Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

La Repubblica Romana: Storia, Istituzioni, Espansione e Crisi (509 a.C.-284 d.C.), Appunti di Storia Romana

Una panoramica della repubblica romana, dal suo inizio con la caduta dei re, fino alla crisi del iii secolo d.c. Verranno affrontati i principali aspetti sociali, le prime istituzioni, l'economia, la prima organizzazione militare, le prime forme di arte e cultura, lo sviluppo urbanistico, le guerre e le alleanze. La repubblica romana rappresentò una fase lunga e complessa di enormi trasformazioni per roma, che divenne la capitale di un complesso stato che governava l'italia meridionale e intraprese espansioni mediterranee in spagna, gallia e asia.

Tipologia: Appunti

2018/2019

Caricato il 19/05/2019

mariacicciol
mariacicciol 🇮🇹

1 documento

1 / 31

Toggle sidebar

Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica La Repubblica Romana: Storia, Istituzioni, Espansione e Crisi (509 a.C.-284 d.C.) e più Appunti in PDF di Storia Romana solo su Docsity! Nascita di Roma ed età regia Origini dell'Urbe (nel 753 a.C.) fino alla costruzione ed alla caduta dell'Impero romano d'Occidente (nel 476, anno in cui si colloca convenzionalmente l'inizio dell'epoca medievale). Secondo la leggenda, la fondazione di Roma a metà dell'VIII secolo a.C. si deve ai fratelli Romolo e Remo, nonostante il prevalere del primo sul secondo. La data ufficiale, 21 aprile del 753 a.C., venne stabilita da Marco Terenzio Varrone calcolando a ritroso i periodi di regno dei re capitolini. Dal punto di vista archeologico nella zona del Latium si sono osservate alcune tracce di pastorizia (suini, ovini, meno i bovini) e di modesta agricoltura. Con le prime operazioni di bonifica intorno all' età del Ferro (IX-VIII secolo a.C.) si sviluppano anche le prime coltivazioni di frumento, vite ed olivo. Si hanno alcune tombe ad incinerazione, sostituite poi nel IX secolo dalle prime sepolture; alcune tombe arcaiche mostrano poche offerte, segno di una società omogenea, ed alcuni oggetti preziosi dal secolo successivo. Ma la vera e propria città si venne formando attraverso un fenomeno di sinecismo durato vari secoli e culminato appunto alla metà dell'VIII secolo a.C. In analogia a quanto accadeva in tutta l'Italia centrale, le origini della città si devono ad una progressiva riunione in un vero e proprio centro urbano dei villaggi sorti sui tradizionali sette colli (Aventino, Campidoglio, Celio, Esquilino, Palatino, Quirinale, Viminale): si trattava di insediamenti dell'antica popolazione dei Latini, di stirpe indoeuropea (gruppo latino- falisco), già presenti dal X secolo, cui si aggiunsero genti sabine (pure di stirpe indoeuropea e appartenenti al gruppo osco-umbro), provenienti dalle montagne dell'alto Lazio, e nuclei di mercanti ed artigiani etruschi. La località presentava ampie zone pianeggianti presso il Tevere, che tuttavia erano in parte occupate da paludi e stagni. Le colline che si affacciavano sul fiume erano inoltre ricche di acque e controllavano il guado del fiume presso l'isola Tiberina, al punto di intersezione di due importanti direttrici commerciali. La prima direttrice commerciale andava dalla costa alle zone interne della Sabina lungo la valle del Tevere, ed era utilizzata per l'approvvigionamento del sale indispensabile per le economie agricolo-pastorali: corrisponde alla via Salaria di epoca storica. La seconda era rappresentata dall'itinerario che andava dall'Etruria alla Campania, su cui transitavano altre due preziose merci: il ferro e gli schiavi. Inoltre, il Tevere stesso era una via commerciale, utilizzata per il trasporto del legname proveniente dall'alta valle tiberina. Alla base della futura espansione di Roma, quindi, c'è anche la sua posizione strategica che già in età arcaica la rendeva un importante emporio commerciale. Età repubblicana Per Storia della Repubblica romana (509-264 a.C.) si intende il periodo Repubblicano di Roma, dalla caduta dei Re sotto Tarquinio il Superbo, fino alla conquista dell'Italia a sud della pianura padana. Qui verranno, quindi, affrontati i principali aspetti sociali, le prime istituzioni, l'economia del periodo, la prima organizzazione militare, le prime forme di arte, cultura, lo sviluppo urbanistico della città, ecc. La Repubblica romana rappresentò il sistema di governo della città di Roma nel periodo compreso tra il 509 a.C. ed il 31 a.C., quando l'urbe fu governata da una oligarchia repubblicana. Nacque a seguito di contrasti interni che portarono alla fine della supremazia della componente etrusca sulla città, ed al parallelo decadere delle istituzioni monarchiche. Quella della Repubblica rappresentò una fase lunga, complessa e decisiva della storia romana: costituì un periodo di enormi trasformazioni per Roma, che da piccola città stato, quale era alla fine del VI secolo a.C., divenne la capitale di un complesso Stato che governava l'intera Italia antica a sud della pianura padana. Il comando dell'esercito e il potere giudiziario, che in età regia erano prerogativa del re, in epoca repubblicana, tranne che in poche occasioni, furono assegnati a due consoli, mentre per quanto riguarda l'ambito religioso, prerogative regie furono attribuite al pontifex maximus. Con la progressiva crescita di complessità dello Stato romano si rese necessaria l'istituzione di altre cariche (edili, censori, questori, tribuni della plebe) che andarono a costituire le magistrature (vedi cursus honorum). Per ognuna di queste cariche venivano osservati tre principi: l'annualità, ovvero l'osservanza di un mandato di un anno (faceva eccezione la carica di censore, che poteva durare fino a 18 mesi), la collegialità, ovvero l'assegnazione dello stesso incarico ad almeno due uomini alla volta, ognuno dei quali esercitava un potere di mutuo veto sulle azioni dell'altro (denominato: intercessio), e la gratuità. Ad esempio, se l'esercito romano scendeva in campo sotto il comando dei due consoli, questi alternavano i giorni di comando. Mentre i consoli erano sempre due, gran parte degli altri incarichi erano retti da più di due uomini - nella tarda Repubblica c'erano 8 pretori all'anno e 20 questori. Tra i magistrati un'importante distinzione era quella tra magistrati dotati di imperium (cum imperio; ne facevano parte solo consoli, pretori e dittatori) e quelli che ne erano sprovvisti (sine imperio, tutti gli altri); ai primi erano affiancate delle speciali guardie, i littori. Il secondo pilastro della repubblica romana erano le assemblee popolari (comizi centuriati e comizi tributi), che avevano diverse funzioni, tra cui quella di eleggere i magistrati e di votare le leggi. La loro composizione sociale differiva da assemblea ad assemblea; tra queste l'organo più importante erano comunque i comizi centuriati, in cui il peso nelle votazioni era proporzionale al censo, secondo un meccanismo (quello della divisione delle fasce censitarie in centurie) che rendeva preponderante il peso delle famiglie patrizie. Ciononostante il peso della plebe veniva comunque ad essere accentuato rispetto al periodo monarchico, in cui esisteva un solo organo assembleale (i comizi curiati) costituito da soli patrizi. L'accesso della plebe all'esercito sancito dalla riforma centuriata, varata all'inizio del periodo repubblicano (dopo la Secessio plebis), spinse il ceto popolare a pretendere maggiori riconoscimenti, che nell'arco di due secoli (vedi più avanti) vide tra l'altro la costituzione della magistratura di tribuno della plebe, eletto dal concilio della plebe. Il terzo fondamento politico della repubblica era il Senato, già presente nell'età della monarchia. Costituito da 300 membri, capi delle famiglie patrizie (Patres) ed ex consoli (Consulares), aveva la funzione di fornire pareri e indicazioni ai magistrati, indicazioni che poi divennero de facto vincolanti. Approvava inoltre le decisioni prese dalle assemblee popolari. Esisteva poi la carica di dittatore, che costituiva un'eccezione all'annualità e alla collegialità. In periodi di emergenza (sempre militari) un singolo dittatore veniva eletto con un mandato di 6 mesi in cui aveva da solo la guida dello Stato. Eleggeva un suo collaboratore (che comunque gli rimaneva subordinato) detto maestro della cavalleria (Magister equitum). Caduto in disuso dopo il periodo delle grandi conquiste, il ricorso a questo incarico tornerà ad essere praticato nella fase della crisi della repubblica. Classi sociali di cittadini romani Essere cittadino romano comportava una notevolissima serie di privilegi, variabili nel corso della storia, a creare diverse "gradazioni" di cittadinanza. Nella sua versione definitiva e più piena, comunque, la cittadinanza romana consentiva l'accesso alle cariche pubbliche e alle varie magistrature (nonché la possibilità di votarle nel giorno della loro elezione), la possibilità di partecipare alle assemblee politiche della città di Roma, svariati vantaggi sul piano fiscale e, importante, la possibilità di essere soggetto di diritto privato, ossia di poter presentarsi in giudizio attraverso i meccanismi dello ius civile, il diritto romano per eccellenza. Alla base della società romana c'erano le gens ovvero gruppi di persone (clan), che condividevano lo stesso nomen gentilizio, erano per lo più composte da più familiae, a capo delle quali vi era un Pater familias. Le gens formavano a loro volta le tribù urbane e rustiche. I cittadini romani (uomini liberi) si dividevano, inoltre, in patrizi e Plebei. A loro volta i patrizi più facoltosi, avevano alle loro dipendenza una serie di Clientes, vale a dire cittadini che, per la loro posizione svantaggiata all'interno della società romana, si trovavano costretti a ricorrere alla protezione di un "patronus" o di una intera "gens" in cambio di svariati favori, talvolta al limite della sudditanza (applicatio) fisica o psicologica. Il penultimo gradino della società romana era formato dai liberti (ex-schiavi), e più sotto ancora vi erano gli schiavi. In età repubblicana, alle tribù urbane furono aggiunte anche quelle rustiche. È, inoltre, verosimile che proprio la tribù sia stata culla della consapevolezza politica della plebe, i cui magistrati, detti tribuni, avevano come significato proprio "uomini della tribù". Non è un caso che proprio dal termine "tribus" derivino il nome sia i tribuni della plebe, sia i tribuni militari. *Dopo la guerra latina (340-338 a.C.) ed il conseguente assorbimento del Latium vetus nello Stato romano (338 a.C.) si vennero a configurare colonie di diritto romano accanto a quelle di diritto latino. Ricordiamo che queste ultime erano assimilabili alle città federate con la perdita della cittadinanza originaria per tutti i colonizzatori (romani o latini che fossero) ma con diritto di commerciare liberamente e contrarre matrimonio con cittadini romani. A partire, quindi, dal 338 a.C. di ebbe la deduzione della prima colonia romana, ovvero una comunità autonoma, situata in territorio appena conquistato dai Romani, in cui erano stanziati dei cittadini romani, legata da vincoli di alleanza con la madrepatria. La più antica fu Anzio. Inizialmente servivano da avamposto per controllare un territorio che sarebbe stato ulteriormente colonizzato. Diritto, usi e costumi Nel 494 il malessere della parte più indifesa, portò i plebei ad un gesto provocatorio ovvero ritirarsi sull’Aventino sottraendo all’esercito romano cittadini-soldato. L’ambasceria di Menenio Agrippa risolse con un negoziato per cui i plebei rientrarono nella res publica a patto di avere a disposizione un’assemblea propria concilium plebis e alti magistrati da loro elegibili. Il primo cinquantennio dell'età repubblicana nel V secolo a.C. è caratterizzata solo dal regolamento dei mores in forma di massime, ma da Livio e da Dionigi d'Alicarnasso ci viene raccontato che a partire dal 462 a.C. i plebei, resosi conto che i Pontefici emanavano i mores solo in favore loro o dei patrizi, cominciarono a chiedere un'opera scritta che riassumesse l'essenza dei mores in modo tale da fermare il monopolio dei Pontefici su questi regolamenti orali, tramandati e conosciuti solo dai sacerdoti. Così con un decemvirato legislativo durato 1, 2 o 3 anni circa (le fonti sono discordanti) nel 450 a.C. fu emanata la legge delle XII Tavole, che in pratica era una raccolta di massime dei mores sino ad allora esistenti. Ma siccome l'opera era di difficile interpretazione, questa fu affidata ai pontefici. Perciò i mores erano sempre e comunque in mano a questi ultimi, che li rivelavano negli ambiti dove le XII Tavole non vigevano. Ma questo cambiò con Tiberio Coruncanio, primo pontefice plebeo: egli rivelò i rituali e come venivano emanate le XII Tavole e da qui cominciarono i primi giuristi laici. Fonti utili potevano essere anche il ius usucapionis (di Appio Claudio Cieco) e il ius Flavianum (di Gneo Flavio): il primo legis actiones riprese da archivi pontificali il secondo su rifacimento senza modifiche ma purtroppo non pervenutoci. A seguito di gravi tumulti verificatisi tra patrizi e plebei, furono emanate le leggi Licinie Sestie che rappresentano il culmine di un lungo processo storico, definito rivoluzione della plebe. Esse furono proposte dai tribuni Gaio Licinio Stolone e Lucio Sestio Laterano nel 367 a.C.. Rappresentariono il più importante e cruciale sviluppo della costituzione romana: al vertice dello Stato ci sono due consoli reintegrati completamente dopo l'abolizione dei tribuni militum consulari potestate, uno dei quali avrebbe dovuto essere plebeo (de consule plebeio). In realtà, dai dati in nostro possesso sembra piuttosto che la legge consentisse che uno dei due consoli fosse plebeo, ma non escludesse la possibilità che entrambi i magistrati fossero patrizi. Era poi riservata ai patrizi la carica di pretore (latino: praetor) che amministra la giustizia («qui ius in urbe diceret»). Viene istituita l'edilità curule. Roma e i Latini (496-494 a.C.) Roma era rimasta esclusa dalla lega delle città latine limitrofe, forse anche in virtù dell'influenza della componente etrusca della città: la ricerca di nuove terre coltivabili e di vie di comunicazione contrappose presto l'Urbe agli altri centri latini. Un nuovo equilibrio fu stabilito con il Foedus Cassianum (la data è incerta, ma non successiva al 493 a.C.), un trattato di pace stipulato tra Romani e Latini, che rimase in vigore fino al 338 a.C., conseguenza dello scontro tra le due parti, conclusosi con la Battaglia del lago Regillo, di fatto l'ultimo tentativo di Tarquinio il Superbo (e quindi della componente etrusca che a lui faceva riferimento) di rientrare nell'Urbe. Sebbene i Romani prevalsero sul campo [16], con il trattato Roma riconosceva alle città latine la loro autonomia ma si riservava il Supremo Comando in caso di guerra. Roma, padrona della penisola italica, iniziò a pensare di estendere la sua influenza anche sulla Sicilia, che rappresentava il principale e più vicino "granaio" da cui Roma si poteva approvvigionare per le sue crescenti esigenze. L'occasione di intervenire negli affari siciliani fu data ai Romani dalla richiesta di aiuto fatta dai Mamertini (mercenari campani), che si erano impadroniti di Messina, ma che poi erano stati posti sotto assedio dai Siracusani di Gerone II.[87] E se i Mamertini, in un primo momento, chiesero l'aiuto cartaginese, quando i Siracusani si ritirarono e la presenza punica si fece sempre più ingombrante, invocarono l'aiuto di Roma, la quale accettò, poiché temeva che Cartagine potesse battere Siracusa ed occupare l'intera isola. Il senato, riluttante a imbarcarsi in un'impresa tanto rischiosa, arrivò ad uno stallo e la questione venne rimessa all'assemblea popolare: qui maggiore voce in capitolo l'aveva la parte mercantile e popolare di Roma, che era anche interessata al possibile controllo delle ricchezze e delle scorte di grano in Sicilia (isola già nota per le risorse soprattutto nelle città greche), nonché alla possibilità di fondare colonie per aprire nuovi mercati e allentare la pressione sociale e demografica nella capitale. Così in assemblea fu deciso di accettare la richiesta dei mamertini. Venne posto il console Appio Claudio Caudice a capo di una spedizione militare con l'ordine di attraversare lo stretto di Messina.