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Appunti su autori da Tasso a Leopardi, Appunti di Letteratura Italiana

Appunti su: Tasso (Gerusalemme Liberata - Rinaldo e Armida, Tancredi e Clorinda, Proemio, Olindo e Sofronia, Erminia tra i pastori); Marino (Adone - Usignolo e Liutista, Encomio alla rosa, la natura di Amore, favoletta di Galania); Tassoni (Secchia rapita); Ciro di Pers e Giacomo Lubrano; coniugi Zappi e Paolo Rolli; Metastasio (Libertà, Partenza); Goldoni (Locandiera - atto I scena IX); Monti (al Signor di Montgolfier); Parini (il Giorno - favola di Amore e Imene, dedica Alla Moda, Notte degli avi e notte del Giovin Signore, favola del Piacere); Alfieri (Saul, Vita scritta da esso, Sublime specchio di veraci detti); Foscolo (Dei Sepolcri, A Zacinto/Né più mai toccherò le sacre sponde, Solcata ho fronte); Manzoni (Cinque Maggio, Pentecoste, Promessi sposi c. III e XXXVIII); Leopardi (Infinito, A Silvia, Ultimo Canto di Saffo, Canto di un pastore errante dell'Asia, la Ginestra)

Tipologia: Appunti

2022/2023

In vendita dal 21/06/2023

gingingini
gingingini 🇮🇹

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Scarica Appunti su autori da Tasso a Leopardi e più Appunti in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! ARIOSTO – ORLANDO FURIOSO TASSO – GERUSALEMME LIBERATA Intreccio di varie linee narrative Unità di azione (inizio – svolgimento – fine) Poema cavalleresco Poema eroico Vari personaggi, no unico protagonista Presenza eroe unico, Goffredo, eroe cristiano Elementi di fantasia ed elementi erotici C’è ricerca di veridicità (si ripropone storicità di ciò che viene narrato. Poema ambientato in evento storico; conquista del Santo Sepolcro). Nonostante ciò, è presente in Tasso l’elemento maraviglioso, ossia elemento inventivo utile a catturare attenzione lettore. Tasso ribattezza il maraviglioso sotto l’insegna dei valori cristiani. Le forze soprannaturali sono mosse dal cielo (Dio) o da mondo infernale Obiettivo poema: intrattenimento Obiettivo poema: edificazione = trasmettere alti valori cristiani in cui egli credeva ⇩ A metà ‘500 si inizia a ragionare sulla forma del poema; c’è un cambio di prospettiva. Ciò accade perché tornano in auge le poetiche antiche (soprattutto poetica aristotelica); si vuole imporre un modello aderente a quello dell’epica classica (Iliade, Odissea, Eneide): - unico protagonista eroico; - unità di azione (inizio – svolgimento – fine); - non si lavora molto di fantasia, si ricerca veridicità storica. Poema di Tasso viene scritto in epoca di Controriforma (Concilio Trento); il testo deve essere edificante; in esso si ribadiscono valori cristiani. Lo scrupolo/preoccupazione che ciò che scriveva dovesse stare entro i canoni della Controriforma portano Tasso a un rigore quasi folle nel seguire le convenzioni della sua epoca (tant’è che Tasso stenderà poi la Gerusalemme conquistata, riscrittura “riveduta e corretta” della Liberata). Poema eroico di Torquato Tasso. Prima edizione (princeps): 1581 (stesura inizia però negli anni ’60). Tasso si ispira a Trissino, che aveva scritto L’Italia liberata dai goti, in cui il poeta elimina la maraviglia, il fantastico. Nei suoi scritti teorici Tasso dice che senza “maraviglia” un testo non viene letto dal popolo. Metro: ottava rima → ottave endecasillabi: rime alternate (primi sei versi) + rime baciate (ultimi due versi). NB: Forma narrativa ≠ forma lirica; rima = forte supporto per la narrazione, aiuta poeta a ricordare versi. IL PROEMIO Suddiviso in: 1. Protasi (poeta dichiara intento nei primi versi); 2. Invocazione alla musa (elementi con valenza antropologica: primi poemi erano trasmessi oralmente da aedi e contenevano storia di una cultura/popolo. Muse sono figlie di Mnemosine, dea della memoria; muse danno forza a poeta di raccontare ciò che ha impresso nella memoria) STROFA 1 – esordio/protasi Canto l'arme pietose, e ‘l Capitano Che 'I gran sepolcro liberò di Cristo. Molto egli oprò col senno e con la mano; Molto soffrì nel glorioso acquisto: E invan l'Inferno a lui s'oppose; e invano s'armò d'Asia e di Libia il popol misto: Chè 'I Ciel gli diè favore, e sotto ai santi Segni ridusse i suoi compagni erranti Esordio classicistico (primi due versi sembrano esordio Eneide → richiamo a mondo classico). Tema storico (crociata). Tasso canta di un eroe (Goffredo di Buglione). Usa ossimoro (armi pietose → il fine, ossia conquista Gerusalemme, giustifica uso armi). Si sottolinea protagonismo di Goffredo (oprò col senno e con la mano, molto soffrì. Alla conquista del sepolcro si opposero: o nemici infedeli mussulmani → popol misto ha accezione negativa + Libia è metonimia per indicare Africa; o forze infernali → Tasso teorizzava idea di un meraviglioso giustificato dogmaticamente/cristianamente; forze del male e forze miracolose del bene operano prodigi (elementi che sfuggono a razionalità, quindi appartenenti al maraviglioso), ma questi sono forze extra terrene che operano e influiscono su uomo. ⇩ Opposizione fu inutile → Cielo (Dio) fu con Goffredo, che sotto ai santi segni ridusse (ricondusse, riportò) i suoi compagni erranti (crociati deviati da loro missione dalle forze del male, generalmente dall’Eros). Goffredo deve riportarli a principi morali religiosi che guidano sua azione. Goffredo combatte su due fronti: nemici esterni (musulmani e forze infernali) e nemici interni (crociati traviati dal peccato). Si è in epoca controriforma = c’è demonizzazione dell’Eros e dei sensi, “porte” che facevano entrare il peccato nell’uomo” → erotismo vissuto in modo sofferente, quasi malato da parte di Tasso [es. disviamento dovuto all’Eros: Canto XVI, 12-] STROFA 2 – invocazione alla musa O Musa, tu, che di caduchi allori Non circondi la fronte in Elicona, Ma su nel Cielo infra i beati cori Hai di stelle immortali aurea corona; Tu spira al petto mio celesti ardori, Tu rischiara il mio canto, e tu perdona S'intesso fregi al ver, s'adorno in parte D'altri diletti, che de' tuoi le carte. ⇩ A che musa si riferisce Tasso? Iconografia è quella di una musa circondata da corona di stelle (non allori, simbolo gloria poetica); tra le nove muse è Urania (musa astronomia) che ha corona di stelle. Qualcuno, per le espressioni che ci sono in questi versi (es: infra i beati cori, che fanno pensare a cori angelici del Paradiso), sostiene che questa musa somigli molto alla Madonna. In realtà interpretazione è ambigua, sta nel mezzo tra muse classiche e una sorta di “musa” cristiana. Probabilmente si tratta di figura inventata da Tasso, una musa della sapienza cristiana. Sicuramente è musa che ispira una poesia molto alta, piena di spiritualità e che tende all’obiettivo educativo di Tasso (poema incentrato su principi cristiani da propagare attraverso i versi). Musa deve ispirare poeta: dovrà ispirare celesti ardori (connotazione religiosa, divina). Invasamento poetico → poeta si sente investito e parla, si fa strumento della voce delle muse e di Apollo (re delle muse). Tasso anticipa presenza del maraviglioso (nei suoi versi non ci sarà solo il ver, la verità storica, ma anche abbellimenti, fregi al ver). NB: Tasso scrisse alcune pagine teoriche sul poema → “Discorsi dell’arte poetica e del poema eroico”: Tasso dice che è necessario che in narrazione a fondo storico ci siano elementi che provengono dall’invenzione poetica. Ciò serve a evitare errore che aveva fatto Trissino nell’Italia liberata dai Goti; bisogna che ci sia varietà nel poema per far sì che più persone possibili lo leggano e apprezzino (serve il maraviglioso per non annoiare). STROFA 3 Sai che là corre il mondo, ove più versi Di sue dolcezze il lusinghier Parnaso; E che 'I vero condito in molli versi, I più schivi allettando ha persuaso. Così all'egro fanciul porgiamo aspersi Di soavi licor gli orli del vaso: Succhi amari, ingannato, intanto ei beve, E dall'inganno suo vita riceve. Tasso continua a riferirsi a musa: tu sai che il mondo va dove la poesia versa i suoi versi più dolci; uomini apprezzano poesia anche per la sua bellezza, non si accontentano di avere solo versi che sono traduzione piatta di comandamenti morali; serve il bello: per poter essere davvero utile poesia deve essere dilettevole (messaggio passa attraverso modalità che piace penetra di più). Per spiegare meglio concetto Tasso fa esempio di un bambino a cui viene data una medicina amara con dello zucchero. Parnaso = monte delle muse STROFE 18 – 22 Ella dinanzi al petto ha il vel diviso, e 'l crin sparge incomposto al vento estivo; langue per vezzo, e 'l suo infiammato viso fan biancheggiando i bei sudor più vivo: qual raggio in onda, le scintilla un riso ne gli umidi occhi tremulo e lascivo. Sovra lui pende; ed ei nel grembo molle le posa il capo, e 'l volto al volto attolle Armida ha i capelli che si muovono al vento e un velo che le si apre sul viso. Fa la languida per vezzo (apposta). Hanno i visi bianchi e rossi (colori degli innamorati per tradizione cortese). Come l'acqua scintilla ai raggi del sole, allo stesso modo le scintilla negli occhi un riso tremulo e lascivo. Implicitamente c'è una sovrapposizione tra l'immagine del mare e quella degli occhi umidi di lei. Rinaldo la guarda. e i famelici sguardi avidamente In lei pascendo, or si consuma e strugge. S'inchina, e i dolci bacj ella sovente. Liba or dagli occhi, e dalle labbra or sugge Ed in quel punto ei sospirar si sente Profondo sì, che pensi, or l'alma fugge E in lei trapassa peregrina. Ascosi Mirano i due guerrier gli atti amorosi. Rinaldo ha sguardo famelico, pieno di desiderio. Lui si consuma e si strugge per lei. I due si baciano; Rinaldo sospira talmente profondamente che sembra stia morendo (secondo tradizione antica con il bacio si suggeva l'anima dell'altro; Armida sta succhiandogli l'anima). C’è grande contrasto tra i due crociati che guardano la scena severi e i due amanti. Dal fianco dell'amante, estranio arnese, Un cristallo pendea lucido e netto. Sorse, e quel fra le mani a lui sospese, Ai mister d'Amor ministro eletto. Con luci ella ridenti, ei con accese, Mirano in varj oggetti un sol oggetto: Ella del vetro a se fa specchio: ed egli Gli occhi di lei sereni a sè fa speglj. Rinaldo non ha la spada al fianco, bensì uno specchio; specchio è il ministro eletto ai misteri d’Amore (esso dà suggerimenti alla donna per esser bella). Armida si alza e fa sorreggere a Rinaldo lo specchio. Lei ride, compiaciuta d'esser bella, lui ha gli occhi accesi dall’amore. Lui guarda lei e lei guarda se stessa nello specchio. Rinaldo guarda Armida innamorato; lei non ricambia amore, lo ha usato unicamente come strumento erotico. L'uno di servitù, l'altra d'impero Si gloria: ella in se stessa, ed egli in lei. Volgi, dicea, deh volgi, il cavaliero a me quegli occhj, onde beata bei: Chè son, se tu no 'I sai, ritratto vero Delle bellezze tue gl'incendj miei. La forma lor, le meraviglie appieno, Più che I cristallo tuo, mostra il mio seno. Rinaldo chiede ad Armida di rivolgere quegli occhi a lui; lui, con il suo incendio d'amore, è davvero ritratto della bellezza della donna. Lui è contento, si gloria della servitù che ha verso di lei, idea cavaliere servitore qui le tiene lo specchio; lei si compiace di se stessa, lui della propria servitù d’amore. Beata Bei = POLIPTOTO Deh! poi che sdegni me, com'egli è vago mirar tu almen potessi il proprio volto; ché il guardo il tuo, ch'altrove non è pago, gioirebbe felice in sé rivolto. Non può specchio ritrar sì dolce imago, né in picciol vetro è un paradiso accolto: specchio t'è degno il cielo, e ne le stelle puoi riguardar le tue sembianze belle. Rinaldo dice che l’immagine che riflette lo specchio non restituisce ad Armida tutta la sua bellezza; l'unica luce degna di riflettere la sua bellezza è la luce delle stelle. Specchiarsi nel cielo = iperbole, esagerazione Sono complimenti esagerati, che in una donna tanto autocompiaciuta vengono apprezzati. Essa infatti inizia a ridere anche se non lo ascolta. Continua a guardarsi allo specchio. STROFE 23 – 27 Ride Armida a quel dir, ma non che cesse dal vagheggiarsi e da' suoi bei lavori. Poi che intrecciò le chiome e che ripresse con ordin vago i lor lascivi errori, torse in anella i crin minuti e in esse, quasi smalto su l'or, cosparse i fiori; e nel bel sen le peregrine rose giunse a i nativi gigli, e 'l vel compose. Cosa fa Armida? Si pettina intrecciando le chiome e riordina il disordine affascinante dei suoi capelli, arriccia i riccioli più piccoli. Si pettina, arriccia le ciocche più corte e mette fiori nei suoi capelli. Riprende ottava 18: velo Armida mette delle rose peregrine = rare nel seno (nativi gigli= bianco seno) e poi chiude il velo. Né 'l superbo pavon sì vago in mostra spiega la pompa de l'occhiute piume, né l'iride sì bella indora e inostra il curvo grembo e rugiadoso al lume. Ma bel sovra ogni fregio il cinto mostra che né pur nuda ha di lasciar costume. Diè corpo a chi non l'ebbe; e quando il fece, tempre mischiò ch'altrui mescer non lece. Superbia Armida paragonata a superbia pavone: superbia di lei è superiore a quella del pavone. Il suo modo di brillare è superiore a quello dell’arcobaleno, che si imporpora, che si mostra dopo la pioggia. Iride come figura mitologica (figlia di Taumante e dell'oceanina Elettra, essa personificazione dell'arcobaleno, ma anche messaggera degli dei, specialmente di Zeus ed Era, della quale appare come l'ancella). Ornamento più eclatante = cintura lungo i fianchi. Idea che prende dalla mitologia greca: alla dea Afrodite fu donata una cintura dai magici poteri che permetteva, a chi la indossasse, nonostante non possedesse fascino e beltà, di ammaliare chiunque. Cinto Armida sembra oggetto magico, è fatto con ingredienti astratti ma materializzati in tale oggetto; cinto è frutto arti magiche, da lei composto. Teneri sdegni e placide e tranquille repulse, e cari vezzi, e liete paci, sorrise parolette, e dolci stille di pianto, e sospir tronchi, e molli baci: fuse tai cose tutte, e poscia unille ed al foco temprò di lente faci, e ne formò quel si mirabil cinto di ch'ella aveva il bel fianco succinto. Conversazioni tipiche degli amanti. Teneri sdegni è espressione ossimorica (rifiuti tranquilli e placidi, le repulse e gli sdegni sono detti in modo calmo, sereno, placido). Sospir tronchi = sospiri interrotti. Unisce tutto a fuoco lento per fare la cinta che tiene sempre legato intorno ai fianchi Fine alfin posto al vagheggiar, richiede a lui commiato, e 'I bacia e si diparte. Ella per uso il dì n'esce e rivede gli affari suoi, le sue magiche carte. Egli riman, ch'a lui non si concede por orma o trar momento in altra parte, e tra le fère spazia e tra le piante, se non quanto è con lei, romito amante. Dopo tutto ciò, Armida se ne va: si congeda da Rinaldo, gli dà un bacio e va via. Lui resta invece nel giardino, da solo: si trasforma così in amante solitario, immagine frequente della tradizione amorosa (es. Petrarca). Solo nella selva, a contatto con elementi della natura ma distante dall’amata, prigioniero della magia (non può uscire dal giardino). Rinaldo resta sempre lì, muovendosi tra le fiere e tra le piante se non quando è con la donna. Romito amante = amante solitario. Ma quando l'ombra co i silenzi amici rappella a i furti lor gli amanti accorti traggono le notturne ore felici sotto un tetto medesmo entro a quegli orti Ma poi che vòlta a più severi uffici lasciò Armida il giardino e i suoi diporti, i duo, che tra i cespugli eran celati, scoprirsi a lui pomposamente armati. I due – Armida e Rinaldo – si ritrovano di notte per amoreggiare. Quando Carlo e Ubaldi vedono solo il compagno Rinaldo, i due amici si palesano. STROFE 28 – 31 Qual feroce destrier ch'al faticoso onor de l'arme vincitor sia tolto, e lascivo marito in vil riposo fra gli armenti e ne' paschi erri disciolto, se 'I desta o suon di tromba o luminoso acciar, colà tosto annitrendo è vòlto, già già brama l'arringo e, l'uom su 'l dorso portando, urtato riurtar nel corso; Similitudine: Rinaldo viene paragonato a un cavallo da battaglia, che quando va in pensione, viene ridotto/tolto dal campo di combattimento e lo si lascia a fare il lascivo marito = lasciato nei pascoli dove esercita la funzione di stallone. E se mai sente un rumore di battaglia es: suono di tromba/vede lampeggiare arma allora si ricorda d’un tratto del suo glorioso passato. Gli torna la voglia di fare ciò che faceva prima, rivuole un cavaliere per combattere con gli altri. tal si fece il garzon, quando repente de l'arme il lampo gli occhi suoi percosse. Quel sì guerrier, quel sì feroce ardente suo spirto a quel fulgor tutto si scosse, benché tra gli agi morbidi languente, e tra i piaceri ebro e sopito ei fosse. Intanto Ubaldo oltra ne viene, e 'l terso adamantino scudo ha in lui converso. Stessa cosa che accade al cavallo (str. 28), succede a Rinaldo quando vede il lampo della luce che si riflette sulle armature di Carlo ed Ubaldo che gli appaiono di fronte. Rinaldo si “risveglia” benché fosse “addormentato” tra i piaceri. Ubaldo si fa avanti con lo scudo lucente, che farà l’effetto di uno specchio (elemento che torna: qui però non è elemento di compiacimento, ma è il mezzo che fa riprendere coscienza di sé). Egli al lucido scudo il guardo gira, onde si specchia in lui qual siasi e quanto con delicato culto adorno; spira tutto odori e lascivie il crine e 'l manto, e 'l ferro, il ferro aver, non ch'altro, mira dal troppo lusso effeminato a canto: guernito è sì ch'inutile ornamento sembra, non militar fero instrumento. Rinaldo si vede effeminato, ridotto ad oggetto sessuale; si vede com’è diventato e come ormai non abbia nulla dell’aspetto del guerriero: è tutto profumato, i suoi abiti e i suoi capelli non hanno nulla di guerresco. Ha inutilmente una spalla al fianco: si accorge di aver spada ma di portarla come un ornamento piuttosto che un feroce strumento di guerra. Rinaldo ritrova se stesso e il suo essere crociato, quasi si svegliasse da un sonno. Qual uom da cupo e grave sonno oppresso dopo vaneggiar lungo in sé riviene, tal ei tornò nel rimirar sé stesso, ma se stesso mirar già non sostiene; giù cade il guardo, e timido e dimesso, guardando a terra, la vergogna il tiene. Si chiuderebbe e sotto il mare e dentro il foco per celarsi, e giù nel centro Rinaldo ha vergogna a guardarsi. Prova tanto imbarazzo che vorrebbe sprofondare nel mare o nel profondo della Terra. In questo canto è evidente l’applicazione di ciò che era stato detto da Tasso nel proemio: Goffredo di Buglione e i suoi crociati, oltre a combattere con un nemico esterno (nemici mussulmani e forze infernali), essi devono fronteggiare anche un nemico interno, ossia la tentazione al peccato (crociati traviati dal peccato si allontanano dai loro compiti di combattenti). NB: questione eros → problematica anche per Tasso stesso che vede nell’attrazione sessuale una scelta peccaminosa. All’interno del poema l’eros viene rappresentato in modi diversi; es: Rinaldo-Armida; Tancredi- Clorinda; Olindo-Sofronia. Argomento del canto = duello Tancredi vs Clorinda. Canto XII segna, in un lungo notturno, il tragico epilogo della storia che lega il cavaliere cristiano Tancredi e l'eroina musulmana Clorinda. Questa, dopo aver incendiato torre d'assedio cristiana, non riesce a rientrare a Gerusalemme e resta in mezzo ai soldati cristiani. Profittando della confusione, Clorinda cerca di allontanarsi, ma viene inseguita da Tancredi, che non la riconosce, dato che la donna non indossa la consueta armatura. Ne segue un duello memorabile, in cui Tancredi ferisce a morte la rivale, inconsapevole di aver ucciso la donna di cui è innamorato. Qualche istante prima di morire Clorinda chiede però al cavaliere di battezzarla, per abbracciare la fede cristiana. Se per la donna, la morte è un momento di risoluzione, di felice approdo a una salvezza, per Tancredi invece diventa un trauma profondo, destinato a segnare per sempre il suo destino di soldato e di cavaliere. STROFE 52 – 55 Vuol ne l'armi provarla: un uom la stima degno a cui sua virtú si paragone. Va girando colei l'alpestre cima verso altra porta, ove d'entrar dispone. Segue egli impetuoso, onde assai prima che giunga, in guisa avien che d'armi suone, ch'ella si volge e grida: «O tu, che porte, che corri sí?» Risponde: «E guerra e morte.» Vuole sfidarla a duello: pensa che sia un uomo con cui possa degnamente misurare il proprio valore. Lei sta girando intorno alla collina montuosa [il colle di Sion, dove sorge Gerusalemme] verso un'altra porta in cui poter entrare. Lui la segue con impeto, per cui molto prima di raggiungerla le sue armi risuonano al punto che lei si volta e grida: «Tu, che corri in tal modo, cosa porti?» Lui risponde: «Guerra e morte». Segue egli la vittoria, e la trafitta vergine minacciando incalza e preme. Ella, mentre cadea, la voce afflitta movendo, disse le parole estreme; parole ch'a lei novo un spirto ditta, spirto di fé, di carità, di speme: virtú ch'or Dio le infonde, e se rubella in vita fu, la vuole in morte ancella. virtù che Dio adesso le infonde e, se in vita fu infedele, la vuole sua ancella [cristiana] nella morte. Clorinda muore e sul colpo fatale si rivela la sua femminilità. C’è di nuovo sovrapposizione tra elemento erotico ed elemento violento. Tale sovrapposizione è esemplificativa della visione dell’eros che ha Tasso: esso non è percepito come sereno, bensì come violento. Eros e sangue si mescolano. Desiderio di assassinio si intreccia con desiderio erotico. STR 64: Tasso inserisce rivelazione della femminilità di Clorinda e prepara allo shock di Tancredi. STR 65: Tancredi persiste nel voler uccidere l’avversaria. Lei cade, lui continua a colpirla. Lei chiede al suo uccisore di battezzarla: è una sorta di miracolo cristiano – Dio la fa convertire, la trasforma in sua ancella. È una strofa intrisa di fede cristiana. STROFE 66 – 69 «Amico, hai vinto: io ti perdon... perdona tu ancora, al corpo no, che nulla pave, a l'alma sí; deh! per lei prega, e dona battesmo a me ch'ogni mia colpa lave.» In queste voci languide risuona un non so che di flebile e soave ch'al cor gli scende ed ogni sdegno ammorza, e gli occhi a lagrimar gli invoglia e sforza Clorinda vuole la salvezza dell’anima. “Perdona l’anima mia, per lei prega e dammi il battesimo che lavi tutti i miei peccati” Tancredi miracolosamente trasformato smorza l’odio posto dentro di sé, nascono sentimenti di affetto; il momento lo commuove, va a cercare l’acqua con cui battezzare la donna (acqua messa nell’elmo) Poco quindi lontan nel sen del monte scaturia mormorando un picciol rio. Egli 'accorse e l'elmo empié nel fonte, e tornò mesto al grande ufficio e pio. Tremar sentí la man, mentre la fronte non conosciuta ancor sciolse e scoprio. La vide, la conobbe, e restò senza e voce e moto. Ahi vista! ahi conoscenza! Battesimo Tancredi riconosce Clorinda Non morí già, ché sue virtuti accolse tutte in quel punto e in guardia al cor le mise, e premendo il suo affanno a dar si volse vita con l'acqua a chi co 'I ferro uccise. Mentre egli il suon de' sacri detti sciolse, colei di gioia trasmutossi, e rise; e in atto di morir lieto e vivace, dir parea: «S'apre il cielo; io vado in pace.» Si rende conto che deve farsi forza, sta per morire dall’emozione, ma raccoglie la sua forza interiore e si preme il cuore; facendo forza dell'emozione, dà la vita spirituale a colei che ama. Io vado in pace = lietezza conversione Volto straziato dal dolore si trasforma perché consapevole morire in grazia divina. Quasi vede il paradiso. D'un bel pallore ha il bianco volto asperso, come a' gigli sarian miste viole, e gli occhi al cielo affisa, e in lei converso sembra per la pietate il cielo e "I sole; e la man nuda e fredda alzando verso il cavaliero in vece di parole gli dà pegno di pace. In questa forma passa la bella donna, e par che dorma. Il suo viso è pallido, ma il candore è come quello dei gigli misto alle viole: viole in tradizione letteraria sono sempre dette “pallide” + idea candore del giglio, elemento simbolico che viene dalla classicità, ripreso in tradizione cristiana. Lei guarda il cielo che si apre. Tasso fa sì che al lettore sembri di vedere la scena dal punto di vista di Clorinda, con Dio che col cielo la abbraccia. Arriva perdono divino. Clorinda fa un gesto di pace nei confronti di Tancredi, poi muore (triunfus morti: ripreso da Petrarca, che dice che il morire di Laura gli è dolce). EPISODIO DI OLINDO E SOFRONIA: episodio/digressione rispetto alla vicenda principale. A Gerusalemme il re musulmano Aladino attende l’arrivo dei crociati. Il mago Ismeno, cristiano convertito all’Islam, lo convince a sottrarre da una chiesa cristiana un’immagine della Madonna oggetto di particolare devozione: gli ha promesso che, grazie alla sua magia, una volta collocato in moschea, il quadro renderà la città inespugnabile. Durante la notte l’immagine scompare (per intervento divino o per lo zelo di un fedele). Aladino ordina quindi una feroce rappresaglia contro la comunità cristiana di Gerusalemme. Tra i cristiani c’è Sofronia, ragazza in età da marito che, per estrema pudicizia, nasconde la sua bellezza vivendo ritirata in casa. STROFE 14 – 18 Vergine era fra lor di già matura verginità, d'alti pensieri e regi, d'alta beltà; ma sua beltà non cura, o tanto sol quant'onestà se 'n fregi. È il suo pregio maggior che tra le mura d'angusta casa asconde i suoi gran pregi, e de' vagheggiatori ella s'invola a le lodi, a gli sguardi, inculta e sola. Fra loro vi era una vergine già adulta, di pensieri alti e nobili e di grande bellezza; ma lei non si cura della sua bellezza, se non quanto le è consentito dall'onestà. Il suo merito maggiore è che nasconde i suoi grandi meriti tra le mura di una modesta casa, e si sottrae alle lodi e agli sguardi dei suoi corteggiatori, trascurata e sola. Pur guardia esser non può ch'in tutto celi beltà degna ch'appaia e che s'ammiri; né tu il consenti, Amor, ma la riveli d'un giovenetto a i cupidi desiri. Amor, ch'or cieco, or Argo, ora ne veli di benda gli occhi, ora ce gli apri e giri, tu per mille custodie entro a i piú casti verginei alberghi il guardo altrui portasti. Pure non può esservi una custodia così severa da celare in tutto e per tutto una bellezza degna di mostrarsi e di essere ammirata; e tu, Amore, non lo consenti, ma la riveli agli ardenti desideri di un giovane. Amore, che ora sei cieco, ora hai cento occhi come Argo, ora ci copri gli occhi con una benda, ora ce li apri e fai girare, tu portasti lo sguardo altrui tra mille cautele dentro le sedi virginali più caste. Accusa a cupido-amore: anche se lei si mostra poco lui si è innamorato. Lui è modesto e non si fa avanti; lei ignora l’amore di lui. Colei Sofronia, Olindo egli s'appella, d'una cittade entrambi e d'una fede. Ei che modesto è sí com'essa è bella, brama assai, poco spera, e nulla chiede; né sa scoprirsi, o non ardisce; ed ella o lo sprezza, o no 'l vede, o non s'avede. Cosí fin ora il misero ha servito o non visto, o mal noto, o mal gradito. Lei è Sofronia, lui Olindo, entrambi di Gerusalemme e cristiani. Lui, che è tanto modesto quanto lei è bella, desidera molto, spera poco e non chiede nulla; non sa mostrarsi o non ne ha il coraggio; e lei o lo disprezza, o non lo vede o non si accorge di nulla. Così fino ad oggi il poveretto è stato al suo servizio, o ignorato o poco noto o sgradito. S'ode l'annunzio intanto, e che s'appresta miserabile strage al popol loro. A lei, che generosa è quanto onesta, viene in pensier come salvar costoro. Move fortezza il gran pensier, l'arresta poi la vergogna e 'l verginal decoro; vince fortezza, anzi s'accorda e face sé vergognosa e la vergogna audace. Intanto si diffonde l'annuncio [della rappresaglia di Aladino] e che si prepara una miserabile strage dei cristiani. A lei, che è generosa quanto è modesta, viene il pensiero di come salvare queste persone. La forza muove il grande pensiero e poi lo arresta la vergogna e il decoro virginale; la forza vince, anzi rende se stessa vergognosa e rende la vergogna audace. La vergine tra 'l vulgo uscí soletta, non coprí sue bellezze, e non l'espose, raccolse gli occhi, andò nel vel ristretta, con ischive maniere e generose. Non sai ben dir s'adorna o se negletta, se caso od arte il bel volto compose. Di natura, d'Amor, de' cieli amici le negligenze sue sono artifici. a fanciulla uscì tutta sola tra il popolo, non coprì la sua bellezza e non la mise in mostra, tenne gli occhi bassi, andò avvolta nel velo, con modi schivi e magnanimi. Non si saprebbe dire se sia adornata o trascurata, se il suo bel volto sia stato abbellito dal caso o dall'artificio. Le sue negligenze sono artifici di natura, dell'amore, del cielo a lei favorevole. Non sapresti dire se questo modo di nascondersi dagli sguardo lo cerchi o le venga spontaneo. Nulla di fulgido. STROFE 19 – 24 Mirata da ciascun passa, e non mira l'altera donna, e innanzi al re se 'n viene. Né, perché irato il veggia, il piè ritira, ma il fero aspetto intrepida sostiene. «Vengo, signor,» gli disse «e 'ntanto l'ira prego sospenda e 'l tuo popolo affrene: vengo a scoprirti, e vengo a darti preso quel reo che cerchi, onde sei tanto offeso.» A l'onesta baldanza, a l'improviso folgorar di bellezze altere e sante, quasi confuso il re, quasi conquiso, frenò lo sdegno, e placò il fer sembiante. S'egli era d'alma o se costei di viso severa manco, ei diveniane amante; ma ritrosa beltà ritroso core non prende, e sono i vezzi esca d'Amore. Fu stupor, fu vaghezza, e fu diletto, s'amor non fu, che mosse il cor villano. «Narra» ei le dice «il tutto; ecco, io commetto che non s'offenda il popol tuo cristiano.» Ed ella: «Il reo si trova al tuo cospetto: opra è il furto, signor, di questa mano; io l'imagine tolsi, io son colei che tu ricerchi, e me punir tu déi.» La bella donna passa ammirata da tutti e non guarda nessuno, e viene di fronte al re. Non ritrae il passo vedendo il re adirato, ma ne sostiene con coraggio l'aspetto feroce. Gli disse: «Sono venuta qui, signore - intanto ti prego di sospendere la tua ira e di tenere a freno il tuo popolo - sono venuta a svelarti e a consegnarti l'autore del furto che tu cerchi, per cui sei tanto oltraggiato». Il re, quasi confuso e conquistato di fronte a quell'onesto coraggio, all'improvviso sfolgorare della bellezza altera e santa (bellezza santa, non provocante), frenò lo sdegno e placò il suo aspetto feroce. Se lui fosse stato meno severo d'animo o se lei fosse stata meno severa nel viso, se ne sarebbe innamorato (re non si innamora solo grazie al suo cuore restio e al fatto che lei è coperta); ma una bellezza ritrosa non conquista una bellezza ritrosa, e i vezzi (lusinghe) sono l'esca dell'amore. A muovere il suo cuore crudele/villano fu lo stupore, la bellezza e il piacere, se non l'amore. Lui le dice: «Racconta ogni cosa; ecco, io ordino che il tuo popolo cristiano non venga offeso». E lei: «Il colpevole è qui di fronte a te: il furto, signore, è opera di questa mano; io sottrassi l'immagine, io sono quella che tu cerchi e tu devi punire me». Cosí al publico fato il capo altero offerse, e 'l volse in sé sola raccòrre. Magnanima menzogna, or quand'è il vero sí bello che si possa a te preporre? Riman sospeso, e non sí tosto il fero tiranno a l'ira, come suol, trascorre. Poi la richiede: «I' vuo' che tu mi scopra chi diè consiglio, e chi fu insieme a l'opra.» «Non volsi far de la mia gloria altrui né pur minima parte»; ella gli dice «sol di me stessa io consapevol fui, sol consigliera, e sola essecutrice.» «Dunque in te sola» ripigliò colui «caderà l'ira mia vendicatrice.» Diss'ella: «È giusto: esser a me conviene, se fui sola a l'onor, sola a le pene.» Qui comincia il tiranno a risdegnarsi; poi le dimanda: «Ov'hai l'imago ascosa?» «Non la nascosi,» a lui risponde «io l'arsi, e l'arderla stimai laudabil cosa; cosí almen non potrà piú violarsi per man di miscredenti ingiuriosa. Signore, o chiedi il furto, o 'l ladro chiedi: quel no 'l vedrai in eterno, e questo il vedi. Così offrì il suo capo orgoglioso al pubblico destino e lo volle raccogliere solo su di sé. O menzogna generosa, quando mai la verità è così bella da poter essere preferita a te? Il feroce tiranno resta incerto, e non si abbandona così in fretta all'ira come suo solito. Poi le chiede: «Voglio che tu mi spieghi chi ti ha consigliato e chi ti ha aiutato nel furto». Lei risponde: «Non volli che altri partecipassero alla mia gloria, neanche in minima parte; io fui la sola complice di me stessa, la sola consigliera, e la sola esecutrice». Lui riprese: «Dunque la mia ira vendicatrice cadrà solo su di te». Lei disse: «È giusto: devo essere l'unica a soffrire la pena, se fui l'unica ad avere l'onore». Allora il tiranno comincia a sdegnarsi; poi le chiede: «Dove hai nascosto l'immagine sacra?» Gli risponde: «Non l'ho nascosta, l'ho bruciata e ritenni cosa lodevole farlo; così almeno non potrà più essere violata dalla mano sacrilega dei miscredenti. Signore, o chiedi l'oggetto rubato o il ladro: quello non