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Appunti su "Il Gattopardo", Appunti di Letteratura Italiana

Appunti corredati da passi dell'opera "Il Gattopardo" per meglio prendere in esame e spiegare i punti chiave della storia.

Cosa imparerai

  • Che accadde alla fattoria descritta nel testo?
  • Come si descrive l'ascesa della borghesia nel romanzo?
  • Che temi trattano i dialoghi tra Don Fabrizio e padre Pirrone?
  • Come si descrive l'invecchiamento di Don Fabrizio?
  • Che ruolo ricopre Concetta nella storia?

Tipologia: Appunti

2021/2022

Caricato il 17/01/2022

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4.3

(38)

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Scarica Appunti su "Il Gattopardo" e più Appunti in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! [03/12/2021] Il romanzo anti-storico Il Gattopardo è l’unico romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1896-1957), scritto durante gli ultimi anni della sua vita (1954-1957) e pubblicato postumo (1958) soltanto da Feltrinelli. In precedenza, infatti, l’autore aveva presentato la sua opera anche a Mondadori ed Einaudi, che però si rifiutarono di pubblicarla; circa quest'ultima casa editrice, ricordiamo le motivazioni di Elio Vittorini: secondo l’intellettuale, Il Gattopardo era un romanzo improntato ancora sui modelli dell'Ottocento, e diverso quindi dai romanzi sperimentali raccolti nella collana da lui diretta, | Gettoni. L'opera venne quindi inviata a Feltrinelli da Bassani, che a sua volta aveva ricevuto una copia dattiloscritta del romanzo (che venne opportunamente confrontata tramite collazione con la sua versione manoscritta) dalla famiglia dell'autore. Nonostante i rifiuti ottenuti dalle due eminenti case editrici, l'edizione Feltrinelli de Il Gattopardo raggiunse, dopo soltanto due anni dalla sua stesura, l'impressionante numero di 100.000 copie vendute, che lo fecero diventare a tutti gli effetti un bestseller. Tale successo fu senz'altro amplificato dall'omonimo film del 1963 diretto da Luchino Visconti. Vi sono diverse stesure del romanzo, che si differenziano principalmente dalle parti! comprese e dal supporto: 1. La prima, datata 1954-1956, è manoscritta e comprende le prime quattro parti; 2. La seconda, dattiloscritta, amplia la materia da quattro a sei parti, e venne realizzata dal “figlio elettivo?” Francesco Orlando sotto dettatura del principe Tomasi; 3. La terza, nuovamente manoscritta, comprende il romanzo nella sua interezza. Essa venne completata nella primavera del 1957 e affidata a Gioacchino Lanza Tomasi, figlio adottivo dell'autore. La materia trattata dal Gattopardo è principalmente storica: l'oggetto è infatti la rovina della casata nobiliare dei Salina alla vigilia dell'Unità d’Italia, e quindi durante il passaggio dal regno dei Borbone a quello dei Savoia. | Salina fungono dunque da esempio circa la crisi che aveva colpito la classe aristocratica. A un primo impatto, soprattutto per quanto riguarda l'ambientazione storica, si potrebbe definire quest'opera come appartenente al genere del romanzo storico, sebbene lo stesso autore non fosse d'accordo con ciò. In primo piano non vi sono infatti eventi storici, bensì le riflessioni del principe Salina. Diversi critici smentirono però lo stesso autore: molti furono infatti gli studi monografici che categorizzavano Il Gattopardo come romanzo storico. Sarebbe comunque più corretto considerare l’opera come appartenente al genere del romanzo anti- storico, ovvero un romanzo che presenta totalmente o parzialmente le caratteristiche proprie del romanzo storico ma che si allontana dalla visione ingenuamente progressista* del genere. Il romanzo anti-storico è infatti caratterizzato da una visione demistificatrice della storia, che giudica con occhio critico e oggettivo gli eventi storici. Il Gattopardo fa parte di una cosiddetta “triade” di romanzi anti-storici, assieme a | Vicerè di Federico De Roberto e | vecchi e i giovani di Luigi Pirandello. Questi tre testi presentano infatti un’affinità: mettono in evidenza i lati negativi di un processo altrimenti positivo come il Risorgimento nel contesto del Sud Italia. Oltretutto, viene messo sotto accusa anche il comportamento trasformista‘ della classe dirigente (cioè l'aristocrazia). Questa visione è stata definita “contro-scrittura”, poiché presenta degli eventi sotto un’altra angolatura. Ulteriore opera affine al filone del romanzo anti-storico è senz'altro La ginestra di Giacomo Leopardi: essa mette in luce infatti uno storicismo anti-progressista, che a sua volta fa risaltare gli elementi negativi imputati di rallentare il passaggio dall’ancien regime alla modernità. Il protagonista del romanzo è il principe Fabrizio Cobrera di Salina, il cui punto di vista filtra larga parte degli eventi narrati. Dunque, se da una parte vi è una visione lucida della storia, dall'altra vi è un che di nostalgico nei confronti di un periodo più fiorente per l'aristocrazia. Questo è un punto di distacco da | Vicerè, dove invece vi è una polifonia di punti di vista. Don Fabrizio di Salina è una proiezione autobiografica, poiché lo stesso Tomasi era un principe animato dalla medesima nostalgia; il personaggio è oltretutto una rappresentazione del bisnonno dell'autore. All’interno del romanzo abbiamo quindi la dinastia dei Salina; all'esterno vi è quella dei Lampedusa. La dinastia dei Lampedusa fu fondata nel Cinquecento da Mario Toma: Lampedusa, e dell'albero genealogico è necessario tenere in considerazione due rami: 1. Quello del Seicento, che vede come capofamiglia Giulio I, possessore di diversi titoli nobiliari; costui aveva un gemello, Carlo, assieme al quale fondò Palma di Montechiaro. Tale dinastia si occupò principalmente della religione: su otto figli, infatti, ben sette entrarono in convento e tra questi Isabella fu addirittura beatificata; lo stesso Giulio era denominato “il duca santo”. Sia lui che la figlia verranno evocati all’interno del romanzo. 2. Quello dell'Ottocento, che vede come protagonista Gi , poi trasfigurato nella figura del protagonista del Gattopardo e la cui famiglia avrà come stemma un leopardo rampante su sfondo azzurro. Inizialmente, l’opera si sarebbe dovuta limitare a narrare le ventiquattr'ore vissute da Fabrizio Salina durante lo sbarco in Sicilia dei Mille; di tale idea fu lasciata una traccia all'interno della prima parte. 1 invece che in “capitoli”, le vicende narrate nel romanzo sono distinte in 8 “parti”. ?: Orlando era definito il “figlio elettivo” poiché era l'allievo prediletto di Tomasi. 8: i romanzi storici solevano infatti vedere la storia come un fenomeno ascensionale, ineluttabilmente diretta verso il meglio, secondo una visione ottimistica; “: comportamento che mantiene i propri privilegi di classe e li adatta ai tempi nuovi; ciò porta inesorabilmente a una situazione di stasi economica e sociale del Paese. [04/12/2021] Il tramonto dell’aristocrazia Ciascuna delle otto parti di cui si compone il romanzo è contrassegnata da una data; la prima riporta quella di maggio 1860. L'intera vicenda durerà cinquant'anni, concludendosi nel 1910. È dunque evidente come l’autore abbia preferito optare per un’organizzazione temporale differente rispetto al progetto originale, che avrebbe invece dovuto narrare soltanto le ventiquattr'ore precedenti allo sbarco in Sicilia. Si noti però come tale evento sarà parzialmente ripreso nella prima parte. «“Nunc et in hora mortis nostrae. Amen.” La recita quotidiana del Rosario era finita. Durante mezz'ora la voce pacata del Principe aveva ricordato i Misteri Dolorosi; durante mezz'ora altre voci, frammiste avevano tessuto un brusio ondeggiante sul quale si erano distaccati i fiori d’oro di parole inconsuete: amore, verginità, morte; e mentre durava quel brusio il salone rococò sembrava aver mutato aspetto; financo i pappagalli che spiegavano le ali iridate sulla seta del parato erano apparsi intimiditi; perfino la Maddalena, fra le due finestre, era sembrata una penitente anziché una bella biondona, svagata in chissà quali sogni, come la si vedeva sempre. » (p. 31): il romanzo si apre con la recita del rosario in latino, lingua della liturgia. L'attenzione si concentra sulla morte: l'incipit funebre anticipa infatti uno dei principali filoni tematici dell’opera. La grande religiosità della famiglia non è inconsueta poiché, nell'epoca dell’ancien regime, aristocrazia e clero erano le classi più privilegiate; ciò faceva sì che esse fossero anche alleate. Se si tiene in considerazione il ramo genealogico del Seicento della famiglia Tomasi, infatti, è possibile notare Re, va bene. Lo conosceva bene il Re, almeno quello che era morto da poco; l’attuale non era che un seminarista vestito da generale. E davvero non valeva molto. “Ma questo non è ragionare, Fabrizio,” ribatteva Màlvica “un singolo sovrano può non essere all’altezza, ma l’idea monarchica rimane lo stesso quella che è; essa è svincolata dalle persone.” “Vero anche questo; ma i Re che incarnano un’idea non possono, non devono scendere per generazioni al di sotto di un certo livello; se no, caro cognato, anche l’idea patisce.”» (p.37): il primo episodio narrato riguarda il ritrovamento, un mese prima, di un soldato borbonico morto nel giardino reale. Don Fabrizio elabora tale ricordo tramite un'associazione di odori, con chiaro riferimento alla poetica di Proust. Tale ricordo è anche il tema del discorso tra il principe e il cognato, Ciccio Malvica, di forte convinzione conservatrice. Don Fabrizio si chiede perché il soldato sia dovuto morire; a tale domanda, che denota la mancanza di praticità nel principe, il cognato, ciecamente ancorato al vecchio mondo, ribatte affermando che il soldato è morto per il re. Tale risposta turba don Fabrizio, che risponde affermando che la monarchia smette di valere nel momento in cui le persone non sono all’altezza di tale idea. La discussione ci mette davanti due tipologie opposte di persone: se da una parte vi è il nobile ciecamente fedele alle vecchie idee, dall'altra c'è l’aristocratico capace di ragionare criticamente e di far emergere dall'interno i problemi del proprio ceto. 1: stile artistico e architettonico che prevede il trionfo della decorazione. Esso deve il suo nome a un curioso tipo di decorazioni, ispirato alla forma di rocce e conchiglie, usato nelle dimore aristocratiche nella prima metà del Settecento. Tale stile era particolarmente in voga durante l’ancien regime, il periodo immediatamente precedente alla Rivoluzione francese. [09/12/2021] Cambiare tutto per non cambiare niente Il ricordo della morte del soldato borbonico è indicativo della centralità del tema funebre, molto spesso filtrato dal punto di vista di Don Fabrizio; altrettanto spesso, il principe si trova a corteggiare la morte, atto che accompagna la caduta della sua casata. Vi è una seconda associazione mentale, propria di quella dei pazienti psicanalitici; dopo il dialogo col cognato circa la morte del soldato e la fedeltà alla monarchia, tornano alla mente di Don Fabrizio le udienze concessegli dal re Borbone. «Dalla famiglia si passò alla scienza. “Tu, Salina, fai onore non solo a tè stesso, ma a tutto il Regno! Gran bella cosa la scienza quando non le passa p’a capa di attaccare la religione!” » (p. 38): in questo passo vi è un dialogo immaginario con il re Borbone, poiché filtrato dalla memoria del principe. In tale dialogo si discuteva di come la scienza abbia attaccato più volte un pilastro dell’ancien regime, la religione. Ciò cominciò ad accadere sin dall’epoca di Galilei*. Qui il re indossa la maschera dell'amico poiché con la sua scienza, l'astronomia, non aveva mai attaccato la religione. «Don Fabrizio aveva già fatto il secondo inchino a ritroso quando il Re lo richiamò: “Salina, starnine a sentere. Mi hanno detto che a Palermo hai cattive frequentazioni. Quel tuo nipote Falconeri... perché non gli rimetti la testa a posto?” “Maestà, ma Tancredi non si occupa che di donne e di carte.” Il Re perse la pazienza. “Salina, Salina, tu pazzii. Responsabile sei tu, il tutore. ca si guardasse ‘o cuollo. Salutamo.”» (p. 39): se prima il re aveva indossato la maschera dell'amico, ora invece utilizza la maschera dell’inquisitore: ammonisce infatti Salina circa le frequentazioni dei garibaldini da parte di suo nipote Tancredi. A tali ammonimentti, il principe tenta di rassicurare il sovrano. «Il Piemontese, il cosiddetto Galantuomo che faceva tanto chiasso nella sua piccola capitale fuor di mano? Non sarebbe stato lo stesso? Dialetto torinese invece che napoletano; e basta.» (p. 39): Salina non può transigere sull'ambiguità del sovrano: il principe intuisce infatti come la casa dei Borbone abbia ormai i giorni contati, poiché a breve verrà soppiantata da una famiglia piemontese, i Savoia. Tale sostituzione però non muterebbe di molto la situazione, e sarebbe soltanto momentaneo. Per sottolineare la temporaneità di questa sostituzione, il principe pronuncia la frase «”Dialetto torinese invece che napoletano». L'idea del principe è all'insegna dell'immobilismo, e pertanto lo rincuora. Tale riflessione avviene alla fine della prima giornata. «La cena a villa Salina era servita con il fasto sbrecciato che allora era lo stile del Regno delle Due Sicilie. » (p. 40): la cena di casa Salina è caratterizzata da un “fasto sbracciato”, ovvero imperfetto, limitato, compromesso dalla progressiva rovina economica del ceto aristocratico. Come già appuntato, il principe assiste impotente a tale rovina. Un indizio concreto circa quanto detto lo si può trovare nella descrizione dei materiali delle posate e bicchieri, che appartengono a servizi differenti. «Davanti al suo posto, fiancheggiati da una colonna di piatti, si slargavano i fianchi argentei dell'enorme zuppiera col coperchio sormontato dal Gattopardo danzante. » (p. 40): ritorna l’immagine del Gattopardo. Don Fabrizio si incupisce al ricordo dell'assenza del secondogenito Giovanni, in cui il principe si rivedeva, ormai protrattasi per due anni. Tale allontanamento è vissuto da Salina come un tradimento. «S’incupì tanto che la Principessa seduta accanto a lui tese la mano infantile e carezzò la potente zampaccia che riposava sulla tovaglia.» (p. 41): Maria Stella, notata l'inquietudine del marito, gli accarezza la “potente zampaccia”; egli dunque si animalizza, ed è possibile paragonarlo allo stesso Gattopardo comparso poco prima, cosa che comporta una variazione circa l'utilizzo dell'immagine del felino. La carezza della moglie infastidisce Don Fabrizio, che decide di abbandonare la tavola per recarsi da Mariannina, una prostituta palermitana. Durante il viaggio, egli porta con sé, seppur controvoglia, padre Pirrone, un ecclesiastico al servizio dei Salina. Quest'avventura sentimentale di basso rango evidenzia la lussuria del principe. ll Signore sa se la ho amata: ci siamo sposati a vent'anni. Ma lei adesso è troppo prepotente, troppo anziana anche.” Il senso di debolezza gli era passato. “Sono un uomo vigoroso ancora; e come fo ad accontentarmi di una donna che, a letto, si fa il segno della croce prima di ogni abbraccio e che, dopo, nei momenti di maggiore emozione non sa dire che: ‘Gesummaria!’