[88] I Cartaginesi interpretarono questo intervento come una violazione dei trattati esistenti e dichiararono guerra a Roma, dando inizio alla prima guerra punica. Dopo una prima fase di scontri terrestri, dove i Romani risultarono vincitori, Roma decise di sfidare i Cartaginesi sul mare, che ne avevano il dominio assoluto, e, approntata un'imponente flotta (con navi dotate di "corvo"), sconfisse i nemici a Milazzo (nel 260 a.C.). Nel tentativo di infliggere una sconfitta decisiva a Cartagine, il console Marco Atilio Regolo, sconfitta la flotta nemica a Capo Ecnomo (256 a.C.), sbarcò in Africa, non molto distante dalla stessa Cartagine, dove fu però sconfitto ed ucciso (nel 246 a.C.).[89] La guerra continuò negli anni successivi, con alterne fortune tra i due contendenti, fino a quando nel 241 a.C., venne approntata da Roma una nuova flotta che, guidata da Gaio Lutazio Catulo, sconfisse nuovamente i Cartaginesi nella decisiva battaglia delle isole Egadi. Sottratto ai nemici il predominio sul mare, i Romani poterono concludere anche le operazioni terrestri, sottomettendo buona parte della Sicilia (a parte Siracusa, che rimaneva indipendente) e costringendo Cartagine alla resa.[90] La guerra era così protratta per oltre vent'anni, dal 264 a.C. al 241 a.C. Cartagine fu, così, costretta a versare a Roma enormi somme (3.200 talenti euboici in 10 anni[91]) quale risarcimento per la fine della guerra, oltre alla restituzione totale di tutti i prigionieri di guerra senza riscatto.[92] La ricca Sicilia era persa e passata sotto il controllo di Roma (con il divieto per Cartagine di portare la guerra a Gerone II di Siracusa)[93] e, nell'impossibilità di pagare i mercenari libici e numidi che utilizzava, dovette subire una sanguinosa rivolta che richiese 3 anni di sforzi ed efferatezze per essere domata.[94] Approfittando di questa rivolta inoltre Roma occupò la Sardegna (238 a.C.) e la Corsica (237 a.C.),[95][96] costringendo Cartagine a dover pagare un ulteriore indennizzo di altri 1.200 talenti per evitare un riaccendersi della guerra che la città non poteva assolutamente permettersi.[97][98] Ciò venne visto come una ferita umiliante dai cartaginesi, che però non poterono far altro che accettare la sconfitta senza aver combattuto. Illiri e Celti della pianura padana (230-219 a.C.) Terminata con successo la prima guerra punica, il Senato romano dibatteva non sul "come" o sul "se" allargare la dominazione, ma sul "dove" indirizzare le capacità belliche e le incredibili risorse economiche che stavano arrivando all'Aerarium. Decise alla fine di indirizzarle in tutte le direzioni. Iniziò così la penetrazione nella Pianura Padana, per sbarrare la strada ai Liguri che cercavano la via del sud e per fermare definitivamente il pericolo dei Galli.[99] Qualche anno più tardi, dopo aver fermato un'altra invasione celtica che si era spinta fino a Chiusi in Etruria (quella dei Galli Boi e degli Insubri dell'attuale Lombardia) nella battaglia di Talamone (225 a.C.),[100] le legioni passarono all'offensiva nella pianura padana, riportando una grande vittoria presso Clastidium (nel 222 a.C.), che fu seguita dalla deduzione delle colonie di Piacenza e Cremona (nel 218 a.C.)[101] oltre alla costruzione di arterie stradali che collegassero i nuovi territori con Roma, come la via Flaminia (nel 220 a.C.). Contestualmente cercava di dare sfogo alle necessità di fornire la terra ai reduci con la creazione di varie colonie, iniziando a dar vita ad una politica che fosse attenta all'attività della regina Teuta che, alla testa dei pirati dell'Illiria, disturbava la navigazione nell'Adriatico (nel 230-229 a.C.).[103] Roma riuscì a sconfiggere i pirati illirici, sottoponendo poi buona parte dell'Illiria a tributo e cominciando la penetrazione in quel territorio. L'intervento romano fu risolutivo, poiché nell'arco di dieci anni la pirateria illirica fu debellata. [104] Questo nuovo scenario diede la possibilità a Roma di affacciarsi nella parte orientale del Mediterraneo, entrando in contatto diretto con le città-stato della Grecia, della Macedonia, della Lega etolica sottoposte in varia misura agli attacchi dei pirati e in lotta fra di loro. La seconda guerra punica (219-202 a.C.) Risolto in qualche modo il problema generato dai mercenari, Cartagine cercò una via per riprendere il suo cammino storico. Il governo della città era diviso principalmente fra il partito dell'aristocrazia terriera, capeggiato dalla famiglia degli Annone da una parte, e il ceto imprenditoriale e commerciale che faceva riferimento ad Amilcare e in genere ai Barcidi. Annone propugnava l'accordo con Roma e l'allargamento del potere cartaginese verso l'interno dell'Africa, in direzione opposta alla città rivale. Amilcare vedeva nella Spagna, dove Cartagine già da secoli manteneva larghi interessi commerciali, il fulcro economico per la ripresa delle finanze puniche. Politicamente sconfitto Amilcare, che aveva avuto un ruolo di primo piano nella repressione della rivolta dei mercenari, non ottenendo dal Senato cartaginese le navi per andare in Spagna, prese il comando dei reparti mercenari rimasti e con una marcia incredibile attraversò tutto il nordafrica fiancheggiando la costa fino allo stretto di Gibilterra. Amilcare, che era accompagnato dal figlio Annibale e dal genero Asdrubale attraversò lo stretto di Gibilterra e, seguendo la costa spagnola, la percorse verso oriente alla ricerca di nuove ricchezze per la sua città. La spedizione cartaginese prese l'aspetto di una conquista, a partire dalla città di Gades (oggi Cadice), sebbene fosse stata inizialmente condotta senza l'autorità del senato cartaginese.[107] Dal 237 a.C., anno della partenza dall'Africa al 229 a.C., anno della sua morte in combattimento, [107] Amilcare riuscì a rendere la spedizione autosufficiente dal punto di vista economico e militare, tanto da riuscire ad inviare a Cartagine grandi quantità di merci e metalli (grazie ai ricchi giacimenti di metalli della regione appena conquistata) richiesti alle tribù ispaniche come tributo. Morto Amilcare il genero ne prese il posto per otto anni e iniziò una politica di consolidamento delle conquiste.[109] Con patti e trattati si accordò con i vari popoli locali[110] e fondò una nuova città. La chiamò Karth Hadasht, cioè Città Nuova, cioè Cartagine, oggi Cartagena. Impegnati con i Galli, i Romani preferirono accordarsi con Asdrubale e nel 226 a.C., spinti anche dall'alleata Marsiglia che vedeva avvicinarsi il pericolo, stipularono un nuovo trattato che poneva l'Ebro come limite dell'espansione di Cartagine. [107] Si riconosceva così, in modo implicito, anche il nuovo territorio soggetto al controllo cartaginese. [112] La svolta si ebbe nel 221 a.C., quando Asdrubale, fu ucciso da un mercenario gallo e l'esercito cartaginese scelse all'unanimità Annibale, che aveva solo 26 anni, come suo terzo comandante in Spagna. Cartagine, una volta radunato il popolo, decise di ratificare la designazione dell'esercito. Quando nel 218 a.C. il generale punico Annibale Barca attaccò la città di Sagunto, alleata di Roma, ma a sud dell'Ebro, il Senato romano dopo alcune esitazioni dichiarò guerra a Cartagine. Era l'inizio della seconda guerra punica. Polibio contestava le cause della guerra che lo storico latino Fabio Pittore, avrebbe individuato nell'assedio di Sagunto e nel passaggio delle armate cartaginesi del fiume Ebro. Egli riteneva si trattasse soltanto di due avvenimenti che ne sancivano l'inizio cronologico della guerra, ma non le cause profonde della stessa. La guerra fu inevitabile,[120] solo che come scrive Polibio, la guerra non si svolse in Iberia [come auspicavano i Romani] ma proprio alle porte di Roma e lungo tutta l'Italia. Annibale valicò le Alpi con un potente esercito comprendente anche elefanti e attaccò Roma da Nord, sconfiggendo le legioni presso il Ticino, la Trebbia e il Trasimeno. Dopo una fase di stallo, durante la quale Roma poté riorganizzarsi, grazie alla politica attuata dal dictator Quinto Fabio Massimo, soprannominato Cunctator (temporeggiatore), le legioni romane al comando dei consoli Lucio Emilio Paolo e Gaio Terenzio Varrone subirono una pesante sconfitta contro Annibale a Canne (216 a.C.). Numerose città si alleavano con i Cartaginesi e anche la Macedonia di Filippo V scendeva in guerra contro Roma. Infatti Filippo, reso audace dalla sconfitta romana a Canne si era alleato nel 215 a.C. con Annibale, con l'intenzione di procurare uno sbocco sul mar Adriatico al suo regno. Filippo fu contrastato dall'azione del console romano Marco Valerio Levino, che riuscì a contenerne l'azione grazie soprattutto ad un sistema di alleanze con i nemici del re macedone. La guerra, che non raggiunse mai l'intensità di quella che si stava combattendo in Italia, terminò nel 205 a.C. (quindi 3 anni prima della conclusione della seconda guerra punica) con la pace di Fenice con la quale Filippo ottenne uno sbocco sull'Adriatico. Annibale però si attardò nel Sud Italia (ozi di Capua), mentre i Romani, seppure provati, poterono lentamente ricostituire le proprie forze: il console Publio Cornelio Scipione ottenne diverse vittorie sui Cartaginesi in Spagna, mentre in Italia i consoli Marco Livio Salinatore e Gaio Claudio Nerone sconfissero e uccisero il fratello di Annibale, Asdrubale, presso il Metauro, mentre si apprestava a portare rinforzi alle forze puniche in Italia. Roma riuscì ben presto a recuperare le città italiche che l'avevano tradita per allearsi con Annibale, il quale, stremato da un decennio di guerra e vistosi negare i rinforzi dalla madrepatria, fu costretto a fare ritorno in Africa nel 203 a.C., dopo che Scipione, conquistata la Penisola Iberica e ristabilita la situazione in Italia, era sbarcato nel territorio nemico per tentare di ottenere una vittoria definitiva. I due generali si scontrarono nel 202 a.C. a Zama, e l'esercito romano ottenne una sofferta ma decisiva vittoria, che costrinse Cartagine a capitolare e ad accettare le dure condizioni di pace imposte da Roma. La guerra, che si protrasse per circa un ventennio (dal 219 a.C. al 202 a.C.), può a buon diritto essere considerata una specie di "guerra mondiale". Fu combattuta principalmente nei territori dell'Italia meridionale ma vide pesantemente coinvolte anche la Spagna e il territorio metropolitano di Cartagine. Inoltre vennero coinvolte le diplomazie di quasi tutto il Mar Mediterraneo dalla Numidia di Siface e Massinissa fino alle dinastie che reggevano l' Egitto, la Siria, i vari staterelli dell'Anatolia, la Grecia e la Macedonia di Filippo V. Seppure alla fine vincitrice, Roma pagò comunque a caro prezzo il lungo conflitto contro Annibale. I Romani vissero per anni nell'incubo di una guerra interminabile e di un nemico alle porte che sembrava inafferrabile. Lo sforzo bellico fu pesantissimo, sul piano economico e civile: per anni intere regioni italiche furono saccheggiate e devastate dalle continue operazioni militari, con danni enormi per l'agricoltura e per i commerci, che a lungo restarono bloccati, per la pressione di Galli a nord e la presenza di Annibale a sud. Tutto ciò senza contare il pesantissimo bilancio in termini di vite umane. Nei 17 anni di guerra morirono circa 300.000 italici su una popolazione che, dopo la secessione delle regioni meridionali, era di soli 4 milioni di abitanti circa, mentre il potenziale umano mobilitato da Roma per la guerra raggiungerà in alcuni anni il 10% della popolazione, senza scendere mai sotto al 6-7%, tutte cifre che si avvicinano molto, in termini percentuali, a quelle registrate durante la prima guerra mondiale.[122] La sottomissione della Gallia Cisalpina (219-175 a.C.) Per la prima volta l'esercito romano poteva spingersi oltre il Po, dilagando in Gallia Transpadana: la battaglia di Clastidio, nel 222 a.C., valse a Roma la presa della capitale insubre di Mediolanum (Milano). Per consolidare il proprio dominio Roma creò le colonie di Placentia, nel territorio dei Boi, e Cremona in quello degli Insubri. I Galli dell'Italia settentrionale si ribelleranno nuovamente in seguito alla discesa di Annibale. Dopo la sconfitta di quest'ultimo a Zama (nel 202 a.C.), vennero definitivamente sottomessi da Roma. I Celti o Galli , che si erano sollevati contro Roma durante la seconda guerra punica, non avevano infatti deposto le armi neppure dopo la sconfitta di Zama. Quando nel 200 a.C. i Galli in rivolta si impadronirono della colonia di Piacenza e minacciarono Cremona, Roma decise di intervenire in forze. Nel 196 a.C. Scipione Nasica vinse gli Insubri, nel 191 a.C. furono piegati i Boi, che controllavano una vasta zona tra Piacenza e Rimini. Superato il fiume Po, la penetrazione romana proseguì pacificamente: le popolazioni locali, Cenomani e Veneti, si resero conto che Roma era l'unica in grado di proteggerli dagli assalti delle altre tribù confinanti. Attorno al 191 a.C. la Gallia Cisalpina venne definitivamente occupata. L'avanzata continuò anche nella parte nord-orientale con la fondazione della colonia romana di Aquileia nel 181 a.C., come ci raccontano gli autori antichi,[123] nel territorio degli antichi Carni. Nel 177 a.C. venne, infine, sottomessa l'Istria e nel 175 a.C. vennero soggiogati anche i Liguri Cisalpini. Pochi decenni più tardi, lo storico greco Polibio poteva personalmente testimoniare la rarefazione dei Celti in pianura padana, espulsi dalla regione o confinati in alcune limitate aree subalpine. Espansione in Oriente: Grecia, Macedonia e Asia Minore fino alla fine di Cartagine (200-146 a.C.) Ormai potenza egemone del Mediterraneo occidentale, Roma volse le sue mire espansionistiche a danno degli stati ellenistici dell'Oriente: nel 200 a.C., gli abitanti di Rodi e Pergamo inviarono a Roma, sentendosi minacciati dalla Macedonia di Filippo V, una richiesta di aiuto, e l'Urbe, inviato a sua volta un ultimatum a Filippo, decise di intervenire . Nel 197 a.C. il console Tito Quinzio Flaminino inflisse alle truppe macedoni una sconfitta definitiva presso Cinocefale , ed un anno più tardi proclamò ufficialmente la liberazione della Grecia dall'egemonia macedone. Sconfitta Cartagine, Filippo e la Macedonia erano divenuti il nemico principale della nuova potenza romana, che guardava con sospetto al re macedone che nel 203 a.C. si era alleato con il re di Seleucidi Antioco III. Il pretesto per la seconda guerra macedone fu la richiesta d'aiuto rivolta ai Romani da Attalo e i Rodiesi, alleatisi per contrastare le mire egemoniche dei Macedoni e dei Siriani; nel 200 a.C. Roma inviò un ultimatum a Filippo, che lo respinse. Roma, che era uscita molto provata dalla guerra contro Cartagine, non era però in grado di fronteggiare da sola il nuovo fronte di guerra, per cui cercò di procurarsi degli alleati, con scarsi risultati, tra i nemici greci del re macedone. Dopo alcune battaglie, si giunse al 197 a.C. quando i Romani guidati da Tito Quinzio Flaminino si scontrarono contro i Macedoni nella battaglia di Cinocefale dove Filippo fu duramente sconfitto e costretto ad accettare le pesanti condizioni di pace imposte dai Romani. Nel 196 a.C. Flaminino proclamò la libertà della Grecia e nel 194 a.C. lasciò la Grecia insieme alle legioni, nella convinzione che la regione avesse trovato un suo equilibrio. Ma il nuovo status quo imposto dai Romani fu messo alla prova quando la Lega etolica, già alleata dei romani durante la seconda guerra macedonica, a causa delle pesanti condizioni di pace imposte a tutta la Grecia dai romani richiese l'aiuto di Antioco III il Grande per liberare l'Ellade dalla tirannia romana. Fu l'inizio della guerra romano-siriaca, che si combatté tra il 191 e il 188 a.C. e che vide la vittoria romana. Come conseguenza tutti i territori anatolici ad ovest del fiume Tauro entrarono nella sfera di influenza romana. La regione non era però ancora stata pacificata del tutto: nel 171 a.C. il figlio e successore di Filippo, Perseo di Macedonia, riprese ad attuare una politica