lo vedrai mai più, l'altro ce l'hai di fronte. «Amico, altri pensieri, altri lamenti, per piú alta cagione il tempo chiede. Ché non pensi a tue colpe? e non rammenti qual Dio prometta a i buoni ampia mercede? Soffri in suo nome, e fian dolci i tormenti, e lieto aspira a la superna sede. Mira "I ciel com'è bello, e mira il sole ch'a sé par che n'inviti e ne console.» Qui il vulgo de' pagani il pianto estolle: piange il fedel, ma in voci assai piú basse. Un non so che d'inusitato e molle par che nel duro petto al re trapasse. Ei presentillo, e si sdegnò; né volle piegarsi, e gli occhi torse, e si ritrasse. Tu sola il duol comun non accompagni, Sofronia; e pianta da ciascun, non piagni. «Amico, la circostanza richiede altri pensieri, altri lamenti per una ragione più nobile. Perché non pensi alle tue colpe? e non ricordi quale ampia ricompensa Dio prometta ai buoni? Soffri in suo nome e i tormenti saranno dolci, e aspira lieto ad andare in paradiso. Guarda come è bello il cielo e osserva il sole, che sembra invitarci a sé e consolarci». Qui il popolo pagano si mette a piangere: anche i cristiani piangono, ma con voce assai più soffocata. Un non so che si strano e dolce sembra che passi nel duro petto del re. Egli se ne accorse e se ne sdegnò; non volle piegarsi, distolse lo sguardo e si voltò. Tu sola, Sofronia, non partecipi al dolore comune; e, compianta da tutti, non piangi. I due non sono destinati a morire; sopraggiunge Clorinda, eroica guerriera da tutti rispettata. Vede i due legati allo stesso palo e chiede quale colpa abbiano. Conosciuta la loro storia, si convince subito della loro innocenza: si avvicina al re e gli chiede la grazia di liberare i condannati. Il re non può non acconsentire a una richiesta di Clorinda, e così Sofronia e Olindo non solo salvano la vita, ma si congiungono in matrimonio (II 53) ⇒ Nello scrivere questo episodio Tasso si sentiva garantito sotto il profilo della verosimiglianza perché la sua fonte storica più importante, la Historia rerum in partibus transmarinis gestarum (Guglielmo di Tiro, XII sec.), riportava notizia di un giovane cristiano che aveva salvato vita di molti innocenti accusandosi di reato non commesso. Anche sotto profilo etico vicenda non sembrava suscitare problemi: matrimonio santificava gli ardori di Olindo e giustificava il cedimento della vergine Sofronia. È molto significativo che la prima storia d'amore raccontata nel poema coinvolga una coppia cristiana e, ancor più, che si concluda con matrimonio. Amore regolarizzato dei due è quasi un exemplum preventivo: indicando nel matrimonio la sola strada che riscatti l'eros e il desiderio, esso mostra anticipatamente l'aspetto giusto e corretto della passione rispetto alle molte vicende amorose di altro tenore che si incontreranno lungo il poema. È significativo pure che all'altro estremo del libro, nell'ultimo canto, la morte “congiunta” evitata da Sofronia e Olindo coroni invece la vita di Gildippe e Odoardo, l'altra coppia di sposi cristiani del poema. Gildippe è stata colpita a morte, Odoardo la soccorre sorreggendola con un braccio, ma il feritore di Gildippe glielo recide con un colpo facendolo cadere sul corpo della sposa (XX 100) ⇒ Rappresentazione di un amore così totale e al contempo così santo ribadisce, dopo le molte “erranze” che hanno costellato la narrazione, la centralità etica e sentimentale del matrimonio. È plausibile, dunque, che con episodio di Olindo e Sofronia, collocato in posizione di grande evidenza, Tasso intendesse sottolineare il suo partecipe coinvolgimento nel processo di rivalutazione dell'istituto matrimoniale avviato da Chiesa dopo Concilio Trento. E tuttavia, a rendere significativo episodio non è l'intenzione etica a esso sottesa, ma semmai quel tanto di programmatico, quasi di sforzato, che qui la soluzione matrimoniale denuncia. Non a caso, nel prosieguo del poema grandi storie d'amore si sottrarranno a questo schema, a riprova che cuore di Tasso batte per passione frustrata, per desiderio tormentoso, per impossibilità incontro, non per pacificazione dei sensi e soddisfacimento desiderio. Soprattutto, poi, quando amore scatta tra personaggi diversi per ruolo e cultura, divisi da religione o dovere. Cristiano Tancredi e musulmana Clorinda sublimeranno loro amore in una sorta di nozze mistiche celebrate in punto morte; la contrastata vicenda dell'amore fra musulmana Armida e il cristiano Rinaldo terminerà in modo ambiguo, senza acme sentimentale, anzi, con un’implicita ma sostanziale rinuncia a passione. Episodio Olindo e Sofronia aveva poi un’ulteriore giustificazione ideologica nella trovata narrativa del furto del quadro della Madonna. Perorando causa dell'innocenza dei due condannati, Clorinda ricorda ad Aladino come, nel seguire consiglio di Ismeno, egli avesse infranto proibizione coranica del culto delle immagini. Implicitamente posizione degli infedeli su questo argomento veniva così messa in parallelo con quella dei protestanti, cosicché racconto poteva presentarsi come intervento a favore della politica controriformistica di sostegno del culto delle immagini contro rigorismo protestante. Passando al più specifico livello di poetica e organizzazione narrativa, si può notare che l'episodio, benché un po' lungo e quindi soggetto al rischio della digressione, si “connette” da più lati all'insieme del poema: 1. serve a introdurre personaggio Clorinda, tra i più rilevanti del poema. Di questa la figura di Sofronia, refrattaria a tentazioni amorose e dedita solo al bene comune, rappresenta una sorta di prefigurazione, così come Olindo, innamorato senza speranza, prefigura Tancredi, amante non corrisposto di Clorinda; 2. coppia sul rogo, in cui «a tenzone / sono Amore e magnanima virtute» (II 31, 3-4) e che perciò si presenta antitetica, disunita, quasi ossimorica, anticipa, in apertura del poema, un conflitto costitutivo dell'intera Liberata: se, infatti, l'eroismo generoso di Sofronia incarna i valori propugnati dall'epica cristiana e l'individualismo di Olindo quelli che muovevano gli eroi dei romanzi, ecco che coppia racchiude in sé le due polarità che sono alla base della costruzione del poema. C’erano dunque tutte le condizioni, etiche e narrative, perché episodio non creasse problemi. Invece esso suscitò perplessità nei censori di Tasso e in Tasso stesso, che lo conservò nella Liberata, ma lo cassò dalla Conquistata, più rigorosamente ligia ai canoni dell'epica cristiana. Eppure, scrupoli e censure non colpivano il vero centro trasgressivo dell'episodio, vale a dire la tensione erotica che si traveste in etica del sacrificio. Tasso aveva preso da G. di Tiro spunto e giustificazione storica dell'episodio, ma per contenuti narrativi aveva attinto a tradizione letteraria lontana da veridicità storica. Motivo della coppia di amanti condotta al rogo era presente nei cantari antichi (narrazioni in verso di stampo popolareggiante) e da qui era passato, in forme più interessanti per Tasso, in due opere di Boccaccio. Nel Filocolo Boccaccio racconta diffusamente come Florio e Biancifiore fossero stati sorpresi abbracciati nel sonno, condotti al rogo e salvati miracolosamente da Venere; nel Decameron, in modo più succinto, come il giovane Gianni da Procida e la sua amante Restituta fossero stati anch'essi sorpresi abbracciati nel sonno e condannati al rogo dal re di Sicilia, a cui la ragazza, rapita, era stata «donata». Anche nella novella i due innamorati, legati al palo spalla contro spalla, si salvano grazie all'intervento inatteso di un “aiutante”, l'ammiraglio del re. Dei molti punti di contatto fra il racconto del Decameron e l'episodio della Gerusalemme Liberata vale la pena di segnalare che, proprio come desidererebbe fare Olindo, Gianni da Procida chiede di poter morire viso a viso con l'amata. Nel discorso diretto che l'innamorato di Boccaccio rivolge al suo salvatore non vibrano, ovviamente, le note sensuali e passionali che invece agitano parole rivolte da Olindo a Sofronia «ch'è seco unita». Olindo non è personaggio epico, tanto è vero che il suo linguaggio non disdegna di ricorrere al registro lirico- amoroso, tipico di una tradizione poetica che ha Petrarca come archetipo, a cui Tasso concede cittadinanza nel poema, ma sotto tutela. Tuttavia, sarebbe riduttivo vedere in Olindo un innamorato petrarcheggiante: egli va oltre la metaforicità erotica di Petrarca e dei petrarchisti. Legato a Sofronia schiena contro schiena, così si esprime (33, 5-8-34, 1): Quest'è dunque quel laccio ond'io sperai teco accoppiarmi in compagnia di vita? questo è quel foco ch'io credea ch'i cori ne dovesse infiammar d'eguali ardori? Altre fiamme, altri nodi Amor promise. Olindo non gioca con metafore; non teme di far esplicito riferimento alla realtà del rapporto amoroso a cui nella tradizione lirica quelle metafore alludevano solamente: se le espressioni «teco accoppiarmi» e «or ne congiunge in morte» godono ancora del beneficio della letterarietà, quella successiva (34, 5-7): Piacemi almen, poich'in sì strane guise morir pur déi, del rogo esser consorte, se del letto non fui… è di un’esplicitezza non attenuabile. In un crescendo di disperata felicità, che lo porta quasi a rovesciare la pena fisica del martirio in una inquietante euforia, Olindo arriva a fondere insieme amore e morte; ciò che più colpisce è che la sensualità del suo discorso non sia affidata alle “lascivie” poetiche, agli intrecci metaforico- allusivi, ma ai contenuti, cioè alle immagini di fisicità di un rapporto carnale altrettanto realistico quanto il rogo che paradossalmente lo ha reso possibile (35, 2-6): oh fortunati miei dolci martiri! s'impetrarò che, giunto seno a seno, l'anima mia ne la tua bocca io spiri; e venendo tu meco a un tempo meno, in me fuor mandi gli ultimi sospiri. Momento morte coincide, nel desiderio dell'amante, con momento supremo del piacere fisico. Nel desiderio, dunque, tutto è già stato consumato. Ne consegue che il matrimonio celebrato alla fine ha davvero, al di là delle intenzioni dell'autore, l'aspetto di matrimonio riparatore. Tanto più che mai viene meno la freddezza di Sofronia, chiusa fino all'ultimo dentro a una corazza fatta di virtù, pudicizia, senso del dovere. Sulla pira, a Olindo, che gli confessava con accenti appassionati il suo amore, per tutta risposta aveva rivolto l'invito a elevare i suoi pensieri e ad aspirare al cielo (36): Amico, altri pensieri, altri lamenti, per più alta cagione il tempo chiede [..] Mira 'I ciel com'è bello, e mira il sole ch'a sé par che n'inviti e ne console. Una volta liberati, il suo assenso alle nozze è di una sbrigatività sconcertante (53, 7-8): Volse con lei morire: ella non schiva, poi che seco non muor, che seco viva. Dalla sua bocca non esce una sola parola. Lettori, però, sanno che se non ci fosse la freddezza di Sofronia non ci sarebbe nemmeno l'ardore di Olindo: per poter dare voce al desiderio e alla passione Tasso deve immaginare rapporti squilibrati e senza reciprocità. L'impossibilità dell'incontro forse è ancora il riflesso dell'impostazione petrarchesca dell'amore come irrimediabile frustrazione; più probabilmente risponde a condizionamenti psicologici profondi dell'autore. È certo, però, che Tasso parla d'amore con accenti di una passionalità che non ha più niente di petrarchesco. In un episodio a prima vista edificante come quello di Olindo e Sofronia si svela il lato della personalità poetica tassiana più attuale e affascinante. Tasso si è rinchiuso in una gabbia di regole, scrupoli, divieti e tabù, eppure questo insieme costrittivo lascia aperti dei varchi attraverso i quali può insinuarsi una voce' che contraddice e vanifica quei divieti e quei tabù. I meccanismi della letteratura favoriscono fenomeni di questo tipo, soprattutto quando a maneggiarli è una personalità così divisa e contraddittoria. È un fatto, comunque, che la rete protettiva stesa da Tasso intorno alla sua scrittura, se da un lato può essergli apparsa sufficientemente solida per disinnescare eventuali punte eversive, dall'altro, proprio per la sua solidità, le ha amplificate e le ha rese più acuminate. Volendo darne una interpretazione di tipo storico-letterario, potremmo affermare che con Tasso la letteratura, nel momento in cui viene imbrigliata nel tentativo di renderla innocua, si ribella e si vendica mostrando il suo aspetto trasgressivo. Con Tasso abbiamo i primi esempi di una letteratura contro incapsulata in un involucro ideologico “a favore”. Sofronia rappresenta valori cristiani epoca; episodio censurato, causa: tensione erotica che viene celata. Linguaggio Olindo = molto esplicito es. teco accoppiarmi... tradizione lirica petrarchesca usava metafore in questo caso no: tasso è esplicito fino al midollo; ne consegue che matrimonio sembra davvero riparatore; freddezza di Sofronia. Rapporti squilibrati e senza fisicità Tasso parla di amore con una passionalità che non ha più nulla di petrarchesco. NB Tasso si è rinchiuso in gabbia di divieti, in cui si inserisce una voce che spinge ad allontanarsi da tali tabù. Gabbia rende però più forti passioni? Con Tasso letteratura, imbrigliata nell’essere innocua, mostra suo aspetto più trasgressivo. È una letteratura che sembra contro un sistema incapsulata, in un involucro di un’epoca. Ci mostra personaggi che dentro di loro hanno pulsioni che vanno contro struttura morale e valoriale del tempo. Se Tasso ci racconta tanti amori tormentati è perché il conflitto dogmi - eros è dentro di lui. Tasso deve rispettare dogmi, soprattutto quando i personaggi sono divisi dal culto (es: Clorinda e Tancredi o Armida e Rinaldo); conflitto tra dovere e ricerca del piacere. mago Ismeno è mussulmano convertito, culto immagine no presente in islam. ERMINIA TRA I PASTORI: Erminia è in fuga: è figlia dell’emiro Antiopia (pagana); è stata prigioniera dei cristiani; lì si è innamorata di Tancredi. Erminia prende i vesti di Clorinda per raggiungere accampamento cristiano. Soldati cristiani la scoprono e iniziano ad inseguirla; lei fugge a cavallo. In tale personaggio Tasso crea figura molto distante da immagine Clorinda: o Clorinda: coraggiosa; o Erminia: fragile, sentimentale, vittima di un amore impossibile; lei vorrebbe curare ferite a Tancredi (dopo duello con Argante). Attorno tale personaggio nasce un tono/registro stilistico diverso: registro elegiaco (registro sentimentale, commovente, tendente al pianto, in passato usato per celebrare i morti). Erminia indossa l'armatura dell'amica Clorinda e si avvicina alle tende latine (cristiane) ma colpita dalla luce lunare viene scoperta: fugge inseguita e giunge in un luogo in cui vi sono pastori, sulle rive del fiume Giordano. Visione notturna: paesaggio stellato; Erminia si presenta come donna innamorata, con tutta la sua sentimentalità, emerge altro lato di Tasso, consonanze con le situazioni infelici, cambiamento di registro (modalità espressiva): elegiaco (condizione infelicità, es : lontananza amata, morte, amore non corrisposto…). Pastori fuggiti dalla corte, x vivere vita parca, priva di ricchezza ma ricchi di libertà, anti-cortigiani. Ché poco è il desiderio, e poco è il nostro bisogno onde la vita si conservi. Son figli miei questi ch’addito e mostro, custodi de la mandra, e non ho servi. Cosí me ‘n vivo in solitario chiostro, saltar veggendo i capri snelli e i cervi, ed i pesci guizzar di questo fiume e spiegar gli augelletti al ciel le piume. Infatti abbiamo pochi desideri e pochi bisogni per mantenerci in vita. Questi che ti indico e mostro sono miei figli, custodi del bestiame, e non ho servi. Così vivo qui, in questo luogo remoto e solitario, vedendo saltare i capri e i cervi snelli, e vedendo guizzare i pesci di questo fiume e gli uccellini spiegare le loro piume in cielo. Tempo già fu, quando piú l’uom vaneggia ne l’età prima, ch’ebbi altro desio e disdegnai di pasturar la greggia; e fuggii dal paese a me natio, e vissi in Menfi un tempo, e ne la reggia fra i ministri del re fui posto anch’io, e benché fossi guardian de gli orti vidi e conobbi pur l’inique corti. Ci fu un tempo, quando l'uomo è più stolto nella giovinezza, in cui ebbi altri desideri e rifiutai di pascolare il gregge; e lasciai il mio paese natale, e vissi per qualche tempo a Menfi (capitale Egitto), e divenni anch'io uno dei ministri nella reggia, e anche se ero un semplice guardiano dei giardini vidi e conobbi la vita iniqua delle corti (pastore ha toccato con mano la realtà di cui parla) Pur lusingato da speranza ardita soffrii lunga stagion ciò che piú spiace; ma poi ch’insieme con l’età fiorita mancò la speme e la baldanza audace, piansi i riposi di quest’umil vita e sospirai la mia perduta pace, e dissi; `O corte, a Dio.’ Cosí, a gli amici boschi tornando, ho tratto i dí felici.» Pure, lusingato da una grande speranza, sopportai per lungo tempo le cose più spiacevoli; ma quando insieme alla giovinezza venne meno la speranza e l'audace baldanza, rimpiansi la quiete di questa vita umile e sospirai la mia pace perduta, e dissi: 'O corte, addio.' Così, tornando ai miei amici boschi, ho condotto i miei giorni felici». Mentre ei cosí ragiona, Erminia pende da la soave bocca intenta e cheta; e quel saggio parlar, ch’al cor le scende, de’ sensi in parte le procelle acqueta. Dopo molto pensar, consiglio prende in quella solitudine secreta insino a tanto almen farne soggiorno ch’agevoli fortuna il suo ritorno. Mentre l'uomo parla così, Erminia pende dalle sue labbra attenta e quieta; e quelle sagge parole, che le scendono al cuore, placano in parte le tempeste dei suoi sensi. Dopo aver pensato a lungo, decide di soggiornare in quel luogo remoto e solitario per qualche tempo, almeno finché la fortuna agevoli il suo ritorno [a Gerusalemme]. Onde al buon vecchio dice: «O fortunato, ch’un tempo conoscesti il male a prova, se non t’invidii il Ciel sí dolce stato, de le miserie mie pietà ti mova; e me teco raccogli in cosí grato albergo ch’abitar teco mi giova. Forse fia che ‘l mio core infra quest’ombre del suo peso mortal parte disgombre. Allora dice al buon vecchio: «O fortunato, che un tempo hai sperimentato il male, ti auguro che il Cielo non ti privi di questa tua dolce condizione e ti prego di avere pietà delle mie sventure; e accoglimi in questo gradito albergo, così che possa giovami l'abitare con te. Forse accadrà che il mio cuore si sgravi in parte tra queste ombre del suo peso mortale. Ché se di gemme e d’or, che ‘l vulgo adora sí come idoli suoi, tu fossi vago, potresti ben, tante n’ho meco ancora, renderne il tuo desio contento e pago.» Quinci, versando da’ begli occhi fora umor di doglia cristallino e vago, parte narrò di sue fortune, e intanto il pietoso pastor pianse al suo pianto. Infatti, se tu fossi desideroso di gemme e d'oro che il volgo adora come suoi idoli, potresti appagare pienamente il tuo desiderio, tante ne ho ancora con me». Quindi, versando dai begli occhi un liquido cristallino e bello a vedersi [piangendo], raccontò in parte le sue sventure, e intanto il pietoso pastore pianse insieme a lei. Erminia trova nel pastore una forte consonanza Poi dolce la consola e sí l’accoglie come tutt’arda di paterno zelo, e la conduce ov’è l’antica moglie che di conforme cor gli ha data il Cielo. La fanciulla regal di rozze spoglie s’ammanta, e cinge al crin ruvido velo; ma nel moto de gli occhi e de le membra non già di boschi abitatrice sembra. Poi la consola e la accoglie come se ardesse d'amore paterno, e la porta dove c'è l'anziana moglie che il Cielo gli ha data degli stessi suoi sentimenti. La fanciulla reale si veste di rozzi abiti e cinge i capelli con un ruvido velo; ma nel modo in cui guarda e si muove non sembra certo un'abitante dei boschi. Non copre abito vil la nobil luce e quanto è in lei d’altero e di gentile, e fuor la maestà regia traluce per gli atti ancor de l’essercizio umile. Guida la greggia a i paschi e la riduce con la povera verga al chiuso ovile, e da l’irsute mamme il latte preme e ‘n giro accolto poi lo strige insieme. L'abito vile non copre la nobile luce e tutto ciò che c'è in lei di altero e cortese, e la sua maestà regia traspare fuori anche negli atti e nei gesti umili che compie. Porta il gregge al pascolo e lo riporta con la povera verga all'ovile, e spreme il latte dalle mammelle pelose [munge le bestie], e poi lo fa cagliare girandolo insieme [ne ricava il formaggio]. Erminia lascia l’armatura e si veste come i pastori mantenendo però la sua regale formalità nel modo di porsi, anche se ha le rozze vesti dei pastori Sovente, allor che su gli estivi ardori giacean le pecorelle a l’ombra assise, ne la scorza de’ faggi e de gli allori segnò l’amato nome in mille guise, e de’ suoi strani ed infelici amori gli aspri successi in mille piante incise, e in rileggendo poi le proprie note rigò di belle lagrime le gote. Spesso, quando le pecorelle giacevano sdraiate all'ombra nel caldo dell'estate, Erminia scrisse il nome amato [di Tancredi] in mille forme sulla corteccia dei faggi e degli allori, e incise su mille piante gli esiti negativi dei suoi infelici amori, e rileggendo poi le sue parole rigò di belle lacrime le guance. Erminia è prigioniera dei suoi sentimenti d’amore; incide sulle cortecce degli alberi il nome dell’amato e poi rivedendole torna di nuovo a piangere Indi dicea piangendo: «In voi serbate questa dolente istoria, amiche piante; perché se fia ch’a le vostr’ombre grate giamai soggiorni alcun fedele amante, senta svegliarsi al cor dolce pietate de le sventure mie sí varie e tante, e dica: `Ah troppo ingiusta empia mercede diè Fortuna ed Amore a sí gran fede!’ Quindi diceva piangendo: «Serbate tra voi (piante) questa dolorosa storia, amiche piante; perché se mai accadrà che qualche amante fedele soggiorni alla vostra piacevole ombra, senta svegliarsi in cuore una dolce pietà per le mie sventure così mutevoli e numerose, e dica: 'Ah, la Fortuna e l'Amore diedero una ricompensa troppo ingiusta e crudele a una fedeltà così grande!' Erminia vuole, scrivendo sua storia amore su alberi, che qualcuno che prova amore la capisca. Forse averrà, se ‘l Ciel benigno ascolta affettuoso alcun prego mortale, che venga in queste selve anco tal volta quegli a cui di me forse or nulla cale; e rivolgendo gli occhi ove sepolta giacerà questa spoglia inferma e frale, tardo premio conceda a i miei martíri di poche lagrimette e di sospiri; Forse accadrà, se il Cielo benevolo ascolta con affetto le preghiere dei mortali, che capiti talvolta in queste selve anche colui [Tancredi] a cui ora forse non importa nulla di me; e rivolgendo gli occhi dove giacerà sepolto questo mio corpo malato e fragile, conceda quale premio tardivo alle mie pene poche lacrime e sospiri (Erminia si accontenterebbe che Tancredi versasse qualche lacrima su sue ceneri dopo morte). Amore e morte si accostano (~Tancredi e Clorinda). onde se in vita il cor misero fue, sia lo spirito in morte almen felice, e ‘l cener freddo de le fiamme sue goda quel ch’or godere a me non lice.» Cosí ragiona a i sordi tronchi, e due fonti di pianto da’ begli occhi elice. Tancredi intanto, ove fortuna il tira lunge da lei, per lei seguir, s’aggira. per cui, se in vita il cuore fu infelice, possa almeno esser felice nella morte lo spirito, e le mie ceneri fredde possano godere delle sue fiamme [del suo amore] quello che ora non è lecito a me godere». Così parla ai tronchi che non possono udirla e fa uscire dai begli occhi due fonti di pianto. Intanto Tancredi, per seguire lei, si aggira dove la Fortuna lo attira lontano da lei. Episodio è uno dei rari intermezzi narrativi del poema e dà modo all'autore di aprire una parentesi "idillica" tra orrori della guerra, attraverso la figura mitizzata dei pastori: essi vivono in spazio che pare fuori dalla storia e sono immuni dalla violenza del conflitto, tanto che la loro condizione sembra ad Erminia invidiabile e la fanciulla decide di trascorrere in mezzo a loro un periodo di tempo, nella speranza di dimenticare il suo amore infelice per Tancredi. L'intermezzo dà anche modo a Tasso di polemizzare con la vita di corte, che il vecchio pastore ha conosciuto in gioventù e che giudica negativamente, specie per gli odî e le invidie che dividono i cortigiani (la cosa è accennata in modo indiretto col riferimento all'acqua del fiume, che ora può bere senza timore che sia cosparsa "di venen", che sia avvelenata). La polemica di Tasso è autobiografica, in quanto anch'egli prova insofferenza per l'ambiente rigido e oppressivo della corte che non a caso contrappone al mondo idillico dei pastori, una sorta di mitica "età dell'oro" in cui non esiste il concetto di onore ed è possibile vivere liberamente. Il personaggio di Erminia riveste un ruolo complementare a quello del pastore nella polemica contro la vita di corte, in quanto la fanciulla (nobile principessa e perciò parte integrante di quel mondo) può abbandonare momentaneamente il proprio ambiente sociale per una specie di "vacanza" tra i pastori, ma l'autore chiarisce che indossare panni rozzi e svolgere umili occupazioni non fanno di lei una vera pastorella, ciò che "d’altero e di gentile" c'è in lei traspare in ogni caso e ne rivela la reale natura. Tasso sottolinea che chi nasce e vive nella corte ne è in qualche misura prigioniero, non può dire "O corte, a Dio" come ha fatto il pastore, e la cosa vale naturalmente per lui stesso che, pur mal sopportando le restrizioni della vita nobiliare, non se ne può sottrarre. Erminia mostra oltretutto di non aver compreso sino in fondo le parole del vecchio, dal momento che gli offre oro e gemme a compenso della sua ospitalità, mentre lui ha appena detto di non avere alcun desiderio di tal genere (i due parlano linguaggi diversi, come diverso è il mondo cui appartengono). La permanenza di Erminia tra i pastori non lenisce affatto le sue pene amorose e la fanciulla passa il suo tempo incidendo il nome di Tancredi sulla corteccia degli alberi, come pure la storia del suo amore non corrisposto, con una ripresa dichiarata del passo del Furioso in cui Orlando legge i nomi di Angelica e Medoro sugli alberi e inizia a impazzire. Tasso imita Ariosto anche quando attribuisce a Erminia una sorta di "madrigale" con cui si rivolge alle piante pregandole di offrire riparo ai viandanti e di raccontare la sua storia, fatto che ricorda i versi incisi da Medoro all'ingresso della grotta (con la differenza che in quel caso si trattava di un amore felice e il saraceno ringraziava gli elementi del paesaggio per aver accolto lui e Angelica quali amanti). Vi è poi una chiara imitazione petrarchesca allorché Erminia si augura di essere sepolta dopo la morte in quel luogo e che Tancredi possa piangere sulla sua tomba, benché la situazione sia rovesciata rispetto alla canzone di Petrarca e qui l'autrice dei versi sia una donna, mentre è analogo il fatto che in entrambi i casi l'amore non è corrisposto ed è fonte di sofferenza. La fuga iniziale di Erminia ricorda volutamente quella di Angelica all'inizio del Furioso, con la principessa del Catai che giungeva anche lei in un locus amoenus dove, però, incontrava il re Sacripante e metteva in atto le sue astuzie amorose, mentre diverso è il destino del personaggio di Tasso. Erminia inoltre indossa l'armatura sottratta a Clorinda per lasciare Gerusalemme, che inizialmente spaventa i pastori, anche se la fanciulla mostra subito "i bei crin d’oro" e si dichiara del tutto inoffensiva; risulta strano, a questo proposito, che il pastore la chiami poi "figlio" (ott. 9, v. 5), anche se forse è solo un modo per rispondere all'epiteto "padre" che Erminia gli ha rivolto (a meno che il pastore continui a credere che lei sia un guerriero, cosa meno probabile). Marino e Tassoni rappresentano dissolvimento modello poema eroico Inizio ‘600: storia narrativa cavalleresca volge al termine. In Italia libri di cavalleria in ottava rima non scompaiono, ma sopravvivono come mera letteratura di intrattenimento di basso livello. In quegli stessi decenni si esaurisce anche la più breve tradizione del poema eroico, culminata con Gerusalemme liberata di Tasso. Come simbolico punto terminale possiamo indicare la parodia in chiave comica che di quel genere letterario fa La secchia rapita (1622) di Tassoni. Tuttavia, il segno più evidente della crisi irreversibile che ha colpito la tradizionale narrazione in versi è fornito, paradossalmente, da iper-poema pubblicato nel 1623: Adone di Marino → misura sterminata (tre volte Commedia). Sensazione di dismisura nasce da forte squilibrio tra esilità storia raccontata e ampiezza narrazione. Poema amplifica la breve favola ovidiana del bellissimo Adone, ucciso da un cinghiale durante caccia e trasformato da Venere, di lui perdutamente innamorata, in un fiore. È strano che poema di tale imponenza si regga su spunto così gracile. TRAMA: Cupido, per vendicarsi di sua madre Venere, che lo aveva battuto, decide di farla innamorare: a questo scopo trasferisce un giovane bellissimo, Adone, a Cipro, dove lei soggiorna. Adone e Venere si innamorano. I due vivono felici nel palazzo della dea dandosi ai piaceri amorosi, visitando giardini e compiendo viaggi all'isola della poesia e ai cieli della luna, di Venere e di Mercurio. Venuto a sapere del tradimento della moglie, Marte si precipita a Cipro; Adone fugge. Attraverso un viaggio sotterraneo perviene presso una maga, Falsirena, che lo fa prigioniero. Durante prigionia, per errore trasformato in pappagallo dalla maga, assiste agli amori di Venere e Marte. Alla fine, comunque, riesce a fuggire e, dopo varie peripezie (es: si deve travestire da donna, suscitando desiderio di uomini), torna a Cipro, dove torna ad amoreggiare con Venere, e dove è eletto re. Venere però deve allontanarsi per andare sull'isola di Citera. Prima della partenza Adone le strappa il permesso di cacciare nel parco di Diana. Marte ne approfitta e durante la caccia gli tende un tranello incitandogli contro un cinghiale. Per sbaglio Adone lo colpisce con una freccia di Cupido: cinghiale si innamora di lui e tenta di baciarlo, ma, incapace di controllare il suo istinto ferino, con questo atto lo uccide. Venere, sopraggiunta, risparmia la vita al cinghiale assassino per amore, trasforma il cuore di Adone in un anemone e indice tre giorni di giochi in suo onore. STR 156: Rosa riso d'amor, del ciel fattura, rosa del sangue mio fatta vermiglia, pregio del mondo e fregio di natura, dela terra e del sol vergine figlia, d'ogni ninfa e pastor delizia e cura, onor del'odorifera famiglia, tu tien d'ogni beltà le palme prime, sovra il vulgo de' fior donna sublime. Venere punta da rosa, medicata da Adone che si innamora di lei; Venere elogia la rosa in quanto strumento per far si che Adone si innamorasse di lei. Della rosa Marino vuole dire tutto ciò che è dicibile (caratteristica della lirica barocca). Rosa = elemento protagonista delle liriche amorose, cantata da molti poeti, in genere come nel canto XVI della Gerusalemme liberata → cogliere amore nell’età della giovinezza; cogliere l’attimo. A Marino non interessa tale aspetto; egli vuole celebrare la regalità della rosa, fiore preminente sugli altri. È un encomio della rosa. Dice tutto ciò che può dire. Idea che poeta debba avere capacità di dire tutto ciò che è dicibile sul suo oggetto. Per Venere-Marino (non insiste su caducità del fiore) qui la rosa è riso dell’amore. Venere arrossisce. Paronomasia = parole con suono simile ma significati diversi. d'ogni ninfa e pastor delizia e cura = ambientazione pastorale, zone idilliche, campestri. tu tien d'ogni beltà le palme prime = sei la più vittoriosa sugli altri fiori. Sei la regina del popolo dei fiori La rosa da bianca diventa rossa; è qui che sboccia l’amore. Nuova visione della rosa, no caducità, qui è presentata come domina/regina dei fiori. STROFE 157 – 160 Quasi in bel trono imperadrice altera siedi colà su la nativa sponda. Turba d'aure vezzosa e lusinghiera ti corteggia dintorno e ti seconda e di guardie pungenti armata schiera ti difende per tutto e ti circonda. E tu fastosa del tuo regio vanto porti d'or la corona e d'ostro il manto. Metafora rosa-regina continua; rosa è ora trasformata in imperatrice, che siede come in un trono nel luogo in cui è nata. Le regine hanno un corteggio llora a rosa ha una Turba d'aure vezzosa e lusinghiera intorno a lei. I guerrieri armati che la proteggono sono le spine (= guardie pungenti armata schiera ti difende per tutto e ti circonda). Manto rosso = d’ostro. Elogio portato all’estremo. Porpora de' giardin, pompa de' prati, gemma di primavera, occhio d'aprile, di te le Grazie e gli Amoretti alati fan ghirlanda ala chioma, al sen monile. Tu qualor torna agli alimenti usati ape leggiadra o zefiro gentile, dai lor da bere in tazza di rubini rugiadosi licori e cristallini. allitterazione con la P Rosa = abbellimento dei prati, occhi d’aprile (campo metaforico, rosa diviene un occhio che ci dice che arriva primavera). versi costruiti a chiasmo grazie e amoretti svolazzano intorno alla sua chioma (come se fosse una donna, ma ha petali) Questa rosa regina porge cibo alle api in una tazza di rubini = la sua corolla di petali (metafora) e cosa gli offre rugiadosi licori e cristallini Non superbisca ambizioso il sole di trionfar fra le minori stelle, ch'ancor tu fra i ligustri e le viole scopri le pompe tue superbe e belle. Tu sei con tue bellezze uniche e sole splendor di queste piagge, egli di quelle, egli nel cerchio suo, tu nel tuo stelo, tu sole in terra, ed egli rosa in cielo. Sole non si insuperbisca sulle stelle minore, tu (rosa) non farlo sui fiori bianchi più piccoli (ligustri). Rosa ha il primato di essere la più bella / pomposa tra le bellezze floreali. Piagge = terreno tu sole in terra, ed egli rosa in cielo = scambio per via metaforica, che ci dice come guarda il mondo la cultura barocca, vi sono sempre rovesciamenti, trasmutazioni del mondo. Si paragona potenza della rosa a quella del sole, si scambiano i reciproci regni. Mondo poeti barocchi è instabile, tutto muta, si segnala difficoltà di dominare la realtà, ma la volontà di dominarla, dominare natura attraverso l’arte. E ben saran tra voi conformi voglie, di te fia 'l sole e tu del sole amante. Ei de l'insegne tue, dele tue spoglie l'Aurora vestirà nel suo levante. Tu spiegherai ne' crini e nele foglie la sua livrea dorata e fiammeggiante; e per ritrarlo ed imitarlo a pieno porterai sempre un picciol sole in seno. Dopo questo rovesciamento, nel sole e nella rosa nasceranno desideri simili: sole diventerà amante rosa e viceversa. il sole quando si leva prenderà i colori della rosa (all’albeggiare, toni rossi) e levandosi /tramonto lascia le tue spoglie, riprende i toni rossi. e i crini = pistilli rosa prende i colori del sole, dorate per ritrarlo ed imitarlo a pieno porterai sempre un picciol sole in seno = questi piccoli raggi dorati che tieni nel tuo profondo gli avrai x ricordare il sole completo rispecchiamento sole-rosa scambio completo rosa è soggetto poesia molto utilizzato/praticato x Marino è difficile trovare un modo nuovo x raccontarla STROFE 160 – 163 Ma sappi, anima mia, che quale il vedi, quel ch'or ti fa pietà, povero infante, volge il mondo sossovra e sotto i piedi ha con tutti i celesti il gran tonante. Ben ten'accorgerai se tu gli credi; ma non gli creda alcun accorto amante. Scelerato, fellon, furia, non dio, sì partorito mai non l'avess'io. Venere parla della natura di Amore con Adone. reprobatio = condanna; da lode a rimprovero di Amore. Marino sfrutta ossimoro, artificio retorico sviluppato da autore a suo modo; irrefrenabile cascata di paradossi, che usa per parlarci della natura di Amore. es: nei Trionfi di Petrarca vi sono momenti in cui Amore viene definito da catene di ossimori; il costruire tali catene ossimoriche fa vedere estremo virtuosismo di Marino (sprigiona dal suo strumento tutte le sue possibilità, immagine virtuoso dell’arte). Amore dorme; Venere l’ha legato e lui si è addormentato; la dea dice ad Adone che Amore sembra tranquillo ma non lo è; sembra mite ma in realtà riesce a mettersi sotto i piedi tutti gli dèi e anche il gran tonante (Giove). Ti renderai ben conto della sua potenza se gli credi, ma se sei un amante furbo non ti fidare di lui. Fellon = sleale. Amore è bendato, ma ciò non gli impedisce di colpire il suo bersaglio. È cieco sì, non perché già gli strali se ferir vuol, non veggia ove rivolga, ch'ascoso il cor nel petto de' mortali trovar ben sa, senza che 'l vel si sciolga. Cieco ei s'infinge sol negli altrui mali, né gli cal, ch'altri pianga o che si dolga; e cieco è sol però ch'accieca altrui per dar la morte a chi si fida in lui. Amore si finge cieco solo nel dolore che infligge agli altri. calere = non gli importa Lo possiamo dire cieco solo perché acceca gli altri per quelli che si fidano di lui. Fiero accidente e rapido volere, desio che 'nchina a partorir nel bello, scende al cor per la vista e vuol godere, cerca il diletto e sol s'acqueta in quello. Ma poiché lusingato ha col piacere, ai più fidi e devoti è più rubello. Gli altri affetti del'alma, apena entrato scaccia e s'usurpa quel che non gli è dato. Un accidente che capita, che colpisce fieramente. Marino si rifà a Cavalcanti: donna me prega (rampino). Desiderio che vuole procreare nella bellezza. L’amore parte dagli occhi (per la poetica passata). Amore unidirezionale, scopo = provare piacere. Ma poiché lusingato Dopo aver lusingato la sua vittima Amore si presenta con questa forza tirannica/prorompente, quando entra nell’anima prede tutto e scaccia tutti gli altri sentimenti Sotto la sua vittoriosa insegna piangon mill'alme afflitte i propri torti. Mansueto e feroce, ama e disdegna, prega e comanda, or pene or dà conforti. Leggi rompe, armi vince e, mentre regna, piega i saggi egualmente e sforza i forti Risse e paci compone, ordisce inganni, sa far lieti i dolori, utili i danni. Sotto il suo dominio ci sono tanti dolori alle anime che iniziano a soffrire/piangere OSSIMORI (anche in prossima strofa) Dà sofferenze e conforti, amore è anarchico, rompe leggi e mentre regna costringe alla resa i forti Riesce a piegare sia le persone sagge sia quelle forti, che cercano di non cadere nella tentazione di Amore STROFE 164 – 169 Tenero come ortica e come cera è duro, umil fanciullo e fier gigante. Il disprezzo lo placa, e la preghiera più terribile il rende e più arrogante. Qual Proteo ha qualità varia e leggiera, in tante forme si trasforma e tante. Ha l'entrata ne' cor pronta e spedita, faticosa e difficile l'uscita. Ossimoro diventa paradosso. Adombrata; psicologia dell'amore, dialettiche tra innamorati paci e liti che si alternano Disprezzo lo placa: comportamento paradossale. Dio prende tutte le forme; fisonomia proteiforme; si trasforma in continuazione (Amore) È facile innamorarsi, difficile sciogliere tale sentimento Ha faci e reti e lacci ed arco e dardi, quant'ha, tutto è veleno e tutto è foco. Mostra viso benigno e dolci sguardi, or salta, or vola e non ha stabil loco. Forma falsi sospir, detti bugiardi, spesso s'adira e volge in pianto il gioco. Quelche giova non cura o quelche lice, né teme genitor né genitrice. Amore (fa innamorare) e fratello Imene (sposa, simbolo = fiaccole); fuoco associato a amore, Amore = bimbo alato che svolazza e lancia frecce, è imprendibile. In fenomenologia Amore ci sono anche menzogne, bugie, spesso si arrabbia e trasforma gioco in pianto. Obiettivo Amore non produce qualcosa che giovi/duri. Amore non teme né genitrice (Venere) né genitor (Marte). La spada a Marte e la saetta a Giove toglie di mano e sì l'aventa e vibra. Repentino e furtivo assalti move, né con scarse misure i colpi libra. Fa piaghe inevitabili e là dove passa, attosca gli spirti in ogni fibra. Va per tutto e per tutto or cala, or poggia, ma sol ne' cori e non altrove alloggia. Amore toglie agli dèi potenti le loro armi (spada a Marte + saette a Giove); Amore guerriero, dà colpi forti, fa piaghe inevitabili, avvelena gli spiriti, si alza in volo. Ciò che del mentitor l'arte richiede ciò ch'ai furti del'alme oprar bisogna, dalo dio del'astuzie e dele prede nelo studio imparò dela menzogna. Non conoscer giustizia e romper fede, schernir pietate e non stimar vergogna, tutto apprese da lui; né scaltro e destro il discepol fu poi men del maestro. Amore è allievo del dio degli imbrogli e dei furti = Mercurio; ciò che serve per rubare anime = menzogna. Non conosce giustizia, né vergogna, ha preso tutto da lui; discepol fu poi men del maestro = l’allievo non fu meno del maestro. Impara ad essere infedele, a schernire pietà, ad essere spudorato/sfacciato Consiglier disleal, guida fallace, chiunque il segue di tradir si vanta. Astuto uccellator, mago sagace, i sensi alletta e gl'intelletti incanta. Indiscreto furor, tarlo mordace, rode la mente e la ragion ne schianta. Passion violenta, impeto cieco, tosto si sazia e 'l pentimento ha seco. Metafora fortissima coppie versi: consigliere sleale (non ci si può fidare) si vanta di tradire chiunque (compl. ogg.) lo segua. Conquista i sensi ed incanta gli intelletti. Indiscreto furor, tarlo che rode la mente e fa impazzire la ragione (la quale si schianta; razionalità umana viene annientata). Subito si sazia e va da un’altra parte. Ceda del mar Tirren la fera infida e del fiume d'Egitto il perfid'angue, che forma a danni altrui canto omicida e piange l'uom, poiché gli ha tratto il sangue; questi toglie la vita e par che rida, ferisce a morte e per pietà ne langue; in gioconda prigion, di vita incerto tiene altrui preso e mostra l'uscio aperto. Amore paragonato a sirene e coccodrillo; Amore è peggio, non credano di avere loro supremazia, cedano il loro primato (piange dopo che ha ammazzato un uomo con i denti = coccodrillo). In piacevole carcere: Amore come dolce prigione; espressione ritrovabile in Metastasio, poeta che analizza psicologia amorosa in canzonette. Innamorato si sente ingabbiato anche se porta pare aperta. ti rimarrai del'aquila pastura, rivolta al ciel la pancia, al suol la schiena, senza poter drizzarti insu l'arena. Onde malgrado del piacer che sente d'amorosa saetta un cor ferito, temprata la libidine cocente, la salute anteposta all'appetito, sarai costretta a esser continente ed a fuggire il tuo crudel marito, bench'occulta virtù d'erba efficace ti farà pur piacer quelch'altrui piace. – Tartaruga prova tensione erotica, e nonostante il piacere che produce l’amore, per non finire a pancia in su a morire in preda all'aquila, metterà la salute davanti all’appetito, rinuncerà all’eros, sarà costretta a reprimere istinto sessuale. Benché tu ti nutra di un’erba che fa crescere appetito sessuale. Così la maledisse ed adirata ritrasse altrove il piè Ciprigna bella. Mercurio che 'n testudine mutata vide, sua colpa, la gentil donzella, pietà ne prese e d'auree corde armata lira canora edificò di quella, indi lieto inventor di sì bel suono, fenne al gran dio de' versi altero dono. Mercurio ebbe pietà, quando la vide morta, e con il guscio della tartaruga ci mise delle corde e lo trasformò in strumento musicale in onore di Apollo (dio poesia) Favoletta Galania si sviluppa ai margini del più ampio episodio della partita a scacchi, descritta puntualmente come gioco e, al contempo, come cruenta battaglia campale. 1. Scontro scacchi riporta lettore a battaglie romanzi cavallereschi → effetto cercato da Marino, che ama sovrapporre registri e rovesciare situazioni. Drammaticità combattimento metaforico e leggerezza gioco reale si contaminano. Racconto bellico si presenta come finzione di una finzione. Si coglie caratteristica della narrativa di Marino = mutevole, ibridata, doppia (no univocità e semplicità); 2. Armi si affacciano solo come riflesso di un'attività ludica; valori di forza, eroismo e fisicità sono estranei al mondo di Adone. Qui valore motore di ogni azione è eros. Non è per mero capriccio che Venere, oltre ad averla ridotta a bestia, punisce ninfa con forzata rinuncia a sesso, resa ancor più penosa da persistenza desiderio. Nel poema metamorfosi è aspetto dell'esistenza; inibizione dell'eros è invece negazione vita. Altro tratto tipico Marino: condanna è imperniata su concretizzazione di paradossale virtualità → per preservare vita la ninfa-tartaruga dovrà astenersi da atto che dà vita. Poema declina eros in forme molteplici: desiderio sessuale, desiderio bellezza, possibile trampolino a spiritualità e incanto dei sensi ecc. In universo totalmente erotizzato ruoli sessuali possono essere instabili, ambigui, soggetti a metamorfosi. 3. Metamorfosi è una delle cifre più importanti del libro. Es: Adone, prima di trasformarsi in fiore, si trasforma in pappagallo. Poema è fitto di racconti metamorfici ed è popolato da varie mezze figure, strani esseri in cui natura ferina si innesta su natura umana. Ibridazione e innesto, al pari di metamorfosi, in quanto processi a cavallo tra ciò che è vero e ciò che non lo è, annullano confini, vanificano distinzioni, mettono in dubbio certezze ed enfatizzano gamma del possibile. Travestimento è aspetto clamoroso della mobilità del reale. A volte, atto di mascherare e travisare è addirittura portatore di verità (es: Adone si traveste da donna, suscitando poi amore di uomini; così mascherato Adone rivela la sua natura, che è femminea e passiva). Elemento su cui poggiano racconti metamorfici e di travestimento è l'ambiguità. Questi racconti sono mezzi narrativi attraverso cui poema inscena il grande tema della crisi delle identità. 4. A prima vista, storia Galania (forma dialettale veneta per testuggine) non sembrerebbe avere implicazioni rilevanti. Favoletta racconta come dea, in scatto d'ira, abbia creato animale inferiore, brutto, poco vitale, refrattario al sesso. Nel racconto tartaruga prende forma da donna giovane, bella, sveglia e sensibile a eros. Rovesciamento è puntuale e meccanico; simbolismo è povero (sola degradazione di essere vivente). Metamorfosi nasconde però grumo innovativo: essa si attua attraverso innesto di un elemento artificiale (scacchiera) in corpo ninfa. Non è dunque processo naturale, miracoloso e inverosimile, ma coerente. Punto partenza è somiglianza tra corazza tartaruga e scacchiera; vettore logico-narrativo, però, non va da corazza a scacchiera, ma da manufatto artificiale a essere naturale. Risultato paradossale: oggetto inanimato artificiale si tramuta in essere vivente di natura. Tale sequenza narrativa è leggibile come la resa alla lettera di una metafora: scacchiera è una tartaruga; e per di più come una metafora logicamente rovesciata: tartaruga è una scacchiera. Metafora narrativa. Il Marino dell'Adone non abusa di questa figura retorica: dettato è complessivamente limpido, lontano da eccessi retorici, imperniati su metafora, delle scritture liriche. Nella favoletta cadono confini tra mondo naturale (creato da dei) e mondo artificiale (prodotto da uomini). NB: rimescolamento non avviene una volta per tutte: corazza naturale della tartaruga, grazie a Mercurio, si trasformerà a sua volta nell'oggetto «lira». Come se questa vicenda di dolore e punizione non avesse altro scopo che preparare strumenti per canto e poesia. Favola Galania fornisce altre indicazioni su modo scrivere Marino; es.: Understatement → no coinvolgimento autore; si manifesta con brevi interventi ironici e con alternanza tonale usata come ostacolo ai processi di identificazione da parte del lettore, privato di una rappresentazione univoca cui poter aderire con tranquillità. Parole che Venere rivolge a ninfa presentano un brusco trapasso tonale: a una prima frase in linea con tradizionale parenesi sacra (ad irritar de' sommi dei lo sdegno / impara) succede una considerazione ispirata alle regole di comportamento (ed a turbar l'altrui diletto). La gravitas dell'inizio si scioglie nell'ironia: ma «diletto» è sinonimo di «piacere», e piacere è una delle parole chiave del poema. Quando parla di «piacere» (legato a sensi e sesso) Marino è serio, sicché lettore a cui sia familiare il sistema tematico del poema, davanti a quell'improvviso abbassamento tonale è portato a sorridere, ma è impedito di ridere. Che messaggio intendeva trasmettere Marino a lettore facendo cominciare racconto metamorfico con gesto della dea adirata che colpisce sulla testa con la scacchiera la ninfa? Era prassi diffusa che vincitore di una partita a scacchi segnasse vittoria colpendo avversario lievemente in testa con scacchiera. Racconto mitico che si sviluppa da un futile fatto di costume quanto conserva dell'aura di cui la tradizione delle metamorfosi inevitabilmente lo circonda? Marino vuole dissipare quell'aura? Togliere credibilità? Potrebbe essere così, se Marino fosse autore preoccupato di credibilità di ciò che racconta. A interessarlo sono gioco dei rovesciamenti e mutevolezza della ricezione. Ancor meno è preoccupato di essere originale. Metamorfosi di Galania è invenzione di Marino. Idea, però, gli è stata suggerita da paragone fra corazza tartaruga e scacchiera che si trova in un poemetto latino. Niente di strano, se non fosse che l'intera partita a scacchi dell'Adone segue da vicino quella tra Apollo e Mercurio raccontata da Vida. Non solo: dopo che Venere ha rovesciato i pezzi e punito Galania, tra i presenti alla partita nasce una disputa su chi debba essere considerato vincitore; ebbene, anche questa disputa segue molto da vicino quella che in una novella di Cinzio si accende fra due giocatori di scacchi promessisi l'un l'altro come premio al vincitore. Forme di appropriazione come queste sono così smaccate da aver fatto gridare alcuni contemporanei al plagio. Sono così frequenti che non c'è quasi situazione narrativa a cui non sottostia un testo di appoggio. Questi sono tanti e diversi fra loro (classicità, moderni volgari e latini, contemporanei). Parlando dell’Adone si potrebbe parlare di una grande enciclopedia della letteratura. Non costruita, però, con la solita forma mentis classicista di fare letteratura con e sulla letteratura. Scopo di Marino non è quello di produrre nuovo con il noto, operazione che presuppone che il già detto sia portatore di significato nel testo che lo assume o, almeno, che tra i due testi sussista una dialettica produttrice di senso. Per Marino, invece, i materiali di tradizione sono semplicemente materiali: sostengono la nuova costruzione, ma non ne sono elementi costitutivi dal punto di vista del senso. Possono essere esibiti fino al plagio perché il senso è tutto nella nuova costruzione, che con la letteratura con cui è edificata intrattiene solo un rapporto strumentale, non dialettico. Il termine enciclopedia può essere usato anche per quanto concerne i contenuti (ricchezza di temi, motivi, spunti narrativi: mitologia, scienza e pseudoscienze, astrologia e chiromanzia, rappresentazione vita di società, miti cristiani e allusioni mistiche alle vite dei santi…). Due aspetti importanti: 1. omogeneità tra informazioni desunte da letteratura e dati ricavati da esperienza = omogeneità e interscambio, tra realtà e finzione; 2. contenuti, letterari e non, si inseriscono in strutture narrative “deboli”, incapaci di arginare la piena dei particolari e le pressioni centrifughe. Debolezza impianto narrativo comporta anche debolezza dei significati di fondo. Episodio si colloca nel canto VII, zona del testo dedicata a giardino del palazzo, entro cui vengono spiegate a Adone le meraviglie dei 5 sensi (quasi percorso di formazione prima di sua unione sessuale con Venere). Nella sezione dedicata a udito, Mercurio racconta ad Adone la contesa tra un musicista e un usignolo: il primo intento a sfogare nella musica le proprie sofferenze amorose, il secondo impegnato a replicare tutte le note dello strumento con la propria voce. Gara ha esito patetico e luttuoso, ma ciò che importa è che nelle ottave dedicate a celebrare abilità del musico e la forza della voce dell'usignolo Marino realizzi una splendida digressione che può essere letta a più livelli: un primo aspetto è rappresentato dal virtuosismo con cui vengono descritti i suoni, tra scale e contrappunti, modulazioni e variazioni, con la poesia disposta a mimare gli esiti mobilissimi della musica. Altrettanto evidente è poi tema della contesa tra Natura, rappresentata da usignolo («piuma canora», «atomo sonante», ottava 37), e Arte che risuona nell'abilità del musicista; l'esito sancisce così la vittoria dell'Arte sulla Natura, in quello che può essere forse considerato uno dei significati generali dell'Adone, poema tutto mirato alla creazione di un universo governato dall'artificio del Marino. Episodio dell’usignolo è una delle tante digressioni del poema → gara musicale tra liutista e usignolo; questa digressione è messa in bocca a un personaggio, Mercurio. Marino descrive: 1. giardino udito; 2. organo udito = orecchio umano (minimi dettagli, stupefacente anatomia); 3. rassegna tutta famiglia uccelli; 4. descrive usignolo. Alcune fonti (Marino ne sfrutta anche altre, molto variegate tra loro): 1. Plinio il Vecchio, Naturalis Historia (storia naturale; è la più antica enciclopedia del mondo antico; è un testo scientifico si parla di ornitologia); 2. Famiano Strada, Propulsiones (propulsioni) Alla fine l’usignolo muore. Morte simboleggia la superiorità dell’arte sulla natura. Ma sovr'ogni augellin vago e gentile che più spieghi leggiadro il canto e 'l volo versa il suo spirto tremulo e sottile la sirena de' boschi, il rossignuolo, e tempra in guisa il peregrino stile che par maestro del'alato stuolo. In mille fogge il suo cantar distingue e trasforma una lingua in mille lingue. Usignolo tra uccellini primeggia per canto. È il più bravo tra uccelli canori, ha uno stile poco imitabile, sembra il maestro degli uccelli. Sa modulare le note fino a rendere quasi più lingue Udir musico mostro, o meraviglia, che s'ode sì, ma si discerne apena, come or tronca la voce, or la ripiglia, or la ferma, or la torce, or scema, or piena, or la mormora grave, or l'assottiglia or fa di dolci groppi ampia catena, e sempre, o se la sparge o se l'accoglie con egual melodia la lega e scioglie. monstrum = prodigio; da piccolo corpo esce miracolo. Pezzo di bravura dal punto di vista della costruzione dell’ottava, seguendo tali parole sembra di avere quasi la traduzione sonora di ciò che fa l’uccellino. Movimento di note controllato inserite in una melodia. vi è distanza enorme tra la dimensione fisica dell’usignolo e la sua prodigiosa capacità nel canto O che vezzose, o che pietose rime lascivetto cantor compone e detta. Pria flebilmente il suo lamento esprime, poi rompe in un sospir la canzonetta. In tante mute or languido, or sublime varia stil, pause affrena e fughe affretta, ch'imita insieme e 'nsieme in lui s'ammira cetra flauto liuto organo e lira. Termini musicali Poeta si sofferma su cosa esprime il canto; rime vezzose (dolci) o pietose (commoventi); lascivetto (diminutivo) cantor = uccello; compone (inventa) e detta (diffonde) CANZONETTE > grande voga all’epoca > forma fatta per essere musicata > alternanza toni affabili/suadenti e toni malinconici (pietose rime… sospir…) Liutista è andato a sfogare i suoi tormenti d’amore. Protagonista è sempre amore tante mute or languido = tono note mutano Chi ascolta tale canto sente più strumenti (cetra, flauto, liuto, organo, lira…). Fa dela gola lusinghiera e dolce talor ben lunga articolata scala. Quinci quell'armonia che l'aura molce, ondeggiando per gradi, in alto essala, e, poich'alquanto si sostiene e folce, I precipitosa a piombo alfin si cala. Alzando a piena gorga indi lo scoppio, forma di trilli un contrapunto doppio. Termini musicali. Poeta esprime suo virtuosismo, rendendo con le parole l’articolazione di questo canto. Dalla gola (quinci) quell'armonia che l'aura molce, ondeggiando (gradualmente) per gradi, in alto essala, e, poich'alquanto si sostiene e folce (dopo che è rimasto per tempo trattenuta), precipitosa a piombo alfin si cala (canto si alza fino al massimo e poi si abbassa). Alzando a piena gorga indi lo scoppio, forma di trilli un contrapunto doppio (voce che si alza). Par ch'abbia entro le fauci e in ogni fibra rapida rota o turbine veloce. Sembra la lingua, che si volge e vibra, spada di schermidor destro e feroce. Se piega e 'ncrespa o se sospende e libra in riposati numeri la voce, spirto il dirai del ciel che 'n tanti modi figurato e trapunto il canto snodi. Dentro il corpicino sembra ci sia una ruota che gira velocemente, o una trottola all’impazzata. Similitudini, paragoni: ruota , trottola, lingua paragonata a un fioretto feroce Libra = bilancia; in riposati numeri = melodie tranquille Ultimi due versi = canto angelico Termini musicali della polifonia Vola su per le corde or basso, or alto più che l'istesso augel la man spedita. Di su, di giù con repentino salto van balenando le leggiere dita. D'un fier conflitto e d'un confuso assalto inimitabilmente i moti imita ed agguaglia col suon de' dolci carmi i bellicosi strepiti del'armi. Attenzione alla mano che vola spedita più di quanto non faccia la voce Trasformazione + lessico e raffigurazioni belliche Balenando: si introduce elemento guerresco; gara si sta trasformando in una battaglia quasi cavalleresca Leggiere dita = come lampi Timpani e trombe e tutto ciò che, quando serra in campo le schiere, osserva Marte, i suoi turbini spessi accelerando, nela dotta sonata esprime l'arte, e tuttavia moltiplica sonando le tempeste de' groppi in ogni parte; e mentrei l'armonia così confonde, il suo competitor nulla risponde. Attenzione alla mano che vola spedita più di quanto non faccia la voce Vittoria arte sulla guerra = vittoria musica-poesia sul poema; esprime tutto ciò che marte esprimeva in battaglia Uccellino non risponde Poi tace e vuol veder se l'augelletto col canto il suon per pareggiarlo adegua. Raccoglie quello ogni sua forza al petto, né vuole in guerra tal pace né tregua. Ma come un debil corpo e pargoletto esser può mai ch'un si gran corso segua? Maestria tale ed artificio tanto semplice e natural non cape un canto. Uccellino non vuole né pace né tregua. È possibile che quel pargoletto possa avere tale potere? Un canto semplice e naturale non riesce a contenere una maestria tale. Cede all'artificio, maestria dell’arte; natura soccombe all’arte. Poiché molte e molt'ore ardita e franca pugnò del pari la canora coppia, ecco il povero augel ch'alfin si stanca e langue e sviene e 'fievolisce e scoppia. Così qual face che vacilla e manca, e maggior nel mancar luce raddoppia, dala lingua che mai ceder non volse il dilicato spirito si sciolse. Sembra un duello. Uccellino sviene e scoppia. Immagine morte uccello resa con spegnersi di una candela; ultimo bagliore prima di spegnersi (lo spirito delicato dell’animale) Le stelle, poco dianzi innamorate di quel soave e dilettevol canto, fuggir piangendo e dale logge aurate s'affacciò l'alba e venne il sole intanto. Il musico gentil per gran pietate l'estinto corpicel lavò col pianto ed accusò con lagrime e querele non men se stesso che 'l destin crudele Le stelle, piangendo, se ne vanno e sorge l’alba, arriva il sole. Liutaio è pentito, lava usignolo con il proprio pianto, accusa sia sé stesso che il crudele destino ammirando le capacità dell'uccellino. ed ammirando il generoso ingegno, fin negli aliti estremi invitto e forte, nel cavo ventre del sonoro legno il volse sepelir dopo la morte. Né dar potea sepolcro unqua più degno a sì nobil cadavere la sorte. Poi con le penne del'augello istesso vi scrisse di sua man tutto il successo. Sorte non poteva andare a un tanto nobile cadavere, non poteva dargli un sepolcro più degno di questo, sepolto nella cassa armonica del liuto (strumento); e con la sua penna scrive il suo successo Ma chi fu che l'instrusse? il mastro vero, non so se 'l sai, fu di quest'arte Amore. Egli insegnò la musica primiero, ei fu de' dolci numeri l'autore e del soave ordigno e lusinghiero volse le corde nominar dal core. O che strana armonia dolce ed amara nela sua scola un cor ferito impara! Celebrazione arte. Amore (dio) insegnò le dolci melodie; egli è inventore della musica (quest’arte Arte) e del soave ordigno (liuto) perché volse le corde nominar dal core > (corde derivano da core, etimologia vigente all’epoca, ora si sa che non è così). Nella scuola di Amore impara un cuore ferito. Motore di tutto è sempre Amore. Tutto nasce da forza motrice mondo = freccia Cupido. Poema epico è archiviato (poema della guerra); in questo passo sovrapposizione tra guerra e arte riflette le linee portanti del poema. Tassoni è modenese; sua opera più famosa è La secchia rapita, contemporanea a Adone di Marino. È poema eroicomico, sorta di parodia del poema eroico. Tassoni scrive idee di carattere teorico nelle prefazioni delle sue opere, in primis nel prologo del suo poema. LA SECCHIA RAPITA Allude: posto inizio vicenda; logica narrativa, da elemento negativo (furto) al risarcimento; no vittoria definitiva, sorta di parità con il papa. Poema 12 canti: 1. scontro tra modenesi e bolognesi. Racconto storico, ordine storico avvenimenti non rispettato: Tassoni è più interessato a racconto. Rapimento secchi di legno 1325 a Zappolino; tale scoperta fa innescare guerra. 2. Tassoni scrive la storia avendo in mente Omero, rispetto al quale discute i poemi omerici, filo odissea, vede peggio l’iliade. Critica regole aristoteliche. Gli dèi scendono in terra per sostenere Modena, ridicolizzati, mentre Giunone e Zeus sono a favore di Bologna. 3. Venere va in Sardegna ad incitare re Enzio (figlio Federico II) 4. assedio Castelfranco (1323) e furto e della secchia 5. conquista Castelfranco 6. modenesi fanno prigioniere Enzio 7. modenesi non in fuga; ma Renoppia (guerriera modenese, molto fiera, audace) ferma giovani al ponte 8. padovani vengono in aiuto ai modenesi (storicamente nel 1247): tregua, le parti iniziano a trattare. Entra in scena un aedo, che racconta storie dell’innamoramento di Diana nei confronti del pastore Endimione. Renoppia interrompe bruscamente l’opera chiedendo di cantare una cosa più edificante 9. Tregua, giostre, vincitore (Melindo è cavaliere destinato a essere sconfitto dal più codardo del mondo) 10. Venere va a Napoli chiedendo aiuto a Manfredi… tinta da bella mora riesce ad amoreggiare con lei davanti al marito. 