Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Appunti su Cesare Pavese e 'La casa in collina', Appunti di Letteratura Italiana

Appunti presi in maniera accurata durante il corso, corretti e corredati di rimandi al testo e precisazioni di vario genere. Parole e date già in grassetto per garantire un miglior focus.

Tipologia: Appunti

2019/2020

In vendita dal 15/12/2021

giovanni-acone-14
giovanni-acone-14 🇮🇹

4.4

(10)

9 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Appunti su Cesare Pavese e 'La casa in collina' e più Appunti in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! Letteratura italiana contemporanea Cesare pavese Professor Rizzante UD1 Lezione 1 (03.03) I romanzi in ordine cronologico sono: La casa in collina — Il giorno della civetta - Il barone rampante. Uno per gli anni ’40, uno per i’50 e uno per i ’60. Gli scrittori sono Pavese, Sciascia e Calvino. Cesare Pavese “La casa in collina” Testo pubblicato nel ‘48. Alcune note di riferimento per inquadrare Pavese e che tipo di scrittore è stato. Anni '40: neorealismo. Pavese (1908-1950), muore suicida. Si crea un mito attorno a questo evento, che lui stesso si è incaricato di costruire soprattutto attraverso il suo diario: “Il mestiere di vivere” (1935-1950), prima di uccidersi con una dose di barbiturici nell'hotel Roma di Torino. È di una generazione precedente a quella di Calvino e Sciascia, nati ad inizio di anni "20. La generazione più importante per la prosa è sicuramente quella del venti, ricordiamo Levi, Fortini, Pasolini. Quella precedente è altrettanto importante ma non allo stesso livello. Entrambe hanno condiviso un avvenimento fondamentale, quale l’epoca fascista, che dura fino al 1943. Non è un caso che quelli della generazione precedente facessero parte della resistenza antifascista, quasi tutti schierandosi dalla parte della sinistra alla nascita della repubblica. Sciascia per quanto antifascista, non sarà mai un comunista. Non facciamo l’errore di considerare che gli autori di sinistra vadano sempre d’accordo con i politici. Il luogo di nascita è molto importante perché influenza l’intera sua produzione. Nasce a San Stefano Belbo (CN), nella zona delle langhe, questa terra sarà un punto di riferimento costante, a tal punto che diventerà una sorta di mito delle origini. La città di riferimento è Torino, dove studia dalle elementari all’università. Lui è ancora bambino quando scoppia la prima guerra mondiale. La cosa importante della sua formazione è il liceo, un momento formativo estremamente importante perché lì incontra un professore che diventa una sorta di modello: Augusto Monti. Incontra anche molti amici importanti che saranno poi quelli che lo accompagneranno per tutta la vita. Quando si iscrive all'università siamo intorno alla fine degli anni '20, già entrati nel ventennio fascista. Si iscrive alla facoltà di lettere e filosofia e ha due passioni, nate sotto la guida di Monti al liceo: le lettere classiche e la letteratura inglese. Queste sono molto importanti perché le ritroveremo: la prima si trasformerà in una passione per la mitologia e gli studi antropologici (Pavese è uno dei primi a portare questo tipo di studi in Italia, scrivendo “dialoghi con Leucò”); la seconda, per cui aveva imparato da giovanissimo la lingua inglese, diventando poi un traduttore, traducendo moltissime opere di letteratura anglo-americana (tra cui la sua traduzione di Moby Dick di Melville, che tradusse a 23 anni). All'università conoscerà alcune persone che saranno suoi interlocutori, parte della letteratura italiana del secondo ‘900: Norberto Bobbio', Leone Ginzburg”, Massimo Mila, Giulio Einaudi’. Interessante che si laurea nel 1930 sul grande poeta fondatore della letteratura americana: Walt Whitman. Subito dopo le prime sue opere sono di traduzione. Il cammino intellettuale inizia proprio con delle tradizioni, quasi forse con la tesi su Whitman, poi inizia a farsi conoscere come traduttore, prima di entrare a far parte integrante della casa editrice Einaudi dove avrà molti compiti e le traduzioni verranno un po’ meno. I primi racconti e le poesie sono del 1930-31. Scrive tra il'31 ed il '32 alcuni racconti, poesie, saggi e continua con le traduzioni. È in questo periodo che gli commissionano quella di Moby Dick (a soli 24 * Filosofo liberale ? Traduttore di letteratura russa ® Fondatore della casa editrice, non a caso chiama a sé alcuni che aveva conosciuto negli anni universitari, tra cui Pavese che avrà un ruolo sempre più importante: prima redattore poi direttore editoriale anni). Teniamo presente questo amore per la letteratura americana, elemento importante nel decennio successivo, perché nell’epoca fascista sarà, per molti giovani intellettuali antifascisti, la letteratura di riferimento. Mito della letteratura americana, libera da ogni vincolo. Continua per conto suo a scrivere comunque dei saggi (sempre sulla letteratura anglo-americana). 1933 > Einaudi fonda la sua casa editrice. Pavese entra immediatamente all’interno diventando uno degli elementi più importanti. 1934 > Pavese continua a tradurre (operazione che fa di più in questa fase), traduce uno dei libri di Joyce: Dedalus. Questo è anche l’anno in cui termina la sua prima opera vera e propria, un’opera poetica: “Lavorare Stanca”, pubblicata due anni dopo. È una raccolta poetica. Il gruppo di Einaudi e i suoi compagni universitari, è chiaramente antifascista. Sotto un regime chi è contrario al potere viene mandato o in prigione o in esilio (Gramsci, Gobetti). Come si comportarono gli intellettuali di questa generazione durante l’epoca fascista? Pochissimi scelsero lo scontro diretto. In ogni caso nei fatti l’Einaudi pubblicava certi volumi di certi autori, oppure si scriveva per certe riviste che avevano un indirizzo culturale preciso. È il caso di Pavese che scrive i suoi saggi nella redazione della rivista liberale “Cultura”. Il ministero della cultura fascista chiude le riviste e le imprese che possono essere contrarie al regime, incarcerando i redattori, tra cui Pavese. Il