. Quando ci siamo sposati tutto ciò mi esaltava; ma adesso... sette figli ho avuto con lei, sette; e non ho mai visto il suo ombelico. È giusto questo?” Gridava quasi, eccitato dalla sua eccentrica angoscia. “È giusto? Lo chiedo a voi tutti!” E si rivolgeva al portico della Catena. “La vera peccatrice è lei!” La rassicurante scoperta lo confortò e bussò deciso alla porta di Mariannina. » (pp. 46-47): in questo passo viene mostrata l’insicurezza del principe che, colto dai sensi di colpa per essere intenzionato a tradire la moglie, si rassicura evidenziando la pu bigotta di questa, che Don Fabrizio assimila a un peccato. «Mariannina lo aveva guardato con gli occhi opachi di contadina, non si era rifiutata a niente, si era mostrata umile e servizievole. Una specie di Bendicò in sottanino di seta.» (p. 47): la sottomissione di Mariannina è paragonabile a quella di Deodata nel Mastro Don Gesualdo di Verga. Per questo, il principe nota come la moglie e la prostituta siano caratterialmente simili. Vengono poi messi in contrasto i loro occhi: quelli di Maria Stella sono vitrei, simbolo di uno sguardo temporaneo; quelli di Mariannina sono opachi, simbolo invece di uno sguardo permanente. «Appena usciti dalla proprietà Salina si scorgeva a sinistra la villa semidiruta dei Falconeri appartenente a Tancredi, suo nipote e pupillo. Un padre scialacquatore, marito della sorella del Principe, aveva dissipato tutta la sostanza ed era poi morto. Era stata una di quelle rovine totali durante le quali si fanno fondere financo i fili d’argento dei galloni delle livree; ed alla morte della madre il Re aveva affidato la tutela dell’orfano allora quattordicenne allo zio Salina. Il ragazzo, prima quasi ignoto, era divenuto carissimo all’irritabile Principe che scorgeva in lui un’allegria riottosa, un temperamento frivolo a tratti contradetto da improvvise ci serietà. Senza confessarlo a sé stesso, avrebbe preferito aver lui come primogenito anziché quel buon babbeo di Paolo. Adesso a vent'anni Tancredi si dava bel tempo con i quattrini che il tutore non gli lesinava rimettendoci anche di tasca propria. “Quel ragazzaccio chissà cosa sta combinando per ora” pensava il Principe mentre si rasentava villa Falconeri cui l'enorme bougainvillea che faceva straripare oltre il cancello le proprie cascate di seta episcopale conferiva nell'oscurità un aspetto abusivo di fasto.» (p. 43): in questo passo siamo informati della famiglia e delle abitudini di Tancredi: infatti, passando nei pressi della villa dei Falconeri, Don Fabrizio riflette su come il padre del nipote avesse dilapidato il patrimonio di famiglia e, morta la moglie, affidò ai Salina il figlio. Tancredi aveva fin da subito esercitato un grande ascendente nello zio, in quanto dotato delle caratteristiche di cui Don Fabrizio è privo, quali il senso pratico. Questo lo porta quindi a reagire di fronte alla crisi che colpisce la sua famiglia e il suo ceto, contrariamente allo zio, che invece rimane impotente. Punto di contatto invece tra Don Fabrizio e Tancredi è la tentazione a dilapidare i quattrini per darsi ad avventure sensuali. L’ammirazione del principe nei confronti del nipote è tale da preferirlo al primogenito Paolo. «“Buon . Cosa ho combinato? Niente lente: sono stato con gli amici. Una notte santa. Non come certe conoscenze mie che sono state a divertirsi a Palermo.” Don Fabi si applicò a radere bene quel tratto di pelle difficoltoso fra labbro e mento. La voce leggermente nasale del ragazzo portava una tale carica di brio giovanile che era impossibile arrabbiarsi; sorprendersi, però, poteva forse esser lecito. Si voltò e con l’asciugamano sotto il mento guardò il nipote. Questi era in tenuta da caccia, giubba attillata e gambaletti alti. “E chi erano queste conoscenze, si può sapere?” “Tu, zione, tu. Ti ho visto con questi occhi, al posto di blocco di Villa Airoldi mentre parlavi col sergente. Belle cose, alla tua età! e in compagnia di un Reverendissimo! | ruderi libertini!” » (p. 49): questo è l'episodio più importante di tutto il romanzo, in cui compare la celebre frase “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”; tali parole sono definite “enigmatiche” e dunque ambigue. Mentre il principe si sta radendo, compare nello specchio Tancredi, che gli rimprovera il peccaminoso divertimento di cui godette la sera prima. Sia lui che padre Pirrone sono definiti “ruderi libertini”, ovvero persone di età avanzata che assumono atteggiamenti che eccedono la legalità. Tale battuta offende don Fabrizio, ma poiché ammira Tancredi per la sua giovinezza e il suo fascino, tace e non lo rimprovera. «“Ma perché sei vestito così? Cosa c’è? Un ballo in maschera di mattina?” Il ragazzo divenne serio: il suo volto triangolare assunse una inaspettata espressione virile. “Parto, zione, parto fra mezz'ora. Sono venuto a salutarti.” Il povero Salina si senti stringere il cuore. “Un duello?” “Un grande duello, zio. Contro Franceschiello Dio Guardi. Vado nelle montagne, a Corleone; non lo dire a nessuno, soprattutto non a Paolo. Si preparano grandi cose, zione, ed io non voglio restarmene a casa, dove, del resto, mi acchiapperebbero subito, se vi restassi.” Il Principe ebbe una delle sue visioni improvvise: una crudele scena di guerriglia, schioppettate nei boschi, ed il suo Tancredi per terra, sbudellato come quel disgraziato soldato. “Sei pazzo, figlio mio! Andare a mettersi con quella gente! Sono tutti mafiosi e imbroglioni. Un Falconeri dev'essere con noi, per il Re.” Gli occhi ripresero a sorridere. “Per il Re, certo, ma per quale Re?” Il ragazzo ebbe una delle sue crisi di serietà che lo rendevano impenetrabile e caro. “Se non ci siamo anche noi, quelli ticombinano la repubblica. Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. Mi sono spiegato?” » (p. 49): alla domanda dello zio circa il suo abbigliamento, Tancredi risponde dicendo di dover partire per raggiungere i ribelli, ovvero i liberali, che hanno come scopo quello di sovvertire la monarchia dei Borbone. Don Fabrizio teme allora per la vita del nipote e nel contempo è ferito dal suo tradimento nei confronti del re. Poiché però egli non specifica il nome del re, Tancredi glielo fa notare: aggiunge inoltre che, affinché si vogliano mantenere i privilegi della classe nobiliare, conviene schierarsi dalla parte dei Savoia. Oltretutto, è interesse dei nobili schierarsi dalla parte dei rivoluzionari onde evitare che questi, vittoriosi, possano intaccare i loro privilegi tanto decantati. Lo scopo di Tancredi è dunque quello di “addomesticare la rivoluzione”, al fine di mantenere intatti i privilegi della sua classe. È questo il celebre trasformismo immobilista a cui si riferisce la celebre frase sopra citata. La speranza dei nobili è infatti quella di riuscire a cavalcare quelli che erano considerati dei cambiamenti fittizi; la filosofia del trasformismo immobilista verrà però smentito dalla storia. Il gattopardismo, ovvero la filosofia della conservazione, è proprio del modo di pensare di Tancredi ma non è in alcun modo associabile alla mentalità di Tomasi; l'autore sa bene infatti che la storia muta e travolge il ceto nobiliare. Quello del trasformismo immobilista è un mito, come lo è anche il “machiavellismo”. Un politico era ostile alla chiesa; dall'altra, essi hanno la possibilità di ottenere dei lasciapassare per le residenze estive. Vi è anche un micro episodio sentimentale, dove Concetta rifiuta le avances del contino milanese in quanto infatuata di Tancredi. Il discorso sull'amore romantico del suo pretendente si contrappone all'amore ragionato di Tancredi: per quest’ultimo, infatti, il sentimento deve in qualche modo anche risultare conveniente per lui o per la sua classe. L'amore è quindi composto sia dalla componente sentimentale che da quella razionale. Il rifiuto di Concetta per il contino è reso evidente nel mancato saluto di congedo. Con questo episodio terminano i ricordi, e la narrazione riprende con l’arrivo dei Salina a Donnafugata. Qui, essi vengono accolti dal sindaco, tale Don Calogero Sedara, un rozzo contadino arricchito. Assieme a lui vi sono i notabili, ovvero le persone autorevoli quali il notaio, l’arciprete e Don Ciccio Tumeo, l'organista del Duomo, amico di Don Fabrizio nonché suo fido compagno di caccia. Coloro che accolgono il principe mostrano un atteggiamento di reverenza, e ciò gli fa molto piacere, poiché Donnafugata è un feudo dei Salina. Prima di giungervi, in Don Fabrizio sorse il dubbio circa la fedeltà dei suoi sudditi, indizio di come gli eventi della rivoluzione abbiano reso insicuro il principe. Ulteriore indizio di ciò è il suo eccesso di cordialità, che arriva a infrangere le barriere nobiliari nel momento in cui il principe invita da sé tutti i suoi amici dopo pranzo. «Il Principe che aveva trovato il paese immutato venne invece trovato molto mutato lui che mai prima avrebbe adoperato parole tanto cordiali; e da quel momento, invisibile, cominciò il, declino del suo prestigio. » (p. 79): il narratore registra il mutamento del principe, tradito dalle sue parole cordiali e che cercano di compensare il dubbio nutrito nei confronti della popolazione di Donnafugata; costoro però non recepiscono tale cambiamento, continuando a vedere Don Fabrizio come un monarca. Da questo momento in poi, il prestigio del principe si avvia progressivamente verso il declino. «era questa una specie di contadina, bellissima, ma giudicata dal marito stesso, per più d’un verso, impresentabile;» (p. 79): insieme ai notabili, vengono presentati al principe altri due personaggi importanti: la moglie di Don Calogero e sua figlia Angelica, il cui nome è un chiaro omaggio al Furioso di Ariosto e che sarà la protagonista della maggiore storia d'amore del romanzo. La moglie del sindaco è invece definita da lui stesso “impresentabile”, in quanto ignorante in materia di vita mondana. Le sue origini rozze sono oltretutto messe in evidenza dalla descrizione del padre, tale "Peppe ‘Mmerda". Poiché Don Calogero si rifiuta di portare la moglie alla cena di casa Salina, la sostituisce con Angelica. Don Fabrizio si trova assieme all’amministratore locale di casa Salina, Don Onofrio Rotolo, uomo eccessivamente onesto. Questo racconta al principe l'enorme arricchimento del sindaco, tale da poter eguagliare le ricchezze che il principe stesso possedeva a Donnafugata; ciò fa comprendere a Don Fabrizio come i tempi siano effettivamente cambiati. «“Essa è innamorata.” Un uomo di quarantacinque anni può credersi ancora giovane fino al momento cui si accorge di avere dei figli in età di amare. Il Principe si senti invecchiato di colpo; dimenticò le miglia che percorreva cacciando, i “Gesummaria” che sapeva provocare, la propria freschezza attuale al termine di un viaggio lungo e penoso; di colpo vide sé stesso come una persona canuta che accompagna uno stuolo di nipotini a cavallo alle capre di Villa Giulia.» (p. 84): in questo passo, in cui vi è una delle tante conversazioni tra Don Fabrizio e padre Pirrone, veniamo a sapere dell'amore di Concetta per Tancredi, poiché ella confidò tale sentimento al religioso, che a sua volta lo riferì al principe. La prima reazione di questi è negativa, poiché si sente invecchiato di colpo. Tale sensazione si pone sul