11. duello conte Lucania e Titto 12. ricominciano le ostilità; intervento papa. Da una parte la secchia dall’altro il papa Anacronismi = date che non tornano, tutte le date sono sbagliate, no ordine giusto. Vorrei cantar quel memorando sdegno ch'infiammò già ne' fieri petti umani un'infelice e vil secchia di legno che tolsero ai Petroni i Gemignani. Febo che mi raggiri entro lo 'ngegno l'orribil guerra e gl'accidenti strani, tu che sai poetar servimi d'aio e tiemmi per le maniche del saio. Appare modalità comica. Non esordisce con una certezza, dice vorrei (condizionale). Petroni = bolognesi (guelfi); Gemignani = modenesi (ghibellini). Secchia = oggetto degradato, rapimento non di Elena: guerra scoppia per il rapimento di una secchia di legno. Invoca Apollo e non musa, lo fa anche Dante quando strada si fa più ardua. Idea ispirazione poetica. All’abbassamento agisce anche l'invocazione ad Apollo. E tu nipote del Rettor del mondo del generoso Carlo ultimo figlio, ch'in giovinetta guancia e 'n capel biondo copri canuto senno, alto consiglio, se da gli studi tuoi di maggior pondo volgi talor per ricrearti il ciglio, vedrai, s'al cantar mio porgi l'orecchia, Elena trasformarsi in una secchia. Antonio Barberini, nipote di Urbano VIII, mecenate: elemento encomiastico. Bruni gli occhi e i capegli, e rilucenti, rose e gigli il bel volto, avorio il petto, le labbra di rubin, di perle i denti, d'angelo avea la voce e l'intelletto. Maccabrun da l'Anguille in que' commenti che fece sopra quel gentil sonetto «Questa barbuta e dispettosa vecchia», scrive ch'ell'era sorda da una orecchia. STR. 17 Lodi Difetti fisici, barbuta, dispettosa, vecchia Petrarchismo alla rovescia, moda dell’epoca Nel resto si dovean tutti i prigioni quinci e quindi lasciar liberamente, e le terre e i confini e lor regioni ritornar come fur primieramente. Così finir le guerre e le tenzoni, e 'l giorno d'Ogni Santi al dì nascente ognun partì da la campagna rasa, e tornò lieto a mangiar l'oca a casa Voi buona gente che con lieta ciera mi siete stati intenti ad ascoltare, crediate che l'istoria è bella e vera; ma io non l'ho saputa raccontare: paruta vi saria d'altra maniera vaga e leggiadra, s'io sapea cantare. Ma vaglia il buon voler, s'altro non lice, e chi la leggerà viva felice. Prende pure la mia buona volontà, accettate la mia voglia di cantare, con le mie limitazioni, sicuro di aver scritto un poeta EROICO-COMICO idea che fine guerra tutti tornano a mangiare l’oca il giorno di Ogni Santi, ci dice che gli uomini non sono mossi da passioni eroiche Oca/gallina usata con significato traslato → bella, stupida e loquace Pozzi dice: Quest’oca bella e stupida è la storia, la lettura della secchia è un convivio raffinato al quale siamo invitati a celebrare la consumazione = la storia che è stata letta. poema eroico di fonda su una forte valenza di certi valori, che vengono cantati nel momento in cui si manifestano nella storia. Qui la storia non interessa più, gli uomini e i grandi valori non ci sono più, ci sono le passioni basse che muovono gli uomini. Gli uomini che mangiano la storia, per divertimento, non ne vedono l'importanza. Allusione al cibo, al mangiare è un elemento che ha un grosso protagonismo. Canto VIII ottava 14 Dieci schiere ordinò, ciascuna d'esse di ducento cavalli e mille fanti, e ghibellini capitani elesse, perché fosser più fidi e più costanti. Musa, tu che migliacci e caldalesse vendesti lor, dettami i nomi e i vanti che fer dal piano a gli ultimi arconcelli l'alta torre tremar de gli Asinelli. Canto V ottava 23 Musa, tu che cantasti i fatti egregi del re de' topi e de le rane antiche, sì che ne sono ancor fioriti i fregi là per le piagge d'Elicona apriche, tu dimmi i nomi e la possanza e i pregi de le superbe nazion nemiche, ch'uniron l'armi a danno ed a ruina de la città de la salciccia fina Elogio a Folengo chiama in aiuto la batracomiomachia ESEMPIO ABBASSAMENTO LINGUAGGIO → congresso degli dèi ↴ Citerea, che si vide a mal partito, per una porticella di nascosto da lo sdegno del padre e del marito, mentre questi piagnea, s'involò tosto: e dietro a lei senza aspettar invito corsero il dio de l'armi e 'l dio del mosto; ella in terra con lor prese la via, e in mezzo a lor dormì su l'osteria. Marte (amante) e Vulcano (marito) litigano per Venere; riappacificati da Giove. Venere scappa con Bacco e Marte sulla Terra in una locanda. Dormono in un letto ed ella dormì tra i due. Con i modenesi: Venere, Marte, Bacco Gli abbracciamenti, i baci e i colpi lieti tace la casta Musa e vergognosa; da la congiunzion di que' pianeti ritorce il plettro e di cantar non osa: mormora sol fra sé detti segreti ch'al fuggir de la notte umida ombrosa fatto avean Marte e 'l giovane tebano trenta volte cornuto il dio Vulcano. fanno l’amore L'oste di Castelfranco un gran pollaio con uova fresche avea quanto la rena; ne bebbero i due amanti un centinaio, che smidollata si sentian la schiena: ma la diva ne volle solo un paio, che d'altro forse avea la pancia piena. La diva, per non dar di sé sospetto, presa la forma avea d'un giovinetto. Per non far capire che aveva dormito con due uomini si traveste anch'essa da uomo/giovinetto abbassamento Sparvero i pargoletti a l'apparire de la dea spaventati; ed ella, quando vide il giovane sol quivi dormire, ritenne il passo e si fermò guardando. L'onestà virginal frenò l'ardire, e ne gli atti sospesa e vergognando, avea già per tornare il piè rivolto; ma richiamata fu da quel bel volto. Amoretti all’arrivo di Diana scappano. La dea guarda il fanciullo. L’atmosfera è idilliaca. Diana, vedendo il volto del giovane, vorrebbe avvicinarsi; è però frenata dalla sua morale verginale. La dea si vergogna a provare tale sentimento C’è una sorta di studio psicologico della dea Sentì per gli occhi al cor passarsi un foco che d'un dolce desio l'alma conquise: givasi avicinando a poco a poco tanto ch'al fianco del garzon s'assise; e di que' vaghi fior ch'avean per gioco gli Amoretti intrecciati in mille guise, s'incoronò la fronte e adornò il seno, che tutti fur per lei fiamma e veleno. Come da tradizione poetica amorosa: Amore passa attraverso gli occhi. La dea viene conquistata dal bel viso del pastore e gli siede accanto. Inizia a prendere i fiori che gli amoretti avevano intrecciato nelle coroncine e se ne adorna il petto. I fiori diventano fiamma e veleno di amore (diventano forma di peccato) Trassero i fior la man, la mano i baci a le guance, a le labbra, a gli occhi, al petto, che s'impresser sì vivi e sì tenaci, che si destò smarrito il giovinetto. Al folgorar de le divine faci tutto tremò di riverente affetto; e ad atterrarsi già ratto surgea, s'ella non l'abbracciava e nol tenea. La dea, casta, ha una gradualità nel cedere all’Amore: si avvicina, raccoglie i fiori, tocca e infine bacia. Il pastore si sveglia, vorrebbe alzarsi, ma lei lo trattiene a terra abbracciandolo — Anima bella, disse, e dormigliosa, che paventi? che miri? I' son la Luna ch'a dormir teco in questa piaggia erbosa amor, necessità guida e fortuna; tu non ti conturbar, siedi e riposa, e nel silenzio de la notte bruna pensa occultar l'ardor ch'io ti rivelo, o d'isperimentar l'ira del Cielo. — La luna inizia a parlare: anima bella, cosa temi? Io sono la luna; sono stata condotta a dormire vicino a te in questa radura; sono giunta per amore, necessità, fortuna, caso. Tu tieni nascosto questo ardore che sto rivelando, altrimenti conoscerai l’ira degli dèi — O pupilla del mondo, in cui la face del sol s'impronta, pastorello indegno son io (disse il garzon) ma se ti piace trarmi per grazia fuor del mortal segno, vivi sicura di mia fé verace, e questo bianco vel te ne sia pegno, ch'a mia madre Calice Etlio già diede mio padre, in segno anch'ei de la sua fede. — Endimione si presenta, chiamando la luna “pupilla del mondo”. Chiede che gli venga tolta la mortalità, chiede la giovinezza eterna. Giove gliela concederà, ma facendolo dormire sempre. “Stai pur certa che ti amerò per sempre se sarò immortale”; le dà un premio come simbolo/prova del suo eterno amore. Tale pegno (velo) il padre di lui l’aveva dato alla madre (aspetto remunerativo, ecco come Endimione “paga” la dea) Così dicendo, un vel candido schietto, che di gigli di perle era fregiato e 'l tergo in un gli circondava e 'l petto giù da la spalla destra al manco lato, porse in dono a la dea, ch'ogni rispetto già spinto avea del cor tutto infiammato, e come fior che langue allor ch'aggiaccia si lasciava cader ne le sue braccia. Si abbandona nella braccia di Endimione come la vite che si avvinghia all'olmo Vite così non tien legato e stretto l'infecondo marito olmo ramoso, né con sì forte e sì tenace affetto strigne l'edera torta il pino ombroso, come strigneansi l'uno a l'altro petto gli amanti accesi di desio amoroso; saettavan le lingue in tanto il core di dolci punte, che temprava Amore. Tutto è tradotto in immagini mitologiche; c’è evidente erotismo; immagini barocche Lingue come frecce appuntite da amore Da atmosfera idilliaca a erotica; mentre i due amoreggiano la dea leva gli occhi e parla alle stelle rimproverando Così mentre vezzosi atti e parole guardi, baci, sospiri e abbracciamenti facean dolcezze inusitate e sole a gli amanti gustar lieti e contenti, levò la diva l'uno e l'altro sole, accusando le stelle e gli elementi; poiché con tanti e con sì lunghi errori seguite avea le fiere e non gli amori. Reprobatio (aspro giudizio di biasimo, per lo più sul piano morale) verso il suo stile di vita precedente, quando aveva fatto la cacciatrice, seguendo le fiere al posto degli amori… misera me, quanti anni ho sprecato, che sbaglio, quanti errori feci quando presi l’arco. — Misera me, dicea, quant'error presi quel dì ch'io presi l'arco e 'l bosco entrai; quant'anni poscia ho consumati e spesi che di ricoverar non spero mai: o passi erranti e vani e male intesi, come al vento vi sparsi e vi gettai! Quant'era meglio questi frutti corre, ch'a rischio il piè dietro a le belve porre! Sarebbe stato meglio cogliere i frutti dell’amore anziché rischiare la vita cacciando belve. Or conosco il mio fallo, e farne ammenda vorrei poter, ma il ciel non me 'l consente: restami sol che del futuro i' prenda pensier, di cui mai più non sia dolente. Però l'aria, la terra e 'l mare intenda quel che di terminar già fisso ho in mente, e la legge, ch'io fo, duri col sole sovra me stessa e la femminea prole. Palinodia, trattazione di ciò che fu prima, vorrebbe farne menda, svolta nella sua vita (amore al posto di caccia). Ora basta con la castità; fa un giuramento: ora io e tutte le donne dobbiamo darci ai piaceri dell’amore, lasciare la caccia che fa sviare tale cosa Io stabilisco che non copra il cielo, ch'io governo, mai più femmina bella (eccetto alcune poche ch'io mi celo che fien di me maggiori e d'ogni stella), che sopporti con casto e puro zelo finir la vita sua d'amor ribella, e che stia intatta di sì dolce affetto, se non mentitamente o al suo dispetto. — logica molto libertina: su tutta la Terra non esista più una donna che vuole ribellarsi all’amore (dandosi alla castità), che non si faccia toccare dal piacere dell’Amore. Tutte devono darsi all'Amore, eccetto alcune (dee che le stanno antipatiche, se non provano piacere è contenta). Scarpinello ha forzato la mano, manifesto contro la castità. Renoppia non vuole sentire tali sconcerie. Volea l'orbo seguir, come dolente tornò la diva a la sua bella sfera, se non che lo mirò di sdegno ardente Renoppia, e in voce minacciosa e altera — Accecato de gli occhi e de la mente, brutta effigie, gli disse, anima nera, va', canta a le puttane infame e sciocche queste tue vergognose filastrocche. L’orbo voleva continuare la storia (Diana va da Giove a chiedere di rendere il pastorello eternamente giovane), ma Renoppia interrompe l’aedo. Cecità di mente oltre che di occhi (aedi vanno a memoria). Renoppia dice: sei un'anima nera, queste storie raccontale alle puttane, non a noi E se vuoi ch'io t'ascolti e che il tuo canto ritrovi adito più per queste porte, cantami di Zenobia il pregio e 'l vanto o di Lucrezia l'onorata morte. — Il Cieco allor stette sospeso alquanto, poscia in tuono di guerra assai più forte l'amor di Sesto e gli empii spirti ardenti incominciò a cantar con questi accenti: Se vuoi che ti rinvio cantami storie di donne eroiche, come Zenobia o Lucrezia (eroine prototipe della pudicizia) Aedo inizia a cantare di Lucrezia — Il Re superbo de' romani eroi a la regia di Turno il campo avea, e con fanti e cavalli e servi e buoi di trinciere e di fosse ei la cingea; eran con lui tutti i figlioli suoi, e quivi si mangiava e si bevea con gusto tal, che 'l dì di San Martino bebbero in sette un carratel di vino. Alla reggia di Turno (racconto preso dallo storico latino Livio) si ubriacano e iniziano a discutere quale delle due moglie fosse la più pudica Finito il vin, nacque fra lor contesa chi avesse moglie più pudica a lato: e perch'ognun volea per la difesa combatter de la sua ne lo steccato, per diffinir la strana lite accesa, di consenso commun fu terminato di montar su le poste allora allora, e andarsene a chiarir senza dimora. I due si decidono di andare a controllare cosa fanno le loro donne mentre loro sono in guerra, ubriachi a cavallo vanno verso casa Non s'usavano allor staffe né selle, e quei signor con tanto vino in testa, correndo a lume di minute stelle, ebbero a rimaner per la foresta: chi perdé il valigino e le pianelle, chi stracciò per le fratte la pretesta, chi rese il vino per diversi spilli, e chi arrivò facendo billi billi. All'epoca no staffe e sella I due persero cose lungo il viaggio, vomitarono, barcollarono Cercano di trovare le donne da ubriachi Era con lor Tarquino Collatino che la moglie Lucrezia avea a Collazia: ei non era fratel, ma consobrino e lor parente di cognome e grazia. Tutti in corte smontar su 'l Palatino e le mogli trovar, per lor disgrazia, che foco in culo avean più ch'un Lucifero e stavano ballando a suon di piffero. Mogli stanno facendo orgia Fecero una moresca a mostaccioni la più gentil che mai s'udisse in corte; e trovate al camin starne e capponi, verso Collazia ne portar due sporte: giunti colà, di spranghe e di stangoni d'ogni parte trovar chiuse le porte, e bussaron più volte a l'aer bruno, prima che desse lor risposta alcuno. Moresca = danza Mostaccioni= schiaffoni Mariti cominciano a menare Quando vanno da Lucrezia trovano tutto chiuso Una schiavetta al fine in capo a un'ora affacciatasi a certe balestriere, e spinto un muso di lucerta fuora, disse: — Chi bussa là? Non c'è messere. — — C'è pur, rispose il Collatino allora, venite a basso e vel farem vedere. — Riconobbero i servi a quelle voci il padrone, e ad aprir corser veloci. Schiavetta fa uscire il capo dalla feritoia; chiede chi bussa. Non c’è messere (padrone). Riconosce voce padrone e aprono. Lucrezia stava filando con altre donne, lei arrossisce vedendo tanti uomini. Lei è la vera pudica, tornano tutti via, anche Sesto. Lucrezia venne in sala ad incontrarlo con la conocchia senza servidori; tutta lieta venìa per abbracciarlo, ma vedendo con lui tanti signori, trasse il pennecchio, ché volea occultarlo, e dipinse il bel volto in que' colori ch'abbelliscon la rosa, e fe' chiamare le donne sue che stavano a filare. Di consenso comun la regia prole diede il vanto a costei di pudicizia; dormiron quivi, e a lo spuntar del sole ritornarono al campo e a la milizia; ma la bella sembianza e le parole rimasero nel cor pien di nequizia del fiero Sesto, un de' fratelli regi, e le caste maniere e gli atti egregi. Sesto: lei lo ospita ma lui la notte salta dal suo letto e corre alla camera di Lucrezia. Entra con il pugnale, vede una serva vecchia e la butta giù. Urla a Lucrezia che urlava “mettiti giù o ti ammazzo”. questa impostazione C. di Pers si rifà al modo di comunicare dell'emblema→ comunicazione che scaturisce da collaborazione fra un’immagine e un testo scritto; nell’emblema un disegno è accompagnato da un motto, che fa da titolo, e da un epigramma: la sua comunicazione è mista in quanto né il disegno da solo, né le parole da sole trasmettono l'intero messaggio → significato del messaggio dato da relazione tra detto e disegnato. In letteratura la struttura a emblema funziona tramite l'associazione fra descrizione di oggetto/scena e commento in forma di motto o sentenza. Nel sonetto descrizione orologio è accompagnata dal motto «Sempre si more» che si immagina scritto sul quadrante. Sappiamo che nella realtà succedeva spesso che orologio fosse ornato di raffigurazioni accompagnate da motti simili; l’autore non fa che trasporre in poesia una prassi ornamentale e un sistema simbolico familiari al pubblico della sua epoca. Unica differenza è che su orologio da lui immaginato il motto non è scritto realmente: solo chi sa leggere i segni che il quadrante gli presenta è in grado di scoprirlo. Ma va detto che con tutta la letteratura sul simbolismo dell'orologio a loro disposizione, dovevano essere ben pochi quelli incapaci di leggerlo. Struttura emblematica fa sì che il «Sempre si more» sia il vero centro di senso del sonetto. La sentenza è attinta a un repertorio tra i più corrivi, ma la costruzione a emblema la riscatta, conferendole una visibilità e un vigore che di per sé non avrebbe. Grazie alla centralità della sentenza, la rima inclusiva «ore» : «more» assurge al ruolo di motore fonico-semantico dell'intero sonetto: la parola in rima «more» ingloba l'altro termine chiave del testo: «ore», termine che poi si riaffaccia in «core» e «tenore»; il suono /o/ dominante costituisce la base timbrica delle rime attraverso assonanze perfette (-ote; -ore) e parziali (-omba) e si dissemina per l'intero componimento. Rilevante è la ripetizione di "OgnOR", giocata sull'alternanza semantica “ognor” = “sempre” (come nella sentenza) e “ognor” = “ogni ora” (a sottolineare i battiti orari dell'orologio). Il sonetto è notevole per una certa ruvidezza di dettato, per l'atteggiamento agonistico dell'Io (coppia «timpano e tromba» è carica di connotazioni belliche: es. Marino, Adone VII 52, 1-2 «Timpani e trombe e tutto ciò che, quando / serra in campo le schiere, osserva Marte») e per una magniloquenza che ricorda, più che le complicazioni retoriche mariniste, un certo petrarchismo “manierista” di secondo ‘500 (non per nulla Petrarca vi è citato con evidenza; es: «Perch'io non speri mai riposo o pace»). Sonetto di Di Pers (friulano, 1599-1663) è stato scritto probabilmente tra anni Venti-Trenta del Seicento. Sonetto di Lubrano (napoletano, 1619-1693) dovrebbe risalire a piena maturità del poeta → i due poeti si collocano a due estremi geografici e i loro testi agli estremi cronologici dentro cui è compresa la parte più consistente e tipica della produzione barocca. (A) ha come soggetto un orologio meccanico, (B) un orologio ad acqua, cioè una clessidra. I meccanismi tecnici dei due orologi si trasformano in meccanismi retorici. METRO: rima incrociata in quartine (ABBA) + CDC DCD Completamente diverso è il modo di scrivere di Lubrano, virtuoso della parola, dotato di tecnica superlativa. Il suo sonetto è una rappresentazione in atto, attraverso un susseguirsi senza tregua di metafore, dell’instabilità dell’essere e del suo continuo fluire e deperire: presente e futuro non hanno consistenza. “Rappresentazione” perché clessidra è il tempo stesso fattosi oggetto: tempo si identifica a sua volta con l’esistenza, cosicché lo stillicidio dell’acqua nella clessidra non rimanda a quello della vita, ma è esso stesso l’agonia del vivere. Ogni paragone è abolito: istanti sono «gocciole», giorni sono «stille di Tempo», Tempo è una «cifra» fugace disegnata dai movimenti delle gocciole e delle stille. Movimenti subdoli e quasi impercettibili. Non è un’alluvione a sommergere la vita; ad “annegarla” non è che un minutissimo stillicidio. Tempo non è “vorace” come nel sonetto di C. di Pers; la vita si dissolve da sola. Dubbio che sonetto insinua è che essa come insieme definito e definibile non esista, ma che l’esistere coincida integralmente con il dissolversi. Nel sonetto convivono due distinti princìpi compositivi: 1. impostazione moraleggiante tradizionale; soggetto parla per ammonire lettore e ricordarne mortalità; 2. impostazione integralmente risolta in immagini analogico-metaforiche che si offrono alla vista del lettore con l’evidenza della cosa in sé, senza alcuna mediazione da parte dell’Io che parla. Nell’ultima terzina i due principi si incontrano. La perorazione del soggetto (volgiti indietro e guarda la tua vita venir meno) si trasforma nel gesto di osservare l'«essere» che si strugge nella clessidra («Mira l'esser tuo [...] struggersi a stille»); l'avverbio «a dietro» diventa incongruo sul piano della funzionalità: è nella clessidra, A che sognar con temerarii vanti secoli ne l'Età mezzo sparita, se bastan sole ad annegar la vita minutissime gocciole d'istanti? Voi talpe di Ragion delusi Amanti, a ravvedervi in picciole urne invita meccanico Cristal; e in sé vi addita, quasi stille del Tempo, i giorni erranti Quanto è, quanto sarà s'imprime in acque, cifra di fughe; e in fluido feretro naufraga sepellito il 'Fu' che piacque. Se no 'L credi, o Mortal, volgiti a dietro: e mira l'esser tuo, che al pianto nacque, struggersi a stille in agonie di vetro. infatti, che il Mortale deve guardare. D'altro canto, la rappresentazione per immagini dell'acqua che cade nella clessidra di vetro perde la sua oggettività e si carica di connotazioni psicologiche e affettive: è un'«agonia». C'è qualcosa di morboso in questo osservare un'agonia sottovetro, esposta e nello stesso tempo quasi impercettibile. E c'è qualcosa che stride dolorosamente nell'intersecarsi dei due piani: essi possono intersecarsi fino a coincidere perché clessidra funziona ad acqua e vita dell'uomo è nata «al pianto». Dietro a costruzione metaforica c'è dunque paragone sottaciuto. Così otteniamo un sonetto tragico, nel quale cadono i confini tra discorso morale e descrizione fisica, tra immagine e psicologia, e in cui, soprattutto, il continuo trapassare dall'uno all'altro piano diviene a sua volta una ulteriore metafora dell'instabilità della vita. Nel ‘600 i divieti con cui la lirica petrarchista aveva cintato il campo del poetabile cadono. E così, accanto a poesie che parlano dei nuovi prodotti tecnologici e del loro utilizzo, ne troviamo altre in cui si parla di mendicanti, di vecchie, di donne brutte, di belle donne “purtroppo” di religione ebraica, di donne imbellettate, di ricamatrici, pollaiole, sarte, di condannati a morte, di servitori che hanno scannato con un trincetto la loro padrona, di cortigiane pubblicamente frustate e così via. L'apertura dei confini è forse il lascito più rilevante che questa poesia trasmette a quella che verrà. Un secondo importante lascito produrrà effetti analoghi. Entrambi i sonetti sono preceduti da un titolo. Ebbene, nel corso del Seicento la prassi di intitolare anche i singoli componimenti lirici diventa abituale. Autonomia dei microtesti, sottolineata dal titolo, prevale sul macrotesto. Diventano possibili, invece, libri strutturati come aggregazioni specialistiche, cioè su singoli grandi temi o per aree metriche e formali. Così la lirica comincia a differenziarsi al suo interno. A forza di accumulare raccolte specialistiche e parziali, di sottolineare le peculiarità, finirà per perdere la sua unità superficiale e, infine, la stessa coscienza di essere un genere a sé stante. Da questo processo già nel corso del Settecento nasceranno sottogeneri dotati ciascuno di propri caratteri specifici, e per converso la lirica, cioè quel discorso che non si iscrive dentro ai sottogeneri particolari, si avvicinerà sempre più all'idea moderna di breve testo in versi nel quale si esprime la soggettività dell'autore. Autori sollecitano un'ultima riflessione. Uno è friulano e l'altro napoletano: nel ‘600 processo creazione lingua letteraria unitaria può dirsi giunto a compimento. 1700 = secolo dell’Arcadia e dell’illuminismo (due parole che hanno designato tutto il secolo). Primato della ragione illuminista fu preparato dal razionalismo dell’Arcadia (sono uno conseguenza dell’altro). “Arcadia” → invenzione virgiliana, che mitizza la condizione di una regione greca (aspra e selvatica); Virgilio narra che la regione era abitata da pastori, posto idilliaco, tutti cantavano, si viveva in pace, nessuno era turbato da impulsi legati all’arricchimento o al potere; si tratta di un mondo ideali: idealizzazione vita del pastore come depositario di una vita felice, serena, senza contrasti, lontana dalla brama di potere e denaro. Nome “Arcadia” evoca insieme un luogo reale e mitico (regione Peloponneso abitata da pastori dediti a canto e poesia), un punto di riferimento nella tradizione letteraria (prosimetro di Sannazaro e la tradizione greco- latina da lui raccolta e rinnovata) e un ideale estetico-morale (innocenza, semplicità e naturalezza; ≠ esagerazioni e artifici barocchi). Emblema Arcadia = flauto a sette canne di Pan cinto da rami di alloro e pino. NB: istituzione di accademia non è novità; Italia si riempie di accademie già dal ‘500/’600, ma sempre con carattere locale (ogni città ha la sua accademia; tra queste non c’è collegamento) → novità: Arcadia ha una sede centrale (fondativa) che partorisce delle colonie in molte città italiane. La sede centrale riesce a controllare le sedi secondarie: il gusto letterario si irradia a tutte le accademie secondarie. Risvolti: 1. si espande un modello di poesia univoco in tutta la penisola; linguaggio poetico si uniforma, si fa omogeneo (sebbene con alcune differenze); 2. aggregazione originaria (romana) è molto legata al papato e alla Santa Sede (molti cardinali fanno parte dell’Arcadia; Arcadia come propagazione politica e culturale della Chiesa), mentre aggrefazioni locali delle colonie si aprono a un pubblico variegato → non solo aristocratici: anche borghesi, soprattutto donne). Ritorno a esperienza fondata su regole classicismo che caratterizzano il Settecento si avviano già a fine Seicento, quando gruppo di letterati si riunisce per fondare l'Arcadia (1690, Roma) → nasce per: • reazione a Barocco; • necessità di individuare/difendere tradizione letteraria italiana di valore, rispondendo a critiche che arrivavano da Francia. Risposta a Barocco si aggancia dunque a rivendicazione della bellezza letteratura italiana. Su questa base Arcadia offre anche stimolo per costituzione di una sorta di rete nazionale di letterati, e dunque per la nascita di confronti e collaborazioni, con evidenti effetti di promozione delle linee della riforma letteraria. Le linee di questa riforma non sono però pienamente condivise o non sempre del tutto omogenee. Poesie dei primi Arcadi: attenzione estrema a aspetto formale, ricerca eleganza ottenuta attraverso selezione di linguaggio misurato e costruzione-descrizione di immagini raffinate. In pochi decenni c’è significativa transizione: mentre primissima Arcadia aveva individuato Alessandro Guidi come modello, a inizio ‘700, attraverso raccolta Rime degli Arcadi, si definisce una poesia guidata da un ideale di misura, in cui alla linea di sperimentazione pindarica si preferisce piuttosto il ritorno al modello di Petrarca. In questo quadro matura l'esperienza più importante di primo Settecento, quella di Metastasio (allievo di Gravina). Egli si inserisce nel tentativo di riforma del genere del melodramma. Nella parabola dell'autore può essere letta non solo un'ultima affermazione del primato letterario italiano a livello europeo, ma anche il riconoscimento del valore del melodramma, che diventa sede per un'analisi e uno studio degli affetti e per la proposta di modelli etici positivi. Altro aspetto caratterizzante della cultura di inizio ‘700 è rappresentato da intreccio tra una ricerca accurata volta al passato e le istanze di riforma che animano il presente. Presupposto teorico è la fiducia in una prospettiva razionale, la possibilità di conoscere e intervenire sui processi storici, attivando percorsi di riforma e di miglioramento della condizione degli uomini. Viene in luce la linea di riformismo e di miglioramento della vita del popolo. In modi diversi, e distribuiti su poesia, storia, filosofia e scienza, anche i percorsi di altre figure di primo e pieno Settecento presentano la medesima combinazione di una grande erudizione e di un piglio militante rispetto alla cultura contemporanea. Società letteraria settecentesca viene scossa e scandita da rivalità e polemiche, le quali avvengono al cospetto di un pubblico che assume ruolo di importante riferimento → in particolare in ambito teatro, soprattutto commedia: esperienza Goldoni (metà secolo, Venezia) è decisiva sia per il genio della sua scrittura, sia per la cortina di dibattiti che le sue opere suscitano nei contemporanei e che avviano una riflessione sullo statuto del teatro e sulla sua funzione. Rivalità e polemiche costringono Goldoni a declinare in modi diversi le sue commedie, oscillando tra la scrittura in dialetto e la scrittura in lingua e soprattutto assumendo un ruolo di volta in volta diverso rispetto al panorama della società veneziana. Centro società letteraria italiana = Milano; città si apre a dibattito internazionale e a metà secolo nascono varie accademie (luoghi di discussione e divulgazione del sapere): più importanti = Accademia dei Trasformati e Accademia dei Pugni. A Milano → fratelli Verri, pubblicazione del «Caffè», Cesare Beccaria (Dei delitti e delle pene). Sono gli stessi anni del Giorno di Parini, o meglio della prima pubblicazione delle due parti (Il Mattino e Il Mezzogiorno), poema su giornata di giovane nobile che nasconde, nell'ironia e nella sapienza straordinaria del classicismo pariniano, un'ambizione di diagnosi, critica e riforma degli strati alti della propria società. Parini → convinto del valore di intervento civile della poesia, avvia un rapporto con nobiltà grazie a una satira ambigua, ora più tenue, ora più acre e pungente, ma ancorata a una prospettiva di possibile riforma e miglioramento civile. La cesura che si registra a una certa altezza nella produzione pariniana e il respiro diverso della sua poesia più matura vengono tradizionalmente letti come prove di un mutamento di posizione e di sguardo con una prospettiva man mano più disincantata, Parini avvia appena la riformulazione del Giorno su 4 parti, lasciando incompiute le sezioni Vespro e Notte e la riforma sembra lasciare il posto alla condanna. Nel contesto del razionalismo europeo e della sua influenza su teoria e pratica letterarie, in Italia si creano condizioni per fondazione di un soggetto che, raccogliendo frutti iniziative di fine ‘600, «tendesse a rimettere [...] il buon gusto, e la maniera col proprio esempio additasse del ben comporre»: è la «adunanza degli Arcadi» istituita a Roma nel 1690. Il suo periodo di maggior successo e autorevolezza coincide con la guida di Crescimbeni (fino al 1728), grazie alla cui opera organizzativa l'accademia diviene il centro di una rete internazionale ne sulla specificità della tradizione letteraria italiana. Ripristino «buon gusto» implica rilettura critica passato e pratiche proposte di riforma letteraria grazie a cui si cerca di dare al ‘700 una letteratura corrispondente alle sue esigenze. Storia Arcadia è fatta di contrasti: scisma d'Arcadia (1711) = fra concezione della letteratura come fatto retorico-sociale propria di Crescimbeni e quella filosofico-civile di Gravina. Il loro magistero, comunque, e il gusto tipicamente «arcadico» per regolarità formale, chiarezza e connessione delle idee, l'evidenza nelle descrizioni di oggetti, sensazioni e passioni caratterizzeranno tutta la poesia del primo Settecento. Fine ‘600: si afferma, anche in Italia, l'idea di una generale diversità della modernità rispetto ai secoli precedenti. Confronto con le più dinamiche realtà culturali europee fa emergere, assieme a percezione del ritardo culturale dell'Italia e della corruzione del suo gusto letterario, la necessità di un rinnovamento e di un rilancio dell'intera produzione poetica e letteraria. Tali obiettivi si vanno realizzando nella prima parte del Settecento grazie agli sviluppi di istituzioni, iniziative e polemiche sorte alla fine del Seicento di cui 'Arcadia si presenta come l'elemento aggregatore. la tomba del poeta) ed il sentimento (malinconia, desolazione, sconforto, dolore) dell'apertura e della chiusura ci potrebbe far pensare alla lirica sepolcrale e notturna inglese del Settecento. Rolli ha vissuto per molto tempo a Londra e pertanto conosceva molto bene la letteratura inglese del tempo. Tuttavia la situazione è ben diversa. Infatti i temi presenti nella quartina d'apertura (afflizione, solitudine e morte), sono compensanti dalla cadenza ritmica dei versi e dalle rime ravvicinate spesso tronche che impediscono di dare allo scritto una lettura espressiva, che renderebbe possibile creare la drammaticità della situazione. Pertanto il valore del componimento sta nella grazia delicata delle immagini, nella loro naturalezza, nella rappresentazione del poeta che dialoga con la natura circostante. La musicalità è resa con diversi artifici: 1. prolungamento delle rime in -i dei vv. 10-12 e 14-16; 2. presenza di rime interne in -io o in -i; 3. uso del verso di otto sillabe ottonario NB: nome della donna amata, Fille, è fittizio, secondo usanza ricorrente della poesia arcadica. Discepolo di Gravina; uomo di spettacolo nei teatri d'opera italiani, poeta ufficiale della corte asburgica di Vienna per cinquant'anni e tre imperatori: Pietro Metastasio è riformatore del dramma per musica. Contro gli eccessi barocchi ma anche contro gli anatemi arcadici, egli si dedica al teatro per musica: opta per un dramma logocentrico ed antropocentrico. Metastasio è tragediografo. Perfettamente inserito nel mondo musicale e teatrale, ne è però indipendente, ritenendo i suoi drammi rappresentabili anche senza musica in virtù dell'armonia dei suoi versi. Centro del dramma metastasiano è la vita interiore dell'uomo, analizzata nelle passioni, di personaggi grandi ed “anime belle”: la loro forza fa dell'uomo un essere instabile, un campo di forze contrastanti che solo grazie alla ragione può indirizzare positivamente la propria energia vitale. La tragedia metastasiana punta così a una drammaturgia della felicità, sia per il diletto che procura, sia per l'utile che propone mettendo in scena modelli positivi: il teatro musicale diviene un luogo d'educazione per popoli e re, mezzo di sostegno alla gerarchia e all'armonia sociale, modello d'un provvidenziale potere regio che deve qualificarsi per la virtù personale e realizzarsi nell'abnegazione del servizio e nella clemenza verso i sudditi. La difficile facilità della lingua poetica, il gusto per la cantabilità, per l'ordine compositivo, per l'accurata connessione delle idee e per la precisione e la sensibilità nel rappresentare l'animo umano, decreteranno enorme fortuna dei drammi e delle liriche di Metastasio. Pietro Trapassi nasce a Roma. Rivela intorno ai dieci anni straordinarie capacità. Gravina lo nota, lo sceglie come discepolo, gli grecizza il cognome in «Metastasio» e lo educa alla lettura dei classici greci e latini, di Ariosto e Trissino. Pietro è allievo devoto ma indipendente: di nascosto legge anche gli sconsigliati o proibiti Tasso, Guarini e Marino. Gravina conduce Pietro a Napoli e poi a Scalea per completarne la formazione filosofico-politica all'insegna del razionalismo. Metastasio viene introdotto ai principi della filosofia di Descartes, al trattato cartesiano di psicologia Les passions de l'âme (basilare per analisi interiorità e costruzione futuri personaggi e drammi metastasiani), e a un'idea di monarchia come custodia della pace sociale contro gli egoismi dei singoli. Rientrato a Roma studia diritto e prende gli ordini minori. 1718: Metastasio entra in Arcadia. 