fascismo aveva anche come altra opzione il confino interno. Mandando moltissimi intellettuali che si opposero in certi posti dell’Italia, spesso al sud e nelle isole, lontani dai centri culturali. Questo succede a Pavese: nel 1935 viene prima portato in carcere a Roma e poi condannato all’esilio a Brancaleone Calabro. È in questo anno che inizia il Mestiere di (scrivere) vivere. Lo terminerà quindici anni dopo, nel ‘50, con la sua morte. È sicuramente una delle opere più interessanti dell'autore. I diari ci fanno capire molto dell'autore, delle sue idee sulla poesia e delle sue opinioni sulle proprie opere. Mestiere di vivere, è un'opera che ha superato il suo tempo, conservando la propria forza. Dovrebbe rimanere in confino tre anni, ma gliene vengono condonati due, quindi termina nel ’36. Un’annata da un lato buona (per la pubblicazione della prima opera), ma anche difficile (viene a sapere che la sua fidanzata si è sposata con un altro, cui segue una crisi violenta). Tutte le crisi di Pavese, compresa l’ultima, sono crisi dovute a scacchi sentimentali, amorose. C'è un grande capitolo nel diario in cui analizza il suo rapporto con le donne. Pavese era un tipo estremamente solitario, taciturno, un gran lavoratore, ma una volta terminato il mestiere di scrivere, trovava problemi nel mestiere di vivere. In particolare, nel suo rapporto con le donne, cosa che ha psicanalizzato e che lui chiama di misoginia. Come se non riuscendo a soddisfare completamente una donna, si sentisse incapace di comprenderle e amarle fino in fondo. È un capitolo fondamentale, che può essere letto solamente se si attraversa il diario. Lui non riuscì mai a sposarsi ed avere figli, seppur volesse integrarsi. L'ultima relazione con l'attrice americana Constance Dowling, quando termina sarà il momento in cui decide di suicidarsi. Un’ossessione che ha fin da giovanissimo e torna a seconda dei momenti di crisi della sua esistenza, quasi sempre dovuti più che al lavoro letterario, al modo di vivere. Continua a tradurre, anche per altre case editrici, riuscendo a mantenersi. Traduce il “David Copperfield” di Dickens. Intanto scoppia la seconda guerra mondiale. Nel '39-40 è l’epoca in cui si stalla nella casa editrice Einaudi. Un vero e proprio lavoro editoriale quotidiano che gli porta via molto tempo, ma trovava comunque tempo per continuare a scrivere. ‘42-44 + assume un ruolo fondamentale all’Einaudi. Non è nominalmente redattore, ma è come se lo fosse, decidendo quasi tutta la linea editoriale. È lui che viaggerà tra la sede di Roma e Torino per capire quali potessero essere i migliori collaboratori e altri lavori di organizzazione. I viaggi saranno parte integrante della sua vita. Quando si sposta a Brancaleone, data la distanza dalle sue langhe, scriverà pochissimo (le lettere e il diario), si rende conto che non trova ispirazione perché il paesaggio culturalmente non essere fuori dal proprio tempo storico, o comunque essere in grado di recuperare opere e autori che apparentemente non sono del nostro tempo storico, ma che noi troviamo importante. Non basta essere informati, ma essere in grado di pensare con gli strumenti che ci sono, non quelli che ci sono stati. Pavese si ritrova negli anni '30-40 con strumenti vecchi, ma anche altri nuovi che nella cultura italiana non erano stati utilizzati. L'interesse per il mito rivalutato come forma di conoscenza e gli unici strumenti “vecchi” dove li trova? Prima di trovarli in Freud e Jung, li trova nei romantici. Nei quali subito si trovano le nozioni di simbolo, di origine, di nazione. In Italia può dunque riprendere Leopardi e Foscolo, ma c'è stato anche un pensatore che nella seconda metà del ‘700 ha in qualche modo preceduto e poi ispirato i romantici, per andare in fondo a questa “sapienza poetica”. È colui che ha scritto la “Scienza Nuova”: Giambattista Vico. Vico è la fonte primaria di Pavese coni romantici. L'arte è prima di tutto un sistema di sensazioni, dopo arriva il pensiero. Pavese capisce che il suo mondo artistico è legato a quel paesaggio, che per lui è talmente coinvolgente che appena se ne stacca non riesce più a fare granché. Il mito ed il simbolo hanno una forza ed una capacità di conoscenza come la ragione. I miti sono racconti di qualcosa che gli uomini hanno provato alle origini e hanno cercato di esprimere. È una forma di conoscenza. Gli strumenti che c'erano già erano lì almeno dall'inizio del secolo, ma in Italia non se ne sapeva nulla. Le opere di Freud e di Jung non erano arrivate in Italia, in parte in Francia, mentre da noi erano arrivate esclusivamente nella zona di frontiera di Trieste, che era stata fino al 18 impero asburgico, dove c’erano scrittori importanti che si nutrivano di questo, tra tutti: Svevo e Saba. L'elemento biografico e dello studioso si mettono insieme in Pavese. Da una parte si mette a leggere Freud e Jung, ma non ha documenti di prima mano, la sua lettura passa attraverso la Francia, non ha ancora una via direttissima. Le loro opere saranno tradotte solamente dal secondo dopoguerra. Dall'altra parte però dall'inglese può attingere a documenti di prima mano, soprattutto perché è un anglofilo. Nel 1933 legge un testo in inglese: “Ramo d’oro” di Frazer. Diventato oggi un testo classico dell’antropologia. In lingua inglese erano già molto avanti questo tipo di studi. Importanza del conoscere altre lingue: arrivare prima alle fonti. Dalla lingua francese riceve in maniera mediata gli scritti di Freud e Jung. Nel diario dal ’35 al ’50, si fanno i conti con tutti i paesaggi di Pavese. Quando lui abbandona la poesia e si vuole dedicare alla prosa, si pone il problema del tipo di prosa da scegliere e scrivere. Per un prosatore italiano non c'erano nemmeno tantissimi modelli da cui attingere, ce ne sono da altre lingue. Pavese legge Dostoevskij, Tolstoj, Stendhal, Pirandello. Parallelamente a questi legge anche le storie degli antropologi ed etnologici, studiando i miti antichi. Lui ha in testa due modi: il racconto realistico- naturalistico (verosimiglianza, rappresentare