espansionistica ai danni di alcune tribù balcaniche alleate di Roma, provocando lo scoppio della terza guerra macedone. E se inizialmente Roma preferì non intervenire, nel 168 a.C. il console Lucio Emilio Paolo affrontò e sconfisse la falange macedone di Perseo nella battaglia di Pidna. Dopo la sconfitta, il sovrano, tentata invano la fuga, si consegnò al nemico, mentre la Macedonia fu divisa in quattro repubbliche subalterne e tributarie a Roma. Nel 150 a.C. era spuntato in Macedonia un certo Andrisco, che affermando di essere figlio di Perseo e di voler ricostruire il regno macedone, aveva radunato attorno a sé un esercito. Dopo degli iniziali successi, Andrisco fu battuto dal console Quinto Cecilio Metello nel 148 a.C. e costretto a riparare in Tracia. Nel 146 a.C. la Macedonia divenne una provincia romana, che includeva anche Epiro e Tessaglia. Nel 146 a.C., infine, i Romani rasero al suolo Corinto. Fine della potenza cartaginese (149-146 a.C.) Intanto Cartagine, dopo la sconfitta di Annibale, aveva dovuto cedere ai Romani le redditizie conquiste in Spagna, stava pagando pesanti indennità (200 talenti d'argento annui per 50 anni) ed era stata pure costretta a prestare un contingente alle forze di Roma nelle guerre contro Antioco III, Filippo V e Perseo. La relativa decadenza dello Stato cartaginese era mitigata, tuttavia, dalla ripresa del commercio, in cui i cartaginesi erano maestri, inoltre un nuovo impulso era stato dato all'agricoltura ed in particolare alle coltivazioni di ulivo e vite. Tale ripresa allarmò Roma, in cui era presente un partito che propugnava la completa distruzione della rivale africana: tra i fautori di una nuova guerra contro Cartagine c'era Catone il Censore, che terminava tutti i suoi discorsi con la famosissima frase "Ceterum censeo Carthaginem delendam esse" (Inoltre ritengo che Cartagine vada distrutta). Il pretesto che portò alla terza guerra punica, fu dato ai Romani da Massinissa, che da tempo stava aumentando la propria sfera di influenza a danno di Cartagine. Per due volte Cartagine chiese l'intervento dei Romani per fermare le azioni dello scomodo vicino, ma in entrambe le occasioni Roma decise semplicemente di non intervenire. Nel 150 a.C. Cartagine decise di reagire ai continui attacchi dei numidi, ben sapendo di contravvenire alle condizioni di pace imposte dai Romani. Infatti questa azione fu presa a pretesto dai Romani per dichiarare guerra a Cartagine l'anno successivo. Il senato, infatti, sobillato da Catone il Censore, decise di attaccare Cartagine, e nel 147 a.C. si risolse ad inviare in Africa il console Publio Cornelio Scipione Emiliano, che, dopo un lungo assedio, nel 146 a.C. espugnò e rase al suolo la città. La guerra era durata tre anni, dal 149 a.C. al 146 a.C., fu combattuta sul suolo africano e si concluse con la definitiva sconfitta dei cartaginesi. Cartagine fu completamente rasa al suolo e su questo fu sparso il sale in modo che non vi potesse più crescere niente. Nuovo espansionismo mediterraneo: Spagna, Gallia Narbonense e Asia (133-121 a.C.) Dopo avere costretto alla resa definitiva cartaginesi e macedoni, Roma decise di risolvere una volta per tutte anche la questione spagnola, che si trascinava da diversi decenni, ovvero da quando nel 197 a.C., dopo la Seconda guerra punica, i Romani avevano suddiviso il territorio in due province, la Spagna citeriore (Hispania Citerior) e la Spagna ulteriore (Hispania Ulterior), con capitali, rispettivamente, Tarragona e Cordova. Il malgoverno sfrenato e lo spietato sfruttamento provocarono una violenta rivolta che si estese anche alle popolazioni confinanti dei Lusitani e dei Celtiberi e che, dopo esiti alterni e battaglie cruente con costi enormi in uomini e denaro, venne infine risolta con l'uccisione del capo dei Lusitani Viriato (139 a.C.) e con la presa per fame della roccaforte dei Celtiberi, Numanzia, nel 133. a.C. Circostanze assai strane portarono, invece, nel 133 a.C. all'annessione del regno di Pergamo, che fu poi nel 129 a.C. ridotto a provincia (i Romani la chiamarono provincia d'Asia). Il re Attalo III aveva lasciato in eredità il proprio regno a Roma, ma occorsero tre anni prima che i Romani potessero dominare direttamente quel territorio, dato che sotto la 80.000 tra cittadini romani e non, furono massacrati nelle due ex-province romane d'Asia e Cilicia (episodio noto come Vespri asiatici). La situazione precipitò ulteriormente, quando a seguito delle ribellioni nella provincia asiatica, insorse anche l'Acaia contro Roma.[141] Il re del Ponto appariva ai loro occhi come un liberatore della grecità, quasi fosse un nuovo Alessandro Magno. Con l'arrivo di Lucio Cornelio Silla in Grecia nell'87 a.C. le sorti della guerra contro Mitridate cambiarono a favore dei Romani. Espugnata prima Atene ed il Pireo, il comandante romano ottenne due successi determinanti ai fini della guerra, prima a Cheronea, dove secondo Tito Livio caddero ben 100.000 armati del regno del Ponto, ed infine ad Orcomeno. Contemporaneamente, agli inizi dell'85 a.C., il prefetto della cavalleria, Flavio Fimbria, a capo di un secondo esercito romano, si diresse anch'egli contro le armate di Mitridate, in Asia, uscendone più volte vincitore, riuscendo a conquistare la nuova capitale di Mitridate, Pergamo,[159] e poco mancò che non riuscisse a far prigioniero lo stesso re.[160] Intanto Silla avanzava dalla Macedonia, massacrando i Traci che sulla sua strada gli si erano opposti. Dopo una serie di trattative iniziali, Mitridate e Silla si incontrarono a Dardano, dove si accordarono per un trattato di pace, che costringeva Mitridate a ritirarsi da tutti i domini antecedenti la guerra, [162] ma ottenendo in cambio di essere ancora una volta considerato "amico del popolo romano". Un espediente per Silla, per poter tornare nella capitale a risolvere i suoi problemi personali, interni alla Repubblica romana. Nel 74 a.C. divenne provincia romana la Bitinia (Bythinia), quando Nicomede IV lasciò anch'egli in eredità allo stato romano, il proprio regno. Pochi anni più tardi (nel 63 a.C.), al termine della terza guerra mitridatica, la sconfitta del regno del Ponto portò alla creazione di una nuova nuova provincia (Bythinia et Pontus che univa i territori dei due regni ora sotto il dominio romano), grazie alle campagne militari condotte nell'area, da Lucio Licinio Lucullo (dal 74 al 67 a.C.). E mentre Lucullo era ancora impegnato con Mitridate e Tigrane II, Gneo Pompeo Magno riusciva nel 67 a.C. a ripulire l'intero bacino del Mediterraneo dai pirati, strappando loro l'isola di Creta, le coste della Licia, della Panfilia e della Cilicia, dimostrando straordinaria disciplina ed abilità organizzativa. La Cilicia vera e propria (Trachea e Pedias), che era stata covo di pirati per oltre quarant'anni, fu così definitivamente sottomessa. In seguito a questi eventi la città di Tarso divenne la capitale dell'intera provincia romana. Furono poi fondate ben 39 nuove città. La rapidità della campagna indicò che Pompeo aveva avuto talento, come generale, anche in mare, con forti capacità logistiche. Fu allora incaricato Pompeo di condurre una nuova guerra contro Mitridate VI re del Ponto, in Oriente (nel 66 a.C.), grazie alla lex Manilia, proposta dal tribuno della plebe Gaio Manilio, ed appoggiata politicamente da Cesare e Cicerone. Questo comando gli affidava essenzialmente, la conquista e la riorganizzazione dell'intero Mediterraneo orientale, avendo il potere di proclamare quali fossero i popoli clienti e quali quelli nemici, con un potere illimitato mai prima d'ora conferito a nessuno, ed attribuendogli a tutte le forze militari al di là dei confini dell'Italia romana. Seguirono altri anni di guerra nell'area (dal 66 al 63 a.C.), al termine dei quali Pompeo, tornato quindi nella nuova nuova provincia di Siria, dopo aver sottomesso anche i Giudei, si apprestò a riorganizzare l'intero Oriente romano, gestendo al meglio le alleanze che vi gravitavano attorno (si veda Regno cliente). Nella nuova riorganizzazione, fu trovato un accordo tra la Repubblica ed il regno dei Parti, secondo il quale, il fiume Eufrate avrebbe costituito, d'ora in poi, il confine tra i due stati; lasciò a Tigrane II l' Armenia; a Farnace il Bosforo; ad Ariobarzane la Cappadocia ed alcuni territori limitrofi; ad Antioco di Commagene aggiunse Seleucia e parti della Mesopotamia che aveva conquistato; a Deiotaro, tetrarca della Galazia, aggiunse i territori dell'Armenia Minore, confinanti con la Cappadocia; fece di Attalo il principe di Paflagonia e di Aristarco quello della Colchide; nominò Archelao sacerdote della dea venerata a Comana; ed infine fece di Castore di Phanagoria, un fedele alleato e amico del popolo romano. Il proconsole romano decise, inoltre, di fondare alcune nuove città, come Nicopoli al Lico in Armenia Minore, chiamata così in ricordo della vittoria ottenuta su Mitridate; poi Eupatoria, costruita dal re pontico ed intitolata a sé stesso, ma poi distrutta perché aveva ospitato i Romani, che Pompeo ricostruì e rinominò Magnopolis. In Cappadocia ricostruì Mazaca, che era stata completamente distrutta dalla guerra. Restaurò poi molte altre città in molte regioni, che erano state distrutte o danneggiate, nel Ponto, in Palestina, Siria Coele ed in Cilicia, dove aveva combattuto la maggior parte dei pirati, e dove la città, in precedenza chiamata Soli, fu ribattezzata Pompeiopolis. Per questi successi il Senato gli decretò il meritato trionfo il 29 settembre del 61 a.C. e fu acclamato da tutta l'assemblea con il nome di Magnus. Pompeo non solo era riuscito a distruggere Mitridate (nel 63 a.C.), ma anche a battere Tigrane il grande, re di Armenia, con cui in seguito fissò dei trattati. Pompeo impose una riorganizzazione generale ai re delle nuove province orientali, tenendo intelligentemente conto dei fattori geografici e politici connessi alla creazione di una nuova frontiera di Roma in oriente. Le ultime campagne militari avevano così ridotto il Ponto, la Cilicia campestre, la Siria (Fenicia, Coele e Palestina) a nuove province romane, mentre Gerusalemme era stata conquistata. La provincia d'Asia era stata a sue volta ampliata, sembra aggiungendo Frigia, parte della Misia adiacente alla Frigia, in aggiunta Lidia, Caria e Ionia. Il Ponto fu quindi aggregato alla Bitinia, venendo così a formare un'unica provincia di Ponto e Bitinia. Rivolta di Spartaco (73 a.C.-71 a.C.) La situazione politica si caratterizzava da una costante instabilità, favorita dai continui contrasti tra la fazione dei populares e quella degli optimates: dopo la guerra civile tra l'homo novus Mario e l'aristocratico Silla e la successiva dittatura sillana, si era consolidato il predominio della fazione aristocratica, divenuta sempre più la padrona incontrastata del senato e della politica romana.[181] [182] Da questa situazione di conflitto si sviluppò nell'80 a.C. la rivolta del popolare Quinto Sertorio: egli radunò attorno a sé i seguaci mariani sfuggiti alle proscrizioni di Silla e si rifugiò in Hispania, dove ottenne l'alleanza dei Lusitani, mai realmente sottomessi all'autorità di Roma. Contro lo Stato ribelle organizzato da Sertorio grazie al continuo afflusso di "perseguitati politici" da Roma fu inviato, nel 76 a.C., Gneo Pompeo, che poté avere la meglio solo quando la confederazione guidata da Sertorio si sfaldò, nel 72 a.C.[183] Contemporaneamente, i Romani erano impegnati a Oriente nella terza guerra contro Mitridate VI del Ponto, condotta dal generale Lucio Licinio Lucullo:[184] il duplice impegno militare riduceva di fatto la presenza di truppe in Italia, rendendo l'esercito inadeguato e permettendo l'iniziale successo della rivolta guidata da Spartaco. Altro stimolo alla rivolta da parte degli schiavi (rivolta peraltro generale più che regionale, al contrario della prima e della seconda guerra servile) fu certamente il successo e l'inquietudine sociale dei popoli italici (che, in precedenza, erano sempre stati considerati solo federati),[186] i quali erano riusciti ad ottenere, a prezzo di una lunga e sanguinosa "guerra interna" durata ben tre anni (91-88 a.C.), un'estensione dei diritti di cittadinanza. L'agricoltura su vasta scala nella penisola italiana dipendeva, inoltre, dallo sfruttamento degli schiavi nelle grandi proprietà terriere (latifundia). Le brutali condizioni in cui gli schiavi venivano tenuti fu spesso causa di feroci e pericolose rivolte, che già nei decenni precedenti alla rivolta di Spartaco avevano causato diversi problemi ai Romani, soprattutto in Sicilia (guerre servili). Spartaco era uno schiavo della Tracia, e venne addestrato come gladiatore. Nel 73 a.C., assieme ad alcuni compagni, si ribellò a Capua e fuggì verso il Vesuvio. Il numero di ribelli crebbe rapidamente fino a 70.000, composti principalmente di schiavi traci, galli e germanici. Inizialmente, Spartaco e il suo secondo in comando Crixus riuscirono a sconfiggere diverse legioni inviate contro di loro. Una volta che venne stabilito un comando unificato sotto Marco Licinio Crasso, che aveva sei legioni, la ribellione venne schiacciata nel 71 a.C. Circa diecimila schiavi fuggirono dal campo di battaglia. Gli schiavi in fuga vennero intercettati da Pompeo, aiutato dai pirati che, inizialmente, avevano promesso loro di trasportarli verso la Sicilia salvo poi tradirli, presumibilmente in base ad un accordo con Roma, che stava ritornando dalla Spagna, e 6.000 vennero crocifissi lungo la Via Appia, da Capua a Roma. Pompeo e Crasso seppero cogliere appieno i frutti politici della loro vittoria sui ribelli; entrambi tornarono a Roma con le loro legioni, rifiutandosi di scioglierle e accampandosi appena fuori dalle mura della città.[188] I due generali si candidarono al consolato per l'anno 70 a.C., anche se Pompeo non era eleggibile a causa della sua giovane età e del fatto che non aveva ancora servito come pretore o questore, come richiedeva, invece, il cursus honorum.[189] Cionondimeno, entrambi furono eletti, anche a causa della minaccia implicita rappresentata dalle legioni in armi accampate fuori dalla città. Gli effetti della terza guerra servile sull'atteggiamento dei Romani verso la schiavitù e sulle relative istituzioni sono più difficili da determinare. Certamente la rivolta aveva scosso il popolo romano, che «a causa della grande paura sembrò iniziare a trattare i propri schiavi meno duramente di prima». [191] I ricchi possessori di latifundia iniziarono a ridurre il numero di schiavi impiegati nell'agricoltura, scegliendo di impiegare come mezzadri alcuni degli ex-piccoli proprietari terrieri spossessati.