1719: Metastasio lascia Roma in seguito a delusione amorosa e a difficoltà di trovare impiego, ma soprattutto per odio che si conservava per il maestro Gravina e che si era trasmesso su di lui. Il quinquennio a Napoli sarà decisivo. Impiegatosi come avvocato, si dedica però alla poesia stringendo relazioni con la nobiltà filoasburgica, grazie a cui farà esperienze in ambito teatrale. Queste occasioni teatrali destinate a spettacoli privati per un pubblico aristocratico portano Metastasio sostanzialmente fuori dall'ortodossia arcadica che considerava non riformabile l'ircocervo barocco dell'opera. Esse rappresentano quindi il tirocinio di Metastasio nel vorticoso mondo dello spettacolo napoletano e delle sue esigenze (rapidità d'allestimento, adattabilità a cantanti, musicisti, spettatori), la possibilità di sperimentare situazioni drammatiche e uno stile capace di verbalizzare le passioni. Metastasio si fa poeta delle emozioni e degli stati d'animo, autore di drammi in cui conta il percorso di formazione morale che attraverso il variare costante d'opposti affetti porta al loro contemperamento e alla ragionevole quiete interiore. Roma e Vienna → 1724-1725: Metastasio accompagna i successi della Didone e della Romanina a Roma e Venezia. Scrive per i teatri a pagamento di queste città e di Napoli portando avanti due tendenziali linee di sviluppo, quella eroica e quella amorosa. Successi di pubblico e i contatti con la nobiltà filoasburgica napoletana danno frutto: nel 1729 Metastasio viene invitato a succedere ad Apostolo Zeno nella carica di poeta imperiale. Giunto a Vienna nel 1730, Metastasio vi resterà alla morte, allontanandosi della città solo poche volte e brevemente. Cinquantennio austriaco segna culmine (anni ‘30 e ‘40) e lungo declino dell'arte di Metastasio: nel turbarsi degli equilibri politici, egli si mantiene fedele a un ideale, poetico-politico, di razionalismo e di moderatismo mentre il secolo, in ambito letterario, musicale e politico, procede verso un'enfatizzazione degli eccessi e degli estremismi. Uscito dal circuito commerciale, Metastasio scrive per un pubblico colto e internazionale: si concentra perciò su una semplificazione dei drammi, poco concedendo alla spettacolarità scenica ma curando attentamente la funzione drammatica della gestualità dei personaggi e l'approfondimento della loro psicologia, e d'altra parte enfatizzando la riflessione sulla regalità in funzione educativa. Tutto ciò è ottenuto con estrema povertà di mezzi: massima semplicità ed essenzialità sono l'ideale cui Metastasio punta per rendere comprensibile, conturbante e convincente il mondo affettivo dei suoi eroi. Canzonetta scritta durante il soggiorno alla corte viennese; poi musicata da Paisiello Metro: 13 melodiche strofette di settenari piani e tronchi (abbc’ addc’); strofa geminata. Struttura simmetrica: o STR. 1: dà il tema della canzonetta; o STR. 2-7: Nice non ha più il suo potere seduttivo; o STR. 7-12: ex amante prova la vera libertà; o STR. 13: trae bilancio della nuova situazione. Tema: amante felice per aver acquisito la libertà (si è liberato dalla donna che lo tradiva) Cadenze ritmiche metastasiane; modo in cui scrive Metastasio = poesia facilmente memorizzabile che contribuisce a farla divenire popolare. Nice = nome pastorale. Grazie agl'inganni tuoi, al fin respiro, o Nice, al fin d'un infelice ebber gli dei pietà: sento da' lacci suoi, sento che l'alma è sciolta; non sogno questa volta, non sogno libertà. Mancò l'antico ardore, e son tranquillo a segno, che in me non trova sdegno per mascherarsi amor. Non cangio più colore quando il tuo nome ascolto; quando ti miro in volto più non mi batte il cor. Sogno, ma te non miro sempre ne' sogni miei; mi desto, e tu non sei il primo mio pensier. Lungi da te m'aggiro senza bramarti mai; son teco, e non mi fai né pena, né piacer. Di tua beltà ragiono, né intenerir mi sento; i torti miei rammento, e non mi so sdegnar. Confuso più non sono quando mi vieni appresso; col mio rivale istesso posso di te parlar. Versi talmente famosi da venir ripresi nel corso dei moti risorgimentali ottocenteschi (soprattutto 1821 a Napoli) lessico frutto di una tradizione descrizione psicologica di ciò che sente (non sente più ardore, non cangio più colore = non arrossisco più quando sento il tuo nome) Quando sogno non sogno più solo te; quando mi sveglio tu non sei il mio primo pensiero. Quando sono lontano da te non ti desidero mai (Lungi da te m'aggiro senza bramarti mai), quando sono con te non mi fai né caldo né freddo (non mi fai né pena, né piacer). posso parlare di te con colui che ora to corteggia e tu ora ami (indifferenza amorosa) Volgimi il guardo altero, parlami in volto umano; il tuo disprezzo è vano, è vano il tuo favor; che più l'usato impero quei labbri in me non hanno; quegli occhi più non sanno la via di questo cor. Quel, che or m'alletta, o spiace. se lieto o mesto or sono, già non è più tuo dono, già colpa tua non è: che senza te mi piace la selva, il colle, il prato; ogni soggiorno ingrato m'annoia ancor con te. Odi, s'io son sincero; ancor mi sembri bella, ma non mi sembri quella, che paragon non ha. E (non t'offenda il vero) nel tuo leggiadro aspetto or vedo alcun difetto, che mi parea beltà. Quando lo stral spezzai, (confesso il mio rossore) spezzar m'intesi il core, mi parve di morir. Ma per uscir di guai, per non vedersi oppresso, per racquistar se stesso tutto si può soffrir. Nel visco, in cui s'avvenne quell'augellin talora, lascia le penne ancora, ma torna in libertà: poi le perdute penne in pochi dì rinnova, cauto divien per prova né più tradir si fa. So che non credi estinto in me l'incendio antico, perché sì spesso il dico, perché tacer non so: quel naturale istinto, Nice, a parlar mi sprona, per cui ciascun ragiona de' rischi che passò. Dopo il crudel cimento narra i passati sdegni, di sue ferite i segni mostra il guerrier così. parlami con volto umano il disprezzo del tuo volto non mi fa né caldo né freddo, è vano. È vano il tuo favor. Le tue labbra (le tue parole) e i tuoi occhi non hanno più effetto sul mio cuore, su di me. Torna Petrarca, bosco ombroso. Ascoltami, sono sincero: mi sembri ancora bella, ma non ti vedo più come superiore a tutte le altre donne (senza paragone). E, non offenderti ascoltando la verità, nel tuo bell’aspetto ora vedo difetti che prima, quando ero innamorato di te, non vedevo. Ripercorre momento in cui si è spezzato l’amore: confesso che quando decisi di rompere sentii una ferita enorme, mi parve di morire, ma per riacquistare la libertà/se stesso si può soffrire: mise su piatto bilancia le cose: è meglio vivere quel dolore temporaneo in vista della libertà Metafora: uccellino resta intrappolato nel visco e riesce a liberarsi, perdendo qualche penna. Almeno le penne sarebbero ricresciute e lui sarebbe rimasto in vita. Come l’uccellino non si sarebbe più lasciato tradire dall’inganno del cacciatore, così l’uomo non si farà tradire dall’amore dell’amata. So che non credi che il mio amore per te sia finito perché ne parlo spesso, così tanto che sembro ancora innamorato; ma ti dico che è naturale: ogni persona che fugge da un pericolo lo racconterà spesso; è istinto naturale raccontare ciò che si ha scampato. Così come un guerriero che esce dalla battaglia mostra le sue ferite o come uno schiavo che esce di prigione fa vedere la catena che ha Come si sta nel cor. Pur desto ognor ti miro, Non che ne' sogni miei; Ché ovunque tu non sei Ti pinge il mio pensier. Tu, se con te m aggiro, Tu, se ti lascio mai, Tu delirar mi fai Di pena o di piacer. Di te s'io non ragiono Infastidir mi sento, Di nulla mi rammento, Tutto mi fa sdegnar. A nominarti io sono Si avvezzo a chi m' appresso, Che al mio rivale istesso Soglio di te parlar. Da un sol tuo sguardo altero, Da un sol tuo detto umano Io mi difendo in vano, Sia sprezzo o sia favor. Fuor che il tuo dolce impero Altro destin non hanno, Ché secondar non sanno I moti del mio cor. Ogni piacer mi spiace Se grato a te non sono; Ciò che non è tuo dono Contento mio non e. Tutto con te mi piace, Sia colle, o selva, o prato; Tutto è soggiorno ingrato Lungi, ben mio, da te. Or parlerò sincero; Non sol mi sembri bella, Non sol mi sembri quella Che paragon non ha; Ma spesso, ingiusto al vero, Condanno ogni altro aspetto; Tutto mi par difetto, Fuor che la tua beltà. Lo stral già non spezzai; Ché in van per mio rossore Trarlo tentai dal core, E ne credei morir. Ah, per uscir di guai Più me ne vidi oppresso; Ah di tentar l'istesso Più non potrei soffrir. Nel visco in cui s'avvenne Quell augellin talora, Scuote le penne ancora Cercando libertà; Ma in agitar le penne Gl'impacci suoi rinnova: Più di fuggir fa prova, Più prigionier si fa. No, ch'io non bramo estinto Il caro incendio antico; Quando più spesso il dico, Meno bramar lo so. Sai che un loquace istinto Gli amanti ai detti sprona; Ma fin che si ragiona La fiamma non passò. Biasma nel rio cimento Di Marte ognor gli sdegni. E ognor di Marte ai segni Torna il guerrier cosi. Torna così contento Schiavo che usci di pena, Per uso alla catena Che detestava un dì. Parlo, ma ognor parlando Di te parlar procuro; Ma nuovo amor non curo, Non so cambiar di fé: Parlo, ma poi dimando Pietà dei detti miei; Parlo, ma sol tu sei L'arbitra ognor di me. Un cor non incostante, Un reo così sincero Ah l'amor tuo primiero Ritorni a consolar. Nel suo pentito amante Almen la bella Nice Un'alma ingannatrice Sa che non può trovar. Se mi dai di pace un pegno, Se mi rendi, o Nice, il cor. Quanto già cantai di sdegno Ricantar voglio d'amor. Il percorso di Goldoni è segnato in primo luogo dalla proposta di una riforma, da un'azione di rinnovamento all'interno del teatro comico maturata nel corso di una stagione decisiva, tra mutamenti sociali e il progressivo diffondersi anche in Italia della riflessione illuministica. È Goldoni stesso ad accreditarsi come fautore di questo passaggio di modernizzazione delle pratiche teatrali. Si fronteggiano, da un lato le convenzioni e gli stereotipi della commedia dell'arte, dall'altro un nuovo teatro fondato sulla cura dei personaggi e dei testi. In Goldoni la ricerca di riforma convive con una ripresa rispettosa delle convenzioni teatrali o, ancora, con la pratica del teatro musicale. Passaggio tra vecchio e nuovo avviene dunque con lentezza e gradualità, persino con un'area di ambigua convivenza tra pratiche teatrali assai differenti. Goldoni nasce a Venezia; nei primi anni i suoi studi seguono gli spostamenti del padre (prima Perugia, poi Rimini). Ha una formazione irrequieta e si lega subito a scrittura teatrale. Dopo la laurea in Legge comincia a esercitare la professione di avvocato a Venezia. Inizia poi a collaborare con il teatro San Samuele e con il teatro S. Giovanni Grisostomo. Inizia così una stagione fitta di opere, una sorta di apprendistato. Consolida rapporto con il S. G. Grisostomo attraverso composizione di varie opere. Nel 1738 Goldoni scrive il Momolo cortesan, commedia che rappresenta svolta → mediazione tra una sezione scritta e parti lasciate invece all'improvvisazione degli attori (sul copione). La donna di garbo è primo caso di commedia interamente scritta con battute. Nel periodo del S. Samuele Goldoni mette a fuoco gli elementi chiave della sua riforma: lo fa attraverso un rapporto serrato con il pubblico veneziano e insieme con le compagnie degli attori; un'analisi dei testi dimostra come la proposta di una innovazione conviva in Goldoni con una parziale conservazione dei moduli della commedia dell'arte, proprio in ragione del necessario spirito di mediazione con quella che era la pratica degli attori. Anzi, proprio l'alternanza nella produzione goldoniana tra testi più tradizionali e altri più innovativi si può almeno in parte spiegare con rapporto quotidiano con compagnie teatrali, con gusto pubblico, con richieste impresari e con concorrenza di altri scrittori attivi nella scena veneziana, vivace e competitiva. ➢ MONDO E TEATRO → nel 1750 Goldoni realizza con il teatro comico una riflessione e insieme una rappresentazione della sua riforma. La commedia, di impostazione metateatrale, mette infatti in scena una compagnia di attori che provano una commedia dello stesso Goldoni e che in questo modo, discutendo del testo, mettono in luce le novità dell'esperienza goldoniana. Goldoni offre versione nitida dei modi e degli obiettivi del suo nuovo teatro. Prima viene presentato a tinte forti il quadro di decadenza della commedia dell'arte, in una prospettiva che spinge soprattutto sull'elemento della corruzione morale. o Studio «Mondo» come palestra per analisi e comprensione delle passioni umane, nella dinamica continua tra vizi e virtù e nell'inesauribile varietà delle esperienze umane; o Studio «Teatro» per acquisire colori utili a «far impressione sugli animi», a conferma della curvatura morale che Goldoni imprime alla sua istanza di riforma: così egli riprende una tensione a nobilitare la pratica del teatro, collocandola in una prospettiva alta, pedagogica. Ultima nota è su scelte di lingua e stile, improntate a immediatezza e a un paradigma di «Natura» che intende giustificare la natura poco sorvegliata della scrittura di Goldoni, tanto rapida quanto a tratti diseguale. Mondo e Teatro, con il corollario di una scrittura prossima alla «Natura», diventano così i due poli che orientano la scrittura, in una combinazione di analisi di costumi e realtà e di abile resa scenica. In questo scambio tra realismo e mestiere, natura e artificio, il dato cruciale è che Goldoni si offra soprattutto come portatore di un intento educativo sul pubblico contemporaneo, dato ben visibile nelle commedie dei primi anni Cinquanta. Mirandolina sola Uh, che mai ha detto! L'eccellentissimo signor marchese Arsura mi sposerebbe? E pure se mi volesse sposare, vi sarebbe una piccola difficoltà. Io non lo vorrei. Mi piace l'arrosto, e del fumo non so che farne. Se avessi sposati tutti quelli, che hanno detto volermi, oh, averei pure tanti mariti! Quanti arrivano a questa locanda, tutti di me s'innamorano, tutti mi fanno i cascamorti; e tanti, e tanti mi esibiscono di sposarmi a dirittura. E questo signor Cavaliere, rustico come un orso, mi tratta sì bruscamente? Questi è il primo forestiere capitato alla mia locanda, il quale non abbia avuto piacere di trattare con me. Non dico, che tutti in un salto s'abbiano a innamorare; ma disprezzarmi così? è una cosa, che mi muove la bile terribilmente. È nemico delle donne? Non le può vedere? Povero pazzo! Non averà ancora trovato quella, che sappia fare. Ma la troverà. La troverà. E chi sa che non l’abbia trovata? Con questi per l’appunto mi ci metto di picca. Quei, che mi corron dietro, presto presto m’annoiano. La nobiltà non fa per me. La ricchezza la stimo, e non la stimo. Tutto il mio piacere consiste in vedermi servita, vagheggiata, adorata. Questa è la mia debolezza, e questa è la debolezza di quasi tutte le donne. A maritarmi non ci penso nemmeno; non ho bisogno di nessuno; vivo onestamente, e godo la mia libertà. Tratto con tutti, ma non m'innamoro mai di nessuno. Voglio burlarmi di tante caricature d'amanti spasimati; e voglio usar tutta l'arte per vincere, abbattere e conquassare quei cuori barbari, e duri, che son nemici di noi, che siamo la miglior cosa che abbia prodotto al mondo la bella madre natura. Al Signor di Montgolfier → evento contemporaneo (ascensione aerostatica) viene nobilitato alla luce del confronto con un analogo evento antico (mitica impresa degli Argonauti), e questo confronto assume in entrambi i casi la forma di un’ode-canzonetta in quartine savioliane (dal nome di L. Savioli, che le adoperò per gli Amori). La quartina savioliana è costituita da 4 settenari, di cui i dispari sono sdruccioli irrelati (liberi da rima) e i pari piani rimati. Si tratta di un metro che per il suo andamento ritmico uniforme (dopo il secondo verso si genera una lieve pausa che tende ad articolare il movimento della strofetta in due parti) è funzionale alla declamazione. Il termine ode-canzonetta designa una forma metrica che, per l’uso di versi brevi impiegati in strofe di struttura semplice e per il frequente ricorso a tronchi e sdruccioli, è analoga alla canzonetta, ma che, come si conviene all’ode, è chiamata a sostenere testi di argomento più impegnato e di stile più sostenuto. Nei due casi che abbiamo indicato, infatti, l’intento del poeta è solennemente celebrativo. La materia è sapientemente distribuita all’interno dell’ode-canzonetta: o STR. 1-5: dedicate al mito degli Argonauti → mitici eroi greci che si imbarcarono sotto la guida di Giasone sulla nave Argo per raggiungere Colchide e impadronirsi del vello d’oro. La nave Argo fu, secondo il mito, la prima nave che solcò i mari o STR. 6-10: dedicate all’impresa moderna; o STR. 11-15: dedicate all’esaltazione della chimica, scienza che ha reso possibile l’impresa. La parte centrale è dedicata alla descrizione dell’ascesa del pallone vista prima dal basso, dal punto di osservazione degli spettatori, e poi dall’alto, dal punto di osservazione del pilota. All’ultima parte Monti affida la celebrazione dell’ardire umano che alza sempre di più l’asticella della sua sfida alla natura, sfida che sembra non trovare limiti. Tutta la materia, tipicamente moderna, è trasposta nelle forme antiche della mitologia, cui il poeta fa continuo ricorso. Questo dire il moderno attraverso il filtro dell’antico è la caratteristica principale del Neoclassicismo, del quale Vincenzo Monti è uno dei massimi esponenti. La spedizione degli Argonauti è dunque la prima spedizione navale realizzata dall’umanità. Monti, riprendendo un paragone mitico non nuovo in letteratura associa l’eroica impresa dell’antichità a quella moderna, nella quale gli uomini sono giunti a navigare i cieli, diventando appunto aeronauti (navigatori dell’aria). Nel rievocare l’impresa di Giasone, come avrebbero fatto anche altri poeti celebratori delle ascensioni, Monti mette però al centro del quadro Orfeo: PARAFRASI SINTETICA DEL TESTO: «Come Orfeo cantò in antico la prima spedizione navale, così sarà ora materia degna di canto la prima navigazione aerea, poiché Montgolfier risulta anche maggiore di Giasone (vv. 1-36). La scoperta del pallone volante fu una vittoria della scienza, che ricerca e spiega le cause che danno vita al creato (vv. 37-56). L’idrogeno, che chiuso nelle viscere della terra fa vacillare il mondo, eccolo, reso innocuo, spingere in aria il pallone, che tutti ammirano stupiti e che molti, dopo l’esempio di Robert, vogliono sperimentare (vv. 57-112). Che cosa resta ormai alla scienza, che dopo tante scoperte è giunta a salire persino al di sopra delle nuvole? (vv. 113-136). Uccidere la morte e rendere l’uomo, come Giove, immortale (vv. 137-140)». In quest’ode in cui si susseguono fittissimi riferimenti al repertorio mitologico per celebrare un progresso della tecnica epocale e formidabile come il primo volo di un umano all’interno di un pallone aerostatico. Quando Giason dal Pelio spinse nel mar gli abeti, e primo corse a fendere co’ remi il seno a Teti, su l’alta poppa intrepido col fior del sangue acheo vide la Grecia ascendere il giovinetto Orfeo. Stendea le dita eburnee su la materna lira; e al tracio suon chetavasi de’ venti il fischio e l’ira. Meravigliando accorsero di Doride le figlie; Nettuno ai verdi alipedi lasciò cader le briglie. Quando Giasone spinse in mare la nave, fatte con gli abeti del monte Pelio, e per primo corse a fendere la superficie del mare, la Grecia vide salire sull’alta poppa, insieme alla più intrepida gioventù, il giovane Orfeo. Orfeo stendeva le dita bianche come l’avorio sulla lira, dono della madre (la musa Calliope), e a quel suono tracio (Orfeo era originario della Tracia) il fischio e l’ira dei venti cessavano. Il canto di Orfeo, figlio di Apollo e Calliope, aveva il potere di dominare le forze della natura. La sua figura simboleggia la forza persuasiva ed esortativa della poesia, capace di conseguire i più alti obiettivi. L’evocazione di Orfeo, al quale Monti attribuisce qui il ruolo di protagonista dell’impresa (è grazie al suo canto che gli Argonauti riescono ad affrontare tutte le difficoltà), ha il senso di un’autocelebrazione: il cantore (Monti) dell’evento moderno si investe della stessa nobile missione che fu già del mitico poeta antico. Il potere della poesia continua ad essere celebrato, attraverso la figura di Orfeo, «il vate odrisio» (=tracio: Tracia era detta anche Odrisia), fino al v. 20, dopodiché entra in scena Montgolfier ⇩ Cantava il Vate odrisio d’Argo la gloria intanto, e dolce errar sentivasi su l’alme greche il canto. O della Senna, ascoltami, novello Tifi invitto: vinse i portenti argolici l’aereo tuo tragitto. Tentar del mare i vortici forse è sì gran pensiero, come occupar de’ fulmini l’invïolato impero? Deh! perchè al nostro secolo non diè propizio il Fato d’un altro Orfeo la cetera, se Montgolfier n’ha dato? Maggior del prode Esonide surse di Gallia il figlio. Applaudi, Europa attonita, al volator naviglio. Non mai Natura, all’ordine delle sue leggi intesa, dalla potenza chimica soffrì più bella offesa. Mirabil arte, ond’alzasi di Sthallio e Black la fama, pèra lo stolto cinico che frenesia ti chiama. De’ corpi entro le viscere tu l’acre sguardo avventi, e invan celarsi tentano gl’indocili elementi. Dalle tenaci tenebre la verità traesti, e delle rauche ipotesi tregua al furor ponesti. Brillò Sofia più fulgida del tuo splendor vestita, e le sorgenti apparvero, onde il creato ha vita. L’igneo terribil aere, che dentro il suol profondo pasce i tremuoti, e i cardini fa vacillar del mondo, reso innocente or vedilo da’ marzii corpi uscire, e già domato ed utile al domator servire. paragonato a sua volta ad un altro dei protagonisti della spedizione guidata da Giasone: Tifi, il pilota della nave Argo. Montgolfier è designato con la perifrasi «nuovo invitto Tifi della Senna» (= francese), e di lui si dice che è superiore al Tifi antico: il tuo tragitto aereo superò il portentoso viaggio compiuto dalla nave Argo. In questa str. si sottolinea che occupare il cielo, dove regnano i fulmini, è ben più difficile che affrontare le onde del mare. Tale moderna impresa avrebbe bisogno di un poeta paragonabile a Orfeo che la cantasse: implicitamente Monti riserva a se stesso questo ruolo. Montgolfier si rivelò maggiore di Giasone (figlio di Esone: Esonide). Mai più bella offesa fu apportata dalla chimica alla natura, sottomessa alle leggi che la governano. Scienza mirabile (la chimica), che ha dato la fama a Georg Ernst Sthal e a Joseph Black. Sia maledetto lo sciocco incredulo che la chiama follia. Tu (chimica) spingi il tuo sguardo acuto dentro le viscere dei corpi, e gli elementi ribelli invano tentano di sfuggire al tuo esame. Tu (chimica) hai tratto fuori dalle tenebre la verità (rivelandola), e hai posto fine all’infuriare della ridda di ipotesi fallaci, discusse fino a rendere rauca la voce (all’infinito e inutilmente). La Sapienza (Sofia, il suo nome greco) ora più splendente per le conquiste della chimica, brillò e si rivelarono così i principi primi che governano il creato. L’idrogeno, facilmente infiammabile (gas infiammabile), che nelle profondità della terra genera i terremoti a fa vacillare il mondo dalle fondamenta, reso innocuo ora vedilo uscire dal ferro (da’ marzii corpi: era ottenuto da una miscela di ferro e acido vitriolico), e, così domato e reso utile, vedilo servire al domatore (scienziato, chimico). Per lui del pondo immemore, mirabil cosa! in alto va la materia, e insolito porta alle nubi assalto. Il gran prodigio immobili i riguardanti lassa, e di terrore un palpito in ogni cor trapassa. Tace la terra, e suonano del ciel le vie deserte: stan mille volti pallidi, e mille bocche aperte. Sorge il diletto e l’estasi in mezzo allo spavento, e i piè mal fermi agognano ir dietro al guardo attento. Pace e silenzio, o turbini: deh! non vi prenda sdegno se umane salme varcano delle tempeste il regno. Rattien la neve, o Borea, che giù dal crin ti cola: l’etra sereno e libero cedi a Robert che vola. Non egli vien d’Orizia a insidïar le voglie: costa rimorsi e lacrime tentar d’un dio la moglie. Mise Tesèo nei talami dell’atro Dite il piede: punillo il Fato, e in Erebo fra ceppi eterni or siede. Ma già di Francia il Dedalo nel mar dell’aure è lunge: lieve lo porta zeffiro, e l’occhio appena il giunge. Fosco di là profondasi il suol fuggente ai lumi, e come larve appaiono città, foreste e fiumi. Certo la vista orribile l’alme agghiacciar dovría; ma di Robert nell’anima chiusa è al terror la via. E già l’audace esempio i più ritrosi acquista; già cento globi ascendono del cielo alla conquista. Grazie a lui (l’idrogeno) la materia si solleva da terra dimentica del suo peso, cosa straordinaria! e porta il suo assalto alle nubi. Il grande prodigio immobilizza gli spettatori, mentre un palpito di paura attraversa i loro cuori. Tace la terra, mentre invece risuonano le deserte vie del cielo: i volti degli spettatori attoniti sono pallidi e le loro bocche aperte per lo stupore. In mezzo allo spavento sorgono poi il piacere e la meraviglia, e i piedi non riescono a star fermi e vorrebbero seguire lo sguardo (alzandosi in volo). State in pace e in silenzio, vortici tempestosi: deh! non andate in collera se corpi umani varcano il regno delle tempeste (cieli). Trattieni la neve, Borea (re dei venti del nord apportatore di neve), che ti cola giù dai capelli, cedi a Robert che vola il cielo libero e sereno. Egli (Robert) non viene a rapirti Orizia (moglie di Borea), sa bene che costa caro insidiare la moglie di un dio. Teseo tentò di introdursi nel letto del dio degli Inferi (Plutone, per rapire Proserpina), il Fato lo punì, e ora è incatenato per sempre nell’Ade. Ma già il Dedalo di Francia (Robert) è lontano nel mare dell’aria: lo trasporta lo zeffiro leggero, e si allontana dalla vista rendendosi quasi invisibile. Di là in alto il suolo, che fugge allo sguardo, è lontano, e sembrano fantasmi le città, le foreste e i fiumi. Certamente quella vista spaventosa dovrebbe agghiacciare l’anima, ma la via del terrore è chiusa nel cuore di Robert (che non prova paura). E il suo audace esempio già conquista anche i più diffidenti; già cento altri palloni ascendono alla conquista del cielo. Il Mattino (1763) si apre con ironica dedica Alla Moda. Parini, ironicamente, chiede l'aiuto alla Moda perché è la vera dea della società in cui vive. Una società che non si pone più come obiettivo l'etica de bene comune e del miglioramento dei costumi. La società nobiliare ha rinunciato alla sua tradizione intellettuale ed etica. Ha addirittura cancellato il buon senso. Le dame i giovani nobili hanno abbandonato il governo, le leggi e l'economia. Non hanno più principi stabili e sono diventati dei a se stessi. Ma la dedica alla Moda risuona quasi come un ammonimento ed una profezia: il poeta non vuole creare un'opera immortale perché la sua poesia è specchio di questo tempo vezzoso, che se non ritorna alla sua funzione di vera guida, sarà destinato, come le mode, a scomparire non lasciando più traccia. PARAFRASI: Stiano alla larga da queste carte gli occhi cisposi, indeboliti da più di un secolo; alla larga i nasi con la goccia pendente dei vegliardi malinconici. Qui [in questo Poemetto] non si parla di politica [di gravi mansioni legate al governo dello stato], di severe leggi, di noiosa economia domestica, misero appannaggio [privilegio] dell'età canuta [dai capelli bianchi]. A te, graziosissima Dea, che non così dolci redini oggi temperi e governi la nostra brillante gioventù, a te sola è dedicato e consacrato questo piccolo Libretto. C'è qualcuno che oggi non ti riverisca e onori quale suo Nume tutelare, poiché in così breve tempo sei giunta a debellare la fredda Ragione, il pedante Buon Senso e il noioso Ordine, tuoi nemici capitali, poiché hai sciolto dai lacci del passato questo secolo fortunato? [sottinteso: No, non c'è.] Ti piaccia dunque di accogliere sotto la tua protezione questo piccolo Poemetto, poiché forse non ne è indegno. Tu recalo sugli altari pacifici [sulle "toilettes"], dove le gentili Dame e gli amabili Garzoni sacrificano a se stessi le ore mattutine. Solo di questo egli è desideroso, e solo di questo andrà superbo e contento. Per esserti più caro, egli ha scosso il giogo della rima servile [di uno schema metrico rigido], e se ne va libero in versi sciolti, sapendo che tu ora godi e ti compiaci specialmente di questi versi. Egli non aspira all’immortalità, come altri libri, troppo lusingati dai loro autori, i quali tu, sopraggiungendo improvvisamente, hai seppellito nell’oblio. Siccome egli è nato per te, e consacrato a te sola, così sarà contento di vivere quel solo momento in cui tu ti mostri sotto un medesimo aspetto, e pensi a cambiarti e a risorgere in forme più graziose. Se a te piacerà di guardare con occhio benevolo questo Mattino, forse gli succederanno il Mezzogiorno e la Sera; e il loro autore si impegnerà a comporli e a ornarli in modo tale che, non meno del primo, abbiano ad esserti cari. NB: Mattino = poesia ostentatamente disimpegnata e modaiola; tuttavia, Il Mattino ha alle spalle poemi del ‘500 e del ‘700 (metro) e riferimento a classici come Ovidio e Virgilio (stile elegantissimo). Al fondo della critica pariniana sta il tema del distacco della società dalla natura. Per questo è emblematico l'inizio vero e proprio della mattinata del Giovin Signore, che, reduce da nottata di festeggiamenti, si corica al canto del gallo che invece richiama all'opera contadini ed artigiani, presentati come modelli di vita laboriosa e accordata a un ordine elementare e superiore. Mattinata del nobile, risvegliatosi a giorno fatto, sarà tutta occupata da preparazione di sé per uscita in carrozza. Risveglio, colazione, lunga sosta alla toilette e vestizione offrono il destro per rappresentare la miriade di oggetti e persone che gli ruotano attorno. Scopo dei preparativi è comparsa nel bel mondo e soprattutto accompagnamento della dama di cui il Giovin Signore è cavalier servente. Ne darà conto la seconda parte del poema, ma già qui la riflessione sull'amore, come costume sociale, è punto fondamentale del poemetto. A fronte della sana e feconda vita familiare degli umili, il cicisbeismo rappresenta il segno della corruttela nobiliare, della distorsione artificiosa del bene e della virtù. Alla divisione fra amore e matrimonio viene dedicata la favola di Amore e Imene, una delle due che Parini inserisce nel testo per fornire un “riposo” poetico e dilettevole al lettore. L'altra, della “cipria”, spiega perché giovani e vecchi si inciprino rendendo età indistinguibili. Conclusi i preparativi, il Giovin Signore si precipita dalla dama, con cui trascorrerà le altre parti della giornata; il lento mattino si conclude, con cambio di ritmo, su violenta corsa del cocchio e su scena di sangue: [...] Apriti o vulgo, E cedi il passo al trono ove s'asside Il mio Signore: ahi te meschin s'ei perde Un sol per te de' preziosi istanti. Temi ‘l non mai da legge, o verga, o fune ⇨ Domabile cocchier, temi le rote, Che già più volte le tue membra in giro Avvolser seco? e del tuo impuro sangue Corser macchiate, e il suol di lunga striscia, Spettacol miserabile! segnaro. Vista dell'«impuro sangue» rimarca distanza che società ha posto fra nobile e plebeo, l'oppressione arbitraria e brutale a cui il «vulgo» è sottoposto dai «semidei» che, pensando d'esser superiori al resto della società, sono men che umani. Parini non termina opera. A lungo abbandonato, lavoro su Mattino, Mezzogiorno e Sera riprende negli anni ’80 → processo revisione porta a mutamento strutturale dell'opera, che diviene un poema, Il Giorno, in 4 parti (Mattino, Meriggio, Vespro, Notte) di cui restano, soprattutto per le ultime due parti, solo frammentari manoscritti autografi oltre ad appunti che indicano alcuni dei temi che Parini intendeva sviluppare. Lavoro su Notte viene definitivamente abbandonato → scelta su cui pesano forse difficoltà strutturali interne all’opera + indebolimento dell’idolo polemico – mondo aristocratico, messo più che alla berlina da Riv. Francese. Quadro ideologico pariniano e asprezza satira non mutano, ma nei frammenti di Vespro e Notte c’è indebolimento della funzione del precettore, che tende ad essere assorbito da struttura descrittiva. Al di là di correzioni linguistiche (es. Parini elimina tutte le voci straniere) e di introduzione di molte varianti stilistiche, passaggio a struttura in 4 parti implica, nelle prime due, soppressioni (compensate da aggiunte) e piccoli spostamenti interni. Il Mattino II: vv. 250-370 – FAVOLA DI AMORE E IMENE Ispirato alla favola di Amore e Psiche, il primo degli inserti eziologici del Giorno illustra l'origine dell'inviolabil rito del cicisbeismo (cavalier servente) con la separazione istituzionale fra matrimonio e amore, e la perdita del naturale sentimento della gelosia maritale. Figli di Venere, Amore e Imene erano in perfetto accordo e congiungevano i corpi e le anime degli uomini. Amore, rappresentato fanciullo, e poi adulto forte e sicuro, trionfò sul fratello. La ribellione indusse Venere ad assegnare ai figli compiti distinti. Amore avrebbe governato sulle anime durante il giorno, mentre Imene, dio delle nozze, avrebbe regnato sui corpi durante la notte. Così nella società nobiliare il matrimonio, privato di ogni attrazione erotica, si riduce a pura convenienza, mentre l'amore è riservato alle relazioni extraconiugali fra il cavalier servente e la propria dama, talvolta regolante negli stessi contratti di nozze. Fenomeno del cicisbeismo = separazione tra amore e matrimonio, fenomeno ritenuto immorale da Parini. Il matrimonio era quindi diventato un'istituzione sfruttata a convenienza. Nel