la realtà così come noi siamo soliti viverla). Nell’incipit della casa in collina questo ci appare verosimile, ma questo ordine verosimile è costantemente costruito sopra un altro ordine, quello “mitico-simbolico”. Cosa vuol dire che il racconto mitico-simbolico soggiace a quello realistico-naturalistico? Abbiamo delle spie, degli elementi. Quando lui dice “ci tornavo alla sera dalla città che si oscurava”, l'ordine è verosimile, poi aggiunge “per me non era un luogo tra gli altri, ma un aspetto delle cose, un modo di vivere”. L'ordine narrativo verosimile viene costantemente accidentato e messo in crisi dall'ordine simbolico. Cosa vuol dire che le colline sono un modo di vivere? Pavese mentre scrive un racconto realistico-naturalistico ne scrive anche uno simbolico. Ecco perché Pavese non può far parte di quel modo di scrivere, proprio della maggioranza degli scrittori degli anni 40-50, sotto il nome di neorealismo. Dove non c’è un ordine simbolico, ma solamente quello di verosimiglianza. Quindi la rappresentazione della realtà della seconda guerra mondiale, della resistenza, della situazione sociale del sud. Inoltre, il neorealismo aveva sempre, sia nel cinema che nella prosa, una realtà di critica sociale. Intellettuali di sinistra che si proponevano di far progredire il paese, criticando la situazione di alcune particolari categorie di persone. La critica politico-sociale non c'è nei libri di Pavese, proprio perché c’è la poetica del mito. Costruisce una poetica di questo con gli strumenti vecchi e nuovi, anno per anno. Dovremmo sempre leggere più volte un’opera, rimane l’importanza della prima volta per la sensazione iniziale che abbiamo, ma per avere una vera lettura c'è sempre bisogno di una seconda volta. Foscolo e Leopardi sono citati sia nel diario che in diversi saggi, così come Baudelaire. Poi facciamo i conti con le note, spesso note di lettura nel diario. Diario = segreto. Un dialogo con sé stessi, dopodiché può diventare un’opera. Nel “Mestiere di vivere” ci sono diverse annotazioni che ci sono molto utili per elaborare la poetica di Pavese e capire come lui scrive i suoi racconti e romanzi. In data 3 Aprile 1949 Pavese scrive: “prima di Cristo e del logos greco, la vita era un continuo contatto e ricambio magico con la natura, di cui uscivano forze determinazioni, destini e a lei si tornava e ci si rigenerava. Dopo Cristo e dopo il logos la natura si fa staccata dalla sorgente ed è pronto il campo per le scienze moderne che constata e codifica la materialità e l'indifferenza della natura” Ricorda che siamo nel '49, un anno prima del suicidio, siamo dunque praticamente alla fine della ricerca. Che siamo alla fine lo si capisce anche dalla sintesi, solitamente col passare del tempo dovremmo essere più semplici e sintetici. Qui lo dice chiaramente, quando si parla di poetica del mito e del simbolo, facciamo i conti con un modo di concepire l’uomo e la realtà. Vuol dire che per lui la forma di conoscenza privilegiata è quella del mito e del simbolo, non certo quella del pensiero cosciente e della scienza. La concezione dell’uomo e del mondo di Pavese, che si fonda sulla poetica del mito, oggi sarebbe totalmente antitetica a quella super scientifica e razionale in cui noi viviamo. La sintesi di Pavese: prima del logos greco e di quello cristiano (Cristo), c'era un continuo ricambio con la natura. C'era un rapporto magico (altra parola chiave). Le popolazioni vivevano a stretto contatto conla natura e per esprimere quello che vivevano usavano un linguaggio magico, erano in contatto con quello che esprimevano. La parola magica sarà soppiantata dal logos greco e cristiano, quello razionalista, illuminista e tutti quelli che vengono dopo. Se vince il logos, la natura ci appare indifferente. Basta pensare che oggi la parola magia, per noi, ci porta molto lontani dal nostro standard intellettuale. Lezione 3(05.03) Pavese pur essendo un autore degli anni 30-40 è spinto da una forza romantica, simbolista, irrazionalista. Si e no potremmo dire. Quando leggiamo Pavese non abbiamo la sensazione di avere a che fare con un romantico, un decadente o un avanguardista, piuttosto con qualcuno che vuole mettere insieme classicità, simbolismo e romanticismo. Il suo percorso è quasi sempre verso l'origine più che verso il futuro. Altra fonte di cui Guglielmi sottolinea l’importanza sono gli scrittori americani. Fin dalla tesi di laurea sappiamo che lui si occupa di questi (Walt Whitman), continua poi la sua carriera per molto tempo attraverso le traduzioni di scrittori americani. Sentiamo da lui stesso come si innesta l’amore per l'America (U.S.A.) con questo suo amore per le origini, per il folklore, per le civiltà senza storia: l'America si “innesta” nel mio amore per l'origine, quindi sia la classicità che ancora prima della classicità, come linguaggio rustico universale e come una frontiera che divide la città dalla campagna. Qui abbiamo due temi pavesiani al massimo, che ritroveremo in tutti i racconti e le poesie, in tutti i romanzi. La ricerca di un linguaggio che si è spogliato, come possiamo leggere nelle prime pagine de “la casa in collina”, libero da ogni volontà di essere troppo razionale, ma vicino all’esperienza fisica dei personaggi. Questo lui dice di ritrovarlo nei romanzi americani. Per fare questo deve però rappresentare nei suoi racconti un paesaggio che non è quello della città, da qui il rapporto contrastivo tra coloro che vivono in città (parlano un linguaggio meno rustico) e coloro che vivono in campagna (parlano un linguaggio universale, vicino alla natura, più diretto). Dice ancora, sempre nel ’43, citato da Guglielmi nel Mestiere di vivere: “il tuo sogno sarebbe la fusione del classicismo con la città in campagna” unire il mondo della classicità, dove mito e simbolo avevano ancora un peso specifico e in qualche modo fondere l’uomo della città e della campagna, seppur molto difficile. Lo stesso Pavese è l’uomo di San Stefano Belbo che vive a Torino e ogni volta non vede l’ora di tornare nel suo