piano delle reazioni esistenziali, a cui si aggiungono elementi politici; Don Fabrizio ha infatti già progetti per Tancredi, e questo innamoramento si rivela di ostacolo. «Tancredi, secondo lui, aveva dinanzi a sé un grande avvenire; egli avrebbe potuto essere l'alfiere di un contrattacco che la nobiltà, sotto mutate uniformi, poteva portare contro il nuovo ordine politico. Per far questo gli mancava soltanto una cosa: i soldi; di questi Tancredi non ne aveva, niente. E per farsi avanti in politica, adesso che il nome avrebbe contato di meno, di soldi ne occorrevano tanti: soldi per comperare i voti, soldi per far favori agli elettori, soldi per un treno di casa che abbagliasse. Treno di casa... e Concetta con tutte le sue virtù passive sarebbe stata capace di aiutare un marito am! so e brillante a salire le sdrucciolevoli scale della nuova società? ida, riservata, ritrosa come era? Sarebbe rimasta sempre la bella educanda che era adesso, cioè una palla di piombo al piede del marito. “La vedete voi, Padre, Concetta ambasciatrice a Vienna o a Pietroburgo?” La testa di Padre Pirrone fu frastornata da questa domanda. “Ma che c’entra questo? Non capisco.” Don Fabrizio non si curò di spiegare e si ringolfò nei suoi pensieri. Soldi? Concetta avrebbe avuto una dote, certo. Ma la fortuna di casa Salina doveva essere divisa in otto parti, in parti non eguali, delle quali quella delle ragazze sarebbe stata la minima. Ed allora? Tancredi aveva bisogno di ben altro: di Maria Santa Pau, per esempio, con i quattro feudi già suoi e tutti quegli zii preti e risparmiatori; di una delle ragazze Sutèra, tanto bruttine ma tanto ricche. L'amore. Certo, l’amore. Fuoco e fiamme per un anno, cenere per trenta. Lo sapeva lui che cos'era l’amore... e Tancredi poi, davanti al quale le donne sarebbero cadute come pere cotte...» (pp. 85-86): per il principe, Tancredi avrebbe avuto bisogno di un’altra donna, che sarebbe dovuta diventare l'alfiere nella lotta contro la rivoluzione. La donna congeniale all'ambizione di Tancredi dev'essere brillante e ricca, entrambe caratteristiche di cui Concetta è priva. Don Fabrizio si cruccia soprattutto della seconda, poiché la figlia non può garantire un adeguato patrimonio a Tancredi. L'episodio si chiude con un rintocco funebre. «Dalla Madre Chiesa vicina giungevano tetri i rintocchi di un “mortorio.” Qualcuno era morto a Donnafugata, qualche corpo affaticato che non aveva resistito al grande lutto dell’estate siciliana, cui era bancata la forza di aspettare la pioggia. “Beato lui” pensò il Principe mentre si passava la lozione sulle basette. “Beato lui, se ne strafotte ora di figlie, doti e carriere politiche.” Questa effimera identificazione con un defunto ignoto fu sufficiente a calmarlo. “Finché c'è morte c'è speranza” pensò; poi si trovò ridicolo per essersi posto in un tale stato di depressione perché una sua figlia voleva sposarsi.» (pp. 86- 87): il rintocco funebre fa contemplare nuovamente la morte a Don Fabrizio; essa è infatti vista come priva di preoccupazioni. La stessa passione del principe, l'astronomia, può essere considerata l'anticamera della morte. ione, vieni a guardare le pesche forestiere. Sono venute benissimo; e lascia stare queste indecenze che non sono fatte per uomini della tua età.” » (p.87): questo passo avviene nel giardino del palazzo di Donnafugata, in cui Don Fabrizio contempla una scena erotica che vede come protagonisti Nettuno e Anfitrite. Nel mentre, egli è intercettato da Tancredi, che lo rimprovera per aver peccato di voluttà; lo invita dunque a guardare le pesche forestiere, frutto di un innesco con le piante tedesche; esse, per la loro origine, sono un chiaro riferimento alle future nozze tra Tancredi e Angelica, poiché appartenenti a due classi sociali diverse. Il significato di questa metafora è implicito. «L’innesto dei gettoni tedeschi, fatto due anni prima, era riuscito perfettamente; le pesche erano poche, una dozzina sui due alberi innestati, ma erano grandi, vellutate e fragranti; » (p. 88): durante la contemplazione delle pesche, Don Fabrizio incarna la figura del agricula pius, molto apprezzata dal nipote. L’innesto è un chiaro riferimento a un amore meditato, a un matrimonio combinato, creato sulla base di interessi comuni. Nel caso del matrimonio tra Tancredi e Angelica, i Salina ne avrebbero beneficiato in quanto ciò avrebbe loro permesso di rimpinguare il patrimonio; la famiglia di Don Calogero invece sarebbe riuscita ad eseguire la scalata sociale, ottenendo il titolo nobiliare. «Tutto era placido e consueto, quando Francesco Paolo, il sedicenne figliolo, fece nel salotto una irruzione scandalosa: “Papà, don Calogero sta salendo le scale. È in frack!” Tancredi valutò l’importanza della notizia un secondo prima degli altri; era intento ad ammaliare la moglie di don Onofrio, ma quando udì la fatale parola non poté trattenersi e scoppiò in una risata convulsa. Non rise invece il Principe al quale, è lecito dirlo, la notizia fece un effetto maggiore del bollettino dello sbarco a Marsala. Quello era stato un avvenimento previsto, non solo, ma anche lontano e in le. Adesso, sensibile com'egli era, ai presagi e ai simboli, contemplava la Rivoluzione stessa in quel cravattino bianco e in quelle due code nere che salivano le scale di casa sua. Non soltanto lui, il Principe, non era più il massimo proprietario di Donnafugata, ma si vedeva anche costretto a ricevere, vestito da pomeriggio, un invitato che si presentava, a buon ‘o, in abito da sera.» (pp. 89-90): Angelica e Don Calogero si presentano al pranzo; Don Fabrizio sta indossando non un abito da sera, bensì uno più modesto per mettere maggiormente a proprio agio gli ospiti; alla visione però del sindaco in frac nonostante la sua rozzezza, comprende simbolicamente il mutamento dei tempi. Tale visione lo sconvolge più della notizia dello sbarco dei Mille a Marsala, anche poiché ciò era molto lontano da lui; non si può dire lo stesso del sindaco, il cui frac diventa il simbolo dei tempi nuovi. L'unica consolazione del principe è la mediocre riuscita sartoriale di suddetto abito, che gli ricorda le rozze origini di Don Calogero. L'ultima parte del capitolo riguarda l’importanza dei conventi, soprattutto per le donne. Viene oltretutto spiegato il modo in cui questi erano stati presi di mira dalla rivoluzione. Di ciò ne parla Tancredi al pranzo, che attinge fortemente dalla sua esperienza personale. Ne esce un racconto zeppo della componente erotica. Egli racconta ad Angelica lo sfondamento del portone del Monastero dell’Origliene e del conseguente spettacolo grottesco che si presenta agli occhi del suo plotone: le vecchie suore mostrano infatti sia la paura di quanto sarebbe potuto accadere loro, sia la speranza di divenire oggetto di piacere per i soldati. Costoro le lasciano però a bocca asciutta, affermando che sarebbero ritornati quando avrebbero trovato le novizie. Eccitata da tale racconto, Angelica chiede cosa avrebbero fatto se fosse stata con loro; a tale domanda maliziosa, Tancredi risponde dicendo che in quel caso lui e i suoi compagni non avrebbero dovuto attendere. Tale doppio senso lascivo indegna Concetta, a sua volta presente al pranzo. Concetta troverà il modo di vendicarsi qualche tempo dopo: durante una visita al Monastero di Santo Spirito, in cui il principe si reca per pregare sulla tomba della beata Corbèra, sua antenata e fondatrice del convento, viene impedito l'ingresso a tutti gli uomini eccetto il re e Don Fabrizio. Tancredi si indegna di ciò e Concetta, dal canto suo, gli lancia una “frecciatina”: indica dunque una trave presente nelle vicinanze e gli consiglia di sfondare il portone in maniera simile a come aveva fatto precedentemente col suo plotone. Le pesche forestiere con cui si chiude la seconda parte vengono offerte da Tancredi ad Angelica per averla in sposa; anche questa parte è dunque circolare, poiché si conclude allo stesso modo di com'era iniziata. [16/12/2021] La morte del buon senso «L'anima di Don Fabi si slanciò verso di loro, verso le intangibili, le irraggiungibili, quelle che donano gioia senza poter nulla pretendere in cambio, quelle che non barattano; come tante altre volte fantasticò di poter presto trovarsi in quelle gelide distese, puro intelletto armato di un taccuino per calcoli; per calcoli difficilissimi ma che sarebbero tornati sempre. “Esse sono le sole pure, le sole persone per bene” pensò con le sue formule mondane. “Chi pensa a preoccuparsi della dote delle Pleiadi, della carriera politica di Sirio, delle attitudini all'alcova di Vega?” » (p. 96): questo è il primo capitolo che tratta del soggiorno della famiglia Salina nella villa di Donnafugata. In questo passo viene spiegato uno dei motivi principali circa la passione di Don Fabrizio per l'astronomia: l'osservazione delle stelle, infatti, permette al principe, seppur in una certa misura, di enticare le preoccupazioni della vita quotidiana. Le stelle, viene infatti spiegato, «non barattano!», non scendono a compromessi, come invece è solito fare l'uomo. Ciò che infatti turba il principe è l'aver fatto scendere a compromessi la sua classe, la nobiltà, con la borghesia di Don Calogero, e tale compromesso avviene sottoforma del matrimonio combinato tra Tancredi e Angelica. Com'è già stato spiegato, tale accordo risulta vantaggioso per ambo le parti: i Salina avrebbero rimpinguato il loro patrimonio, mentre Don Calogero e la famiglia avrebbero potuto godere dell'ascesa di classe. catturano un coniglio, verso il quale il principe prova una pietà cosmica. Tale sensazione si ripresenterà nella scena del ballo. Viene oltretutto nominato l'evento politico più importante del mese: il plebiscito circa l'annessione della Sicilia al Regno d’Italia. A questo proposito, il principe chiede a Don Ciccio cosa abbia votato, e ottiene come risposta che tutti hanno votato “sì”. A Don Fabrizio di conseguenza non tornano i conti, poiché ricevette qualche giorno prima una visita di alcuni simpatizzanti dell’ancien regime, giunti da lui per chiedere consiglio su cosa votare; sebbene il principe consigliò loro di votare per il “sì”, a dimostrazione di aver compreso la lezione politica di Tancredi, ma al loro congedo non li vide convinti. Il dubbio del principe viene eliminato da Don Ciccio, che spiega come la trentina di “no” erano stati convertiti in “sì” dai liberali, per dimostrare che avesse vinto l'unanimità. Poiché i liberali erano comandati dal sindaco, Don Calogero, si tratta di un vero e proprio imbroglio elettorale. «Il giorno del Plebiscito era stato ventoso e coperto, e per le strade del paese si erano visti aggirarsi stanchi gruppetti di giovanotti con un cartellino recante tanto di “sì” infilato nel nastro del cappello. Fra le cartacce e i rifiuti sollevati dai turbini di vento, cantavano alcune strofe della “Bella Gigogin” trasformate in nenie arabe, sorte cui deve soggiacere qualsiasi melodietta vivace che sia cantata in Sicilia. Si erano anche viste due o tre “facce forestiere” (cioè di Girgenti) insediate nella taverna di zzu Menico dove decantavano le “magnifiche sorti e progressive” di una rinnovata Sicilia unita alla risorta Italia; alcuni conta stavano muti ad ascoltarli, abbrutiti com'erano, in parti eguali, da un immoderato impiego dello “zappone” e dai molti gior ozio coatto ed affamato. Scaracchiavano e sputavano spesso ma tacevano; tanto tacevano che dovette essere allora (come disse poi Don Fabrizio) che le “facce forestiere” decisero di anteporre, fra le arti del Quadrivio, la Matematica alla Rettorica.» (pp. 118-119): in questo passo, molto significativo, viene spiegato come nella taverna di zzu Menico vi fossero due o tre “facce forestiere”, ovvero di Grigenti*, di cui Donnafugata è provincia. Costoro promuovono in maniera massiccia il “sì” del plebiscito; tale propaganda è basata sull’ideale ironico delle «magnifiche sorti e progressive», citata con la medesima ironia da Leopardi ne La ginestra. L'ironia sta nel fatto che il narratore sappia già che l'annessione della Sicilia non porterà al periodo di prosperità tanto promosso. Gli stessi contadini tacciono cupi e scettici, adottando il medesimo scetticismo del narratore. | forestieri, per far fronte a tale mancanza di consenso, decidono dunque di «anteporre la matematica alla retorica», ovvero di falsificare i voti piuttosto che persuadere gli oppositori. Si insiste più volte sul vento, che è definito “lercio” e che rappresenta il clima di corruzione in cui si svolgono le elezioni, e che porta alla morte del buon senso e dell'onestà delle persone. «e quei porci in Municipio s'inghiottono la mia opinione, la Masticano e poi la cacano via trasformata come vogliono loro. io ho detto nero e loro mi fanno dire bianco! Per una volta che potevo dire quello che pensavo quel succhiasangue di Sedàra nnulla, fa come se non fossi mai esistito,’ come se fossi niente immischiato con nessuno, io che sono Francesco Tumeo La Manna fu Leonardo, organista della Madre Chiesa di Donnafugata, padrone suo mille volte e che gli ho anche dedicato una mazurka composta da me quando è nata quella... (e si morse un dito per frenarsi) quella smorfiosa di sua figlia!” » (pp. 122-123): Don Ciccio, da uomo dell’ancien