cicisbeismo sia la donna che l'uomo in una coppia avevano rapporti extraconiugali. Esso era un adulterio lecito a tutti gli effetti. La favola di Amore e Imene ha più scopi: 1. favola eziologica: perché spiega la nascita del cicisbeismo; 2. distrarre e alleggerire la lettura al lettore; 3. rendere più chiaro il fenomeno del cicisbeismo. Inoltre la corruzione del cicisbeismo portava, di conseguenza, ad altra corruzione, come se tutto fosse lecito. La favola di Amore e Imene, la prima del Giorno, consente quindi a Parini di proiettare su uno sfondo mitico questa tematica che attraversa tutta la sua opera. Assai signore a te pensasti: or volgi l'alta mente per poco ad altri obbietti non men degni di te. Sai che compagna con cui partir de la giornata illustre i travagli e le glorie il ciel destina al giovane signore. Impallidisci? Ahi non parlo di nozze. Antiquo e vieto dottor sarei se così folle io dessi a te consiglio. Di tant'alte doti già non orni così lo spirto e i membri perché in mezzo a la fulgida carriera tu il tuo corso interrompa e, fuora uscendo di cotesto a ragion detto bel mondo, in tra i severi di famiglia padri relegato ti giacci a nodi avvinto di giorno in giorno più noiosi e fatto ignobil fabbro de la razza umana. D'altra parte il marito ahi quanto spiace, e lo stomaco move ai delicati del vostr'orbe felice abitatori qualor de' semplicetti avoli nostri portar osa in ridevole trionfo la rimbambita fe' la pudicizia severi nomi. E qual non suole a forza entro a' melati petti eccitar bile quando i computi vili del castaldo le vendemmie i ricolti i pedagoghi di que' sì dolci suoi bambini altrui gongolando ricorda; e non vergogna Giovin Signore, fin ora hai pensato solo a te: ora voglia la tua mente alta ad altre preoccupazioni e altri obiettivi non meno degni di te. Sai che il cielo destina al Giovin Signore una compagna con cui possa dividere questa vita illustre. Impallidisci? Ahi, non parlo di matrimonio. Sarei maestro antico e vecchio se ti dessi un consiglio così folle (ironia). Tu non orni così l’animo e il corpo di alte doti perché dovresti sospendere la tua carriera a metà uscendo da questo, a ragion detto bel mondo (= mondo aristocratico); giaceresti relegato tra i severi antenati di famiglia, stretto da un nodo ogni giorno più stretto, ridotto a volgare riproduzione della razza umana (ironia: si riferisce a aristocratici che consideravano il matrimonio come una gabbia; donne sono i fabbri che partoriscono). Dall’altra parte c’è il marito; ahi quanto mi dispiace che lui nausei i delicati abitanti del vostro bel mondo quando osa portare al ridicolo trionfo i severi nomi della fede dei vostri avi rimbambiti e la pudicizia. E quale ira non suole suscitare in modo incoercibile negli anni delicati e sensibili quando gongolando ricorda i calcoli meschini del fattore, le vendemmie, i raccolti, i pedagoghi di quei dolci suoi bambini altrui; e non si vergogna di mischiare questa favole ad argomenti singolari, a neologismi e a nuove costruzioni a idee libere da vincoli di natura morale per mezzo di cui viene ravviato il vostro amabile mondo (il marito, infastidito e geloso, non può lamentarsi; non può nemmeno indagare per di mischiar cotai fole a peregrini subbietti a nuove del dir forme a sciolti da volgar fren concetti, onde s'avviva de' begli spirti il conversar sublime. capire se i figli sono i suoi; gli conviene fingere d’esser d’accordo con quelle che Parini definisce “idee libere da vincoli di natura morale”). Non però tu senza compagna andrai; ché tra le fide altrui giovani spose una te n'offre inviolabil rito del bel mondo onde sei parte sì cara. Tempo fu già che il pargoletto Amore dato era in guardia al suo fratello Imene; tanto la madre lor temea che il cieco incauto nume perigliando gisse misero e solo per oblique vie; e che, bersaglio a gl'indiscreti colpi di senza guida e senza freno arciero, immaturo al suo fin corresse il seme uman che nato è a dominar la terra. Quindi la prole mal secura all'altra in cura dato avea sì lor dicendo: «Ite o figli del par; tu più possente il dardo scocca, e tu più cauto il reggi a certa meta». Così ognor congiunta iva la dolce coppia, e in un sol regno e d'un nodo comun l'alme strignea. Allora fu che il sol mai sempre uniti vedea un pastore ed una pastorella starsi al prato a la selva al colle al fonte: e la suora di lui vedeali poi uniti ancor nel talamo beato ch'ambo gli amici numi a piene mani gareggiando spargean di gigli e rose. Ma che non puote anco in divini petti, se mai s'accende, ambizion d'impero? Crebber l'ali ad Amor, crebbe l'ardire; onde a brev'aere prima indi securo a vie maggior fidossi, e fiero alfine entrò nell'alto, e il grande arco crollando e il capo risonar fece a quel moto il duro acciar che a tergo la faretra gli empie, e gridò: «Solo regnar vogl'io». Non andrai però senza una compagna che sia giovane dama o sposa di un altro, perché così vuole il bel mondo di cui tu sei cittadino (Giovin Signore, non preoccuparti se non ti sposi, perché ci sono tante donne sposate che hanno bisogno di un cavalier servente, il che è lecito e divertente). Dopo aver esposto il tema, Parini introduce la favola di Amore e Imene: il piccolo Cupido fu dato in custodia a suo fratello Imene, poiché la loro madre (Venere) aveva paura che l’incauta divinità bendata corresse rischi se lasciato solo e che il genere umano, nato per dominare la Terra, corresse verso una fine troppo immatura, in quanto bersaglio dei colpi indiscreti del dio Amore. Quindi il figlio pericoloso viene dato in cura all’altro dicendo loro così: «andate, o figli, insieme, tu più possente scaglia la freccia, e tu più cauto guidalo verso il giusto obiettivo». Così sempre insieme andava la dolce coppia, e in un solo regno e stringeva le anime in un nodo comune (= le nozze). Allora successe che il sole vedeva un pastore e una pastorella stare sul prato nei boschi e sui coli presso un ruscello: e sua sorella Luna li vedeva ancora uniti nel letto nuziale beato, che entrambe le divinità gareggiavano spargendo gigli e rose (gigli = purezza; rose = passione). Ma cosa non può succedere se mai si accende l’ambizione di un regno anche in un divino petto? Crebbero le ali di Amore, crebbe la forza con esse, e la forza è l’unica e sola via per regnare (tributo a Machiavelli); Amore si affidò dapprima a un volo breve, poi sempre più ampio e fiero e poi entrò nel cielo aperto da solo e scrollando il grande arco e capo face risuonare con quel movimento il duro acciaio (= frecce, metonimia) che gli riempivano la faretra sulle spalle, e gridò: «voglio regnare da solo». Disse, e volto a la madre: «Amore adunque, il più possente in fra gli dei, il primo di Citerea figliuol, ricever leggi, e dal minor german ricever leggi, vile alunno anzi servo? Or dunque Amore non oserà fuor ch'una unica volta fiedere un'alma come questo schifo da me pur chiede? E non potrò giammai da poi ch'io strinsi un laccio anco disciorlo a mio talento e, se m'aggrada, un altro stringerne ancora? E lascerò pur ch'egli di suoi unguenti impece a me i miei dardi, perché men velenosi e men crudeli scendano ai petti? Or via, perché non togli a me da le mie man quest'arco e queste armi da le mie spalle, e ignudo lasci quasi rifiuto degli dei Cupido? E disse alla madre: «Amore dunque, il più possente tra fli dèi, il primo figlio di Venere, riceve leggi proprio dal fratello minore, diventando così un misero suo alunno anzi suo servo? Ora dunque Amore non potrà osare ferire un’anima più di una volta come questo schifoso vuole da me? E io non potrò mai dopo che strinsi un legame amoroso scioglierlo a mio piacimento, e qualora ne volessi stringere un altro ancor? E lascerò che egli imbratti anche le mie frecce perché siano meno velenose e meno crudeli per i cuori? Dai, perché non mi togli dalle mani questo arco e dalle spalle queste armi, e non lasci Cupido nudo come un rifiuto degli dèi? campo all'indignazione. Ozi giovin sig. non sono innocui: si sostentano di miseria e sangue degli umili. Quando miserie e sangue fanno irruzione nel poema, stile epico si presta con naturalezza a esprimere pietà e sdegno dell'autore. La magniloquenza parodica (vv. 1157-60): [..] Apriti o vulgo e cedi il passo al trono ove s'asside il mio signore. Ahi te meschin s'ei perde un sol per te de' preziosi istanti! si trasforma, senza soluzione di continuità, nell'epica delle vittime (vv. 1162-66): [...] temi le rote che già più volte le tue membra in giro avvolser seco, e del tuo impuro sangue corser macchiate, e il suol di lunga striscia, spettacol miserabile! segnàro. NB: sintagma «impuro sangue» esce di peso dalla distorta ideologia nobiliare: ciò significa che perfino nella contemplazione della tragedia il dettato pariniano mantiene fermo il punto di vista deformato delle classi dominanti. In questi versi, però, i segnali linguistici del pregiudizio nobiliare non fanno scattare ironia, ma denuncia crudeltà di chi ne è portatore. Prima del 1800 sentimento di indignazione per sofferenze ceti popolari compare raramente in letteratura italiana. Umili sono in esclusi da rappresentazione letteraria; quando vi entrano è per essere oggetto di riso e satira o per essere investiti da una pietà di tipo paternalistico. Parini (1729-99) è uno dei pochi a far prevalere sdegno su commozione, protesta su compassione, così come è uno dei pochi capace di scolpire in immagini provocatorie, nella loro oggettiva evidenza, l'ingiustizia sociale e l'infelicità di coloro, servi e plebei, a cui da sempre la sublimità epica era stata negata. 1° redazione Mattino risale a 1763, 2° a ‘65: anni in cui scrive Goldoni. Tuttavia, un abisso separa i due tipi di scrittura. Scrittura di Parini è irta, difficile, lontana dal realismo goldoniano, dalla colloquialità aderente al parlato della sua lingua, carica fino all'eccesso di letterarietà → lessico ricercato, spesso latineggiante; frequente ricorso a immagini mitologiche; endecasillabo è sottoposto a torsioni e intercalato da pause che ne alterano ritmo; molti rimandi ad ambiti non ovvi, es. produzione didascalica cinque e settecentesca o quella eroicomica; costante rinvio ai classici latini; figuralità tende a deformare, attraverso iperbole e modi epicizzanti, il significato della lettera; sintassi è involuta e complicata da inversioni, iperbati, spezzature, figure retoriche di superficie ⇨ dettato artificioso, tanto da oscurare comprensione testo. Siamo in presenza di un eccesso, di un’esibizione di letterarietà che travalica il normale andamento di un testo di impostazione classicista. È evidente che letteratura italiana non era in grado di fare sua l'aderenza al vero proposta da teatro Goldoni. Eppure, nella sostanza Parini persegue obiettivi non molto diversi da quelli di Goldoni: anche la sua è una pittura d'ambiente, ed è una pittura animata, in modo molto più risentito che in Goldoni, da un forte spirito critico. In altre parole, Parini adotta forme della tradizione poetica per esprimere la nuova sensibilità sociale dell'epoca. In effetti, la sua poesia, pur iscrivendosi per intero sotto l'etichetta classicista, è ben lontana dal classicismo che mirava a nobilitare la realtà, a sollevarla in una sfera più elevata e a sostituire un universo di parole al mondo delle cose. Iperclassicismo di Parini ha proprio la realtà come suo obiettivo costante. Il segreto è nascosto nell'eccesso di letterarietà. Da eccesso nasce parodia (parodia pariniana = parodia di costumi e comportamenti sociali = richiede come termine paragone realtà esterna a testo). Giova ripetere che immagine Parini tutto racchiuso nel contrasto tra forma e contenuto, sarebbe quella di un poeta dal corto respiro, prigioniero dei modi parodici e di una esibita iperbolicità. Parini, invece, ha molte frecce al suo arco. Parodia colpisce la stessa letteratura. Eccesso di letterarietà finisce per svuotarne le forme almeno quanto il contenuto: tromba epica e magniloquenza celebrativa non possono echeggiare in modi così grotteschi senza che esse stesse e generi letterari da cui derivano cadano sotto colpi dell'ironia. Ma in Parini i fenomeni presentano sempre un doppio aspetto. Se, infatti, forma classicista sollecitata fino a limiti della caricatura può risultare corrosiva verso letteratura stessa, bisogna anche rilevare che rigore formale, perizia tecnica, abnegazione nella ricerca suonano come una critica a scadimento, facilità, meccanica riproposizione di un formulario codificato propri di tanta poesia arcadica. Come dettato epico può risultare satirico e al contempo tragico a seconda degli oggetti a cui è applicato, così esibizione gioco letterario può risultare parodica e contemporaneamente richiamare a nuova etica del fare poesia. Intenzione parodica comporta che a livello di contenuti testo accolga fenomeni della più trita quotidianità, ma richiede pure che all'interno della veste linguistico-formale sia attivo e percettibile uno scontro di registri tra forma alta e contenuto basso. Ecco perché, accanto alla più scontata terminologia classicheggiante («invitto garzon», «alte mense» ecc.), all'accumulo di nomi mitologici o antichi (Penati, Licei, Febo ecc.) compaiono notazioni di un realismo prosaico («sbadigliando») o pittoresco («quel magro a cui canuto e raro / pende il crin da la nuca»; «la guancia pienotta») e lampeggiano parole, come «parruccon», «bottoni», della normale comunicazione. È come se, protetta da corazza forgiata da tradizione, letteratura si sentisse in grado di accogliere tracce di una realtà linguistica da essa molto lontana. Recupero di termini tecnici moderni o di parole della lingua di comunicazione in strutture poetiche nobilmente impostate non avviene solo nel Giorno o solo in Parini, anzi, è tratto caratteristico della poesia civile e classicheggiante di secondo 1700. Esso segnala che di fronte all'incrinarsi dei vecchi assetti sociali e al diffondersi delle nuove idee illuministiche e razionalistiche il tradizionale impianto della nostra letteratura comincia a scricchiolare. La letteratura non ha ancora la forza per ribellarsi al passato e adeguarsi alle novità dei contenuti: al contrario, sembrerebbe quasi che, per istinto, voglia rafforzare gli istituti della tradizione e solo così, rassicurata, affrontare i compiti di conoscenza e di critica del reale che sente essere i suoi. La Notte, aperta da ampia introduzione che mette a contrasto le notti del remoto passato e quella odierna e tornando così a ribadire la natura artificiale e assurda della vita aristocratica, ci fa ritrovare Giovin Signore che frescheggia «Fra l'amico tacer del vuoto corso» con «'altrui cara consorte» (vv. 124, 128). Poiché però «il tedio a la fin serpe tra i vostri / Così lunghi ritiri» (vv. 138-139), il precettore lo chiama alla gloria e lo invia al palazzo che, per dare senso a propria vita, «splendida matrona apre al notturno / Concilio de' tuoi pari» (vv. 150-151). È il luogo del ritrovo per il gioco alla cui «sorte» si affidano le donne sposate per dimenticare «i tristi eventi / De la sorte d'amore» (vv. 155-156), alle cui «ire / Magnanime» (vv. 160-161) si danno gli anziani per dimenticare la rabbia per l'esser vecchi; i giovani vi si raccolgono qui per competere in vanità. È fissata in questi versi l'azione fondamentale dipinta nel quarto poemetto: come nel Mezzogiorno-Meriggio il desinare e i tipi e le mode che lo caratterizzano, così qui una varietà di occupazioni ludiche in cui ciascuno trova invariabilmente sé stesso. Ma se nella 2° parte del Giorno sussisteva una forma di superficiale vitalità, nella Notte la satira deforma grottescamente i tipi umani e la vita nobiliare sembra preda di un inarrestabile processo di decomposizione. Ultimi segni moto vitale sono fuori (es. via vai carrozze e servi, arrivo carrozza di cavaliere e dama, spalancarsi delle porte ecc.). Segue favola del Canapè (vv. 276-350), che mostra processo di corruzione: inventato da Amore per poterci stare in due o tre, accolto con entusiasmo come sedia e come letto da gruppi di amiche, da amanti, da cavalieri e dame che condividono letture pruriginose, viene poi abbandonato al sopraggiungere di Puntiglio e Noia; occupato da nonne che vi tossiscono sopra e mogli che sbadigliano, diviene un luogo da evitare. Giovin-Signore segue quindi gioventù sulle sedie (vv. 351-367). Inizia poi lunga (vv. 368-527) «sfilata degli imbecilli» in cui si smarrisce figura Giovin Signore. Innaturale uguaglianza di giovani e vecchi - già presente in favola cipria - è fondata su medesima specie di follia: autistica fissazione su unico trastullo ripetuto giornalmente che annulla passaggio tempo e sviluppo persona e anestetizza percezione invecchiamento e avvicinamento morte. Ecco, quindi, un giovane che passa giornata a schioccare frusta nelle sale del suo palazzo; uno che da trent'anni è avventore fisso dei caffè; giocatore; patito di carrozze; uno si occupa solo di cavalli e in misura minore della sua dama. Si prosegue poi con giovani e vecchi che si baloccano con l'amore → gioco seduzione (chi fa giochi di parole; chi chiacchiera di scienze; chi parla del suo cavallo o suo poeta, chi di spade, chi fa scherzi infantili ecc.). Rumore servi che portano candelieri e tavoli da gioco vale da cambio di scena: vecchia padrona di casa si fa carico della grave incombenza di accoppiare ospiti ai tavoli da gioco. Impegnatissimi dame e cortigiani si siedono e la quiete scende nella sala finché, annunciata da cigolii e stridori, non giunge la tavola per la «cavagnola», gioco adatto ai più maturi e saggi. Così il concilio dei semidei, specchiandosi contento nelle bestie raffigurate sulle carte, rivela sua vera natura, la propria corruzione. Forse proprio in impossibilità di educare ceto ormai destinato alla fine sta anche una delle chiavi per comprendere incompiutezza a cui Parini abbandona la sua, ormai inutile, satira. NOTTE DEGLI AVI, NOTTE DEL GIOVIN SIGNORE Contrasto fra notte medievale e moderna dev'essere letto al di fuori dell'antifrasi: si comprende così che la prima, buia e pericolosa, rappresenta il polo positivo del discorso e che la seconda, splendente e festosa, rappresenta quello negativo. Infatti, nulla di ragionevole o di illuministico rischiara il notturno folleggiare del Giovin Signore che, al contrario, si fonda su un distacco totale da tempi e cicli naturali: per lui è questo il momento della vera attività, che lo ricondurrà al palazzo e nel letto quando per tutti gli altri sarà il momento di alzarsi e tornare al lavoro (cfr. l'inizio del Mattino). Tale stravolgimento è il segno rivelatore della sua vita artificiale e del decadimento della molle aristocrazia contemporanea dai tempi degli avi, violenti magari ma tenaci e virili nell'affrontare la realtà. L'artificiosità della notte del Giovin Signore, il trasformarla in giorno a forza di candele, vale però soprattutto, a livello simbolico, a respingere l'ombra di morte incombente che anticamente essa portava con sé (e che è evidente nella conclusione del Mezzogiorno). Proprio la rimozione del pensiero della morte chiude il Giovin Signore e con lui gli altri nobili imbecilli in un eterno presente, senza sviluppo né crescita, nella maniacale ripetizione di riti stupidi, nel tedio e nell'insensatezza che li affligge nella Notte. La Notte – vv. 1-69 È la parte iniziale dell'ultima sezione del Giorno: scende la notte, una notte assai diversa da quella degli avi, quando al calar del sole il mondo veniva sommerso nelle tenebre profonde, popolate di fantasmi. Ora anche le ore notturne sono illuminate dai bagliori artificiali che provengono dai palazzi aristocratici. Parafrasi: Né tu contenderai benigna Notte, che il mio Giovane illustre io cerchi e guidi con gli estremi precetti entro al tuo regno. E tu non impedirai (contenderai), benevola (perché dà riposo alle creature) Notte, che io cerchi il mio illustre giovane e lo guidi con gli ultimi insegnamenti (estremi precetti) nel tuo regno. Già di tenebre involta e di perigli, sola squallida mesta alto sedevi su la timida terra. Il debil raggio de le stelle remote e de' pianeti, che nel silenzio camminando vanno, rompea gli orrori tuoi sol quanto è duopo a sentirli assai più. Terribil ombra giganteggiando si vedea salire su per le case e su per l'alte torri di teschi antiqui seminate al piede. E upupe e gufi e mostri avversi al sole svolazzavan per essa; e con ferali stridi portavan miserandi > augurj. E lievi dal terreno e smorte fiamme sorgeano in tanto; e quelle smorte fiamme di su di giù vagavano per l'aere orribilmente tacito ed opaco; e al sospettoso adultero, che lento col cappel su le ciglia e tutto avvolto entro al manto sen gia con l'armi ascose, colpieno il core, e lo strignean d'affanno. E fama è ancor che pallide fantasime lungo le mura de i deserti tetti spargean lungo acutissimo lamento, cui di lontano per lo vasto buio i cani rispondevano ululando. Un tempo (Già) avvolta dal buio e dai pericoli, sola, squallida, triste dominavi dall'alto del tuo seggio (alto sedevi) la terra timorosa (timida, perché agli antichi procurava paura e trepidazione). Il debole raggio delle stelle lontane e dei pianeti che ruotano nel cielo silenzioso (nel silenzio) infrangeva (rompea) il tuo orrore solo nella misura in cui ciò serviva (sol quanto è duopo) a farlo percepire maggiormente (assai più). Si vedeva salire, ingrandendosi (giganteggiando), un'ombra spaventosa fra le case e sulle alte torri, le cui fondamenta erano disseminate di antichi teschi (teschi = resti e testimonianza di battaglie e antichi scontri sanguinari). E attraverso tale ombra (per essa) svolazzavano upupe, gufi e altri rapaci che disdegnano la luce solare (mostri avversi al sole), e con le loro grida luttuose (ferali stridi) annunciavano presagi funesti (portava miserandi auguri). E intanto dal terreno si alzavano le tenui (lievi e pallide (smorte) fiammelle dei fuochi fatui (fiammelle, visibili nei cimiteri, provocate dalla combustione naturale dei gas dovuti alla decomposizione dei cadaveri); e quelle pallide fiammelle vagavano su e giù nell'aria orribilmente silenziosa (tacito) e oscura (opaco); e al sospettoso amante clandestino (adultero), che si aggirava (sen gia) lentamente con il cappello calato sugli occhi, tutto avvolto nel suo mantello e con le armi nascoste (ascose), colpivano il cuore e glielo stringevano di affanno. E si dice anche (E fama è ancor) che pallidi spettri (fantasime) lungo le mura delle case disabitate (deserti tetti) intonassero lunghi e acutissimi lamenti, ai quali da lontano, attraverso la vasta oscurità, i cani rispondevano con i loro ululati. Tal fusti o Notte allor che gl'inclit'avi, onde pur sempre il mio garzon si vanta, eran duri ed alpestri; e con l'occaso cadean dopo lor cene al sonno in preda; fin che l'aurora sbadigliante ancora li richiamasse a vigilar su l'opre de i per novo cammin guidati rivi e su i campi nascenti, onde poi grandi furo i nipoti e le cittadi e i regni. Tale eri, o Notte, quando gli illustri antenati (inclit'avi), di cui continuamente (pur sempre) si vanta il mio giovane signore (garzon), erano gente rozza e selvatica (duri ed alpestri); e col tramonto (occaso), dopo cena, cadevano al sonno; fino a quando l'aurora, al suo sorgere (sbadigliante ancora), li richiamava a vigilare sui canali di irrigazione (l'opre de i per novo cammin guidati rivi: perifrasi = “sulle opere dei corsi d’acqua guidati attraverso un nuovo cammino”) e sui campi seminati (nascenti), dai quali (onde) derivò la ricchezza che rese grandi i discendenti (nipoti), le città e i regni. Ma ecco Amore, ecco la madre Venere, ecco del gioco, ecco del fasto i Genj, che trionfanti per la notte scorrono, per la notte, che sacra è al mio signore. Tutto davanti a lor tutto s'irradia di nova luce. Le inimiche tenebre fuggono riversate; e l'ali spandono sopra i covili, ove le fere e gli uomini da la fatica condannati dormono. Ma ecco Amore, ecco sua madre Venere, ecco i Geni (Genj = divinità minori, protettrici di singoli aspetti della vita quotidiana) del gioco e del lusso (fasto), che vanno (scorrono) in trionfo attraverso la notte, che è sacra per il mio signore. Tutto davanti a loro si illumina (s'irradia) di nuova luce. Le tenebre nemiche fuggono ricacciate (riversate); e dispiegano (spandono) le ali sopra i ripari (covili), dove dormono gli animali selvatici e gli uomini condannati dalla fatica (condannati a una vita comune, non Niuna scelta d'obbietti o lochi o tempi Era lor conceduta. A un rivo stesso, A un medesimo frutto, a una stess'ombra Convenivano insieme i primi padri Del tuo sangue, o Signore, e i primi padri De la plebe spregiata. I medesm'antri Il medesimo suolo offrieno loro Il riposo e l'albergo; e a le lor membra I medesmi animai le irsute vesti. Sol'una cura a tutti era comune Di sfuggire il dolore, e ignota cosa Era il desire agli uman petti ancora. progenitori della tua nobile stirpe (i primi padri Del tuo sanque), o Signore, e quelli della plebe disprezzata si ritrovavano (convenivan) insieme presso uno stesso ruscello, uno stesso albero da frutto, una stessa ombra. Le stesse caverne (antri) e la stessa nuda terra (suolo) offrivano loro il riposo e il rifugio (albergo), e gli stessi animali (fornivano) alle loro membra vesti ricavate da irsute pelli. Una sola preoccupazione era comune a tutti, (quella) di sfuggire al dolore, mentre il desiderio del piacere era ancora cosa ignota ai cuori (petti) degli uomini. Forse vero non è = formula che introduce favola del Piacere suona come un’ironica concessione alla superba presunzione dei nobili circa la loro innata superiorità. Chiasmo (istinto medesmo … egual forza) sottolinea la perfetta uguaglianza tra gli uomini. Cura = preoccupazione, latinismo. Desiderio del piacere (uomini primitivi erano spinti solo dall’istinto). L'uniforme degli uomini sembianza Spiacque a' Celesti: e a variar la Terra Fu spedito il Piacer. Quale già i numi D'Ilio sui campi, tal l'amico Genio, Lieve lieve per l'aere labendo s'avvicina a la Terra: e questa ride Di riso ancor non conosciuto. Ei move, E l'aura estiva del cadente rivo, E dei clivi odorosi a lui blandisce Le vaghe membra, e lentamente sdrucciola Sul tondeggiar dei muscoli gentile. Gli s'aggiran d'intorno i Vezzi e i Giochi E come ambrosia, le lusinghe scorrongli Da le fraghe del labbro: e da le luci Socchiuse, languidette, umide fuori Di tremulo fulgore escon scintille Ond'arde l'aere che scendendo ei varca. L'aspetto (sembianza) uniforme degli uomini spiacque agli dèi e fu inviato il Piacere a rendere varia la Terra. Come (Quale) in passato (già) gli dèi (facevano) sui campi di Troia, così l'amica divinità (l'amico Genio), scivolando leggero (Lieve lieve ... labendo) nell'aria, si avvicina alla Terra; e questa è felice (ride) per una sensazione ancora sconosciuta. Egli va (Ei move) e l'aria tiepida (estiva), proveniente dalla cascata del ruscello (dal cadente rivo) e dai colli profumati, gli accarezza (a lui blandisce) le graziose membra e scivola (sdrucciola) lentamente sull'armonioso (gentile) tondeggiare dei suoi muscoli. I Vezzi e i Giochi gli si aggirano intorno e gli allettamenti (lusinghe) gli escono (scorrongli) come ambrosia dalle labbra rosse come fragole (fraghe): e dagli occhi (luci) socchiusi, languidi, escono scintille umide di tremante luminosità (tremulo fulgore), di cui si accende (Ond'arde) l'aria che egli scendendo attraversa (varca). Similitudine rinvia all’Iliade, in cui si legge che gli dèi scendevano dall’Olimpo sul campo di battaglia, a sostegno dell’uno o dell’altro esercito o eroe. Lambendo è un latinismo; nell’espressione lieve lieve… lambendo l’allitterazione ha chiaro valore fonosimbolico. Descrizione evidenzia gusto sensistico di Parini. Vezzi e Giochi sono le attrattive e gli svaghi, qui personificati come divinità minori che formano il corteo del Piacere. Gli sguardi del Piacere sono come un fluido che pervade la natura suscitando seduzione. Alfin sul dorso tuo sentisti, o Terra, Sua prim'orma stamparsi; e tosto un lento Fremere soavissimo si sparse Di cosa in cosa; e ognor crescendo, tutte Di natura le viscere commosse: Come nell'arsa state il tuono s'ode Che di lontano mormorando viene: E col profondo suon di monte in monte Sorge; e la valle, e la foresta intorno Mugon del fragoroso alto rimbombo E infine sul tuo suolo (dorso), o Terra, sentisti stamparsi per la prima volta la sua impronta (orma): e subito (tosto) un fremito lieve e dolcissimo (lento … soavissimo) si diffuse di cosa in cosa; e crescendo sempre più (ognor) scosse (commosse) tutte le viscere della natura: come nell'estate riarsa si sente il mormorio del tuono che giunge di lontano: e col suo suono profondo sale (Sorge) da un monte all'altro; e la valle e la foresta intorno muggiscono (Mugon) per il fragoroso e forte (alto) rimbombo, finché infine cade la pioggia Finché poi cade la feconda pioggia Che gli uomini e le fere e i fiori e l'erbe Ravviva riconforta allegra e abbella. feconda che ravviva, riconforta, rallegra e abbellisce (abbella) gli esseri umani, le belve, i fiori e la vegetazione. Di monte in monte = eco petrarchesca; Verso con chiara valenza fonosimbolica Arrivo del Piacere sulla terra ha lo stesso effetto vivificante della pioggia che rigenera la natura. Oh beati tra gli altri, oh cari al cielo Viventi a cui con miglior man Titano Formò gli organi illustri, e meglio tese E di fluido agilissimo inondolli! Voi l'ignoto solletico sentiste Del celeste motore. In voi ben tosto Le voglie fermentàr, nacque il desio. Voi primieri scopriste il buono, il meglio; E con foga dolcissima correste A possederli. Allor quel de' due sessi. Che necessario in prima era soltanto, D'amabile, e di bello il nome ottenne. Al giudizio di Paride voi deste Il primo esempio: tra feminei volti A distinguer s'apprese; e voi sentiste Primamente le grazie. A voi tra mille Sapor fur noti i più soavi: allora Fu il vin preposto all'onda; e il vin s'elesse Figlio de' tralci più riarsi, e posti A più fervido sol, ne' più sublimi Colli dove più zolfo il suolo impingua. O felici più degli altri, o cari al cielo voi viventi a cui Prometeo (Titano) modellò con maggior cura (con miglior mano) i nobili organi e meglio li tese e li inondò di sangue vivacissimo (fluido agilissimo)! Voi sentiste la sollecitazione mai provata prima (ignoto solletico) dell'impulso mandato dal cielo (celeste motore). In voi ben presto si destarono le voglie (Le voglie fermentàr) e nacque il desiderio. Voi per primi (primieri) scopriste il buono, il meglio; e con piacevolissimo ardore (foga dolcissima) correste a possederli. Da quel momento (Allor) quello dei due sessi (quello femminile), che all'inizio (in prima) era soltanto necessario (a procreare), ottenne il nome di amabile e bello. Voi deste il primo esempio col giudizio di Paride: s'imparò (s'apprese) a distinguere tra i volti femminili e per la prima volta (Primamente) vi accorgeste della bellezza (sentiste ... le grazie). Tra moltissimi sapori voi riconosceste i più piacevoli (soavi): allora il vino fu preferito (preposto) all'acqua (onda); e si scelse il vino proveniente (Figlio) dai tralci più asciutti (riarsi) ed esposti al sole più caldo (fervido) nei colli più alti dove una maggior quantità di zolfo arricchisce il terreno. Titano: Prometeo, figlio del Titano Giapeto, secondo il mito greco, per ordine di Zeus plasmò l’uomo dalla creta e poi gli diede vita col fuoco rapito dal sole. Formò … tese: gli organi illustri sono quelli che presiedono alle sensazioni, e vengono tesi come le corde di uno strumento musicale. Al giudizio … grazie: secondo il mito Paride, figlio del re di Troia Priamo, fu chiamato a giudicare chi fosse la più bella tra le dee Giunone, Minerva e Venere; scelse Venere, ottenendo in cambio l’amore di Elena. Così l'Uom si divise: e fu il Signore Dai Volgari distinto a cui nel seno Troppo languir l'ebeti fibre, inette A rimbalzar sotto i soavi colpi De la nova cagione onde fur tocche: E quasi bovi, al suol curvati ancora Dinanzi al pungol del bisogno andàro; E tra la servitude, e la viltade E 'l travaglio e l'inopia a viver nati, Ebber nome di Plebe. Or tu Signore Che feltrato per mille invitte reni Sangue racchiudi, poiché in altra etade Arte, forza, o fortuna i padri tuoi Grandi rendette, poiché il tempo alfine Lor divisi tesori in te raccolse, Del tuo senso gioisci, a te dai numi Concessa parte: e l'umil vulgo intanto Dell'industria donato, ora ministri A te i piaceri tuoi, nato a recarli Su la mensa real, non a gioirne. Così l'umanità si divise: e il nobile (Signore) fu distinto dai plebei (Volgari) nel cui intimo (seno) rimasero troppo inerti (Troppo languir) le insensibili (ebeti) fibre nervose, incapaci di reagire (rimbalzar) alle dolci sollecitazioni (soavi colpi) del nuovo stimolo (nova cagione: il Piacere) da cui erano state toccate: e come buoi, curvi a terra (per la fatica), continuarono a soggiacere allo stimolo (pungol) del bisogno; e destinati a vivere tra la servitù e 'umiliazione (viltade) e la fatica (travaglio) e la povertà (inopia) ebbero il nome di Plebe. Adesso tu, Signore, che racchiudi (nelle tue vene) un sangue filtrato attraverso mille reni di antenati dominatori (invitte), poiché in un tempo passato (in altra etade) l'abilità (Arte), la forza o il caso hanno reso grandi i tuoi antenati (padri), poiché infine il succedersi delle generazioni (il tempo) ha riunito (raccolse) nelle tue mani i loro tesori divisi (tra diverse famiglie), godi della tua capacità di percepire il piacere (del tuo senso), ruolo (parte) a te concesso dagli dei: e intanto l'umile popolo che ha ricevuto in dono il lavoro (Dell'industria donato) ora procuri (ministri) a te i tuoi piaceri, essendo nato per servirli (a recarli) alla tua mensa regale, non a goderne. ANALISI: LA STRUTTURA DELLA FAVOLA La favola del Piacere si svolge su un duplice piano: quello della fantasia e dell'invenzione mitologica, che ispira una delle pagine più squisitamente elaborate del poemetto, e quello della polemica antinobiliare. Questa, introdotta dall'ironicamente allusivo Forse vero non è, percorre tutto il racconto fino all'esortazione finale rivolta al Giovin Signore perché gioisca della raffinata sensibilità che gli è stata concessa dalla natura e dagli dèi. La favola si dipana attraverso una serie di quadri successivi via via più mossi: dapprima la rappresentazione di un'umanità indifferenziata, in cui tutti sono spinti dagli stessi bisogni e dagli stessi istinti; poi, per volere degli dèi, la discesa del Piacere che anima e abbellisce la terra di fremiti di vita; infine il ridestarsi dalla loro torpida indifferenza di una parte degli uomini, capaci per natura di recepirne gli stimoli. L'ORIGINE DELLA DISUGUAGLIANZA SOCIALE E LA POSIZIONE DI PARINI La divisione in classi, stando a quanto sostiene la favola, non troverebbe quindi la sua origine in ragioni storiche o di merito, ma poggerebbe su differenze fisiologiche. Parini, dando a intendere ancora una volta di sposare il punto di vista della nobiltà, coerentemente con il ruolo che si è scelto e con l'impostazione ironica dell'intero poemetto, finge di condividere l'assunto della favola con il preciso intento di evidenziarne l'assurdità. Per quanto, infatti, si possa accettare l'affermazione che la plebe si accosta al cibo spinta dalla fame, e quindi dal bisogno, mentre la nobiltà, certamente ignara di qualsiasi genere di privazioni, vi ricerca prevalentemente raffinati godimenti per il proprio palato, non è plausibile sostenere che la favola rispecchi il pensiero di Parini, come hanno fatto alcuni critici appellandosi alle sue concezioni sensistiche. Una posizione di questo genere sarebbe in netto contrasto con il principio dell'uguaglianza naturale di tutti gli uomini, energicamente sostenuto da Parini fin dal Dialogo sopra la nobiltà, e ribadito nel poemetto. Piuttosto egli sembra qui affermare - con i consueti toni ambiguamente ironici - che ormai solo la raffinatezza, il lusso, la ricerca del godimento individuale sono gli elementi distintivi della classe nobiliare. RAFFINATO VIRTUOSISMO POETICO Il racconto è contraddistinto da una ricca varietà di intonazioni e da una sensibilità poetica raffinatissima. La descrizione della vita allo stato di natura è caratterizzata dalla presenza di un'umanità rozza e da un ambiente squallido, lontano dalle immagini idilliche proprie della poesia bucolica settecentesca. Con la discesa sulla terra del genio del Piacere, lo sguardo si apre invece su un paesaggio naturale ridente e gioioso, simile a quello delle rappresentazioni arcadiche e di altre pagine pariniane. Insieme ai Vezzi e ai Giochi, le divinità minori che lo accompagnano, la figura del Piacere rimanda a quelle degli amorini riportati alla luce dalle scoperte archeologiche. La natura invece, che si anima improvvisamente di vita e risponde con un fremito interiore al suo passaggio, è descritta con un linguaggio poetico di stampo sensistico per l'uso di termini scientifici (organi; fluido; ebeti fibre) e la ricca aggettivazione di pregnante concretezza (luci / Socchiuse, languidette,; fluido agilissimo ecc.). La sintassi, piuttosto semplice, contribuisce alla scorrevolezza e ariosità della rappresentazione. Solo nella parte finale, l'intonazione ironica, il periodare diviene più complesso e utilizza un lessico più aulico e modi più enfatici. 