paese. “aggiungerei la scoperta dell’infanzia”, ci dà praticamente i tre elementi fondamentali su cui poggia la sua poetica: una classicità da intendersi come il luogo dove si può parlare ancora un linguaggio rustico ed universale, la campagna che è la possibile proiezione moderna di quella classicità, l'infanzia il momento delle prime impressioni incancellabili, che noi non riusciremo più a dire, ma nutrono tutto ciò che riusciremo a dire e ad essere. La ricerca di una poetica mitologica per Pavese è la ricerca anche di un linguaggio universale, più facile da trovare nella campagna che ha ancora come modello la natura e la classicità. È la modernità che ha distanziato l’uomo dalla natura. Infine la scoperta dell’infanzia. Pavese ha intenzione di rivitalizzare i miti, i simboli che appartengono ad un passato antico e “arcaico”. Passato antico > civiltà antiche (greca, egiziana, cretese). Passato arcaico > che precede la nascita delle diverse civiltà. Il mito e il simbolo affondano le radici già prima delle civiltà, le prime armi linguistiche che l’uomo ha avuto di fronte alla natura di cui aveva paura e non conosceva. Per lui gli scrittori americani sono coloro in grado di rivitalizzare il mito e i simboli durante l'epoca moderna, per questo li ama molto e li traduce, proponendosi anche lui come questo tipo di scrittori. Guglielmi “Pavese pensa ad un volgare da ottenere non con un abbassamento della lingue (negli anni 40-50 una tipica mossa del neorealismo era l'abbassamento linguistico, non parliamo come scrittori o letterati ma come il popolo, abbassamento linguistico vuol dire usare il dialetto), non era d'accordo nell'usare i dialetti nei romanzi, quanto una promozione dell’elemento dialettale gergale alla lingua” italianizza dunque il dialetto, non dialettizza l'italiano. Molte volte ci rendiamo conto che sia nel modo di costruire la frase, sia alcune parole, notiamo come cerchi di elevare, italianizzare o una costruzione dialettale o alcuni vocaboli. Questo ci dice che Pavese, non solo per la poetica del mito, non segue le direttive della corrente neorealistica. I paesaggi e i personaggi sì, però la lingua non è quella del neorealismo, così come la poetica (non c'è critica sociale). Gli scrittori americani li legge come produttori di miti collettivi, creatori del linguaggio rustico universale. C'è un’analogia tra la letteratura italiana ed americana, entrambe sono letterature regionali: l’Italia è fatta da venti regioni, venti popoli che parlano la stessa lingua che però non ha mai raggiunto l'universalità (in molti posti parlano in dialetto anziché italiano). Pasolini diceva che solo la televisione era riuscita a ricostruire una lingua standard. Questo è allo stesso tempo la nostra bellezza e l'universalità. Così è anche per gli Stati Uniti. Bisogna fare oltre a storia della letteratura, anche geografia, al fine di comprenderla meglio. Bisogna diventare universali a partire dalla propria provincia. Il linguaggio rustico non ha bisogno di attraversare la cultura, i gerghi culturali. È un problema per l’italiano che ha sempre avuto il problema della retorica, ma perché la lingua italiana è eloquente, nata da Dante, non dal popolo. Il problema si presenta per la prosa, non per la poesia dove abbiamo una tradizione millenaria. Quindi la lingua nasce come letteraria e deve piano piano scendere e farsi lingua comune, operazione difficilissima. Altro scrittore: Beppe Fenoglio. Anche lui piemontese, ma a differenza di Pavese è della generazione degli anni 20. Partigiano convinto. Dal punto di vista letterario è vicino a Pavese, Fenoglio non solo traduce ma scrive quasi in inglese, per dire che aveva talmente un problema linguistico che per trovare la sua lingua italiana in prosa deve attraversare quella inglese. Questa aveva già una tradizione di lingua comune. Già nel ‘700 con la novel si scriveva di cose quotidiane. La prosa è mettere i riflettori sulla vita quotidiana della classe borghese, che all’epoca era assente in Italia. La difficoltà di scrivere in prosa ancora nel ‘900. Fenoglio manterrà moltissimi anglicismi. L'alternativa sarebbe abbassare la lingua e facciamo parlare i personaggi come parlano tutti i giorni, quindi in dialetto o con grandi inflessioni dialettali. Questa cosa viene già da un grande scrittore siciliano dell“800: Giovanni Verga. Allievo dei realisti e naturalisti francesi. Anche Pirandello suo È chiaro che spesso bisogna ritornare al Mestiere di vivere, una sorta di cronistoria della nascita di questa poetica. Come abbiamo detto questa ha come oggetto il mito, che per Pavese più che un'elaborazione è una intuizione, una convinzione. Guglielmi torna ad una delle frasi che Pavese ripete spesso nel diario per spiegare questa sua convinzione “non c'è mai una prima volta, quello che conta è sempre la seconda, questo non solo perché la prima volta le cose sono il nostro stesso vissuto, noi le viviamo e nonle osserviamo, ma anche perché quando ci separiamo dall’immediatezza, impariamo a guardarla attraverso parole e racconti, attraverso la mediazione di alcune formule. È una parola questa appresa che rende unico un luogo, il quale si distacca dagli altri luoghi, innalzandosi a luogo dei luoghi, universale fantastico, diventa mitico”. La prima volta per Pavese non esiste perché quando noi viviamo le cose, non abbiamo la capacità di osservarle veramente. Questa diventa la seconda nella misura in cui noi abbiamo bisogno di organizzarla in un racconto. Quando afferma che abbiamo bisogno di parole e racconti di mediare tra quello che abbiamo vissuto ed il nostro ricordo. La prima volta non esiste perché la viviamo, ce ne vuole una seconda (il momento in cui la raccontiamo oralmente o per iscritto tramite parole, un linguaggio). Il secondo punto è che esiste sempre la seconda volta e non la prima perché questo linguaggio, di cui dispone l’uomo, è illimitato dal punto di vista simbolico rispetto agli altri animali. L'uomo forse è partito da un linguaggio di segnali come gli altri animali, ma poi ha costruito un linguaggio