[192] Più tardi, terminate la conquista della Gallia ad opera di Gaio Giulio Cesare nel 52 a.C. e le altre grandi conquiste territoriali operate dai Romani fino al periodo del regno di Traiano (98-117), si interruppero le guerre di conquista contro nemici esterni, e con esse cessò l'arrivo in massa di schiavi catturati come prigionieri. Si incrementò, al contrario, l'impiego di lavoratori liberi in campo agricolo. Anche la condizione legale e i diritti degli schiavi romani iniziarono a mutare. Più tardi, durante il regno dell'imperatore Claudio (41-54), fu promulgata una costituzione che considerava omicidio e puniva l'assassinio di uno schiavo anziano o ammalato, e che dava la libertà agli schiavi abbandonati dai loro padroni. [193] Durante il regno di Antonino Pio (138-161), i diritti degli schiavi furono ulteriormente allargati, e i padroni furono ritenuti direttamente responsabili dell'uccisione dei loro schiavi, mentre gli schiavi che dimostravano di essere stati maltrattati potevano forzare legalmente la propria vendita; fu contemporaneamente istituita un'autorità teoricamente indipendente cui gli schiavi si potevano appellare. [194] Sebbene questi cambiamenti legali abbiano avuto luogo molto tempo dopo la rivolta di Spartaco per poterne essere considerati le dirette conseguenze, sono nondimeno la traduzione in legge dei cambiamenti dell'atteggiamento dei Romani nei confronti degli schiavi evolutosi per decenni. Province in età repubblicana Il termine provincia, dopo gli ampliamenti del territorio della Repubblica tra la fine del III e il II secolo a.C., passò gradualmente a significare non più la sfera di competenza di un magistrato, ove egli potesse dispiegare il suo imperium (potere), ma il territorio sottomesso sul quale questi esercitava i propri poteri, al di fuori dell'Italia romana. [1] L'organizzazione dei nuovi territori annessi alla res publica romana veniva normalmente realizzata dal generale che li aveva conquistati, per mezzo di una lex provinciae ("legge della provincia" per la "redactio in formam provinciae" o "costituzione in forma di provincia"), emanata sulla base dei poteri che gli erano stati delegati con l'elezione alla carica, oppure da un autorevole esponente del senato insieme all'ausilio di una commissione di dieci/cinque altri senatori. La legge doveva, quindi, essere ratificata dal Senato, che poteva inoltre inviare delle commissioni di legati con poteri consultivi. La legge poteva stabilire l'ordinamento definitivo. Il suo contenuto riguardava contenuti assai ampi: la struttura interna della provincia, suddivisa in circoscrizioni amministrative (spesso denominate conventus); [1] il regime del suolo e il grado di autonomia delle città esistenti (soggette a seconda dei casi, alla giurisdizione del governatore provinciale); le forme di imposizione e il livello di tributo; eventuali limitazioni dei suoi abitanti (es. ius connubii o ius commercii); la composizione dei senati locali; la compatibilità tra lo status dei cittadini e la cittadinanza romana.[2] Non sempre tuttavia la legge seguiva immediatamente alla conquista, soprattutto per le province annesse in epoca più antica. Le province erano governate da magistrati appositamente eletti (pretori) o da consoli o pretori di cui veniva prolungata la carica (prorogatio imperii o "prolungamento del comando": proconsoli e propretori), coadiuvati per l'amministrazione militare e civile dai questori e da numerosi altri funzionari (cohors praetoria)[3] . Nel periodo iniziale vennero considerate soprattutto territori di conquista e sottoposte a tributo (vectigal) e allo sfruttamento economico. Le condizioni dei sudditi erano tuttavia piuttosto varie, a seconda delle diverse condizioni di partenza e soprattutto nei casi in cui l'ampliamento territoriale era avvenuto in via pacifica, come per i testamenti regali che portarono all'acquisizione del regno di Pergamo, della Cirenaica, della Bitinia e dell'Egitto e nei quali si prevedeva il rispetto delle precedenti autonomie cittadine. Le città conservarono in grado variabile la propria autonomia (spesso in relazione all'atteggiamento tenuto nei confronti del vincitore): civitates stipendiariae ("città stipendiarie") liberae ("libere"), o liberae et immunes ("libere ed esenti da imposta"), in entrambi i casi per concessione, sempre revocabile, da parte di Roma, o foederatae ("alleate") in forza di un patto. A queste si aggiunsero le colonie di cittadini romani o italici. L'organizzazione territoriale si articolava sulle città già esistenti, soprattutto nelle province orientali, mentre nelle province occidentali, dove le città erano più scarse, il territorio venne inizialmente articolato in distretti rurali, a fini essenzialmente tributari. La successiva fondazione sistematica di colonie e la concessione ad altre città dello status di municipio, favorì la romanizzazione dei territori conquistati. Il governatore esercitava un potere assoluto (imperium) militare, amministrativo, finanziario e giuridico, sia penale che civile. La provincia era suddivisa in distretti giudiziari (conventus o diocesi), ciascuno con il proprio capoluogo: inizialmente si trattò delle tappe dell'itinerario che il governatore seguiva all'interno del territorio di sua competenza per esercitarvi le proprie funzioni giudiziarie. All'inizio del proprio mandato, il governatore emanava un "editto provinciale", nel quale venivano fissati i modi della gestione delle proprie competenze, forse estensione ai cittadini romani residenti nella provincia del simile editto del pretore urbano. Anche la proprietà del suolo e i modi dell'esazione tributaria variavano a seconda della situazione presente all'atto della conquista. Solo una parte del territorio veniva annessa direttamente come ager publicus populi romani e il suo sfruttamento era appaltato alle società di pubblicani (societates publicanorum), a cui più tardi venne appaltata anche la raccolta delle imposte. A partire dalla seconda metà del II secolo a.C. l'iniziale linea politica di conservazione dello status quo e di neutralità formale viene progressivamente a modificarsi, in particolare in relazione con le lotte politiche romane e con il desiderio dei contendenti di creare un centro di potere personale attraverso il governo provinciale. Cronologia dell'istituzione delle province in epoca repubblicana • Sicilia (Sicilia): annessa come provincia nel 241 a.C. e con vari mutamenti di ordinamento fino alla lex Rupilia del 131 a.C. • Sardegna e Corsica (Sardinia et Corsica): costituita dalla Sardegna, annessa nel 237 a.C. e dalla Corsica, annessa lo stesso anno. • Spagna Citeriore (Hispania Citerior) e Spagna Ulteriore (Hispania Ulterior): annesse nel 218 a.C. e ufficialmente costituite come province nel 197 a.C. Le province ispaniche saranno diversamente riorganizzate dopo la definitiva pacificazione di tutta la penisola iberica sotto Augusto nel 27 a.C. • Macedonia (Macedonia): conquistata nel 168 a.C. (battaglia di Pidna) e inizialmente divisa in quattro "repubbliche" formalmente indipendenti (con capitali Anfipoli, Tessalonica, Pella e Pelagonia) e costituita quindi come provincia nel 148 a.C. Dopo la conquista di Corinto nel 146 a.C., anche parte della Grecia venne probabilmente annessa alla nuova provincia di Macedonia, mentre la provincia separata (con il nome di Acaia, o Achaea) venne creata solo sotto Augusto (27 a.C.). • Africa (Africa): creata nel 146 a.C. dopo la distruzione di Cartagine e in seguito ampliata con parti del regno di Numidia. • Asia (Asia): creata nel 133 a.C. dopo la morte di Attalo III di Pergamo, che aveva lasciato in eredità allo stato romano il suo regno, ampliato con i territori ceduti dai Seleucidi dopo la pace di Apamea (188 a.C.). • Gallia Transalpina (Gallia Transalpina): il territorio da Tolosa alle Alpi fu annesso intorno al 121 a.C. (e al 118 a.C. risale la fondazione della colonia di Narbona e il nuovo nome della provincia come (Gallia) Narbonense ((Gallia) Narbonensis). • Gallia Cisalpina (Gallia Cisalpina): dopo la progressiva conquista del territorio e deduzione di colonie nel corso del III e II secolo a.C. la costituzione in provincia dovette avvenire poco dopo il conferimento della cittadinanza agli abitanti dell'Italia peninsulare nel 90 a.C. Nel 42 a.C. la provincia fu abolita e i confini settentrionali dell'Italia vennero portati ufficialmente alle Alpi. • Cirene e Creta (Cyrene et Creta): nel 96 a.C. Tolomeo Apione, figlio di Tolomeo VII, lasciò il proprio regno di Cirenaica in eredità allo stato romano e la costituzione in provincia avvenne nel 74 a.C. Nel 67 a.C. venne annessa anche Creta e sotto Augusto nel 27 a.C. le due province vennero riunite. • Bitinia e Ponto (Bythinia et Pontus): nel 74 a.C. Nicomede IV lasciò in eredità allo stato romano il proprio regno di Bitinia; dopo la terza guerra mitridatica e la sconfitta del Ponto Pompeo creò la nuova provincia nel 63 a.C. • Cilicia e Cipro (Cilicia et Cyprus): secondo alcune opinioni la Cilicia era stata già annessa dal 101 a.C.-100 a.C., ma venne creata probabilmente come provincia solo dopo il 67 a.C. da Pompeo. Dal 58 a.C. vi fu annessa anche l'isola Cipro in seguito al discusso testamento di Tolomeo Alessandro (morto nell'88 a.C.). Nel 36 a.C. fu soppressa da Marco Antonio e ricreata dopo la battaglia di Azio del 31 a.C. Le due province furono divise sotto Augusto nel 22 a.C. • Siria (Syria): deposto l'ultimo sovrano seleucide, Antioco XIII, Pompeo creò la nuova provincia nel 64 a.C. La Lex Pompeia de Transpadanis è un provvedimento preso dal console Gneo Pompeo Strabone nell'89 a.C., riguardante le comunità italiche a nord del Po (e probabilmente anche alcune liguri a sud del fiume) alleatesi a Roma durante la Guerra sociale. Essa concede a tali comunità il Diritto latino (ius Latii), cioè tramuta le loro terre in colonie latine, senza deduzione di nuovi coloni, ma concedendo ai suoi abitanti alcuni vantaggi giuridici legati al nuovo status (per esempio i magistrati locali possono acquisire la cittadinanza romana). Tale provvedimento segue la Lex Plautia Papiria (89 a.C.), che ha gli stessi contenuti della Lex Pompeia de Transpadanis, ma concerne le popolazioni a sud del Po. Queste due leggi completano il processo di immissione dei novi cives provenienti dalle comunità italiche alleate a Roma nella guerra sociale. oppositori di Cesare, che portarono alla confisca dei beni e all'uccisione di un gran numero di senatori e cavalieri, tra cui lo stesso Cicerone che pagò le Filippiche rivolte contro Antonio. Si preparò nel contempo la guerra contro Bruto e Cassio e i cesaricidi. Nell'ottobre del 42 a.C. Antonio e Ottaviano, lasciato Lepido al governo della capitale, si scontrarono con i cesaricidi Marco Giunio Bruto e Gaio Cassio Longino e li sconfissero in due scontri a Filippi, nella Macedonia orientale. I due anticesariani trovarono la morte suicidandosi. Ottaviano, Antonio e Lepido trovandosi padroni, ora, dei territori orientali procedettero ad una nuova spartizione delle province: a Lepido furono lasciate la Numidia e l'Africa proconsolaris, ad Antonio, la Gallia, la Transpadania e l'Oriente romano, ad Ottaviano spettarono l'Italia, la Sicilia, l'Iberia, e la Sardegna e Corsica. Successivamente nacquero nuovi contrasti: Lucio Antonio, fratello di Antonio, nel 41 a.C. si ribellò ad Ottaviano poiché pretendeva che anche ai veterani del fratello fossero distribuite terre in Italia (oltre ai 170.000 veterani di Ottaviano), ma fu sconfitto a Perugia nel 40 a.C. Non si può provare che Antonio fosse a conoscenza delle azioni del fratello ma, dopo la sconfitta di quest'ultimo, entrambi decisero di non dare troppo peso all'accaduto (Lucio Antonio fu risparmiato e perfino inviato in Spagna come governatore). Con il trattato di Brindisi (settembre del 40 a.C.) si venne ad una nuova divisione delle province: ad Antonio restò l'Oriente romano da Scutari, compresa la Macedonia e l'Acaia; ad Ottaviano l'Occidente compreso l'Illirico; a Lepido, ormai fuori dai giochi di potere, l'Africa e la Numidia; a Sesto Pompeo fu confermata la Sicilia per metterlo a tacere, affinché non arrecasse problemi in Occidente. Il patto fu sancito con il matrimonio tra Antonio, la cui moglie Fulva era morta da poco, e la sorella di Ottaviano, Ottavia minore. Dopo il trattato di Brindisi, Ottaviano ruppe inoltre l'alleanza con Sesto Pompeo, ripudiò Scribonia, e sposò Livia Drusilla, madre di Tiberio e in attesa di un secondo figlio. Sesto Pompeo era diventato un alleato scomodo e Ottaviano decise di disfarsene di lì a poco. Si arrivò così ad una prima serie di scontri non particolarmente felici per Ottaviano: la flotta preparata per invadere la Sicilia fu infatti distrutta sia da Sesto sia da un violento fortunale. Nel 38 a.C. Ottaviano si risolse ad incontrarsi a Brindisi con Antonio e Lepido per rinnovare il patto di alleanza per altri cinque anni. Nel 36 a.C., però, grazie all'amico e generale Marco Vipsanio Agrippa, Ottaviano riuscì a porre fine alla guerra con Sesto Pompeo. Sesto, grazie anche ad alcuni rinforzi inviati da Antonio, fu infatti sconfitto definitivamente presso Mileto. La Sicilia cadde e Sesto Pompeo fuggì in Oriente, dove poco dopo fu assassinato dai sicari di Antonio. A quel punto, però, Ottaviano dovette far fronte alle ambizioni di Lepido, il quale riteneva che la Sicilia dovesse toccare a lui e, rompendo il patto di alleanza, mosse per impossessarsene. Sconfitto però rapidamente, dopo che i suoi soldati lo abbandonarono passando dalla parte di Ottaviano, Lepido fu infine confinato al Circeo, pur conservando la carica pubblica di pontifex maximus. A quel punto, dopo l'eliminazione graduale di tutti i contendenti nell'arco di sei anni, da Bruto e Cassio, a Sesto Pompeo e Lepido, la situazione rimase nelle sole mani di Ottaviano, in Occidente, e Antonio, in Oriente, portando un inevitabile aumento dei contrasti tra i due triumviri, ciascuno troppo ingombrante per l'altro, tanto più che i successi ottenuti nelle campagne militari di Ottaviano in Illirico (35-33 a.C.) e contro Lepido non erano stati compensati da Antonio in Oriente contro i Parti, limitandosi alla sola acquisizione in dote dell'Armenia. Alla sua scadenza, nel 33 a.C., il triumvirato non venne rinnovato e, cosa ben più grave, Antonio ripudiò la sorella di Ottaviano con un affronto per quest'ultimo intollerabile. Il conflitto era ora inevitabile. Mancava solo il casus belli, che Ottaviano trovò nel testamento di Antonio, in cui risultavano le sue decisioni di lasciare i territori orientali di Roma a Cleopatra VII d'Egitto e ai suoi figli, compreso Cesarione, figlio di Gaio Giulio Cesare. Il Senato di Roma dichiarò guerra a Cleopatra, ultima regina tolemaica di Egitto, sul finire del 32 a.C. Antonio e Cleopatra furono sconfitti nella battaglia di Azio, del 2 settembre 31 a.C. e si suicidarono entrambi, l'anno successivo in Egitto. La battaglia di Azio sancì la fine della Repubblica e l'inizio dell'Impero romano. Augusto, infatti, pur mantenendo formalmente alcune istituzioni repubblicane, di fatto trasformò il nuovo stato romano in una monarchia, pur nell'apparenza del principato. Da Ottaviano ad Augusto (30-23 a.C.) Dopo Azio, Ottaviano non solo ordinò di uccidere il figlio di Cleopatra, Cesarione (la cui paternità veniva attribuita dalla regina a Cesare),[82] ma decise di annettere l'Egitto (30 a.C.), compiendo l'unificazione dell'intero bacino del Mediterraneo sotto Roma, e facendo di questa nuova acquisizione la prima provincia imperiale, governata da un proprio rappresentante, il prefetto d'Egitto.