1700: assetto politico europeo di antico regime si sgretola. Nella tumultuosa cornice storica di questa fin de siècle nascono e si sviluppano due sensibilità in un certo senso speculari: o Neoclassicismo: con la sua ripresa della classicità (soprattutto ambito pittorico e scultoreo) recupera tradizione greco-latina nella prospettiva di una competizione imitativa con la classicità. o Romanticismo: guarda al passato inesplorato delle saghe medievali, interpretato con originalità dall'artista. Figura emblematica di questo trapasso storico e culturale è il conte Vittorio Alfieri Alfieri → esperienza Grand Tour europeo gli consente di modellare una teoria politica antitirannica e antirivoluzionaria che riversa direttamente nei trattati e indirettamente nel proprio corpus tragico (es. Saul e Mirra). Le innovazioni alfieriane in questo campo si giocano sia a livello tematico, con rifunzionalizzazione classicistica del repertorio mitografico e storiografico greco-latino in cadenze dell'endecasillabo sciolto, sia a livello strutturale, con lo sfrondamento delle complesse linee drammaturgiche della tradizione barocca. Ma è la narrazione autobiografica nella Vita scritta da esso il vero sigillo del cambiamento dei tempi: l'autore, attraverso il personaggio, si rivela a sé stesso e agli altri in quanto individuo borghese che trova realizzazione agendo il proprio ruolo dentro una rinnovata società civile, seguendo la via già spianata dai suoi più immediati Saul II 1-119 È notte; nella piana di Gelboè l’esercito di Israele, condotto dal re Saul, attende battaglia con i filistei. All'alba, inaspettato, arriva David, l'eletto del Signore: giovane, bello, valoroso, amato da popolo e rispettato da nemici, ha doni di canto e poesia. Saul lo amava, tanto da dargli in sposa figlia Micol, ma poi, sospettoso che David complottasse per destituirlo, lo aveva cacciato. David torna, rischiando vita, per aiutare re e popolo in battaglia. Micol e Gionata, figlio di Saul ma legato a David da amore più che fraterno, lo accolgono con gioia e timore per eventuali reazioni del padre. Questi si dibatte tra crisi di profonda depressione e scatti d'ira immotivati. Stanco, invecchiato, nostalgico per passato e pieno di cattivi presentimenti, Saul entra in scena. Proclama amore per i figli, confessa di rimpiangere che David non sia al suo fianco, si intenerisce; subito dopo, però, si abbandona nuovamente a odio per David. Saul sta colloquiando con Abner, parente, consigliere ed esecutore di ogni suo ordine scellerato, lui pure nemico di David e dei sacerdoti (atto II scena 1): SAUL Bell’alba è questa. In sanguinoso ammanto Oggi non sorge il Sole; un dì felice Prometter parmi. – Oh miei trascorsi tempi! Deh! dove sete or voi? Mai non si alzava Saúl nel campo da' tappeti suoi, Che vincitor la sera ricorcarsi Certo non fosse. ABNER Ed or, perchè diffidi, O re? Tu forse non fiaccasti or dianzi La filistea baldanza? A questa pugna Quanto più tardi viensi, Abner tel dice, Tanto ne avrai più intera, e nobil palma. SAUL Abner, oh! quanto in rimirar le umane Cose, diverso ha giovinezza il guardo, Dalla canuta età! Quand'io con fermo Braccio la salda noderosa antenna, Ch'or reggo appena, palleggiava; io pure Mal dubitar sapea.... Ma, non ho sola Perduta omai la giovinezza.... Ah! meco Fosse pur anco la invincibil destra D'Iddio possente!... o meco fosse almeno David, mio prode!... ABNER E chi siam noi? Senz'esso Più non si vince or forse? Ah! non più mai Snudar vorrei, s'io ciò credessi, il brando, Che per trafigger me. David, ch'è prima, Sola cagion d'ogni sventura tua… SAUL Ah! no: deriva ogni sventura mia Da più terribil fonte.... E che? celarmi L'orror vorresti del mio stato? Ah! s'io Padre non fossi, come il son, pur troppo! Di cari figli,... or la vittoria, e il regno, E la vita vorrei? Precipitoso Già mi sarei fra gl'inimici ferri Scagliato io, da gran tempo; avrei già tronca Così la vita orribile, ch'io vivo. Quanti anni or son, che sul mio labro il riso Non fu visto spuntare? I figli miei, Ch'amo pur tanto, le più volte all'ira Muovonmi il cor, se mi accarezzan.... Fero, Impaziente, torbido, adirato Sempre; a me stesso incresco ognora, e altrui; Bramo in pace far guerra, in guerra pace: Entro ogni nappo, ascoso tosco io bevo; Scorgo un nemico, in ogni amico; i molli Tappeti assirj, ispidi dumi al fianco Mi sono; angoscia il breve sonno; i sogni Terror. Che più? chi '1 crederia? spavento M'è la tromba di guerra; alto spavento È la tromba a Saúl. Vedi, se è fatta Vedova omai di suo splendor la casa Di Saúl; vedi, se omai Dio sta meco. E tu, tu stesso, (ah! ben lo sai) talora A me, qual sei, caldo verace amico, Guerrier, congiunto, e forte duce, e usbergo Di mia gloria tu sembri; e talor, vile Uom menzogner di corte, invido, astuto, Nemico, traditore... Abner lo rincuora e addita nei sacerdoti la causa vera del «tumulto del suo cor» (v. 59): Dio non l'ha abbandonato, i sacerdoti lo dicono perché il profeta Samuele avrebbe voluto essere eletto lui re, mentre il popolo aveva scelto Saul, un "re guerriero" (v. 71). Quanto a David, «guerrier di braccio [...] ma di cor, sacerdote» (vv. 80, 81), obbediva a Samuele nel passato e continua a essere il suo vero nemico: ABNER […] Ma di cor, sacerdote. Il ver dispoglia D'ogni mentito fregio; il ver conosci. Io del tuo sangue nasco; ogni tuo lustro E d'Abner lustro: ma non può innalzarsi David, no mai, s'ei pria Saúl non calca... SAUL David?... Io l'odio.... Ma, la propria figlia Gli ho pur data in consorte.... Ah! tu non sai. – La voce stessa, la sovrana voce, Che giovanetto mi chiamò più notti, Quand'io, privato, oscuro, e lungi tanto Stava dal trono e da ogni suo pensiero; Or, da più notti, quella voce istessa Fatta è tremenda, e mi respinge, e tuona In suon di tempestosa onda mugghiante: «Esci Saùl; esci Saulle» .... Il sacro Venerabile aspetto del profeta, Che in sogno io vidi già, pria ch'ei mi avesse Manifestato che voleami Dio Re d'Israél; quel Samuele, in sogno, Ora in tutt'altro aspetto io lo riveggo. Io, da profonda cupa orribil valle, Lui su raggiante monte assiso miro: Sta genuflesso Davide a' suoi piedi: Il santo veglio sul capo gli spande L'unguento del signor; con l'altra mano, Che lunga lunga ben cento gran cubiti Fino al mio capo estendesi, ei mi strappa La corona dal crine; e al crin di David Cingerla vuol: ma, il crederesti? David Pietoso in atto a lui si prostra, e niega Riceverla; ed accenna, e piange, e grida, Che a me sul capo ei la riponga.... - Oh, vista! Oh David mio! tu dunque obbediente Ancor mi sei? genero ancora? e figlio? E mio suddito fido? e amico?... Oh, rabbia! Tormi dal capo la corona mia? Tu che tant'osi, iniquo vecchio, trema.... Chi sei?... Chi n'ebbe anco il pensiero, pera... – Ahi lasso me! ch'io già vaneggio! ... Eppure, quando David arriva, Saul cede: lo accoglie a casa e gli affida comando esercito. Gioia di David, Micol e Gionata dura poco. In Saul rinascono i sospetti su fedeltà di David; basta un nonnulla per farlo sprofondare nella depressione autocommiseratoria o infiammarlo di un'ira incontenibile. Saul non sa vincere invidia la giovinezza e qualità del David e, soprattutto, non sa vincere paura che questo voglia spodestarlo. Arrivo del sacerdote Achimelech, successore di Samuele, venuto a sostenere Israele in guerra, causa crisi decisiva: tutti i sospetti di Saul rinvigoriscono in un crescendo di follia paranoica che lo porta a uccidere sacerdote e a ordinare massacro di tutto il clero. Non c'è più spazio per mediazione di Gionata e Micol: David lascia campo; non può combattere per re macchiatosi di empietà; Gionata è allontanato dal ruolo che gli spetta di compagno del re in battaglia. Saul resta solo. I filistei compiono attacco improvviso e sbaragliano israeliti. Subito prima che facciano irruzione in tenda reale, Saul si uccide (v. 216-25): Oh figli miei! … – Fui padre. – Eccoti solo, o re; non un ti resta Dei tanti amici, o servi tuoi. – Sei paga, d’inesorabil Dio terribil ira? Ma, tu mi resti, o brando; all’ultim’uopo, fido ministro, or vieni. – Ecco già gli urli dell’insolente vincitor; sul ciglio già le lor fiaccole ardenti balenarmi veggo, e le spade a mille… – Empia Filiste me troverai, ma almen da re, qui… morto. –––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– Tragedie di Alfieri sono scritte per recitazione su scena. Alfieri concepiva parola poetica solo come parola drammatica, alla cui pienezza erano necessari interpretazione attori + concorso emotivo del pubblico. Da ciò dipende stile delle sue tragedie. Alfieri → stile tragico; stile rotto e conciso, esattamente opposto a quello fluido e cantabile di Metastasio. Non per nulla, Metastasio era il suo grande obiettivo polemico. C’è ruolo rilevante di pause e silenzi. Eroe è sempre solo. La sua vera cifra stilistica è il silenzio. Saul, forse il più solo dei tiranni di Alfieri, nei suoi monologhi, è incapace di lunghi discorsi logicamente costruiti; si esprime per frasi esclamative, interrogative, inframmezzate da lunghe pause segnate dai punti di sospensione. Il dono dell'eloquenza, della parola che affascina, della poesia che avvince spetta a David. Figura tiranno è polo intorno cui ruota drammaturgia alfieriana. Lotta fra tirannide (vince) e libertà (perde) è asse ideologico che la orienta. Tirannide è sola realtà che domina mondo, libertà è aspirazione/slancio utopico. Tirannide e libertà si incarnano in personaggi opposti, ma accomunati dall’essere posseduti da passione divorante: quella per potere, fine a sé stesso, e quella per libertà che non si sostanzia di contenuti, di vere alternative (schema abbastanza). Col tempo Alfieri sposta fulcro opposizione tirannide/libertà: da scontro politico e familiare tra personaggi antagonisti a scontro tra passioni contradditorie interne a singolo personaggio: Saul è uno dei punti di arrivo del percorso (dissidio, mortale, è collocato in animo tiranno Saul). Quando Saul appare in scena, spettatori già sanno che è re destinato alla rovina. Per primo è stato David a comunicare in monologo d'apertura che a Saul è venuto meno il favore di Dio; poi Gionata e Micol lo hanno descritto come malato nell'anima e turbato nella mente. Le prime parole di Saul sono di rimpianto per la giovinezza perduta e per la perduta possanza guerriera. Saul è re vecchio, delegittimato da potere sacerdotale e privo di forze per combattere. Sa di andare incontro alla sconfitta. Soprattutto, Saul è roso da malattia che gli impedisce di riconoscere i veri nemici. Nella sua debolezza senile dirige il suo odio più acuminato contro David (che pure gli è fedele). Per la verità, una giustificazione razionale di questo suo odio esisterebbe; Saul, infatti, sa che David è l'unto del Signore, e quindi prevede che sarà lui a succedergli sul trono, ai danni di Gionata, legittimo discendente. Ma se giustificazione fosse solo questa, saremmo in presenza di una tragedia politica; invece, nel Saul vibrano anche corde d'altro tipo. La componente politica c'è, ma va ricercata nella dinamica complessiva dell'azione drammatica. Nell'odio di Saul sulle motivazioni razionali prevale sentimento irrazionale di invidia: Saul odia David perché rappresenta tutto ciò che lui era da giovane. Eppure, tragedia sembra dipanarsi essenzialmente lungo filo politico problema successione. David non è del suo sangue, quindi scelta di Dio è vissuta da Saul come scelta contro sua famiglia. Saul sembra, e forse vuole, difendere diritti minacciati dei figli. Egli proclama costantemente il suo amore paterno, fin dalle prime battute che pronuncia: se lui è lì pronto a combattere, è solo per i figli: «Ah! s'io / padre non fossi, come il son, pur troppo! / Di cari figli,... or la vittoria, e il regno, / e la vita vorrei?» (II 28-31). Va notato quel «purtroppo» subito adiacente a «cari». Ambivalenza di cui Saul è consapevole: «I figli miei, / ch'amo pur tanto, le più volte all'ira / muovonmi il cor, se mi accarezzan…» (II 36-38). Consapevole, ma non fino al punto da voler fare chiarezza sul perché di quei contraddittori sentimenti. Ama i figli, ma le sue azioni procurano loro solo dolore: Micol è da lui condannata a esser divisa da marito; a Gionata è costantemente rinfacciata sua amicizia per David, e quindi sua incapacità di difendere il trono che gli spetta per diritto di sangue. Anzi, a occhi di Saul i figli possono trasformarsi in nemici. Quando David, Micol e Gionata prendono le difese del sacerdote Achimelech schierandosi congiuntamente contro Saul, questi si abbandona a tirata in cui autocommiserazione diventa ira (III 226-36): La pace mi è tolta; il sole, il regno, i figli, l'alma, tutto mi è tolto!... Ahi Saúl infelice! chi te consola? al brancolar tuo cieco, che è scorta, o appoggio?... I figli tuoi, son muti; duri son, crudi... Del vecchio cadente sol si brama la morte; altro nel core non sta dei figli, che il fatal diadema, che il canuto tuo capo intorno cinge. Su strappatelo, su: spiccate a un tempo da questo omai putrido tronco il capo tremolante del padre... Quando Gionata invita a considerare che su David aleggia protezione Dio, Saul fa terribile sfuriata (IV 88-94): Oh! che favelli? figlio di Saúl tu? - Nulla a te cal del trono? Ma, il crudel dritto di chi 'l tien, nol sai? Spenta mia casa, e da radice svelta fia da colui, che usurperà il mio scettro. I tuoi fratelli, i figli tuoi, tu stesso. Non rimarrà della mia stirpe nullo. Nel passo precedente Saul accusava figli di desiderare sua morte per impossessarsi del regno; in questo accusa Gionata di non preoccuparsi di successione e rovina della famiglia. Accuse sono opposte, ma pensiero Saul è coerente nel profondo. Coerenza è esplicitata da prosieguo sfuriata contro Gionata (IV 95-99): O ria di regno insaziabil sete, che non fai tu? Per aver regno, uccide il fratello il fratel; la madre i figli; la consorte il marito; il figlio il padre. Seggio è di sangue, e d'empietade, il trono. In Saul infuria passione più divorante e assoluta dell'amore per figli: quella per potere; è evidente che lui, per conservarlo, sarebbe capace di compiere tutte le scelleratezze di cui immagina capaci perfino i suoi figli. Il personaggio è lacerato, diviso da due passioni, entrambe sincere, e proprio per questo inconciliabili: amore per figli si esplica, con piena coerenza psicologica, nell'assicurare loro la successione; quello per potere, potere personale, nel tenerlo stretto, al punto che perfino successione del figlio può essere vissuta come spossessamento. Vecchiaia non è solo perdita giovinezza, è soprattutto il venir meno delle prerogative necessarie per mantenere il potere. Saul, scisso da spinte emotive contrastanti, smarrisce la propria identità: contraddizione interiore genera incubi, deliri, complessi di persecuzione, patologia mentale. Tutto ciò porterà a rovina sua e dei figli. Ultime parole da lui pronunciate, quando dramma si è consumato, gettano quasi luce eroica su quel nodo psichico che al lettore, fino a quel momento, è apparso soprattutto come aberrazione e follia. Sconfitto, Saul è solo; con lui è rimasta in vita solo passione per potere. Di questa il suicidio segna vittoria (me troverai, ma almen da re, qui... morto). Parole di follia o estrema consapevolezza? Effetto, comunque, è potente: è come una catarsi perversa. Non è passione del potere ad aver provocato distruzione, ma è autodistruzione che ha salvaguardato potere. –––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– Alfieri (1749-1803) è stato il grande ribelle del ‘700 italiano. Se Parini criticava società da interno, Alfieri le si contrappone frontalmente. Figlio di nobile famiglia di Asti; allevato da madre e patrigno da cui non si sentiva amato, Alfieri rompe legami con famiglia, classe e terra natale, e peregrina in modo nevrotico per l'Europa senza mai riconoscere luogo e società in cui integrarsi realmente. Radicalità delle sue scelte di vita sembra riflettersi in quella delle sue tragedie. Fra traumi di bambino che si sentiva tradito da madre e oppresso da famiglia e scontro tirannide/libertà che egli non cessa di riproporre in scena sussiste, forse, un legame. Non a caso scontro molto spesso è ambientato in struttura familiare. Sia desiderio potere, sia quello di liberarsi dalla sua stretta sono totalizzanti, non passabili di mediazioni; tale inimicizia può risolversi solo con distruzione fisica dell'avversario, e a soccombere è sempre chi aspira a libertà. Su questa opposizione senza sbocco qualche critico vede proiettarsi condizione alfieriana di uomo offeso, o meglio, di figliastro offeso. Condizione di figlio misconosciuto e tradito prenderebbe forma nella figura del suddito oppresso. Ciò renderebbe ragione anche del ruolo che nel teatro alfieriano gioca rappresentazione degli aspetti oscuri e irrazionali di vita e psiche. C’è chi invece crede che lettura di tipo politico del Saul scavi di più nella sostanza del dramma. Serve lettura che nella tragedia individui rappresentazione della crisi irreversibile in cui era precipitato Ancien Régime. In questa tragedia, a parte nemici esterni (filistei), tiranno non ha nessuno intorno che lo contrasti veramente e che cerchi di togliergli potere. David, Micol, Gionata amano Saul nonostante tutto. Saul scorge nemici in amici. Eppure, nel profondo, è follia giustificata. Non è vero che Dio non gli parla. Segni divinità dicono che David è l’Eletto e che stirpe Saul dovrà cedere corona. Volere di Dio è evidente, ma Saul non lo accetta. Saul fa di Dio il suo nemico. Proviamo, allora, a ricondurre questa dinamica tragica alla dinamica storica di fine Settecento. Se nel Dio che pone fine a successione dinastica per diritto di sangue vediamo la trasposizione del corso di una storia che spingeva nuove forze sociali a pretendere un profondo cambiamento degli statuti di un potere secolare, e nelle resistenze di Saul quelle di un ceto dominante incapace di reale cambiamento e disposto perfino a scomparire pur di non cedere i suoi privilegi, ebbene, non è difficile leggere nella tragedia alfieriana una metaforica prefigurazione di quanto stava per accadere nella società del suo tempo. Nel teatro alfieriano non si apre mai spazio alcuno per l'affermazione della libertà, nemmeno nel Saul; nel Saul, però, si prospetta la fine della tirannide. Non è libertà a vincere; è la tirannide, che per la sua stessa natura non può modificarsi (nel ‘700, come oggi, si parlava "riforme"), ad autodistruggersi. Era, questa, l'unica prospettiva politica che un Alfieri, amante della libertà, ma incapace di individuare i protagonisti storici di una concreta lotta per la libertà, potesse immaginare. I CONTENUTI TEMATICI Nel sonetto, l'esaltazione della propria personalità esemplare si traduce nella convenzionale costruzione di un autoritratto ideale. Il testo è divisibile in due parti. 1. STR. 1-2: lungo elenco di qualità fisiche autore: capelli rossi ormai diradati, alto, tiene capo abbassato (meditazione, chino su libri), magro, carnagione chiara, occhi azzurri, aspetto sano. 2. STR. 3-4: si analizza il carattere. Costruzione frase si basa qui (vv. 9-10) su accostamento di aggettivi dello stesso campo semantico ma di significato opposto. Poeta delinea così la sua indole soggetta a repentini cambi di umore (come quella degli eroi delle sue tragedie): a tratti brusco e a tratti mite, sempre adirato ma mai malvagio e con una parte razionale e una emotiva in perenne contrasto. Umore oscilla da tristezza a gioia, da autoesaltazione (quando si sente Achille) al disprezzo di sé (quando si paragona Tersite, che nell’Iliade sobilla la massa contro i re ma finisce per essere ridicolizzato da esercito greco: identificazione che forse assillava autore, abituato a inveire contro monarchi e tiranni). Alfieri propone in chiusura sentenza che va oltre ambito autobiografico: sostiene che giudizio definitivo sul carattere di individuo si possa stabilire solo al momento morte. Affermazione di carattere generale trasporta così autorappresentazione di sé in una dimensione più ampia e assoluta. LE SCELTE STILISTICHE Solennità del testo è resa dalla presenza di molte figure retoriche. Dopo l'apostrofe del primo verso, segue un'enumerazione che occupa le due quartine e forma una compatta sequenza descrittiva, conclusa dall'efficace metafora del re sul trono (v. 8), un richiamo diretto al tema della tirannide ricorrente in tutta l'opera alfieriana. Nelle terzine domina invece l'antitesi degli aggettivi (duro e acerbo contro pieghevol e mite; irato opposto a non maligno; mesto contro lieto, e così via), rimarcata dall'antonomasia di Achille e Tersite (v. 13). ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------ Contenuto nella prima parte delle Rime, il sonetto risale al 1786. Si tratta di un autoritratto in versi che inaugura un costume, quello del componimento autodescrittivo, che si sviluppa tra i poeti dell'Ottocento romantico (es. questo sonetto farà da modello per Solcata ho la fronte di Foscolo e per Capel bruno alta fronte di Manzoni). Posto davanti all'oggettività visiva dello specchio dai "veraci detti", l'autoritratto delinea la figura dell'Alfieri in maniera "psicosomatica": alle sembianze esteriori, realistiche e puramente fisiche del poeta infatti si sovrappone l'illustrazione di un temperamento focoso, ricco di sfaccettature e contraddizioni. Dopo l'invocazione, i primi versi sono dedicati alla descrizione fisica, che è realistica e dettagliata. L'ottavo verso introduce il motivo politico del tiranno tanto caro all'Alfieri (e già apparso in altri componimenti dell'autore, es: Saul): «Pallido in volto, più che un re sul trono». Paragone funge da cerniera tra la prima e la seconda parte, dedicata al ritratto morale. Il volto infatti, pallido come quello di un tiranno costantemente in ansia per la conservazione del potere, rivela gli aspetti più vari del suo carattere: rigido e brusco, può divenire buono e arrendevole, pur restando adombrato, anche se mai malevolo. Perennemente in lotta con se stesso, vittima dell'eterna contrapposizione tra mente e cuore, l'uomo descritto incarna perfettamente tutti gli elementi dello stereotipo dell'eroe romantico, solitario e scontroso, raffinato e scapigliato, ispirato e febbrile, sempre alla ricerca di un equilibrio nei suoi perenni conflitti col mondo e con se stesso. L'ultimo verso introduce il tema della morte, un argomento che ricorre spesso nelle Rime, ma in chiave agonistica: la morte rappresenta l'ultima sponda che separa l'uomo dalla conoscenza del suo vero valore. Alfieri dà appuntamento a sé stesso al cospetto di un'inevitabile sentenza che pare rappresentare l'ultimo atto di una vita titanica, nella quale la paura maggiore sembra essere quella della comprensione della propria reale statura. Le terzine preannunciano, attraverso le antitesi, il tono drammatico di quest'ultimo verso in cui il trapasso assume lo stesso significato che vale per i protagonisti suicidi delle sue tragedie (primo fra tutti Saul): un incontro con il proprio essere e la propria realtà morale. TACITO ORROR DI SOLITARIA SELVA: METRO: sonetto con schema ABBA ABBA CDC DCD Tacito orror di solitaria selva Di sì dolce tristezza il cor mi bea, Che in essa al par di me non si ricrea Tra' figli suoi nessuna orrida belva. E quanto addentro più il mio piè s'inselva, Tanto più calma e gioja in me si crea; Onde membrando com'io là godea, Spesso mia mente poscia si rinselva. Il silenzioso orrore di un bosco solitario mi allieta il cuore di una tristezza così dolce; nessuna orribile belva che vi vive all’interno con i suoi cuccioli si ristora in essa allo stesso modo in cui mi rassereno io. E quanto più il mio piede si inoltra all’interno della selva, tanto più dentro di me nascono calma e gioia; per cui ricordando com’ero felice là, spesso la mia mente di nuovo si rifugia nella selva. Non ch'io gli uomini abborra, e che in me stesso Mende non vegga, e più che in altri assai; Nè ch'io mi creda al buon sentier più appresso: Ma, non mi piacque il vil mio secol mai: E dal pesante regal giogo oppresso, Sol nei deserti tacciono i miei guai. Non che io detesti gli uomini, e che in me stesso, non veda colpe, anzi in me ne vedo molti più che in altri; né che io creda di essere più vicino alla buona strada: ma il mio vile/poco coraggioso secolo (1700) non mi è mai piaciuto: sono schiacciato dalla pesante oppressione dei sovrani (tirannide) e le mie sofferenze hanno tregua solo nei luoghi deserti. Le Rime di Alfieri hanno carattere fortemente autobiografico (costituiscono sorta di diario in versi) e rappresentano l’interiorità contrastata del poeta in modo spesso violento ed esasperato con un linguaggio aspro, vicino a quello delle tragedie. Al dominante tema amoroso, sovente si affianca quello politico, soprattutto nel distacco polemico e titanico dalla mediocrità dominante. Con il sonetto Tacito orror di solitaria selva , una forma metrica estremamente tradizionale della letteratura italiana, entriamo in un clima preromantico: la foresta solitaria e terribile procura al poeta uno stato di beatitudine non solo mentre vi entra realmente, ma anche solo ricordandone la permanenza passata. Questo tema della memoria diventerà, qualche anno dopo, dominante nella produzione poetica di Leopardi. È tipicamente romantica la corrispondenza tra l’io lirico del poeta e il paesaggio che lo circonda e, proprio in questa identificazione con un ambiente che gli è congeniale, Alfieri trova la pace e la beatitudine. Alfieri, nelle terzine, in cui si passa da un tono emotivo a uno più argomentativo, asserisce, poi, di non disprezzare gli uomini in generale, ma piuttosto l’epoca pavida, priva di eroismo e virtù e asservita ai despoti in cui si trova, suo malgrado, a vivere; ed ecco il motivo per il quale la selva gli è particolarmente cara: poiché gli consente di isolarsi e di non pensare ai mali del tempo presente; dunque, il suo tormento interiore trova ora anche una giustificazione “storica”. È un fiero e “superiore” isolamento rispetto alla mediocrità comune, che si adatta particolarmente alla fortissima personalità e alla mentalità agonistica di Alfieri. La ricerca dell’isolamento dell’io lirico era già presente in Petrarca, ma certamente le differenze tra i due poeti e le due epoche sono molto profonde: tanto i versi petrarcheschi erano pacati e limpidi, quanto quelli alfieriani risultano aspri, vibranti, tendenti al titanico e al sublime derivante proprio da ciò che è orrendo (quel delighful horror teorizzato, proprio in questi anni, dall’inglese E. Burke). È calzante, a tale proposito, una definizione del critico Momigliano su Alfieri: «La sua poesia – lirica o tragica – non è sentimentale contemplazione di sé stesso, ma rivelazione, scoppio, impeto di furore». Lo conferma anche lo stile aulico, denso di retorica, prevalentemente ipotattico, che rispecchia la tensione contenutistica. In Tacito orror di solitaria selva troviamo, infine, chiari echi del modo di procedere dantesco, soprattutto nella creazione dei due neologismi “rinselva” e “inselva”, entrambi contenenti al loro interno la parola-chiave “selva”, ma il significato da attribuire alla selva è completamente opposto rispetto alla Commedia: là era luogo di smarrimento e perdizione morale, qui è luogo di pace, quiete e beatitudine. Un ulteriore richiamo all’Inferno è nel “buon sentier”, che richiama evidentemente la “diritta via smarrita” dantesca. Foscolo = soldato e poeta: nell’autore le due componenti – quella attiva, militante e passionale dello «spirto guerrier» e quella contemplativa, mitopoietica, delle «libere carte» – non sono mai disgiunte, benché la prima rappresenti spesso un ostacolo concreto per la conclusione di progetti letterari avviati, interrotti e ripresi in seguito in diversi tempi e luoghi. Impegni militari e scontri politici spingono Foscolo a frequenti cambi città → “viaggio sentimentale” che ha origine esistenziale e linguistica a Zante, polo positivo nella Firenze (patria lingua italiana e città dei sepolcri di Santa Croce), polo negativo nella Milano napoleonica e il suo altrove nell'esilio in Svizzera prima, in Inghilterra poi. Nicolò Ugo Foscolo nasce a Zante, isola greca allora sotto Venezia. Figlio di medico e di Diamantina Spathys, riceve primi rudimenti di latino e greco classici in seminario. Morte improvvisa del padre determina una temporanea diaspora familiare che si conclude con ricongiungimento madre e 4 figli a Venezia. A quest'altezza cronologica Foscolo, di madrelingua greca, non padroneggia ancora l'italiano. A Venezia Foscolo riprende studi e si introduce nei salotti di nobildonne, attorno cui gravitano personalità come Pindemonte. 