regime, aveva inizialmente apprezzato la possibilità di poter esprimere liberamente il proprio parere, e mostra un sincero risentimento dopo l'omicidio di tale libertà da parte dei liberali. Infatti, tramite la corruzione, Sedara annulla la libertà di Don Ciccio e degli altri votanti. Questo è il motivo principale per cui Don Ciccio odia Don Calogero, al punto da mettere in ballo la sua famiglia e definire, sebbene velatamente, Angelica come una “sgualdrina”, similmente a come aveva fatto Maria Stella. «Venne mostrata a Don Fabrizio una lettera delle autorità di Girgenti che annunziava ai laboriosi cittadini di Donnafugata la concessione di un contributo di duemila lire per la fognatura, opera che sarebbe stata completata entro, il 1961, come assicurò il Sindaco, inciampando in uno di quei lapsus dei quali Freud doveva spiegare il meccanismo molti decenni dopo; e la riunione si sciolse. » (p. 120): nel dire che la fognatura sarebbe stata completata nel 1961, Sedara viene colto da un lapsus: questo, secondo la psicanalisi che nascerà almeno cinquant'anni più tardi rispetto al tempo dell'avventura, è indice dei suoi veri pensieri. Infatti, Sedara è inconsciamente convinto di non poter mantenere la sua promessa circa la realizzazione dell’opera pubblica, ingannando così i destinatari. Similmente all'imbroglio elettorale, anche qui viene uccisa la buona fede e sostituita dalla mala fede. «Don Ciccio si era sfogato; ora alla sua autentica ma rara personificazione del “galantuomo austero” subentrava l’altra, assai più frequente e non meno genuina dello “snob.” Perché Tumeo apparteneva alla specie zoologica degli “snob passivi,” specie adesso ingiustamente vilipesa. Beninteso la parola “snob” era ignota nel 1860 in Sicilia, ma così come prima di Koch esistevano i tubercolotici, così in quella remotissima età esisteva la gente per la quale ubbidire, imitare e soprattutto non far della pena a chi si stima di levatura sociale superiore alla propria, è legge suprema di vita: lo “snob” essendo infatti il contrario dell’invidioso. Allora egli si presentava sotto nomi differenti: era chiamato “devoto,” “affezionato,” “fedele”; e trascorreva vita felice perché il più fuggevole sorriso di un nobiluomo era sufficiente a riempire di sole una intera sua giornata; e, poiché si profilava accompagnato da quegli appellativi affettuosi, le grazie ristoratrici erano più frequenti di quel che siano adesso. Là cordiale natura snobistica di don Ciccio, dunque, temette di aver recato fastidio a Don Fabrizio e la di lui sollecitudine si affrettava a cercare i mezzi per fugare le ombre accumulatesi per sua colpa, credeva, sul ciglio olimpico del Principe; il mezzo più immediatamente idoneo era quello di proporre di riprendere la caccia; e così fu fatto.» (p. 125): Don Ciccio Tumeo viene definito “snob”, sebbene tale termine non viene usato nell'accezione contemporanea; nell'Ottocento, infatti, “snob” indicava una persona particolarmente devota, affezionata. In questo caso, Don Ciccio è affezionato alla casata dei Salina; per questo tenta di confortare il principe e gli propone di riprendere la caccia. 1: il baratto era una forma primitiva di scambio che consisteva nel dare un oggetto in cambio di un altro. ?: il “pathos della distanza” è utilizzato anche da altri autori del Novecento, primo fra tutti Calvino ne il barone rampante: in quest'opera, infatti, il protagonista Cosimo guarda con distacco dall'alto degli alberi la realtà sottostante. 8: l'espressione “cannocchiale rovesciato” è propria di Pirandello, presentata nella novella La tragedia d'un personaggio. “: nome utilizzato fino al 1927 per designare l'odierna Agrigento. [17/12/2021] Il ciclone sensuale Se la prima domanda posta da Don Fabrizio a Don Ciccio riguarda la sfera politica (cosa avesse votato al plebiscito), la seconda riguarda la sfera privata: gli chiede infatti se conoscesse già Don Calogero. «“Don Ciccio, statemi a sentire. Voi che vedete tante persone in paese, che cosa si pensa veramente di don Calogero a Donnafugata?”» (p. 126): l'insistenza di Don Fabrizio su quale fama avesse il futuro suocero dipende dal fatto che il principe non riesca a inghiottire il rospo del contratto matrimoniale; Angelica, infatti, proviene da una famiglia della borghesia in ascesa, non a una nobile. Se in un primo momento Don Tumeo si era sfogato contro il sindaco, percependo l’incupimento di Don Fabrizio per il matrimonio, decide di mitigare il suo giudizio al fine di confortarlo. «Questo è don Calogero, Eccellenza, l’uomo nuovo come dev'essere; è peccato però che debba essere così.”» (p. 127): Don Ciccio spiega che il sindaco altri non è che l’uomo nuovo così come dovrebbe essere, sebbene la cosa lo rammarichi; tale giudizio è fortemente improntato sulla concezione machiavelliana della realtà effettiva. «e pare che donna Bastiana sia una specie di animale: non sa leggere, non sa scrivere, non conosce l’orologio, quasi non sa parlare: una bellissima giumenta, voluttuosa e rozza; è incapace anche di voler bene alla figlia; buona ad andare a letto e basta.” » (p. 128): dopo aver espresso un giudizio su Don Calogero, Don Ciccio spiega il perché donna Bastiana, moglie del sindaco, fosse ritenuta “impresentabile” dallo stesso marito: ella viene infatti descritta con enorme negatività, venendo definita ignorante in qualunque ambito salvo quello erotico, e considerata così una vera e propria bestia. Circa tali qualità negative, Don Ciccio rincarerà la dose parlando del padre della donna, Peppe Giunta, conosciuto con l'appellativo poco lusinghiero di “Peppe ‘Mmerda”. «“Del resto” continuava “non potrebbe essere altrimenti. Lo sapete, Eccellenza, di chi è figlia donna Bastiana?” Voltatesi, si alzò sulla punta dei piedi e con l’indice mostrava un lontano gruppetto di case che sembravano scivolare giù dal dirupo di un colle ed esservi a mala pena inchiodate da un campanile miserabile: un borgo crocifisso. “È figlia di un vostro affittuario di Runci, Peppe Giunta si chiamava e tanto sudicio, e torvo era che tutti lo chiamavano ‘Peppe ‘Mmerda’. Scusate la parola, Eccellenza.” E, sodisfatto, avvolgeva attorno a un suo dito un orecchio di Teresina. “Due anni dopo la fuga di don Calogero con Bastiana lo hanno trovato morto sulla trazzera che va a Rampinzeri, con dodici ‘lupare’ nella schiena. Sempre fortunato don Calogero, perché quello stava diventando importuno e prepotente.” » (p. 128): viene spiegato che l'origine del soprannome di Peppe Giunta, che deriva dalla sua poca propensione alla pulizia, e che sottolinea enormemente la realtà rozza alla quale sia lui che la figlia appartengono, e che anch'egli lavorava per conto della famiglia Salina. Viene poi raccontata la morte di questo, sparato da una lupara, arma che lascia intendere come l'omicidio sia stato di chiara matrice mafiosa. Poiché Don Ciccio fa parola dell’antipatia che Don Calogero nutriva nei confronti del suocero a causa del suo pessimo carattere, si lascia intendere come il mandante dell'omicidio dell’uomo sia stato lo stesso sindaco. La famiglia dei Sedara assume dunque, oltre che tratti rozzi, anche tratti fortemente violenti, che giustificano il “formicolio!” avvertito in precedenza dal principe e che fanno giudicare negativamente da Don Ciccio la scelta del matrimonio combinato. «il desiderio di malignare aveva mascherato la verità; tutti si erano costruiti il pupazzo di un Tancredi ertino che aveva fissato la propria lascivia su Angelica e che armeggiasse per sedurla, e basta. » (p. 129): Don Ciccio ritiene che il matrimonio tra Tancredi e Angelica sia inaccettabile, date le rozze origini della ragazza, al punto da indignarsi. «“Questa, Eccellenza, è una porcheria! Un nipote, quasi un figlio vostro non doveva sposare la figlia di quelli che sono i vostri nemici e che sempre vi hanno tirato i piedi. Cercare di sedurla, come credevo io, era un atto di conquista; così, è una resa senza condizioni. È la fine dei Falconeri, e anche dei Salina!”» (pp. 130-131): tale è l'indignazione di Don Ciccio al matrimonio che avrebbe considerato di gran lunga migliore se Tancredi avesse soltanto sedotto Angelica, la cui cosa sarebbe stata definita una “conquista”; la loro unione, invece, è vista come una vera e propria rovina sia per i Falconeri che per i Salina. Quest'ultima affermazione cozza con quanto Tancredi espose nella sua lettera al principe”. «Traversando le due stanze che precedevano lo studio si illuse di essere un Gattopardo imponente dal pelo liscio e profumato che si preparasse a sbranare uno sciacalletto timoroso; ma per una di quelle involontarie associazioni di idee che sono la croce delle nature come la sua, davanti alla memoria gli passò l’immagine di uno di quei quadri stoi rancesi nei quali marescialli e generali austi , cai pennacchi e gale, sfilano, arrendendosi dinanzi a un ironico Napoleone; loro sono eleganti, è indubbio, ma il itore è l’omiciattolo in cappottino grigio; e così, oltraggiato da questi inopportuni ricordi di Mantova e di Ulma, fu invece un Gattopardo irritato a entrare nello studio.» (p. 132): questo passo illustra l’incontro tra il principe e Don Calogero, al fine di siglare il contratto del matrimonio. Don Fabrizio viene descritto poco prima di incontrare il sindaco: egli viene nuovamente paragonato al Gattopardo, mentre il suo futuro sindaco viene accostato alla figura dello sciacalletto, metafora dell’uomo nuovo, il borghese in ascesa. Il motivo di questo accostamento è abbastanza chiaro: così come gli sciacalli in natura approfittano delle debolezze degli altri animali per attaccare, così i borghesi strano le debolezze dei nobili a proprio vantaggio: per far ciò, essi barattano le proprie ricchezze per i titoli nobiliari. rappreso all’angolo delle labbra. lo non l’ho visto, ero un bambino allora; ma mi hanno detto che lo spettacolo non era bello. Il paniere era stato lasciato su quel gradino lì, il secondo davanti la porta da una vecchia con uno scialle nero sulla testa: non la ha riconosciuta nessuno.” Gli occhi di Chevalley si irrigidirono nel disgusto; aveva già udito narrare il fatto ma adesso, vedere sotto questo bel sole, lo scalino sul quale era stato deposto il dono insolito era un’altra cosa. La sua anima di funzionario lo soccorse: “Che polizia inetta avevano quei Borboni. Fra poco quando verranno qui i nostri carabinieri, tutto questo cesserà.” “Senza dubbio, Chevalley, senza dubbio.” » (pp. 172-173): Tancredi, nel far visitare Donnafugata a Chevalley, gli parla del brigantaggio dilagante che a quei tempi sferzava il Sud Italia. Gli racconta infatti del sequestro del figlio del barone Mutolo a opera dei briganti, e di come lo fecero a pezzi. Tale vicenda macabra ricorda una novella di Pirandello, intitolata L'altro figlio, in cui il personaggio principale subisce lo stesso trattamento. Chevalley, traumatizzato da tale racconto, mostra uno spiccato ottimismo circa il futuro regno dei Savoia, in quanto è convinto che ciò possa migliorare la pietosa situazione del Meridione. La risposta di Tancredi a tale dichiarazione, se si considera il suo carattere e il suo titolo, è senz'altro ironica; anch'egli, come lo zio, è illuminato da uno scetticismo immobilista!, che mostra a più riprese durante il corso del romanzo. «Appena seduto Chevalley espose la missione della quale era stato incaricato: “Dopo la felice annessione, volevo dire dopo la fausta unione della Sicilia al Regno di Sardegna, è intenzione del governo di Torino di procedere alla nomina a Senatori del Regno di alcuni illustri si ; le autorità provinciali son state incaricate di redigere una lista di personalità da proporre all’esame del governo centrale ed eventualmente, poi, alla nomina regia e, come è ovvio, a Girgenti si è subito pensato al suo nome, Principe: un nome illustre per antichità, per il prestigio personale di chi lo porta, per i meriti scientifici, per l’attitudine dignitosa e liberale, anche, assunta durante i recenti avvenimenti.” Il discorsetto era stato preparato da tempo, anzi era stato oggetto di succinte note a matita sul calepino che adesso riposava nella tasca posteriore dei pantaloni di Chevalley. Don Fabrizio però non dava segno di vita, le palpebre pesanti lasciavano appena intravedere lo sguardo. Immobile la zampaccia dai peli biondastri ricopriva interamente una cupola di S. Pietro in alabastro che stava sul tavolo.» (p. 175): in questo lungo passo, Chevalley propone a Don Fabrizio il ruolo di senatore, convinto che le sue ricchezze e il suo titolo nobi siano garanzie più che sufficienti della sua efficienza; non solo, viene oltretutto elogiato circa il prestigio personale (soprattutto scientifico) e per il contegno mantenuto a più riprese nei confronti dei garibaldini (in particolare circa la visita degli ufficiali liberali). Il principe però si mostra disinteressato sin dall'inizio: viene infatti descritto con le palpebre pesanti, in riferimento sia al sonno che alla morte; queste in particolare saranno due immagini presentate dallo stesso Don Fabrizio all’interno del suo discorso, quando si riferirà alla natura statica dei siciliani e di come considerino un peccato il “fare”. Nel formulare la proposta, Chevalley ha un lapsus: sebbene in un primo momento egli faccia riferimento alla “felice annessione”, subito si corregge definendola una “fausta unione”; il motivo del lapsus è da ricercarsi nella consapevolezza dello stesso cavaliere circa quella che sarà un’unione passiva della Sicilia, privata della libertà di accettare o rifiutare. Ciò si ricollega senz'altro agli effetti del Risorgimento al Sud, avvenuto per ordine di altri. «“Ma insomma, cavaliere, mi spieghi un po’ che cosa è veramente essere senatori. La stampa della passata monarchia non lasciava passare notizie sul sistema costituzionale degli altri stati italiani, e un soggiorno di una settimana a Torino due anni fa non è stato sufficiente a illuminarmi. Cosa è? un semplice appellativo onorifico, una specie di decorazione? o bisogna svolgere funzioni legislative, deliberative?” Il Piemontese, il rappresentante del solo stato liberale italiano, s'inalberò: “Ma, Principe, il Senato è la Camera Alta del Regno! In essa il fiore degli uomini politici del nostro paese, prescelti dalla saggezza del Sovrano, esaminano, discutono, approvano o respingono quelle leggi che il Governo o essi stessi propongono per il progresso del paese; esso funziona nello stesso tempo da sprone e da briglia, incita al ben fare, impedisce di strafare. Quando avrà accettato di prendervi posto, Lei rappresenterà la Sicilia alla pari dei deputati eletti, farà udire la voce di questa sua bellissima terra che si affaccia adesso al panorama del mondo moderno, con tante piaghe da sanare, con tanti giusti desideri da esaudire.” » (pp. 176-177): sebbene sia già convinto del rifiuto, Don Fabrizio vuole comunque saperne di più sulla carica da senatore. Vi è un riferimento alla litografia di Vulcano, in cui il principe notò una vaga somiglianza con Garibaldi?. «“Stia a sentirmi, Chevalley; se si fosse trattato di un segno di onore, di un semplice titolo da scrivere sulla carta da visita e basta, sarei stato lieto di accettare; trovo che in questo momento decisivo per il futuro dello stato italiano è dovere di ognuno dare la propria adesione, evitare l'impressione di screzi dinanzi a quegli stati esteri che ci guardano con un timore o con una speranza che si riveleranno ingiustificati ma che per ora esistono.”» (p. 177): Chevalley spiega che la carica di senatore non ha una funzione onorifica, bensì presuppone una partecipazione attiva nella vita politica. Di ciò, Don Fabrizio è scettico, data la sua poca propensione per la partecipazione; egli aderisce al cambiamento dei tempi in segno di adattamento, ma rifiuta categoricamente di diventarne parte attiva. «Avevo detto ‘adesione’ non ‘partecipazione’. In questi sei ultimi mesi, da quando il vostro Garibaldi ha posto piede a Marsala, troppe cose sono state fatte senza consultarci perché adesso si possa chiedere a un membro della vecchia classe dirigente di svilupparle e portarle a compimento; adesso non voglio discutere se ciò che si è fatto è stato male o bene; per conto mio credo che parecchio sia stato male; ma voglio dirle subito ciò che Lei capirà da solo quando sarà stato un anno fra noi. In Sicilia non importa far male o far bene: il peccato che noi non perdoniamo mai è semplicemente quello di ‘fare’. » (pp. 177-178): il principe accusa la monarchia sabauda di essersi mossa senza consultare la vecchia classe politica e senza tenere in conto le esigenze peculiari del Meridione; per tale motivo, è ormai troppo tardi per chiedere alla classe precedente di fornire il proprio sostegno, in quanto era stata volontariamente estromessa. Il principe poi, per giustificare il proprio rifiuto, tiene un discorso di stampo immobilista circa l'impossibilità di una possibile mutazione della situazione siciliana; per far ciò, prende a esempio lo stesso carattere dei siciliani, portati al “non fare” e connotati da un immobilismo di fondo. «Siamo vecchi, Chevalley, vecchi . Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori già complete e perfezionate, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui abbiamo dato il ‘la’;» (p. 178): l'immobilismo proprio dei siciliani è causato dai numerosi governi estranei alla Sicilia, sia per cultura che per civiltà, che nel tempo si sono succeduti all’interno della regione; la monarchia sabauda altro non è che l’ultimo di questi governi esterni. A causa quindi di questa dominazione straniera, i siciliani hanno progressivamente rinunciato all’azione. Circa la diversità culturale, il principe si sofferma anche sulle opere d’arte straniere importate in Sicilia, che non dicono nulla ai suoi abitanti proprio perché appartenenti a un'altra realtà. La conseguenza di tutto ciò è un inesorabile fatalismo, dimostrato dal principe sin dall'inizio del romanzo, e che si traduce in una propensione al “non fare”, al sonno e al corteggiamento della morte. «D'altronde vedo che mi sono spiegato male: ho detto i Siciliani, avrei dovuto aggiungere la Sicilia, l’ambiente, il clima, il paesaggio. Queste sono le forze che insieme e forse più che le dominazioni estranee e gl’incongrui stupri hanno formato l’animo: questo paesaggio che ignora le vie di mezzo fra la mollezza lasciva e l’asprezza dannata; che non è mai meschino, terra terra, distensivo, umano, come dovrebbe essere un paese fatto per la dimora di esseri razionali; questo paese che a poche miglia di distanza ha l’inferno attorno a Randazzo e la bellezza della baia di Taormina, ambedue fuor di misura, quindi pericolosi; questo clima che c’infligge sei mesi di febbre a quaranta gra conti, Chevalley, li conti: Maggio, Giugno, Luglio, Agosto, Settembre, Ottobre; sei volte trenta giori sole a strapiombo sulle teste; questa nostra estate lunga e tetra quanto l’inverno russo e contro la quale si lotta con minor successo; Lei non lo sa ancora, ma da noi si può dire che nevica fuoco, come sulle città maledette della Bibbia; in ognuno di quei mesi se un Siciliano lavorasse sul serio spenderebbe l'energia che dovrebbe essere sufficiente per tre; e poi l’acqua che non c’è o che bisogna trasportare da tanto lontano che ogni sua goccia è pagata da una goccia di sudore; e dopo ancora, le piogge, sempre tempestose che fanno impazzire i torrenti asciutti, che annegano bestie e uomini proprio li dove una settimana prima le une e gli altri crepavano di sete.» (pp. 179-180): oltre ai governi stranieri, un'ulteriore causa del “non fare” dei siciliani è il clima arido della regione. «“Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i liani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali; e, sia detto fra noi, ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagaglio. Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente: la nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte; desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di scorsonera o di cannella; il nostro aspetto meditativo è quello del nulla che voglia scrutare gli enigmi del nirvana.» (pp. 178-179): il sonno, l'immobilità voluttuosa e il nichilismo sono tutte conseguenze del fatalismo. Il carattere statico dei siciliani, inoltre, li porta a considerare come pregi quelli che in realtà sarebbero dei difetti, rifiutando di conseguenza qualunque tipo di cambiamento. «“Non nego che alcuni Siciliani trasportati fuori dall'isola possano riuscire a smagarsi: bisogna però farli partire quando sono molto, molto giovani: a vent'anni è già tardi; la crosta è già fatta, dopo: rimarranno convinti che il loro è un paese come tutti gli altri, scelleratamente calunniato; che la normalità civilizzata è qui, la stramberia fuori.» (p. 180): in questo passo viene descritta la presunzione dei siciliani, che si considerano esseri perfetti. La frase “a vent'anni è già tardi” presuppone un discorso generazionale: Don Fabrizio è consapevole di far parte di una generazione ormai vecchia, e consiglia dunque di proporre la carica di senatore o a un giovane (Tancredi) o a un ambizioso (Don Calogero, il borghese in ascesa). Quello del discorso generazionale lo ritroviamo anche ne | vecchi e i giovani di Pirandello. «'They are coming to teach us good manners' risposi ‘but won't succeed, because we are gods.’ ‘Vengono per insegnarci le buone creanze ma non lo potranno fare, perché noi siamo dèi.’ Credo che non comprendessero, ma risero e se ne andarono. Così rispondo anche a Lei; caro Chevalley: i Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti: la loro vanità è forte della loro miseria; » (p. 183): vi è in questo passo una delle tante sequenze memoriali: Don Fabrizio ricorda della domanda postagli da alcuni ufficiali inglesi, poiché volevano sapere cosa fossero venuti a fare i garibaldini in Italia; il principe rispose dicendo che essi avevano come scopo quello di insegnare ai siciliani le “buone creanze”, ma non ci sarebbero riusciti data la presunzione di questi. «Noi della nostra generazione dobbiamo ritirarci in un cantuccio e stare a guardare i capitomboli e le capriole dei giovani attorno a quest’ornatissimo catafalco. Voi adesso avete bisogno di giovani, di giovani svelti, con la mente aperta al ‘come’ più che al ‘perché’ e che siano abili a mascherare, a contemperare volevo dire, il loro preciso interesse particolare con le vaghe idealità politiche.” » (p. 181): coloro di cui i liberali hanno bisogno devono essere, oltre che giovani, anche ambiziosi. Questi ultimi hanno il potere di mascherare il “particulare?” con le vaghe ideologie. In questo passo è presente un lapsus da parte del principe, che doppia quello di Chevalley. «Intravista nel chiarore livido delle cinque e mezzo del mattino, Donnafugata era deserta ed appariva disperata. Dinanzi a ogni abitazione i rifiuti delle mense miserabili si accumulavano lungo i muri lebbro: cani tremebond lestavano con avidità sempre delusa. Qualche porta era già aperta ed il lezzo dei dormienti pigiati dilagava nella strada; al barlume dei lucignoli le madri scrutavano le palpebre tracomatose dei bambini; esse erano quasi tutte in lutto e parecchie erano state le mogli di quei fantocci sui quali s’incespica agli svolti delle “trazzere.” Gli uomini, abbrancato lo “zappone” uscivano per cercare chi, a Dio piacendo, desse loro lavoro; silenzio atono o stridori esasperati di voci isteriche; dalla parte di Santo Spirito l’alba di stagno cominciava a sbavare sulle nuvole plumbee. » (p. 184): in questo passo, il principe passa in rassegna gli elementi che caratterizzano il miserabile paesaggio umano, tra cui la disoccupazione, la malattia e i rifiuti. Tutti questi concorrono a delineare l'estrema gravità della situazione siciliana. [13/01/2022] Il palazzo dei Ponteleone Se la parte IV, in cui viene narrato il “ciclone amoroso” di Tancredi e Angelica, vedeva come protagonisti questi ultimi, e la parte V invece padre Pirrone, nella parte VI il ruolo di protagonista è affidato nuovamente a Don Fabrizio. La vicenda narrata in questa parte, ovvero il ballo organizzato dai Ponteleone, rappresenta uno dei pochi eventi che avvengono in presa diretta; in particolare, tale parte è stata resa celebre dalla trasposizione cinematografica di Luchino Visconti, con la quale la pellicola si conclude*. Tale è stato il successo, che la scena del ballo è stata definita un vero e proprio “film nel film”. Per quanto riguarda l’unità di luogo, essa è senza dubbio il palazzo dei Ponteleone; l’unità aristotelica di tempo, ovvero le ventiquattr'ore che dovrebbero essere rispettate entro ogni episodio, non è rispettata: la vicenda dura infatti dalle 22:30 (ora di inizio dell'alba) alle prime luci dell'alba. Rispetto alle parti IV e V, nelle quali le rispettive vicende si collocavano in un arco temporale esteso a più giornate, nella parte VI il tempo tende a restringersi. Il capitolo si apre con la salita della famiglia Salina nel calesse, al fine di venire accompagnati al palazzo in cui si sarebbe tenuto il ballo. Anche in questa parte, come di consueto, l’autore spazia dalla descrizione fisica dei personaggi alla trasposizione dei pensieri di Don Fabrizio. «Palermo in quel momento attraversava uno dei suoi intermittenti periodi di mondanità, i balli infuriavano. Dopo la venuta dei Piemontesi, dopo il fattaccio di Aspromonte, fugati gli spettri di espropi e di violenze, le duecento persone che componevano “il mondo” non si stancavano d’incontrarsi, sempre gli stessi, per congratularsi di esistere ancora.» (pp. 211-212): in questo passo è presente una riflessione sui comportamenti della società aristocratica. L'episodio a cui si fa riferimento è il “fattaccio di Aspromonte”, avvenuto nell'agosto del 1962 in cui Garibaldi, deciso a conquistare Roma affinché diventasse capitale del neonato Regno d'Italia, venne interrotto nella sua marcia da una pallottola nel piede sparata da alcuni conservatori contrari all’annessione di Roma. Tra coloro i quali, esterni all'Italia, erano contrari a ciò, vi erano senz'altro il papa, che faceva appello al potere temporale che gli spettava di diritto, e Napoleone III di Francia, favorevole al mantenimento di tale potere. Il «mondo» si riferisce senza dubbio all’aristocrazia, consapevole di essere ormai in fase di declino, e che cerca di esorcizzare tale paura con il divertimento. Questo ballo si presenta inoltre come l'occasione ideale per presentare Angelica all’aristocrazia, e pertanto Maria Stella fa invitare i Sedara. «Erano soltanto le dieci e mezza, un po’ presto per presentarsi a un ballo quando si è il principe di Salina che è giusto giunga sempre quando la festa abbia sprigionato tutto il proprio calore; questa volta però non si poteva fare altrimenti se si voleva esser lì quando sarebbero entrati i Sedàra che (“non lo sanno ancora, poveretti”) era gente da prendere alla lettera azione di orario scritta sul cartoncino lucido dell’invito.»: i Salina, contrariamente al costume nobiliare che prevedeva si arrivasse in ritardo a un ricevimento, si presentano al palazzo alle 22:30 in punto: il motivo di ciò è da ricercare nel fatto che, secondo i Salina, anche i Sedara sarebbero giunti puntuali, poiché ancora ignari delle “regole non scritte” del mondo aristocratico. «Don Fabrizio pregustava l’effetto che la bellezza di Angelica avrebbe fatto su tutta quella gente che non la conosceva e quello che la fortuna di Tancredi avrebbe fatto su quelle stesse persone che lo conoscevano troppo. Un'ombra però oscurava la sua soddisfazione: come sarebbe stato il “frack” di don Calogero? Certo non come quello che aveva avuto addosso a Donnafugata » (p. 213): la preoccupazione di Don Fabrizio si rivolge nuovamente verso il frac di Don Calogero Sedara?, simbolo dell'ascesa della nuova classe. Onde evitare che il sindaco si presenti in maniera indecorosa, egli era stato affidato alle cure di un sarto. «Là dove la discesa dei Bambinai sbocca sull’abside di S. Domenico, la carrozza si fermò: si sentiva un gracile scampanellio e da uno svolto comparve un prete recante un calice col Santissimo; chierichetto gli reggeva sul capo un ombrello bianco ricamato in oro; davanti un altro teneva nella sinistra un grosso cero acceso, e con la destra agitava, divertendosi molto, un campanellino di argento. Segno che una di quelle case sbarrate racchiudeva un’agonia; era il Santo Viatico. Don Fabrizio scese, s'inginocchiò sul marciapiede, le signore fecero il segno della croce, lo scampanellare dileguò nei vicoli che precipitavano verso S. Giacomo, la calèche con i suoi occupanti gravati di un ammonimento salutare s'incamminò di nuovo verso la meta ormai vicina.» (p. 213): la carrozza si ferma in occasione del passaggio di una piccola processione del Santo Viatico, diretta verso la casa di un agonizzante. Da questo punto in poi, il capitolo inizierà a saturarsi di indizi mortiferi, già presenti nei capitoli precedenti ma che aumentano progressivamente negli ultimi tre capitoli. Il calice d'olio, portato dal sacerdote, è in particolare un riferimento all'estrema unzione che il principe riceverà nel prossimo capitolo. Tali simboli funebri fungono da memento mori. «“Ed aspettiamo anche il colonnello Pallavicino, quello che si è condotto tanto bene ad Aspromonte.” » (p. 214): entrati nel palazzo, i Salina sono accolti dai padroni di casa, Don Diego e Donna Margherita, il cui aspetto è definito «canuto». Don Diego nomina il colonnello Pallavicino, colui il quale ordinò che venisse sparato al piede di Garibaldi. Anche il colonnello, così come Cavriaghi e Chevalley prima di lui, è un “continentale”, ovvero un forestiero nel contesto siciliano; e come questi, anche Pallavicino sarà giudicato dagli occhi dei siciliani. «Questa frase del principe di Ponteleone sembrava semplice ma non lo era. In superficie era una costatazione priva di senso politico tendente solo ad elogiare il tatto, la delicatezza, la commozione, la tenerezza quasi, con la quale una pallottola era stata cacciata nel piede del Generale; ed anche le scappellate, inginocchiamenti e baciamani che la avevano accompagnata, rivolti al ferito Eroe giacente sotto un castagno del monte calabrese e che sorrideva anche lui, di commozione e non già per ironia come gli sarebbe stato lecito (perché Garibaldi ahimè! era sprovvisto di umorismo). In uno strato intermedio della psiche principesca la frase aveva un significato tecnico e intendeva elogiare il Colonnello per aver ben preso le proprie disposizioni, schierato opportunamente i suoi battaglioni ed aver potuto compiere, contro lo stesso avversario ciò che a Calatafimi era tanto incomprensibilmente fallito a Landi. In fondo al cuore del Principe, poi, il Colonnello si era “condotto bene” perché era riuscito a fermare, sconfiggere, ferire e catturare Garibaldi e ciò facendo aveva salvato il compromesso faticosamente raggiunto fra vecchio e nuovo stato di cose.» (p. 214): la frase pronunciata da Don Diego, sebbene possa sembrare un semplice enunciato buttato lì per fare conversazione, è invece carica di valore militare e politico: Don Diego, membro dell'aristocrazia, ammira il colonnello per aver fermato l'avanzata di Garibaldi e, contemporaneamente, per aver fermato il “compromesso della Storia”. Il Risorgimento, in questo romanzo anti-storico, è dunque visto come un compromesso tra i vecchi pote nuovi, similmente a come avveniva nella società dell’ancien regime: così facendo, esso tradisce i suoi ideali e le sue speranze. Pallavicino, nelle sue conversazioni, tende spesso a ricordare le sue gesta nell’Aspromonte, che gli procurarono una gloria duratura; tale pretesto nobile viene però in un certo senso sminuito, poiché il colonnello si serve del racconto anche per far colpo sulle nobili presenti alla festa. «Il fidanzato aveva di già insegnato ad Angelica l’impassibilità, questo fondamento della distinzione (“Tu puoi esser espansiva e chiassosa soltanto con me, cara; per tutti gli altri devi essere la futura principessa di Falconeri, superiore a molti, pari a chiunque”), e quindi il saluto di lei alla padrona di casa fu una non spontanea ma riuscitissima mescolanza di modestia verginale, alterigia neo-aristocratica e grazia giovanile. » (p. 216): il narratore spiega, in questo passo, le raccomanda: i fatte da Tancredi ad Angelica, al fine che questa venga meglio accolta dall’aristocrazia: in primis, ella deve mostrarsi “impassibile” e prendere le distanze da chiunque non meriti la sua confidenza, rendendosi dunque «superiore a molti, pari a chiunque»; in secondo luogo, le viene raccomandato di non mostrare troppa meraviglia nei confronti del lusso ostentato dei Ponteleone, consigliandole di paragonarlo ad altre opere di simile sfarzo. «ed essa cominciò già da quella sera ad acquistare la fama di cortese ma inflessibile intenditrice di arte che doveva, abusivamente, accompagnarla in tutta la sua lunga vita.» (p. 217): Angelica si costruisce abusivamente la fama di intenditrice d'arte, in quanto tale ruolo non le spetterebbe, così come l'appartenenza all'aristocrazia. La simulazione di una conoscenza che non le appartiene è a tutti gli effetti una recita; la recitazione rimanda a sua volta a quella del rosario, con cui si apre e si chiude il primo capitolo. Durante tutto il capitolo, dunque, Angelica non fa altro che indossare una maschera. «a qualche giovanotto, a dir vero, avrebbe potuto rincrescere di non aver dissepolto per sé una così bella anfora colma di monete; » (p. 216): Angelica è paragonata a un'anfora colma di monete, in quanto proviene da una famiglia della borghesia arricchita; proprio per la sua ricca dote, infatti, ella era stata scelta come sposa per Tancredi, piuttosto che per le sue qualità. Vi è dunque un ulteriore riferimento alla sfera economica del baratto. «Anzitutto, la casa non gli piaceva: i Ponteleone da settanta anni non avevano rinnovato l'arredamento ed esso era ancora quello del tempo della regina Maria-Carolina, e lui che credeva di avere dei gusti nava.» (p. 218): da questo passo in poi, vengono messi sotto il riflettore i pensie di Don Fabrizio. La prima considerazione negativa riguarda l'arredamento del palazzo, considerato “antico” e addirittura un insulto verso i suoi gusti “moderni”. Nonostante ciò, Don Fabrizio si ricorda di non aver, a sua volta, rinnovato per parecchi anni l'arredamento del suo palazzo. «Non gli si poteva dar torto; in quegli anni la frequenza dei matrimoni fra cugini, dettati da pigrizia sessuale e da calcoli terrieri, la scarsezza di proteine nell’alimentazione aggravata dall’abbondanza di amidacei, la mancanza totale di aria fresca e di movimento, avevano riempito i salotti di una turba di ragazzine incredibilmente basse, inverosimilmente olivastre, insopportabilmente ciangottanti; esse passavano il tempo raggrumate tra loro, lanciando solo corali richiami ai giovanotti impauriti, destinate, sembrava, soltanto a far da sfondo alle tre o quattro belle creature che come la bionda Maria-Palma, la bellissima Eleonora Giardinelli passavano scivolando come cigni su uno stagno fitto di ranocchie. Più le vedeva e più s’irritava; la sua mente condizionata dalle lunghe solitudini e dai pensieri astratti, finì a un dato momento, mentre passava per una lunga galleria sul pouf centrale della quale si era riunita una numerosa colonia di quelle creature, col procurargli una specie di allucinazione: gli sembrava di essere il guardiano di un giardino zoologico posto a sorvegliare un centinaio di scimmiette: si aspettava di vederle a un tratto arrampicarsi sui lampadari e da li, sospese per le code, dondolarsi esibendo i deretani e lanciando gusci di nocciola, stridori e digrignamenti sui pacific ‘atori.» (pp. 218-219): la seconda considerazione insofferente riguarda le donne presenti alla festa, giudicate molto brutte e sciatte (salvo un paio, che verranno definite dei «cigni»), e addirittura paragonate prima a ranocchie e poi a scimmiette; l’unico tratto umano da loro conservato è la frequente invocazione alla Madonna, che dà loro anche un'accezione bigotta. Questo paragone animalizzante comporta un’allucinazione nel principe: Don Fabrizio si vede infatti per un istante come il custode di un giardino zoologico. «Leggermente nauseato, il Principe passò nel salotto accanto: vece stava accampata la tribù diversa e ostile degli uomi giovani ballavano ed i presenti erano soltanto degli anziani, tutti suoi a Sedette un poco fra loro: li la Regina dei Cieli non era più nominata invano; ma, in compenso, i luoghi comuni, i discorsi piatti intorbidivano l’aria. Fra questi signori Don Fabrizio passava per essere uno “stravagante”; il suo interessamento alla matematica era considerato quasi come una peccaminosa perversione, e se lui non fosse stato proprio il principe di Salina e se non lo si fosse saputo ottimo cavallerizzo, infaticabile cacciatore e medianamente donnaiolo, le sue parallassi e i suoi telescopi avrebbero rischiato di farlo mettere al bando; però già gli si parlava poco perché l'azzurro freddo dei suoi occhi, intravisto fra le palpebre pesanti, faceva perdere le staffe agli interlocutori ed egli si trovava spesso isolato non già per rispetto, come credeva, ma per timore.» (p. 219): l’ultima considerazione spietata riguarda gli uomi presenti alla festa, con i quali il principe non riesce a trovarsi a suo agio a causa della loro mediocrità discorsi di quegli aristocratici sono infatti zeppi di luoghi comuni, così come le loro passioni (ovvero le feste, pittore francese Grueze. Nella descrizione dell’opera, l’autore si rifà al procedimento dell’ekphrasis, che consiste appunto nella descrizione di un’opera d’arte all’interno di una narrazione. Il soggetto raffigurato è un uomo a letto agonizzante, oggetto di pianto dei suoi familiari; colpiscono soprattutto le nipotine del vecchio, raffigurate in una posa che le scopre più di quanto la situazione richieda. Questo è senz'altro un riferimento alla pittura libertina del Settecento, che tendeva più a concentrarsi su dettagli erotici piuttosto che dare la giusta solennità a un tema tanto grave come la morte. Proprio nella descrizione di questo quadro vi è un'anticipazione della morte del principe, poiché egli si rivede nei panni del povero disgraziato. È necessario puntualizzare come il titolo reale dell’opera sia Il figlio punito: nel quadro è infatti possibile notare la presenza di un uomo, probabilmente il figlio del moribondo, che si batte il petto in segno di pentimento. Tale dettaglio è assente nel romanzo, sia perché l'autore voleva dare più spazio alla premonizione della morte di Don Fabrizio, sia perché il figlio di questi, Giovanni, rimarrà disertore fino alla fine. Anche la scelta del nuovo titolo non è casuale, poiché si rifà a La morte del principe, cioè il titolo della rubrica della parte VII, presente nella versione manoscritta de Il Gattopardo. «“Zione, sei una bellezza stasera. La marsina ti sta alla perfezione. Ma cosa stai guardando? Corteggi la morte?” » (p. 224): Tancredi e Angelica irrompono nella biblioteca e iniziano a punzecchiare il principe circa la sua contemplazione della morte, che si contrappone fortemente alla scena della fontana, laddove la tematica non era funebre, bensì erotica. Angelica, per far risollevare Don Fabrizio, si propone di ballare con lui la mazurka; il principe, però, preferisce il valzer, e durante il ballo, si sente ringiovanito di un anno per ogni giro compiuto; nel contempo, però, crede di aver fatto un torto a Concetta nell’averle impedito di sposare Tancredi. Poiché la ragazza ha dunque motivo di serbare rancore nei confronti del padre, è probabile che sia proprio ella la protagonista simbolica de Il figlio punito. «“Adesso la Sinistra vuoi mettermi in croce perché, in Agosto, ho ordinato ai miei ragazzi di far fuoco addosso al venerale. Ma mi dica Lei, principe, cosa potevo fare d’altro con gli ordini scritti che avevo addosso?» (p. 229): concluso il ballo, Don Fabrizio si siede accanto al colonnello Pallavicino. Questi mostra di avere dei sensi di colpa per aver ordinato di ferire Garibaldi, ma si giustifica affermando che egli stava soltanto eseguendo gli ordini. «E glie lo dico in confidenza: la mia brevissima sparatoria ha giovato soprattutto a Garibaldi, lo ha liberato da quella congrega che gli si era attaccata addosso, da tutti quegli individui tipo Zambianchi che si servivano di lui per chissà quali fini, forse generosi benché inetti, forse però voluti dalle Tuileries e da palazzo Farnese;» (p. 229): Pallavicino afferma che la ferita è stata provvidenziale anche per Garibaldi stesso: egli era così stato liberato dai suoi compagni, poiché non tutti erano animati dagli ideali del loro comandante, bensì dai propri obiettivi. Tale discorso è però di parte, contrariamente a quello successivo, dove il colonnello afferma in maniera veritiera che se Garibaldi avesse conquistato Roma, sarebbe allora intervenuta la Francia di Napoleone III a favore del mantenimento del potere temporale del papa. «Bevve il vino che gli avevano penato, ma ciò sembrò aumentare ancora la sua amarezza. “Lei non è stato sul continente dopo la fondazione del Regno? Fortunato lei. Non è un bello spettacolo. Mai siamo stati tanto divisi come da quando siamo uniti. Torino non vuoi cessare di essere capitale, Milano trova la nostra amministrazione inferiore a quella austriaca, Firenze ha paura che le portino via le opere d’arte, Napoli piange per le industrie che perde, e qui, in S sta covando qualche grosso, irrazionale gua Per il momento, per merito anche del vostro umile servo, delle camicie rosse non si parla più, ma se ne riparlerà. Quando saranno scomparse queste ne verranno altre di diverso colore; e poi di nuovo rosse.» (pp. 230-231): se in precedenza Pallavicino tendeva a mistificare i suoi racconti, sotto l'influsso del vino diventa più oggettivo: diviene infatti consapevole dell’inutilità della sua azione, poiché aveva sì salvato il compromesso, ma aveva lasciato comunque l’Italia priva del sentimento nazionale. Il colonnello ridimensiona dunque il significato della sua vittoria, che assume accezioni proprie di una sconfitta. Pallavicino non sarà l'unico continentale che fallirà nella sua impresa; in precedenza vi sono stati anche Cavriaghi e Chevalley: il primo aveva fallito nella conquista di Concetta, mentre il secondo aveva fallito nel tentativo di smuovere il carattere del principe. «Quando la famiglia si fu messa in carrozza (la guazza aveva reso umidi i cuscini) Don Fabrizio disse che sarebbe tornato a casa a piedi; un po’ di fresco gli avrebbe fatto bene, aveva un'ombra di mal di capo. La verità era che voleva attingere un po’ di conforto guardando le stelle. Ve n'era ancora qualcuna proprio su, allo zenith. Come sempre il vederle lo rianimò; erano lontane, onnipotenti e nello stesso tempo tanto docili ai suoi calcoli; proprio il contrario degli uomini, troppo vicini sempre, deboli e pur tanto riottosi. » (p. 232): conclusa la festa, mentre il resto della famiglia si reca al palazzo tramite il calesse, Don Fabrizio decide di tornarsene a piedi, in modo tale da contemplare le stelle. Queste sono definite come lontane, onnipotenti e docili, contrariamente invece alla natura degli uomini, i quali sono vi , deboli e riottosi. Subito dopo vi è un riferimento funebre: passa infatti un carro contenente i resti dei buoi macellati, scena anticipata precedentemente nel capitolo. Il capitolo si chiude con l'apparizione della stella di Venere, la quale è oggetto di una doppia metafora: da una parte, essa è personificata, assumendo l'aspetto di una donna che ha concesso vari appuntamenti al principe, soprattutto nelle sue battute di caccia all'alba e in compagnia di Ciccio Tumeo; dall'altra, essa diventa metafora della morte tanto corteggiata dal principe, con la quale egli vorrebbe un definitivo e più concreto appuntamento. La parte VII si colloca dal punto di vista temporale ben vent'anni dopo rispetto agli avvenimenti della parte VI, nel luglio del 1883. La stagione è dunque quella estiva, scelta non casuale poiché si riallaccia altema dell’aridità del territorio siciliano, a sua volta metafora di morte in quanto privo d’acqua, la quale è invece simbolo della vita. «Don Fabrizio quella sensazione la conosceva da sempre. Erano decenni che sentiva come il fluido vitale, la facoltà di esistere, la vita insomma, e forse anche la volontà di continuare a vivere andassero uscendo da lui lentamente ma continuamente come i graneli he si affollano e sfilano ad uno ad uno, senza fretta e senza soste, dinanzi allo stretto oi di un orologio a sabbia. In alcuni momenti d’intensa attività, di grande attenzione questo sentimento di continuo abbandono scompariva per ripresentarsi impassibile alla più breve occasione di silenzio o d’introspezione, come un ronzio continuo all'orecchio, come il battito di una pendola s’impongono quando tutto il resto tace; e ci rendono sicuri, allora, che essi sono sempre stati li vigili anche quando non li udivamo. » (p. 235): l'acqua come metafora della vita è presente anche in questo passo: Don Fabrizio si sente infatti progressivamente privato del fluido vitale, e questa secchezza doppia l’aridità del territorio siciliano. La fuoriuscita di tale fluido presenta anche una componente acustica, che diventa più intensa con il progredire del tempo: in questo caso si può dunque parlare di un climax ascendente. È presente un’altra immagine barocca: la vita viene infatti paragonata a dei granellini di sabbia che inesorabilmente scorrono nella parte inferiore di una clessidra, riprendendo comunque la rappresentazione antica della vita come clessidra. «Talvolta si sorprendeva che il serbatoio vitale potesse ancora contenere qualcosa dopo tanti; anni di perdite. “Neppure se fosse grande come una piramide.” Tal altra volta, più spesso, si era inorgoglito di esser quasi i solo ad avvertire questa fuga continua mentre attorno a lui nessuno sembrava sentire lo stesso; e ne aveva tratto motivo di disprezzo per gli altri, come il soldato anziano disprezza il coscritto che si illude che le pallottole ronzanti intorno siano dei mosconi innocui. Queste sono cose che, non si sa poi perché, non si confessano; si lascia che gli altri le intuiscano e nessuno intorno a lui le aveva intuite mai, nessuna delle figlie che sognavano un oltretomba identico a questa vita, completo di magistratura, cuochi, conventi e orologiai, di tutto; non Stella che divorata dalla cancrena del diabete si era pure aggrappata meschinamente a questa esistenza di pene. Forse solo Tancredi per un attimo aveva compreso quando gli aveva detto con la sua ritrosa ironia: “Tu, zione, corteggi la morte.” Adesso il corteggiamento era finito: la bella aveva detto il suo sì, la fuga decisa, lo scompartimento nel treno, riservato.» (p. 236): ritorna l’immagine del corteggiamento della stella di Venere, metafora della morte. Il principe si chiede come abbia fatto ad avere tanto fluido vitale nel corso della sua esistenza; questo era poi divenuto vapore acqueo, in seguito trasformato in nuvola, secondo il principio lucreziano che recita “nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma”. Sul letto di morte, Don Fabrizio comprende come il suo lungo corteggiamento della morte sia ormai giunto al termine. «Era arrivato la mattina da Napoli, poche ore fa; vi si era recato per consultare il professore Sémmola. Accompagnato dalla quarantenne figlia Concetta, dal nipote Fabrizietto, aveva compiuto un viaggio lugubre, lento come una cerimonia funebre. » (p. 237): in questo passo ritorna il tema del viaggio: il principe viene infatti portato via treno a Napoli, dove sarebbe stato ricevuto dal dottore Semmola e avrebbe ottenuto un responso circa le sue condizioni. Improvvisamente, però, egli sviene. AI suo risveglio, si ritrova nel vagone di un treno con accanto il nipote Fabrizietto e Tancredi; quest’ultimo si rivolge a lui con tenerezza, privo della sua solita ironia. Da questo, il principe comprende come le sue condizioni siano critiche, e che dunque non si possa più fare nulla per salvarlo. Poiché non si riesce a trovare il tempo per riportarlo alla villa, Don Fabrizio viene condotto nella camera dell'albergo Trinacria, laddove trascorrerà le sue ultime ore. Appena giunto, viene assistito da un medico, il quale presenta a sua volta dei connotati funerei: egli viene infatti paragonato a un otre dalla pelle consumata che perde le sue ultime gocce di olio. Il principe, prima di coricarsi, si guarda allo specchio e nota la sua faccia irriconoscibile: si chiede dunque perché gli uomini debbano morire con una maschera in volto, portando l'esempio del suo primogenito Paolo e del soldato Borbonico trovato morto nel giardino della villa, entrambi con la faccia stravolta. «ripensò al proprio osservatorio, ai cannocchiali destinati ormai a decenni di polvere; al povero Padre Pirrone che era polvere anche lui; ai quadri dei feudi, alle bertucce del parato, al grande letto di rame nel quale era morta la sua Stelluccia; a tutte queste cose che adesso gli sembravano umi anche se preziose, a questi intrecci di metallo, a queste trame di fili, a queste tele ricoperte di terre e di succhi d’erba che erano tenute in vita da lui, che fra poco sarebbero piombate, incolpevoli, in un limbo fatto di abbandono e di oblio; il cuore gli si strinse, dimenticò la propria agonia pensando all’imminente fine di queste povere cose care. » (p. 240): nella sua agonia, il principe passa in rassegna le “povere cose care”, ovvero i suoi oggetti che nel corso degli anni si erano caricati di significati affettivi, sebbene non avessero un grande valore monetario. Tra questi, vengono citati i cannocchiali, i quadri dei feudi, le bertucce che decoravano le pareti, tutte raffinatezze che si distinguono dal resto degli oggetti. «Tanto odioso. Con la sua doppia dose di sangue Maàlvica, con gl’istinti goderecci, con le sue tendenze verso un’eleganza borghese. Era inutile sforzarsi a credere il contrario, l’ultimo Salina era lui, il gigante sparuto che adesso agonizzava sul balcone di un albergo. Perché il significato di un casato nobile è tutto nelle tradizioni, nei ricordi vitali; e lui era l’ultimo a possedere dei ricordi inconsueti, distinti da quelli delle altre famiglie; Fab. tto avrebbe avuto dei ricordi banali, eguali a quelli dei suoi compagni di ginnasio, ricordi di merende economiche, di scherzucci malvagetti agli insegnanti, di cavalli acquistati avendo l’occhio al loro prezzo più che ai loro pregi; ed il senso del nome si sarebbe mutato in vuota pompa sempre amareggiata dall’assillo che altri potessero pompeggiare più di lui. Si sarebbe svolta la caccia al matrimonio ricco quando questa sarebbe divenuta una routine consueta e non più un'avventura audace e predatoria come era stato quello di Tancredi. Gli arazzi di Donnafugata, i mandorleti di Ragattisi, magari, chissà, la fontana di Anfitrite avrebbero avuto la sorte grottesca di esser metamorfizzati in terrine di foie-gras presto digerite, in donnine da Ba-ta-clan più labili del loro belletto, da quelle delicate e sfumate cose che erano. E di lui sarebbe rimasto soltanto il ricordo di un vecchio e collerico nonno che era schiattato in un pomeriggio di Luglio proprio a tempo per impedire al ragazzo di andare a fare i bagni a Livorno. Lui stesso aveva detto che i Salina sarebbero sempre rimasti i Salina. Aveva avuto torto. L'ultimo era lui. Quel Garibaldi, quel barbuto Vulcano aveva dopo tutto vinto.» (p. 241): Fabrizietto, nipote di Don Fabrizio e probabilmente figlio di Paolo, viene paragonato alla figura del nonno; egli, poiché appartenente a un'altra generazione, era cresciuto in un ambiente sempre più vicino alla borghesia piuttosto che alla nobiltà, e per tanto non può considerarsi un vero continuatore della stirpe dei Salina, che aveva visto come ultimo rappresentante l’ormai morente Don Fabrizio. Più che un Salina, dunque, Fabrizietto è da considerarsi un Sedara. Viene chiamato in causa Garibaldi, il quale, secondo il principe, appuntamento, e lo sfondo è privo di qualunque elemento che possa anche lontanamente suggerire che la donna ritratta sia effettivamente la Madonna. Al contrario, la trepida attesa nella quale ella è raffigurata dà al quadro un non velato significato erotico. «La Vergine è sul punto di consegnare la Santa Missiva ed invoca dal Figlio Divino la protezione sul popolo messinese; quella protezione che è stata gloriosamente concessa, come si è visto dai molti miracoli avvenuti in occasione del terremoto di due anni fa.”» (p. 254): in questo passo è chiamato in causa il popolo messinese, che due anni prima fu costretto a subire il terribile terremoto che distrusse Messina e Reggio Calabria; la Madonna della lettera dovrebbe appunto fungere da protezione per questi. Si passa dunque dalla fabula mitologica a quello religiosa. «“Bella pittura, signorina; qualunque cosa rappresenti è un bei quadro e bisogna tenerlo da conto.” » (p. 254): questa battuta fatta dal monsignore lascia intendere come egli abbia ben capito che il ritratto, considerato sacro dalle Salina, è in realtà profano; pertanto, egli esprime un giudizio proprio di un critico d’arte, piuttosto che di un vicario. «“E così Lei, padre Titta, ha avuto il fegato di celebrare per anni il Santo Sacrificio dinanzi al quadro di quella ragazza? Di quella ragazza che ha ricevuto l'appuntamento ed aspetta l’innamorato. Non venga a dirmi che anche Lei credeva che fosse una immagine sacra.” “Monsignore, sono colpevole, lo so. Ma non è facile affrontare le signorine Salina, la signorina Carolina. Lei questo non può saperlo.” Monsignore rabbrividì al ricordo. “Figliolo, hai toccato la piaga col dito; e questo sarà preso in considerazione.” » (p. 255): avendo dunque compreso come il ritratto presente al di sopra dell’altare fosse profano, una volta uscito dal palazzo, il monsignore rimprovera il cappellano, perdonandolo poi dopo aver capito come le Salina non fossero donne molto propense a essere controbattute. «Monsignore guardò con una certa fretta alcune delle cornici più a portata di vista. “Tesori” diceva “tesori; che bellezza di cornici.” Poi, congratulandosi dei belli arredi (proprio così disse, dantescamente) e promettendo di ritornare l'indomani con Sua Eminenza (“sì, alle nove precise”), si genuflette e si segnò rivolto a una modesta Madonna di Pompei appesa su una parete laterale, e uscì dalla cappella. » (p. 255): dopo il ritratto, a essere oggetto di controllo sono anche le 74 reliquie conservate dalle sorelle Salina, con tanto di documenti che attestano la loro autenticità. Anche qui, il vicario da un giudizio più simile a quello di un artista che a quello di un uomo di fede, e li definisce dantescamente “belli arredi”: vi è dunque un chiaro rimando al canto XXIV dell'Inferno, dove lo stesso termine è utilizzato dal ladro di sacrestie Vanni Fucci. Ma il vicario non da velatamente delle ladre alle Salina, poiché elle sono incoscienti che le loro reliquie fossero state rubate: la ladra è invece la loro ricettatrice, donna Rosa. «aveva scovato donna Rosa, una grassissima vecchia, per metà monaca, che possedeva relazioni fruttuose in tutte le chiese, tutti i conventi e tutte le opere pie di Palermo e dintorni. Era stata questa donna Rosa a portare a villa Salina ogni paio di mesi una reliquia di santi avvolta in carta velina. Era riuscita, diceva, a strapparla ad una parrocchia disagiata o a un casato in decadenza.» (pp. 254-255): viene dunque presentata donna Rosa, commerciante di reliquie sacre conosciuta da Carolina, che dimostra di avere un certo zelo religioso; a questo si contrappone il suo vero mestiere di ladra di sacrestie, poiché ella suole rubare le reliquie dalle chiese a scopo di arricchirsi. «All’autenticità di quelle reliquie essa aveva creduto assai poco ed aveva pagato con l'animo indifferente di un padre che salda il conto di giocattoli che a lui stesso non interessano ma che son serviti a tener ragazzi; la rimozione di quegli oggetti le era indifferente; ciò che la pungeva, ciò che costituiva l’assillo di quel giorno era la brutta figura che casa Salina avrebbe fatto adesso di fronte alle autorità ecclesiastiche e fra poco di fronte alla città intera; la riservatezza della Chiesa era quanto di megl potesse trovarsi in Sicilia ma non voleva ancora significare molto; fra un mese, fra due, tutto sarebbe dilagato come tutto dilagava in quest'isola che anziché la Trinacria dovrebbe avere a proprio simbolo il siracusano Orecchio di Dionisio che fa rimbombare il più lieve sospiro in un raggio di cinquanta metri.» (pp. 257-258): la scoperta della falsa autenticità delle reliquie impensierisce Concetta, poiché teme che ciò possa guastare i rapporti tra i Salina e la Chiesa; questo è infatti l’ultimo rapporto che può fungere da fonte di prestigio per la casata, poiché ormai essa è decaduta sia a livello sociale che economico. «Sulle pareti ritratti, acquarelli, immagini sacre; tutto pulito, in ordine. Due cose soltanto potevano forse apparire inconsuete: nell'angolo opposto al letto un torreggiare di quattro enormi casse di legno dipinte in verde, ciascuna con un grosso lucchetto; e davanti ad esse, per terra, un mucchietto di pelliccia malandata. Al visitatore ingenuo la cameretta avrebbe, se mai, strappato un sorriso, tanto chiaramente vi si rivelava la bonarietà, la cura di una vecchia zitella. Per chi conoscesse i fatti, per Concetta, essa era un inferno di memorie mummificate. Le quattro casse verdi contenevano dozzine da notte, di vestaglie, di federe, di lenzuola accuratamente suddivise in “buone” e “andanti”: il corredo di Concetta invano confezionato ci i fa; quei chiavistelli non si aprivano mai per timore che saltassero fuori demoni incongrui e sotto l’ubiquitaria umidità palermitana la roba ingi isfaceva, inutile per sempre e per chiunque.» (pp. 256-257): in questo passo è presentata la camera di Concetta, che diventa il luogo chiave della seconda parte del capitolo. Essa è costellata da reliquie pagane, che si contrappongono alle reliquie sacre custodite dalle sorelle: esse consistono in un quadro del padre, la pelliccia di Bendicò imbalsamato e alcune casse di legno, contenenti il suo ormai inutilizzato corredo matrimoniale; proprio per questo, e perché Concetta era sempre stata fedele all'amore per Tancredi, ella si rifiuta di aprire le casse, in quanto contenenti ricordi dolorosi; nel contempo, però, ella si rifiuta di buttarle. Ritorna qui la logica del compromesso. «Se si fosse ben guardato nel mucchietto di pelliccia tarlata si sarebbero viste due orecchie erette, un muso di legno nero, due attoniti occhi di vetro giallo: era Bendicò, da quarantacinque anni morto, da quarantacinque anni imbalsamato, nido di ragnatele e di tarme, aborrito dalle persone di servizio che da decenni ne chiedevano l'abbandono all’immondezzaio: ma Concetta vi si opponeva sempre: essa teneva a non distaccarsi dal solo ricordo del suo passato che non le destasse sensazioni penose. » (p. 257): circa la pelliccia di Bendicò imbalsamato, essa rappresenta l’unica reliquia che non risveglia in Concetta ricordi dolorosi, e pertanto ella si rifiuta di buttarla, sebbene sia fortemente usurata dal tempo. «“Concetta cara!” “Angelica mia! da quanto tempo non ci vediamo!” Dall’ultima visita erano passati soltanto cinque giorni, per esser precisi, ma l'intimità fra le due cugine (intimità simile per vicinanza e per sentimenti a quella che pochissimi anni dopo avrebbe stretto italiani ed austriaci nelle contigue trincee), l’intimità era tale che cinque giorni potevano veramente sembrar molti.» (p. 258): nell'incontro tra Concetta e Angelica vi è l'ironia pungente di Tomasi: se il loro rapporto all’esterno è cordiale, all'interno esse sono assimilabili all’Italia e all'Austria, che si troveranno ad affrontarsi quattro anni dopo nello scenario della Grande Guerra. Ciò dimostra come, anche a distanza di cinquant'anni, Concetta covi in cuor suo ancora della rivalità nei confronti di Angelica. «A proposito cara, il Sindaco di Salina è un clericale ed ha rifiutato di prender parte alla sfilata; così ho pensato subito a tuo nipote, a Fabrizio: era venuto a farmi visita e tac! lo ho acchiappato; non ha potuto dirmi di no e così alla fine del mese lo vedremo sfilare in palamidone per via Libertà davanti a un bel cartello con tanto di ‘Salina’ a lettere di scatola. Non ti sembra un bel colpo? Un Salina renderà omaggio a Garibaldi, sarà una fusione della vecchia e della nuova Sicilia.» (p. 259): Angelica è entrata a far parte del comitato di organizzazione del cinquantenario dell'unificazione d’Italia, e giunge alla villa dei Salina per far sfilare in capo alla marcia Fabrizietto; vi è dunque una seconda morte di Don Fabrizio, poiché il nipote, appartenendo alla generazione degli “sciacalletti”, viene meno all'ideologia immobilista propria del principe e di Tancredi; oltretutto, è ormai evidente come le famose parole di Tancredi, “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”, si siano dimostrate falsamente profetiche. «Certo sarebbe assurdo dire che Concetta amasse ancora Tancredi; là eternità amorosa dura pochi anni e non cinquanta; ma come una persona da cinquant'anni guarita dal vaiolo ne porta ancora le macchie sul volto benché possa aver dimenticato il tormento del male, essa recava nella propria oppressa vita attuale le cicatrici della propria delusione ormai quasi storica, storica a tal punto anzi che se ne celebrava ufficialmente il cinquantenario. Ma fino ad oggi quando essa, raramente, ripensava a quanto era avvenuto a Donnafugata in quell’estate lontana si sentiva sostenuta da un senso di martirio subito, torto patito, dall’animosità contro il padre che la aveva sacrificata, da uno struggente sentimento riguardo a quell’altro morto; questi sentimenti derivati che avevano costituito lo scheletro di tutto il suo modo di pensare si disfacevano anch'essi; non vi erano stati nemici ma una sola avversaria, essa stessa; il suo avvenire era stato ucciso dalla propria imprudenza, dall’impeto rabbioso dei Salina; le veniva meno adesso, proprio nel momento in cui dopo decenni i ricordi ritornavano a farsi vivi, la consolazione di poter attribuire ad altri la propria infelicità, consolazione che è l’ultimo ingannevole filtro dei disperati. » (p. 263): Angelica è accompagnata da Tassoni, ex compagno d'armi di Tancredi e amante di Angelica. Al suo arrivo nella villa, egli spiega come la storia dell’irruzione nel monastero raccontata dall’ormai defunto Tancredi in occasione del pranzo con i Sedara? era stata totalmente inventata e quindi non era avvenuta veramente; poiché in quell'occasione Concetta si era indignata dal racconto e aveva cominciato a provare un forte rancore sia verso Tancredi che verso il padre, in seguito a questa rivelazione comprende di essere stata fin troppo impetuosa nel portare rancore verso il cugino, e che in tutti quegli anni la sua antagonista non era stata Angelica, bensì sé stessa. Questa può senz'altro essere vista come una punizione di Concetta, e pertanto è possibile affermare che il quadro “Il figlio punito” sia un riferimento alla donna. «“Dimenticavo re che le cornici sono in ordine sul tavolo della cappella; alcune sono veramente belle.” Si congedava. “Signorine, i mi spetti.” Ma Caterina si rifiutò di baciargli la mano. “E di quel che c’è nel cestino cosa dobbiamo fare?” “Assolutamente quel che vogliono, signorine; conservarle, o buttarle nell’immondizia; non hanno valore alcuno.” » (p. 267): vi è infine la visita del cardinale arcivescovo, anch'egli un continentale il cui scopo è quello di cambiare la Sicilia. Egli ispeziona la cappella e le reliquie, giungendo alla conclusione che esse sono prive di qualunque valore sacro e che quindi possono anche essere buttate nell’immondizia. «Concetta si ò nella sua stanza; non provava assolutamente alcuna sensazione: le sembrava di ‘ere in un mondo noto ma estraneo che già avesse ceduto tutti gli impulsi che poteva dare e che consistesse ormai di pure forme. Il ritratto del padre non era che alcuni centimetri quadrati di tela, le casse verdi alcuni metri cubi di legno.» (p. 268): a Concetta pare di vivere un mondo estraneo, lontano anche in relazione alle stesse reliquie. Viene descritto il ritratto di Don Fabrizio, la cui grande mole era stata quasi fatta prigioniera della piccola cornice del quadro, come per castigo. Il mondo che è ormai lontano è quello del casato; poiché l’esistenza di questo è dipendente dai ricordi trasmessi dalle stesse reliquie, nel momento in cui queste diventano estranee, gli stessi ricordi si polverizzano. Le reliquie sono metafore dunque del mondo nobiliare, e l'attività di collezionismo di queste da parte delle sorelle Salina può configurarsi come un estremo tentativo di non far morire quel mondo. Le reliquie sono le “povere cose care” che Don Fabrizio nomina nel capitolo precedente. «Mentre la carcassa veniva trascinata via, gli occhi di vetro la fissarono con l’umile rimprovero delle cose che si scartano, che si vogliono annullare. Pochi minuti dopo quel che rimaneva di Bendicò venne buttato in un angolo del cortile che l’immondezzaio visitava ogni giorno: durante il volo giù dalla finestra la sua forma si ricompose un istante: i i sarebbe potuto vedere danzare nell’aria un quadrupede dai lunghi baffi e l'anteriore destro alzato sembrava imprecare. Poi tutto trovò pace in un mucchietto di polvere livida. » (p. 268): per eliminare completamente qualunque rapporto con il vecchio mondo, Concetta lancia dalla finestra nell’immondezzaio la pelliccia dell'ormai imbalsamato Bendicò, che la guarda quasi come se volesse rimproverarla di quell’atto. Nel volo, tale pelliccia sembra animarsi, richiamando la stessa figura del Gattopardo che alza una zampa in segno di imprecazione. Questa immagine può essere vista come lo stesso fantasma di Don Fabrizio, che impreca verso la nuova generazione di “sciacalletti” che, diventando la nuova classe dirigente, hanno decretato la fine della casata nobiliare dei Salina. 1: cfr. cap VI, “la descrizione dei nobiluomini”
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