[84] L'imperium di Ottaviano su questa provincia venne probabilmente sancito da una legge comiziale già nel 29 a.C., due anni prima della messa in opera del nuovo assetto provinciale. Per la storiografia moderna più datata, la nuova forma di governo provinciale riservata all'Egitto ebbe origine dal tentativo di compensare gli Egiziani della perdita del loro monarca-dio (il faraone), con la nuova figura del Princeps;[85] in realtà, la scelta di Ottaviano di porre a capo della nuova provincia un prefetto plenipotenziario (figura che derivava direttamente dal prefetto della città tardo-repubblicana), il cosiddetto praefectus Alexandreae et Aegypti, titolo ufficiale attribuito al neo- governatore collegato alla soppressione della Bulè di Alessandria, fu dettata dal contesto in cui avvenne la conquista del paese: la guerra civile, ragioni di ordine strategico-militare nella lotta fra le due factiones tardo-repubblicane pro- occidente o pro-oriente, l'importanza del grano egiziano[84] per l'annona di Roma e, non da ultimo, il tesoro tolemaico. L'aver, infatti, potuto mettere le mani sulle risorse finanziarie dei Tolomei consentì a Ottaviano di pagare molti debiti di guerra, nonché decine di migliaia di soldati che in tanti anni di campagne lo avevano servito, disponendone l'insediamento in numerose colonie,[41] sparse in tutto il mondo romano. Ottaviano era divenuto, di fatto, il padrone assoluto dello Stato romano, anche se formalmente Roma era ancora una repubblica e Ottaviano stesso non era ancora stato investito di alcun potere ufficiale, dato che la sua potestas di triumviro non era stata più rinnovata: nelle Res Gestae riconosce di aver governato in questi anni in virtù del "potitus rerum omnium per consensum universorum" ("consenso generale"), avendo per questo motivo ricevuto una sorta di perpetua tribunicia potestas[1] (certamente un fatto extra-costituzionale). Finché questo consenso continuò a comprendere l'appoggio leale degli eserciti, Ottaviano poté governare al sicuro, e la sua vittoria costituì, di fatto, la vittoria dell'Italia sul vicino Oriente; la garanzia che mai l'impero romano avrebbe potuto trovare altrove il suo equilibrio e il suo centro al di fuori di Roma. Il senato gli conferì progressivamente onori e privilegi, ma il problema che Ottaviano doveva risolvere consisteva nella trasformazione della sostanza dei rapporti istituzionali, lasciando intatta la forma repubblicana. I fondamenti del reale potere vennero individuati nell'imperium e nella tribunicia potestas: il primo, proprio dei consoli, conferiva a chi ne era titolare il potere esecutivo, legislativo e militare, mentre la seconda, propria dei tribuni della plebe, offriva la facoltà di opporsi alle decisioni del senato, controllandone la politica grazie al diritto di veto. Ottaviano cercò di ottenere tali poteri evitando di alterare le istituzioni repubblicane e dunque senza farsi eleggere a vita console e tribuno della plebe ed evitando inoltre la soluzione cesariana (Giulio Cesare era stato eletto, prima annualmente e poi a vita dictator). La carica di dittatore gli fu infatti offerta, ma egli prudentemente la rifiutò. Nel 27 a.C., Ottaviano restituì formalmente nelle mani del senato e del popolo romano i poteri straordinari assunti per la guerra contro Marco Antonio, ricevendo in cambio: il titolo di console da rinnovare annualmente, una potestas con maggiore auctoritas rispetto agli altri magistrati (consoli e proconsoli), poiché aveva diritto di veto in tutto l'Impero, a sua volta non assoggettato ad alcun veto da parte di qualunque altro magistrato;[89] l'imperium proconsolare decennale, rinnovatogli poi nel 19 a.C., sulle cosiddette province "imperiali" (compreso il controllo dei tributi delle stesse), vale a dire le province dove fosse necessario un comando militare, ponendolo di fatto a capo dell'esercito;[90] il titolo di Augusto (su proposta di Lucio Munazio Planco ),[65] cioè "degno di venerazione e di onore",[91] che sancì la sua posizione sacra che si fondava sul consensus universorum di Senato e popolo romano; l'utilizzo del titolo di Princeps ("primo cittadino"); il diritto di condurre trattative con chiunque volesse, compreso il diritto di dichiarare guerra o stipulare trattati di pace con qualunque popolo straniero. Questi poteri decretarono che le province fossero divise in senatorie, rette da magistrati eletti dal senato, e imperiali, rette da magistrati sottoposti al diretto controllo di Augusto; faceva eccezione l'Egitto, retto da un prefetto di rango equestre, munito di un imperium delegato da Augusto ad similitudinem proconsulis. L'imperium gli consentì di assumere direttamente il comando delle legioni stanziate nelle province "non pacatae" e di avere così costantemente a disposizione una forza militare a garanzia del suo potere, nel nesso inscindibile tra esercito e proprio comandante che era stato creato dalla riforma di Gaio Mario, ormai vecchia più di un secolo. L'imperium gli garantiva, inoltre, la gestione diretta dell'amministrazione e la facoltà di emanare decreta, decisioni di carattere giurisdizionale, ed edicta, decisioni di carattere legislativo. Sotto il controllo del senato restarono le truppe di stanza nelle province senatoriali, le quali furono rette da un proconsole o propretore. Il senato stesso avrebbe potuto in qualunque momento emanare un senatus consultum limitando o revocando i poteri conferiti. Nel 23 a.C. fu conferita ad Augusto, la tribunicia potestas a vita[1] (che secondo alcuni gli era stata attribuita già dal 28 a.C.), la quale divenne la vera base costituzionale del potere imperiale: comportava infatti l'inviolabilità della persona e il diritto di intervenire in tutti i rami della pubblica amministrazione, e questo senza i vincoli repubblicani della collegialità della carica e della sua durata annuale. Particolarmente significativo fu il diritto di veto, che garantì ad Augusto la facoltà di bloccare qualunque iniziativa legislativa che considerasse pericolosa per la propria autorità. Nello stesso anno l'imperium di cui già godeva divenne imperium proconsolare maius et infinitum, in modo da comprendere anche le province senatorie: tutte le forze armate dello Stato romano dipendevano ora da lui. E ancora gli furono conferite nuove onorificenze negli anni a venire. Nel 13 a.C., quando il Pontefice massimo Lepido morì, Ottaviano ne prese il titolo divenendo il capo religioso di Roma. Nell'8 a.C. fu emanata la Lex Iulia maiestatis, con cui per la prima volta venne punita l'offesa alla "maestà" dell'imperatore, in seguito foriera di conseguenze negative per tutto il periodo successivo. E per finire, nel 2 a.C., anno dell'inaugurazione del tempio di Marte Ultore e del Foro di Augusto, gli fu conferito il titolo onorifico di "Padre della patria" (Pater Patriae). Il principato (23 a.C. - 14 d.C.) L'ambizione di Augusto era quella di essere fondatore di un optimus status, facendo rivivere le più antiche tradizioni romane e nel contempo tenendo conto delle problematiche dei tempi. Il mantenimento formale delle forme repubblicane, nelle quali si inseriva il nuovo concetto della personale auctoritas del princeps (primo fra pari), permise di risolvere i conflitti per il potere vissuti nell'ultimo secolo della Repubblica. Egli non schiacciò affatto l'antica aristocrazia, ma le affiancò, in una più vasta cerchia del privilegio, il ceto degli uomini d'affari e dei funzionari, organizzati nell'ordine equestre, i cui membri furono spesso utilizzati dall'imperatore per controllare l'attività degli organi repubblicani e per il governo delle province imperiali. Ottaviano, una volta ricevuti i necessari poteri da parte di Senato e Popolo romano, cominciò ad assumere misure atte a dare all'Italia e alle Province il sospirato benessere dopo oltre un decennio di guerre civili: riordinò il cursus honorum delle magistrature repubblicane, ne creò di nuove (come la figura del curator o quella del praefectus Urbis[96]), ripristinò la carica magistratuale del censore,[96] aumentò il numero dei pretori[96] e promosse leggi che frenavano il diffondersi del celibato e incoraggiavano la natalità, emanando la lex Iulia de Maritandis Ordinibus del 18 a.C. e la lex Papia Poppaea del 9 d.C. (a completamento della prima legge). La pax Augusta Con l'avvento del principato di Augusto iniziò un lungo periodo di pace interna. Restavano da pacificare la Spagna e alcune zone della Gallia e l'imperatore portò a termine il compito con decisione, guidando alcune campagne personalmente e affidandone altre ad Agrippa. Da quel momento gli eserciti furono impegnati solo nell'allargare i confini dell'Impero. Per decreto del senato, nel 17 a.C. si celebrò l'inizio di una nuova epoca, un nuovo saeculum di pace e si riprese la tradizione dei ludi saeculares, che durante la repubblica si erano tenuti ogni cent'anni, Per celebrare questo grande momento, nel 9 a.C. fu costruito nel Campo Marzio un grande altare alla Pace di Augusto, l'Ara Pacis Augustae . Politica sociale e di moralizzazione I molti abusi che esistevano ancora dopo la fine della guerra civile, particolarmente pericolosi per l'ordine pubblico, vennero in gran parte ridimensionati dalla nuova politica autoritaria del princeps. Augusto represse il brigantaggio mettendo posti di guardia nelle località più opportune, spesso facendo ispezionare luoghi ove si credeva vi fossero in corso sequestri, disciolse poi tutte le associazioni (collegia), con l'eccezione di quelli più antichi. Considerando importante conservare la purezza della razza romana, evitando potesse mescolarsi con sangue straniero e servile, fu molto restio nel concedere la cittadinanza romana, ponendo anche precise regole riguardo all'affrancamento. [98] E così degli schiavi, una volta tenuti lontani dalla libertà parziale o totale, stabilì il loro numero, la condizione e la divisione in differenti categorie, in modo da stabilire chi potesse essere affrancato. Riorganizzò e ripulì l'ordine senatorio di quegli elementi giudicati deformi et incondita turba. Ne ridusse poi il numero alla cifra di un tempo, pari a 600, e gli restituì la sua antica dignità attraverso due selezioni: la prima era generata dai senatori stessi, in quanto ognuno sceglieva un collega; la seconda era operata dallo stesso princeps e dal fedele Marco Vipsanio Agrippa.[99] Elevò poi il censo senatoriale, portandolo da ottocentomila a un milione e duecentomila sesterzi, e diede la differenza ai senatori che non ne avevano abbastanza. Fece bruciare le liste dei vecchi debitori dell'erario, spesso utilizzate per accuse calunniose; a Roma lasciò ai proprietari del momento quei terreni che, in modo discutibile, la Res publica aveva ritenuto fossero suoi; fece distruggere i nomi di coloro che venivano costantemente accusati in modo sadico, senza che nessuno si lamentasse di loro, salvo i propri nemici; dispose inoltre che, qualora qualcuno avesse voluto nuovamente perseguitare costoro, avrebbe corso il rischio di essere a sua volta accusato e di subire la stessa pena. Politica religiosa Riguardo invece alla politica religiosa, sappiamo che dopo il lungo periodo delle guerre civili, la crisi della religione romana, incominciata nella tarda età repubblicana, venne fermata in parte dagli interventi di Augusto. Ebbe il massimo rispetto per i culti religiosi stranieri, ma solo per quelli di antica tradizione. Disprezzò invece gli altri. Egli ricevette infatti l'iniziazione ad Atene. Quando visitò l'Egitto, evitò di andare a vedere il bue Api, e si complimentò con il nipote Gaio Cesare, il quale passando per la Giudea non si era recato a Gerusalemme per farvi dei sacrifici. Amministrazione della giustizia Anche la giustizia e il diritto romano vennero riformati. Augusto, infatti, per ottenere che nessun delitto risultasse impunito o archiviato a causa di continui ritardi, dispose che per gli atti forensi fossero previsti più di trenta giorni. Alle tre decurie di giudici ne aggiunse una quarta, seppure di censo inferiore, chiamata «dei ducenari»,[102] con il compito di giudicare riguardo a importi inferiori.[97] I processi in appello a Roma, vennero affidati a un pretore urbano, quelli in provincia a consoli anziani, preposti dall'imperatore a questo genere di funzione. Lo stesso Augusto giudicava con assiduità e, qualche volta, anche di notte. Emise sentenze con il massimo scrupolo, ma anche con estrema indulgenza. [103] Svetonio racconta che quando testimoniava in tribunale, permetteva che lo interrogassero e lo contraddicessero con la più grande disponibilità e pazienza. Il princeps ritoccò alcune leggi, altre le rifece completamente, come la legge sugli adulteri (tra il 18 e 16 a.C.) , il broglio e il matrimonio tra gli ordini sociali .[106] In quest'ultimo caso egli aveva ritenuto necessario assumere precisi provvedimenti per frenare il diffondersi del celibato e incoraggiare la natalità. Amministrazione dell'Italia e di Roma Augusto divise l'Italia in undici regioni arricchendola di nuovi centri. Svetonio e le Res Gestae Divi Augusti parlano della fondazione di ben 28 colonie.[41][42] Riconobbe, in un certo qual modo, l'importanza di queste colonie, attribuendo diritti uguali a quelli di Roma, permettendo ai decurioni delle colonie di votare, ciascuno nella propria città, per l'elezione dei magistrati di Roma, facendo pervenire il loro voto nell'Urbe, il giorno delle elezioni. Rispetto alle province fu soprattutto l'Italia ad essere privilegiata da Augusto, che vi costruì una fitta rete stradale e abbellì le città dotandole di numerose strutture pubbliche (fori, templi, anfiteatri, teatri, terme..) e di uffici di raccolta tributari. L'economia italica era florida: agricoltura, artigianato e industria ebbero una notevole crescita, che permise l'esportazione dei beni verso le province. L'incremento demografico fu rilevato da Augusto tramite tre censimenti. Fece, infatti, di Roma una monumentale città di marmo e istituì due curatores aedium sacrarum et operum locorumque publicorum per preservare i templi e gli edifici pubblici; aumentò l'approvvigionamento idrico con la costruzione di due nuovi acquedotti e creando un corpo di tre curatores aquarum per l'approvvigionamento idrico; la divise in 14 regiones per meglio amministrarla oltre a istituire cinque curatores riparum et alvei Tiberis, per proteggere Roma da eventuali inondazioni; curò personalmente gli approvvigionamenti di cibo necessari alla popolazione della capitale, con la creazione del praefectus annonae e di due praefecti frumenti dandi (di rango senatorio) per somministrare i sussidi; incrementò, infine, il livello di sicurezza cittadina ponendo a salvaguardia dell'Urbe tre nuove prefetture: la praefectura vigilum per far fronte agli incendi di Roma; la praefectura Urbi al fine di mantenere l'ordine pubblico; la Guardia pretoriana, quale guardia personale del princeps. Opere pubbliche Sotto il suo governo vennero spese ingenti somme di denaro per fornire Roma di riserve di grano, acqua e di corpi di polizia, e per l'erezione o il restauro di pubblici edifici. Numerosi furono, infatti, gli edifici, le opere pubbliche e i monumenti celebrativi costruiti o restaurati durante il suo principato, basterebbe ricordare a titolo di esempio: • la costruzione di un nuovo foro accanto a quello di Gaio Giulio Cesare (il Foro di Augusto), che includeva anche il tempio di Marte Ultore; • gli acquedotti Aqua Iulia, Aqua Virgo e Aqua Alsietina , oltre a un nuovo ponte sul Tevere, grazie soprattutto al coordinamento di Agrippa;[108] • alcuni portici, uno dedicato alla moglie Livia e un secondo alla sorella Ottavia; distinguendosi i due figli di Livia, Tiberio, e Druso, quest'ultimo si dice fosse preferito da Augusto perché figlio naturale del princeps. Con la morte di Agrippa, nel 12 a.C., e poi quella prematura di Druso in Germania nel 9 a.C., la successione sarebbe ricaduta sui due figli di Giulia e di Agrippa, Gaio Cesare e Lucio Cesare, mentre Tiberio, fu costretto da Augusto a separarsi dalla moglie Vipsania Agrippina, per sposare la figlia dell'imperatore, Giulia, vedova di Agrippa. In caso di morte prematura del princeps, Tiberio doveva prenderne il posto fino a quando i giovani Gaio e Lucio non fossero cresciuti. Questo matrimonio si rivelò infelice e costituì la causa non ultima del volontario esilio di Tiberio a Rodi (dal 6 a.C. al 2 d.C.), tanto più che Augusto vedeva nei due figli adottivi i futuri eredi. Ma la sorte fu favorevole a Tiberio. Giulia, la cui condotta formava argomento di pubblico scandalo, fu allontanata dal padre da Roma (2 a.C.), e pochi anni dopo i due Cesari morivano: Lucio nel 2 d.C. a Marsiglia, mentre si apprestava a raggiungere la Spagna, e Gaio nel 4, per i postumi di una ferita mai guarita, mentre si apprestava a tornare a Roma dall'Oriente. Ad Augusto non restava che Tiberio. Il 26 giugno del 4 Augusto annunciò la sua decisione: adottava Marco Vipsanio Agrippa Postumo (poco dopo ripudiato e mandato in esilio), l'ultimo figlio ancora in vita di Agrippa e Giulia, e Tiberio. Gaio Cesare (a quest'ultimo conferì in seguito la tribunicia potestas). Benché quest'ultimo avesse già un figlio, Druso minore, Augusto lo costrinse ad adottare il nipote prediletto, Germanico Giulio Cesare (figlio del fratello di Tiberio, Druso maggiore, morto in Germania nel 9 a.C., e di Antonia minore, figlia di Ottavia minore e Marco Antonio). Germanico era di un solo anno più vecchio rispetto al figlio di Tiberio, perciò aveva precedenza nella successione. Tiberio diventò così il nuovo imperatore di Roma alla morte di Augusto nel 14, dando origine alla dinastia giulio- claudia. Augusto aveva redatto il suo testamento un anno e quattro mesi prima di morire. Lo aveva scritto su due fogli e lo aveva depositato presso le Vergini Vestali, che lo consegnarono unitamente ad altri tre rotoli anch'essi sigillati. Questi documenti furono aperti e letti in Senato. Egli aveva designato come eredi: • di primo grado, Tiberio, per la metà più un sesto, la moglie Livia Drusilla per un terzo, e l'obbligo di portare il suo nome; • di secondo grado, Druso minore, figlio di Tiberio, per un terzo, Germanico Giulio Cesare e i suoi tre figli maschi per le parti restanti; • di terzo grado, alcuni parenti e numerosi amici. Lasciò poi al popolo romano quaranta milioni di sesterzi, alle tribù tre milioni e mezzo, ai pretoriani mille sesterzi ciascuno, cinquecento a ciascun soldato delle coorti urbane e trecento ai legionari. Ordinò poi che questa somma fosse pagata senza ritardo, avendola tenuta come sua riserva personale. Fece anche altri lasciti, dove alcuni non superavano i ventimila sesterzi. Stabilì che tutte queste cifre fossero pagate entro un anno e dichiarò che i suoi eredi non avrebbero preso più di centocinquanta milioni di sesterzi. Si giustificò infine sul totale del lascito, scrivendo che, sebbene negli ultimi venti anni i testamenti degli amici gli avessero lasciato quattro miliardi di sesterzi, questi erano stati spesi per la maggior parte per il bene della Res publica, insieme ai suoi due patrimoni e le altre eredità. Res Gestae Divi Augusti Augusto stesso lasciò alla sua morte un dettagliato resoconto delle sue opere, una forma di testamento morale: le famose Res Gestae Divi Augusti. Svetonio infatti racconta che una volta morto, lasciò tre rotoli, che contenevano: • il primo, le disposizioni riguardanti il suo funerale, • il secondo, un riassunto delle opere che aveva compiuto, che chiese fosse inciso su tavole di bronzo da collocare davanti al suo Mausoleo • il terzo la situazione dell'Impero romano, da quanti soldati vi erano sotto le armi e dove erano dislocati, quanto denaro vi era nell'aerarium e quanto nelle casse imperiali, oltre alle imposte pubbliche. La dinastia giulio-claudia (27 a.C. - 68 d.C.) Con dinastia giulio-claudia si indica la serie dei primi cinque imperatori romani, che governarono l'impero dal 27 a.C. al 68 d.C., quando l'ultimo della linea, Nerone, si suicidò, si dice, aiutato da un liberto. Viene così chiamata dal nomen (il nome di famiglia) dei primi due imperatori: Gaio Giulio Cesare Ottaviano (l'imperatore Augusto), adottato da Cesare e dunque membro della famiglia Giulia (gens Giulia) e Tiberio Claudio Nerone (l'imperatore Tiberio figlio di primo letto di Livia, moglie di Augusto), appartenente per nascita alla famiglia Claudia (gens Claudia). Gli imperatori della dinastia furono: Augusto (27 a.C. – 14), Tiberio (14 – 37), Caligola (37 – 41), Claudio (41 – 54) e Nerone (54 – 68). Tiberio Discendente della gens Claudia, alla nascita ebbe il nome di Tiberio Claudio Nerone (Tiberius Claudius Nero). Fu adottato da Augusto nel 4, ed il suo nome mutò in Tiberio Giulio Cesare (Tiberius Iulius Caesar); alla morte del padre adottivo, il 19 agosto 14, ottenne il nome di Tiberio Giulio Cesare Augusto (Tiberius Iulius Caesar Augustus) e poté succedergli ufficialmente nel ruolo di princeps, sebbene già dall'anno 12 fosse stato associato nel governo dell'impero. In gioventù Tiberio si distinse per il suo talento militare conducendo brillantemente numerose campagne lungo i confini settentrionali dell'Impero e in Illirico. Dopo un periodo di volontario esilio sull'isola di Rodi, rientrò a Roma nel 4 e condusse altre spedizioni in Illirico e in Germania, dove pose rimedio alle conseguenze della battaglia di Teutoburgo. I primi anni del regno di Tiberio furono pacifici e relativamente tranquilli. Tiberio consolidò il potere di Roma e assicurò la ricchezza e la prosperità dell'Urbe e del suo Stato. Adottò Germanico, figlio di Druso, suo fratello, e lo inviò in una spedizione contro i Germani, grazie alla quale suo nipote acquistò gran popolarità presso i propri soldati e l'opinione pubblica romana. Più tardi Tiberio lo spedì in Oriente per combattere contro i Parti (18), ma l'anno successivo, ad Antiochia, Germanico morì in circostanze mai del tutto chiarite. Gneo Calpurnio Pisone, uomo di fiducia di Tiberio che lo aveva imposto come consigliere al generale, fu sospettato da taluni di averlo fatto avvelenare. Questo fu anche il convincimento di Germanico prima di spirare. Lo stesso imperatore fu ritenuto in qualche modo responsabile di avere provocato la morte del nipote, avendogli posto al fianco un uomo a lui ostile come Pisone. Nel 23 Tiberio perse anche suo figlio, Druso minore. Dopo la morte di Germanico e di Druso l'imperatore iniziò a ritirarsi sempre più in sé stesso, convinto di aver perso i favori del popolo e di essere circondato da persone che cospiravano contro di lui. Vennero istruiti una serie di processi ed eseguite un certo numero di condanne a morte per tradimento. Nel 26 Tiberio si ritirò nella propria villa di Capri, lasciando il potere nelle mani del comandante della guardia pretoriana, Elio Seiano, che portò avanti le persecuzioni. Anch'egli iniziò a consolidare il proprio potere e nel 31 fu nominato console insieme a Tiberio, che gli concesse in sposa sua nipote Livilla. Nello stesso anno l'imperatore scoprì una congiura che Seiano sembrava avesse ordito contro di lui e lo mise a morte insieme a molti dei suoi amici. Le persecuzioni non si arrestarono che alla scomparsa di Tiberio, avvenuta nel 37 a Capo Miseno. Caligola Al momento della morte di Tiberio, molti dei personaggi che avrebbero potuto succedergli erano stati brutalmente uccisi. Il successore più logico (scelto anche da Tiberio) era Gaio (meglio conosciuto col nome di Caligola, per la sua abitudine di portare particolari sandali chiamati caligae), suo pronipote e figlio di Germanico. Caligola iniziò il regno ponendo fine alle persecuzioni e bruciando gli archivi dello zio. Sfortunatamente, però, cadde presto malato: gli storici successivi, probabilmente alterando in parte la verità, riportano una serie di suoi atti insensati che avrebbero avuto luogo a partire dalla fine del 37. Pare, ad esempio, che avesse ordinato ai suoi soldati di invadere la Britannia, ma che avesse cambiato parere all'ultimo minuto, mandandoli invece a raccogliere conchiglie sulla riva del mare. Venne inoltre accusato di intrattenere rapporti incestuosi con le proprie sorelle. Celebre è anche la sua presunta decisione di nominare senatore un suo cavallo. Il suo ordine di erigere nel tempio di Gerusalemme una statua che lo raffigurasse, sebbene fosse di normale amministrazione nelle province orientali (in cui il culto riservato al sovrano aveva funzione di collante istituzionale), scatenò l'opposizione degli Ebrei. Nel 41, Caligola cadde vittima di una congiura, assassinato dal comandante dei pretoriani Cassio Cherea. L'unico membro rimasto della famiglia imperiale era un altro nipote di Tiberio: Tiberio Claudio Druso Nerone Germanico, meglio noto come Claudio. Claudio Claudio era stato a lungo considerato un debole ed un pazzo dal resto della famiglia. E tale fama, alla quale contribuì anche lo scrittore Tacito, gli rimase per tradizione. Egli non fu tuttavia né paranoico come lo zio Tiberio, né pazzo come il nipote Caligola, e fu invece capace di amministrare con responsabile capacità. Riorganizzò la burocrazia e mise ordine nella cittadinanza e nei ruoli senatoriali. Proseguì la conquista e colonizzazione della Britannia, creando nel 43 la nuova provincia, ed aggiunse all'Impero molte province orientali. In Italia costruì un porto invernale ad Ostia, creando magazzini per accumulare granaglie e cereali provenienti da altre parti dell'Impero e da usare nella cattiva stagione. Sul fronte familiare, Claudio ebbe meno successo. La moglie Messalina lo tradiva e fu quindi messa a morte; successivamente sposò la nipote Agrippina. Questa, insieme con molti dei suoi liberti, aveva uno straordinario potere su di lui e probabilmente lo uccise nel 54. Claudio nello stesso anno fu inserito fra gli dei. La morte di Claudio spianò la strada al figlio di Agrippina, il sedicenne Lucio Domizio Enobarbo, che adottato da Claudio aveva preso il nome di Tiberio Claudio Nerone Domiziano, noto come Nerone. Nerone Inizialmente, Nerone lasciò il governo di Roma a sua madre ed ai suoi tutori, in particolare a Seneca. Tuttavia, divenendo adulto, il suo desiderio di potere aumentò: fece giustiziare la madre ed i tutori. Durante il suo regno ci fu una serie di rivolte e ribellioni in tutto l'Impero: in Britannia, Armenia, Partia e Giudea. L'incapacità di Nerone di gestire le ribellioni e la sua sostanziale incompetenza divennero rapidamente evidenti e nel 68, cosicché perfino la guardia Imperiale lo abbandonò. La congiura di Pisone, o congiura pisoniana, che prende il nome da uno dei principali congiurati, Gaio Calpurnio Pisone, fu un complotto ordito contro l'imperatore Nerone nel 65. La trama fu scoperta e, prima che potesse avere effetto, scatenò una terribile vendetta: l'imperatore eliminò senza esitazione, con una serie di processi politici, tutti i suoi oppositori. Tra i congiurati, fra il 65 e il 66, furono uccisi o costretti al suicidio, oltre a Gaio Calpurnio Pisone, Lucio Anneo Seneca (pur non essendoci prove del suo diretto coinvolgimento) , Marco Anneo Lucano, Petronio Arbitro.La congiura interessò anche ambienti militari: un esempio è la morte del più grande generale del tempo, Gneo Domizio Corbulone. La sua immagine ci è stata tramandata dagli storici cristiani, come l'autore della prima persecuzione contro i cristiani, nonché responsabile del martirio di moltissimi cristiani e dei vertici della Chiesa Romana, cioè San Pietro e San Paolo. Il 18 luglio del 64 divampò l’incendio e il dolo fu attribuito a Nerone (per il gusto perverso di rievocare quello di Troia e per realizzare nuovi ideali urbanistici), fu poi edificata la Domus Aurea. Nerone si suicidò, e l'anno 69 (noto come l'anno dei quattro Imperatori) fu un anno di guerra civile, con gli Imperatori Galba, Otone, Vitellio e Vespasiano al trono in rapida successione. Alla fine dell'anno, Vespasiano riuscì a consolidare il suo potere come Imperatore di Roma. I Flavi (69-96) La dinastia Flavia fu la seconda dinastia imperiale romana, che detenne il potere dal 69 al 96. I Flavii Vespasiani erano una famiglia della classe media, d'origine modesta, giunta poi all'ordine equestre grazie alla militanza fedele nell'esercito, che giunse al potere quando Tito Flavio Vespasiano, generale degli eserciti d'oriente, prese il potere durante l'Anno dei quattro imperatori. Vespasiano Vespasiano era stato un generale romano di notevole successo ed aveva amministrato molte parti esterne dell'Impero. Sua grande azione fu la repressione della rivolta in Giudea, con l’ausilio delle truppe del figlio Tito, la città di Gerusalemme fu assediata nel 70 e il Tempio distrutto. Le resistenze terminarono nel 73 presso la fortezza di Masada, nei pressi del Mar Morto, dove si erano rifugiati gli ultimi superstiti ebrei che compirono, ormai senza vie d’uscita, un suicidio di massa. Tornati a Roma, Tito e suo il padre fecero erigere il cosiddetto Arco di Tito in onore della vittoria. Aveva sostenuto la candidatura imperiale di Galba; tuttavia alla sua morte, Vespasiano divenne il maggior aspirante al trono. Dopo il suicidio di Otone, Vespasiano riuscì a dirottare la fornitura invernale del grano per Roma, mettendosi in ottima posizione per sconfiggere l'ultimo rivale, Vitellio. Il 20 dicembre 69, alcuni sostenitori di Vespasiano occuparono Roma. Vitellio fu ucciso dalle sue truppe, ed il giorno successivo il Senato confermò Imperatore Vespasiano. Fu un autocrate, ricevendo meno appoggio dal Senato dei suoi predecessori Giulio-Claudii. Questo è esemplificato dal fatto che lui stesso riferisce la sua salita al potere il 1º luglio quando fu proclamato Imperatore dalle truppe, invece del 21 dicembre quando fu confermato dal Senato. Egli volle, negli anni successivi, espellere i Senatori a lui contrari. Liberò Roma dai problemi finanziari creati dagli eccessi di Nerone e dalle guerre civili. Aumentando le tasse in modo drammatico (talvolta più che raddoppiate), egli riuscì a raggiungere un'eccedenza di bilancio e a realizzare progetti di lavori pubblici. Egli fu il primo committente del Colosseo e costruì un Foro il cui centro era il Tempio della Pace. Vespasiano fu inoltre effettivamente imperatore delle province. I suoi generali soffocarono ribellioni in Siria e Germania. Infatti in Germania riuscì ad allargare le frontiere dell'Impero, e gran parte della Bretagna fu portata sotto il dominio di Roma. Inoltre estese la cittadinanza romana agli abitanti della Spagna. Un altro esempio delle sue tendenze monarchiche fu la sua insistenza che gli succedessero i figli Tito e Domiziano; il potere imperiale non era visto allora come ereditario. Tito, che aveva avuto qualche successo militare all'inizio del regno di Vespasiano, fu visto come il supposto erede al trono; Domiziano era visto come meno disciplinato e responsabile. Tito affiancò il padre nei compiti di censore e console e lo aiutò nel riorganizzare i ruoli del Senato. Il 23 giugno 79, alla morte di Vespasiano, Tito fu immediatamente confermato imperatore. Tito Pianta ricostruttiva dell'anfiteatro Flavio, simbolo di Roma e del potere imperiale ancora ai nostri giorni. Il breve regno di Tito durato circa due anni fu segnato da numerosi disastri: nel 79 l'eruzione del Vesuvio distrusse Pompei ed Ercolano, e nell'80 un incendio distrusse gran parte di Roma. Nello stesso anno poi si diffuse una pestilenza. La sua generosità nella ricostruzione dopo le tragedie, lo rese molto popolare. Tuttavia il Colosseo fu completato solo durante il regno di Domiziano. Tito fu molto fiero dei suoi progressi nella costruzione del grande anfiteatro cominciato dal padre. Egli tenne la cerimonia inaugurale nell'edificio non ancora terminato durante gli anni ottanta, con un grandioso spettacolo in cui si esibirono cento gladiatori e che durò cento giorni. Tito morì nell'81 a 41 anni e ci furono voci che fosse stato assassinato dal fratello Domiziano impaziente di succedergli. Domiziano Fu con Domiziano che i rapporti già tesi tra la dinastia flavia ed il senato si andarono sempre più logorando. Le cause di questo difficile sodalizio furono dapprima la divinizzazione del culto personale dell'imperatore secondo modalità tipicamente ellenistiche ed in seguito il divorzio dalla moglie Domizia, di estrazione senatoria. Fu buon amministratore, cercò di migliorare le condizioni economiche dei sudditi e abbellì Roma con una lunga stagione di lavori pubblici. Non mirò all'espansione dell'Impero ma a difendere i confini costituendo gli agri decumates, territori colonizzati alle frontiere del Reno e della Rezia, rafforzandone le difese. Ottenne altri importanti successi militari grazie ai suoi generali: in Britannia, finita nell'84, contro la popolazione germanica dei Catti, in Dacia (85-89) contro il re dacico Decebalo. Nell'89 Domiziano dovette reprimere la ribellione di Antonino Saturnino a Magonza. Si appoggiò sulla popolazione urbana, sui piccoli coltivatori e sull'esercito, comprendendo i difetti della diarchia di un governo diviso tra l'autorità dell'imperatore e di un Senato aristocratico geloso delle proprie prerogative ma incapace di governare. Si proclamò signore e dio, ma rimase nel solco della tradizionale cultura romana e non riuscì o non volle sciogliere il nodo della divisione dei poteri, pur ingaggiando un'aperta lotta con l'aristocrazia. Dopo la fallita insurrezione di Lucio Antonio Saturnino accentuò la repressione, instaurando un regime di terrore posto fine dal suo assassinio in un complotto del Senato. La parte finale del suo regno fu macchiata dalla condanna dei filosofi e, nel 95, dalla persecuzione contro i Cristiani. L'anno seguente Domiziano morì, vittima di una congiura. Imperatori adottivi (96-138) Il periodo che va dalla fine del I alla fine del II secolo è caratterizzato da una successione non più dinastica, ma adottiva, basata sui meriti dei singoli scelti dagli imperatori come loro successori. L'Impero romano arrivò all'apice della sua potenza durante i principati di Traiano, Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio. Alla morte di quest'ultimo, il potere passò al figlio Commodo, che portò il principato verso una forma più autocratica e teocratica. Il potere delle istituzioni tradizionali si andò indebolendo e il fenomeno proseguì con i suoi successori, sempre più bisognosi dell'appoggio dell'esercito per governare. Il ruolo del Senato nei secoli successivi si ridusse progressivamente, fino a divenire del tutto formale. La dipendenza sempre più accentuata del potere imperiale dall'esercito condusse, nel 235 circa, a un periodo di crisi militare e politica, definito dagli storici come anarchia militare. Nerva Marco Cocceio Nerva fu un aristocratico romano, divenuto poi imperatore. Era figlio di Cocceio Nerva, famoso giureconsulto, e di Sergia Plautilla, figlia del console Popilio Lenate. Fu l'ultimo imperatore italico sia di nascita che di famiglia. Nerva non aveva seguito l'usuale carriera amministrativa (il cursus honorum), anche se era stato console durante l'impero di Vespasiano nel 71 e con Domiziano nel 90. Nerva era molto stimato come anziano senatore ed era noto come persona mite e accorta. Alla morte di Domiziano, Nerva acconsentì a divenirne il successore e fu acclamato imperatore in Senato da tutte le classi concordi sul suo nome. Durante il suo regno, breve ma significativo, apportò un grande cambiamento: il "principato adottivo". Questa riforma prevedeva che l'imperatore in carica in quel momento dovesse decidere, prima della sua morte, il suo successore all'interno del senato. Questo faceva sì che i senatori venissero responsabilizzati. Traiano Nerva adottò un eminente personaggio militare, Traiano. Durante il suo principato l'Impero romano raggiunse la massima estensione territoriale (98-117), grazie alle campagne di conquista contro i Daci di Decebalo (101-106), ed a esentato dalle imposte che gravavano sui provinciali; in caso di arresto, non poteva essere sottoposto a punizioni corporali. Nel 49 a.C., tutte le città del Nord Italia che godevano di diritti inferiori (diritto latino) ottennero per legge il plenum ius, diventando municipia, cioè comunità di cittadini che assumevano tutti i diritti e i doveri dei Romani. Il diritto di cittadinanza – che poteva essere concesso a singoli individui o a intere comunità – continuò a essere molto ambito; in età imperiale, la sua concessione era riservata all'imperatore. La concessione della cittadinanza anche agli stranieri cominciò a diventare un problema e una necessità nel momento in cui Roma cominciò la sua fase d'espansione sia territoriale che commerciale, venendo quindi a contatto con popoli che mal sopportavano che fosse loro negata quella serie di privilegi che erano prerogativa dei cittadini romani. Ecco, quindi, che la concessione della cittadinanza cominciò a diventare anche uno strumento di controllo politico oltre che di consolidamento del potere, giungendo spesso come conquista delle varie popolazioni sottomesse dopo periodi di tensioni e conflitto: è il caso ad esempio della Lex Plautia Papiria (89 a.C.) con la quale, a seguito della Guerra Sociale, si estendeva la cittadinanza romana a tutti gli italici a sud del Po (il resto della Gallia Cisalpina ottenne tale diritto 40 anni dopo, con la Lex Roscia). La Constitutio Antoniniana fu solo l'ultimo passo di questo sviluppo politico delle concessioni, parallelo anche allo svuotamento della condizione privilegiata del cittadino romano: Caracalla, difatti, si limitò a unificare lo status di tutti gli abitanti dell'impero nella condizione di sudditi, membri non più di una comunità politica organizzata sulla base di una relativa partecipazione (con i conseguenti vantaggi sul piano pubblico), ma di uno Stato sempre più assolutista, dove il potere era interamente concentrato nelle mani del sovrano e del suo ceto burocratico. Strade Romani compresero che una viabilità efficiente era uno strumento imprescindibile per la loro espansione territoriale e, una volta consolidato il loro dominio, una condizione necessaria per il suo mantenimento. Un sistema stradale efficiente garantiva infatti la rapidità dei movimenti delle legioni e la celerità delle comunicazioni fra Roma e il resto dell'impero. Con il nome di vie (viae in latino) venivano indicate le strade extraurbane. La più antica tra le grandi vie di comunicazione, le "viae publicae" fu la Via Appia, iniziata nel 312 a.C. da Appio Claudio Cieco per aprire la strada verso la Magna Grecia nel contesto delle guerre sannitiche. Inizialmente la via arrivava fino a Capua, ma venne in seguito prolungata fino a Brindisi, da dove ci si poteva imbarcare per le provincie balcaniche. Le "viae publicae", comunemente chiamate "consolari", collegavano le città più importanti; queste strade erano percorse dalle legioni romane nei loro trasferimenti e su di esse viaggiavano i corrieri del servizio postale statale ("cursus publicus"). La decisione di costruire le "viae publicae" era di competenza del governo centrale ed in particolare in età repubblicana dei magistrati "cum imperio" (consoli e pretori, proconsoli nelle provincie) e, dopo il 20 a.C. dell'imperatore stesso Mentre le "viae publicae" erano generalmente lastricate (viae silice statae), le strade secondarie potevano essere pavimentate o meno, ad esempio con solo uno strato di ghiaia o sassi. Dopo le strade secondarie venivano le viae terrenae, normalmente sterrate. I viaggiatori antichi in generale non usavano mappe stradali, ma per orientarsi durante un viaggio e valutare i tempi di percorrenza venivano usati gli itineraria, in origine semplici liste di città che si incontravano lungo la strada. Dopo il primo itinerario maestro, voluto da Cesare e Marco Antonio, ne vennero realizzati altri. L'Itinerarium Provinciarum Antonini Augusti (Itinerario antonino) risale all'inizio del III secolo. Prende il nome dall’imperatore Marco Aurelio Antonino Augusto, più noto come Caracalla. Le strade erano dotate di pietre miliari, che per quelle in partenza da Roma indicavano la distanza in miglia[19] dal miliario aureo, una colonna in marmo rivestita di bronzo dorato posta nel Foro Romano, accanto al tempio di Saturno, per volere di Augusto, dopo che era divenuto Commissario permanente alle strade del 20 a.C. Spazi urbani Gli elementi salienti dell’edilizia pubblica erano il foro, baricentro della vita civica, all’estremità del quale erano istallate le curiae, la basilica intesa come sede dei negozi pubblici. Poi spazi politici possono ritenersi luoghi di spettacolo, anfiteatri, odeon; all’altezza del foro si incrociavano le due arterie stradali principali ortogonali. Situato all’estremità del foro si trovava spesso il tempio dedicato alla Triade Capitolina, emblema del pantheon romano. Ogni città aveva acquedotti, cosiddetti macella. Mura difensive o ornamentali in età tarda caratterizzarono l’iconografia urbana. Evergetismo In epoca romana, la pratica dell'evergetismo era particolarmente diffusa: il privato donava alla collettività, al popolo romano, i propri beni, ristrutturava strade, edifici pubblici, ecc. Sarebbe troppo semplice ridurre, come fanno in molti, il fenomeno a una mera tecnica di creazione del consenso, anche perché la collettività beneficiava effettivamente dei doni. In realtà, se da una parte la finalità di promuovere l'immagine personale non può essere esclusa dalle ragioni che spingevano gli evergeti a tali atti liberali, non si può sottovalutare il legame che, nell'antica Roma, particolarmente in epoca repubblicana, il singolo sviluppava con l'Urbe, in quanto oggetto etico e sociale, fondamentale riferimento degli scopi esistenziali di ognuno. Infatti, possiamo affermare che la beneficenza dei romani fosse rivolta in primo luogo alla città, per ricavarne, come detto, in parte sicuramente prestigio, ma soprattutto perché era intesa come una sorta di obbligo sociale. I poveri ne beneficiavano in misura assai ridotta: le istituzioni alimentari di Nerva e Traiano avevano lo scopo politico ed economico di sostenere la piccola proprietà terriera; le distribuzioni di pane e di altri generi alimentari alla plebe miravano a far sì che questa fosse devota all'imperatore. In questo senso, l'evergete donava anche spinto dal senso di responsabilità, legato alla retorica del popolo romano, riferimento fondamentale dell'educazione repubblicana, per cui la città altro non era che un'estensione della familia e della gens. Cristianesimo Il Cristianesimo ebbe origine dalla predicazione di Gesù di Nazareth. La prima fase della sua predicazione si svolse in Galilea, la regione settentrionale della Palestina dove egli era nato. Qui reclutò i primi discepoli. Quindi si trasferì a Gerusalemme. Dopo la morte di Gesù, gli apostoli diffusero la nuova religione, prima in Asia Minore e in Africa, poi anche a Roma. L’importanza di Paolo di Tarso nella diffusione del cristianesimo fu enorme. Egli non si limitò a sostenere la necessità di diffondere la nuova fede tra i pagani. Il cristianesimo iniziò a preoccupare l’autorità imperiale quando apparve come un fenomeno infiltrato in tutto il tessuto sociale. Nonostante la tolleranza dei romani in materia religiosa, non pochi princìpi cristiani erano potenzialmente in contrasto con la mentalità corrente e con il potere: l’affermata eguaglianza tra gli uomini, liberi e schiavi, il rifiuto di adorare l’imperatore come un dio. I cristiani apparivano perciò sudditi inaffidabili e pericolosi e divennero un facile capro espiatorio per ogni difficoltà o evento funesto. Nacquero da qui le prime persecuzioni, come quella scatenata da Nerone in conseguenza dell’incendio di Roma nel 64. Agli inizi del II sec. d.C. l’ampia diffusione del cristianesimo nelle province orientali è testimoniata dal carteggio tra l’imperatore Traiano e il governatore di Bitinia Plinio il Giovane: emergeva chiaramente il dramma delle persecuzioni. Gli imperatori Decio, Valeriano e Diocleziano, spinti anche da considerazioni politiche, ordinarono pertanto persecuzioni più attive e severe, che tuttavia non arrivarono a sradicare il cristianesimo. Severi (193-235) Dopo la morte di Commodo divenne ormai evidente come gli aspiranti imperatori dovevano passare attraverso il consenso militare più che quello del Senato. I pretendenti alla più alta carica erano di due tipi: italici, cioè persone che fino ad allora avevano formato la classe dirigente e senatoria dell'impero e che cercavano il consenso dell'esercito attraverso forti donazioni; oppure militari provenienti dalle zone periferiche e che durante la loro carriera avevano già guadagnato il consenso delle legioni che guidavano. Nel 192 riuscì ad acquistare il titolo di imperatore Pertinace. Tre mesi dopo Didio Giuliano riuscì a farlo eliminare dai pretoriani in cambio di forti donazioni. Intanto dalle province arrivavano gli eserciti di Clodio Albino, Pescennio Nigro e Settimio Severo, tre militari che aspiravano a prendere il posto di Giuliano. Sarà Severo, fondatore di una nuova dinastia, a essere nominato nuovo imperatore dal Senato. Settimio Severo, il primo imperatore di origine provinciale (africana)[11], passò i primi quattro anni di regno a combattere gli altri aspiranti al trono imperiale (Didio Giuliano, Pescennio Nigro e Clodio Albino). A Severo si deve l'inizio della nuova forma di governo chiamata dominato, che si caratterizzava per essere dispotica, tanto che l'imperatore, non più contrastato dai residui delle antiche istituzioni repubblicane, poteva disporre dell'Impero come se fosse una proprietà privata, ovvero da padrone e signore, cioè dominus, da cui la definizione di dominatus. [12] Tale forma di governo durò per tutta la dinastia dei Severi e la successiva anarchia militare (193-284), fino al periodo tetrarchico. I suoi rapporti con il Senato non furono mai buoni. Egli non fu amato, avendo preso il potere con l'aiuto dei militari, e ricambiò apertamente l'ostilità dopo la vittoria su Clodio Albino, ordinando l'esecuzione di 29 senatori accusati di corruzione e cospirazione contro di lui, sostituendoli con suoi favoriti, tra cui molti africani e siriani. Inoltre attribuì e ampliò i poteri degli ufficiali dell'esercito investendoli anche di cariche pubbliche che erano solitamente appannaggio del senato (tra cui il praefectus Mesopotamiae). Utilizzò i proventi della vendita delle terre confiscate agli avversari politici per creare una cassa imperiale privata, il fiscus, ben distinto dall'aerarium che era la cassa dello Stato. Egli inoltre sciolse la guardia Pretoriana, fino ad allora reclutata per lo più in Italia e in piccola parte nelle province più romanizzate, e la ricostituì con truppe a lui fedeli, tratte dal contingente danubiano. Tentò di ridare autorità all'Impero organizzando una spedizione contro i Parti dove raggiunse la stessa capitale Ctesifonte e diede ai provinciali posti di rilievo nella burocrazia imperiale. Morì nel 211 nel tentativo di occupare l'intera isola della Britannia. Caracalla Caracalla succedette nel 211 al padre, Severo, assieme al fratello Geta, ma, poiché non era disposto a dividerne il potere imperiale, lo uccise nel dicembre di quello stesso anno, grazie anche al sostegno "corrotto" dei pretoriani. Subito dopo si accanì contro i sostenitori del fratello ucciso e arrivò ad eliminare 20.000 alessandrini. L'anno successivo (nel 212), egli promulgò la Constitutio antoniniana de civitate, l'editto con il quale si estendeva la cittadinanza romana a tutti i sudditi dell'impero, con rare eccezioni. Tra i vari motivi di tale decisione vi fu sicuramente un'esigenza finanziaria: con tale editto non solo venivano estesi i diritti, ma anche i doveri. Tutti i cittadini romani, infatti, dovevano pagare le tasse per la successione o per la manumissione (l'atto con cui si affrancano gli schiavi). [13] A lui si deve anche la costruzione delle imponenti terme di Caracalla sull'Aventino. Combatté prima lungo il limes germanico-retico contro la confederazione germanica degli Alemanni (nel 212-213). Lo sfondamento del limes costrinse l'imperatore ad accorrere lungo questo settore strategico per arginare una loro invasione. Le vittorie romane che seguirono attribuirono al giovane imperatore l'appellativo di Germanicus maximus,[14] e Alemannicus[15], anche se sembra che tali successi siano stati "comprati" per ottenere una pace duratura con i barbari, come suggerisce Cassio Dione. Sempre a Caracalla sarebbero da attribuirsi altri successi sulle popolazioni barbare lungo il medio-basso corso del Danubio, come Quadi, [17] Daci liberi,[18] Goti e Carpi[19] nel 214 e nella prima parte del 215. Volendo, infine, inglobare il regno dei Parti, quasi fosse un nuovo Alessandro Magno, chiese in sposa la figlia del re, ma questi rifiutò e così nel 215 partì per combatterli. La spedizione, però, non ebbe fortuna. [20] Fu ucciso nel 217 secondo lo storico Erodiano da un certo Marziale, un ufficiale della guardia del corpo imperiale, poiché voleva vendicare la morte del fratello, condannato da Caracalla.