1797: Foscolo decide di arruolarsi a Bologna come cacciatore a cavallo della Repubblica Cispadana; poi, rientrato a Venezia, partecipa attivamente alle discussioni in seno alla Società di Istruzione Pubblica e si presta come verbalizzatore per la Municipalità provvisoria della città dogale, da poco liberata. Correlativi poetici di quest'entusiasmo politico sono le odi Ai novelli repubblicani e Bonaparte liberatore (1797). La classica struttura di nove strofe di endecasillabi e settenari si snoda qui a inseguire la vittoria sui regimi antidemocratici da parte della Libertà: le «Itale genti»» sono ora responsabili della conservazione del nuovo, liberato, ordine sociopolitico, impresa che riuscirà solo se scortata da «Virtù» e «ardimento» procurato dal «patrio amor». NB: firma trattato di Campoformio (ottobre 1797), che sancisce smembramento territori veneziani tra Francia, Austria e Rep. Cisalpina, ridimensiona molto figura Napoleone agli occhi di Foscolo, deluso dal “baratto” con cui il generale svende la città. Foscolo lascia Venezia alla volta di Milano. Milano: frequentazione del Circolo Costituzionale e avvio collaborazione con il «Monitore italiano»; Foscolo prosegue attività pubblicistica a Bologna dal 1798 scrivendo varie testate. 1798 – 1801: anni di intensa vita militare → cantiere del romanzo Le ultime lettere di Jacopo Ortis è interrotto dalla presa di servizio nella Guardia nazionale. Foscolo trascorre quasi un anno nella Genova assediata dagli austro-russi fino al 1800. Qui si dedica alla pubblicazione dell'ode A Luigia Pallavicini caduta da cavallo e alla riedizione di Bonaparte liberatore, con una nuova dedicata proprio a Napoleone (Foscolo esorta Napoleone ad agire per la salvezza dell'Italia in toni tutt'altro che adulatori, sottolineando la gravità dell'errore commesso a Campoformio). Dopo alcuni spostamenti in Emilia-Romagna e Toscana, nel 1801 Foscolo torna a Milano. ➢ ULTIME LETTERE DI J. ORTIS → Jacopo Ortis, intellettuale disilluso dagli esiti fallimentari del triennio rivoluzionario, espone in lettere all'amico Lorenzo i propri stati d'animo in merito alla politica, alla patria e al suo amore per Teresa, futura sposa di Odoardo, in toni spesso idillici e innervati da un sentimentalismo di marca settecentesca. Nel 1799 Foscolo parte da Bologna al seguito della Guardia nazionale mobile, interrompendo la supervisione della composizione tipografica del romanzo. L'editore Marsigli decide di immettere in commercio il libro incaricando A. Sassoli di portarlo a compimento. Esce in due edizioni, entrambe sconfessate da Foscolo, in ragione delle grandi cesure operate su corpo del romanzo. Foscolo rimette mano all'Ortis, pubblicandone due edizioni. Cambiano alcuni dei connotati essenziali della trama: es. triangolo amoroso si conclude tragicamente con suicidio di Jacopo, dopo un viaggio attraverso la penisola, a simboleggiare la disfatta di un'intera generazione di idealisti. NB: già nel Piano di studi troviamo segnati i capisaldi del romanzo epistolare, Richardson, Rousseau e Goethe → romanzo epistolare era genere fecondo nel panorama europeo. Foscolo però aveva congegnato un personaggio che trattava con unico destinatario = novità; ≠ tradizione europea). C’è significativa differenza rispetto a Dolori del giovane Werther → attribuzione a Lorenzo di caratteristiche proprie di Foscolo-Ortis lo rendono personaggio più complesso d nuovo rispetto al neutro omologo goethiano. Proiezione autobiografica determina scarto tematico più rilevante = dominante politica attraversa intero corpus epistolare. Significato politico del romanzo → muovendo da rimeditazione istanze rivoluzionarie del triennio giacobino, il disincanto ortisiano trova la propria mise en abîme nell' incontro con Parini «sotto un boschetto di tigli», incontro in cui il poeta del Giorno, ricordando a Jacopo l'inevitabile spargimento di sangue «col quale conviene nutrire una nascente repubblica», lo mette in guardia dai pericoli dell'azione rivoluzionaria. In brano lettera da Ventimiglia del 19-20 febbraio: tema = senso impotenza politica derivante da mancanza di patria politicamente indipendente + motivo delle «ceneri di quei Grandi», disperse per cancellarne le «ignude memorie», motivo che prefigura l'impianto ideologico dei Sepolcri. Foscolo professore di Eloquenza latina e italiana (Uni Pavia). Cattedra viene soppressa poco tempo dopo. Foscolo si inimica Monti e tutto l'entourage del periodico classicista e filonapoleonico «Il Poligrafo». Con l'Aiace che la situazione precipita: in questo dramma - si possono riconoscere nella figura di Agamennone lo stesso Napoleone, in Aiace il generale Moreau, in Ulisse il ministro Fouché e in Calcante Pio VII. Una critica tanto trasparente e forte al potere costituito inasprisce ancora di più gli animi; poeta decide di andarsene da quella che percepisce ormai come la sua prigionia milanese. Dopo varie peregrinazioni Foscolo va a Firenze, dove entra nella cerchia intellettuale che si stringe attorno a contessa d'Albany, compagna di Alfieri. In questo clima sereno, rimette mano a progetti sospesi. Dopo disfatta napoleonica a Lipsia (1813), Foscolo va a Milano e riprende servizio militare. Rivolgimenti politico-sociali lo lasciano incerto sul da farsi, finché non si risolve a cercare l'appoggio del neogovernatore austriaco Bellegarde, che gli affida l’elaborazione programmatica di un nuovo periodico filogovernativo. Foscolo redige quindi un controverso Parere sulla istituzione di un giornale letterario in tre paragrafi: tornano temi della corruzione morale dell'élite colta, ma richiamo all'altezza del compito letterario è all'insegna del presupposto che «letteratura può farsi mediatrice fra la ragione di stato e le passioni del popolo». Questo cambiamento di campo è destinato ad avere vita brevissima: invece di prestare giuramento agli austriaci, Foscolo scappa a Lugano a fine marzo. Non toccherà mai più il suolo italiano. Foscolo decide di lasciare la Svizzera per l'Inghilterra (Londra). La rete intellettuale della capitale inglese lo accoglie con entusiasmo. Rinfrancato da una vita sociale molto più densa di quella svizzera, si rimette al lavoro. 1817: esce, per i tipi londinesi di John Murray, l'ultima edizione rivista dall'autore delle Ultime lettere. vv. 16-22 Vero è ben, Pindemonte! Anche la Speme, ultima Dea, fugge i sepolcri; e involve tutte cose l'obblio nella sua notte; e una forza operosa le affatica di moto in moto: e l'uomo e le sue tombe e l'estreme sembianze e le reliquie della terra e del ciel traveste il tempo. È ben vero, Pindemonte! Anche la Speranza, ultima dea rimasta agli uomini, abbandona le tombe [secondo mitologia: quando gli dèi si stabilirono sull’Olimpo la Speranza fu l’ultima dea a lasciare gli uomini]; la dimenticanza avvolge tutte le cose nella sua oscurità, la forza inarrestabile della materia le trasforma con il suo movimento continuo e il tempo rende irriconoscibili l’uomo e le sue tombe e il suo ultimo aspetto e tutto ciò che resta della terra e del cielo. Visione materialistica vv. 23-40 Ma perché pria del tempo a sè il mortale invidierà l'illusion che spento pur lo sofferma al limitar di Dite? Non vive ei forse anche sotterra, quando gli sarà muta l'armonia del giorno, se può destarla con soavi cure nella mente de' suoi? Celeste è questa corrispondenza d'amorosi sensi, celeste dote è negli umani; e spesso per lei si vive con l'amico estinto e l'estinto con noi, se pia la terra che lo raccolse infante e lo nutriva nel suo grembo materno ultimo asilo porgendo, sacre le reliquie renda dall'insultar de' nembi e dal profano piede del vulgo e serbi un sasso il nome, e di fiori odorata arbore amica le ceneri di molli ombre consoli. altre due domande retoriche Ma perché l’uomo si dovrebbe privare (latinismo) prima del tempo dell’illusione che [una volta] morto, lo trattiene ancora sulle soglie dell’oltretomba (Dite)? Egli non vive, forse, anche sottoterra, quando l’attrattiva (armonia) della vita (giorno) gli sarà impercettibile, se potrà risvegliarla (si riferisce a illusione), attraverso il pietoso culto dei morti, nella mente dei suoi cari? Questa corrispondenza di sentimenti amorosi è divina, è una dote divina negli uomini; e, spesso, grazie a (per) lei si vive con l’amico defunto e lui vive con noi, se la terra pietosa che lo accolse neonato e che lo ha nutrito, porgendogli l’ultimo riparo nel suo grembo materno, renda inviolabili (sacre) i suoi resti (reliquie) dalle offese delle piogge (metonimia) e dal piede profanatore degli uomini, e una lapide (metonimia) conservi il nome, e un albero (latinismo) amico profumato di fiori consoli le ceneri con le [sue] ombre gradevoli (molli). ↳ nonostante queste premesse, perché uomo deve togliersi l’illusione di poter rivivere (nella memoria dei propri cari)? Per far sì che legame immateriale tra vivi e morti sia possibile defunto dev’essere sepolto in patria, protetto da intemperie e calpestio gente, con lapide che abbia iscrizione funeraria. Ai vv. 39-40 Foscolo capovolge immagini iniziali (cipresso fa ombra e sasso distingue resti persone). vv. 41-50 Sol chi non lascia eredità d'affetti poca gioia ha dell'urna; e se pur mira dopo l'esequie, errar vede il suo spirto fra 'l compianto de' templi Acherontei, o ricovrarsi sotto le grandi ale del perdono d'Iddio: ma la sua polve lascia alle ortiche di deserta gleba ove né donna innamorata preghi né passeggier solingo oda il sospiro che dal tumulo a noi manda Natura. Solo chi non lascia agli altri un ricordo affettuoso di sé non trova alcuna consolazione nella sepoltura; e se anche spinge lo sguardo oltre il proprio funerale vede il suo spirito vagare tra il pianto dei dannati dell’Inferno (metonimia), oppure lo vede cercare rifugio sotto le ali del perdono di Dio: in ogni caso abbandona i suoi resti alle ortiche di una terra deserta, dove nessuna donna innamorata preghi e nessun passante solitario potrà udire il sospiro che la Natura infonde a noi dalla tomba. vv. 51-69 Pur nuova legge impone oggi i sepolcri fuor de' guardi pietosi, e il nome a’ morti contende. E senza tomba giace il tuo sacerdote, o Talia, che a te cantando nel suo povero tetto educò un lauro con lungo amore, e t'appendea corone: e tu gli ornavi del tuo riso i canti che il lombardo pungean Sardanapalo, cui solo è dolce il muggito de' buoi che dagli antri abduani e dal Ticino lo fan d'ozi beato e di vivande. Brusco cambio di argomento: tombe → editto Ora una nuova legge (editto di Saint-Cloud) impone che i sepolcri siano posti lontani dagli sguardi dei cari (fuori da mura cittadine) e sottrae ai morti il diritto di avere una lapide che ne conservi i nomi. E per questo senza sepoltura giace ora, o Talia (musa della commedia), il poeta che fu tuo sacerdote, che cantando in tuo onore, fece crescere con dedizione fedele un alloro nella sua povera casa, e appendeva corone in tuo onore: e tu Talia adornavi del tuo sorriso i suoi versi, che colpivano il ricco e vizioso lombardo (Sardanapalo = re assiro passato alla storia come esempio di lusso e corruzione), a cui è caro solo il muggito dei bovini che falle stalle lungo l’Adda e dal Ticino lo rendono felice di passar la vita tra ozi e banchetti. ↓ O bella Musa, ove sei tu? Non sento spirar l'ambrosia, indizio del tuo nume, fra queste piante ov'io siedo e sospiro il mio tetto materno. E tu venivi e sorridevi a lui sotto quel tiglio ch'or con dimesse frondi va fremendo perché non copre, o Dea, l'urna del vecchio, cui già di calma era cortese e d'ombre. Lunga perifrasi che indica Parini (sepolto senza onori in fossa comune e dimenticato dall’amministrazione di Milano; in realtà Parini fu sepolto in modo frugale per sua stessa richiesta testamentaria, muore prima dell’editto) + rif. al Giorno. Foscolo omaggia Parini usando il suo stesso stile. O bella Musa, dove sei? Non sento diffondersi il profumo d’ambrosia (cibo degli dèi) che indica la tua presenza tra queste piante (riferimento a boschetto di tigli che si trova nella zona di Milano dove Parini amava stare da anziano) dove io, seduto, sospiro pensando alla casa materna (Venezia o Zante?). Tu, Musa, venivi e sorridevi a lui sotto quel tiglio, che ora ha le fronde abbassate per la tristezza e freme per la commozione e per la rabbia perché sotto di lui non c’è l’urna del poeta a cui aveva offerto generosamente tranquillità e ombra (per Foscolo, Parini sarebbe dovuto essere sepolto sotto quei tigli). Apostrofe Sineddoche vv.70-90 Forse tu fra plebei tumuli guardi vagolando, ove dorma il sacro capo del tuo Parini? A lui non ombre pose tra le sue mura la città, lasciva d'evirati cantori allettatrice, non pietra, non parola; e forse l'ossa col mozzo capo gl'insanguina il ladro che lasciò sul patibolo i delitti. Senti raspar fra le macerie e i bronchi la derelitta cagna ramingando su le fosse e famelica ululando; e uscir del teschio, ove fuggìa la Luna, l'upupa, e svolazzar su per le croci sparse per la funerea campagna e l'immonda accusar col luttuoso singulto i rai di che son pie le stelle alle obbliate sepolture. Indarno sul tuo poeta, o Dea, preghi rugiade dalla squallida notte. Ahi! sugli estinti non sorge fiore ove non sia d'umane lodi onorato e d'amoroso pianto. Forse tu vagando tra le tombe del popolo/della plebe vai cercando dove riposa il sacro capo del tuo Parini? Tra le sue mura, la città piena di vizi che attira cantanti castrati (Milano), non pose in suo onore alberi, né lapidi, né iscrizioni; e forse il ladro che solo sul patibolo abbandonò una vita di delitti insanguina le sue ossa (di Parini) con la sua testa mozzata. Senti raspare tra le macerie e le sterpi la cagna abbandonata che vaga sulle fosse e ulula per la fame; e senti l’upupa uscire dal teschio, dove fuggiva la Luna, e svolazzare intorno alle croci sparse per il cimitero e l’uccello immondo rimproverare con il suo grido funereo i raggi che le stelle pietose donano alle dimenticate sepolture. Inutilmente, dea, preghi che sul tuo poeta sgorghino rugiade dalla notte cupa. Ahi! Non sorge alcun fiore sui morti, qualora non sia onorato da lodi umane e pianto affettuoso. ↓ Terrificante è lo spettacolo del cimitero dove Parini è sepolto (cagna randagia che raspa in cerca di cibo e ulula; upupa, portatrice di sventura, esca da un teschio e svolazza sopra le croci, verso lugubre che maledice i raggi delle stelle; tombe dimenticate…) → scena non reale, immaginata da Foscolo; immagine interessante: è l’unico passaggio del carme in cui autore sembra avere gusto per la poesia cimiteriale preromantica. metonimia apostrofe vv.91-118 Dal dì che nozze e tribunali ed are dier alle umane belve esser pietose di sé stesse e d'altrui, toglieano i vivi all'etere maligno ed alle fere i miserandi avanzi che Natura con veci eterne a' sensi altri destina. Testimonianza a' fasti eran le tombe, ed are a' figli; e uscian quindi i responsi de' domestici Lari, e fu temuto su la polve degli avi il giuramento. religion che con diversi riti le virtù patrie e la pietà congiunta Dal giorno in cui nozze, tribunali e religione fecero nascere negli uomini primitivi, che [ancora] vivevano come bestie, la compassione di sé stessi e degli altri, i vivi sottraevano alla corruzione degli agenti atmosferici e all'assalto delle fiere i miseri resti che Natura destina, con la sua eterna trasformazione, ad altra vita. Le tombe erano la testimonianza delle glorie passate, e altari per i figli; e da essi uscivano i responsi dei numi tutelari della casa, e il giuramento sulla polvere degli antenati fu rispettato: culto che le virtù civili e la pietà per i congiunti tramandarono per secoli con varie forme rituali. Non sempre le lapidi sepolcrali fecero da pavimento alle chiese; né il lezzo dei cadaveri frammisto all'odore dell'incenso contaminò i fedeli: né le città tradussero per lungo ordine d'anni. Non sempre i sassi sepolcrali a' templi fean pavimento; né agl'incensi avvolto de' cadaveri il lezzo i supplicanti contaminò; né le città fur meste d'effigiati scheletri: le madri balzan ne' sonni esterrefatte, e tendono nude le braccia su l'amato capo del lor caro lattante, onde nol desti il gemer lungo di persona morta chiedente la venal prece agli eredi dal santuario. Ma cipressi e cedri di puri effluvi i zefiri impregnando perenne verde protendean su l'urne per memoria perenne, e preziosi vasi accogliean le lagrime votive. furono rattristate da immagini di scheletri: le madri si svegliano durante i loro sonni terrorizzate e tendono le loro braccia nude sull'amato capo del loro caro neonato, cosicché non lo svegli il gemito prolungato della persona morta che chiede dal santuario agli eredi le messe a pagamento. Ma cipressi e cedri, impregnando l'aria di purissimi profumi, protendevano sulle tombe il verde perenne, per un'eterna memoria, e vasi preziosi raccoglievano le lacrime offerte in voto. Foscolo contrappone polemicamente uso medievale di seppellire morti in chiese a rievocazione usi funebri praticati in classicità, concedendosi un breve excursus in cui si evince, in riferimento alla contemporaneità, una nota di ammirazione per i cimiteri inglesi, la cui armonia è tale da evocare dialogo tra vivi e morti più volte auspicato. Defunti Medioevo venivano sepolti in chiese, che risultavano pavimentate da lastre sepolcrali; a questa immagine, se ne aggiungono altre due, più cruente, quasi a ottenere effetto di climax: "lezzo dei cadaveri" offende fedeli (supplicanti), mescolandosi a odore incensi; immagini di morte, inoltre, affollano città, fissate in raffigurazioni e sculture diffuse all’epoca, e poi tornate di moda nel barocco, a ricordare precarietà vita. Climax raggiunge apice: madri, risvegliate dal gemito dei morti che chiedono insistentemente suffragi per "venal prece" (= dietro corresponsione in denaro), così da abbreviare la loro permanenza in Purgatorio, si svegliano di notte, tendendo braccia sul capo del figlio perché non venga svegliato da quel lamento inquietante. Si noti l’inusuale aggettivo "esterrefatte", a ribadire il carattere sostanzialmente impoetico di questo passaggio. Si esplicita poi la contrapposizione rispetto al passo precedente: non solo per l’avversativo, che cade esattamente a metà verso, ma anche per le immagini in stridente antitesi, rispetto a quelle lugubri appena abbandonate: essenze profumate di cedri e cipressi, da correlarsi, per contrasto, al lezzo dei cadaveri; alberi che offrono "perenne verde" per una "memoria perenne" (si noti l’anastrofe, a ribadire l’importanza della continuità della vita resa possibile tramite il sepolcro). vv. 119-129 Rapian gli amici una favilla al Sole a illuminar la sotterranea notte, perché gli occhi dell'uom cercan morendo il Sole; e tutti l'ultimo sospiro mandano i petti alla fuggente luce. Le fontane versando acque lustrali amaranti educavano e viole su la funebre zolla: e chi sedea a libar latte o a raccontar sue pene ai cari estinti, una fragranza intorno sentia qual d'aura de' beati Elisi. Adesso mi ammazzo Gli amici rapivano una scintilla al Sole per illuminare l'oscurità notturna del sepolcro perché gli occhi dell'uomo che sta morendo cercano il sole; e i loro petti, tutti, rivolgono l'ultimo sospiro alla luce che si allontana. Versando acque purificatrici, le fontane nutrivano amaranti e viole sul tumulo; e chi sedeva lì, a versare latte o a raccontare le proprie sofferenze ai cari estinti, poteva sentire un profumo intorno a sé come quello che esala l'atmosfera dei beati Campi Elisi. Foscolo insiste su potere rasserenante della natura, che agisce tanto apportando pace ai morti quanto consentendo la conciliazione tra vivi e morti; Campi Elisi: per religione pagana, luoghi dove vivevano in serenità chi si era guadagnato l‘amore divino. vv. 130-150 Pietosa insania che fa cari gli orti de' suburbani avelli alle britanne vergini, dove le conduce amore della perduta madre, ove clementi pregaro i Geni del ritorno al prode che tronca fe' la trionfata nave del maggior pino, e si scavò la bara. Ma ove dorme il furor d'inclite gesta e sien ministri al vivere civile Pietosa follia che rende cari alle giovani inglesi i giardini dei cimiteri suburbani, presso cui le conduce l'amore per la madre morta, dove pregarono i clementi numi tutelari della patria, perché facessero tornare il prode che troncò l'albero maestro della nave vinta, e con quello si preparò la propria bara. Ma dove la brama di imprese gloriose è spenta e ricchezza e paura sono base del vivere civile, cippi e monumenti marmorei sono inutile ostentazione e malaugurate immagini di Morte. Il popolo dotto, ricco e vv. 213-225 Felice te che il regno ampio de' venti, Ippolito, a' tuoi verdi anni correvi! E se il piloto ti drizzò l'antenna oltre l'isole Egée, d'antichi fatti certo udisti suonar dell'Ellesponto i liti, e la marea mugghiar portando alle prode Retée l'armi d'Achille sovra l'ossa d'Aiace: a' generosi giusta di glorie dispensiera è morte. né senno astuto, né favor di regi all'Itaco le spoglie ardue serbava, ché alla poppa raminga le ritolse l'onda incitata dagl'inferni Dei. perifrasi omerica Felice te, che in gioventù hai potuto viaggiare in mare, Ippolito! E se il timoniere della barca su cui ti trovavi a un certo punto ha indirizzato la nave oltre le isole dell’Egeo, di certo hai sentito risuonare le rive dell’Ellesponto (stretto dei Dardanelli) di antichi e gloriosi fatti. Sei fortunato perché hai sentito la marea muggire riportando le armi di Achille sopra la tomba di Aiace nel promontorio Reteo: la morte è giusta dispensatrice di glorie ai valorosi; né la mente astuta né il favore dei re (Menelao e Agamennone) poterono conservare a Ulisse le armi di Achille difficili da meritare, poiché il mare agitato dagli dèi dell’oltretomba le tolse dalla sua nave (sineddoche) errabonda. ↓ A morte Achille sue armi sarebbero dovute toccare al più forte dopo di lui, Aiace; Ulisse inganna Menelao e Agamennone a sé le fa assegnare. Aiace si suicida; mentre Ulisse torna in patria, tempesta lo fa naufragare, riportando armi su sepolcro Aiace (volontà divina). vv. 226-234 E me che i tempi ed il desio d'onore fan per diversa gente ir fuggitivo me ad evocar gli eroi chiamin le Muse del mortale pensiero animatrici. Siedon custodi de' sepolcri, e quando il tempo con sue fredde ale vi spazza fin le rovine, le Pimplèe fan lieti di lor canto i deserti, e l'armonia vince di mille secoli il silenzio. Altro trapasso: Foscolo ha appena rievocato un mito antico, ora parla di sé. E me, che la malignità del mio tempo e il desiderio di gloria/onore mi costringono a una vita da esule, tra gente straniera, me le muse, suscitatrici del pensiero umano, chiamano a evocare gli eroi. Le muse Pimplee siedono a tutela dei sepolcri, e quando il tempo, con le sue fredde ali, ne distrugge persino le rovine, loro allietano i deserti con il loro canto, e l’armonia supera il silenzio di mille secoli. [poesia è capace di rendere eterno il ricordo degli eroi] vv. 235-240 Ed oggi nella Tròade inseminata eterno splende a' peregrini un loco eterno per la Ninfa a cui fu sposo Giove, ed a Giove diè Dardano figlio, onde fur Troia e Assàraco e i cinquanta talami e il regno della Giulia gente. E oggi nella Troade deserta risplende ai viaggiatori un luogo eterno, reso tale grazie alla ninfa [Elettra] che ebbe in sposo Giove e che a Giove diede Dardano come figlio, dal quale derivano Troia, Assàraco e i cinquanta letti nunziali e il regno della popolazione da cui discende Iulo. Ilo → fonda Troia (Ilio) Iulo → capostipite della iulia (giulia) gente (Roma) vv. 241-253 Però che quando Elettra udì la Parca che lei dalle vitali aure del giorno chiamava a' cori dell'Eliso, a Giove mandò il voto supremo: E se diceva, a te fur care le mie chiome e il viso e le dolci vigilie, e non mi assente premio miglior la volontà de' fati. la morta amica almen guarda dal cielo onde d'Elettra tua resti la fama. Così orando moriva. E ne gemea l'Olimpio; e l'immortal capo accennando piovea dai crini ambrosia su la Ninfa e fe' sacro quel corpo e la sua tomba. Eterno per il fatto che, quando Elettra udì la Parca Atropo che la richiamava dalle vitali brezze del giorno alle danze dell'Eliso, rivolse un'estrema preghiera a Giove: «E - diceva - se ti furono gradite le mie chiome, il mio viso e le dolci notti trascorse insieme, e la volontà dei fati non mi assegna premio migliore, almeno proteggi dal cielo l'amante morta, cosicché resti viva la fama della tua Elettra». Così pregando, moriva. E se ne doleva Giove; e facendo un cenno col suo capo immortale fece piovere dai suoi capelli ambrosia sulla ninfa e rese sacro quel corpo e la sua tomba. = quando sente sopraggiungere la morte vv. 254-268 Ivi posò Erittonio: e dorme il giusto cenere d'llo; ivi l'lliache donne sciogliean le chiome, indarno, ahi! deprecando da' lor mariti l'imminente fato; ivi Cassandra, allor che il Nume in petto le fea parlar di Troia il dì mortale, venne; e all'ombre cantò carme amoroso, e guidava i nepoti, e l'amoroso apprendeva lamento a' giovinetti. E dicea sospirando: Oh se mai d'Argo, ove al Tidide e di Laerte al figlio pascerete i cavalli, a voi permetta ritorno il cielo, invan la patria vostra cercherete! Le mura, opra di Febo, sotto le lor reliquie fumeranno. Qui (tomba Elettra) giacque Erittonio e vi dormirono le mortali spoglie di Ilo. Qui le troiane si scioglievano i capelli (preghiera di supplica) inutilmente, cercando di allontanare morte dei loro mariti (imminente per guerra Troia); qui venne Cassandra (figlia Priamo; Apollo viene da lei rifiutato: per punirla le concede di prevedere futuro, senza che però nessuno la ascolti), quando la divinità che abitava in lei le faceva predire il giorno della distruzione di Troia; e cantò alle anime dei troiani morti una profezia piena di passione, e guidava i nipoti su quelle tombe, e insegnava l’appassionato canto di dolore ai giovinetti. Cassandra diceva sospirando: «Oh, se mai dalla Grecia dove Diomede (figlio di Tideo) o a Ulisse (figlio di Laerte) nutrirete i cavalli farete ritorno, cercherete invano la vostra patria, la quale sarà completamente distrutta. Le mura della città, edificate da Apollo, saranno fumanti sotto le macerie. vv. 269-278 Ma i Penati di Troja avranno stanza in queste tombe; chè de' Numi è dono servar nelle miserie altero nome. E voi palme e cipressi che le nuore piantan di Priamo, e crescerete ahi! presto di vedovili lagrime innaffiati. Proteggete i miei padri: e chi la scure asterrà pio dalle devote frondi men si dorrà di consanguinei lutti e santamente toccherà l'altare proteggete i miei padri. Un dì vedrete Ma le divinità protettrici della patria avranno ancora dimora in queste tombe (non verranno distrutte perché è concessione degli dèi conservare la nobile fama anche nella sventura). E voi, palme e cipressi che le nuore di Priamo piantano, e che crescerete bagnati falle loro lacrime di vedove, proteggete i miei padri (cari): e chi, rispettoso delle leggi religiose, non calerà le scuri sugli alberi piantati con spirito di devozione, meno si dovrà dolere di lutti famigliari e potrà accostarsi all’altare toccandolo con mani pure; proteggete i miei padri. Simbolo gloria Simbolo morte vv. 279-288 proteggete i miei padri. Un dì vedrete mendico un cieco errar sotto le vostre antichissime ombre, e brancolando penetrar negli avelli, e abbracciar l'urne, e interrogarle. Gemeranno gli antri secreti, e tutta narrerà la tomba Ilio raso due volte e due risorto splendidamente su le mute vie per far più bello l'ultimo trofeo ai fatati Pelidi. Il sacro vate, Un giorno vedrete un cieco mendicante (Omero) sotto le vostre antichissime ombre, e brancolando tra quei sepolcri abbraccerà le tombe, che gli racconteranno tutta la vicenda di Troia. Le stanze più nascoste dei sepolcri gemeranno, e tutto il monumento sepolcrale racconterà di Troia, rasa due volte al suolo e due volte risorta splendidamente sopra le strade ora deserte per rendere più bello il definitivo trionfo dei discendenti di Peleo (Achille e Pirro), destinati dal fato ad essere i suoi distruttori. ↓ Mito: Troia, prima di distruzione definitiva da parte Achei, fu distrutta prima da Ercole e poi da Amazzoni. vv. 288-295 ai fatati Pelidi. Il sacro vate, placando quelle afflitte alme col canto, i prenci argivi eternerà per quante abbraccia terre il gran padre Oceano E tu, onore di pianti, Ettore, avrai, ove fia santo e lagrimato il sangue per la patria versato, e finché il Sole risplenderà su le sciagure umane. Il sacro poeta, placando le afflitte anime dei troiani sepolti nella tomba di Ilo renderà eterni con la sua poesia i condottieri greci per tutte le terre che il padre Oceano circonda (=per tutto il mondo). Renderà immortali le imprese degli sconfitti, come Ettore, dovunque il sangue versato per la patria sia onorato come sacro e compianto, e finché il Sole risplenderà. Poesia ha funzione: 1. eternatrice → poesia, come tombe, tramanda memoria eroi; tombe ≠ poesia = poesia è eterna e rende eterni eroi; grazie a funz. eternatrice lettore rinsalda legame con nazione (poesia → coesione sociale) 2. consolatrice → poesia consola il poeta e i lettori dalle sofferenze della vita; 3. purificatrice → poesia purifica l’animo dalle passioni negative; 4. rasserenatrice → poesia rasserena animo umano, insegna rispetto e compassione anche verso i più deboli e verso i vinti (poesia rende l’animo più umano). Il termine carme deriva dal latino carmen che significa canto, poesia ed in particolare indica i componimenti poetici di forma classica che lodano un fatto, una persona o una consuetudine. Vi è anche un'altra accezione del termine, secondaria, che è quella di canto legato ad una profezia. Nel caso dell'opera Dei Sepolcri si tratta di un'epistola in versi sciolti indirizzata all'amico Ippolito Pindemonte. Ispirazione Foscolo non è religiosa ma laica, civile e politica. Testo è caratterizzato dalla dialettica tra una dimensione filosofica ed una sentimentale, in cui gli stessi temi vengono presentati in modo diverso. Contemporaneamente, Foscolo: - ribadisce posizione materialistica e pessimistica dell’esistenza; - crede alle “illusioni” che permettono di sottrarsi alla distruzione universale e cercano di dare un senso all’esistenza. Temi presentati in modo diverso: 1. natura: o ciclo impersonale di modificazione della materia o amichevole consolatrice nei confronti dell’uomo sofferente 2. storia: o innalza/deprime ciclicamente le sorti di persone e popoli o presentata come faticoso passaggio dalle barriere al progresso Foscolo parla di una molteplicità di argomenti/soggetti che si riferiscono a tempi e luoghi molto diversi tra loro e che si susseguono a ritmo incalzante e il cui passaggio è dato da brusche transizioni che disorientano e rendono difficile la comprensione. STILE: - linguaggio complesso; - tono alto, sublime, in linea con la volontà foscoliana di realizzare un esempio di poesia profetica che inciti al cambiamento; - lessico aulico, classicheggiante, ricco di latinismi e di riferimenti ad altri autori; - ricchezza di figure retoriche, soprattutto sintattiche (iperbato, anastrofe, enjambement ecc.); - sintassi varia a seconda del tono/argomento (es: parti con periodi ampi e complessi, come quando Foscolo rievoca; parti in cui le frasi sono brevi e incalzanti, come quando l’autore polemizza); - molti riferimenti a mitologia e mondo greco classico. Sonetto composto tra 1802 e 1803 e dedicato all’isola di Zante, luogo di nascita del poeta. METRO: sonetto - ABAB ABAB CDE CED Né più mai toccherò le sacre sponde Ove il mio corpo fanciulletto giacque, Zacinto mia, che te specchi nell'onde Del greco mar, da cui vergine nacque Venere, e fea quelle isole feconde Col suo primo sorriso, onde non tacque Le tue limpide nubi e le tue fronde L'inclito verso di colui che l'acque Cantò fatali, ed il diverso esiglio Per cui bello di fama e di sventura Baciò la sua petrosa Itaca Ulisse. Tu non altro che il canto avrai del figlio, O materna mia terra; a noi prescrisse Il fato illacrimata sepoltura. Non toccherò mai più il tuo sacro terreno dove il mio corpo, nell’infanzia, riposò in culla, o mia Zacinto, che ti specchi nelle onde del mare greco da cui nacque Venere (mito: Venere nasce dalle spume del mar Ionio), la quale rendeva fertili quelle isole col suo primo sorriso, per la qual cosa non yacque le tue limpide nubi e le tue fronde l’illustre poesia di colui (Omero) che cantò navigazioni volute dal destino e l’errabondo esilio grazie a cui Ulisse, reso illustre dalla fama e dalla sventura, giunse a baciare la sua Itaca petrosa (rocciosa). Tu, terra che mi sei madre, non avrai altro che la poesia di tuo figlio; a me il fato ha destinato una sepoltura non confortata dal pianto. Invocazioni Viaggio lontano dalla patria Rappresenta eroe classico Due significati: - italiano = differente - latino = senza meta precisa Rimandi all’acqua, associata alla vita (testo è inno alla vita)
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