illimitato. Nel momento in cui raccontiamo la prima volta rendiamo unica quella volta > secondo punto. Noi viviamo le prime volte durante l'infanzia, l'adolescenza, dopo sono tutte ripetizioni, mentre le prime esperienze in età adulta sono mediate da tutte quelle dell’infanzia. Infanzia come luogo mitico delle prime volte, ma cosa rende mitica quella prima volta? La seconda attraverso la mediazione del linguaggio. Noi mitizziamo, rendiamo un luogo un simbolo, solo tramite un racconto cioè la seconda volta. I linguaggi sono molti: fotografia, cinema, arti visive. Tutte seconde volte rispetto alle prime vissute, ma non davvero osservate né ricordate o mediate attraverso un linguaggio. È chiaro che rimane l’importanza della prima volta. È un qualcosa di universale: tutti abbiamo un'infanzia, abbiamo avuto certi incontri, un rapporto. L’unicità individuale diventa universale nel momento in cui tutti nella diversità abbiamo fatto questi gesti, provato e sentito delle sensazioni. Nominando una seconda volta questo luogo lo rendiamo unico, innalzandolo ad universale e fantastico. Un po’ come era peri primi uomini secondo Vico, soprattutto per quanto riguarda l’invenzione del linguaggio: nominare le cose, articolare suoni per nominare delle cose che neanche si sapevano prima come nominare. La parola è sempre stata il verbo, collegamento con la sfera religiosa. Nominare vuol dire rendere unico quel momento, quell’incontro che surge a simbolo e per Pavese è così che funziona. Le prime volte diventano uniche e ci modellano, sulla scia del pensiero di Freud “la vita di un uomo si decide dagli 0 ai 3 anni”. Le prime volte, per Pavese, decidono. Pavese non è un progressista, non crede nell’evoluzione, crede che tutto si decida all’inizio. Quanto spazio ha l'inconscio, il mondo onirico, che non è legato solo alla realtà dell'esperienza? Da quale esigenza la nascita del linguaggio, dei miti? La risposta che molti hanno dato è che l'uomo primitivo, esposto costantemente a tutto ciò che succede, che non ha mezzi per organizzare quello che vede e vive in un mondo che non c'è, dei sogni, ignoto. L'uomo prima del linguaggio era esposto costantemente all’ignoto, ad un'attività onirica che gli impediva di non organizzare il mondo. È ovvio che Pavese dà al mondo dell’inconscio, del mito, del simbolo e quindi dell’origine, importanza fondamentale tanto quanto la parte razionale. Dobbiamo tenerne conto perché come si fa a raggiungere la maturità sapendo di essere formati da quello che avviene nell’infanzia? Qui sta la separazione tra lui e gli intellettuali di sinistra, che invece pensavano che la storia e il progresso fossero parti fondamentali della personalità umana. Lui parla dei miti (prime volte), dopo certo è chiaro che, in una fase avanzata (dialoghi con Leucò), mette insieme i miti personali con la mitologia greco-latina, ma quello che è importante è la mitologia personale. Lui dice che questi miti, queste prime volte che sono determinanti per la nostra personalità, anche se non possiamo dirle se non la seconda, terza, quarta volta; ogni volta raccontandole con racconti diversi, questi miti li chiama “schemi che regolano la nostra immaginazione affettiva”. L'immaginazione come la memoria ha sempre a che vedere con gli affetti, ma in fondo è la parte sensibile (legata alla sensazione e alla sensibilità interna, determinata dall’affezione). “il mito è un fatto unico che per avere valore non deve essere accaduto... il bambino conosce il mondo attraverso segni e non immediatamente... è solo una forma, un’esigenza della fantasia, sempre bisognosa di un'espressione corposa, incarnandolo in determinazioni storico geografiche che variano da luogo a luogo” “generalmente mitico è un evento che come fuori dal tempo si compie anche fuori dallo spazio, rimanda ad un evento accaduto una volta per tutte” “nelle formule prese a prestito, dorme un assoluto che, soltanto se accolto come rivelazione vitale prima che poetica, può ridestarsi. Dove il mondo del mito è un mondo di essenze, un concentrato di potenza vitale piuttosto che un contenuto che una forma, i simboli diventano allusioni, similitudini” Le prime volte diventano uniche, diventano miti. Per Pavese è un po’ mobile questa nozione di mito: il fatto per essere unico e mitico, neppure il bambino sperimenta veramente, in maniera immediata. Ora però il bambino li sperimenta, ma solo se riesce a riviverli. I simboli sono dei modi, delle allusioni che servono per avvicinarsi a quel fatto unico. Ricapitolando: da una parte nelle opere di Pavese coesiste un livello mitico simbolico, dall’altra questo mito per Pavese è qualcosa che non può essere espresso se non rivissuto, quindi raccontato, ricordato. Per far ciò sfruttiamo simboli, allusioni, similitudini per avvicinarsi a quel fatto unico che da una parte è intemporale e non è esistito da un’altra parte se non quando lo facciamo rivivere. Guglielmi “Pavese si muove tra due orientamenti di poetica: ora pensa che i miti non hanno una vera e propria origine perché hanno bisogno della seconda, terza volta per essere vissuti e, per farlo, l’uomo ha bisogno di una mediazione. La cultura lo è, espressione di forme di mediazione.” Il mito stesso, in quanto mythos per i greci, così come il simbolo, è già mediazione. “dall’altra Pavese pensa che abbia un’origine assoluta” > Il mito non ha origine perché nel momento in cui lo raccontiamo, siamo già fuori dal mito, già sperimentato, ma non l'abbiamo visto; “in fondo ogni essere umano che nasce, ripete la storia del genere umano”. Si declina storicamente quando lo raccontiamo. > Il mito ha un'origine ed è atemporale, aspaziale, quindi assoluto. Idea che è molto diffusa, che non ha a che fare con una prima volta, che sia lì e che per esso non esista un tempo, ma solo per coloro che lo raccontano. È l’idea che la sfera del mito sia la sfera dell'essere stesso e di una possibilità di accedere al sapere, anche questa lì dalle origini dell’uomo: la divinazione. Alle origini il sapere lo avevano in mano gli dèi, poi i sacerdoti