[21] Macrino Nominato da Caracalla Prefetto del pretorio, complottò contro di lui e l'11 aprile 217, dopo la sua uccisione, Macrino si autoproclamò imperatore. Egli fu il primo a divenire imperatore senza essere prima membro del Senato. I primi mesi del suo regno non furono fortunati. Alla notizia della morte di Caracalla, i Parti invasero i territori romani che avevano perduto negli anni precedenti. Pertanto Macrino decise di trattenersi in oriente e lo scontento cominciò a manifestarsi a Roma. Quello che restava della famiglia imperiale dei Severi, ovvero Giulia Mesa, sorella di Giulia Domna madre di Caracalla, e le figlie Giulia Soemia Bassiana e Giulia Mamea, ricevette l'ordine di lasciare il palazzo imperiale e tornare nel luogo di origine della loro famiglia, in Siria. Mentre Macrino cercava di consolidare il proprio potere, le donne dei Severi cominciarono a complottare in favore del figlio di Giulia Bassiana, Eliogabalo, descritto come figlio naturale ed erede di Caracalla. La ribellione scoppiò apertamente il 15 maggio, e l'8 giugno del 218 le truppe di Macrino furono sconfitte in battaglia. Macrino cercò di organizzare la fuga e inviò il figlio Diadumeniano come ambasciatore alla corte partica mentre egli si diresse verso Roma per ottenere l'appoggio del Senato. Catturato però in Asia Minore, fu giustiziato come un comune usurpatore. Diadumeniano a sua volta subì la stessa sorte ad opera dei Parti, che preferirono evitare un aperto conflitto con la dinastia dei Severi, tornata da poco al potere. Eliogabalo Succedette a Macrino il quattordicenne Eliogabalo, grazie al sostegno della madre, Giulia Soemia, e della nonna materna, Giulia Mesa, venne acclamato imperatore dalle truppe orientali, in opposizione all'imperatore Macrino, all'età di quattordici anni. Eliogabalo si poneva come continuatore dei Severi, in quanto parente di Settimo e Caracalla. Il regno di Eliogabalo fu fortemente segnato dal suo tentativo di importare il culto solare di Emesa a Roma e dall'opposizione che ebbe questa politica religiosa. Il giovane imperatore siriano, infatti, sovvertì le tradizioni religiose romane, sostituendo a Giove, signore del pantheon romano, la nuova divinità solare del Sol Invictus, che aveva gli stessi attributi del dio solare di Emesa; contrasse anche, in qualità di gran sacerdote di Sol Invictus, un matrimonio con una vergine vestale, che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto essere il matrimonio tra il proprio dio e Vesta. La politica religiosa e i suoi eccessi sessuali gli causarono una crescente opposizione del popolo e del Senato romano che culminò col suo assassinio per mano dalla guardia pretoriana e l'insediamento del cugino Alessandro Severo (nel 222). Il suo governo gli guadagnò tra i contemporanei una fama di eccentricità, decadenza e fanatismo, probabilmente esagerata dai suoi successori. Questa fama si tramandò anche grazie ai primi storici cristiani, che ne fecero un ritratto ostile. La storiografia moderna ne dipinge un ritratto più articolato, riconducendo il fallimento del suo regno al contrasto tra il conservatorismo romano e la dinamicità del giovane sovrano siriano, alla sua incapacità di scendere a compromessi e alla sua incomprensione della gravità e solennità del ruolo di imperatore. Il suo regno, però, permise alla dinastia severiana di consolidare il proprio controllo dell'impero, permettendo di preparare il terreno per il governo di Alessandro Severo. Alessandro Severo Fu adottato dal cugino e imperatore Eliogabalo (222), che lo nominò cesare e gli fece assumere il nome di Marco Aurelio Alessandro (latino: Marcus Aurelius Alexander); alla morte di Eliogabalo, assassinato dai soldati, Alessandro salì al trono assumendo il nome di Marco Aurelio Severo Alessandro (latino: Marcus Aurelius Severus Alexander). Data la sua giovane età (salì al trono a tredici anni), il potere fu effettivamente esercitato dalle donne della sua famiglia, la nonna Giulia Mesa e la madre Giulia Mamea. Amato dalla classe senatoriale, cui mostrò sempre rispetto, non riuscì a guadagnarsi il favore dell'esercito. Nel 225 sposò Sallustia Orbiana, figlia del prefetto del pretorio Lucio Seio Sallustio, il quale fu forse elevato al rango di cesare. Nel 227, però, Sallustio fu accusato di aver tentato di assassinare Alessandro e fu messo a morte; Sallustia fu allora esiliata in Libia. [22] Tra i primi atti del nuovo imperatore vi fu la formazione di un consilium con sedici tra i più eminenti e moderati senatori, tra cui i giuristi Eneo Domizio Ulpiano e Giulio Paolo e lo storico Cassio Dione Cocceiano. Secondo Erodiano, l'imperatore consultava i propri consiglieri su ogni decisione e non prendeva provvedimenti che non avessero ricevuto l'approvazione unanime. Nell'interesse del popolo, furono istituite agenzie di prestito a basso interesse (4%), e acquistò grano a proprie spese, donandolo cinque volte al popolo. [24] Ebbe molto rispetto per la religione romana tradizionale, a differenza del cugino e predecessore, mostrando deferenza per i pontefici, per gli auguri e per i quindecemviri sacris faciendis (i custodi dei Libri sibillini, un collegio di cui anche l'imperatore faceva parte). In talune occasioni permise anche che questioni religiose sulle quali si era già espresso fossero riaperte e condotte in maniera differente. Ogni sette giorni, quando era a Roma, saliva al tempio di Giove Capitolino e visitava frequentemente anche gli altri templi.[25] Tra i suoi primi atti di "normalizzazione" dopo gli eccessi del cugino vi fu quello di far rimettere al loro posto nei vari templi tutte le statue d'oro e gli arredi sacri che Eliogabalo aveva fatto raccogliere nell'Elagabalium, il tempio che aveva fatto costruire a Roma al dio El-Gabal. Quando la nonna Giulia Mesa morì, Alessandro la fece divinizzare. Condusse infine una campagna militare contro i Sasanidi (nel 232) e poi lungo il limes danubiano e renano contro gli Alamanni. E proprio lungo quest'ultimo fronte, a Mogontiacum fu assassinato dai soldati durante i preparativi per una nuova campagna contro le tribù germaniche, poiché stava trattando un accordo col nemico (nel 235): fu succeduto da un generale di origine barbarica e di grandi capacità militari, Massimino Trace. Crisi del III secolo e l'anarchia militare (235-284) I cento anni che seguirono la morte di Alessandro Severo videro l'Impero assediato dai Barbari a settentrione e dai Sasanidi ad Oriente, con una frequenza ed una forza mai vista prima di allora. Ci fu anche la sconfitta dell'idea di Impero maturato durante i pri due secoli, dalla dinastia giulio-claudia a quella antonina. Tale idea si basava sul fatto che l'Impero si fondava sulla collaborazione tra l'imperatore, il potere militare e le forze politico-economiche interne. Nei primi due secoli dell'Impero la contrapposizione tra poteri politici e potere militare si era mantenuta, anche se pericolosamente (guerre civili), all'interno di un certo equilibrio, garantito anche dalle enormi ricchezze che affluivano allo Stato e ai privati tramite le campagne di conquista. Nel III secolo d.C., però, tutte le energie dello Stato venivano spese non per ampliare, ma per difendere i confini dalle invasioni barbare. Quindi, con l'esaurimento delle conquiste, il peso economico e l'energia politica delle legioni finirono per rovesciarsi all'interno dell'Impero invece che all'esterno, con il risultato che l'esercito, che era stato il fattore principale della potenza economica, finì per diventare un peso sempre più schiacciante, mentre la sua prepotenza politica diventava una fonte permanente di anarchia. Nei quasi cinquant'anni di anarchia militare si succedettero ben 21 imperatori acclamati dall'esercito, quasi tutti morti assassinati. Nel 268 venne eletto imperatore, ancora una volta, un militare di carriera: Claudio detto il Gotico, di origine illirica. Regnò per un periodo di un solo anno e nove mesi, troppo breve per poter porre in atto riforme in campo militare, finanziario e sociale. Fu il primo di un gruppo di imperatori illirici che nel III secolo cercarono di risolvere i gravi problemi dell'impero. Gli ottimi rapporti che ebbe con il senato di Roma, che trovarono il fondamento principale nella gratitudine della Curia romana per l'eliminazione di Gallieno, si manifestarono anche dopo la morte di Claudio con l'elezione ad Augusto del fratello Quintillo. Arginò le incursioni gotiche iniziate sotto il predecessore, Gallieno, e portò a termine la guerra contro questa coalizione di genti barbare, meritandosi il titolo di Gothicus Maximus. Morì a Sirmio in seguito a una nuova epidemia di peste scoppiata tra le file del suo esercito (luglio/agosto del 270). A Claudio, quindi, successe Aureliano. Intanto i due regni di Gallia e Palmira erano passati rispettivamente a Pio Tetrico e a Zenobia. Primo obiettivo di Aureliano fu la riconquista di Palmira, che avvenne tra il 271 e il 273. Tornando in Occidente riconquisterà anche il regno gallico, riunificando l'Impero romano e guadagnandosi il titolo di restitutor orbis. Gli successe Marco Claudio Tacito, imperatore dal 275 al 276. Nel 276 divenne imperatore Marco Annio Floriano, ma per pochissimo tempo. Di rilievo furono: Marco Aurelio Probo, imperatore dal 276 al 282 che si fece notare per aver sconfitto ripetutamente i barbari sul Reno e il Danubio, Marco Aurelio Caro imperatore dal 282 al 283, Numeriano e Carino. Numeriano fu imperatore dal 283 al 284. Riuscì a dare vita ad un brevissimo periodo di recupero economico e culturale, inaugurando più di 50 giorni di festività un po' dappertutto nell'impero, da Nimes a Roma, da Olympia ad Antiochia. Carino fu imperatore dal 284 al 285. Conseguenze La crisi si arrestò solo con una serie di imperatori che provenivano dai ranghi militari delle province illiriche, a partire da Claudio il Gotico, i quali riuscirono nell'impresa di riunificare l'impero, respingendo i continui attacchi dei barbari lungo il fronte Reno-danubiano, fino ad approdare alla riforma tetrarchica di Diocleziano nel 284, che permise la prosecuzione dell'impero romano d'Occidente per altri due secoli e di oltre un millennio dell'impero romano d'Oriente (o Impero bizantino). Il prezzo da pagare per la sopravvivenza dell'Impero fu però molto alto: l'abbandono dei cosiddetti Agri decumates sotto Gallieno (attorno al 260) e della provincia delle Tre Dacie sotto Aureliano (271 circa), oltre alla perdita seppure temporanea della provincia di Mesopotamia, rioccupata solo con Galerio verso la fine del III secolo. Tardo impero romano Con l'elezione di Diocleziano (284-285) si consolidò la normalizzazione interna dell'Impero iniziata con Aureliano. Il nuovo sovrano inaugurò un programma di riforme che rafforzarono il carattere assolutistico e gerarchico dell'Impero che, attorno al 300, venne diviso in due grandi regioni amministrative, quella orientale, con capitale Nicomedia, e quella occidentale, con capitale Milano. A capo di tali macroregioni pose due Augusti affiancati da un imperatori in sottordine, destinati a succedere loro in caso di necessità, i quali governavano a loro volta due sotto-aree, quella greco- balcanica con capitale Sirmio, e quella nord-occidentale con capitale Treviri. Era la tetrarchia, ideata per disinnescare le lotte ereditarie. In questo sistema Roma era sempre la capitale sacra e ideale, il Caput mundi, ma la sua posizione geografica, lontana dalle bellicose zone di confine, non rendeva possibile un suo uso per funzioni politiche o strategiche. Il nuovo imperatore nominò nel novembre del 285 come suo vice in qualità di cesare, un valente ufficiale di nome Marco Aurelio Valerio Massimiano, che pochi mesi più tardi elevò al rango di augusto il 1º aprile del 286, formando così una diarchia in cui i due imperatori si dividevano su base geografica il governo dell'impero e la responsabilità della difesa delle frontiere e della lotta contro gli usurpatori. Diocleziano, che si considerava sotto la protezione di Giove (Iovio), mentre Massimiano era sotto la protezione "semplicemente" di Ercole (Erculio, figlio di Giove), manteneva però la supremazia. Tale sistema, concepito da un soldato come Diocleziano, non poteva che essere estremamente gerarchizzato. Data la crescente difficoltà a contenere le numerose rivolte all'interno dell'impero, nel 293 si procedette a un'ulteriore divisione funzionale e territoriale, al fine di facilitare le operazioni militari: Diocleziano nominò come suo Cesare per l'oriente Galerio e Massimiano fece lo stesso con Costanzo Cloro per l'occidente. Il sistema si rivelò efficace per la stabilità dell'impero e rese possibile agli augusti di celebrare i vicennalia, ossia i vent'anni di regno, come non era più successo dai tempi di Antonino Pio. Tutto il territorio venne ridisegnato dal punto di vista amministrativo, abolendo le regioni augustee con la relativa divisione in "imperiali" e "senatoriali". Vennero create dodici circoscrizioni amministrative (le "diocesi", tre per ognuno dei tetrarchi), rette da vicarii e a loro volta suddivise in 101 province. Restava da mettere alla prova il meccanismo della successione. In tale sistema l'imperatore assunse con ancor maggiore decisione connotati monarchici, riducendo le residue istituzioni repubblicane a semplici funzioni onorifiche. Il governo venne quindi progressivamente affidato a funzionari imperiali, scelti tra le file della classe dei cavalieri e tra i liberti. Tuttavia la stessa figura imperiale venne moltiplicandosi, con due imperatori titolari, gli Augusti, uno per la pars Occidentalis ed uno per la pars Orientalis, spesso affiancati da colleghi di rango inferiore aventi il titolo di Cesare. Per facilitare l'amministrazione ed il controllo fu, inoltre, potenziata la burocrazia centrale e si moltiplicarono le suddivisioni amministrative: le quattro parti dell'impero, governate ciascuna da uno dei tetrarchi, fecero capo ciascuna ad una distinta prefettura del pretorio: Gallie, Italia, Illirico, Oriente. Da queste dipendevano poi le Diocesi, in tutto dodici, rette dai Vicarii, nelle quali erano raccolte le provincie, con a capo funzionari imperiali con il rango di correctores o presides. In pratica il nuovo ordine imperiale disarticolava le vecchie strutture repubblicane accentrando ogni funzione attorno alla figura del sovrano. Nella pratica il sistema della tetrarchia durò ben poco, per via degli eserciti tutt'altro che disposti a deporre il potere politico che avevano avuto fino ad allora e che gli era valso numerosi vantaggi e privilegi. Già al primo passaggio, con la morte di Costanzo (306) le truppe stanziate in Britannia acclamarono suo figlio Costantino, che diede il via a una guerra civile con gli altri tre pretendenti. Dopo aver battuto Massenzio e Massimino, restarono Licinio e Costantino che stipularono una pace. Ma nove anni dopo, nel 324, Costantino attaccò e sconfisse Licinio, che venne relegato in Tessaglia dove morì in seguito, assassinato dopo essere stato accusato di complotto. Il sistema tetrarchico non venne più restaurato. Costantino, dopo aver ristabilito l'unità della carica imperiale, iniziò a curarsi della politica istituzionale, economica e politica dell'Impero. Dovette presto constatare come l'asse dell'Impero si trovasse ormai a oriente e per questo fece di un piccolo insediamento sul Bosforo una nuova capitale, alla quale diede il nome di Nova Roma. Tale nome non si impose tuttavia, venendogli preferito, fin dai primi anni dalla sua fondazione, quello di Costantinopoli (Città di Costantino). Tra i vantaggi della città c'era l'ottima posizione strategica tra Asia e Europa, vicina alla frontiera difficile con la Persia, le difese naturali, l'ottimo sistema viario e marittimo che vi transitava. Nella scelta di Bisanzio ci fu probabilmente anche la volontà di privilegiare la difesa del ricco e popoloso oriente rispetto al più provinciale e rurale occidente. La nuova capitale venne ufficialmente inaugurata nel maggio del 330. Costantino abbandonò le altre tre capitali dell'epoca di Diocleziano e divise l'Impero in 14 diocesi e 117 province. La progressiva adozione della religione cristiana avviata da Costantino (306-337), si concluse, dopo periodi di oscillazione tra scelte protoereticali (Costanzo II,337-361) e tentativi di restaurazione dei culti tradizionali, mediante l'organizzazione di un'istituzione ecclesiale parallela a quella civile (Giuliano, 361-363), con l'adozione ufficiale del culto cristiano (Teodosio I, 379-395). Nel successivo IV secolo il cristianesimo divenne progressivamente l'unica religione. Nel IV secolo, l'Impero romano, piegato da una inarrestabile crisi politica ed economica ed incapace di respingerne le invasioni, fu costretto ad accettare sempre più frequentemente lo stanziamento di popoli germanici ("barbari") nei suoi territori. Fine dell'Impero romano d'Occidente Nel V secolo l'impero d'Oriente e quello d'Occidente erano ormai stabilmente divisi. Nell'Impero d'Occidente, ridotto ormai quasi alla sola Italia, Roma subì il sacco dei Visigoti di Alarico I nel 410 e quello dei Vandali di Genserico nel 455. Erano ormai i generali barbari che difendevano l'Impero ad esercitare un enorme potere, arrivando a creare e deporre imperatori a loro piacimento. Nel 476 il re barbaro Odoacre depose l'imperatore Romolo Augusto e rimandò le insegne imperiali all'imperatore d'Oriente, segnando anche formalmente la fine dell'Impero romano d'Occidente.
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved