se un paese venisse abbandonato a sé stesso avrebbe potuto creare dei problemi economici internazionali. Il FMI non è sufficiente perché l’ordinamento economico internazionale non si basa solo sulla moneta. Viene creata un’organizzazione multilaterale per gestire collettivamente il valore delle singole monete ma viene creata anche una banca che originariamente si chiamava International Bank for Reconstruction and Development (oggi si chiama World Bank) il cui scopo era quello di evitare uno dei principali problemi economici che aveva impedito il ripristino di un’economia efficiente dopo la 1WW: dopo la distruzione della guerra e della devastazione economica internazionale dei paesi sconfitti e vincitori, tutti i paesi per non essere un problema per l’economia internazionale e per la pace avrebbero dovuto ricevere degli aiuti per ricostruirsi, risvilupparsi economicamente e per ritrovare la via dello sviluppo. 75 La cosa importante di questa istituzione è che lo sviluppo economico internazionale passa attraverso lo sviluppo di tutti i paesi, quindi lo sviluppo economico non è più un problema semplicemente nazionale dei singoli paesi ma è un qualcosa che è riconosciuto come uno scopo generale dell’economia e delle regole del gioco internazionale. Il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Internazionale vengono effettivamente create. Nel 1945 vengono create anche le Nazioni Unite che fanno da cappello politico creando così un organismo che abbia lo scopo di tenere insieme politicamente tutti i paesi del mondo. Accanto a queste due istituzioni economiche, la terza istituzione che avrebbe dovuto essere il terzo caposaldo del sistema era l’International Trade Organization (ITO) il quale serviva ad armonizzare il commercio economico internazionale. Il suo scopo era quello di sorvegliare i tassi doganali e creare un mercato il più possibile integrato. Agiva quindi dal punto di vista delle tariffe e delle dogane e del funzionamento effettivo del mercato di ogni singola commodity. L’ITO non è mai nato e al suo posto è stato creato nel 1948 il GATT, General Agreement on Trade and Tariffs. Ma come funzionava? Nel periodo tra le due guerre, le tariffe doganali erano sempre bilaterali e attraverso una clausola si garantiva che non ci fosse discriminazione tra un paese e l’altro (nella pratica le discriminazioni c’erano eccome). Il GATT era stato creato per dire: i negoziati sulle tariffe doganali non sono più compiuti tra due paesi ma vengono negoziati tutti assieme globalmente e la riduzione delle tariffe doganali viene approvata di conseguenza e simultaneamente in tutti i paesi. Questi negoziati chiamati Round abbassavano quindi simultaneamente tutte le tariffe doganali. Queste organizzazioni servono ad avere non solo una moneta efficiente, ma anche ad avere un organismo che governa a livello centrale, multilaterale e internazionale per far sì che le convertibilità, le parità auree e la misurabilità tra le diverse monete funzioni effettivamente e che possa intervenire qualora ci fossero dei problemi. Se tutti i paesi sono membri dell’International Monetary Fund significa che tutti i paesi sono responsabili per il futuro funzionamento del sistema monetario internazionale. Il problema dello sviluppo economico è un pilastro centrale: si riconosce che senza sviluppo economico la pace non sarà mai duratura. La via verso lo sviluppo economico si può aprire solo attraverso la creazione di un’organizzazione specifica che ha lo scopo di aiutare i paesi non sviluppati a svilupparsi e quelli distrutti a mettersi in sesto E infine viene riconosciuto che anche il problema del commercio internazionale, per non creare antagonismi e dinamiche che possano ripetere lo sgretolamento del sistema economico internazionale del periodo tra le due guerre, sia da gestire anch’esso in maniera unitaria e armonizzata. Moneta, sviluppo economico e commercio internazionale vengono quindi affidate a queste organizzazioni internazionali che hanno lo scopo di gestire in maniera multilaterale questo sistema. Questo sistema pensato dagli economisti Harry D. White (US) e John M. Keynes (UK) ha però una debolezza che è rappresentata da che topo di moneta fu posta al centro del sistema stesso: se da un lato i diversi stati capirono che uno dei problemi principali della governance monetaria nel periodo tra le due guerre era la debolezza della sterlina e quindi perlomeno scartarono l’idea di rimettere la sterlina al centro del sistema, tutto sommato il vero dibattito che si scatenò tra White e Keynes era su quale tipo di moneta mettere al posto della sterlina. La proposta di Keynes era quella di creare una moneta fittizia, il Bancor, che non esisteva nella realtà, era neutrale ed era quindi veramente internazionale perché non apparteneva a nessuno stato e nessun governo e sarebbe stata gestita apposta dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale per portare stabilità. Questa idea fu però scartata perché prevalse l’ottica americana proposta da White di porre il dollaro al centro del sistema. All’epoca gli USA erano la principale potenza economica e finanziaria e il paese che durante la 2WW aveva svolto il ruolo di arsenale internazionale della democrazia e aveva il peso politico, economico e geopolitico militare per imporre questa decisione. La differenza tra il Gold Standard Exchange del 1925 e il Gold Standard Exchange deciso a Bretton Woods è che c’è il dollaro al centro del sistema al posto della sterlina, quindi tutte le monete hanno un valore fisso espresso in oro ma solo una moneta ha l’obbligo di essere sempre convertibile: il dollaro. Principi del Sistema di Bretton Woods: politici e monetari Sono le regole del gioco del sistema di BW che vengono garantite dalle organizzazioni stesse che vengono create a Bretton Woods. Lo scopo della politica economica dei diversi paesi è quello di favorire il pieno impiego e lo sviluppo economico nazionale e internazionale. Lo scopo elle politiche economiche dev’essere quello di favorire il più possibile lo sviluppo del benessere e la riduzione della disoccupazione. Il principio che viene sancito è quello di un approccio keynesiano. L’idea complessiva che regola il funzionamento di questa istituzione è quella secondo cui gli stati, i governi hanno un ruolo molto importante all’interno del funzionamento economico di ogni singolo paese. Si riconosce ai governi la legittimità di intervenire in economia per garantire e facilitare lo sviluppo economico di un paese e la riduzione della disoccupazione. Lo stato non viene più percepito come un intruso nel libero mercato, si ribalta quasi il 76 ragionamento: il mercato da solo non è in grado di garantire lo sviluppo economico e il benessere quindi lo stato deve intervenire a ridurre gli squilibri del mercato. Tuttavia, l’intervento dei diversi stati in economia non è completamente libero: gli stati devono portare avanti le proprie politiche economiche e di sviluppo rispettando le regole monetarie internazionali stabilite da BW. Quindi i diversi governi devono sì intervenire ma cercando di mantenere la parità della propria moneta all’interno del sistema economico internazionale e i cambi fissi (non possono stampare soldi quanto gli pare ecc.). La cosa innovativa che viene pensata è l’intervento di un’istituzione esterna all’economia che possa intervenire qualora uno stato sia in difficoltà rispetto alle proprie prerogative politiche: se uno stato nel portare avanti le sue politiche economiche ha delle difficoltà nella bilancia dei pagamenti per cui non ha abbastanza riserve monetarie per stampar ei soldi di cui ha bisogno interviene il FMI per prestargli dei soldi e per correggere gli squilibri della bilancia dei pagamenti (anziché dare vita a svalutazioni competitive). Il Fondo può intervenire in due casi: nel caso di uno squilibrio leggero della bilancia dei pagamenti, cioè quando le uscite complessive di un paese in un anno sono leggermente superiori alle entrate, il FMI può fare dei prestiti specifici; se lo squilibrio tra entrate e uscite diventa invece strutturale, cioè si ripete negli anni e in previsione non si può risolvere semplicemente attraverso un prestito, il FMI può autorizzare il paese a svalutare la propria moneta, cioè a stampare soldi anche se non ha tutte le riserve monetarie che gli consentono questo tipo di operazioni (le svalutazioni esistevano già da prima ma non erano controllate). Ora il valore relativo di tutte le monete diventa oggetto, anche quando cambia, di una discussione all’interno degli organi di governo del Fondo Monetario Internazionale e quindi si evita almeno fino al 1971 che ogni paese si faccia delle politiche monetarie completamente autonome. È sostanzialmente un sistema che cerca di garantire la stabilità monetaria internazionale, che tutti i paesi abbiano un tasso di convertibilità realista e facile da mantenere e che possa essere cambiato solo se si presentano dei gravi squilibri che diventano impossibili da sostenere. Questo è un tipo di approccio multilaterale: la governance economica internazionale, la serie di relazioni economiche, commerciali e monetarie che vigono nell’economia internazionale non sono più pensate come delle logiche e rapporti bilaterali tra un paese e un altro; l’economia internazionale non è pensata come una somma di relazioni bilaterali che esistono tra un paese e un altro come di fatto funzionava precedente. Ora l’idea è quella che la governance economica internazionale è lo scopo e il risulto di un indirizzo che viene deciso collegialmente, tutti assieme e in questo caso BW è stata possibile perché a differenza della governance economica del periodo tra le due guerre aveva uno scopo preciso che accomunava tutti i paesi. Lo scopo delle istituzioni nate dopo il 1919 era semplicemente “torniamo al 1800” ma non era un vero scopo in quanto tutto era cambiato a causa della guerra, degli armamenti e per colpa della distruzione del sistema monetario internazionale. Ora lo scopo comune al quale concorrono tutti i paesi che partecipano a BW e alle sue organizzazioni è quello di dare sviluppo economico e stabilità al sistema. Non è tanto l’organizzazione in sé che garantisce lo scopo, ma è l’essersi prefissati uno scopo preciso che ha reso necessario creare delle organizzazioni che facessero rispettare questo scopo. L’approccio multilaterale è dato quindi dal concorrere di (quasi) tutti i paesi ad uno scopo comune. Tutto ciò va contestualizzato: è vero che nelle istituzioni di BW partecipavano proprio tutti i paesi? Sì e no. Ci sono istituzioni realmente mondiali che riuscivano a tenere dentro anche i paesi socialisti, tipo l’ONU. Ma dal punto di vista della governance economica con la Guerra Fredda le istituzioni che erano pensate come globali in realtà diventano preposte all’orientamento economico dei paesi capitalistici occidentali mentre i paesi socialisti si incamminano verso un’altra idea di sviluppo economico. Oltre allo scopo mondiale della governance internazionale in questo stesso periodo emergono altre organizzazioni che hanno delle finalità più regionali come l’Europa: quello di BW è un mondo multipolare all’interno del quale non ci sono solo i singoli paesi che vi partecipano ma anche altre organizzazioni che si stabiliscono su base regionale e con degli scopi ancora più specifici ma che sono comunque multilaterali. Se queste organizzazioni internazionali, FMI e Banca Internazionale, continuano ad esistere anche dopo la fine di Bretton Woods, nel periodo fino al 1971 i due principi che caratterizzano le regole del gioco internazionale sono: 1. Il riconoscimento del ruolo centrale dei governi/stati all’interno dell’economia internazionale: sono istituzioni che non cercano di favorire il mercato ma lo stato in sé e la sua implicazione all’interno dell’economia. Di fatto si estendono infatti le competenze degli stati in tantissime regioni del mondo durante questo periodo. Noi di solito abbiamo una visione eurocentrica e pensiamo che le imprese statali siano una caratteristica dell’economia europea, ma sostanzialmente grazie a questo tipo di approccio che vale per tutto il mondo l’impresa pubblica/statale/che persegue non solo uno scopo economico ma anche politico nasce, si sviluppa e fiorisce anche nei paesi sottosviluppati o in via di sviluppo (in America Latina, in Africa dopo le indipendenze). Abbiamo un fiorire di un approccio economico che viene riassunto con lo slogan “in developmental states”, cioè gli stati per lo sviluppo economico il cui scopo è quello di intervenire nell’economia per garantire lo sviluppo economico che non può essere garantito dal mercato da solo. Questo approccio è possibile nei diversi paesi perché lo scopo della 77 Le imprese multinazionali L’interesse nello studiare le imprese multinazionali si può riassumere nella frase dello storico economico Robert Fitzgerald che ha pubblicato un volume sulla storia delle multinazionali, The rise of the global company, che raccoglie moltissimi casi studio. L’idea di fondo è che spesso e volentieri si considera la storia dell’economia internazionale come una serie di legami che vengono creati su base politica, quindi che hanno a che fare con le relazioni economiche, finanziare e commerciali che esistono tra governi guardando in questo modo agli attori economici come se fossero identificati con gli attori politici. Invece, studiare le imprese multinazionali ci consente di capire e analizzare le relazioni economiche internazionali e la storia dell’economia globale da una prospettiva diversa che è quella di capire che spesso e volentieri sono stati proprio questi attori economici specifici, cioè le imprese multinazionali, a favorire i collegamenti, i legami e i trasferimenti specifici di capitali, merci e know how tra paesi diversi. Le dinamiche che hanno creato la globalizzazione e plasmato l’integrazione economica internazionale sono da investigare non tanto dal punto di vista dei paesi ma dal punto di vista di attori economici che sono riusciti a creare questi legami. Cerchiamo ora di capire come funziona la creazione di questi legami, quali ne sono le cause e le conseguenze e come li possiamo concepire da un punto di vista etico e storico. The bonds between the economic and the political are too often downplayed in the accounts of international history, more concerned with states, diplomatic alliances, and wars. Yet European industrialisation and rising living standards in the 19° century incited the search for raw materials and commodities, trade and investment overseas, and imperial expansion. Cold war divisions and the economic, technological, and military hegemony of the USA shaped the workings of the post-war international economy. With the liberalisation of markets and cross-border investment from the late 20th century onward, it was multinationals that hastened and transformed the economic interdependence of countries. Questa citazione di Fitzgerald ci presenta già una periodizzazione in cui si riconosce la prima espansione delle imprese multinazionali nel XIX secolo, quando la crescita economica europea e l’aumento degli standard di vita europei che fa sì che le imprese cerchino risorse altrove. Attraverso questa ricerca di risorse altrove le imprese diventano delle multinazionali. Successivamente, dopo la 2WW gli investimenti esteri e la maniera in cui gli investimenti si indirizzavano ai diversi paesi è stata progressivamente trasformata dalla Guerra Fredda e dall’egemonia americana. Ed infine, dopo la fine di Bretton Woods nell’epoca della nuova globalizzazione le multinazionali sono diventate gli attori principali dell’integrazione economica e dei mercati e sono le imprese che in qualche maniera hanno contribuito a creare la globalizzazione nella quale viviamo che è caratterizzata dall’altissima interdipendenza dei mercati. Quando analizziamo i percorsi delle imprese multinazionali abbiamo a che fare con diversi fattori che si incrociano: la strategia delle imprese (le imprese che investono all’estero, cercheremo di capire quali sono le motivazioni che sono alla base di queste scelte); le regole del gioco (l’attività delle imprese multinazionali ha a che fare con queste) e il legame con la politica. L’analisi delle imprese multinazionali ci insegna che nella storia dell’economia tutta una serie di dinamiche che noi spesso banalizziamo come legate a relazioni di tipo politico tra paesi che in realtà sono relazioni di ordine privato tra imprese. Quando noi guardiamo per esempio a delle relazioni commerciali, al problema del trasferimento dei capitali o della conoscenza, del know how e della tecnologia ci sono naturalmente delle politiche che cercano di incentivarle o ridurle a seconda degli scopi politici dei paesi e in ultima istanza sono le imprese multinazionali il vettore di questo trasferimento. Quindi concepire il ruolo di questi attori nello sviluppo economico internazionale ci permette di capire meglio come funzionano questo tipo di trasferimenti che sono estremamente importanti nelle politiche di sviluppo economico, tecnologico e industriale degli altri paesi. Le MNE, multinational enterprises, rappresentano un legame economico che spesso avviene tra paesi con livelli di sviluppo economico diversi. Sono poche le imprese multinazionali che nel corso della storia investono da un paese con un livello di sviluppo a un altro paese con lo stesso livello di sviluppo. Spesso le imprese multinazionali sono imprese che nelle loro strategie di internazionalizzazione hanno legato paesi meno sviluppati con paesi più sviluppati creando delle asimmetrie, spesso aiutando quelli meno sviluppati o arrivando anche ad essere una delle cause del perdurare di un livello di sotto-sviluppo. 80 L’aspetto interessante è che questi attori economici sono abituati quando portano avanti delle strategie di internazionalizzazione ad avere a che fare con il problema della sincronicità delle diverse fasi dello sviluppo economico in una determinata situazione, cioè l’avere a che fare con paesi che hanno ancora un livello tecnologico e uno standard di vita che è quello che l’Europa ha già raggiunto da molti decenni. L’altro argomento centrale del corso è il legame tra imprese multinazionali e globalizzazione: le multinazionali sono un semplice risultato della globalizzazione. Le multinazionali e le loro strategie hanno avuto un effetto performativo nelle diverse fasi della globalizzazione e come attori economici hanno tratto dei benefici dall’integrazione dei mercati e dalla crescita dell’economia internazionale, ma in quanto attori particolarmente forti e performanti sono state in grado di plasmare la stessa globalizzazione. Nella globalizzazione, come abbiamo visto esistono diverse fasi, e a seconda del tipo di integrazione economica internazionale gli attori non solo si sono adattati al contesto come imprese che devono giocare su diversi livelli e paesi ma sono in qualche modo riusciti anche a plasmare le regole del gioco. Uno dei principali studiosi che si è interessato al problema delle multinazionali, Stephen Hymer, ha scritto: “While national firms operate under the rights granted by a sovereign state, the multinational is a social and political (power) structure… such powerful enterprises cannot be analysed by economics alone”. Dice che quando si studiano le imprese multinazionali non si può considerare le strategie e il tipo di organizzazione che mettono in campo solo tenendo presente delle considerazioni di natura economica perché le imprese multinazionali hanno sempre un impatto e legame anche con il livello politico, nel senso che le relazioni tra due paesi sono in grado di esercitare un’influenza nelle decisioni delle multinazionali ma anche viceversa, ovvero le multinazionali che si instaurano in paese sono in grado a loro volta di plasmare la politica di questo paese. Qui c’è un’insidia perché uno potrebbe dire che le imprese multinazionali comandano ed eserictano un potere politico diretto sui paesi nei quali investono. Ma non è così perché la caratteristica specifica delle moderne imprese multinazionali è quella sottolineata da Giovanni Arrighi: le multinazionali non detengono sia il potere economico che quello politico ma sono imprese la cui forza è quella di essere disgiunte dal potere politico. Essere disgiunte non vuole comunque dire di non essere in grado di influenzarlo o di essere influenzate. Questo ragionamento sul legame tra economia e politica è stato successivamnete analizzato e diventato oggetto di studio di Christos Pitelis e Roger Sudgen che nel volume The Nature of Transanational Firm affermano che da un punto di vista economico l’interesse nello studiare un’impresa mutlinazionale non è dato dall’estensione geografica delle proprie strategie e organizzazioni, perché se così fosse un’impresa multinazionale non sarebbe tanto diversa da un’impresa nazionale che investe all’interno dell’intero mercato geografico. L’interesse nello studiare un’impresa multinazionale è che attraversano i confini nazionali, e questo attraversare spesso ha a che fare con questioni monetarie, di trattati commerciali, di relazioni economiche tra paesi con uno sviluppo economico diverso influisce nel creare dei legami economici tra più paesi. Quindi le mulinaizonali sono un vettore portante nel creare legami economici internazionali. Perché e come le imprese decidono di investire all’estero e di diventare delle imprese multinazionali? Per rispondere a questa domanda facciamo riferimento al volume Dynamics of International Business di Andrea Colli in cui cerca di modellizzare le diverse tipologie di imprese multinazionali che esistono e quali sono le motivazioni che possono spiegare la strategia di internazionalizzazione. Le imprese possono avere delle strategie di investimento estero che hanno a che fare con la storia dell’impresa e la sua strategia complessiva, ma quando l’impresa decide di investire all’estero principalmente lo fa per due motivi: 1. Resource seeking: l’impresa è interessata non tanto al mercato ma alle risorse, alle materie prime, alle commodities, al lavoro (costo della manodopera) di un paese; 2. Market seeking: l’impresa investe in un altro paese per cominciare a vendere in quel paese, quindi per conquistare un altro mercato. L’investimento dele imprese all’estero può avvenire in diverse modalità, ma da un punto di vista economico possiamo modellizzarlo seguendo due categorie generali: 1. Investimento green-field: l’impresa si installa in un paese costruendo ex novo un’unità di produzione, una fabbrica, una rete di rivenditori commerciali; 2. Investimento brown-field: l’impresa compra un’impresa che già esiste attraverso dei processi di fusione/acquisizione e diventare proprietaria di un’impresa che esisteva già. 81 A queste due forme possiamo aggiungerne una terza che può essere sia un investimento green-field che brown-field e che ha a che fare col livello politico soggiacente: è la joint-venture. È un’impresa che è posseduta da diverse altre imprese: un’impresa multinazionale può decidere di investire in un paese da sola o di trovarsi un altro partner locale. Ci sono molti paesi in cui non si può investire direttamente da soli (Giappone o Cina oggi). Il partner locale può essere trovato per fare un nuovo investimento o per partecipare a un investimento che esisteva già. Quand’è che un’impresa decide di andare all’estero nel corso della sua storia? Quali sono le dinamiche che portano un’impresa a decidere di non concentrarsi più sul mercato nazionale ma che la spingono nei mercati internazionali? Uno dei primi economisti che si è interessato a questa questione si chiama Raymond Vernon, il quale ha definito per spiegare in modo parziale perché le imprese investono all’estero la teoria del ciclo del prodotto Secondo Vernon, le imprese diventano multinazionali perché nella loro dinamica di crescita economica saturano i mercati. La logica che porta ad investire all’estero è quella di cercare nuovi sbocchi a mano a mano che conquista il proprio mercato. Secondo Vernon quindi l’impresa all’inizio è puramente nazionale; a mano a mano conquista il mercato nazionale e lo satura; una volta che l’ha saturato comincia a esportare; una volta che il prodotto esportato attecchisce in un nuovo mercato il mercato si sviluppa, allora l’impresa investe in quel mercato e lo satura; comincia quindi ad esportare di nuovo e così discorrendo. Si parla di ciclo di vita del prodotto perché il prodotto ha un mercato che progressivamente si esaurisce e che spinge a cercare investimenti all’estero (FDI = foreign direct investment). Questo approccio però non tiene conto delle imprese che nascono multinazionali, cioè che hanno già alla base delle strategie di espansione nei mercati esteri. Un’impresa che viene da un piccolo paese potrebbe già essere incentivata a non tanto per produrre il mercato nazionale, aspettare di saturarlo per poi esportare ma potrebbe cominciare a diventare subito un’impresa multinazionale. Un esempio è la Pirelli, un’impresa italiana nata negli anni ’50 dell’Ottocento produttrice di gomma che serviva soprattutto per foderare i cavi elettrici all’inizio e poi per le automobili era sin da subito un’azienda fortemente internazionale che dal principio esporta nei vari paesi europei e poi verso la fine dell’Ottocento comincia ad investire e ad aprire delle fabbriche in Inghilterra e negli USA che erano i mercati principali per questo tipo di prodotti. Un’altra impresa è la tedesca Siemens che ha brevettato il telegrafo: il mercato tedesco era importante, esportava però soprattutto nei mercati esteri e decide di investire in Inghilterra negli anni ’60 dell’Ottocento. In questo schema, inoltre, non ci stanno dentro delle motivazioni che hanno a che fare con delle strategie di investire in un paese non tanto per il fatto di estendere le vendite ma che hanno a che fare con delle strategie per recuperare delle risorse. Tutte le imprese che hanno investito in America Latina, in Africa e in India alla fine dell’Ottocento non possono essere incluse all’interno di questo schema. Questo ci permette di ritornare sul concetto problematico del legame che esiste tra il paese di origine degli investimenti e il paese di arrivo degli investimenti. È uno schema che Vernon ha ideato soprattutto seguendo le dinamiche delle grandi imprese americane che negli anni ’60 stanno cominciando a diventare tutte delle imprese multinazionali dopo aver conquistato e saturato il mercato interno: le imprese chandleriano che hanno portato avanti delle strategie di dimensione e diversificazione, hanno progressivamente conquistato il proprio mercato nazionale e una volta che è saturato cercano altrove prima esportando e poi cominciando a produrre negli altri paesi. Tuttavia, per esportare e produrre prodotti altamente tecnologici come quelli americani negli anni Sessanta non bisogna solo che il paese di origine sia saturato, ma bisogna che ci sia anche un paese o una serie di paesi che siano di incentivo nei 82 Esempio di parametro delle opportunità: una grande multinazionale francese, la Saint Gobain, una delle imprese più antiche della Francia creata nel 1665 come impresa di stato. Nel corso dell’Ottocento era stata poi privatizzata e negli anni ‘40-‘50 ha cominciato ad esportare soprattutto in Inghilterra, negli USA e negli anni ‘50 ha comprato un concorrente tedesco ma negli anni ‘80 questa impresa ha messo a punto un modo di produrre il cristallo altamente innovativo che nessun altro concorrente era in grado di fare. Grazie a questa innovazione tecnologica, l’amministratore delegato Lucienne Delloye ha capito che la Saint Gobain poteva espandere le sue quote di mercato su scala europea e poteva sbaragliare la concorrenza delle altre grandi imprese vetrarie europee. Per aumentare la quota di mercato Delloye concepisce il foreign direct investment: per diventare un grande attore a livello europeo l’impresa deve uscire dalla Francia e deve cominciare a produrre in altri paesi. Questa idea lo condurrà ad investire in Italia nel 1889 dove apre la prima di una serie di vetrerie. La cosa interessante è che analizzando i documenti dell’impresa si nota come Lucienne Delloye prima di investire in Italia abbia preso in esame altre tre opzioni ovvero altri tre paesi interessanti in cui investire che sarebbero mercati completamente vergini privi di vetrerie concorrenti: Italia, Impero austroungarico e la Russia. Nel cercare quale paese scegliere sviluppa il parametro opportunità, cercando di capire a quanto ammontavano i rispettivi mercati e che tipo di sviluppo economico avrebbero potuto avere. La decisione propendeva già per l’Italia essendo il paese con il livello di sviluppo maggiore rispetto agli altri paesi, aveva infrastrutture migliori e prospettive nel mercato nazionale migliori rispetto agli altri paesi. Tuttavia, il fattore che alla fine ha fatto scegliere in maniera decisiva per l’Italia è stata la tariffa doganale franco-italiana del 1888 che aveva reso l’Italia non solo un paese con tanti parametri di opportunità ma anche più protetto per l’importazione, quindi in futuro sarebbe stato più difficile esportare in Italia rispetto a produrre e poi esportare da questo paese. Questo che è un caso che dimostra che funzionano esattamente nel corso della storia in questa maniera le decisioni di investimento industriale: tengono conto dei legami che esistono tra i due paesi, di quale sia il livello di sviluppo o sotto-sviluppo, delle condizioni oggettive e di come queste condizioni si possono evolvere e creare a loro volta nuovi tipi di opportunità. Un altro esempio riguarda la Singer, un’impresa di macchine da cucire. È uno dei pochi casi di impresa multinazionale americana nell’Ottocento. È un’impresa estremamente performante perché non inventa la macchina da cucire ma inventa un modello standardizzato, per cui se si rompono dei pezzi è facile reperire i pezzi di ricambio tant’è che crea all’interno del mercato americano tutta una serie di agenti commerciali e tecnici che in qualche maniera devono facilitare la diffusione del prodotto e dei pezzi di ricambio. Questo rivoluziona radicalmente il modo in cui in America si confezionano i vestiti a casa. Progressivamente Singer satura il mercato americano e negli anni Sessanta dell’Ottocento comincia a pensare ai mercati esteri: nel 1867 investe in Scozia e progressivamente si espande in tutti i mercati europei. Tuttavia, Singer si scontra con un problema fondamentale: nei paesi europei i livelli di ricchezza, di conoscenze tecniche e di capacità d’acquisto erano molto diversi rispetto a quelli statunitensi. L’immagine della slide 15, il cartello pubblicitario creato per pubblicizzare la macchina da cucire in Portogallo, ci mostra il tentativo di dialogare con la differenza relativa che esiste tra i diversi mercati in maniera caricaturale, quindi cercare di far concepire che la macchinetta sia americana però che può andare bene per tutti i paesi. Questa strategia viene progressivamente declinata attraverso, per esempio, delle vendite rateali, attraverso una produzione in Europa che costa meno rispetto alla produzione americana e l’esportazione e attraverso la creazione di venditori che non erano solo dei venditori di pezzi separati ma organizzavano anche delle scuole e dei corsi di formazione per imparare ad usare la macchina renderla un prodotto desiderabile. Questa impresa diventa quindi un’impresa multinazionale ma questo non significa che in tutti i paesi adottasse la stessa identica strategia nel vendere i suoi prodotti. Negli anni Sessanta del Novecento questa strategia di delocalizzazione, quindi una strategia mondiale con vendite all’estero ma con prodotti specifici, aveva cominciato ad esser adottata anche da altre imprese. Una delle più riuscite è l’impresa automobilistica Ford che negli anni Sessanta ha cominciato ad espandersi nei mercati europei seguendo la concezione di Vernon. Nei mercati europei però non vendeva le auto americane ma ha cominciato a pensare a una macchina specifica per i mercati europei: la Ford Fiesta. 85 86
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