e gli altri infine. Coincide quasi con il dio. Il sapere, non possiamo entrarci in contatto se non con delle forme che non hanno a che vedere con alcun tipo di linguaggio. “Attraverso il linguaggio ci siamo contrapposti alle cose, abbiamo imparato a contemplarle e valutarle. Non possiamo più dare realtà ai nomi e renderli sacri, così come facevamo all'origine della specie umana e da bambini.” Pavese L'uomo paga il privilegio della civiltà. “noi viviamo l’essere nostro più autentico quando ancora non sappiamo ammirare, cioè cogliere, quello che ci accade” molto chiarificante. Quando siamo bambini viviamo davvero in maniera autentica il nostro rapporto con il mondo perché non abbiamo ancora nessuna capacità linguistica (pensiamo al rapporto con la madre, fatto di pure sensazioni affettive). “Abbiamo rinunciato all’assoluto” la mediazione culturale ci fa contemplare noi stessi e il mondo, ma a quel punto abbiamo già perduto il nostro rapporto autentico con il mondo che era lì, ma solo alle origini.” L'unico nostro bene in questo senso è il ricordo, in cui le cose ritornano, ci emozionano, ma non hanno più quell’attualità e non è un caso che Pavese usi una doppia parola perfetta: ricordo- rinuncia. Il ricordo è l’unico modo (la seconda volta), l’unico strumento che ha l’uomo, però si deve avere la consapevolezza che questo è anche lo strumento della rinuncia rispetto al desiderio di cogliere quell’autenticità del nostro essere con il mondo e con noi stessi. Noi siamo con noi stessi ed il mondo, ma solo tramite la mediazione della civiltà, della cultura, del linguaggio. Abbiamo due possibilità: o accettare la rinuncia oppure andare oltre il linguaggio tramite strumenti che non sono linguistici. Tra questi c'è anche la fede. Pavese parlando di ricordo-rinuncia è un essere convinto dell’importanza fondamentale delle origini, ma dall’altra parte fa i conti con il suo essere civile, sociale, razionale. Lezione 5(11.03) Andiamo a fare una breve analisi del saggio di Guglielmi, tratto da “la prosa italiana del ‘900”, utile per comprendere la poetica del mito e del simbolo alla base di tutta l’opera di Pavese. Per quanto riguarda la casa in collina: è un romanzo breve, che originariamente uscì insieme ad un altro romanzo breve: il carcere ('38-39 rievoca il confino a Brancaleone calabro dal '35 al 36 nel 1949. Un unico volume in cui l’autore raccoglie due romanzi brevi. “La casa in collina” venne scritta un po’ più tardi. È uno di quei libri in cui Pavese racconta a suo modo la seconda guerra mondiale, l'armistizio, la guerra partigiana a cui sappiamo non partecipò, rifugiandosi come il protagonista Corrado in campagna, nelle sue langhe. Ci sono elementi autobiografici e alcuni temi, uno fra tutti il rapporto disarmonico con la realtà degli altri, delle donne e la realtà storica. Questa disarmonia e consapevole solitudine sono elementi che si ritrovano sempre e qui evidenziati. La figura del protagonista Corrado, che ha elementi autobiografici (non sceglie di partecipare ad alcun tipo di attività politica o armata), è un professore che trova ospitalità in una casa abitata da due donne, madre e figlia, in un paese delle langhe, mentre Torino è sotto le bombe. C'è un episodio durante una notte: Corrado raggiunge un gruppo di persone che provano a divertirsi, pur nella tragedia. Ritrova Cate, altra protagonista, con cui aveva avuto una storia molti anni prima e che ora ha un bambino: Dino. Questi tre sono i personaggi più importanti. Da rilevare il fatto che Cate non dice niente a proposito del figlio, così il lettore come Corrado resta nel dubbio se il bambino fosse figlio del protagonista. Corrado continua a frequentare la compagnia e sullo sfondo (uno sfondo reale, la guerra e i fatti storici sono un’eco), rappresentazione di come il protagonista percepisce il fondo storico della guerra, se ne sente lontano nella sua solitudine. A differenza di molti romanzi della stessa epoca, da qui il realismo “sui generis” (coesistenza di rappresentazione realistica e fondo mitico simbolico), non è un realismo di rappresentazione storico sociale della realtà come altri scrittori hanno fatto. Teniamo sempre presente la duplice matrice realista-simbolica. Simbolismo no, ci rimanda al momento del decadentismo, diverso dall’epoca storica degli anni 30-40-50. È ovvio che la personale poetica mitico- simbolica di Pavese ha alcuni elementi che rimandano alla poesia simbolista francese e dannunziana. Lui però se l’è costruita da solo questa poetica con altre fonti (Vico, antropologi, Freud,ecc). I fatti storici, in questo romanzo ambientato nel ’42-43-44, sono spesso sullo sfondo, non in primo piano. L'arresto di Mussolini, la guerra civile e la resistenza, lui li sente, ma da lontano. Non solo perché è uno sfollato, ma perché non sente di partecipare. La sua situazione era simile a quella di altri che hanno fatto una scelta precisa. Sente che la situazione sta cambiando e vede che molti si stanno adoperando per agire, ma Corrado è l’uomo dell’“inazione”. Sempre alle prese con quel personaggio che in parte abbiamo conosciuto leggendo i romanzi di Pirandello e Svevo, che spesso hanno personaggi inetti, incapaci di agire. Teniamo conto di questa analogia. coscienza ogni giorno, saltano fuori come fanno le immagini oniriche. Nel 1940, all’epoca in cui stava leggendo Freud, si interroga sulla logica del sogno e i rapporti tra sogno e racconto. Pavese nel Mestiere di vivere, non per molto compie un'operazione che non farà più negli anni successivi: trascrive dei sogni. Il sogno si costruisce come un racconto. Sognare è come scrivere una storia “simbolica”, che noi in quanto narratori già conosciamo, non in maniera chiara, ma che già presagiamo. Il ricordo è sempre fondamentale, in quanto momento di ricostruzione della prima volta, ma anche il sogno è un’altra finzione importante perché si costruisce come un racconto. Entrambi sono funzioni diverse, ma sempre della prima volta. Il sogno è totalmente simbolico. Freud si interessa infatti all’interpretazione dei sogni, arrivando alle origini. Pavese cerca di scrivere un racconto dove la realtà si mescola al simbolo. “i sognatori sono come narratori che traggono storie dal loro profondo” Pavese direbbe dai loro miti, dalle origini “dunque possiedono in spirito, ma non la lettera” lo scrittore sa quel che scrive mentre lo sta scrivendo, magari ha in testa già qualche episodio o la fine, ma scopre fino in fondo quello che sta facendo solo nel momento in cui lo fa. Non ha dei preconcetti o pregiudizi su quello che sta facendo. Altra analogia con il sogno. “Mentre spiega il sogno come racconto, Pavese propone il racconto come sogno” implicitamente ci dice di stare attenti ai miti e ai sogni che si nascondono. Non è puramente un ricordo descrittivo realistico, ma nella misura in cui somiglia al sogno, c’è qualcosa vicino ad esso, cioè la struttura di tipo simbolica. Come nel caso di Corrado e del personaggio del Carcere, il narratore parla dei suoi miti personali, non collettivi. L'allievo di Freud, Jung, prende un'altra strada che lo porterà lontano dalla pura terapia: l'inconscio collettivo. Oggi possiamo dire che esiste sia un inconscio individuale, ma quanto più si va alle origini troviamo anche un inconscio collettivo. Pavese privilegia il mito personale, come vediamo nel caso di Corrado rispetto ai miti collettivi che si stanno creando durante la guerra di resistenza. Corrado non riesce a aderire a quel mito, preferendo anch'egli quello suo individuale. Pavese allo stesso modo deve andare al suo luogo d’origine natale, ma non riesce a partecipare alla Resistenza, un mito collettivo in cui non crede. Per questo non crede alla storia, ma solo all'origine personale, al mito personale. C'è uno spazio della memoria e del sogno, poi c'è uno spazio del mondo storico, quotidiano. Tra questi due mondi c’è l’io, la frontiera. Appena questa frontiera si sposta verso uno dei due mondi, noi cominciamo un processo di solitudine, di melanconia che può poi andare nell’alienazione e nella degenerazione mentale. I personaggi di Pavese rischiano sempre l'alienazione, perché attratti sempre dal loro mondo interno, rinunciando se non alla vita quotidiana, quantomeno alla storia. Pavese vuole rigenerare la fede che si possano generare ancora miti nella modernità. Sta all'individuo singolo farlo. Lezione 6(12.03) Abbiamo l’azione che si succede in senso temporale, l'ambientazione è in vari modi descritta, noi abbiamo qui indicatori sia spaziali che temporali, per cui qui il modello del romanzo realistico (che il ‘900 mette in crisi) e l'erosione del realismo avviene in maniera più sottile. Siamo di fronte ad un romanzo che apparentemente non pone alcun problema dal punto di vista della rappresentazione verosimile (Corrado che racconta di queste sue vicissitudini tra Torino e le colline, rappresenta dei personaggi con caratteristiche fisiche e psicologiche), ma confrontato ai grandi romanzi modernisti si noterebbero differenze di rappresentazione, come se la stessa concezione di come rappresentare il mondo diventasse un problema, ma qui tutto sommato no. Per questo parliamo di ritorno alla realtà negli anni '40-50, c'era molta realtà da raccontare. Negli anni 60 ci sarà un ritorno al mettere in crisi la rappresentazione della realtà, in quelli '80 si ritornerà ad uscire da questa crisi. Come se fosse un movimento ad onde. Nel caso di Pavese c'è un’erosione della verosimiglianza, in favore di un’altra realtà mitico-simbolica. Sta poi al lettore capire quando c’è questa coesistenza. Il primo capitolo di un libro è sempre importante, ci fa capire molto. L'incipit e l’explicit. Il primo ci dà alcuni elementi: ci fa capire in che mondo entriamo e poi deve farci capire quale strumento linguistico si adotta e in quale tonalità /atmosfera stiamo entrando. Dobbiamo qui essere dei rilettori, perché un romanzo la prima volta, come Pavese dice, non esiste. È solo una seconda lettura che ce lo fa leggere in maniera analitica. Il primo paragrafo ci dà alcuni indicatori spazio temporali, anche se l'indicatore geografico è più netto di quello temporale. Quelle colline e queste antiche > differenziazione importante tra le prime dove si svolge la maggior parte del romanzo e le seconde, della zona di S. Stefano Belbo, dove sarà ambientata la fine. Adesso vivo + indicatore temporale del tempo della narrazione, lui sta narrando dalle colline antiche dove è tornato. Sta raccontando al perfetto. Il ricordo è sempre un elemento fondamentale nel racconto. Dobbiamo anche fare i conti con la finzione, qui l’artificio è che lui pensa di raccontare questa storia al passato, dopo averla vissuta. Il tempo è indirettamente indicato perché qui possiamo intuire, come quando parla di “allarmi, gente che sfollava”, il periodo storico. Abbiamo letto solo la prima pagina e già ci rendiamo conto di quante volte usi le parole collina e città. Qui la dialettica città-campagna è evidente. C'è anche una prima opposizione di come si vive in città e nelle colline. Troviamo subito anche il tema del difficile rapporto con gli altri, all’inizio della seconda pagina, come se si trattasse infondo di qualcosa in cui lui vuole credere, ma non è fatto concreto, tanto è vero che il terzo paragrafo inizia parlando di una storia di una lunga illusione del protagonista, ossia quella anticipata prima di poter partecipare agli eventi della storia e di poter avvicinarsi alla vita degli altri. Colpa > il fatto di non aver partecipato agli eventi storici bellici, né alla vita degli altri la vede come una colpa. Questo dice che non deve essere addebitato alla guerra, ma anzi, la guerra potrebbe ancora salvarlo (Attenzione al cambio di tempo verbale): vuol dire che quando la scrive la guerra non è ancora finita e che sta scrivendo riguardo a qualche anno prima. La guerra potrebbe ancora salvarlo se lui facesse un atto, compisse un azione, uscendo dal suo guscio di solitudine, ma la storia non è questa. Triangolo geografico: Torino, queste colline e quelle antiche colline. La guerra per Corrado è una sorta di mano tesa per farlo uscire dal suo carcere, la sua solitudine. Mangiarmi da solo gli anni e il cuore + crudeltà della parola, segno stilistico di Pavese, segno della volontà di andare in fondo, all'essenza. La lingua di Pavese non si sofferma molto nella descrizione, ma tende ad andare con un giro di parole rapido all'essenza di ciò che voleva dire. Primo paragrafo: rapporto città campagna; Secondo: solitudine; Terzo: la guerra ha fatto in modo che il vivere alla giornata, senza pensare al futuro o rimpiangere il passato diventasse un modo di vivere quotidiano, una condotta che a lui era conveniente. Altro grande tema che dice qui: ci sta dicendo il momento in cui ciò avviene, quello della fine della giovinezza e l’inizio dell'età matura. Tema della maturità. Fastidio, nato dal fatto che i ritorni vogliono dire affrontare gli eventi della guerra che accadano, col tentativo da parte delle due donne di sapere chi fosse questa persona. Oltre a questo, c'è come la volontà di Corrado di confortarsi attraverso la propria solitudine, questa non è un qualcosa di negativo. Per lui andare verso gli altri è fastidioso, difficile, sentito come inutile soprattutto se “cianciano stupiscono esclamano” continuamente. Qui c'è anche una differenza sociale ed intellettuale. Lui ci sta bene nella sua solitudine, tanto è vero che preferisce mangiare da solo e disturbato dalla guerra, perché gli allarmi portassero le persone ad uscire assieme. Modalità tipica di Pavese: paragonare persone o tratti delle persone ad elementi naturali. La vecchia, definita terrestre, un aggettivo tipicamente pavesiano. Abbiamo una donna-collina. Quando parliamo di coesistenza di un regime realistico ed uno simbolico, non ce lo dice lui, ma utilizzando il suo stile e mettendo vicino la parte naturale con quella umana, ci riporta ad un registro lirico. In un regime realistico, affermare che questa donna è una collina oscurata è difficile. Lui utilizza un po” uno stile lirico più che prosastico, però ci rivela qualcosa: che l'essere umano quand'è nella natura è dentro le sue origini, quindi è più vicino anche a tutto ciò che è naturale. Il pensiero lirico-simbolico parte da queste origini naturali dell’uomo. L'uomo di città, civilizzato, parla un’altra lingua, molto più distante dalla natura e dalle origini. Fine pagina 5: altro punto rilevante per quanto riguarda i due livelli. Ma ai due corrispondono registri stilistici diversi? È un po' difficile da rispondere, sarebbe più semplice se fosse così. In realtà la bravura di Pavese è anche quella di compenetrare i due livelli. Non è che da una parte abbiamo una prosa verosimile descrittiva e dall'altra una prosa piena di metafore e similitudini. Lui cerca di compenetrare i due registri. Il gorgo di Pavese: l'origine è anche l'abisso, qualcosa in cui si sprofonda. Il percorso verso l'origine non è semplice, bisogna ritornare ragazzi, quindi tornare anche nelle paure, le oscurità, in quello che il ragazzo temeva. Per non parlare del bosco, topos del luogo della perdita, ma allo stesso tempo anche luogo dell’infanzia. C'è una spinta di Corrado verso l'origine e la difficoltà di partecipare alla storia. Selvatiche = rustico universale > altro aggettivo suo. La solitudine lo porta a sdoppiarsi. “di nuovo quella sera..” > impronta leopardiana, altro autore ispiratore. Figura leopardiana sola e sente che gli altri sono felici, apparentemente. Pag. 6 > sintesi non solo di quello che lui prova (Corrado), ma di quello che lui è. È anche la sintesi di quello che avverrà. La sensazione della solitudine, tutto sommato per lui non è un male, ma un rifugio, per cui anche le voci della comitiva, non sembra che ci sia nostalgia di questo, né vero desiderio, a tal punto che poi lo dice “ero contento di non avere nei miei giorni un vero affetto” affetto messo assieme alla parola impaccio, considerato come questo. Abbiamo il codice esistenziale di Corrado, qualcuno che sta da solo, contento di stare così, perché ogni affetto, amicizia o amore sarebbero complicati, un impaccio, senza dire che ci vorrebbe coraggio. Risacca > andare e venire dalla collina, un circolo dal quale non esce seppur la guerra gliene aveva dato la possibilità che lui non coglie, ci vuole coraggio. Alla fine, decide di andare verso gli altri, preferendo i canti avvinazzati (gente che fa feste in una situazione tragica) alle due donne. È anche interessante questa sua passeggiata nel bosco, estremamente significativa, perché lui uomo solo, che si compiace della sua solitudine, consapevole che qualsiasi tipo di attrazione o di volontà di andare verso gli altri gli procurerebbe degli impacci, ma ecco l'illusione: è comunque una passeggiata che lo porta verso il mondo, verso gli altri. Questo è l’inizio della lingua illusione. CAPITOLO 15 Sappiamo che lui è un insegnante di Torino, non è uno sfollato permanente però, avevamo parlato della risacca, quindi del suo tornare in campagna. Siamo ben dentro (indicatori dell’epoca sono già stati dati) nell'epoca dell'armistizio, la presenza dei tedeschi e dei militi (Fascisti). Molti temono di essere arrestati e presi come ostaggi. Riferimento al fatto che Castelli, il collega malato, avesse in realtà parlato (altro problema di vivere in un regime), qui il tema della solitudine viene condiviso da tutti. Il protagonista si rende conto che tutti vivono chiusi dentro una parete, ma non abbiamo a che fare con la stessa solitudine di Corrado, per lui un rifugio confortante, qui abbiamo una sorta di isolamento determinato non dalla propria natura, ma dalla storia, dalla presenza di un regime. I fascisti sono lì a tendere agguati, per queste ragioni i colleghi sono lì a vivere in questa sorta di isolamento. Siamo nel momento topico del ’43, molti italiani sono davanti alla scelta di cosa fare: nascondersi (come Corrado), partecipare alla resistenza oppure di trovare soluzioni diverse, come il fratello di Egle che è andato a Milano, in borghese, lavorando semi nascosto. Corrado si chiede dove sarebbe andato
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved