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Appunti su Kierkegaard corso Teoretica 2023-2024, Appunti di Filosofia Teoretica

Panoramica completa su Kierkegaard con integrazioni e note. Argomenti trattati nello specifico: "il concetto dell'angoscia" e "la malattia per la morte".

Tipologia: Appunti

2023/2024

Caricato il 08/12/2023

martinapanzavolta
martinapanzavolta 🇮🇹

4.8

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53 documenti

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Scarica Appunti su Kierkegaard corso Teoretica 2023-2024 e più Appunti in PDF di Filosofia Teoretica solo su Docsity! FILOSOFIA TEORETICA (LM) Stefano Besoli IL SENTIMENTO DELL’ANGOSCIA: IL TEMA DELL'ESISTENZA E DELLA DISPERAZIONE NELLA FILOSOFIA DI KIERKEGAARD 18.09.2023 Il corso si svilupperà come studio polifonico sull’angoscia. Del resto, il terreno di questo sentimento è difficile da restringere. Dove sta l’angoscia? Quale è il suo segreto? Vediamo subito che il tema è molto trasversale – si pensi ad ambiti come psicologia, psichiatria, psicanalisi. Possiamo dire che Kierkegaard è la matrice di questa grande discussione. Søren Kierkegaard (5 maggio 1813 – 11 novembre 1855) è stato un filosofo e un teologo (ha molto inciso sia sul versante teologo che su quello protestante); il suo pensiero è da alcuni studiosi considerato il vero punto di avvio dell’esistenzialismo. Egli è autore di numerosi testi e la bibliografia su di lui è molto vasta1. Padre Cornelio Fabbro è stato il primo a tradurre Kierkegaard in italiano. Il centro di studi kierkegaardiani ha sede a Copenaghen. In realtà, Kierkegaard è un autore poco battuto, perlomeno lo è stato negli ultimi anni. Tuttavia, è un autore fondamentale per una serie di motivi: innanzitutto, è colui che ha inaugurato quel filone di studi che chiamiamo in maniera sintetica “esistenzialismo”. Per di più, è un personaggio abbastanza curioso: egli stesso si considera una sorta di segnale che si annuncia solo quando il temporale minaccia. In effetti, Kierkegaard non sa bene quale sia la “tempesta”, che ha inizio con la sua vita – da considerarsi parte integrante, quest’ultima, della sua filosofia: non sono tanti i filosofi in cui vita e filosofia sono così legati. Invece, Kierkegaard sente su di sé che c’è qualcosa che è finito: è come se si creasse uno iato fra quello che c’era stato prima e quello che ci sarà a partire dalle sue riflessioni. Eppure, anche prima di lui qualche segnale c’era già stato: qui parliamo delle due grandi figure di riferimento per Kierkegaard, ovvero Socrate e Cristo. In primo luogo (1), il Socrate di Kierkegaard è il Socrate dell’ironia socratica e della maieutica, è il Socrate che spinge il pensiero umano fino ai suoi limiti, fino al tema del paradosso – dietro l’ultima parola di Socrate non c’è infatti l’idea di Platone, ma il mistero, la trascendenza, che è sempre irraggiungibile. Del resto, il pensiero socratico spesso si è imbattuto in incomprensioni da parte dei suoi discepoli; invece, quello che lui dice non ha mai avuto valore di significato filosofico in senso stretto. Con Kierkegaard, possiamo concepire Socrate in maniera più sottile: il dialogo socratico conduceva il discepolo a staccarsi da se, sentendo su di sè la situazione effettiva dell’uomo. In effetti, il tema dell’uomo è il tema fondamentale attorno a cui ruota tutta la filosofia di Kierkegaard. Più tardi, Binswanger dirà che il più grande problema dell’uomo è il problema dell’essere uomo, un problema che Kierkegaard aveva già posto alla base della sua filosofia, fin dal riferimento a Socrate, a una verità che nessuno potrà mai sviluppare, ma si potrà sentire e vivere (per questo, il contenuto sarà esistenziale). Tuttavia, già per Kierkegaard 1 «Potete cercare aggiornamenti su gu-ghel» (cit). 1 nella storia dell’umanità l’insegnamento socratico era stato tradito: i “tradimenti” si collocano proprio nell’arco temporale vicino a quello della sua attività Kierkegaard. In particolare, il vero e proprio tradimento è stato compiuto dalle esigenze sistematiche del “papà” del nostro autore: stiamo parlando di Hegel. La polemica Hegel-Kierkegaard è effervescente: il sistema hegeliano viene pungolato proprio per la singolarità della esistenza. In Kierkegaard, l’uomo viene chiamato singolo: non è tanto l’io, l’individuo, il soggetto, ma il singolo – si sottolinea con enfasi questa condizione di individualità e solitudine. In secondo luogo, (2) Cristo è quella figura di accompagnamento che ha rinnovato certe forme di socratismo. Certamente quello avanzato da Kierkegaard è un esistenzialismo cristiano; tuttavia, non mancheranno lunghe polemiche con i vertici della chiesa danese, in particolare con il cardinale Mynster. Kierkegaard opera una separazione fra cristianesimo e cristianità: è quest’ultima che rappresenta una degenerazione della vita dell’uomo cristiano – con la cristianità, l’uomo si solidifica. Per Kierkegaard l’uomo si scopre tale nell’ineliminabile condizione di peccatore – questo emerge soprattutto nel testo La malattia per la morte, ma anche nel Diario2. Dunque, l’uomo è se stesso quando scopre di essere peccatore, e lo scopre quando si trova al cospetto del volto di Dio. Al di là del demoniaco, su cui dovremo “intrattenerci”, è proprio nella sua profonda interiorità che l’uomo scopre di essere peccatore – certamente non nella reificazione, nella esteriorizzazione, nella massa. Vediamo alcuni temi trattati da Kierkegaard. Ernst Bloch immortala Kierkegaard come una sorta di playboy di Copenaghen: in effetti, ha vissuto una parte della sua vita vivendo come un seduttore – questo può emergere dai suoi testi di ambito estetico come Don Giovanni e Aut Aut – che fumava, che beveva birra, che faceva quella vita un po’ dissoluta che in termini heideggeriani potrebbe essere definita come la dimensione del Si, dell’impersonalità. Questo rientra nel discorso che concerne il tema degli stadi esistenziali della vita (1), il quale non va inteso come stadi dialettici dello spirito, né come successione di passaggi in linea retta. Gli “stadi” sono qualcosa che nasce dal profondo e che vanno colti come esperienze di carattere esistenziale che si fanno prima di raggiungere l’estremo limite che è quello rappresentato dalla solitudine, in cui l’uomo si trova di fronte alla potenza divina, al percorso angosciante e disperante della trascendenza. Negli altri stadi, l’uomo si trova a essere anestetizzato, acquietato in quelli che sono per Kierkegaard i modi inferiori della vita, come il modo estetico che lui stesso ha coltivato. In particolare, il modo estetico è quello che riduce la vita a vuota forma, che riduce l’esistenza a un puntino rispetto all’infinito aprirsi di tutte le possibilità. A questo proposito, abbiamo il tema della possibilità (2), e quello dell’angoscia (3) che ne scaturisce: noi dobbiamo scegliere fra possibilità infinite, e questo ci dà angoscia. Di più l’errore, che interessa a Kierkegaard avviene in questa congiuntura: è qui che il 2 Diario è una delle tre sezioni dell'imponente opera del filosofo danese Søren Kierkegaard intitolata Papirer, ovvero Carte, scritta fra il 1834 e l'anno della sua morte, il 1855.[1]. Nel Diario, il filosofo ha raccolto nel tempo i suoi pensieri e le sue profonde angosce, le sue considerazioni teologiche e filosofiche, nonché le ampie polemiche rivolte alla sua chiesa e ai suoi più alti rappresentanti, non risparmiando i filosofi, in particolar modo quelli che si definivano cristiani. Fin dall'inizio dei suoi studi universitari il giovane Soeren inizia a distinguersi per il suo fervido ingegno e il suo carattere eccentrico. Il profitto scolastico non eccellente, i contrasti con la famiglia che lo accusa di spendere troppi soldi, i rimproveri del padre desideroso di vedere il "figliol prodigo" sostenere l'onorevole esame di teologia lascerebbero pensare a una persona dissoluta e incostante. Ma la sua vita disordinata era solo la maschera di profondi conflitti interiori, una lotta perennemente alimentata dal grande paradosso della verità cristiana. La storia personale di Kierkegaard che emerge dalle pagine del suo Diario rivela tutte le più sottili articolazioni della sua filosofia, e insieme l'anima di un uomo per cui la vita e il pensiero furono la stessa cosa. 2 non fosse così, verrebbero meno (1) l’imputabilità dell’individuo e, dall’altra parte, (2) il non trascurabile aspetto della bontà della creazione. In ogni caso, l’interesse per questa problematica spiega per certi versi la profonda inattualità della sua opera; infatti, nella tradizione di pensiero la sua opera fu quasi trascurata. Nell’Ottocento, lo sviluppo della coscienza storica spingeva la teologia a focalizzarsi solo sul tema della rivelazione e del suo rapporto con la storia: un tema come questo allora sembrava di poco conto. In effetti, la stessa concezione del peccato dominante nella teologia protestante non fu toccata dalla prospettiva Kierkegoordiana che guardava il peccato nella accezione di prima. La fortuna di Kierkegaard avvenne invece grazie alla traduzione tedesca e in relazione a determinate catastrofi di carattere epocale, come la Prima guerra mondiale. I momenti bui della storia dell’uomo rappresentano l’allargarsi di un fenomeno che non è la mera constatazione di una negatività, ma di una volontà del nulla, che nullifica l’esistenza stessa, presentandosi come una sorta di volontà di potenza. Sono questi elementi che hanno determinato il Novecento, dove poi la ricezione di Kierkegaard si è accentuata. Qualcosa c’era già stato anche al d fuori idi quest’ambito. È da qui quella che in inizio la Kierkegaard-renassance, la rinascita degli studi Kierkegaard. Questo ha dato importanti contribuiti all’opera di Karl Barth, un filosofo svizzero luterano su cui Kierkegaard ha inciso molto9. Più in generale, la teologia dell’ultimo secolo può essere considerata “un commento a Kierkegaard”, parafrasando la celebre citazione di White10. Ad esempio, Paul Tillich, un grande teologo, pensava questo di Kierkegaard. Di fatto, quello che ci importa di Kierkegaard è l’influsso che hanno avuto le sue categorie in filosofi come Heidegger, che era molto parco di citazioni ma lo cita in Essere e tempo, e poi molto spesso lo fa di traverso; come Jaspers, oppure Sartre, che lo cita sia da filosofo che da letterato. Tutti questi hanno sviluppato le proprie problematiche secondo concetti ripresi da Kierkegaard e non mutuati dalla teologia. In questo modo hanno potuto fluire di un metodo un po’ più appropriato. Di fatto, nell’opera di Kierkegaard vi sono racchiusi tutti i “motivi” della filosofia dell’esistenza – sia nei suoi sviluppi religiosi che in quelli non religiosi. Ci si può avventurare nelle sue pagine ritrovandovi tutti i temi esistenzialistici che Kierkegaard non aveva invece potuto trarre da autori precedenti, ma che aveva appena ripreso e tratto dalla sua esperienza. Poi dopo di lui verranno imitatori ed epigoni – va beh, anche scrittori grandiosi come Heidegger, che però hanno ripreso e trascritto quei motivi che Kierkegaard aveva colto faticosamente e con profondità dalla propria esperienza. La sua opera, nell’intero, è una sorta di immenso diario, di confessione che a volte avviene più o meno direttamente, viene racchiusa come fantasma poetico, come comunicazione indiretta, quasi come se usasse uno stratagemma letterario. Kierkegaard tiene quasi sempre il piede in due staffe: si assume il compito di velare e svelare, e lo fa anche perché molte delle sue opere sembrano non scritte da lui. L’ambiguità era appunto desiderata da Kierkegaard, che è stato spesso raffigurato come una sorta di giano bifronte. La duplicità è interessante perché non si ritrova in altri autori. È importante perché in fondo Kierkegaard è condannato a parlare di sé stesso, non può che farlo. La sua opera è una confessione, nel fare questo e per fare questo ricorre all’artificio poetico di tutta una serie di maschere. La maschera messa sul volto fa si che l’autore si ritragga 9 Una delle sue opere fondamentali è Lettere romane del 1919. In questa opera di teologia dialettica viene messo al centro il dualismo concepito in maniera esistenzialistica, un rapporto dualistico e non conciliabile. La sua irreconciliabilità diventa in qualche modo la condizione stessa della religione, respingendo anche l’ipocrita mediazione della teologia liberale. 10 Secondo cui tutta la filosofia sarebbe un commento a Platone. 5 sullo sfondo: la prima maschera è quella del più vigile delle sentinelle (Vigilius Haufiensis): per cogliere l’angoscia non bisogna essere addormentati, anestetizzati, ma bisogna tenere gli occhi aperti di fronte alla rassicurante anonimia della vita quotidiana. Si vede così che in Kierkegaard ha origine non solo la filosofia esistenzialistica ma anche la letteratura dell’esistenza. Infatti, la teoria di Kierkegaard della comunicazione indiretta mentre da un lato eleva a significato dottrinale la legge dell’autore, dà anche il via all’incipit del romanzo di intonazione esistenzialistica. La filosofia che si è soliti battezzare quasi negativamente come filosofia dell’esistenza, non farà altro che raggelare in una terminologia filosofica e in stampi concettuali la materia incandescente dell’esperienza umana che invece si sente pulsare nella pagina di Kierkegaard, dove tutto avviene in maniera più drammatica. Tutto questo ritorna in una delle tante straordinarie metafore che Kierkegaard stesso scrive – ce ne sono di bellissime -e che prefigura il suo successo: lui vede la sua opera come un fiume, il Guadalquivir, un fiume carsico, che si inabissa e rispunta, e con esso il letto si allarga, bagna e feconda le linee più diverse – non arriva solo ai filosofi, ma un po' ovunque. La presenza spirituale di Kierkegaard si avverte quasi di più in altri ambiti – Kafka, Camus, Dostoevskij; ma anche in ambito filosofico, negli stessi anni della fortuna di Nietzsche. Del resto, Kierkegaard è lo scrittore in cui la crisi della nostra epoca è stata vissuta in maniera più radicale. Dietro alle questioni di cui parleremo è evidente che c’è una krisis, in senso giuridico (si assolve e si condanna), ma anche in senso medico ed eziologico. Il tema della crisi viene descritto in maniera radicale proprio da Kierkegaard: il centro della problematica esistenzialistica è la coscienza della crisi. È la tempesta che si annuncia: una crisi dei valori, e una crisi che investe anche i valori materiali. Lo stesso modo di essere dell’uomo fa tutt’uno con la crisi. Pensiamo all’ultima opera di Husserl: la crisi delle scienze europee, quasi in senso medico: se ce la farà o non ce la farà a superare la situazione; è una crisi che riguarda anche le questioni dell’industrialismo, capitalismo, socialismo, capitalismo, e così via. Da un punto di vista culturale, colui che aveva elevato a dignità filosofica il tema della alienazione e della estraneazione è stato ancora Hegel: egli diceva che per passare da uno stato di natura a quello civile l’uomo si espone a perdere se stesso per vivere in mondi immaginari, creati in maniera oggettiva. Per Hegel l’alienazione è necessaria nel processo dialettico; viceversa, nelle prime pagine dello scritto c’è un attacco alla dialettica hegeliana. Per Kierkegaard, Hegel viene criticato perché aveva escogitato gli strumenti concettuali adatti a valutare l’alienazione, quindi non poteva giungere a una vera coscienza della crisi che invece passa per una dialettica esistenziale, che ha nel tema della fede la sua chiave. 19.09.2023 Per ora, Kierkegaard è un esistenzialista cristiano. Abbiamo iniziato a vedere alcuni dei momenti contrappostivi che caratterizzano il suo pensiero. Vedremo anche qualche aspetto saliente della sua biografia – sono straordinari i suoi Diari, un’opera immensa che viene prima delle pubblicazioni e le cui pagine punteggiano il suo pensiero e il suo sentire. Fra le parole d’ordine dell’esistenzialismo di Kierkegaard, troviamo: l’esperienza umana, l’angoscia, il peccato. In particolare, Il concetto dell’angoscia è un testo che non è facile collocare in un qualche scaffale della biblioteca. Innanzitutto, il tema è quello dell’angoscia, siamo in un periodo in cui la psicologia sta guadagnando la scientificità, ma è una psicologia colta dal punto di 6 vista umanistico. Il problema più grande in Kierkegaard, prima dell’angoscia, è il problema dell’essere uomo; soprattutto, esso è coniugato alla questione centrale in questo testo, quella che riguarda il peccato. Abbiamo dunque una questione strettamente legata al cristianesimo: vedremo in cosa consiste la sua critica e dove andrà a parare. Fra le varie eredità di Kierkegaard c’è la teologia novecentesca, cattolica e protestante (Barth, Tillich, etc). Oltre l’intonazione religiosa, la cifra della sua filosofia (espressione di Jaspers) è la teoria degli stadi: le categorie rappresentano un momento eteronomo rispetto al materiale sensibile: intuizione e concetto faticano a stare insieme, tutta la critica della ragion pura subisce e patisce questa giustapposizione. Kierkegaard sposta il tema: esistenzialismo significa affrontare le questioni che attengono al vivere individuale, che attengono il singolo . Nella fattispecie, anche lui è il singolo. Nel libro di Karl Lowith, Da Hegel a Nietzsche, il pensiero di Kierkegaard assume un luogo importante per il pensiero del Novecento. In Nietzsche si ritrovano molti aspetti di Kierkegaard: la crisi del nichilismo non è solo la crisi di valori, non è solo una crisi dei fondamenti, ma è anche una crisi che deriva dalla società civile, dalla politica, dall’economia, è la crisi delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni che hanno caratterizzato quegli anni. Anche se il tema dell’alienazione viene ripreso da Hegel, il modo sistematico in cui quest’ultimo lo affronta non può soddisfarlo. Ovviamente, siamo ben lungi dal ritenere che tutto ciò che Kierkegaard dice su Hegel sia da prendere “come oro colato”; tuttavia, ci interessano le ragioni interne alla sua filosofia. Il tema dell’alienazione è un tema che è diventato luogo comune anche nelle nostre vite dopo il 1831 (morte di Hegel). Nella storia dell’Ottocento ci sono stati grandi oppositori di Hegel: fra questi, anche se meno conosciuti, sono importanti Beneke 11e Fries12; dopo di lui anche Nelson 13, che si rifà a entrambi. Kierkegaard però nella sua critica a Hegel è più originale. Sappiamo che in Hegel alienazione è parola che fa tutt’uno con Marx, il quale però ha “rovesciato” Hegel e posto al centro i fattori della dinamica storica. Marx ha tradotto Hegel nel linguaggio della economia politica: quando il lavoro si degrada in merce, l’uomo viene reificato; ciò significa che nel registro della filosofia marxiana non ci sono più delle leggi di natura, perché le leggi che importano sono le leggi dell’economia capitalistica: l’uomo risulta condizionato da fattori che sono fattori artificiali, innaturali e disumani. Marx ha una chiara coscienza, storicamente senz’altro più chiara; solo che interpretando questa critica in chiave economicista ha finito per identificare diagnosi, prognosi e terapia al capitalismo… ma poi? L’idea di Marx e Lenin nasce dalla alienazione considerata una minaccia, ma diviene sempre di più una soluzione illusoria alla minaccia stessa: si va nell’utopia e in qualcosa che scade a ideologia. Più vicina all’esistenzialismo di Kierkegaard è Il disagio della civiltà di Freud: il disagio è il progredire di una crisi per cui alla lunga si scopre che ogni rimedio è 11 Psicologo e filosofo tedesco, allievo di Schopenhauer. 12 Nominato nel 1805 professore straordinario di filosofia all'Università di Jena insieme al suo rivale, Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Fries si trasferì quello stesso anno ad Heidelberg per assumervi la cattedra di Filosofia e Matematica elementare (ampliata dal 1812 anche a Fisica). 13 Filosofo e matematico tedesco, esponente della scuola neo-friesiana, Nelson fu amico del matematico David Hilbert e sviluppò il paradosso dell'eterologicità di Grelling-Nelson insieme a Kurt Grelling. Durante il suo dottorato all'Università Georg-August di Gottinga, egli scrisse una tesi dal titolo Jakob Friedrich Fries und seine jüngsten Kritiker (Jakob Fries e i suoi più giovani critici in italiano), nella quale espanse il pensiero del filosofo. Presentò invece critiche alla dottrina di Georg Wilhelm Friedrich Hegel nel suo lavoro Fortschritte und Rueckschritte in der Philosophie (Progresso e regresso in filosofia). È anche conosciuto per aver difeso i diritti degli animali nello scritto System der philosophischen Ethik und Pädagogik (Sistema di etica filosofica e pedagogica)[1]. 7 prima. Quell’Ottocento è un periodo importante dal punto di vista storico per la Danimarca. Dopo il congresso di Vienna, il re di Danimarca, Cristiano III, aveva perso la Norvegia; da quel momento, le sorti dello stato danese traballano, e questo diventa una pedina nelle mani dei padroni, nelle mani di Bismark. Come dice Amleto, «c’è del marcio in Danimarca»15, e Kierkegaard si butta con Shakespeare in maniera letterale su questo. Nel suo Diario scrive che quel piccolo paese (la Danimarca) è stata la sua sventura16. Aggiunge: la Danimarca basta per una sola persona, e quella persona sono io. Il problema vero per Kierkegaard non è che non ci sono altre persone intellettuali in Danimarca – del resto, Amleto dice a Orazio che ci sono più cose in cielo e in terra di quante siano nella nostra filosofia. Kierkegaard sembra avere in mente questo quando nel 1844 dice che la filosofia danese non arriverà a prendere piede, ma non partirà dal nulla: ovvero, questa filosofia danese non vorrà spiegare tutto senza presupposti, ma comincerà con il presupporre che ci sono molte cose fra cielo e terra che il filosofo non è riuscito a spiegare . La reminescenza dell’Amleto allora non poteva essere più precisa: quello che fu il dramma preferito anche da Goethe, è stato il dramma di un certo intellettualismo che sostituisce e che ha sostituito alla vita una sorta di speculazione che vuole negarsi e tenersi al riparo dalla vita. Quel dramma sarà anche un problema di Husserl. Tutti i nuovi paradigmi della scienza dimostrano che non è che non si sapesse più fare di conto: non è che la scienza fosse in crisi: le scienze sempre più avanzate non riuscivano a dare una risposta definitiva al pensiero dell’uomo. Il mondo della vita, il mondo precategoriale, è quello da cui nascerebbe la scienza. Tutte nascono dal grande genio Galileo che ha scoperto e occultato. Il mondo scritto in termini matematici? Anche in Husserl pulsa il tema della vita. L’intellettualismo è un intellettualismo che si traduce in scientismo e che tende a sostituire alla vita una forma di speculazione, o è la proiezione della realtà nell’estetica: l’essere assorbito della realtà nella dimensione estetica. Si istituiscono delle finzioni che sembrano più reali della vita stessa. L’esistenza e la vita vengono in qualche modo tradite. Kierkegaard invece vuole ristabilire i rapporti della vita anche nei confronti di ogni estetizzazione. È quello che sta fra terra e cielo: in cielo stanno i massimi sistemi, in terra ci stanno le versioni più materiali di ogni estetizzazione. Per Kierkegaard ci sono invece molte cose in cielo e in terra che non possono risolversi con la simbologia filosofica. Ad esempio, in terra ci sono molte altre cose anche di carattere geopolitico e storico. Fra terra e cielo però non c’è una dialettica della continuità, ma una dialettica della discontinuità che necessita di un salto, Sprung, come sappiamo legato al termine origine (Ursprung)17: un salto fra l’infinitezza della fede e la finitezza, in cui permane l’ambiguità, l’angoscia e peccato. La relazione fra terra e cielo può essere descritta anche come qualcosa che Shakespeare fa dire a Re Lear: io ti insegnerò le differenze. Ci sono tre o quattro cose che vanno sottolineate per cogliere il senso di questa opera. Kierkegaard sta dalla parte di chi decide, ma non necessariamente fra negativo e positivo: non è un ritorno al manicheismo, il peccato non è qualcosa di cui si può occupare la morale. È proprio perché sta dalla 15 Io non ci credevo che fosse una vera cit. Invece: «"Something is rotten in the state of Denmark". Si tratta della celebre frase pronunciata da Marcellus, ufficiale danese, nell'Amleto di William Shakespeare (Atto I, scena IV), durante la prima apparizione dello spettro. La frase viene oggi utilizzata per dire che in un determinato contesto esistono congiure e discordie interne» (da una pagina di gu-gle). 16 È un po' lamentoso (cit). 17 Nell'Ursprung, la parola tedesca dell'origine, c'è il salto, il balzo (Sprung) e, na- turalmente, l'idea che tutto ciò giungerà in un tempo inaugurale e natale (Ur-). 10 parte della decisione che al centro dell’esergo 18 del concetto dell’angoscia ci vuole dare una chiave di lettura. Scrive che si è perso il tempo delle decisioni, al posto di questo si è instaurato il tempo del sistema. Il tempo della distinzione è passato: il sistema l’ha superata . Chi ai giorni nostri continua ad amarla passa per un acchiappanuvole, la cui anima è attaccata a una cosa da lungo scomparsa. Sia pure così; tuttavia, Socrate resta quello che è, il semplice savio, per quella sua distinzione caratteristica, che fu egli stesso a formulare e che condusse alla perfezione, quella distinzione che due millenni più tardi l’eccentrico Hamann ripeté per primo con ammirazione: «Perché fu grande per il fatto che egli distingueva fra quello che comprendeva e quello che non comprendeva». (Esergo) Partiamo dall’inizio. Hegel nelle opere giovanili aveva contrapposto intelletto e ragione: aveva contrapposto l’intelletto scientifico e quello metafisico, che connota le cose o in un modo o nell’altro (Aut Aut), alla ragione, il luogo della mediazione del pensiero. L’intelletto rappresentava per Hegel un livello preliminare, la ragione costituiva invece una coscienza più evoluta. In Kierkegaard, Hegel compare subito quindi, compare per primo e indirettamente – la mossa è sottile – viene già criticato attraverso il richiamo a un sistema che pretendeva di avere superato la distinzione. Kierkegaard lega infatti subito la mediazione dialettica con il suo archetipo socratico che invece manteneva una fondamentale distinzione: con il so di non sapere, il “tempo di Socrate” è il tempo in cui c’è piena ammissione di ciò che si comprende e ciò che no. Il limite del tempo di Kierkegaard e di Hegel sta nel fatto di non sapere di non sapere: l’ammissione è invece riconoscere questa distinzione. Questo incipit prelude a una consapevolezza dei limiti dell’operare dell’uomo, che non può pretendere di spiegare tutto. La ragione non può pensare di rischiarare ogni zona oscura: il tempo a cui lui si richiama è un tempo anteriore all’esistenza. Per Kierkegaard, essere filosofi significa riconoscere anche le zone d’ombra della realtà, rispetto alle quali la ragione deve arrestarsi, ammettendo che non può essere in grado di venire a capo a queste zone d’ombra, nemmeno operando una chiarificazione intellettuale. Nelle dieci righe dell’esergo, oltre a Socrate, cita anche un altro filosofo: Hamann. Quest’ultimo è stato un autore di memorie socratiche: nelle trattazioni manualistiche è stato spesso sacrificato – forse la sua fama è poca perché aveva la sfortuna di essere un concittadino di Kant. Ad ogni modo, Hamann contrapponeva al concetto di ragione kantiana la necessita di insistere sulle aperture del linguaggio: il linguaggio non può essere racchiuso nel tribunale della ragione. Prima dell’esergo, sotto al titolo, si trova: Semplice riflessione per una dimostrazione psicologica orientata in direzione del problema dogmatico del peccato originale. Nell’esergo e in questo già si evidenziano le linee di fondo di questo pensiero: la critica all’intellettualismo (esergo) e lo statuto delle sue riflessioni di carattere religioso (qui). Quest’ultimo tema continua a legare l’opera all’autobiografismo letterario di Kierkegaard. Il tema di fondo della sua vita è il tema del peccato. 18 Anche se sappiamo che cosa è un esergo, ricordiamone il significato di partenza: l'esergo (dal latino exèrgum, a sua volta dal greco ex, fuori, ed èrgon, opera) è quello spazio limitato che in una moneta si trova sotto il disegno principale (più raramente sopra) e talora da esso staccato con una linea orizzontale. È così chiamato proprio perché rimane "fuori opera", fuori cioè dal disegno, che costituisce invece la parte essenziale della moneta. 11 Kierkegaard nasce quando la madre aveva 44 anni e il padre 56. Sua madre era la seconda moglie del padre, era stata la governante del padre. La governante-madre fece 5-6 prima di Kierkegaard, che però morirono. La tragedia della famiglia aveva però permesso di riversare su Kierkegaard tutte le attenzioni intellettuali19. La maledizione è innanzitutto per la colpa e per il peccato del padre. Kierkegaard si sente sopravvissuto, paga il tributo con la vita quando i fratelli lo avevano pagato con la morte. Qua vicino c’è il significato del titolo La malattia per la morte. Legato alla figura di Lazzaro, il problema è quello di una nuova vita, di una nuova nascita tramite l’angoscia. Tutto questo si traduce nel fatto che il pensiero di Kierkegaard non può essere distaccato dalla sua esposizione letteraria e dalla qualità di essa. La sua opera vuole essere quasi maieutica: estrae la verità attraverso il dialogo, la estrae dall’animo dell’interlocutore. La maieutica di Kierkegaard mira però a provocare un atto di fede, perché l’atto di fede è l’atto di rinnovamento verso una trasformazione della moralità. Ma entriamo di più nel testo e iniziamo a trattare del tema dell’angoscia. Ci sono delle metafore straordinarie nel testo. La prima ci dice che bisogna andare alla scuola dell’angoscia, la scuola anche della possibilità. Non bisogna avere paura di frequentare questa scuola – solo i cretinetti (cit), gli stolti si ritraggono. Per Kierkegaard esiste una scuola che l’uomo deve frequentare a tutti i costi e con molta serietà: la si deve frequentare con serietà per vivere come uomo spirituale e libero. Il tema della finitudine c’è anche in Kierkegaard, ma legato a quello delle possibilità infinite. Questa è la scuola dell’angoscia, espressione che sembra paradossale: l’angoscia è uno stato d’animo, è uno stato affettivo ed emozionale, una condizione che qualifica l’esistenza umana come condizione disagevole. Perché avere a che fare con l’angoscia? Uno potrebbe dire, .preferisco far il liceo scientifico – persino il classico (cit). Il problema è sottile: molti credono di potere sfuggire all’angoscia, ma non è qualcosa di cui si può fare a meno. Gli stolti non solo credono questo, ma proprio perché credono questo spesso finiscono per deriderla. C’è anche un parallelo fra il tema dell’angoscia e il tema della follia. I maggiori psichiatri hanno capito che la follia è qualcosa che sta scritto nell’uomo, è qualcosa che prima o poi capita. È un problema serio, non ci si può illudere da quelli che sono i turbamenti. Nell’uomo arriva l’apparire della libertà: decisione, scienza, angoscia. Il tema della coscienza comporta l’affacciarsi del mondo sconfinato delle possibilità. È qualcosa di difficile da tenere in testa, è labile, accompagna l’itinerario spirituale dell’uomo sempre compreso fra tempo ed eterno. Essa è l’angusto passaggio che ci porta verso l’atto, è la porta stretta del paradiso. Anche questa è una definizione carica di significato religioso: coloro che sono fin troppo legati alla finitezza e alla dimensione estetica, coloro che sono incantati dalle attrattive del mondo sensibile, devono accostare i propri limiti e ritrovare la propria interiorità, riscoprendo colpevolezza e miseria. Dio e l’eterno sono raggiungibili asolo attraverso il turbamento nel quale tutte le certezze vacillano. 20.09.2023 19 All’unico sopravvissuto era toccato il nascere non solo in Danimarca ma anche in quella famiglia (cit). 12 angoscia, mentre gli psicologi la traducono ansia, gli psichiatri parlano invece di ansia quando si riferiscono ai soli aspetti fisici. C’è poi chi considera l’angoscia come uno stadio più grave dell’ansia e chi tiene distinti i due termini perché pensano che sia una condizione fisiologica e psicologica. Come dire che l’ansia è qualcosa che possiamo sopportare e tollerare e l’angoscia no. Molto spesso si pensa che l’ansia sia una cosa che non deve essere curata o tenuta sotto controllo, talvolta si pensa che l’essere in ansia sia propedeutico al conseguimento dell’obiettivo (ansia prima di una prova): hanno tolto perlopiù ogni sfumatura a questa problematica. Se osserviamo lo sviluppo di questo tema, vediamo che si tende a distinguere fra l’angoscia – minaccia indefinita di cui non conosciamo precisamente la causa – e la paura e il timore che uno stato affettivo può essere la paura di qualcosa. L’angoscia però è un sentire rispetto al quale non riesco a individuare una causa indefinita: sono tutte possibilità che non riesco a governare; del resto, devo scegliere, ma le scelte sono infinite. Questa distinzione che è stata formulata da Kant ha anche dei riscontri linguistici. Alcuni psicologi inoltre suggeriscono che fra paura e angoscia vi è continuità, perché affermano che in comune a questi stati affettivi vi è una sorta di preoccupazione che dà tormento, ma è una eccitazione che ci induce ad evitare dei pericoli, ci mette nelle condizioni di fuggire al pericolo. Questa continuità che certi psicologi o ideologi tendono ad assumere fa si che in certe lingue, anche se ci sono due termini per esprimere paura e angoscia, finiscono per essere usati in maniera interscambiabile, e alla distinzione non corrisponde a un uso semantico dei vari casi. In questo caso, lo stesso termine copre più posizioni che vanno allo stadio della paura fino agli stadi angosciati più complessi. L’angoscia della libertà, della colpa o per la colpa. Anche Freud distingue far una angoscia reale, la normale paura di qualcosa, e una angoscia nevrotica, che è caratterizzata da una certa indeterminatezza. All’interno dell’ampio spettro degli stati affettivi poi si possono distinguere le sensazioni (Empfindungen), che hanno un risvolto corporeo e fisico, dalle tonalità emotive, gli stati d’animo (Stimmungen). Quest’ultima ha dentro la parola Stimmung, che vuol dire “voce”: anstimmen come verbo significa accordare, intonare dal punto di vista del canto, e accordarsi – da qui il tema della tonalità: sopra ancora ci sono i sentimenti, gli stati d’animo più originari in cui ciascuno di noi fa esperienza della nostra condizione animale. Alla luce di una determinata Stimmung, la nostra esistenza e quella del mondo in cui viviamo ci appare in una determinata veste. Questo ci induce a prendere posizione nei suoi confronti in maniera immediata, diretta, e talvolta irriflessa. Le Stimmungen, che sono le tonalità emotive e affettive, danno una impronta uniforme a tutti gli atti della nostra vita, da quelli più bassi a quelli più elevati. Dunque, una certa Stimmung legata all’angoscia finirà per influire sugli atti di cui si compone la nostra esistenza. Quindi non è un caso che Heidegger, che ha investito molto su questi temi, assegni un ruolo decisivo alle Stimmungen: esse sono una costitutive dell’esistenza umana. L’angoscia non trova posto fra i concetti tradizionali, è un presupposto di carattere esistenziale, una categoria di tipo emotivo che dischiude all’uomo il segreto della sua natura. Il “chi è l’uomo” riguarda proprio la sua stessa condizione di peccatore: nel momento stesso in cui riconosce di essere un peccatore, l’uomo arriva finalmente sulla soglia di darsi una costituzione compiuta. Questo è il momento in cui compie il salto nella fede e in cui arriva a confrontarsi con quella potenza infinita alla quale deve la sua stessa posizione. 15 L’angoscia è quindi, per Kierkegaard, legata al peccato originale, anzi il presupposto che può spiegarlo; al contempo, è anche la conseguenza del peccato. Commettere un peccato significa anche essere angosciati per averlo commesso: l’universalità del peccato è tale anche perché coloro che mancano alla consapevolezza del peccato si trovano loro malgrado nella condizione di essere. L’angoscia accompagna anche quel peccato che è la mancata consapevolezza di essere peccatori, una ulteriore sfumatura. Per questo l’angoscia ci accompagna come un’ombra e l’uomo non può essere così stolto da pensare di non avere una ombra . Il peccato originario è qualcosa che grava su di noi. Quando parliamo, di desiderio, di avversione, di odio, sono tutti sentimenti diretti, ovvero rivolti all’oggetto. Invece, le tonalità emotive come gioia, noia e angoscia sono semplicemente modi di avvertire e di cogliere quella che è nel suo complesso lo stato della nostra esistenza , quella che è la sua intonazione di fondo – per usare i termini. Se per esempio le sensazioni corporee producono piacere o dolore, se i sentimenti sono intenzionalmente rivolti all’oggetto di essi, ciò si avverte per il fatto che la direzionalità attiva questo e mostra come un certo fatto possa essere qualcosa che è buono per me e che andrebbe intenzionalmente evitato. Viceversa, le tonalità emotive danno una sorta di valutazione complessiva, hanno una sorta di caratura olistica, ci danno il quadro dell’insieme della situazione in cui ci troviamo. L’angoscia diventa un concetto rilevante solo in concomitanza con una sensibilità diffusa come quella del nichilismo – la sensibilità nichilistica si colloca ai primi decenni del Novecento. Solo qui acquista la dignità dell’esistenziale per eccellenza, e qualifica la natura dell’uomo. La scarsa attenzione per l’angoscia che si era registrata nella storia della filosofia occidentale si spiega con il fatto che quest’ultima è stata caratterizza a lungo da un certo logocentrismo. Da Platone e Aristotele si sviluppa infatti una visione prevalentemente logocentrica, il che significa che c’è una sostanziale avversione per temi come quelli dell’angoscia: prima, tutto ciò che rientrava in questo ambito era valutato come qualcosa di irrimediabilmente irrazionale. In effetti, è solo negli ultimi due secoli che affettività, emozione ed angoscia vengono ripresi da filosofi come Shelling, Schopenhauer, etc., che hanno messo in discussione nuovamente anche il tema del corpo. Grazie a questo sviluppo di pensiero, la sfera delle passioni e degli affetti ha riacquistato una importanza decisiva. Nella modernità aveva preso piede l’idea che la realtà fosse ordinata; anche se dopo Hegel questa figura indiscriminata nella “razionalità del mondo” viene meno e prende sempre più piede, malgrado i trionfi della scienza e della tecnica, l’idea che l’uomo è preda dell’angoscia di fronte alla vita. «Alla faccia di quell’ordinamento che dovrebbe regnare e che dovrebbe acquietarci!» (cit). L’angoscia solleva dunque quel mare magnum che tutti conosciamo e su cui Freud ha costruito la sua psicologia che riguarda le pulsioni e gli istinti. Questo il tema della sessualità nel modo in cui ne tratta Freud: qualcosa che si agita in noi anche in maniera inconscia: non siamo padroni in casa nostra, in noi sono agite situazioni di cui non siamo consapevoli, l’uomo non è comprensibile nemmeno a se stesso. Da qui la via della fede e della religione. Ma torniamo nel testo. Prima della vera e propria Introduzione, Kierkegaard scrive una Prefazione, in cui dice una cosa forse anche abbastanza banale, in cui emerge che questo libro è responsabilità dell’autore. Kierkegaard ricorda che chiunque vogli ascrivere un libro deve riflettere molto e, se possibile, deve procurarsi ciò che è stato prima scritto sull’argomento. Ad esempio, Freud aveva scandagliato quasi tutta la letteratura per assicurarsi che coloro che lo avevano preceduto rappresentassero una novità. Kierkegaard dice: bisogna scandagliare tutto lo 16 scibile, vedere se tutto è già stato prefigurato. Perché scrivere un libro se non è originale? Questa premessa ci fa capire che, se dice questo, è perché ritiene con un po' di modestia che prima di lui non ci sia stato nessuno che abbia toccato in questo modo questo tema. Subito dopo ci dice anche che ogni individuo in ogni generazione ha la sua pena, senza bisogno di abbracciare tutto il mondo contemporaneo con la sollecitudine di una paterna solidarietà. Smettiamola di fare quei gesti idealistici “alla Hegel”: filosofici he hanno pensato di essere condottieri di un’epoca, «che hanno messo le braghe al mondo» (cit), che sono stati i Napoleone del pensiero. Prima ancora che negare la possibilità oggettiva di un tentativo di questo genere si attesta semplicemente che non c’è bisogno di questi gesti perché, dal punto di vista della sua filosofia, non occorre intraprendere una fatica di questo genere. Kierkegaard aggiunge che quando si pretende di dominare conoscitivamente il futuro si finisce per fare una profezia mirabolante, le cui vesti sono quelle dei filosofi sistematici. Sono ironicamente come si immaginano essere degli Atlanti (figura greca che tiene su il mondo) ricurvi sotto i libri. Nella Prefazione, Kierkegaard da prova non solo di essere ironico, ma anche di essere autoironico. Del resto, tutta la sua opera è improntata sull’ironia di matrice socratica: Kierkegaard vuole essere l’antitesi di quel filosofo sistematico che volendosi prendere sul serio pretende di spiegare tutta la realtà e di portare il peso del mondo sulla sua schiena. Tenersi lontani dalla speculazione di senso hegeliano mostra che sotto una maschera ce ne è sempre possibile un’altra. Se la maschera non è che uno dei modi di presentarsi – in latino maschera è persona – sotto di essa ce ne è sempre un’altra: allora, c’è un rimando senza fine al problema in termini di identità. La vera e propria Introduzione all’angoscia è costituita da pagine molto agglutinate, brachilogiche. Sono anche un po' difficili da seguire nella loro organicità, anche laddove si sviluppa in maniera intensiva. Molti aspetti stilistici di Hegel rientrano a fare parte della poetica kierkegaardiana: questo capita a molti filosofi post hegeliani: si è tanto più vicini a Hegel quanto più ci si vuole distanziare. Il tema della dialettica hegeliana infatti non riguarda solo gli aspetti qui trattati da Kierkegaard, ma anche un andamento preciso della sua scrittura. Quella di Kierkegaard è una dialettica degli stadi della vita, e anche se è una dialettica con cui battibecca, estremamente hegeliana. Kierkegaard scrive subito un chiarimento sullo scopo di questo libro. Tema del libro è il concetto dell’angoscia, ma vista anche dal punto di vista di ciò che appartiene al tema del peccato. L’angoscia interessa la psicologia, certo, ma il problema non è semplicemente questo: vi è il problema della dogmatica, del modo in cui l’angoscia riguarda il dogma del peccato. Già nel sottotitolo di questa opera aveva indicato che si tratta di una “modesta” riflessione per dare una dimostrazione psicologica orientata in direzione del problema dogmatico del peccato originale. Il tema è questo: si occupa di angoscia per mostrare che essa è legata al peccato. A tutta prima, il movimento anche un po' dialettico di Kierkegaard mostra che il problema della angoscia coinvolge un oggetto che non può essere totalmente consegnato alla psicologia. Da una parte, certamente, comprende la natura della psicologia, proprio perché l’oggetto è già direzionato e aperto a occuparsi anche della questione a cui è strettamente legato, quello del peccato, della dogmatica; ma solo a un primo sguardo Kierkegaard può essere concepito come uno psicologo. Il suo non è uno studio semplicemente psicologico, è piuttosto anche psicologico, nel senso che si occupa di una introduzione al peccato originale. Senza questo collegamento, la analisi 17 aveva rimosso il tema del peccato. Per Kierkegaard, i suoi contemporanei, che non erano solo illuministi, stavano attraversando una sorta di obnubilamento. Infatti, il libro viene scritto da Vigilio Haufiensis perché il tema deve essere affrontato da uno scrittore sveglio. Questi si definisce «un profano che specula», ma non nel senso della filosofia speculativa che Kierkegaard ha in odio, perché è qualcuno che specula al di fuori dei canoni hegeliani, Se […] sembra un’esagerazione che io porti un nome latino, sarò ben contento di assumere il nome più comune di Christen Madsen, poiché grandemente desidero di essere considerato un profano che specula, certo, ma nello stesso tempo è molto lontano dalla speculazione hegeliana, anche se nella mia fede nell’autorità io sono tanto devoto quanto erano tolleranti i romani nel loro culto di Dio. (Introduzione, p 15) Vigilio è la sentinella di Copenaghen, non fa la guardia per garantire ordine e quiete sociale: è qualcuno che vigila attentamente per rimuovere quella oscurità. Spesso le forme di illuminismo acefalo sono invece andate a parare nell’oscurantismo. Illuminati erano davvero solo i filosofi di un tempo, proprio perché era un tempo illuminati di luce – i tempi contemporanei sono invece avvolti dall’oscurità. Il difetto dell’epoca moderna è quello di avere trascurato il peccato; eppure, l’uomo moderno è un peccatore e solo nel momento in cui si riconosce tale avrà maturato il proprio sé. Si tratta quindi di stabilire una connessione fra questa idea e quella della autodeterminazione dell’uomo. L’uomo, in quanto soggetto, è autonomo, libero, e risponde responsabilmente delle proprie scelte e di ciò che da esse deriva. A questo fine era necessario sottoporre ad analisi il III libro della Genesi: Kierkegaard non è soddisfatto dalle diverse dogmatiche “su piazza”, non solo cristiane ma anche protestanti, perché tutte hanno estrapolato e la storia del pensiero umano è arrivata ad avere un inizio un po' fantastico, un preludio divino. Di fatto, destoricizzare la figura di Adamo ha significato attribuire una importanza eccessiva e anche indebita al primo peccato, ovvero al peccato di origine del fantomatico primogenitore. Ma Kierkegaard si chiede: il peccato originale coincide veramente con il peccato del primo uomo? (qui siamo già nel CAPITOLO PRIMO) Subito dopo l’incipit Kierkegaard continua con una considerazione di carattere epistemologico: afferma che uno studio scientifico – si noti che pur essendo esistenzialista religioso, non rinuncia alla scientificità, e quindi al definirsi in un ambito determinato – se abbandona il campo dell’indagine arriva a risultati apparenti. Del resto, ogni campo di scienza ha i suoi limiti – anche Kant, e prima di lui Locke, aveva tracciato i limiti dell’intelletto umano. Ogni campo scientifico ha i propri limiti e ogni ricerca scientifica non può permettersi di varcarli; viceversa, questo è successo più e più volte. Un errore di questo genere è stato compiuto, ad esempio, da Hegel. Sappiamo che il motto che punteggia il panlogismo hegeliano è: «tutto ciò che è reale è razionale». La ragione, che è disperata, può includere in sé la realtà; la logica, che è solo pensiero, sarebbe quindi in grado di raggiungere la realtà e finirebbe per identificarsi con essa. Ma la realtà è qualcosa di molto diverso dalla logica: la logica è valida solo nel suo campo, che è un campo astratto, e nella sua astrazione non è come il campo della realtà, e la realtà è qualcosa di diverso e di irriducibile, è qualcosa che resiste. La realtà è irremendabile, non possiamo modificarla a piacimento. Dilthey, grande filosofo di fine Ottocento, diceva infatti che la realtà è ciò che ci sta di fronte e che ci pone in una sorta di resistenza. Viceversa, Hegel non ha distinto la peculiarità delle due ricerche: ha finito per renderle astratte. Kierkegaard lo ribadisce: 20 la logica non è altro che forma del pensiero; al massimo, è un esperimento di pensiero, ma non è mai una realtà esistenziale. Si comincia a capire che il singolo non è più il “soggetto” in senso hegeliano. Per Hegel, la libertà è costituita dal razionale, ed è legata al concetto. Invece, l’incontro fra razionalità e realtà, se guardiamo alla figura di Pietro, ad esempio, non c’è: esistenzialmente è il percorso della fede che può dare soluzione a quella questione che non può mai essere risolta concettualmente. Se questo fosse possibile, bisognerebbe dire che c’è una scienza che cogliendo la realtà la coglierebbe tutta, la fagociterebbe. La realtà finirebbe per essere mangiata dalla logica, entrerebbe tutta. Questo aspetto deteriore comporterebbe che non ci sarebbero altre scienze. Invece, c’è viceversa la prova negativa del fatto che non c’è identità fra logica e realtà: nessuna scienza può esaurire la realtà . Di fatto, ognuna ha un ambito di indagine e di ricerca, anche se poi ci sono dei legami anche ristretti. Il fatto che ci siano delle vicinanze e dei rapporti, anche di legami di natura contenutistica, non significa che siano la stessa cosa. Il pluralismo delle scienze è dato dal fatto che nemmeno l’insieme è in grado di esaurire tutta la realtà esistenziale. C’è sempre qualcosa che va al di là della singola scienza; e ciò determina il progresso delle scienze. Questo avviene perché la realtà esistenziale è discordante: dunque, pretendere di unificare la realtà esistenziale equivale a creare un accordo verbale, ma del tutto vano. Quando si crede che questo accordo verbale rappresenti una armonia, allora succede che la realtà si vendica. Comportandosi in questo modo, lo scienziato fa un qualcosa di disonesto e spaccia per realtà assoluta qualcosa che non lo è. Kierkegaard invece ricorda che il fatto che ogni scienza ne richieda un’altra coincide con il fatto che ogni scienza ha un presupposto. Quest’ultimo, un presupposto che è, come tale, indimostrato, una specie di assioma, ma che al contempo è proprio ciò che permette la varietà delle ricerche e dello stesso sapere. Alla base di questo c’è il fatto che ogni forma di sapere ha la necessità del presupposto, e lo dimostrano qui la psicologia e la dogmatica. Il presupposto è ciò che viene prima, ciò che è al di fuori di ogni scienza determinata. Per Hegel, invece, non solo la ragione era in grado di cogliere il reale, ma la ragione era il reale, si identificava con esso. In altre parole, ciò che Kierkegaard vuol dire lo si può dire in questo modo: la filosofia, che è il pensiero riflesso, la scienza stessa, non è mai in grado di cogliere il tutto, ma ha sempre a che fare con una parte del tutto, con un campo specifico, con un tema. Nel linguaggio di Kant, una metafisica che esaurisce la totalità del mondo è qualcosa di impossibile. Kant aveva infatti iniziato una battaglia contro la metafisica dei suoi predecessori (es. Leibniz), che pretendeva di poter cogliere la realtà metafisica e dissolverla. Per Kant la metafisica era invece una astrazione: l’identico come un tutto non è da considerarsi come sostanza ideale, è semmai un limite ideale – pretendeva di andare verso un’armonia fantastica. Il principio di identità è, anche per Kierkegaard, una astrazione, non è espressione di una realtà. Al contrario, il pensiero deve continuare a occuparsi di campi specifici, senza pretendere di raggiungere il “tutto” come qualcosa di reale. La realtà, astrattamente governata dal principio di identità, nella fede perde concretezza. Nei Diari, Kierkegaard diceva infatti che voler provare l’esistenza di Dio è il colmo, è assurdo, perché se il pensiero perla del Tutto fa qualcosa che non deve fare. Sempre nei Diari, Kierkegaard dice che l’identico è in qualche modo lo sfondo: è quella linea che i disegnatori chiamano “lo sfondo”, ma ciò che importa è il disegno. Nulla è più facile di fare credere agli altri di pensare la realtà del tutto. Gli “speculativisti” hanno fatto cadere l’esistenza. Ma l’esistenza è fatta di differenze, non di identico, di indistinto. Hegel, per Kierkagaard, avrebbe commesso questi errori. Di fatto, Hegel 21 avrebbe lasciato cadere quelle differenze, in modo particolare una differenza cruciale, la differenza fra logica e realtà – come la metafisica classica, dove A=A si traduce come sostanza (quella che Aristotele chiamava prote ousia, sostanza prima). In Aristotele, la teologia era vicina al senso di teleologia; per questo, secondo Kierkegaard, la metafisica di Aristotele risultava come “pagana” perché dimostrava di non avere un senso di rottura con la realtà ineliminabile dalla trascendenza. La filosofia di Aristotele era “scienza dell’essere divino”, aveva a che fare con il senso di trascendenza. In Kierkegaard, Hegel si trova nella massima vicinanza a questa metafisica. Hegel cosa ha fatto di male? Ha preteso di superare il principio di identità, di superare la sua immediatezza, creando una dialettica. Il problema sta qui: la dialettica hegeliana è falsa, così come è falsa la sintesi hegeliana: essa si risolverà in nulla. Il riferimento polemico a Hegel che Kierkegaard tematizza si arricchisce di un ulteriore tassello. Kierkegaard fa deliberatamente riferimento all’ultima parte del secondo libro della Logica, quello che si intitola «La realtà» (INTRODUZIONE). Ma la logica deve valere e vale solo nel suo caso: la parola “realtà” non è la realtà effettiva: c’è uno scarto fra la categoria della realtà e la realtà esistenziale. La “realtà” è una forma pura dell’intelletto, ma il reale non è mai toccato né modificato da tale categoria. La logica, per Kierkegaard, è uno svolgersi di tautologie: alla fine si ritrova sempre ciò che era già contenuto nelle premesse. Il logico è tautologico e necessario; invece, nel concreto, nell’illogico, c’è il Caso. C’è qualcosa che spunta, che prima non c’era. Sia Aristotele che Hegel fondano la loro filosofia sulla identità. Kierkegaard insiste invece sulla sua non-identità contro il panlogismo hegeliano. Occorre ripristinare la differenza, anche di carattere qualitativo, fra l’esistenza intesa come realtà concreta e la trascendenza che invece è propria di Dio. Da questa dis- identità risulta che, di tutti i principi primi, per noi che siamo immersi nella temporalità, possiamo parlare solo in maniera indiretta, negativa. Anche dal punto di vista logico, alcuni autori parlano di principi apodittici della logica come di una doppia negazione: la necessità è un doppio non, un qualcosa di negativo. L’uomo non è in comunicazione diretta con Dio. Per la stessa ragione, Kierkegaard non può nemmeno comunicare sé stesso. Infatti, in molti suoi libri si serve di questo stratagemma degli pseudonimi; in fondo, comunicare è sempre esprimersi in figure. Questa è la differenza: il simbolico è un esprimersi esteticamente. Dei principi primi si può parlare solo negativamente, in modo tale che il pensiero umano possa affermare negativamente. Il suo modo di esprimersi esteticamente esclude infatti la comunicazione diretta, perché l’identità è impossibile. Anche nella comunicazione concreta c’è sempre, fra le cose in relazione fra loro, un salto. Il tema del salto, Sprung, caratterizza la filosofia di Kierkegaard. Se questa introduzione non ci fosse, non ci sarebbe la relazione. La relazione si basa sul salto, non sull’identità. Anche per empatizzare bisogna essere in due, non si può incorrere nella unipatia. Comunicare non può mai essere comunicare in maniera diretta: questo significa che comunicare è anche un po' nascondere. Lo stesso Dio quando si rivela si nasconde. Questo discende dalla impossibilità dell’identico: solo il salto rende possibile la relazione. Tutto ciò significa che per Kierkegaard il punto di partenza non è l’identità, ma la differenza. L’errore che fa la logica quando crede che la categoria della realtà sia identica alla resistenza è pensare di poter accogliere in sé qualcosa che in realtà non può assimilare. Questo tipo di errore, che spesso commette la logica, lo commette la dogmatica quando dice che la fede l’immediato. La fede è davvero uguale a ciò di cui si ha fede? Se c’è questa identità, come fa la fede a essere in relazione a ciò in cui abbiamo fede? Questo è il tema del 22 risolto questo, Hegel ci dice che il problema non è risolto e che sarà lui a farlo. Allora Kierkegaard incalza: cosa è questo “qualcosa di nuovo” a cui Hegel vuole sottoporre? Per Kierkegaard, non c’è nulla di nuovo: Hegel non fa che presentare in una forma più alta ciò che in fondo rappresentava anche la premessa della filosofia antica. Per Kierkegaard, «questa è quella che poco elegantemente si chiama “trovata”» (cit.), e consiste nella conciliazione degli opposti, ovvero nel “conciliare” i due termini che Kant aveva separato, cioè il pensiero e la realtà. Di fronte alla separazione kantiana, Hegel torna a ricompitare quella che era l’identità pre-kantiana, presentando questo ritorno come una “conciliazione”, e anche in maniera un po' pomposa. Ma non c’è nulla da riconciliare: Hegel non fa altro che tornare ad una posizione precedente. Come si può ritenere che quella di Hegel sia la soluzione di un enigma quando consiste nella soppressione dell’enigma? In Hegel sono stati negati i due termini da conciliare. Perché c’è conciliazione fra pensiero e realtà quando i due termini non ci sono più? Non c’è l’enigma e quindi non può esserci la soluzione: il vero problema è capire come questo tentativo di Hegel sia potuto passare come soluzione. Certamente, in gioco c’è anche il meraviglioso20 modo di Hegel. Ma Kierkegaard va dritto al sodo: Hegel fa un gioco dell’oca, torna alla prima casella di Kant. E non solo: di fatto, se nella filosofia prekantiana parlare di “conciliazione” aveva un altro senso, perché quelle realtà da conciliare erano realtà opposte, Hegel non parla di tesi, antitesi e sintesi nel “vecchio senso”, ma di mediazione dialettica, intendendo che ciò che è nella tesi e nell’antitesi si concilia non solo al modo di due realtà antitetiche poste dal pensiero, perché si conciliano anche il pensiero e la realtà, il soggetto e l’oggetto. Per questo, Hegel ritiene di dovere riconoscere che c’è una relazione di opposizione fra tesi e antitesi. Ma andiamo verso la critica di Kierkegaard, che in qualche modo vuole contrapporre la sua dialettica esistenziale a alla “falsa” dialettica hegeliana. Se la tesi è una realtà e l’antitesi è una realtà opposta, necessariamente la sintesi dovrà essere una terza realtà. Questa terza realtà dovrà essere qualcosa di diverso dalla semplice relazione di opposizione fra tesi e sintesi. Se infatti fosse la stessa cosa, se la sintesi fosse la relazione di opposizione, Hegel non farebbe altro che considerare la realtà che cerca come identica all’opposizione. Per Kierkegaard, effettivamente Hegel fa questo: considera la mediazione reale come una relazione di opposizione , che presenta come risultato della relazione, e quindi come la soluzione del problema da lui posto. In altre parole: la relazione fra gli opposti viene considerata prima come relazione di opposizione, perché i due elementi vengono posti uno contro l’altro, ma poi, dato che in questo contrapporsi tesi e antitesi devono essere in una qualche relazione fra loro, sostiene che questo tipo di relazione sia anche il risultato dell’opposizione stessa. Ancora: per Hegel, il risultato dovrebbe essere a + b = c; per Kierkegaard, in questo modo Hegel trucca la sua dialettica. La mediazione in Hegel è qualcosa di ambiguo: prima è semplicemente la relazione fra due termini opposti, poi diviene anche il superamento di questa relazione. Da un lato, nel linguaggio Kierkegaardiano, la relazione è il problema; dall’altra, in Hegel finisce anche per essere il risultato. Inoltre, secondo Kierkegaard, dietro a questa pseudo soluzione, Hegel pretende anche che si debba riconoscere, un movimento che va dal problema alla soluzione. Ci sono pagine altissime sul rapporto tempo-istante-eternità. Hegel pretende di mostrare come la sua dialettica incorpori il movimento, pretende che si avverta questo passaggio dalla premessa alla soluzione, dalla 20 N.d.r. 25 opposizione alla mediazione; tuttavia, poiché la mediazione è uguale, il movimento non c’è, nel senso che, se c’è, è uguale al non movimento. Dietro a questa critica c’è ancora il “testa a testa” che la filosofia dell’esistenza fa: c’è il tentativo di evocare la differenza fra la filosofia dell’esistenza e la filosofia della speculazione. Per Kierkegaard, si tratta di cogliere in maniera radicalmente diversa quelle che sono le determinazioni dialettiche dell’esistenza. La dialettica dell’esistenza nel suo senso è radicalmente differente dalla falsa dialettica evocata da Hegel: per Kierkegaard, il divenire hegeliano non è che una sorta di “ombra concettuale” progettata sullo schermo dell’essere. La mediazione di Hegel è allora una mediazione illusoria, proprio perché Hegel considera come opposizione ciò che in realtà non è tale. Di fatto, quando Hegel ci parla della tesi e della antitesi, due momenti che si oppongono, ha già deciso che il porsi di una tesi o di una antitesi è già di per sé una sintesi; dunque, ci presenta quello che già aveva posto, la premessa, come il risultato di questa opposizione. Ma questo è ancora una volta un processo logico; proprio per questo, non si può parlare di “realtà”: non c’è quel tempo storico che invece qualifica il movimento, né la la diacronia dello sviluppo della realtà storica. Infatti, il sovrapporre posizione del problema e il risultato è un processo che è tipico del logica: si finisce per ritrovare alla fine del proprio cammino nient’altro di ciò che si era posto all’inizio. Allora, ciò che cambia è la forma di ciò che torna a essere posto nuovamente: non c’è nessuna forma di incremento. Qui si riafferma la posizione assunta da Kierkegaard, quando affermava che qualsiasi filosofia senza un presupposto è impossibile, e aggiungeva che anche nessuna scienza è possibile senza un presupposto. Certamente, per Kierkegaard non può essere possibile nemmeno una filosofia dell’esistenza senza un presupposto. Egli sostiene che ammettere il presupposto significa filosofare concretamente, ma significa anche qualcosa di più: significa anche esistere. Quest’ultima non è una parola che resta appesa nel vuoto: altrimenti, tutte le categorie kantiane sarebbero qualcosa di troppo astratto, invece, non sono strumenti di cui ci si può servire per parlare del tema di cui si parla. Solo riconoscendo il presupposto del peccato e della necessità di impostare questo problema – quindi, solo facendosi carico del presupposto – ci si può trovare in una situazione nella quale si è in relazione con qualcosa che è fuori di noi , altrimenti non saremmo mai in relazione con qualcuno che è fuori di noi. Talvolta, tuttavia, questa identità viene presentata come una opposizione, oppure come una sorta di fiducia immediata, o come una fede immediata in ciò per cui si ha fede. Però, tutti questi aspetti rimandano a fili di pensiero che sono propri della filosofia pre-kantiana. Non diremo di Kierkegaard di essere un pensatore kantiano; tuttavia, dobbiamo dire che Kant ha già anticipato alcune delle critiche che Kierkegaard stesso avrebbe poi mosso ai successori di Kant, fra cui Hegel. Kant aveva mostrato che c’è una opposizione, e aveva affermato che il tema dell’identità come “metafisica della identità” è qualcosa di impossibile. Di fatto, la situazione finita, la finitudine che in fondo già Kant rivendica, si avvicina all’ontologia fondamentale dell’umano. La finitezza umana è caratterizzata dalla non conciliazione; nella fattispecie, è caratterizzata dalla non conciliazione con la cosa in sé, che resta sempre all’infuori della non esauribilità del pensiero umano. L’uomo sperimenta su di se la non identità rispetto a qualcosa che lo trascende. Quando Kant parla della cosa in sé rimanda ad un’opzione di questo tipo. L’idealismo convive con un suo realismo empirico, e la confutazione di Cartesio rimanda a questo tema della realtà. L’uomo si trova sempre in una situazione finita, ma la finitezza per Kierkegaard diventa la chiave di volta per sviluppare la tematica dell’esistenzialismo religioso. L’uomo è 26 finito perché è nel peccato, e la sua relazione con la trascendenza, che è la relazione con ciò che lo travalica, è caratterizzata dall’angoscia. Per questo, tutte le figure che Kierkegaard delineerà, non solo qui ma anche in tutti i testi, anche estetici, sono legate all’aspetto del demoniaco. Il demoniaco è quella figura umana che si pone quasi nell’impossibilità della trascendenza, e ci sono tante figure del demoniaco. Per Kierkegaard, la relazione è quella che interessa la trascendenza divina, e un problema a cui si deve dare soluzione è l’angoscia. Il fatto di trovarsi nel peccato è ciò che egli chiama “il presupposto contraddittorio” in cui l’uomo si trova. L’uomo non riesce a riconoscere questo presupposto, non riesce a riconoscere la realtà come problema; non riesce a farlo, se al contempo non riconosce la trascendenza. In primo luogo, dobbiamo quindi porre una relazione con l’entità che ci trascende e rispetto alla quale siamo consapevoli di essere peccatori. L’aspetto “positivo” di questo esistenzialismo è che da questa situazione contraddittoria si può uscire, si può guarire. Se “la malattia per la morte” fosse una vera malattia mortale, si potrebbe uscire tramite la morte, senza la trascendenza. Ma così non si arriverebbe a concepire quella terza realtà che in Hegel era largamente fantasmatica, illusoria. Per Kierkegaard invece questa terza realtà può essere storicamente e realmente trovata. Soprattutto storicamente: l’uomo passa attraverso la fede, imboccando lo stadio esistenziale religioso e riconoscendo, con la dialettica esistenziale, che prima c’è la negatività del peccato. Questo significa che, per Kierkegaard, fra la tesi e la sintesi reale c’è sempre il tema della trascendenza. È solo così che la sintesi può configurarsi come una sintesi concreta e storica. C’è anche una concezione storica diversa rispetto a quella della filosofia della storia in senso hegeliano. Mentre in Hegel la storia è sopra le nostre teste, in Kierkegaard è qualcosa di orizzontale: allora, ecco che tutto ciò che è orizzontale è qualcosa che si sviluppa in un vero movimento, che non appare illusorio come invece appare il divenire hegeliano. In questo caso, la tesi e antitesi, da astrazioni, diventano il presupposto, diventano un negativo, una spina attaccata alla carne. La storia orizzontale è la situazione concreta e reale del peccato, è la situazione carica di angoscia, che è quella da risolvere, nel senso che non è risolta e, in quanto tale, crea angoscia. Quell’attimo in cui si riconosce la nostra situazione quello in cui l’eternità inizia a fare parte del tempo, che invece non è davvero un atomo. Quando questo rapporto con la fede è positivo, entra in gioco e si produce effettivamente quella sintesi che Hegel non era stato in grado di ottenere, perché sintesi è sempre sinonimo di una soluzione concreta. Allora, il problema si fa più semplice. Non siamo di fronte a una “religione da santini” (cit), non ce la caviamo con un atto di fede puro e semplice. Il problema non è credere in Dio, perché la sintesi non è Dio, ma semmai la fede. La soluzione non è Dio, perché se fosse Dio sarebbe una soluzione che ci rapporta in maniera quasi misteriosa al di fuori della realtà, come una soluzione formalistica “alla Hegel”. È solo la fede che permette di risolvere il problema storico. il problema storico vivente è la spina che abbiamo nella carne, non è un modo di dire. Qui entrano in gioco le grandi figure della Bibbia e della tradizione ebraica che sono state spesso evocati da Kierkegaard. Ad esempio, timore e tremore. Ma prima ancora c’è la pazienza di Giobbe: un personaggio agiato, che a un certo punto viene travolto dagli eventi e viene privato di tutto, dei beni materiali e dei figli che muoiono; così, Giobbe si trova filosoficamente nella contraddizione, ovvero in una situazione di totale negatività, e solo la fede può in qualche modo salvarlo. Lo sforzo è incamminarsi nella direzione che prima abbiamo detto. Riconosciamo la nostra situazione di uomo peccatore e riconosciamo anche che trovarci in questa situazione 27 trascendenza nella storia. Ma la rivelazione in Hegel non è una questione di un fatto che si è dato nella storia, non è un fatto storico come un altro. Tutto viene riportato a una forma di prevaricazione legata alla via logica, anche sul piano formale. L’etica, per Kierkegaard, cerca la conciliazione così come la cerca la dogmatica. Per l’etica, la conciliazione si manifesta come un puro fatto morale, indipendente dalla rivelazione. Ma l’etica si contraddice e ha bisogno della dogmatica. L’accettazione delle premesse hegeliane compromette sia l’etica che la dogmatica, che finiscono per contendersi un tema che non può essere affrontato e risolto sul tema della filosofia dell’esistenza, dove il tema della rivelazione richiede il rapporto fra finito e infinito. Abbiamo visto che la logica, per Kierkegaard, è tautologia, è identità. Tutto ciò che si dà, in essa è; ciò significa che in Hegel nulla diviene, perché non c’è traccia di divenire né di processualità. Hegel vuole fare diventare la logica un processo, e ciò di cui si serve la logica per un processo è il negativo. Ma per Kierkegaard la logica è ferma e il suo movimento è una quiete, una stasi, un movimento immanente: il vero movimento allora è fuori dalla logica e la trascende. Hegel invoca il negativo come presupposto nella logica, la qualcosa dovrebbe convincerci che nella logica c’è movimento; ma per Kierkegaard il negativo non è affatto nella logica. Il negativo è qualcosa che sta fuori dalla logica. Come utilizzarlo allora, se non è nella logica? Ancora una volta, Kierkegaard dice che questa sorta di negativo è un po' un fantasma, e che per uscire da questa difficoltà il suo negativo può essere interpretato come il contrario che si oppone al contrario. Il negativo è quella dialettica che Platone riprendeva nel Sofista: il negativo non è un puro negativo. Per Platone il negativo in questione è qualcosa: l’altro non è un negativo rispetto a un positivo, ma un qualcosa che si contrappone a qualcos’altro. per Kierkegaard, Hegel non riesce a fare muovere la sua logica, e non riesce a costruire un vero processo. Nell’etica hegeliana, il negativo logico diventa allora il male; con la quale cosa si pretenderebbe poi di risolvere l’etica nella logica, il che è qualcosa di impensabile, perché etica e logica coprono ambiti diversi. 27.09.2023 Questa è la parte più complicata: la critica a Hegel va presa seriamente, ma è evidente che «è anche una questione di marketing». Di fatto, Kierkegaard calca la mano nei confronti del concetto di conciliazione hegeliano, che mancherebbe dell’aspetto del “divenire”. Kierkegaard afferma che quella di Hegel è allora una falsa conciliazione, e che è un ritorno alla metafisica pre-critica. Kant aveva affermato che c’è sempre qualcosa che resiste al pensiero; Hegel voleva allora superare questo cripto-scetticismo, ma non ha fatto altro che tornare da capo. Ma non è possibile una metafisica del tipo precedente a Kant; tuttavia, Hegel ripropone uno stilema che nella storia della filosofia si era incontrato molte volte: la dialettica. A questo proposito, Kierkegaard in maniera netta dice che la soluzione proposta da Hegel non è una soluzione perché fa svanire l’enigma stesso. Hegel introduce l’elemento della mediazione, ci dice che da un lato c’è una relazione di opposizione, ma poi ci dice anche che in questo si ha anche la soluzione, ovvero la sintesi stessa. Non c’è incremento: tutto si muove in una sequenza di tautologie. Di fatto, persino Hegel avverte che c’è qualche problema nella sua dialettica e cerca di colmarlo attraverso il negativo; afferma che il vero negativo è fuori dalla logica. Ma allora come farebbe questo a fungere da momento della logica che imprime movimento? Non solo: il negativo lo fa manifestando una qualche positività in questo modo. 30 Andando più vicino alla questione, dato che non sta trattando di logica, a Kierkegaard interessa vedere come psicologia e dogmatica possono impostare veramente l’opposizione. La logica ha inquinato certe discipline che sembrano non in grado di trattare del peccato; ad esempio, sia l’etica che la dogmatica sono state snaturate dalla logica, perché anche in queste discipline ha prevalso il momento logico sul momento della concretezza esistenziale, sul momento del singolo. Viceversa, il singolo di Kierkegaard si costituisce nell’esistenza: da qui ci si introduce al tema del peccato, dell’angoscia, della redenzione. Il ‘movimento’ di Hegel non abbandona mai il piano dell’immanenza; viceversa, la filosofia dell’esistenza di Kierkegaard comporta un salto. Anche in Hegel c’è il problema del passaggio, che però viene risolto o non risolto in questo divenire puramente concettuale. In Kierkegaard ci sono invece il tema del rapporto con la trascendenza e il tema della fede; quest’ultimo non consiste solo nell’affidarsi mani e piedi a Dio, perché non è Dio in quanto tale ad essere la soluzione concreta al peccato. In Kierkegaard, tutto ruota intorno al presupposto; viceversa, la filosofia del sistema non operava in questo senso. Giobbe e Abramo hanno mostrato che l’atto di fede non è solo una fuga in avanti o in alto , non è semplicemente un ricongiungersi con un irraggiungibile. Il problema del movimento dialettico dell’esistenza deve (1) riportarsi al salto, alla relazione fra finito e infinito, (2) ma deve poi anche ridiscendere, sapere tornare sulla terra, perché è qui che il problema viene risolto. L’uomo che ha fede in Dio non può semplicemente rispecchiarsi in lui: bisogna rimettere sulla terra quanto scaturisce da quella rinascita a cui Dio ci invita. Senza questo passaggio autentico non è poi possibile parlare di soluzione. Per questo, in Hegel tutto è illusorio da questo punto di vista. Il problema è che il modo sbagliato di impostare la questione ha inquinato la situazione dell’etica e della dogmatica e ha finito per inserire nell’etica un senso di conciliazione che ha a che fare con queste problematiche. La dogmatica non riesce a spiegare quello che cerca di spiegare l’etica, dove però la conciliazione sembra divenire solo un fatto morale. Così come la psicologia passa il testimone alla dogmatica, fra dogmatica ed etica c’è un rapporto costante. Tuttavia, in questo modo l’etica sembra contraddirsi: l’etica ha bisogno della dogmatica. Se noi accettiamo la posizione hegeliana sia sul piano dogmatico che su quello etico, vediamo che entrambe finiscono per disputarsi inutilmente il tema del peccato. La logica è tautologia, non produce nulla di nuovo, non c’è incremento, non c’è divenire. Qui è importante partire dalle critiche a Hegel, ma per vedere dove Kierkegaard vuole andare a parare. Tutto questo gli è infatti necessario per impostare il problema dell’angoscia e del peccato: questo ha preparato al riconoscimento del presupposto del peccato che è anche quel presupposto contraddittorio che, provocandoci angoscia, necessita di essere superato, perché nel momento in cui si pecca produce e crea angoscia. Kierkegaard sottolinea a riguardo che si propone di trattare la questione della angoscia sul piano psicologico; tuttavia, questo non significa risolvere la questione della angoscia solo su questo piano, come se questo fosse una semplice questione psicologica. Certo, sono temi legati, ma limitandosi a questo si finirebbe per compiere lo stesso errore che si è fatto quando si è pensato di risolvere il peccato in maniera logica. Il peccato non può essere risolto in chiave puramente psicologia o etica, e nemmeno dissolto nel comico o nel tragico. Qui Kierkegaard ci introduce alla sua dottrina, che sembra un po' stridente alla nostra contemporaneità. La psicologia si lega sempre a una disposizione che è quella del comico o del tragico: la categoria a cui appartiene il peccato è infatti la contraddizione, e va superata, ma la contraddizione è comica o tragica, e il peccato non può solo essere ridotto a dramma psicologico. Dobbiamo riportare il peccato a una sfera estetica ma non ricadere 31 nell’estetismo – se ciò avvenisse, il peccato non si troverebbe nella sua atmosfera, dove quest’ultimo è un termine che può valere anche come traduzione di Stimmungen, stato d’animo. Se ci trovassimo ad affrontare il peccato in questa atmosfera, quel tema finirebbe per essere alterato, e con esso anche il peccato. Lo stato d’animo che corrisponde al peccato non è il comico o il tragico, ma è la serietà. Del resto, il tema della angoscia va preso sul serio e non possiamo fare sì che riguardi solo gli altri. Con questo, Kierkegaard ci vuole dire che una ricerca filosofica risulta sbagliata quando non trova la sua giusta atmosfera. Il cammino intrapreso da Kierkegaard può risultare quasi strano: questo primo passo che fa per approfondire la questione stabilisce una correlazione far una disciplina scientifica, i suoi oggetti di studio e uno stato d’animo peculiare, che è anche disposizione metodologica della disciplina. A noi sembra assurdo evocare lo stato d’animo per mostrare il senso di scientificità di una disciplina: siamo abituati a pensare che “quando gli scienziati entrano in campo” tutto ciò che riguarda i sentimenti vada bandito e messo da parte; certamente, Kierkegaard mostra di essere consapevole di quanto l’operare scientifico necessiti di una certa sobrietà, ma non deve esserci neutralità assoluta – critica al carattere asettico della scienza. Non solo: Kierkegaard va anche al di là di questo e dice che richiamarsi a questa neutralità significa cercare di fare i conti con i costi che questa sobrietà comporta. È un tema anche questo molto moderno, un tema che porterà Dilthey a sviluppare un contrasto fra scienze dello spirito e della natura. C’è una tematica di carattere psicologico fra soggetto che studia angoscia e oggetto che è il peccato, c’è una sorta di complicità, c’è una relazione fra i termini del rapporto conoscitivo. Mentre il naturalismo sembra porre un divario, il piano dello studio della angoscia e del peccato resta su una relazione molto forte fra soggetto che studia e oggetto di studio. Per Kierkegaard, la psicologia deve disporsi con curiosità: essa si basa infatti su quella parola greca che è thaumathein, il meravigliarsi, che è la curiosità che si trasforma poi in una perseveranza nell’osservazione. Ma il peccato non può essere colto sotto un profilo osservativo: nel caso che il peccato diventasse oggetto della psicologia, lo stato d’animo non dovrebbe essere semplice curiosità, perché sarebbe una curiosità carica di antipatia. Quindi nei confronti di questo oggetto che è un po' sui generis, Kierkegaard dice che la disposizione giusta è costituita da una resistenza, anche coraggiosa, che poi si traduce nella serietà. Se l’osservazione, la descrizione e la sperimentazione sono tutte attività e metodologie che crescono e in cui il metodo scientifico si rafforza, qui entra in campo un’altra situazione, che è la relazione del dialogo. Il tema del peccato si centra nel colloquio fra un io e un tu, un colloquio che Kierkegaard chiama anche “la predica”, dove ci troviamo di fronte a una situazione in cui abbiamo un singolo che parla a un altro singolo. È solo in questa situazione precisa che il peccato ha un posto: il contesto dialogico o della conversazione che era stato esaltato e praticato in maniera eccezionale da Socrate. Se viceversa si parla del peccato come di una malattia, come di un veleno o come una disarmonia, allora il concetto stesso di peccato viene ad essere falsificato. Allora, quale è il posto giusto per porre il peccato? Quale è la disciplina che si deve far carico di ciò? Quello che definisce il peccato è il non avere un posto preciso in nessuna scienza. Quello che Kierkegaard ci lascia intendere è che il peccato e la fede si ritrovano un po' ovunque; tuttavia, sicuramente, ogni ricerca inerente al peccato deve rifarsi alla dogmatica. Ad ogni modo, sicuramente lo stato d’animo richiesto è la serietà: se fossi solo curioso, se fossi solo un osservatore perseverante, se volessi parcellizzare il peccato io non potrei mai confrontarmi davvero con quello che ne è l’oggetto. 32 naufraga anche l’etica. Kierkegaard insiste sul fatto che la ricerca etica non riconosce il peccato; del resto, il peccato è il presupposto della dogmatica. Non riconoscendone il presupposto, l’etica è destinata a fallire. Qui si introduce una distinzione ulteriore, pedante ma semplice. La filosofia prima e la filosofia seconda, qui diventano un’etica prima e un’etica seconda. Il naufragio dell’etica nei confronti del peccato è dovuto alla sua idealità: l’idealità dell’etica è qualcosa che le impedisce di raggiungere la realtà. L’etica è ideale perché o condanna o assolve, è poco indulgente. Il peccato non può essere trattato, per questo, nell’etica: per quanto concepito come trasgressione, andrebbe semplicemente rifiutato. Kierkegaard ci dice invece che il peccato va superato, va vinto. Non c’è spazio per potere trattare del peccato nell’etica prima, perché essa non fa altro che condannare il peccato. Del resto, dell’etica si può dire quello che si dice della legge: essa è una sorta di pedagogo che attraverso i propri comandamenti non fa latro che condannare. Ma il pedagogo che condanna non dà vita. Questo è il tema di fondo di Kierkegaard: nella salvezza e nella redenzione si trova una possibilità che nell’aut aut dell’etica viene meno. L’etica greca partiva dal presupposto che il bene dovesse conciliarsi con la felicità, che è un po' la concezione della virtù di Aristotele. Questo senso arcaico dell’etica era compromesso dal fatto che essa conservasse in se il momento estetico. Per questo l’etica prima si richiama a una pura idealità. L’uomo è imperfetto e deve avere come contraltare un essere perfetto (Aristotele); tuttavia, una idealità tale è però irrealizzabile. Il superamento del peccato non può nemmeno essere ottenuto con la felicità. Qui si apre una sorta di dualismo che per Kierkegaard costringerà l’etica a riconoscere l’esistenza negativa e contradditoria dell’uomo. L’etica è portata a riconoscere il peccato originario e costitutivo, quando lo riconosce si entra nella dogmatica. Di fronte al fatto che l’ideale etico sembra irrealizzabile si pone un salto. La vita dell’uomo deve rinnovarsi, e, non solo metaforicamente, ricominciare di nuovo. La situazione viene spezzata verso la verticalità della fede che impone il rifiuto dell’esistenza vissuta e il riconoscimento del peccato. In questo senso, l’essere umano deve trasfigurare se stesso, essere portato a un rinnovamento. Deve mutare il significato che il passato ha in quell’istante in cui si determina la conversione. Questa ripetizione è una ripetizione di tutta la vita, dalla nascita a quella che poi diventa una rinascita. Se l’uomo prima di questo istante era nato nella carne, ora deve rinascere nello spirito. Prima l’uomo era ciò che era, e lo era non essendosi scelto. Ora invece sceglie di essere quello che è. Conoscersi concretamente è accettarsi per realizzarsi nella positività. Questo avviene, secondo Kierkegaard, solo nell’atto religioso, che parte sempre e comunque dalla realtà del peccato. Dal presupposto contraddittorio, per entrare in quella che è una nuova realtà dello spirito dove si concretizza quello che per l’etica prima era solo un ideale. Qui l’idealità si concretizza: sembra allora che tutto questo porti alla possibilità di una nuova etica. C’è un’etica prima basata sulla idealità e una etica seconda basata sull’esistenza, su un peccato che va trasformato in salvezza. La rinascita religiosa è, per Kierkegaard, la vera mediazione e conciliazione. Essa realizza esattamente ciò che Hegel cercava nella mediazione, cioè il rapporto fra essere e non essere. Ci sono il divenire eracliteo e l’essere eleatico: anche chi vive in uno stadio estetico vuole la ripetizione, desidera cioè rivivere il passato, per certi versi anche rifugiarsi nel ricordo. In questo movimento, l’esteta tende a negarsi come tale: il ricordo va sempre più indietro e finisce per confondersi con una reminescenza platonica, con il bisogno di una vita eterna. A questa falsa ripetizione si contrappone la vera ripetizione che è la rinascita dello spirito. Allora, l’etica deve essere ricondotta al punto di partenza, ovvero alla dogmatica e a ciò che da essa parte, ovvero dal 35 peccato. Se l’etica partiva dall’ideale – perché per essa il peccato non si trova nell’individuo ma sembra trascenderlo – allora per l’etica tutto era perduto. Il peccato però è qualcosa di presente e la dogmatica non fugge da quella situazione esistenziale del peccato originale dell’esistenza. Il peccato originale non può e non deve essere spiegato in questo modo, altrimenti si finirebbe per occuparsi del peccato originale in maniera astratta. Da qui il merito di un altro grande autore, che è Schleiermarcher, l’iniziatore dell’ermeneutica, ma anche l’iniziatore di una dogmatica che è stata importante pet la teologia protestante. Schleiermarcher diceva che la dogmatica parlava solo di ciò che sapeva. Nei suoi discorsi aveva posto il sentimento alla base dell’esperienza religiosa: nello slancio della religione l’uomo ha coscienza dell’infinito. Anche lo slancio della religiosità non è riportabile a un divenire di stampo concettuale: è lo slancio a fare sì che l’uomo si scopra come finito, come esistente, come peccatore. La nuova etica comincia quindi con la dogmatica: la rivoluzione filosofica di Kierkegaard rimanda alla dogmatica, a quel ramo della teologia che si occupa dei dogmi. La nuova etica non si rifugia in una precettistica di carattere ideale, prende invece le mosse dal pentimento senza però smarrire l’idealità come compito, che è perseguita in un movimento dal basso in alto e non viceversa. Si va da sotto e ci si innalza a livello della idealità. L’etica ha quindi invertito il suo modo di operare. Quello che vale per l’etica vale, più in generale, per la filosofia. Anche l’idealismo e la metafisica di Hegel non partivano dal presupposto e potevano permettersi di parlare di sostanza e di spirito perché erano concetti astratti, fuggivano all’esistenza. Per questo tipo di filosofia l’uomo non aveva il problema di salvarsi, non doveva necessariamente staccarsi dal peccato commesso nel passato attraverso il salto, non doveva muoversi dal piano orizzontale verso la trascendenza. Il pensiero classico non vede quel movimento che va dalla finitezza del peccato alla finità di Dio. La mancanza del senso dell’infinito ha fatto sì che lo spirito greco vedesse nel teatro il culto religioso. La filosofia di Aristotele come una filosofia che sostanzialità e che fa rientrare la teologia nella metafisica, proprio per questo è una filosofia pagana che non ha quel senso di rottura con la realtà che invece ha senso di trascendenza. La metafisica classica poteva anche parlare di Dio ma restava chiusa sul piano dell’immanenza, in quanto scienza dell’universale che poteva addirittura dimostrare Dio. La filosofia classica è la filosofia prima e anche la prima delle filosofie, da intendersi nello stesso modo in cui si diceva che l’etica è un’etica prima. 02.10.2023 La prima parte è dunque dedicata a questioni epistemologiche. Kierkegaard voleva essere il primo a dedicarsi a questo oggetto un po’ sfuggente, il peccato. L’etica seconda, che si distingue dall’etica prima, come accade per la filosofia e la psicologia, è un raddoppiamento non pedante, importante nella comprensione di questo testo. Kierkegaard si sofferma, anche un po' in maniera ingenua, sulla “curiosità” che deve avere lo scienziato. Ma si può essere curiosi nei confronti del peccato? Di esso non possiamo avere troppa curiosità: piuttosto, si deve adottare la serietà. Il peccato non è semplicemente un oggetto, non è al pari di un elemento che va studiato: l’uomo è costitutivamente tale nella misura in cui si ricorse come colpevole, come peccatore. La metafisica tradizionale, per Kierkegaard, non partiva veramente da un presupposto; per questo, poteva parlare liberamente di qualunque cosa. Invece, bisogna partire dal presupposto del 36 peccato per poi staccarsene attraverso lo Sprung, il salto nella fede. In filosofia, ci si muove sempre sul piano orizzontale, ma per intraprendere la via nel verticale. Il momento va infatti dal finito all’infinito, un infinito che non è appannaggio di un trascendente – appartiene anche a noi, anche se fatichiamo a riconoscerlo. Il movimento orizzontale si avvertiva già nella filosofia antica, dove c’è molto di pagano – come ci insegna Aristotele, il fatto che il teatro si stagli quasi come un culto religioso lo testimonia. Di fatto, la scienza aristotelica ha creduto di derivare dalla propria scienza la teologia, la scienza di Dio. Ma così non si avverte, secondo Kierkegaard, il senso della rottura con il reale, il senso della trascendenza. Per Kierkegaard, la teologia orientata in questo modo non coglie mai la trascendenza; in questo caso, si parla di filosofia prima, che ci mette sullo stesso piano dell’etica prima. L’accezione di filosofia prima che Kierkegaard conserva sta infatti a significare che si tratta di una filosofia astratta, che si cala e prende spunto dalla realtà esistenziale, la quale non può prescindere dalla questione. Mancando della trascendenza vengono meno gli aspetti che invece sono fondamentali: la vera filosofia non è allora filosofia prima ma filosofia seconda. Non si tratta mai di spiegare la realtà; si tratta, semmai, di trasformarla. In fondo, anche Heidegger fa della sua teologia fondamentale una filosofia dell’essere. Non è più una filosofia che abbia come tratto caratteristico l’immediatezza; semmai, il problema della autentica filosofia è il problema della mediazione, il problema dell’assenza dell’essere. Il peccato non si spiega, il peccato non si può ridurre a categoria, è qualcosa che fa tutt’uno con l’essenza stessa dell’uomo, è qualcosa che si vive e che si può redimere attraverso la rinascita nello spirito. È per questo che il peccato non ha il suo posto solamente nella conoscenza. Il conosci te stesso di Socrate, secondo Kierlegaard, va esteso. Il problema che inerisce alla filosofia seconda è quindi quello di superare il peccato e la negazione; in altri termini, è quello di negare la negazione. Da questo punto di vista, anche Dio è qualcuno che non si dimostra: Dio non è riducibile a ciò che noi pensiamo di lui; Dio non si nomina, tantomeno se invano – così si operava invece nella metafisica classica, che per questo risulta una sorta di teologia pagana. Ma Dio è vivente come una trascendenza che si palesa nella figura di Cristo e che si manifesta per la salvezza e per la rinascita. Il tema della trascendenza è funzionale al fatto che noi dobbiamo mutare noi stessi, operare per noi una trasformazione. Sul piano del sapere, Dio è qualcosa di ignoto, di sconosciuto; di fronte a Dio, l’intelligenza entra in contraddizione, diventa passione e paradosso – quest’ultima, parola fondamentale per la filosofia di Kierkegaard. Nel paradosso, si rivela il peccato; con il peccato, hanno luogo la fede e la salvezza. La fede è fede nella trascendenza, quel percorso che ci deve portare a venire fuori per intravedere una via di salvezza. In questo senso, la filosofia seconda è la filosofia dell’esistente. 37 psicologicamente già attivo nella angoscia. Essendo orientata alla dogmatica, la psicologia non è uno studio principalmente soggettivo, indipendente da quello assoluto. L’etica seconda viene infatti ripresa nello studio di Kierkegaard perché è solo nel rapporto fra angoscia e fede che l’etica s rivela nella dogmatica. L’etica deve essere vista nel fatto che l’uomo riconosce la possibilità di trascendersi. Tuttavia, se la dogmatica studia la fede, non è la fede: quella che Kierkegaard chiama la rinascita religiosa è un atto, non semplicemente lo studio di quell’atto, né una filosofia dell’atto. L’atto è tale solo quando si compie; allora, ogni studio deve farsi da parte – ci si muove solo sul campo legato alla nuova vita, quella della rinascita. Ciò non può essere detto senza il presupposto del peccato, senza la premessa che solo la dogmatica ci indica e che è stata l’oggetto vero di questa lunga e complessa introduzione. Questa premessa allora si rivela necessaria; tuttavia, finché viene affermata in una pagina di un libro non è reale, lo diventerà solo nell’istante in cui verrà messo in opera in un atto di fede. Del resto, si può rinascere e salvarsi dal peccato senza conoscere una sola parola della dogmatica come scienza. La vita etica e la vita religiosa sono il compimento, sono la fede vivente di ciò che la meditazione della dogmatica indica come un atto da compiere. Nella vita esistenziale e nello stadio etico-religioso, l’atto di fede non è più indicato, né concepito come una vaga forma di precesso. È qualcosa che deve essere eseguito. L’ultima parola è quindi l’ultima parola nei rapporti fra angoscia e fede; l’ultima parola deve essere necessariamente un atto. Per nessuno di noi questo atto si può ridurre alla semplice lettura di un libro: non possiamo limitarci a ricompitare una catechesi. Fra leggere un libro sulla fede e la fede come atto di redenzione c’è un salto, c’è quell’atto che ciascun uomo deve compiere perché sia realmente posto di fronte alla trascendenza. I problemi legati al peccato nascono dal fatto che l’uomo ha a lungo negato la possibilità di intravedere una relazione salvifica con qualche entità che non si collochi più sul piano della mera orizzontalità. Abbiamo già visto che i motivi per cui Kierkegaard si sente di riproporre il problema del peccato sono quelli che poi lo portano anche a rileggerli e riscriverli, dando una nuova interpretazione del terzo libro del Genesi. Kierkegaard non era sodisfatto della soluzione data dalle dogmatiche tradizionali al problema della genesi del peccato. Tutte, invariabilmente, tendevano a destoricizzare il peccato e la figura che sembrava depositare nel peccato; finivano per estrapolarlo dalla storia del genere umano. In questo senso, il genere umano si configurava in un inizio un po’ fantastico, in una sorta di preludio divino. Allora, c’è stato il rischio di attribuire una importanza eccessiva al peccato, che sembrava esser posto fuori. Così, paradossalmente, tutte queste dogmatiche hanno finito per sottovalutare la caduta di questo nostro progenitore. Viceversa, l’essenza di Adamo consiste nel fatto che Adamo è sì un singolo, ma nel contempo è anche tutta l’umanità. La profondità del punto di vista di Kierkegaard sta nel fatto che fra l’umanità e l’individuo si rende possibile il peccato: quest’ultimo c’è solo se i primi due si tengono e non si staccano. Qui la dialettica hegeliana è implacabile: ogni uomo ha in se l’unità e ciò che ogni uomo compie è determinante. Poiché Adamo aveva in se l’umanità, il suo peccato si ripercuoteva su tutti gli altri, e questo in quanto non era il nostro primo genitore staccato dalla catena degli esseri umani. Il peccato si ripercuoteva non perché ciascuno di noi lo ha ereditato come un debito: rivivendo ogni individuo l’esperienza di ogni altro, ognuno di noi si trova nella stessa ambiguità fra il bene e il male; quest’ultimo è la angoscia, nella quale si è trovato lo stesso Adamo. Il problema del peccato è perciò quello di sapere come in una situazione angosciosa che ogni uomo rivive, avvenga che l’uomo pecchi. 40 La questione di fondo va dunque risolta esaminando l’angoscia, che da un lato si trova legata alla (1) totalità dell’umano, dall’altra è legata alla (2) individualità del singolo. Da questo punto di vista, la angoscia è la relazione di ogni individuo con l’altro nella concretezza del senso di umanità che li unisce. Ma il peccato, così come entra nel mondo per mezzo di un individuo, che è in sé anche l’umanità, può uscire dal mondo a opera di un individuo che sia se stesso e che abbia in sé l’umanità. Questo individuo è senz’altro il Cristo, vero Dio e vero uomo. Kierkegaard non accetta il fatto che la dogmatica cattolica muova da un presupposto dialettico fantastico. Secondo la dogmatica, Adamo avrebbe ricevuto da Dio, come dono sovrannaturale, una sorta di integrità originaria, che avrebbe però sprecato a seguito del peccato di origine. Ma in questo modo si finisce per trasporre Adamo in una dimensione che viene spacciata come storica, e che invece è fittizia. In questo modo, si separa Adamo dal genere umano, lo si rende una persona astorica. Secondo Kierkegaard, il peccato non può iniziare da qualcuno che è posto fuori dalla storia. A questo proposito, Padre Cornelio Fabro ribadisce in maniera pura e semplice l’aspetto confessionale che ha la riflessione di Kierkegaard: se Adamo non è una figura fantastica, non c’è alcuna differenza fra questi e il resto del genere umano. Di fatto, per Kierkegaard Adamo è il primus inter pares, non è diverso dagli altri. In questo, Kierkegaard si avvicina al pensiero protestante a cui la sua chiesa appartiene. In particolare, si può fare riferimento agli articoli di Smalcalda23, che furono compilati da Lutero. A proposito della dogmatica protestante, Kierkegaard fa notare come il peccato sia una sorta di corruzione della natura umana che non può essere compresa dalla ragione, ma solo creduta e riconosciuta a partire dalla ragione. Kierkegaard sembra attenersi a questo quando sostiene che il ricorso della psicologia non spiega il peccato originale ma ci avvicina a non coglierne il presupposto. Si può fare riferimento anche a un altro tipo di dogmatica, la dogmatica federale24 fondata da Giovanni Coceo (Johannes Coccius); quest’ultimo ha fatto riferimento ad Adamo come rappresentante plenipotenziario di tutto il genere umano. Questa dogmatica di fatto ritiene che gli uomini entrino in rapporto con il peccato in virtù della loro relazione con Adamo, non in conseguenza del peccato. Ma assumere Adamo in questa veste è troppo comodo: significa pensare che peccare sia una sorta di propagazione quantitativa del peccato, perché l’unico ad averlo commesso qualitativamente è Adamo. Sia nella tradizione cattolica che in quella protestante, Adamo viene collocato al di fuori dalla storia: in questa narrazione fantastica, Adamo è paradossalmente anche l’unico che non può redimersi, uno sguardo un po' discutibile nei confronti di Adamo e anche nei confronti dell’idea di redenzione. La conseguenza è che il primo peccato di Adamo riceve una valenza qualitativa diversa dagli altri peccati, e per questo finisce per 23 Gli Articoli di Smalcalda o Articoli di Schmalkald (in lingua tedesca Schmalkaldische Artikel) sono una sintesi di dottrina luterana, scritta da Martin Lutero nel dicembre 1536, per una riunione della Lega di Smalcalda del febbraio 1537, in preparazione per un Concilio ecumenico previsto della Chiesa Cattolica. Essi contengono in particolare un'elencazione degli insegnamenti e delle pratiche della Chiesa Cattolica Romana che i luterani rifiutano. Gli argomenti sono Redenzione, Messa, papato, Venerazione delle reliquie, le indulgenze e argomenti simili. Il linguaggio è chiaro e comprensibile. 24 La teologia federale (dal latino foedus, 'patto') o teologia dell'alleanza, è un quadro concettuale d'insieme per l'interpretazione del messaggio biblico. La teologia federale si avvale del concetto teologico di "patto" o "alleanza" come principio organizzatore dell'intera teologia cristiana. La teologia federale è una caratteristica prominente del calvinismo classico, specialmente di quelle chiese che sostengono una concezione riformata della teologia come le chiese riformate, presbiteriane e congregazionaliste mainstream, ma anche, in forma diversa, alcune chiese metodiste ed alcune chiese battiste. La teologia federale non sorge, però, ex novo nel XVI o nel XVII secolo, ma virtualmente tutti i suoi elementi, quelli che formano la teologia federale riformata, sono già presenti in forma frammentaria in epoche precedenti. 41 essere sopravvalutato; invece, al peccato di ogni altro uomo viene tolta ogni forma di radicalità e di responsabilità. Viceversa, secondo Kierkegaard, ogni tentativo di spiegare Adamo ma non il peccato originale, o viceversa il tentativo di spiegare il peccato prescindendo da Adamo, è qualcosa di inutile. L’uomo si distingue dall’animale per il fatto che non è il semplice esemplare di una specie, ma è un individuo che ha un rapporto dialettico con il suo genere, assolve un compito ulteriore; gli enti che sono semplicemente presenti non hanno questa possibilità. Kierkegaard rifiuta l’opinione per cui il peccato di Adamo è la causa del peccato degli altri uomini, è insostenibile perché Adamo sarebbe posto fuori dalla relazione fra individuo e umanità. Se Adamo fosse la causa del peccato, egli non sarebbe come tutti gli altri, ma sarebbe l’unico peccatore. A loro volta, tutti gli altri non sarebbero liberi, ma sarebbero in qualche modo condizionati. Ma Adamo è nell’umanità e l’umanità è in Adamo; questa relazione è quella che rende possibile anche la storia. La storia non è mai totalmente altro: il passato è sempre presente in ogni individuo, così come potenzialmente lo è anche il futuro. In questo modo, il peccato non viene semplicemente ereditato; del resto, il peccato originario di Adamo non può propagarsi come epidemia. Non c’è fra individuo e individuo una continuità che sia spiegabile ricorrendo ai concetti di causa-effetto, per cui il passaggio dal prima al poi non comporterebbe nulla di nuovo, nessuna qualità che non derivi quantitativamente dai dati prestabiliti. L’individuo eredita il passato solo nel senso che è in grado di riviverlo nel presente, di riattivarlo; ogni individuo si trova in uno stato di innocenza, nel senso che ricade nel peccato per libera scelta, non perché abbia ereditato una qualche peccaminosità. Il primo peccato di ogni individuo ha allora una determinazione qualitativa, non quantitativa; è il peccato di origine di quell’individuo. Ciascuno di noi è Adamo, ciascuno di noi ha una matrice qualitativa, non è espressione di quella peccaminosità che deriverebbe da Adamo. Il “salto” fa si che il peccato entri nel mondo anche attraverso di noi , ed è un peccare che non si può spiegar storicamente. Non è vero che con il peccato originale la natura umana diventa peccaminosa . Se così fosse, verrebbe eliminata anche la libera responsabilità. Fra innocenza e colpa non c’è quindi un passaggio orizzontale ma c’è un salto qualitativo. Il peccato entra nel mondo perché prima c’era l’innocenza; se essa non ci fosse stata, il peccato non sarebbe tale. Per questo, la logica non può pensare che la transizione dall’innocenza al peccato sia spiegabile attraverso categorie che non ammettono il salto, come se fra i due stati una continuità logica necessaria. Anzi: fra i due momenti c’è un salto dialettico. ancora una volta, Kierkegaard pensa che la dialettica di Hegel veda nella storia non già la presenza di salti. ma piuttosto una contrapposizione logica quantitativa, che è illusoria proprio perché la sintesi è già presupposta nella tesi e nella antitesi. Si dà spesso già per scontato che la relazione di opposizione sia la sintesi. Qui, nel caso di Kierkegaard, nella opposizione fra innocenza e peccato c’è una contraddizione qualitativa. Allora, per passare dalla tesi alla antitesi è necessario un salto che spezzi la necessità logica hegeliana. In Hegel, tesi e antitesi sono solo illusoriamente contrapposti, perché già si raffigurano in unità – una dialettica orizzontale e quantitativa. Diversamente, quella di Kierkegaard è una dialettica verticale e qualitativa: se tesi e antitesi si combattono, è perché l’identità è spezzata, tanto più quella fra razionale e reale. La dialettica non è possibile senza la responsabilità dell’uomo che fa entrare il peccato in sé, e di conseguenza la colpa. Allora, la dialettica non è possibile se i singoli individui non sono considerati responsabili. Lo spirito, per Kierkegaard, è l’unità del padre e del figlio, in quanto finzione redentrice della trascendenza sul paino della realtà storica. Questa coincidenza fra eterno 42 differenziazione armonica che potrebbe esserci fra anima e corpo in realtà si trasforma in qualcosa di negativo, in cui ciò che è differente si oppone all’altro termine. Convivono in questa situazione due possibilità che non rappresentano uno stato di inquietudine, perché non c’è ancora nulla con cui lottare. Fuori di sé, l’innocenza vede la realtà come un nulla: in questo stato di innocenza l’uomo allora non ha ancora peccato, non ha nemmeno scelto la conoscenza senza peccato. L’uomo qui ignora proprio il contenuto delle due mere virtualità. C’è nell’uomo la possibilità delle due possibilità: ovvero, c’è la possibilità del possibile. Ma che significato può avere per l’uomo presentire che lui può operare il salto al di la di sé, e soprattutto verso dove potrà saltare. Che cosa caratterizza allora l’ambiguità della angoscia, che cosa avviene se quella sua possibilità indeterminata finisce per determinarsi? Egli non lo sa ancora, e non lo sa perché è in uno stato di innocenza, dove sente che vi è per lui qualcosa; ma questo qualcosa, finché non viene compiuto il salto, è il nulla. La possibilità del possibile ignorata nel suo contenuto fa si che l’uomo, in questo stato di innocenza, sia costitutivamente nella angoscia. Nello stato in cui ciò che lo aspetta è nu nulla, l’uomo non conosce fuori di se questa proiezione, che rappresenta lo stato più profondo dell’innocenza. Siamo innocenti ma siamo angosciati: da questa trattazione emerge così innanzitutto l’immagine dell’esistenza umana che è costitutivamente segnata dalla angoscia. A dispetto di quello che potrebbe sembrare essere il titolo dell’opera, ci troviamo di fronte a una vera e propria fenomenologia della angoscia. Fin dall’inizio Kierkegaard insiste sul riportare l’attenzione sul tema del peccato, un tema che era stato ampliamente trascurato da quella cultura illuministico-borghese, che lo aveva escluso dal proprio osservatorio. Nello stesso tempo, vuole dare, a partire da questo tema, una nuova interpretazione al terzo libro del Genesi che non va colto nella veste mitica. L’uomo, che è innanzitutto io, è spirito (come dirà nella Malattia per la morte), in quanto è chiamato a sintetizzare elementi che strutturalmente lo caratterizzano e che altrettanto strutturalmente confliggono. Ci sono altri elementi oltre ad anima e corpo: la temporalità e l’eternità. In noi c’è un germe di eternità, oltre alla finitudine: nel momento in cui non vogliamo riconoscere l’infinità ci mettiamo nella condizione del peccato, perché precludiamo la possibilità di relazionarci alla trascendenza. Se il nostro io è deputato a dovere scegliere una forma di esistenza per quelle forme che storicamente gli si presentano, allora il fatto che l’uomo si trovi a doversi dare una identità precisa e a doversi scegliere, unitamente alla consapevolezza di potersi realizzare ma anche di potere fallire in questa scelta, allora questo aspetto è il fattore che produce angoscia. Questo stato d’animo, il presentimento di potere porre in relazione gli elementi contraddittori, che si trovano ancora in una unità indistinta – ci sono, ma non si è consapevoli, è ciò che lo angoscia e quindi lo predispone al peccato. In questo luogo, Kierkegaard stabilisce il rapporto che c’è fra angoscia e sogno – l’angoscia allora appartiene in qualche modo alla psicologia. Nella vita vigile, la differenza fra l’io e l’altro da me è in qualche modo posta; nel sogno, la distinzione è invece lasciata in sospeso, è una sorta di nulla appena accennato, lo spirito è invece il rapporto fra anima e corpo, un rapporto che nell’innocenza non è ancora instaurato. Quando questo rapporto ci sarà, perché lo spirito avrà realizzato la sintesi, ovvero quando nello spirito la distinzione diventerà consapevole, allora la situazione sarà mutata. Si potrebbe dire che l’angoscia si pone a metà fra quella che è l’impossibilità dell’animale di creare questo rapporto: l’animale è nella sua realtà naturale così proprio perché non è determinato come spirito – c’è una differenza ontologica fra uomo e animale, non troveremo mai angoscia nell’animale. Nello stato di innocenza, questo stato di rapporto fra anima e corpo è solo possibile, 45 per cui si può dire che lo spirito tenti la sua possibilità. Appena cerca di afferrare questa possibilità, essa si dilegua, perché è un nulla che può solo angosciare. A produrre l’angoscia, per Kierkegaard, è il nulla che l’individuo è prima di porre la sintesi, prima di darsi una figura, prima di diventare se stesso. Quando è chiamato a mettere in relazione anima e corpo, quando è chiamato a mettere in relazione la propria esistenza, l’io non è ancora qualcosa , i suoi contorni sono molto sfumati. L’angoscia dello stato di innocenza, in questo senso, è indeterminata, ovvero è priva di un contenuto reale. Su questo punto, Heidegger si rifà a Kierkegaard dicendo che l’angoscia è caratterizzata dalla indeterminatezza. L’angoscia non solo è mancanza di determinazione, ma è la fondamentale impossibilità di qualsiasi determinazione. Lo dice nel saggio intitolato Cosa è la metafisica: l’angoscia è la fondamentale impossibilità di qualsiasi determinazione. Essa è possibilità alo stato puro. Infatti, qui interviene quella possibilità che Kierkegaard riprende. Possiamo avere paura di molte cose, ma non possiamo avere paura di tutte le possibili possibilità. In quest’ultimo caso, la paura eventuale diverrebbe così indeterminata da cessare di essere semplicemente una paura, per diventare inevitabilmente angoscia. Essendo possibili tutte le possibilità di avere paura di qualcosa, nulla potrebbe farmi temere che ci sia una possibilità che escluda tutte le altre. L’uomo viceversa è nella angoscia rispetto alla infinità del possibile, cioè di fronte alla indeterminatezza più assoluta. In questo caso, l’angoscia viene definita la realtà della libertà, in quanto è possibilità per la possibilità. Ciò significa che non ci può essere una libertà condizionata: l’angoscia è realtà della libertà nella misura in cui è possibilità di possibilità, dove di fronte abbiamo il nulla indifferenziato. Da questo stato di assoluta nebbia, attraverso il salto si può passare dal possibile al reale. È qui che l’uomo cade nel peccato: quando scegliamo, non possiamo fare altrimenti, non possiamo restare prigionieri di questa situazione dorata. È qui che l’uomo cade nel peccato, è come se l’uomo si trovasse di fronte a Dio che è sentito come una infinita possibilità. Questa infinita possibilità non può contrapporsi alla realtà finita dell’uomo. Non facciamo che contrapporre la nostra finita possibilità, che è la negazione, con l’infinita: questo fa si che si ponga un apporto verticale, che va in direzione della trascendenza. Questo rapporto è assunto però in contrapposizione alla trascendenza, perché si continua a privilegiare la finitudine, questa contrappostine si carica di una colpa. ciò significa che nella colpa si rivela in maniera negativa il senso della trascendenza – avvertiamo che c’è una trascendenza ma nello stesso tempo la respingiamo e finiamo per peccare. Nello stato della colpa si rivelerà una nuova angoscia, essa sarà l’espressione del suo bisogno di innocenza. Qui emerge però anche il bisogno di innocenza che è proprio dell’uomo: insieme ad essa, il bisogno di redenzione. Kierkegaard batte molto sull’aspetto della ambiguità psicologica della angoscia; per sottolinearlo, dice che l’angoscia è una “antipatia simpatica” e una “simpatia antipatica”. Al momento del risvegliarsi dello spirito, che è quell’elemento che deve operare una sintesi, l’individuo che si trova di fronte alla possibilità di potere (possiamo tutto, una onnipotenza che ci si ritorce tutto) e presagisce che il compito a cui è chiamato, ovvero quello di determinarsi in piena libertà, è segnato dal «pericolo del naufragio» – così lo chiamano i filosofi dell’esistenza del Novecento, fra cui Jaspers. Prima abbiamo la possibilità della possibilità, la possibilità di potere. Poi c’è però il rischio della unilateralità, dell’errore. Non possiamo scegliere tutto; per questo, l’uomo viene preso dalla angoscia. Questa è una metafora bellissima: l’uomo viene preso dalla angoscia e quindi dalla vertigine della libertà; noi guardiamo l’abisso del nulla, e l’angoscia è nell’occhio ma è anche giù. In questo senso, si può dire che la scelta non avviene mai nella indifferenza: quando l’individuo decide di imprimere una direzione alla propria 46 vita, finisce spesso per scegliere un finito piuttosto che un infinito; quindi, un senso di riparo piuttosto che di pericolo – questo si prova nell’incamminarsi in un percorso più complesso, in cui si tratta di lasciare tutti i benefici e inerpicarsi nella verticalità, scegliendo di optare anche per la caduta. L’individuo opera questa scelta perché la sua libertà risulta imbrigliata dalla angoscia, tanto da restarne paradossalmente sopraffatta. L’angoscia è di fatto un elemento permanente, dal quale nasce di continuo il peccato; in questo senso, l’angoscia è la simpatica antipatica e al contrario, è una tonalità emotiva che la tempo stesso ci attira e respinge, nel senso che l’uomo, nella angoscia, da un lato anticipa e dall’altro presagisce la possibilità di potersi realizzare nella libertà; dunque, anticipa la possibilità di concretizzare la possibilità positiva. Il peccato, dal punto di vista esistenziale, produce quello che si chiama uno scacco, un errore capitale. Per valutare a pieno l’ambiguità della angoscia non dobbiamo dimenticare che nella angoscia si presenta la possibilità dell’infinito. È una sorta di infinito in atto quello che c’è nella angoscia. In un senso, l’angoscia non è colpa posta dall’innocenza: basta pensare ai bambini, nei quali l’angoscia è determinata dalla ricerca della avventura, anche del misterioso. I bambini sembrano sopportare meglio, perché curvano l’angoscia alla loro fantasiosa ricerca. Ma poi l’angoscia è caratterizzata da ambivalenza, è bipolare. Per questa ambiguità, colui che pecca è da un lato innocente in quanto si angoscia, ovvero nella misura in cui non è lui ma l’angoscia a catturarlo, a prenderlo. Tuttavia, le cose non stanno solo così. se noi pecchiamo, non è colpa della angoscia: siamo strutturalmente fatti in questo modo, ci lasciamo cadere nella angoscia, perché pur temendola la amiamo, determinando l’angoscia come una costante ribellione del finito rispetto all’infinito. L’angoscia è insieme amata e temuta: questo è paradossale in senso astratto, ma non in senso psicologico. In un primo momento, lo spirito è presente come sognante, come una forma che è insieme amica e nemica. L’uomo è, con questa forza, in una relazione ancora ambivalente: lo spirito è indistinzione, e lo stato di inconscio è anche quello in cui il corpo fa tutt’uno con l’anima. In questo senso, lo spirito è una forza disturbante del rapporto fra anima e corpo. Nello stesso tempo, è anche una potenza amica, perché vuole costituire questo rapporto. Il rapporto dell’uomo con questa potenza è un rapporto ambiguo. Il rapportarsi è un rapportarsi angosciate per via di questa duplicità di possibilità che non si possono elidere. Questo ci rivela la complessità di questo stato che Kierkegaard chiama angoscia: essa è il mostrarsi della libertà in un campo assoluto. Per questo, l’angoscia è un tratto specificatamente umano. L’animale non è determinato come spirito, a differenza dell’uomo: entrambi possono avere paura di qualcosa di determinato, ma l’avere paura del nulla, cioè dell’indeterminato, è esclusiva dell’uomo, perché è una paura trascendentalmente senza oggetto. Non a caso, l’angoscia è anche indipendente. Ogni individuo vive l’angoscia in maniera personale; ancora una volta, è il tema del singolo che prevale. Un essere che fosse del tutto necessitato, tutto corpo, sarebbe un essere che non troverebbe angoscia, così come non proverebbe angoscia un essere che fosse puro spirito, pura possibilità senza possibilità. L’angoscia è sempre il sintomo del carattere creaturale e contingente dell’umano, rimanda alla insicurezza di fondo che segna in profondità l’esistenza umana. L’uomo però, in ragione di questa sfortuna, è chiamato dall’alto a essere qualcosa di più di un essere semplicemente naturale. E questo ci viene da quella forma di complicazione che abbiamo cercato di descrivere attraverso l’angoscia. Essa presuppone in qualche misura l’auto esperienza dell’io come spirito infinito. Quindi, noi siamo caratterizzati dalla finitezza, ma l’angoscia presuppone il fatto di avere esperienza di se anche come spiriti infiniti . C’è in noi 47 Tuttavia, in questo modo la storia sembra mantenersi nel peccato. Solo nella misura in cui la rinascita della carne diviene rinascita nello spirito, la storia viene redenta. Kierkegaard ricorre alla determinazione dell’angoscia, in primo luogo, perché intende spiegare l’intima libertà in maniera molto più adeguata di quanto non fosse stato fatto dal racconto biblico della seduzione e attraverso quella che è la tradizionale teoria della concupiscenza, qualcosa da cui saremmo sviati. La brama è qualcosa di non specificatamente umano, qualcosa che appartiene molto di più a una essenza animale. Il tema della concupiscenza è qualcosa che accomuna l’uomo all’animale; in particolare, la teoria della concupiscenza non tematizza a dovere l’intima scissione che caratterizza l’uomo al momento della caduta nel peccato. Kierkegaard insiste molto sul tema libertà-angoscia, perché cerca di pensarla secondo quella che è la sua concretezza. La libertà in Kierkegaard non coincide con il libero arbitrio, che è libertà di indifferenza, come la storia dell’asino di Buridano26, che messo di fronte a due identici mucchi di fieno, non riuscendo a scegliere, finisce per morire di fame. In primo luogo, la libertà non precede la decisione o la risolutezza, ma si realizza in essa. La realtà non è mai solo possibile, ma vive unicamente nell’atto vitale concreto. Appena è, è reale. La realtà è semplicemente preceduta dalla possibilità di potere. La possibilità della libertà che è costitutiva dell’umano nella maniera di Kierkegaard non è potere indiscriminato di scegliere il bene o il male. Questo tipo di controsenso a ben vedere non è autorizzato né dalla scrittura né dal pensiero. La possibilità è il potere, e (I) la scelta è essenziale alla libertà: dove non c’è scelta, la libertà è illusoria. Dove domina l’indifferenza, la libertà è una astrazione. In secondo luogo, la libertà non è una facoltà solo formale, che consente all’individuo di scegliere indifferentemente, ma è (II) una facoltà mossa in senso esistentivo, cioè riguardante le possibilità concrete della propria esistenza. Grazie ad essa, l’individuo può realizzare se stesso: non siamo di fronte a una indifferenza. Siamo li per questo compito, per guadagnare e realizzare noi stessi, per rifinirci come un sé. Per Kierkegaard si ha autentica libertà solo quando si sceglie la propria realizzazione: c’è una possibilità di potere che può farci cadere nel peccato, ma la vera libertà si realizza quando abbiamo scelto la nostra realizzazione. Da ciò emerge la funzione della angoscia come la maledizione fra possibile e reale. L’angoscia non è una determinazione della necessità, non è nemmeno determinazione della libertà, ma è una libertà vincolata e imbrigliata in se stessa. In un sistema logico come quello hegeliano è facile dire che la possibilità trapassa nella realtà. Fra realtà e pensiero continua ad esserci uno scarto, e la determinazione intermedia è l’angoscia. Per Kierkegaard, il passaggio fra possibile e reale è in qualche modo consentito dalla angoscia, e le categorie evocate a riguardo son il peccato e la colpa. Il peccato non è entrato nel mondo necessariamente, altrimenti non ci sarebbe angoscia. Non si darebbe angoscia. Tutto ciò ha il suo fondamento nella libertà di potere. In questo senso, decade il volere spiegare con la logica come il peccato sia entrato nel mondo. In conclusione al capitolo, Kierkegaard ribadisce che nessuna scienza può spiegare il peccato: solo 26 Celebre esempio dell’asino che, in mezzo a due fasci di fieno, morirebbe di fame per l’incapacità di determinare la scelta. Fu ripreso da Dante: «intra due cibi, distanti e moventi – d’un modo, prima si morria di fame – che liber uom l’un si recasse ai denti» (Par., IV, 1-3). Attribuito al filosofo Buridano, l’aneddoto non si trova nelle sue opere, né gli appartiene. È probabilmente invenzione di contemporanei per deridere la sua teoria della libertà, ispirata, come tutto il suo pensiero, al nominalismo di Guglielmo di Occam. Per Buridano voluntas est intellectus et intellectus est voluntas, quindi qualunque bene si presenti al nostro intelletto deve determinare il volere; l’unica libertà consiste nella facoltà di sospendere l’assenso per compiere un nuovo esame allo scopo di conformare meglio l’azione al fine della natura umana, e in questo consiste la moralità. 50 la psicologia può dire che l’azione del peccare è inspiegabile. L’atto del peccato non è riducibile al discorso logico razionale e quantitativo: ci si salva solo attraverso un atto di fede. Il secondo capitolo inizia con una frase precisa: con la peccaminosità fu posta la sessualità. Nel momento stesso in cui fu posta, è qui che inizi la storia del genere umano. Nel capitolo precedente abbiamo sottolineato come la carnalità e la sessualità sia un momento fondamentale della storia. Il problema è complesso: ogni individuo rivive in se tutta la storia e il dramma di Adamo, non c’è un Adamo destoricizzato che viene prima della storia. Non è concepibile che vi sia un uomo che non si trovi nella angoscia. La natura di questa angoscia è la stessa di Adamo. Dal punto di vista qualitativo è la stessa, perché non c’è un primo genitore, ma sotto il profilo quantitativo, essendoci in noi più storia, siamo più angosciati. 9.10.2023 Ogni individuo rivive in sé tutta la storia; dunque anche il dramma di Adamo. Perciò, l’angoscia si arricchisce in ogni singolo come in tutti gli altri singoli. Qualitativamente siamo tutti degli Adamo; quantitativamente, l’angoscia è peggiore per noi. L’angoscia di tutti coloro che vengono dopo è quindi riflessa in conseguenza della partecipazione alla storia della specie. Nel primo capitolo, Kierkegaard aveva mostrato come l’angoscia poteva spiegare psicologicamente il peccato. In questo senso, il peccato si servirebbe della angoscia per entrare nel mondo, nel suo essere costitutivo. Ogni volta che l’essere umano rivive la storia degli altri, rivive non solo la situazione angosciosa di Adamo (condizione predisponente), ma rivive anche la situazione psicologica in cui si trova il singolo peccatore (presupposto costitutivo della natura umana). In altri termini, la caduta nel peccato è qualcosa che non toglie l’angoscia. Il peccato prorompe e si manifesta nel salto qualitativo, è un salto nella trascendenza e nel ricorrere alla fede. Ma l’angoscia non è solo condizione predisponente ma anche presupposto, costitutiva della condizione umana. Kierkegaard afferma che più l’uomo è sincero, più l’angoscia è profonda. Ma non vi è una vera maturità se l’individuo non si è appropriato del presupposto della peccaminosità: in un caso, (1) l’angoscia è il mezzo con cui il peccato si determina; nell’altro, (2) l’angoscia è il ripetersi del peccato nei vari individui, oppure nello stesso individuo. Con il conseguente entrare nel mondo da un punto di vista qualitativo e quantitativo. Noi siamo dei piccoli Adamo ma siamo perfino più angosciati di quanto potesse esserlo lui. Adamo aveva su di sé quell’aspetto di incremento quantitativo che ci riguarda tutti – qui si pone con chiarezza la distinzione fra l’aspetto quantitativo dell’angoscia e il salto qualitativo. Questo non occulta il fatto che ogni individuo diventa sempre colpevole per se stesso. Se si diventa colpevoli è in ragione dell’avere abusato della propria libertà. Kierkegaard dice che il medico di un manicomio, se è abbastanza stupido da credersi saggio in eterno, se ritiene che l’intelligenza che possiede sia al riparo da ogni rischio, in un certo senso è il più stolto di tutti e non ne guarirà molti. Nel primo paragrafo del capitolo successivo, Kierkegaard distingue fra l’angoscia soggettiva e oggettiva; dunque, fra un aspetto particolare e la categoria generale della angoscia. Innanzitutto, essa riguarda tutto il creato – egli parla del ‘creato’ perché è un fervente cristiano. Kierkegaard vuole sottintendere che tutti i fatti e gli eventi sono fra loro in una relazione così stretta che ciò che avviene a ciascuno di essi non è senza riflesso sugli altri. Non viviamo nella totale solitudine. Ovviamente, questo ha degli svantaggi anche dal punto di vista dell’accrescersi quantitativo della angoscia. Da un lato il peccato modifica la natura dell’uomo; allo stesso tempo modifica anche la natura di tutto il creato. Kierkegaard in questo si era rifatto 51 certamente alle sacre scritture; in questo caso, a una Lettera ai romani: «Con il peccato di Adamo, la peccaminosità entrò nel mondo». Naturalmente, in quanto doloroso, vi è anche desiderio di uscire dal peccato. Un desiderio che al contempo mostra ciò che manca: il senso e il bisogno di trascendenza – è solo questo a potere emendare non solo il singolo ma anche il creato. Kierkegaard sembra così richiamarsi a San Paolo, nel passo in cui si dice che il desiderio del creato è l’attesa del figlio di Dio. Tutta la natura è angosciata proprio perché tutta la natura è in attesa di redenzione. Nella Lettera ai Romani si parla della attesa angosciosa di una creatura. Il punto è che il “travaglio” del creato è quello che lui chiama angoscia oggettiva: l’angoscia del creato è quindi a sua volta attraversata da questo bisogno di redenzione che è totale. Subito dopo però tratta di un altro aspetto che è preminente e che si lega al rapporto fra psicologia e dogmatica: parla della angoscia soggettiva, che riguarda propriamente l’individuo e di cui aveva già parlato nel capitolo precedente. All’inizio del paragrafo, Kierkegaard avanza uno dei paragoni più potenti che riguardano l’angoscia, quello fra l’angoscia e la vertigine. Attraverso questa metafora si chiarisce la determinazione della angoscia intesa come libertà di potere. Kierkegaard dice: chi volge gli occhi in fondo ad un abisso, vede la vertigine. La causa di tutto è qui ed è lì. In questo modo, l’angoscia è la vertigine della libertà, che sorge mentre lo spirito sta per porre in qualche modo la sintesi; in quella situazione, la libertà, guardando giù nell’infinito delle possibilità, finisce per afferrare in qualche modo il finito, per abbracciarlo e per fermarsi in esso in questa vertigine. La libertà cade. Il senso della metafora è ribadire che l’uomo potrebbe anche non guardare nell’abisso, ma poiché questo accade, illumina anche un altro aspetto, cioè la responsabilità che ciascun uomo ha nel peccare. Non c’è qualcuno che ci costringe a peccare: se noi siamo peccatori, lo facciamo per libera scelta. Al momento di scegliere se stessi in piana libertà, l’individuo è preso di fronte all’abisso per le sue innumerevoli possibilità; per questo, è preso da una vertigine che lo spinge a legarsi al finito, e istintivamente, per salvarsi da questo rischio, si aggrappa a ciò che è a sua portata di mano; l’altra faccia del finito è il suo essere temporale. Si ha l’impressione illusoria che ciò che è tangibile e presente garantisce sicurezza. C’è qualcosa che sopravanza per ulteriore riflessione, che invece avrebbe potuto fare siche ci comportassimo diversamente. Nella angoscia l’uomo avverte la sua responsabilità ma poi sprofonda nel peccato, quindi nella estrema illibertà, che è mancanza di libertà (non condizione di scegliere in modo indifferente). Di fronte alla libertà come infinita possibilità di potere, l’uomo è governato dalla angoscia e, nel momento di porre la sintesi, si risveglia colpevole. Lo spirito prima è sognante, poi deve scegliere e si risveglia ma capisce e conosce la consapevolezza di cui si è macchiato. Se però le cose stanno così, per Kierkegaard il peccato è comunque l’atto del costituirsi dell’uomo, è il peccato dell’autentico diventare l’uomo dell’uomo; è ciò che segna l’inizio della storia del genere umano come di ogni singolo umo. Se l’angoscia svelando all’uomo le sue infinite possibilità lo rimanda alla sua libertà si può dire che l’angoscia è un indizio psicologico. L’angoscia rende trasparente per l’uomo la possibilità della sua libertà; al contempo, gli fa scoprire anche la realtà della libertà nella colpa. L’angoscia è quindi segno di una libertà che è realmente esistente anche se in se stessa è imbrigliata. Infatti, non a caso, l’angoscia viene esperita solo quando facciamo esperienza di non essere liberi. Noi sentiamo cosa sia “libertà” in negativo, quando facciamo esperienza della non libertà, quando ci scontriamo con i suoi limiti. Nella Lettera ai romani Paoli tematizza una libertà a tal punto veicolata in sé da fare qualcosa che non vorrebbe fare: dio è scisso fra 52 assolutorio né determinate per stabilire come e quando avviene il primo peccato. L’individuo è sempre libero di scegliere, è sempre responsabile del suo primo peccato. Non possiamo essere de- responsabilizzati. Questo resta vero nel variare di tutte le situazioni storiche. L’angoscia dell’uomo procede da tutti questi elementi. Uno dei mutamenti storici più importanti è costituito dal cristianesimo, che ai tempi di Kierkegaard si era anche un po' imborghesito, era finito nell’onda lunga di un certo illuminismo settecentesco. Anche il pagano, cioè il non cristiano, si trova nell’angoscia. Per il pagano l’angoscia si presentava in forme particolari, perché per lui veniva intesa come angoscia di fronte al destino; per l’ebreo si trattava invece della angoscia vista come colpa, come espressine. Per Kierkegaard non solo l’individuo entra nella storia del genere umano attraverso il suo primo peccato: egli inzia in questo modo anche la sua personale storia di peccatore. La sua angoscia risulta non solo il risultato di tutte le colpe, ma anche di quelle da lui stesso commesse. È sempre solo il salto nel peccato che consente di conoscere la sessualità come dimensione dell’individuo che confligge radicalmente con la sua spiritualità. Aumenta la propensione al peccato e aumenta l’angoscia dell’individuo. Ma il salto è qualcosa che non può mai essere dedotto, anche alla maniera hegeliana. Il salto è qualcosa di non deducibile, è il salto che accresce l’angoscia, che muta alla radice l’individuo. Questo salto accresce in ciascuno di noi l’angoscia in quanto, oltre all’angoscia della scelta, ciascuno di noi avverte anche l’angoscia della colpa. Non c’è angoscia di diventare colpevoli, ma quella di essere considerati colpevoli del male commesso. Poi c’è anche l’angoscia del male, quella di ripetere coattivamente un peccato già commesso, e di farlo per una sorta di debolezza. Ma anche l’angoscia del bene: volere essere ostinatamente se stessi. La libertà allora, lungi dall’essere qualcosa di cui si può parlare in maniera astratta, non è un semplice libero arbitrio, è qualcosa che appare pregiudicata, gravata a priori da una situazione che la condizione. Nell’ultima parte del secondo capitolo, Kierkegaard ci mostra come concepisce l’individualità: questo è un tema che ritorna nell’ultima parte della malattia per la morte, ma qui si mette a fuoco anche il tema della singolarità, criticando innanzitutto come non scientifica la spiegazione del peccato come una forma di egoismo. Il tema della dogmatica non esce mai di scena. L’io inizia a abbozzarsi come il luogo della angoscia, l’io è l’unico posto in cui l’angoscia ha cittadinanza. L’angoscia è il luogo in cui l’eternità e il tempo si incontrano: una sintesi emotiva, di natura spirituale. Essa è il luogo in cui trascendenza e immanenza si incontrano, in cui anima e corpo si incontrano e si tengono. Non solo: l’io è per sua struttura determinato dalla sua innocenza, ovvero dalla sua libertà di potere, dalla sua possibilità di peccare, e anche dalla sua caduta – se c’è una caduta, anche da una sua esigenza di redenzione. Dio non è una di quelle cose, non è immanenza o trascendenza. l’io trova una sua sintesi solo nel suo rapporto con la generazione. L’io fa i conti anche con quella dimensione in cui anche i nostri genitori sono stati creati nella carne. Ma questo non basta, l’io non è cogliibile nella sua concreta realtà, anche se fosse possibile stabilire tutte le infinite relazioni che lo costituiscano. È la possibilità di potere ad assumere questo o quel rapporto nei confronti di tutte le determinazioni che lo costituiscono. Il Dasein è il potere assumere un rapporto in relazione a tutte le relazioni in cui lui si propone, il rapporto che noi attuiamo e scegliamo nei confronti di queste relazioni. L’io è sempre il principio di un atto libero, che è libero anche di fronte a tutta la sua storia, un atto dal quale dipende anche tutta la sua salvezza. Dio non è altro che l’atto del salto, è una possibilità di costituire il salto o come fede o come peccato. Questa possibilità non si può però 55 raggiungere come se fosse un dato acquisito. Dio infatti significa contraddizione, significa che l’universale è sempre posto come particolare, per cui ciò che l’io è, è il suo atto di impegnarsi, è il modo in cui l’io si attua, è il modo in cui l’io i realizza nelle possibilità di perdizione e salvezza. Il miracolo della vita è che ogni uomo che considera sé stesso sa qualcosa che nessuna scienza sa. Siamo più sapienti da questo punto di vista, la considerazione che abbiamo correttamente maturato ci dà il consenso di qualcosa che nessuna scienza può comunicarci. Sappiamo chi siamo, sappiamo cosa è il nostro sé. Questo non va concepito come se il “conosci te stesso” andasse interpretato ‘alla tedesca’, «non è una sorta di idealismo fatto di aria» (cit.), non è un puro principio di coscienza o di conoscenza. Quel principio socratico va inteso davvero alla greca, come un sovrappiù. Come se i greci avessero goduto di certi presupposti della cristianità. Il vero io si sarebbe riconosciuto come posto nel salto qualitativo. Prima del salto non si può tecnicamente parlare dell’io, del sé. Di questo si può parlare solo dopo il salto. Ciò significa anche che l’io deve essere ritrovato come principio di fede, speranza di fede. Alla fine del capitolo, Kierkegaard riprende e fa due affermazioni che sono importanti. la prima affermazione è che la sensualità di per sé non è la peccaminosità. La sessualità è un elemento costitutivo e necessario dell’universo, ma nella evoluzione del creato, quando si arriva finalmente all’uomo, si arriva alla possibilità di un nuovo rapporto, che è quello fra anima e corpo, che è garantito dallo spirito. Di fronte al momento superiore, il corpo si presenta come realtà inferiore che ha bisogno di essere innalzata a una nuova sintesi. Nella storia della evoluzione sopraggiunge un momento criptico: la sintesi più alta alla quale si tenge talvolta non è raggiunta, si ha il permanere in una situazione di animalità, poi ci si accorge che ciò non è possibile. Perché l’uomo, proprio perché permane in questa situazione, si trova nello stato di angoscia dell’innocenza, e si sente di avere un potere che va al di là della animalità. Siamo chiamati a esser qualcosa di più, l’animalità non deve essere cancellata ma sublimata. L’individuo è posto allora in estrema contraddizione. È qui che lo stato di innocenza arriva a una sorta di fibrillazione, contro il quale l’uomo deve raggiungere una nuova sintesi organicamente superiore. Nella animalità noi ci assestiamo sul piano di sintesi, e la sensualità nell’uomo e in tutto il mondo animale non è ancora peccato. Sarà peccato solo quando l’umano, nel salto che deve condurre, cadrà nella colpa, la quale potrà esser indicata come un errore nella direzione del salto. Nello stato di angoscia, l’uomo non può “rimanere” all’infinito e rischia di essere se stesso in uno stadio di pura animalità. Quando salta, l’uomo non sa ancora cosa potrà diventare. La propria animalità nel peccato si rafforza. Lo spirito non ha nulla di corpo, altrimenti sarebbe un po' troppo “penitenziario”. Lo spirito restituisce la pienezza alla situazione animale. che era limitata dal peccato in quanto contrapposta all’anima. Il corpo può convivere con l’anima: la rinascita spirituale può realizzarsi solo nella redenzione. È anche il corpo e tutto il creato sensibile che acquistano un nuovo valore sensibile. Questa è poi la realizzazione della piena funzione della storia. Se questo si realizza, il sensibile non viene negato, ma viene riconquistato, così come nel movimento della fede il salto verticale verso la trascendenza non è un salto fine a se stesso ma torna al mondo e lo innalza. L’eros, dice Kierkegaard, che costituisce un problema centrale, anche nelle opere estetiche, acquista una sua funzione. Quando viene raggiunta nella fede la dimensione più alta, la sessualità e la sensualità non sono tolte, ma permangono nella sintesi e devono essere riformulate e ricomprese in questo senso. Anche il loro peccato rimane alle spalle come una sorta di semplice oblio. In questo rapporto, l’eros realizza se stesso e si attua come amore. L’eros non scolora ma sconfina nell’amore. È qui che incontriamo la seconda affermazione che ci dice che l’angoscia non 56 è insuperabile. Essa preme nell’uomo quanto più l’uomo si rifiuta di accedere a quella sintesi armonica fra anima e corpo. Più l’uomo si allontana, resiste e recalcitra dalla missione che lo costituisce come essere spirituale, più l’angoscia cresce ma più cresce, più l’uomo ha bisogno di amore; lo stesso aumentare della angoscia ha una funzione. Ecco perché dobbiamo andare a scuola della angoscia. Essa ha la funzione di spingere l’uomo che pecca a una nuova situazione limite, dalla quale si può uscire solo con l’amore e con la fede. 10.10.2023 Kierkegaard ha voluto superare la concezione astratta della libertà, sottolineandone non solo il carattere vincolato, ma anche quelle che sono le sue determinazioni, i suoi condizionamenti. Nello stesso tempo, Kierkegaard ha voluto criticare una concezione meramente ereditaria del peccato, sottolineando l’importanza del Salto. Il tema del peccato fa tutt’uno con questa questione, al di là di ogni vincolo e di ogni possibile condizionamento. Il tema della angoscia e del peccato ci pone di fronte alla questione del Salto. Il peccato non può essere spiegato in maniera logica né causale; il peccato non è un mero e semplice passaggio uniforme, perché è un salto. L’angoscia è il mostrarsi della libertà nelle possibilità; questa è una delle tante definizioni che abbiamo richiamato. La libertà sappiamo cosa è e a cosa si trova di fronte. Guardando nell’abisso che le si aprono davanti, al momento del salto è presa dall’angoscia, quindi si ritrova vincolata. L’immagine è un po' quello del capretto sacrificale, che ha le mani legate. Quindi, poiché è imbrigliata, finisce o per scegliere di non scegliere, o per scegliere in maniera sbagliata, di scegliere l’infinito per l’infinito, perché pensa di potersi salvare. Da un lato, la libertà anticipa quella che è la futura realtà della libertà; al contempo, presagisce anche il possibile scacco, la possibile perdita di sé. Sotto questo profilo, l’angoscia è uno stato d’animo che rende l’uomo non libero, anche se allo stesso tempo rimanda l’uomo alla sua libertà. L’angoscia è sempre in bilico fra libertà e non libertà, è il segno di una reale libertà e al contempo di una libertà vincolata, che finisce per perdere sé stessa. Questo testo è allora una fenomenologia dell’angoscia, della mancata libertà, che però contiene al suo interno una sorta di nostalgia per la possibile o mancata realizzazione della libertà. In questo quadro, Adamo anticipa solo idealmente il destino dell’intero genere umano: è solo il prototipo dell’uomo peccatore, che al contempo pone il peccato per sé e lo pone per l’unità. In questo modo, il peccato diventa per ogni generazione a venire l’orizzonte irreversibile e ineludibile. Inoltre, dato che l’angoscia è anche il frutto di ogni nuovo peccato commesso, dai tempi di Adamo in poi si registra una crescita quantitativa di angoscia. L’intervento quantitativo pesa sulle generazioni successive. Non è un caso che, se l’angoscia era prima indeterminata, era una angoscia senza oggetto, dopo la caduta perde gran parte della sua ambiguità, diventa angoscia di qualcosa. Tuttavia, la storia del peccato di ogni singolo individuo non è il prodotto non voluto dele colpe storicamente ereditate, non è qualcosa che ci piove addosso all’improvviso. Non c’è un prodotto non voluto del peccato commesso, perché quest’ultimo ha un esito ben preciso: quello che conta è solo la caduta che riguarda il singolo e che da inizio alla sua carriera da peccatore. Dunque, il peccato è per ciascuno peccato originario. Il “più” di angoscia può certamente facilitare il salto nel peccato, ma non può mai determinarlo. Il peccato non è mai deterministicamente fissato: esso è il risultato di un salto inspiegabile, di un salto che ci ha portato in una direzione sbagliata. Il peccato non è determinato da nulla, o meglio è determinato da quel 57 solo nella misura in cui si interpreta anche il rapporto con l’eterno e il comportamento che ciascuno di noi può realizzare e attuare di fronte all’eterno. La temporalità assume un significato anche ontologico proprio in funzione del rapporto che noi sappiamo riconoscere con l’eterno. L’eterno non è l’atemporale, ma l’omnitemporalità. I momenti storici sono concreti, sono attimi, istanti; essi possono ottenere un loro significato sempre nel quadro di un rapporto verticale con l’eternità: è solo in questo modo che l’uomo riesce ni qualche misura ad affidare un senso alla propria vita. Questo è il tema della continuità di senso che può ottenere la vita. Sul tema dell’istante entra in gioco Platone – Kierkegaard è stato forse il filosofo che ha meglio concepito l’istante in Platone. Quest’ultimo si distingue dagli altri filosofi antichi per il particolare rapporto che instaura fra l’istante del divenire e le idee. In nota, Platone viene citato da Kierkegaard, e si pone l’istante come punto di incontro fra divenire e mondo della idea . Platone parla di exaifnes, che vuol dire “immediatamente” dal punto di vista della temporalità. Subito dopo averci detto questo, ovvero utilizzando Platone per contrastare Hegel, Kierkegaard ci dice che il rapporto fra anima e corpo si presenta come un problema dell’istante. Il problema di mettere insieme anima e corpo è il problema di mettere una sintesi alla libertà dell’uomo. W Questa libertà è ciò che nell’evoluzione storica dà all’uomo il potere di saltare da un momento storico inferiore, più basso, a quella che possiamo considerare una sintesi di carattere storico più elevata. Questa possibilità di saltare trasforma nell’uomo e per l’uomo la direzione temporale, nella attuazione di una evoluzione che va verso lo spirito. Compito dell’uomo è quello di saltare verso una nuova sintesi storica. Ogni tentativo di sottarsi a questo compito ma farlo senza fede (senza trasformare l’evoluzione temporale in evoluzione verso un valore) è qualcosa che crea angoscia. Avviene questo fatto quando un personaggio della storia, posto di fronte a tutte le possibilità ma incapace di raggiungere la fede, è vinto non tanto dalle condizioni esterne o dalle incapacità, ma è sopraffatto da sé stesso. Il tempo non è concepibile, va fondato nel suo rapporto con l’eterno. Solo così il tempo può risultare autenticamente discontinuo. Il flusso di corrente continua viene astrattamente spazializzata, resa artificialmente discontinua, ottenuta attraverso la applicazione della temporalità. Bergson criticava la discontinuità astratta, ma per Kierkegaard non riusciva comunque a raggiungere la discontinuità concreta. Nell’opera di Bergson, con la riconquista di una dimensione temporale è collegata all’influenza che hanno avuto nel pensiero filosofico anche la libertà e la fisica quantistica. È su questa base che Kierkegaard chiarisce che se non si riesce a fissare il presente in una concreta discontinuità del tempo, il presente diviene un puro svanire. Così avviene anche nella vita estetica, da cui risulta che il rapporto dell’eterno con il presente fa sì che il presente possa avere un determinato contenuto. Don Giovanni «è come il mare» (cit.), passa e conquista in maniera implacabile perché è una forza della natura. Di conseguenza, nella misura in cui è correlato all’eterno, l’istante presenta una sorta di ambiguità. In primo luogo, in quanto mero divenire presente, (1) l’istante si contrappone all’eterno: in questo senso, con il momento si intende l’astrazione dall’eternità, e per certi versi anche il contrasto. Dall’altro lato, (2) l’eterno diviene nel presente, non è assolutizzato in un iperuranio che si colloca al di la del presente. Se ci volessimo servire dell’istante per determinare il tempo indicando l’esclusione astratta del passato e del futuro, anche l’sitante non sarebbe nemmeno più presente, sfumerebbe nel nulla. Ciò che sta nella pura astrazione, ciò che si colloca fra passato e futuro, non è affatto. Il presente non può essere assolutizzato come un momento astratto. Ma anche l’identificazione della temporalità con il passato, farebbe sì che il presente si perda. Di fronte a questo tipo di soluzioni che vanno scartate, il 60 vero significato del momento è nel toccarsi della temporalità con l’eternità. Se quindi l’istante viene inteso alla maniera di Kierkegaard, esso ha la sua vera realtà in quanto non si configura come un atomo del tempo, del divenire, ma come atomo dell’eternità; esso è il primo riflesso dell’eternità nel tempo. Ma affinché il tempo sia questo, possa essere concepito come atomizzazione dell’eternità, occorre che il rapporto tra il divenire e l’eterno, tra il corpo e l’anima, sia effettivamente portato a sintesi dallo spirito. La malattia per la morte passa attraverso la possibilità di sintesi tra anima e corpo. Non appena lo spirito viene posto, si solidifica, esce dallo stato di innocenza, c’è l’istante. La sintesi tra tempo ed eternità non è che espressione di quell’altra sintesi che riguarda il rapporto tra corpo e anima. Nell’istante, il tempo e l’eternità si toccano, quasi si sovrappongono mescolandosi, si uniscono senza poter essere distinti in maniera irrelata. Con ciò viene posto anche il concetto di temporalità: solo se l’eternità è a fondamento del tempo (che non è indagabile per sé stesso), solo se l’eternità penetra nel tempo, acquista un significato la distinzione tra passato, presente e futuro. Lo ripetiamo: l’istante è ambiguo. Nell’istante, tempo ed eternità si toccano, si uniscono senza potere essere distinti in mainerà irrelata. Con ciò viene posto anche il concetto di temporalità, perché l’eternità è a fondamento del tempo. Il futuro per certi versi si presenta come un tutto, anche il passato è parte del futuro, e nelle dimensioni del tempo il futuro è una figura dell’eterno. È anche la lingua che protende per questa identificazione: si parla di una vita futura come di una vita eterna. Questo si riallaccia al fatto che, se il compito dell’uomo è quello di modificare il tempo verso il valore, per Kierkegaard l’evoluzione storica è l’evoluzione del fede nel mondo; questo punto si presenta come una sorta di “meta”, nel senso kantiano, verso cui deve dirigersi la vita storica indirizzata secondo la fede. Nel momento in cui, con la fede, l’individuo si innalza all’eterno, il futuro è la direzione possibile dell’etero nella storia. Se l’uomo attua la fede, può raggiungere il futuro come eternità; dunque, c’è promessa di eternità nel richiamo a intraprendere una via che segua la fede. Nel momento stesso in cui con la fede l’individuo si alza all’eterno il futuro appare come la possibile attuazione. La storia stessa è una sorta di rivelazione del futuro come eternità. Il cristianesimo esprime la cosa in un modo cruciale: parla della eternità come della pienezza dei tempi. L’uomo va inteso come relazione fra anima e corpo, ma nello spirito. La possibilità di un futuro come eternità è semplicemente sognata. Viviamo in una dimensione onirica - secondo Kierkegaard, la prima rivelazione è ancora in uno stato sognante. Il futuro, in questo stadio, è ancora una prefigurazione fantasmatica. È la mera virtualità dell’eternità che si avanza in una individualità imperfetta, e che assume le sembianze di una angoscia. Come ulteriore caratterizzazione, Kierkegaard parla del possibile come una categoria in rapporto al futuro – il futuro è per il tempo il possibile. Ad entrambi, nella vita individuale, corrisponde l’angoscia. In quanto uomo, nel rapporto può instaurare fra il presente e l’eternità, egli ha libertà di potere, e la possibilità è ciò che può avvenire: è questa possibilità che angoscia l’uomo. Del resto. l’uomo si angoscia anche per il passato, ma quando succede questo angosciarsi per il passato è una maniera impropria – quando ci angosciamo per il passato, è perché esso non è passato veramente. È un po' la situazione dei melancolici: un passato che ostruisce il costituirsi degli oggetti temporali e che impedisce la costruzione ordinata della temporalità; il melancolico vive nella tragicità di un passato che diventa un presente tragico e che non da possibilità di prefigurare un futuro. Se ho angoscia di un passato è per questo: se quel negativo per cui provo angoscia fosse passato potrei averne una sorta di pentimento. L’angoscia è quello stato psicologico che è la 61 possibilità di fronte al valore, sia nel senso di essere responsabilità di ogni istante di vita verso l’eterno, sia perché la possibilità è possibilità di eventi che possono essere o no realizzati. In fondo, siamo chiamati a realizzare: per questo, il futuro è la figura dell’eterno, così come lo è anche del possibile. Il futuro è il contingente, è la dimensione dell’apertura, anche sotto il profilo conoscitivo. In linea con tutto ciò, per Kierkegaard il salto in cui il peccato è posto la temporalità è peccaminosità, non nel senso che temporalità e peccaminosità coincidono, come anche la sessualità non è peccaminosità, ma solo nel senso in cui la temporalità significa peccaminosità. Pecca chi vive nell’istante inteso come momento astratto dell’eternità, perché il peccato è una sorta di ribellione. Il peccato è l’assunzione dell’attimo vissuto nella sua estraneità o contrapposizione. Da questo punto di vista, l’angoscia è il sottosuolo dell’uomo. il tema dell’angoscia risuona nell’opera di Kierkegaard sempre con accenti diversi, anche accompagnato al murare della melodia storica. Quello della angoscia è un tema dominante. L’angoscia è la possibilità delle possibilità. Del resto, l’illusorietà delle cose finite “laurea” i discepoli della infinità e della possibilità; essa è quella scuola che ci aiuta a scacciare dall’anima tutti i pensieri finiti, grezzi, chiusi in sé, vissuti in una sorta di egoismo. In questo quadro, l’istante, cioè l’incontro del tempo con l’eterno, in quanto attuazione della possibilità in senso positivo, è la vera e propria riconciliazione. La riconciliazione non può essere un semplice dato di fatto, non è mai la totale attuazione del possibile. In fondo, dice Kierkegaard, anche Cristo lascia aperta la possibilità del compito dello spirito. Kierkegaard non ci obbliga a comportarci in un certo modo: la libertà, in quanto ribellione alla possibilità positiva, diventa mancanza di libertà. Entriamo nel merito di quello che Kierkegaard chiama l’angoscia nella mancanza di spiritualità. Kierkegaard dice che la rivoluzione cristiana ha sempre distinto e discriminato fra un periodo pagano e un periodo cristiano. Il cristianesimo inizia quando scompare il senso del peccato. Quando c’è coscienza del peccato inizia una vita spirituale diversa, una distinzione storicamente determinata e anche un po' illusoria. Nel periodo cristiano sussiste un mondo pagano. Kierkegaard, in primo luogo, analizza come si presenta l’angoscia per il pagano. Il paganesimo pecca nel non volere riconoscere il peccato. Il paganesimo non vuole riconoscere il peccato, non può e non vuole nemmeno averne consapevolezza. Il peccato che permane nel cristianesimo è tanto più nel peccato e nella angoscia, quanto più il cristianesimo ha posto il rapporto con lo spirito come chiave di volta nella sintesi fra anima e corpo. Kierkegaard afferma che tanto maggiore è il valore di ciò che è perduto, tanto più miseri sono i non curanti. Del resto, è una cosa che sapevano già. Tanto più manca la consapevolezza della colpa, tanto più si sviluppa in noi l’angoscia, Allora il peccato è mancanza di spiritualità; tuttavia, c’è anche il bisogno della spiritualità che manca e che, di più, si rigiura. La condizione in cui essa si ritrova è più temibile. Colui che manca di spiritualità non è detto che non parli a sproposito o che non sia in grado di ragionarne filosoficamente, ma risolvere le questioni della vita non è scrivere un sistema filosofico. Conta la concretezza, ovvero il momento storicamente concepito in questo senso; del resto, chi “conosce” lo spirito non lo vive, la sua conoscenza diviene qualcosa di esteriore, perché non ha ancora il salto nella fede – le sue diventano delle parole che non ci impegnano. Ma il pagano che permane nel cristianesimo è tanto più nel peccato e nell’angoscia quanto più il cristianesimo ha posto il rapporto con lo spirito come chiave di volta della sintesi tra anima e corpo, eternità e tempo. Tanto maggiore è il valore di ciò che è perduto tanto più miseri sono i noncuranti, tanto più manca la consapevolezza della colpa tanto più si sviluppa in noi l’angoscia. Il 62 nella figura del destino. I greci, per Kierkegaard, non hanno conoscenza del peccato, perlomeno non ne hanno conoscenza profonda. È questo che rappresenta il peccato di natura spirituale di cui il pensiero greco si macchia. Quindi, il riconoscimento del destino mostra al contempo il fatto che esiste qualcosa di diverso rispetto all’essere umano, qualcosa che per l’individuo concreto era un nulla. Un nulla di cui occorreva tenere conto, e con cui il rapporto era in un certo senso ambiguo: non si riusciva a entrare in un rapporto concreto. La dimensione dell’altro si manifestava come destino: era come una sorta di premonizione e di annuncio, un po' oscuro, di una diversa forma di alterità. Nel paganesimo ha una sua centralità questa nozione. Il destino è il nulla della angoscia, è il carattere assolutamente indeterminato della angoscia. Per togliere il nulla e il destino stesso, occorre riconoscere che ciò che all’uom accade non va messo in conto al destino. Semmai, questo aspetto andrebbe messo in conto alla sua libertà e alla sua responsabilità. L’individuo non può mai sentirsi deresponsabilizzato; riconosciuta, essa è anche tolta, eliminata e superata da quella angoscia che possiamo indicare come primaria. Sopravviene anche l’angoscia di quella che è la propria colpa. In quanto elemento predisponente del peccato, sorge una nuova angoscia, ed è l’angoscia della colpa, quella che si manifesta quando l’uomo riconosce di essere colpevole anche di tutto ciò che accade. La scoperta di questa angoscia, una angoscia privata che si fonda soprattutto su di essa, è caratteristica non tanto del pensiero greco ma dell’ebraismo. Proprio per la sua interpretazione anche della fenomenologia, Lévinas tratta questi aspetti nel suo saggio su Kierkegaard. Dopo alcuni elogi, le critiche a Kierkegaard risentono di questo approccio: l’ebraismo rifiuta il destino visto come concezione caratteristica di quella che è una sorta di superficialità pagana. Kierkegaard insiste molto sulla ambiguità tipica del concetto di destino, oltre che di angoscia. Quando si parla di destino si contrappongono fato e causalità: si confonde la nozione di necessità e quella di caso. Questa ambiguità è caratteristica del destino, in quanto esso viene assunto come maschera del nulla. Per Kierkegaard, il nulla della angoscia può essere tolto solo attraverso l’accettazione della libertà e la responsabilità costitutiva, cioè attraverso quella che più volte ha definito salto alla fede. Qui Kierkegaard accede al concetto di provvidenza. Una volta che ci si pone sul piano del rapporto spirituale, nulla è più causale. Se noi ci facciamo realmente carico di questo percorso, nulla è più casuale e nulla è più fatale. Anche il fato sembra svanire dalla nostra vita, gli accadimenti singoli acquistano un senso diverso, non sono caratterizzati da una loro causalità, per la quale sarebbe anche difficile, se non impossibile, ricostruire un senso. Acquistano un significato provvidenziale, rientrano in questa dimensione, acquistano un senso provvidenziale in rapporto a quell’atto di redenzione che non può che attuarsi attraverso la fede. In relazione al concetto di destino, il paganesimo rappresenta il rapporto con il destino come il rapporto con l’oracolo. In fondo, il tema della premonizione c’era anche nel rapporto con l’oracolo. Sia i responsi dell’oracolo che i fatti della vita sono ambivalenti. Le carte non sbagliano mai, sono i fatti che a volte non si allineano. Possono essere sempre interpretati ma possono anche significare qualcosa di molto diverso poiché il destino nasconde in qualche modo l’angoscia, nasconde la possibilità di tutto ciò che è possibile. È del tutto impossibile determinare il futuro in una certa direzione, ed è impossibile trarre dall’oracolo un responso che indichi una via tale da escludere tutte le altre. Il carattere tragico di questo non sta tanto nel fatto che le dichiarazioni sono ambigue, ma nel fatto che il pagano non può fare a meo di consultarle. Prima di parlare dell’ebraismo, Kierkegaard introduce l’angoscia del genio, una forma particolare di angoscia. Le pagine dedicate a questo aspetto sembrano una sorta di abbozzo: oltre ai 65 tre stadi canonici, se ne possono incrementare altri. La vita del genio è uno stadio particolare della vita: c’è il genio estetico, ma c’è anche il genio politico – sono i grandi statisti. In questi, la lungimiranza è quella razionalità secondo lo scopo che non può limitarsi a commisurare i mezzi che noi abbiamo: dobbiamo sempre valutare le conseguenze che derivano dalla realizzazione dello scopo. In fondo, la genialità è uno stadio della vita esistenziale. Ma sia il genio estetico che il genio politico sono persone che si tuffano mani e piedi nel divenire, e per questo rifiutano e pospongono il rapporto spirituale. La dimensione mondana e fattuale viene privilegiata: i soggetti vivono in forma pagana, anche se si trovano all’interno del mondo cristiano. Con questo, Kierkegaard mostra che ci sono molte persistenze di paganesimo anche all’interno del mondo cristiano, l’analisi del genio politico riguardano i rapporti del genio stesso con il destino. Kierkegaard si riferisce al genio artistico e ai grandi condottieri; anche a Napoleone, una figura molto presente. Il genio politico può non agire nel mondo; tuttavia, per agire nel mondo, è portato a rifiutare qualsiasi rapporto con quegli aspetti della vita che comprometterebbero l’immediata necessità della sua azione politica. Vive e agisce nel mondo, ma il suo business è legato all’incidere della situazione nella dimensione mondana. È l’azione politica a risucchiare le energie. Tutto ciò che è eccentrico rispetto a questo viene tenuto fuori: tutto ciò che ha a che fare con la sfera religiosa e per certi versi con quella etica, ad esempio. Politico deve essere etico, ma se uno privilegia quella dimensione che riguarda i tratti della politicità è evidente che in crete situazioni deve andare un po' dritto, deve agire anche nel richiamo assoluto alla eticità. Ma quando si parla di vita esistenziale, si fa riferimento quasi a una dimensione mono-esistenziale. La vita per i geni assume una fisionomia rattrappita: più sei genio più la vita coincide con questo. L’uomo però è l’individuo: non può ridursi a essere pura politicità. Chi cerca di agire solo su questo piano entra in contrappostine profonda con sé stesso e si autodistrugge, autolimitandosi. Alla lunga si può anche dire che non prova nemmeno più soddisfazione perché il suo agire è limitato. Egli è qualcuno che si autolimita anche se è riuscito a vincere tutte le difficoltà presentatesi lungo la strada. La contraddizione si manifesta in quanto l’azione politica entra in uno stato di angoscia, ma non riuscendo a instaurare un rapporto di ordine spirituale il genio politico maschera l’angoscia come una sorta di misterioso e anche superstizioso colloquio con il destino. Anche in questi casi, gli aspetti insignificanti che si possono riparare davanti al genio politico sono quelli che possono mandare in fumo anche il piano più accuratamente definito. Quindi, l’angoscia subentra anche nei confronti di un destino che incombe, di cose che non sarebbero in una dimensione vitale così rilevante. È per questo che il genio politico ha paura più delle piccole cose che delle grandi, ha più paura del gioco imponderabile, di ciò che non è stato in grado di controllare, piuttosto che del nemico più acerbo. Ma le piccole cose sfuggono per definizione anche all’attenzione di un genio. Per questo, lo stato d’animo del politico potrebbe offrire degli ottimi momenti per la realizzazione sul piano politico e letterario. L’ultima parte di questo breve paragrafo serve a Kierkegaard per contrapporre la vita dello spirito in cui ciò che è storico entra in un rapporto positivo con l’eterno, a tutti gli aspetti mondani della storia, e alla storia stessa rappresentata dal genio del mondo – che sembra venire incarnato da Napoleone. Una cosa è la vita dello spirito in cui la storicità assume una fisionomia diversa, un’altra riguarda il fatto che gli aspetti mondani della storia si traducono negli aspetti del mondo che restano a distanza da questa spiritualità. Subito dopo, nel paragrafo successivo, Kierkegaard entra a trattare di nu altro aspetto importante, che è l’angoscia dell’ebraismo. L’angoscia è ambigua e dialettica, orientata verso la colpa. Gli ebrei sono angosciati dalla colpa, un senso di colpa permanente. Se 66 l’angoscia nel paganesimo si esprimeva nella forma della vita estetica viceversa nell’ebraismo l’angoscia si esprime sostanzialmente in una forma di vita diversa, una forma di vita etica. Essa si esprime nella forma di vita etica, nelle categorie fondamentali di colpa e pentimento. L’ebraismo è dentro la angoscia, vi giace totalmente; in questo caso, l’espressione angosciarsi di niente risulta quantomai paradossale, proprio perché la colpa in questo caso è pur sempre qualcosa – una labile fisionomia. Nell’ebraismo, il niente della angoscia non è però il destino, ma l’alterità della legge, di fronte alla quale ci si sente in difetto. L’alterità della legge è quel nulla indistinto che si sostituisce al destino pagano. La raffigurazione della angoscia ebraica è inventata; forse la raffigurazione più autentica è quella che si trova in Kafka. L’ebraismo però, per Kierkegaard, potrebbe essere riscattato in quanto pur sempre espressione di religiosità: il passaggio fra la vita etica e la vita religiosa, fra timore e tremore. Tuttavia, l’ebraismo intanto supererebbe lo stadio etico andando in quello religioso se questo si ponesse come fondamento dello stadio etico, e non viceversa. L’ebraismo potrebbe essere questo passaggio se ponesse la vita religiosa al fondamento di questa vita etica. Siccome non lo fa, questa sorta di transizione non c’è. Se l’ebraismo si rifiuta e si ritrae rispetto a questo passaggio più elevato, un passaggio che ci spinge alle profondità del nostro essere, allora nemmeno la dimensione della vite etica si conserva in una sua pura idealità. L’eticità scade a legalità e colui che scade a visione ebraica del mondo entra nell’angoscia proprio per questo. Così il mondo ebraico entra nella angoscia; questa, per certi versi, è una angoscia morale, più profonda e più nobile. È una angoscia diversa da quella che prende la figura scanzonata e felice di sé come il Don Giovanni, di fronte a quelli che sono i fallimenti della sua vita amorosa e avventurosa. È anche quella angoscia che distrugge il genio politico nella sua lotta contro il destino. In fondo il genio politico potrebbe non essere sconfitto da qualcosa di ineluttabile. È la stessa vita morale che non assicura mai colui che può vivere in essa della effettiva moralità dei suoi atti. Nessuna legge può esaurire né racchiudere in sé l’essenza del rapporto spirituale, in senso positivo. È il rapporto spirituale che crea la legge e non viceversa. Anche l’uomo più morale si sente, in fondo, privo del profondo motivo della spiritualità etica. Non basta la legge, soprattutto se concepita in questa accezione. È solo un’altra cosa: l’amore, che in senso positivo supera la legge nella dimensione della carità. È il tema dell’amore che si nutre che può fare quello che la legge non è in grado di fare. Di fatto, “carità” è amare anche coloro che hanno violato la legge. Questa dimensione è anche quella del sacrificio, anche per coloro che lo meritano. Il senso dell’amore cristiano per Kierkegaard è questo. Nel cristianesimo, è l’atto di amore quello per cui Dio si sacrifica per l’uomo. L’uomo si è sacrificato per l’umanità cercando di innalzare l’umano a sé. Dal suo punto di vista, l’uomo deve rinunciare alla propria negatività. Deve riconoscere di cercare di emendare la propria vita alla dimensione di fede che può riscattare ogni attimo dell’esistenza. A proposito del mascherare l’angoscia, anche evocando il sacrificio c’è un elemento strumentale che non paga, che non porta agli effetti desiderati; proprio perché si sente che non si riesce tutto sommato a redimersi, a ripulirsi dalla colpa, è per questo che subentra l’angoscia. Essa viene prima del peccato e viene anche dopo; essa prima è il salto qualitativo, oltre a questo diviene quantitativa. L’angoscia di cui ci si carica conduce ad una ripetizione quantitativa del sacrificio, ma il valore del sacrificio, perché di questo non si discute, starebbe solo nel suo aspetto qualitativo, cioè nel salto vano, nella discontinuità, e nel salto nella fede e nella carità. Kierkegaard dice: quell’uomo non capisce che ciò che potrebbe aiutarlo sarebbe cercare di togliere il rapporto della angoscia con la colpa, e viceversa porre un rapporto positivo e reale. Ma 67 rapporto di consapevolezza, c’è dunque la possibilità di salvarsi. Quindi, dopo il peccato, l’angoscia non è più quell’insieme di possibilità che si staglia davanti all’oggetto: ora essa è veramente qualcosa, proprio perché è già stata posta la differenza fra bene e male. L’angoscia ha perduto dunque lo stato precedente, come anche l’ambiguità dialettica. L’angoscia nasce quando, nella libertà assoluta della scelta, si finisce per scegliere o per optare per il negativo, per la via sbagliata. Nella possibilità assoluta, l’uomo è del tutto libero e si trova di fronte all’eterno. Ma Kierkegaard non cancella la storicità dell’esistenza, che vorrebbe dire togliere di mezzo anche il tema della realtà e della concretezza di cui Hegel parla in moltissime pagine. L’uomo è quindi nella storia ed essa si presenta come una sorta di svolgimento orizzontale, da uno stato all’altro; ogni stato, concepito di per sé, viene posto attraverso un salto, attraverso il rinnovarsi di un rapporto verticale con l’eterno. Non siamo deterministicamente necessitati a fare si che questa scelta per l’eterno si realizzi. Kierkegaard sottolinea però il carattere non astratto della libertà; questa non va concepita come un generico ‘libero arbitrio’ che potrebbe scegliere fra il bene e il male. Creto, la libertà può farci propendere per il male, ma la libertà autentica è quella in cui scegliamo il bene. La libertà è però libertà infinta, qualcosa che viene generata dal nulla. Nella prospettiva di Kierkegaard si può scegliere anche reiteratamente il peccato, per altro nella ripetizione del rapporto verticale con l’eterno. Come si può dire che il peccato è entrato nel mondo, così continua ad entrare. Se il peccare non viene in qualche modo arrestato, c’è un incremento del peccare e del peccato che è anche di ordine qualitativo ogni sua ripetizione non è però una semplice conseguenza, ma è l’esito di un nuovo salto che però non è andato a buon fine. Saltare non ci assicura dell’esito della azione: fra stato e stato non c’è una concatenazione logica né una concatenazione meccanica, ma in ogni situazione si rinnova il saltare, il rapporto fra l’uomo e l’eterno, fra la sua finitudine e quella realtà di cui l’uomo vede le tracce dentro di sé. Quindi, a causa del peccato, nessuna situazione storica né ha, né può avere, un valore assoluto, e nemmeno nessuna verità umana può mai coincidere con l’assoluto. se ciò fosse possibile, il divenire storico sarebbe la pienezza dei tempi, che trasformerebbe lo stato storico nell’incarnazione dell’assoluto, ovvero in una determinata situazione storica dell’incarnazione di Dio nella figura di Cristo. Nel primo paragrafo si introduce una questione che riguarda l’angoscia del male. Rispetto al tema della libertà perduta, che è vista come una possibilità assoluta, come libertà del bene, il peccato diviene e appare come qualcosa di negativo, come un male che non si giustifica, come qualcosa di abusivo, come una possibilità tolta. Essere nel peccato significa al contempo che non bisognerebbe esserci; essere nel peccato significa allora cercare di toglierlo di mezzo, capire come poterlo fare. Togliere il peccato significa togliere una libertà condizionata. Il peccato costringe il peccatore, un po' come la statua del commendatore tiene prigioniero il Don Giovanni nell’opera di Mozart. Nel primo libro di Aut Aut c’è la rappresentazione del Don Giovanni di Mozart e del Don Giovanni come seduttore; inoltre, la figura del convitato di pietra, il commendatore, ci mostra come il peccato da un lato è prigioniero di se stesso e dall’altro non vuole esserlo. Don Giovanni vorrebbe liberarsi da questa condizione, il peccato è una possibilità tolta ma è anche una forma di realtà ingiustificata, sia per le eventuali conseguenze future, sia per le possibilità di commettere il male già commesso una volta. Torna l’immagine della vertigine: per quanto profondo sia il baratro, non c’è limite al peggio. Siamo in grado di sprofondare sempre più in là. 70 In tutto questo, quello che conta è il verbo modale può, il potere andare sempre più in basso – l’angoscia si assume il compito di togliere di mezzo questo. Qui emerge un aspetto importante: l’angoscia non è solo una causa, perché tiene viva la coscienza del peccato commesso. Quindi, annullare la angoscia non è auspicabile, perché è proprio l’angoscia a fare si che il peccatore non si adagi sulla sua situazione. Ecco perché si dice che l’angoscia è l’antipatia simpatica e viceversa. Da un lato, l’uomo ama il peccato, dall’altro vorrebbe essere libero da esso. Comincia qui una sorta di sofistica che in larga parte si staglia in difesa del peccato; l’uomo che pecca comincia a operare evocando varie giustificazioni. Da un lato, comincia a difendersi sottolineando che vorrebbe peccare, dall’altro che non vorrebbe. Questa situazione può essere vinta, per Kierkegaard, invocando una sorta di maieutica dell’angoscia, ovvero ricavando dall’angoscia ciò che è necessario a porle fine. Più l’uomo tenta di falsare sé stesso, più domina la situazione. Più l’angoscia si accresce più l’uomo fa il furbo; l’aggravarsi della situazione finisce per lasciare all’individuo l’unica possibilità di fede. L’angoscia nasce anche dalle conseguenze del peccato, ma finché nasce l’individuo può sempre sperare di salvarsi. Infatti, l’individuo non sarebbe angosciato se non mancasse di qualcosa. L’angoscia è anche sintomo di mancanza. Non si desidera ciò che c’è; la saturazione del desiderio comporta l’estinguersi di esso. Più il pescatore è veramente tale, più l’angoscia per certi versi è debole. Se l’angoscia tende a venire meno e a sfumare, il peccatore è quasi intorpidito dalla sua situazione e non si scorge nemmeno più la possibilità di comprendere la via della fede. Subito dopo averci spiegato questa situazione, Kierkegaard passa a descriver il sottile gioco della angoscia, che il peccatore stesso giustificare in tutt’altro modo. Non ci piace mai scoprire questa parte di noi; del resto, riportare l’inconscio allo scoperto, che è anche il ruolo dell’analisi, è molto sofferente. È come se l’angoscia giocasse con delle determinazioni di carattere quantitativo. Come quando cioè il peccatore ammette di avere fatto qualcosa di male, ma al contempo sostiene che in fondo ciò che ha fatto è assai poco, è quasi nulla. Kierkegaard risponde di getto: il peccato non è quantità. Peccare, anche dal punto di vista della libertà, non è quantificabile. E la qualità del peccare non si ottiene attraverso una dialettica quantitativa. Il peccato esige solo di essere tolto ponendo al suo posto qualcosa di qualitativamente diverso , non qualcosa di più o meno peccaminoso. Non è una questione di perlopiù; è per questo che il peccato non viene tolto senza poter fare un salto dalla finitezza alla qualità come infinito della fede. Il peccato può venire solo a queste condizioni. La coscienza del peccato nella sua profonda realizzazione è però una cosa assai rara. Fra l’altro, nella sfera religiosa non si può parlare di genialità così come se ne parla in altre sfere dell’esistenza. La sfera religiosa non è come la sfera della politica (Napoleone, Cesare), né come quella estetica o filosofica. Tutti gli uomini in quanto tali hanno però una sensibilità religiosa, hanno questo poter essere. Ogni uomo può volere non peccare, quindi se può volere non peccare è anche responsabile del fatto che pecca; invece, nessuno può essere responsabile di non essere dotato di una genialità politica, filosofica, poetica. Il problema però quando l’angoscia tende a sfociare in una sorta di pentimento inautentico – questo è un po' il tema della vita inautentica che sarà ripresa da Kierkegaard. Il pentimento inautentico è lo sfociare del senso di colpa che rattrista l’individuo solo esteticamente, è una sorta di autocommiserazione estetica per il male commesso e per le possibili conseguenze provocate dal male, senza però condurre a un reale cambiamento di vita, che si traduca anche plasticamente nel volere abbandonare l’orizzontalità per mettersi nel percorso verticale verso l’eternità. In questa 71 forma di pentimento, non c’è quella che in greco si chiama la metanoia, una vera inversione di marcia. Un pentimento segnato dalla angoscia arriva in ritardo. Lungi dal liberare dal peccato, è sempre al servizio del peccato. Da un lato, questo pentimento inautentico riconosce il peccato per quello che è, ovvero per essere una realtà ingiustificata. Dall’altra, non riesce a riconoscere davvero e a prendere sul serio il male che attraverso il peccato è stato compiuto. Ciò significa non riuscire a integrare effettivamente la libertà. Quel tipo di commiserazione non può eliminare il peccato, in quella situazione possiamo solo piangere e dolerci del peccato, ma non serve. È un meccanismo di difesa con il quale si cerca di evitare l’angoscia, anche risparmiando la fatica della elaborazione della colpa. Il senso di colpa ci fa credere di soffrire terribilmente; in questo pentimento inautentico, l’angoscia finisce per abbandonare l’orientamento positivo teso al futuro, ma interpreta se stessa come una sorta di punizione naturale per quello che è il peccato commesso. Questo significa rifugiarsi nel ruolo di vittime, ma senza riconoscere di essere colpevoli. In questo modo, il pentimento non trova una via di uscita e l’individuo tende a scusare almeno in parte le proprie scelte. L’uomo che fa questo fa la vittima e finisce per considerarsi non del tutto responsabile. In questo modo diventa preda però di una catena irresolubile di sensi di colpa, che invece di condurlo al cambiamento effettivo di quella situazione lo trascina sempre più nel peccato. Così facendo, l’individuo che è vittima di questo modo di procedere rischia di assuefarsi al peccato, finisce per affogar la propria angoscia in vari modi al punto che l’angoscia del male sembra scomparire. Ma sappiamo che togliere di mezzo l’angoscia non paga, è un escamotage inutile. Nel pieno di questa riflessione, Kierkegaard descrive alcuni caratteri della angoscia. Nel primo caso, (1) l’uomo si rende conto che il peccato deve essere tolto e che l’angoscia è tanto più forte quanto più sente questa necessità. Nel secondo caso, (2) sente che sta percorrendo una via nella quale il peccato diventa sempre più grave. Ma l’angosciarsi non cancella il peccato. C’è anche un terzo caso più pervasivo, che è il più grave, in cui Kierkegaard si rifà a un verso del Re Lear di Shakespeare: «Oh, capolavoro della natura distrutto!». Qui Re Lear può solo addolorarsi di se ma non ha la forza morale di mutare il proprio destino e il senso della propria vita, proprio come il peccatore che pur vivendo nel pentimento non fa ancora il passo decisivo per togliersi dal peccato. In questo caso l’individuo si pente, ma si lascia vincere di nuovo, anche dal dolore del peccato commesso. Il peccato stesso viene considerato dal peccatore come una sua punizione, come se la sofferenza per il peccato estinguesse il fatto di averlo commesso. Le conseguenze del peccato sembrano necessarie al peccatore affinché si determini la punizione, per questo egli può cadere nel sofisma di dire che egli pecca perché le conseguenze del peccato lo puniscano attraverso il pentimento. Ma finisce per illudere sé stesso fino al punto di dire che pecca per punirsi; questo è un circolo vizioso fra il peccato e il pentimento che può essere tolto solo dalla fede. Di fatto, l’angoscia non può essere bypassata né tolta di mezzo perché va attraversata consapevolmente. Allora, l’angoscia in qualche modo si ribalta: è come se conducesse al di la di se per fare sorgere la propria morte e la fede. Nascendo, la fede distrugge anche il peccato, sancisce il venire meno dell’angoscia e del peccato. Altrimenti l’angoscia sarebbe una sorta di superstizione. La fede toglie di mezzo un qualsiasi significato in questi termini. Le tre forme di angoscia appartengono allora all’angoscia del male, l’angoscia di colui che si trova nel male e soffre del male nel quale si trova perché ha bisogno del bene. Il tema della disperazione appare anche nella Malattia per la morte: il demoniaco è una forma particolare di angoscia e di disperazione, ed è qualcosa che si è molto avvertito nell’epoca moderna, sempre più lontana da Dio. Su questo punto Kierkegaard si pone sulla traccia di grandi 72 riconduce il fenomeno non tanto a una manifestazione psicopatologica ma all’unità dell’uomo. L’uomo è una sintesi di corpo e anima effettuata dallo spirito. Ogni turbamento delle sue componenti si riflette sempre sulla demonicità della natura. Questo approccio è definito illuministico e non è quello della psicologia organicistica. C’è un’eccessiva fede nei confronti di quelle che sono le capacità terapeutiche della medicina in cui è preponderante un rapporto con il paziente – qui alcune analisi di Kierkegaard anticipano molte questioni a livello di rapporto paziente e medico. Kierkegaard dice che spesso questi rapporti erano fatti di ipocrisia in una società illuminata ma in fondo poco coraggiosa non solo non si è più capaci di dire la verità circa la serietà della situazione; viceversa, ci si abbandona a forme di descrizione fuori luogo, con cinismo e inumanità. 17.10.2024 Dietro al demoniaco ci sono molte sfumature, una delle quali è una concezione estetico metafisica. Il demoniaco è una figura un po’ patetica, impersona molti personaggi che si legano alla dimensione estetica della vita. Per questo, il demoniaco tende spesso anche ad autocommiserarsi. Il tentativo di legarsi ad esso non può essere fatto nei termini di mera compassione. Il demoniaco rappresenta uno stato affettivo quasi narcisistico, una vita piuttosto superficiale, che vuole allontanare da se ogni tipo di dolore. A parte questa visione estetica della vita, vi è lo stadio etico, in cui il demoniaco diviene una sorta di colpa che viene condannata. Sul piano del demoniaco Kierkegaard si lascia un po' prendere la mano, nascondendosi dietro al maschera; in un primo momento, sembra dirci che occorre torturare i demoni, un tema medievale e oscurantista che ritratterà in corso d’opera. La rappresentazione della demonicità dell’uomo è accompagnata da tratti deformi, un ghigno che è tutt’uno con una sorta di stravolgimento psichico. Da qui molti indemoniati vanno in pasto ai medici, ai protagonisti della psiche. Kierkegaard non è indulgente, curare con le pillole non basta e non è sufficiente, perché il demoniaco non è una sorta di manifestazione che assume solo dei tratti limitati a una certa dimensione, è qualcosa di molto più dilatato. Il demoniaco ha a che fare con l’angoscia, che poi la psicologia deve inibire. L’angoscia è un tratto fondamentale dell’essenza dell’uomo, è la condizione predisponente che fa tutt’uno con il peccato. L’uomo è peccatore e deve essere consapevole di esserlo, solo così potrà acquisire una sua identità. Nessun trattamento medico di carattere esterno potrebbe essere funzionale a rimediare qualcosa di intrinseco, che riguarda la nostra interiorità. Viceversa, l’approccio medico al demoniaco è l’altra faccia di quella filosofia illuministica che aveva trascurato del tutto un certo tipo di questioni. L’illuminismo in generale aveva privilegiato fin troppo un certo naturalismo, aveva sopravvalutato le capacità terapeutica della medicina. Qui invece si mette in dubbio non solo il carattere “scientifico” della medicina: il problema è in relazione al rapporto che si instaurava fra medico e paziente. Non c’era la dovuta serietà, era un approccio che oscillava fra un’impostazione asettica e una troppo benevolente. La prima sconfinava in cinismo e inumanità, considera il paziente come un numero che si aggiunge al caso precedente, non c’è mai una relazione interumana che è decisiva. Soprattutto, se anche si approcciasse al paziente, lo farebbe instaurando un rapporto unilaterale. Nietzsche dice che l’uomo è un animale imperfetto, Jaspers ancora di più sottolinea molto il tema dell’infinità dell’essere umano. L’uomo non può essere curato assolutizzando solo una sua parte, l’essere umano è talmente ricco da non potere essere esaurito 75 nella sua essenza. Cercando di circoscrivere il problema a una sua singola componente, si finisce necessariamente per fallire. A partire da qui, Kierkegaard si avvia a sviluppare una propria personale analisi psicologico esistenziale, cerca di determinare nella maniera più accurata possibile il concetto di demoniaco. In primo luogo, ritornano quelle situazioni su cui si era soffermato sin dall’inizio. L’innocenza, quello stato sognante in cui non c’è conoscenza effettiva, non può ancora fare parte del demoniaco, né si può dire che il demoniaco abbia a che fare con una sorta di patto con il male, con il diavolo. Qui sorge l’occasione per ripensare anche dal punto di vista psicologico al fenomeno del demoniaco; questo passaggio permette a Kierkegaard di correggere il tiro rispetto a posizioni precedenti in cui era intervenuto con durezza. Qui torna sui suoi passi notando che la crudeltà nei confronti del demoniaco è sbagliata, anche perché è in qualche modo contraddittoria. Questa posizione, portata al di la del segno, presume che in chi viene punito ci sia la capacità di servirsi della punizione in positivo, ma la salvezza non è possibile attraverso la tortura. In generale, il demoniaco viene considerato uno stato generale che si può determinare in varie situazioni. Il demoniaco come fenomeno si trova in varie situazioni; nel demoniaco c’è anche una fenomenologia. La possibilità di esso è implicita nella possibilità in generale, la quale fa tutt’uno con la libertà: questa, quando viene persa, viene sentita, la sentiamo nella forma della angoscia del bene, che coincide con il demoniaco. In generale, il demoniaco è quella condizione in cui può prorompere in ogni momento l’azione peccaminosa del singolo. Il peccato, del resto, è qualcosa che ci tocca in prima persona. l’esigenza di libertà è l’angoscia che è interna all’esistenza e costituisce uno stadio di nobiltà dell’uomo; tuttavia, trasportata sul piano della libertà, l’innocenza può anche peccare. Se pecca, come sappiamo, nella innocenza si produce l’angoscia, e l’angoscia si produce proprio per il male in cui è caduta l’innocenza. Ma l’angoscia e la caduta nel male hanno un filo interiore, nel senso che si producono proprio per ricondurre l’uomo ad uno stadio di rinnovata innocenza. In questo modo, Kierkegaard ci conduce all’idea della perfettibilità dell’essere umano: si può risalire da quell’abisso, nel quale al contempo si può di nuovo sprofondare. Ma il può non è definitivo: c’è sempre la possibilità di salvarsi. L’innocenza riconquistata è di più dell’innocenza non ancora perduta. Abramo e le altre figure saranno ricompensati con più del doppio. Quando si pratica un certo tipo di esperienza, convintamente se ne trae un beneficio e un guadagno. L’innocenza non aveva ancora sperimentato l’infinta tentazione della possibilità. In altre parole, per Kierkegaard la riconquista dell’innocenza è un po' la vittoria riportata sul peccato, è un po' sinonimo di salvezza. Ripristinare in noi una qualche condizione di innocenza è quello che definiamo in altri modi la salvezza. Ritorniamo a una qualche pacificazione con noi stessi. Ma la riconquista è effimera: nella angoscia del bene non si aspira più né si anela, come nell’innocenza, all’infinito della libertà; un infinito che, nella sua possibilità più estrema, può anche contenere il bene. Viceversa, il demoniaco come angosciato del bene, rifiuta la salvezza. Tuttavia, in quella infinita possibilità c’è anche il bene insieme al male. Qui c’è una riduzione del campo delle possibilità, un campo in cui non si vuole che il bene e ci si inibisce dal ricercare qualunque forma di salvezza. Il possibile non ammette una riduzione di ciò che lo qualifica come tale; non ci può essere meno di una possibilità indefinita. Quest’ultimo pensiero è proprio ciò che caratterizza il demoniaco, che ha la presunzione di limitare il possibile. Nella possibilità, tutto è possibile. La nobiltà dell’uomo consiste proprio nel fatto di propendere per la conoscenza del bene. Essere liberi significa avere scelto il bene. 76 Occorre sapere scegliere il bene, ma si può anche scegliere il male; per questo, il demoniaco, forse per paura del male, sceglie il male stesso. Un po' come diceva il più grande psichiatra, Binswanger: le malattie mentali ci rinchiudono in una dimensione privata ma non perché la scegliamo – del resto sono malattie accompagnate da grande sofferenza – ma si essa sembra l’unico modo per stare al mondo e per potere sopportare questa sofferenza. Molte malattie mentali riaprono la persona e la riportano alla relazione con gli altri, a convivere in una dimensione intersoggettiva e pubblica. Il tema della chiusura è sempre sinonimo della demonicità e anche un pericolo terreno. Il demoniaco ha paura del male e proprio per questo pensa che non sia possibile altro che il male; questa è la via che lui trascende. Poteva scegliere anche il bene, ma sceglie il male e non fa altro che negare la possibilità di scegliere il bene. Colui che crede che solo il male sia l’unica possibilità purtroppo è già nel male, perché non ha più opzione fra bene e male. In conclusione, il male si rivela come volontà di se stesso, una volontà di non libertà. Di fatto, la libertà di scegliere solo il male è posta come non libertà. La forma autentica sarebbe quella di optare per il bene, ma se si dice che ci sono tute le possibilità tranne quella di scegliere il bene si finisce per cadere nelle braccia della illibertà. Qui è il colpo di scena: Kierkegaard non si abbandona ma incalza il demoniaco, gli lascia una via di uscita. La negazione della libertà come sembra esserci sul paino della demonicità non è possibile, è una sfida, non è qualcosa di possibile del tutto; ciò che l’uomo non è riuscito in se stesso a rendere schiavo resta libero, e si rivela ancora come angoscia. La angoscia è la spia che svolge un ruolo positivo. Ciò che non viene sottomesso resta in vita e si dà a vedere innanzitutto attraverso la spia della angoscia. Questa è una spia e ha un valore positivo perché è segno del bisogno della libertà perduta, della libertà caduta. L’angoscia ci notifica del fatto che non è vero che la libertà è perduta per sempre, non è vero che non possiamo fare altro che scegliere l’illibertà. D’altronde il problema è sempre quello ambiguo che riguarda il fatto che la non libertà esercita sempre una grande seduzione sull’uomo. Per Kierkegaard e Dostoevskij, la libertà è pericolo, è rischio, è mettersi in gioco, è una consapevolezza dolorosa, porta con sé una inquietudine spirituale, ci dà troppa responsabilità, ci fa temere di scegliere. È per questo che la maggior parte delle persone evita di mettersi in queste condizioni; la illibertà sembra dare più tranquillità. Solo pochi amano essere liberi, la libertà è un rischio che impone enormi responsabilità. Ciò dimostra che la libertà non è qualcosa di astratto, si gioca in tutti i momenti della nostra vita. Dice Kierkegaard che, a parte alcuni uomini molto coraggiosi, la maggior parte della umanità non sembra soffrire per una mancanza di libertà interiore. Molta gente sceglie delle professioni in cui non è possibile mettersi in gioco. Così facendo, molti non soffrono; semmai soffrono o soffrirebbero in una libertà che mettesse lo spirto in uno stato di inquietudine. Anche quelle persone che sono un po' più semplici prima o poi si imbattono in una sorta di inquietudine e di angoscia. Molto spesso, si cerca di mettere a tacere il fatto che nella nostra vita sia rispuntato qualcosa che non avevamo avvertito e che pensavamo che fosse bandito. Kierkegaard dice che il demoniaco è la non libertà; è una sorta di non libertà che vuole chiudersi in se stessa. È un atteggiamento liberamente voluto di chiusura. Per Binswanger la dimensione del proprio, che in realtà è qualcosa di subito, è anche qualcosa di liberamente voluto, ma nel senso improprio della libertà: l’individuo demoniaco è colui che si chiude solipsisiticamente in se stesso. In questo, abbiamo anche fenomeni che hanno una rilevanza estetico letteraria. L’ermetismo è una di queste facce di chiusura demoniaca. Esso, insieme alla solitudine, è un tratto caratteristico del demoniaco e del male in generale. C’è il rifiuto di ogni forma di comunicazione, ma è sinonimo di espansione. 77 Sono due i modi in cui l’individuo può arrivare a perdere la libertà, sono due i modi in cui la libertà si capovolge nella illibertà. Di fatto, in generale, l’illibertà non limita dall’esterno la libertà: è all’interno della prima che la seconda si manifesta. Il (1) primo modo ha carattere psicosomatico: c’è una illibertà psicosomatica che si ha quando l’illibertà si coalizza con il corpo. In questo modo si produce uno stato di perdizione bestiale, di abbruttimento, in cui l’individuo finisce per accettare, sempre in una funzione stabilizzante, la propria condizione di miseria e disperazione. Il (2) secondo modo riguarda lo spirito, si ha quando il fraintendimento del rapporto porta a uno scollamento, quando l’individuo si rifiuta di farsi compenetrare dalla verità. La perdita psicosomatica della libertà può assumere le forme più diverse, si può passare da una ipersensibilità a una irritabilità esagerata, oppure a una nervosità di carattere patologico. Sono tutte espressioni delle innumerevoli sfaccettature di un fenomeno che può essere scoperto solo attraverso una indagine di carattere microscopico, che rende quasi impossibile riportare tutto a una unica categoria. Al livello infino di coscienza l’individuo demoniaco sfugge a ogni forma di t con il bene eppure ha bisogno di unirsi strettamente a individui che condividano le sue stesse angosce. Non solo potrà rinchiudersi ma sentirà il bisogno di trovare dei codici spinti, vorrà riunirsi e frequenterà coloro che hanno le sue stesse angosce. Da questo scaturisce quella strana ed enigmatica socialità della angoscia che è molto più forte di qualsiasi forma di amicizia; è una amicizia interessata, funzionale e derivata in ragione di quel tipo di malattia dello spirito che è anche l’angoscia. La perdita pneumatica della libertà è un fraintendimento del rapporto verità-libertà: da un lato la verità rende l’uomo libero sol in relazione al fatto che il contenuto della sua libertà è la verità; dall’altro lato solo la libertà produce la verità. Anche Heidegger mette in relazione la verità al Dasein. C’è una verita che si dà in ragione di un carattere esistenziale. Questo significa che la verità non può restare a lungo una questione di pensiero astratto ma deve sempre compenetrare tutta l’esistenza del singolo; ciò può avvenire solo se il singolo si fa carico di realizzare la verità tramite la propria azione. La verità non è un concetto logico-formale ma è qualcosa che si instaura completamente nel richiamo all’esistenza: solo realizzando la verità nell’azione e laddove si accettano tutte le conseguenze, l’individuo è in grado di accogliere il significato profondo ed esistenziale. Nel demoniaco si rappresenta quindi ogni atteggiamento che, rifiutando di cogliere la dimensione esistenziale, scinde la conoscenza dal contenuto veritativo. In definitiva, si può dire che, per Kierkegaard, il demoniaco inteso come perdita e rifiuto della libertà non è altro che perdita della fede, e la fede non è altro che il principio di armonia che tiene l’uomo organicamente congiunto in sé. L’uomo è qualcosa di organico perché è un insieme di corpo, anima e spirito: ciò che fa di un uomo una persona non è solo la sua realtà fisica e non è nemmeno la sua struttura psicologica ereditata insieme al corpo, ma è lo spirito, nella misura in cui lo spirito può armonizzare corpo e anima, ma non in maniera pura e semplice. C’è un principio anche di teleologia, una armonia che può essere raggiunta solo da chi crede con la fede che questa armonia sia possibile. Kierkegaard ha cercato di scoprire il significato di questi termini che da sempre compaiono nei testi di filosofia. Lui dice che l’innocenza non è come l’immediatezza, nel senso che non è una datità semplice ed elementare. Di fatto, l’innocenza non è un principio, è semmai un cominciamento, è da concepirsi come una situazione, è qualcosa in cui siamo situati, perché iniziare significa non solo “prendere le mosse da un principio”, ma essere in una relazione in cui tutti gli elementi costitutivi sono già presenti. Questi elementi devono trovare una loro sintesi. Non solo: è una situazione in cui si pone un rapporto fra tempo ed eternità, in cui mostrano di essere congiunti, è 80 anche la situazione fra essere e non essere che cercava nel divenire. Non c’è mai un principio della relazione al di fuori della stessa. Non c’è un fondamento che non sia dialettico, che non sia già il rapporto della possibilità nell’istante e che non corrisponde alla libertà della angoscia. Nella relazione acquistano un senso corpo, anima e spirito. La relazione sarà sempre una relazione fra i propri termini in modo che essi non siano concepibili nei termini di tesi e antitesi. Lo spirito ha però una responsabilità ulteriore: come uomo storico, l’umano entra in crisi e si riconosce colpevole di fronte alla possibile sintesi più armonica. È come se l’uomo si staccasse da se e entrasse in una regione dove non c’è più alcun punto di riferimento, dove si vive con timore e tremore. È la regione della possibilità infinta, di terra di nessuno dove tutto è possibile. Dove è anche possibile scegliere anche il peccato e il demoniaco. Ma la fede potrà permettere all’uomo di non disperare e di riconquistare una situazione in cui si è ancora e di nuovo liberi. Alla libertà perduta si può rispondere attraverso una ripresa di uno stato di libertà e si finisce per stare in una armonia più positiva. La perdita della libertà avviene per il corpo e avviene per l’anima, per lo spirito. Ma a ogni perdita della parte segue la perdita del tutto. alla fine della malattia per la morte vedremo che il costituirsi del se non può prescindere. La fede sarà sempre la riconquista del tutto delle parti. E la verità non è concepita in senso astratto e intellettualistico, è sempre vista come una attività interiore dell’uomo e impegna l’uomo con tutto se stesso, è attività e interiorità, è quel tipo di comprensione in cui il contenuto veritativo viene visto non solo come mero oggetto di conoscenza teoretica ma come qualcosa che si rivolge a me e che mi concerne concretamente. In questo senso, Kierkegaard affronta molte distorsioni, si sbarazza soprattutto del fondamentalismo dell’insegnamento ortodosso, ma si libera anche del tradizionalismo, di coloro che si legano a certe interpretazioni dei tratti biblici. Infine, si libera anche del formalismo, di chi non riesce a staccarsi dalle forme liturgiche della vita religiosa, eccessivamente rituale e consolidata. E della bigotteria della devozione. Questi sono tutti atteggiamenti accomunati da una mancanza di interiorità. Viceversa, la religiosità si pone in funzione della personalità, sempre al centro di se stessa. La personalità vuole la libertà, non si chiude nell’ermetismo della comunicazione. 18.10.2023 Abbiamo già sottolineato l’aspetto dell’angoscia del bene, che è l’angoscia del demoniaco. In questa figura è importante il tema della parola e della comunicazione. Questo tema ha sempre a che fare con il problema della perdita della libertà. Infatti, libertà, angoscia e peccato sono aspetti che vanno tenuti insieme. La libertà facilmente si perde, perché intrinsecamene confina con l’illibertà. Siamo sempre noi che dobbiamo farci carico di quello che ci capita. C’è una perdita della libertà, dal punto di vista psicosomatico, che tende a privilegiare l’aspetto della corporeità. Anche in questo caso, ci sono diverse sfumature di carattere psicologico. Occorre mettere in gioco ciò che rende l’uomo libero, ma non nel senso indiscriminato di poter fare o decidere ciò che vuole; l’uomo è veramente libero se il contenuto del suo essere è la verità; solo la libertà è in grado di produrre la verità e di appropriarsene in maniera libera. Il demoniaco è invece rifiuto ostinato della libertà-verità, con tutto quello che ne consegue, ed è perdita anche della parola; quest’ultima, non viene più riconosciuta per il valore effettivo che ha, ma è simbolo che incarna il divino e l’eterno. Tutto ciò si traduce drammaticamente nel tema della fede. Qui entra in gioco anche il tema dell’innocenza, prima ancora che venga commesso il peccato, prima ancora che quella 81 angoscia ci precipiti. Finiamo per decidere per la via sbagliata, ma non tutto è finito. Kierkegaard lo sottolinea, perché non siamo perduti per sempre e possiamo sempre riconquistare lo stadio di innocenza e non rimanere in quello stadio originario che non ci siamo nemmeno meritati. In questo contesto, si legano questioni di grande filosofia; ancora una volta, si ricusano le critiche a Hegel. Qui entra in gioco il fatto che al principio c’è la relazione, e la relazione è di per sé un principio, perché non c’è un fondamento che non può rivestire lo strato dialettico della relazione. Da qui anche la dimensione equivoca e ambigua della angoscia e di tutto questo. Ma è ancora una volta importante sopportare l’aspetto dello spirito e della interiorità. Lo spirito è deputato a realizzare una sintesi più armonica possibile tra corpo ed anima; in questo senso, l’uomo può entrare in crisi, ma la crisi deve essere foriera di ricerca, deve rendere possibile una armonia più alta, una armonia fra finito e infinito, che si ricostituisca in maniera più elevata. Questo è il problema di sapere cogliere la realtà da cui siamo partiti. C’è sempre angoscia di fronte a un prospetto infinito di possibilità, mentre abbiamo visto che il demoniaco per gli altri cerca disperatamente di limitare la libertà, togliendo di mezzo una possibilità. La perdita della libertà avviene in diversi modi, in maniera fisica e psichica, e avviene anche in maniera pneumatica, cioè per lo spirito. Ma la risalita da cui la vertigine guarda, il sapere venire fuori dall’abisso, ci consente di riscattare la nostra esistenza nella sua unitarietà, e non si riconquistano le parti. La verità per Kierkegaard non va mai intesa in senso astratto, è sempre una attività interiore in cui l’uomo è impegnato con tutto sé stesso. Il tema dell’esistenza fa tutt’uno con il senso dell’apertura, il demoniaco è sinonimo di chiusura, dalla quale non possiamo uscire se non attraverso la fede. Di fatto, Dasain non è solo un avverbio di luogo, è piuttosto il senso dell’essere aperto del nostro modo di essere. la verità va presa sul serio nel senso che è qualcosa che riguarda l’essere dell’uomo, la sua interiorità. Occorre togliere di mezzo tutte le forme di degenerazione. La verità è sempre interiorità e attività; proprio per questo è anche espressione di libertà spirituale che si pone in funzione della personalità umana, ni quanto si trova sempre al centro di essa. Noi, come persone, vogliamo la libertà e, per questo, non dovremmo chiuderci nell’ermetismo, nella non comunicazione. Altrimenti si chiude la possibilità di essere libero, dal poter essere. L’essere umano, di fatto, ha angoscia della possibilità infinita, e la possibilità è la più alta forma di educazione. Essa rappresenta anche la categoria che guida la forma di educazione, quella della possibilità che ci prepara a tutte. Questo significa che l’educazione non deve essere mai una funzione esclusiva del reale, ma deve essere guidata dal possibile, nel senso che qualsiasi cosa accada occorre rimanere fedeli alla scelta che si è fatta, alla scelta della fede. Anche se il mondo ci dà torto, anche se sul piano delle cose finite noi realizziamo solo delle sconfitte, o andiamo incontro a delle perdite. Chi agisce è schiavo del mondo, schiavo della realtà delle cose, e la sua azione non può che essere calibrata sulla verità, sulla politica. Chi invece agisce sul piano della possibilità agisce di fronte a qualsiasi evenienza, non previene il negativo che potrebbe accadere. Il problema è che la fede che accompagna la scelta di essere educati alla possibilità ci dota della capacità di potere sopportare ogni tipo di conseguenza. Occorre avere le forze di continuare il cammino sapendo che di certe sofferenze non ci si può liberare mai. Per Kierkegaard, ciò è andare alla scuola della possibilità o della angoscia. La fede non teme le sconfitte né gli incidenti di percorso perché è al di là di ogni sconfitta e di ogni vittoria. Il tema degli stadi esistenziali non va concepito come una linea retta: al momento della scelta bisogna intraprendere questo indirizzo attraverso la fede, che comporta il salto in verticale. Per questo, essa è al di là di ogni successo e di ogni sconfitta. Questo tipo di linguaggio è qualcosa di consegnato al 82 riconoscersi come persona; ricordiamoci che, al posto dell’io assolutizzato, Kierkegaard rivendica sempre la singolarità della persona umana. Contro Hegel e contro la filosofia della storia, Kierkegaard rivendica sempre una sorta di necessaria ipertrofia del soggetto. Questa è quella sorta di ipertrofia della soggettività che nello spirito oggettivo di Hegel si vedeva in qualche modo trascritta nell’opinione pubblica e nella democrazia borghese; in questo caso, si traduce in quella concezione dell’io che è un fenomeno rivendicato da tutta un’epoca, di cui la cristianità si è un po' appropriata. Proprio attraverso questo richiamo, Kierkegaard affronta una critica molto aspra, ma anche molto intelligente, contro il sapere anonimo e astratto – anche sul piano religioso, nei confronti di ogni religione superficiale. Questo termine, anche in maniera plastica, ritorna come critica all’orizzontalità. C’è una critica efferata nei confronti di tutto quell’ottimismo un po’ “facilone” che prevale in quella corrente di pensiero dilatata e certa. Kierkegaard è totalmente dall’altra parte. In definitiva, l’angoscia demoniaca del bene, quella che si manifesta come la tendenza a chiudersi e a rifuggire la comunicazione è, dal punto di vista della eziologia, il prodotto di una mancanza strutturale di certezza e di serietà. Ciò significa anche avanzare il rifiuto ostinato di ottenere e realizzare la verità nell’azione, comprendendosi in ciò e attraverso ciò che viene compreso, e di riprendere, con estrema serietà, l’oggetto autentico della serietà. Da questo punto di vista, l’angoscia demonica del bene, su cui ritornerà, è angoscia dell’eterno. La società in cui Kierkegaard si trovava a vivere era segnata da una rimozione collettiva dell’eterno. Ma a lui interessa non interessa fare i conti con quel tipo di pensiero. Anche lasciare riverberare la presenza costante dell’eternità vorrebbe dire ricadere in quello che è caduto il cristianesimo nella sua epoca, ovvero in una esistenza borghese che comporterebbe una sorta di auto alla stabilizzazione demonica, svelando la profonda illibertà che è sottesa alla nostra presunta libertà, che invece rinunciamo a utilizzare. Con questo, si apre il quinto capitolo, e si apre con un accenno a una favola dei fratelli Grimm. L’incipit del capitolo chiarisce il significato da attribuire alla personalità: l’essenza della personalità è di essere una sintesi tra i bruti e gli angeli. Qui viene recuperata una citazione di Pico della Mirandola (De hominis dignitate): io ti posi a metà del mondo – all’uomo non è data una situazione determinata, ma la possibilità della scelta. Questa possibilità fa però sì che l’uomo viva anche nell’angoscia, perché posto di fronte all’infinita possibilità e perché, se non sceglie di avviarsi lungo la ‘via angelica’, si condanna al peccato, all’angoscia ulteriore. La stessa possibilità di potere fa si che l’uomo viva nell’angoscia, posto di fronte all’infinita possibilità. Se non sceglie di andare al di la di sé, se si rifiuta di avviarci alla via angelica, l’uomo si condanna al peccato e all’angoscia che da esso suscita. L’angoscia è quindi la prova che la vera via per l’uomo sia quella rappresentata dallo spirito , è il cammino verso il bene a cui dobbiamo tendere. Dio però non vuole che l’uomo sia costretto al bene, ma vuole che l’uomo scelga da solo perché ha tutti gli strumenti per poter operare questa scelta libera e responsabile. Nell’infinito c’è anche il richiamo al bene. Quanto più lo sente, tanto più si angoscia, finché non opta deliberatamente per il bene. Per questo, ogni uomo in quanto tale finisce per essere posto di fronte alla scelta che si para davanti. Per Kierkegaard, Dio ci ama troppo per averci costretto a essere angeli, ecco perché Dio ha voluto lasciarci di fronte a tutte le possibilità del mondo. Qui però non si tratta dell’angoscia esteriore. Di fatto, anche Dio è angosciato; ci sono passi dei vangeli in cui l’angoscia di Dio traspare. L’angoscia di Dio nasce dall’amore di Dio per l’uomo, è in ragione nostra che Dio è 85 angosciato. Egli è angosciato perché vuole he l’uomo si salvi. Se fosse indifferente potrebbe fare a meon di essere. Ma è angosciato non perché teme che non ce la facciamo. Dio si è fatto uomo e ha sofferto con noi, con loro, come e più dell’uomo. Se gli uomini gli chiedessero di essere costretti al bene, cioè di togliere loro la libertà di poter scegliere il bene, questo sarebbe un grande tradimento, un constatare che non abbiamo capito. Come non lo capiscono finché gli uomini amano Dio solo perché è onnipotente. L’angoscia di Dio nasce proprio dall’incomprensione dell’uomo, dal fatto che l’uomo non concepisce Dio come amore. Non riuscendo ad amare non si riesce a rigenerare in se stessi l’amore. Dio si trova anche di fronte al demoniaco, al problema del rapporto con Satana. Dio non vuole scegliere delle scorciatoie. L’angoscia è la possibilità della libertà, che diventa decisiva per tutta la filosofia dell’esistenza. Perché, in fondo, la filosofia della realtà, a cui si contrappone la filosofia della possibilità, ci fa capire che solo chi è formato dalla possibilità è formato secondo la sua infinità. La possibilità è la più pesante, la più scwher di tutte le categorie. Coloro che, ad esempio, invocano la realpolitik, dimostrano che non hanno mai conosciuto la possibilità. Per certi versi, questa è la vita della nosrta infanzia. Il richiamo alla realtà è il desiderio di tornare a ciò che si ha avuto, di tornare a una felicità perduta, è il desiderio di riviverlo e di ripeterlo. Kierkegaard si è molto soffermato su questi aspetti. L’amore per la realtà si manifesta anche come amore per la storia. La storia è l’unica e vera realtà perché per certi versi è ciò che rappresenta ciò che è veramente accaduto. Solo la storia costituiva la vera realtà del mondo in senso autentico. La possibilità, non essendosi ancora realizzata, rappresentava una pura vanità. L’uomo è libero di scegliere e le conseguenze della sua vita entrano nel mondo. Una volta che le sue scelte si incamminano nel mondo, non si fermano più. Per questo, l’istante in senso autentico coincide con quell’istante in cui l’uomo è di fronte all’eterno. Si decide di istanti elevati, sono quegli istanti che poi danno significato a tutta una vita. L’attimo è sempre quella ambiguità in cui tempo ed eternità si toccano. Non c’è la protezione del passato che non c’è più; c’è il toccarsi del tempo e della eternità, c’è il toccarsi della immanenza e della trascendenza. Ma il carattere di questo è l’elemento di eternità. L’attimo non è un attimo di tempo perché riflette la presenza dell’eternità del tempo. L’uomo libero è colui che sceglie in modo tale da poter vivere la possibilità suprema di scelta, è colui che sceglie la libertà dell’amore, non sceglie di rinchiudersi nel demoniaco. Negare la libertà significa non affermare il proprio sé. Nel caso in cui l’uomo abbia peccato, se è discepolo del possibile, avrà la possibilità di venirne fuori. Quindi, la certezza interiore è la certezza di colui che sente anticipatamente tutto ciò che può accadere, e che tuttavia, malgrado questo, non perde la fede, non pone tutto per aria. In ogni caso, sceglie di andare avanti sulla via della libertà dell’amore. Chi agisce così non si lascia più dominare dalle cose finite. È facile, è comodo sfruttare anche la libertà della fede, di quella fede che nella sua essenza più profonda è amore. Viceversa, il prezzo che si paga nella liberazione da ogni libertà è l’angoscia: colui che nega la libertà ha angoscia. Qui si riprende la figura di Nerone come espressione di questa angoscia, è qualcuno che è angosciato da tutto. Tutto assume il volto di una libertà. Uno che vive così non può fare atro che continuare a negare la libertà, combattendo ostinatamente per ogni manifestazione di essa. Il demoniaco è colui che non solo sfugge il bene, ma non vuole che il bene esista, e non si accorge che negare il bene non significa salvarsi, ma negare se stessi. La possibilità ha sempre un volto orribile, perché questa persona vorrebbe che tutto fosse, in qualche modo, determinato. Viceversa, la possibilità, come la più grave delle categorie, come caso e come destino, ci fa sperimentare che 86 c’è sempre qualcosa di imprevisto, e che anche in fondo alla genialità dell’uomo politico cadrà in pezzi. Il discepolo della possibilità pensa dunque a questo: non a ciò che è accaduto come unica possibilità, ma in ciò che potrebbe accadere nel regno del possibile. C’è il bene ma c’è anche il male; solo colui che non si rifiuta di vedere anche il male saprà veramente educare se stesso alla vita. Nella serietà, che nonostante tutte le infinite possibilità si determina come bene, opera la fede. La fede non è giocare su un altro piano rispetto al mondano, ma è riconquista del mondo che passa attraverso la possibilità. Questi aspetti ricordano il tema dell’epochè del mondo. Husserl ha voluto operare un atteggiamento naturale, il mondo ci appare per quello che è senza mettere in discussione la nostra esistenza. Il mondo non viene negato, la realtà del mondo si carica di un significato che prima non aveva e che non poteva avere. Dunque, la realtà del mondo è avvolta in questo senso di ovvietà, qui è il problema della riconquista del mondano. In fondo, il mondo e la vita assumono il loro significato più positivo. Nessuno ottiene il valore della vita per calcolo, perché questo significa rimanere vincolati al piano dell’esistenza. La vita si riconquista attraverso l’infinito, ma non rimanendo appesi a quel piano, ma ridiscendendo, ritornando ad un mondo trasvalutato, arricchito da valori che derivano dal rapporto con l’eterno. Colui che vuole il mondo “positivo” è il discepolo della scuola sbagliata. Viceversa, colui che vuole riconquistare il mondo è discepolo del possibile. A questi, la realtà sarà restituita, ma nel suo valore anzi con un valore ancora più grande. L’esperienza della fede è paragonata, fra le altre cose, alla risalita, all’esperienza di colui che risale dall’abisso, da cui credevamo di salvarci attaccandoci a ciò che credevamo più vicino. Non sono le cose spiacevoli e negative del mondo a potere educare, perché nel loro accadere non si attua mai il piano che l’uomo non può sperimentare. Questa non è una via giusta, è una via di educazione del finito. È come se l’uomo pensasse di non avere definito una strategia accorta. La strategia si attua a seconda di quella visione propria della possibilità. Il problema non è quello di cambiare rotta: la realtà presenta sempre un alone di causalità e di visione; l’angoscia, che c’è sempre, ci educa anche alla salvezza e il fine della angoscia è la riconciliazione. In questo senso, non è rispetto al giudizio del mondo che la colpa finisce per avere un valore. L’angoscia, educandoci alla possibilità e alla fede, è un modo per redimere la colpa: è solo così che l’uomo può riconciliarsi con se stesso. L’individuo, attraverso questo percorso può imparare ad angosciarsi in maniera autentica. La disperazione è la malattia mortale ed è un po' il punto di fuga ultimo della angoscia. La disperazione è la radicalizzazione della angoscia, è il tentativo illusorio e disperato di potersi auto fondare, di potere riconoscere il fondamento di noi stessi in noi stessi. In questo risultato perverso sfocia la riflessione di chi non trova via di uscita alla sua inquietudine, lo ricerca nel finito e non sta a intravedere la via. Il rapporto che si costruisce è un rapporto che si basa sulla fiducia in Dio, non costruendo una rete fitta di meccanismi anche lucidamente accettata (es. cristiano borghese), perché tutto questo finisce per svelare la problematicità del mondano. Quell’individuo finisce poi per fallire; è il tema del naufragio, caro anche a Jaspers. Il compito centrale di un discorso edificante è quello di suscitare nel singolo una giusta angoscia di fronte al carattere ineffabile. Bisogna intravedere come l’angoscia possa redimerci dal finito attraverso la fede; da questo punto di vista, l’angoscia ha una funzione formativa e può essere superata solo dalla fede e nella fede. L’angoscia, che in qualche modo ci orienta alla fede, ci rende possibile un approccio non più angosciato con il mondo e con il prossimo, al punto che chi ha imparato a essere nella angoscia può andare per strada quasi danzando, capendo che quello è il percorso giusto. 87 causale: questo è un altro gioco della sua regia, perché Kierkegaard è un drammaturgo, almeno da queto punto di vista, perché mette sempre in relazione fra i vari testi. Il gioco delle maschere fa sì che questo pseudonimo si contrapponga a un altro pseudonimo, Climacus. Il primato della relazione rispetto all’identità è, del resto, un principio della filosofia di Kierkegaard. Egli ha spiegato di intendere lo pseudonimo come una forma di completamento rispetto agli altri prima utilizzati; ad esempio, nelle opere estetiche c’è Johannes il seduttore e poi il don Giovanni. Anticlimacus è il completamento dell’altro Climaco, protagonista di Briciole di filosofia e della postilla conclusiva di quel testo del 1846. Lo pseudonimo delle Briciole è appunto Johannes Climacus, teologo bizantino del 6 secolo, autore dell’opera Climax che rimanda alla Scala di Giacobbe30, sogno presente nella Genesi. Climax che cosa è? Questo nome rimanda all’opera principale di questo teologo, un’opera nella quale vengono descritti i gradi della perfezione morale. Climax e Anticlimax sono le due facce contrapposte di una figura retorica di pensiero che è anche detta «gradazione» e che consiste nel disporre parole e gruppi di parole in un ordine di intensità concettuale crescente o decrescente. Un climax produce degli effetti ritmici che vanno o verso l’alto o verso il basso, producendo una sorta di tensione lungo questo asse, tensione ascendente o discendente, che comporta anche una sorta di suspence. La scelta degli pseudonimi è spigata in una lettera a un professore del 1849, in cui si scrive che in tutto il pensiero moderno non si fa altro che scambiare climax per anticlimax , o viceversa. Per cui, tutto ciò che va oltre – e tutto il pensiero moderno va oltre – sale sempre mediante un anticlimax, per arrivare con un volto trionfante salendo a un punto più in basso. Oltre la fede, si arriva al sistema. Si va oltre il singolo e si va alla comunità. Si va anche oltre alla soggettività e si va all’oggettività. Quindi, in realtà si discende: è la prova provata del fatto che l’epoca contemporanea è caratterizzata dallo scambiare il salire con il scendere. Ciò significa che questo pseudonimo, unito a quello di Climacus che c’è in precedenza, nell’insieme guadagni un punto. È l’insieme dei due pseudonimi che costituisce un qualcosa di più grande. Non importa se ci si ricorda il contenuto di uno solo dei due scritti, perché le due parole, climacus e anticlimacus, conserveranno una unità, una armonia che sarà in grado di risvegliare in noi il contenuto di entrambe. Vigilius ha giustamente attirato la sua attenzione sul concetto della angoscia come categoria intermedia rispetto alla tentazione. È questa la vera dialettica della tentazione. Se un uomo potesse essere sempre senza angoscia, la tentazione non lo afferrerebbe mai, perché essa sarebbe in funzione del carattere ineliminabile della angoscia. È solo in questo senso che si può intendere il fatto che il serpente può tentare Adamo ed Eva. La forza del serpente non è costituita dalla sua furbizia e dalla sua astuzia, è la angoscia che come anticlimacus osserva il rapporto di immediatezza, dove si parla della generalità della disperazione. L’angoscia è al suo massimo grado per via del nulla, ed è in questo modo che la tentazione si insinua in colui che soccombe, proprio perché è lui stesso a inventare la tentazione. Essa è qualcosa che l’uomo stesso inventa attraverso il rapporto insano fra angoscia e nulla. È per un nonnulla che ci si sente angosciati: l’angoscia è 30 La scala di Giacobbe (o sogno di Giacobbe) è un episodio biblico descritto in Genesi 28:11-19[1]. In fuga da suo fratello Esaù che aveva giurato vendetta in seguito alla benedizione di Isacco a Giacobbe, la madre di quest'ultimo gli chiese di recarsi ad Haran per trovare una moglie della sua famiglia. Arrivato a Louz, sognò una scala che univa cielo e terra, dalla quale salivano e scendevano gli angeli di Dio. Dio si rivela a lui e rinnova l'alleanza stipulata con i suoi padri. Al risveglio, Giacobbe completò l'alleanza e dedicò il luogo, che d'ora in avanti sarebbe stato chiamato Betel. Betel significa letteralmente "Casa di Dio". Questo nome e l'espressione porta del cielo (Genesi 28.17[2]) alludono anche al Tempio di Gerusalemme. 90 allora appunto primo riflesso dell’infinita possibilità di potere. Quello che qui interessa è però il fatto che l’identità di anticlimacus viene vista come una sorta di diavolo e di spiritello; è l’antagonista di Jhoannes Climacus appunto, il pensatore che puntava il dito contro la finzione della speculazione hegeliana e che, senza troppo impegnarsi ma stando riparato dalla finestra del suo humor, guarda a Cristo come l’unica verità che è stata. Ma Climacus è un filosofo, un discepolo di Socrate; ciò implica il fatto che Jhoannes Climacus non si sente in primis un cristiano, tanto che la sua ambigua difesa del cristianesimo oscillava sempre fra una difesa e un attacco. Anticlimacus si metteva quindi in relazione con il primo: sono entrambi trentenni di Copenaghen, ma anche molto differenti fra loro. Anticlimacus è invece il cristiano eminente e straordinario, non lo è solo nella malattia per la morte ma anche nell’opera intitolata Esercizio di cristianesimo. Se Climacus pensa così in basso da finire per dirsi perfino non cristiano, Anticlimacus si pone come un cristiano assolutamente straordinario, una posizione tetica, che pone un preciso j’accuse nei confronti di un cristianesimo fin troppo modernizzato e mondanizzato. La colpa personale di Climacus consisteva nello scambiare se stesso con l’idealità di quella posizoine. Questo è il suo lato demoniaco. Però, senza pretendere di salvare capra e cavoli, Kierkegaard dice che l’esposizione della idealità che Climaco compie può essere concepita come del tutto vera . Kierkegaard si inchina davanti a lui e si colloca a metà fra Climacus e Anticlimacus. Come Anticlimacus, Kierkagaard fa capire di essere un cristiano straordinario, una straordinarietà che pero tiene per sé, perché si trova solo nella sua inferiorità. Malgrado questa straordinarietà, infatti, Kierkegaard dice che in lui c’è anche qualcosa di maligno: di fatto, assume questa posizione contrastante solo per tormentare Climacus. Se Anticlimacus fosse arrivato per primo, avrebbe detto di se ciò che Climaco diceva di se. Kierkegaard ci vuole far capire che tra queste figure esiste un rapporto di affinità, così come tra il non-cristiano e il crisitano perfetto: non sono gemelli, sono estranei e per qualche verso opposti, ma qui c’è quella dialettica degli opposti esistenziale di Kierkegaard, per cui sono opposti che si attraggono, che si avvicinano l’un l’altro e solo nell’effettivo contatto finiscono poi per respingersi. Questo cosa significa? Entrambi cercano e tendono allo stesso punto: ricercano e vogliono essere un vero cristiano. La loro però non potrà mai essere una relazione di identità, perché sono due posizioni che valgono solo in relazione. Nell’arco ideale della fenomenologia religiosa, Kierkegaard non raggiunge le sue esplicite dichiarazioni del termine ultimo, quello rappresentato da uno stadio di religiosità paradossale. È la paradossalità quella di cui si fa carico un cristianesimo puro. In questa veste, Kierkegaard si avvicina solo alla vita religiosa, ma resta sempre nell’immanenza. Egli cioè resta legato e resta nella posizione dell’umorista e scorge quanto è labile la vita dell’uomo, legata alla vanità e alla contingenza delle cose finite, risolvendo la sua visione della vita in una situazione di scetticismo e di scherzo che non è priva di una serietà religiosa. In Briciole, Kierkegaard afferma che nella sua filosofia umorismo e religione si confondono. Quell’epoca è anche un’epoca impegnata in senso speculativo: gli uomini hanno fatto impareggiabili scoperte, ma chi non sia già in qualche modo santo non resta altra via che quella di approssimarsi al cerchio misterioso della pura religiosità. Poiché la comicità nasce dalla contraddizione, l’uomo religioso ne è sensibile. Dalla religiosità scaturisce il confronto paradossale, cioè quello fra l’assoluto e il relativo, fra l’immortale e la banalità del mondano. Per questo, attraverso lo humor, la Fenomenologia dell’esistenza si articola con sempre maggiore finezza. Siamo in grado di salvare la nostra dimensione terrena e corporea. 91 Le tre diverse situazioni esistenziali sono congiunte fra loro da alcune cerniere di confine, che esso l’ironia e lo humor. In greco, ironia significa dissimulazione, finzione, a cui si aggiunge anche lo humor. L’ironia è la giuntura fra l’estetica e l’etica, lo humor è invece una congiunzione fra l’etica e la religione. L’ironista è colui che si accorge che l’uomo, nella sua immediatezza, non compie questo movimento verso la infinità e finisce per vivere ingenuamente nelle contraddizioni proprie della sua esistenza. L’ironia nasce invece dal carattere particolare della sua esistenza e non dal carattere infinito delle esigenze imposte dall’etica; da questo punto di vista, l’ironista non resta prigioniero rispetto alla relatività, non arretra rispetto alla contraddizione che si manifesta nella relatività stessa. L’ironista diventa quindi sempre maestro rispetto a dei discepoli e nei confronti di coloro che stanno sempre più in basso, ma si illude che il ‘passaggio ulteriore’ non sia compiuto. In realtà, le cose non stanno così: in questo movimento infinito di relatività e fragilità, sorge la vita etica della nostra esistenza. In primo luogo, l’ironia costituisce la premessa esistenziale, è la possibilità della vita etica. Ma se la ironia è la premessa della vita etica, lo humor lo è della vita religiosa in incognito nel mondo. Dal momento che l’umorista, o l’ironista, vive un po' alla maniera in cui lo faceva Kierkegaard, sempre nella sua interiorità nascosta, senza farla trasparire all’esterno, l’umorista non ha la pretesa di insegnare nulla a nessuno – forse questo è più un comportamento da ironista- filosofo. L’umorista invece sfrutta innanzitutto a proprio vantaggio questa qualità interiore. Dunque, se l’ironia ha la funzione di rivelare anche la sufficienza di una sintesi che però è ancora prevalentemente orientata in senso estetico, lo humor invece sottolinea e mette in evidenza la insufficienza di una sintesi prevalentemente orientata in senso etico. Ironia e humor indicano l possibilità di una sintesi ancora più originaria, che non è più la sintesi farlocca che Hegel cercava. La coscienza morale, in fondo, come ogni coscienza, nasce in relazione a una mancanza e si accompagna a un senso di colpa che riguarda il fatto di non avere saputo dare valore a quella relazione a cui non siamo stati in grado di accedere. L’angoscia è il valore di un sentimento non realizzato. A parte la questione degli pseudonimi, è importante capire in cosa consiste il passaggio dalla angoscia alla malattia per la morte, che sembra in qualche modo il calco di una lingua straniera. Kierkegaard voleva chiamare diversamente questa opera; durante la stesura di questa opera aveva pensato a un titolo diverso. Prendiamola alla lontana. Innanzitutto, il lavoro pubblicato nel concetto della angoscia riguardava il peccato originale, un aspetto fondamentale della dogmatica. Il peccato originale veniva così visto nella sua differenza con il peccato attuale; questa non- contrapposizione problematica non fa altro che resettare la partizione dogmatica e classica in cui si distingue fra peccato originale e attuale. Secondo quest’ultima, l’uomo, arrivato all’uso della ragione, commette il peccato attuale con la sua volontà, ma noi sappiamo di essere tutti dei piccoli Adamo. A parte questo, il rapporto i due testi collegati è anche quello che intercorre fra le due parole chiave, cioè angoscia e disperazione, che sono un po' anche parole di senso comune – di fatto, Micali tornerà su questo. L’aspetto della angoscia è un gradiente di un malessere psicologico e umano, ma sappiamo che esso ha origine dallo spettro di problemi che governano il rapporto fra angoscia e disperazione. Ad esempio, nella cultura francese questo libro è stato tradotto con un altro titolo: “Trattato della disperazione” [La maladie à la mort – Le concept de desespoir] – siamo negli anni 30, che sono anche gli anni di Sartre. Anche in questo titolo c’è del vero: in fondo, questo è un trattato, in qualche modo teorico, che riguarda il tema della disperazione, un “trattato fenomenologico” sulla disperazione. 92 un intero, non separabili fra loro. Lo spirito è in funzione della sintesi, non possiamo mai separare uno stadio della nostra esistenza dalla relazione con gli altri. Quindi, anche se all’inizio il rapporto è incerto, siamo sempre in relazione fra anima e corpo, e lo spirito ha sempre questa incombenza che può anche fallire. La dialettica esistenziale si traduce così in una gradualità delle relazioni che si trovano ad essere attuate; in particolare, Kierkegaard ci dice che il divenire colpevole nella angoscia si traduce nel fatto che l’uomo moderno ha, nella colpevolezza, l’essenza dell’essere umano. Chi diventa colpevole, e lo si diventa nella angoscia, lo diventa sempre in maniera ambigua. L’angoscia è quello stato d’animo che è sempre carico di ambiguità e di ambivalenza; l’angoscia è, di fatto, un atto reale. La angoscia allora non è il singolo di cui si comporrebbe un “divenire temporale “che assomiglia molto al tempo spazializzato di Bergson. L’istante è qualcosa id molto più denso e concreto, è il battito di cigli nel quale non c’è solo il presente, ma già una traccia della eternità. L’eterno è allora presente nell’attimo come possibilità infinita, come apertura davanti a sé. La dialettica in senso Kierkegaardiano è infatti sempre relazione far tempo ed eternità, ma nell’istante. L’istante, di fatto, è l’attimo della eternità, non l’attimo del tempo. L’istante indica sempre una situazione temporale attuale, mentre l’eterno indica la possibilità infinita di una armonia dello spirito che può essere ricercata sempre in maniera più adeguata ed elevata. È vero che siamo di fronte a un esistenzialismo cristiano e che tutto ciò che ci dice rientra nella filosofia del cristianesimo, ma quello che stiamo osservando intorno alla filosofia di Kierkegaard non è inapplicabile anche ad un pensiero che sia sprovvisto ai richiami di una filosofia cristiana e barbarica. Porre l’atto della angoscia e porlo come relazione (quindi, come situazione esistenziale) e non come identità (quindi, come necessità dell’essere), significa porlo in una direzione diversa dalle possibili direzioni della nostra vita. Non a caso, la possibilità è la più pesante delle modalità. L’errore commesso da Hegel su questo punto è un errore esiziale, ed è stato commesso non tanto nella Fenomenologia quanto nei Lineamenti della filosofia del diritto, la summa del pensiero etico politico di Hegel. Soprattutto, Kierkegaard polemizza sul rapporto fra tempo ed eternità nell’istante. A detta sua, l’errore di Hegel era stato quello di interpretare la presenza dell’infinito come una sorta di identificazione dell’infinito con il finito, come una coincidenza dell’assoluto con il dato storico. In questo senso, Hegel affermava che ogni filosofia è una filosofia del proprio tempo. La potenza di Kierkegaard, di fatto, è invece quella di essere inattuale. Porre l’atto come l’angoscia è un atto carico di storicità e di temporalità. Porre l’atto come relazione significa di riconoscere una concreta direzione del atemporalità. Al contempo, porre significa porre una relazione far il piano esistenziale e l’infinita e possibile perfettibilità. Il rovesciamento della diletica ha quindi, come aspetti, due elementi intimamente collegati, che poi possono essere ricondotti ad uno. Se la dialettica non vuol essere ridotta a identità astratta, ha bisogno sempre di un presupposto e di una direzione, quindi di un movimento. Il presupposto è la relazione nel modo in cui si attua, è l’atto di una relazione possibile, anche perché non è l’unica. Di più, l’atto, proprio perché la dialettica abbia un senso, proprio perché si muova in una certa direzione, scopre, in quanto attuazione, nell’attimo in cui si attua, la propria irrelazionalità. Di fatto, lo spirito non è mai qualcosa che possa essere racchiuso, è espressione invece di una possibilità che da sempre l’uomo ha. Il presupposto è allora il fatto che l’atto è sempre nel tempo; non è mai né l’assoluto né l’atemporale. Non è mai nemmeno qualcosa di atomico, di semplice, non è un atomo né un archè. 95 Un altro aspetto è il fatto che il fondamento non può mai essere un essere, non è mai nell’ordine dell’essere, ma è piuttosto la possibilità di apertura al divenire. In maniera ancora più profonda, è proprio perché l’attualità della relazione è sempre atemporale che lo spirito, che è così fondamentale, è sempre possibilità e libertà. l’atto della relazione è temporale e lo spirito non può che essere possibilità e libertà che la situazione attuale manifesta. Non si costituisce mai la relazione in atto come la relazione perfetta, non si può mai parlare di uno spirito assoluto né di uno spirito inteso come relazione iniziale e finale ad un tempo. D’altra parte, se ci pensiamo, il passato è qualcosa che è sempre stato, e per quanto si possa risalire all’indietro ci sarà sempre un passato che travalica quel determinato passato. È questo che prende quota e si concretizza in un aspetto fondamentale della filosofia di Kierkegaard. È questo il senso del fatto che nella filosofia ci deve essere un presupposto ineliminabile, perché il senso stesso della esistenza di fronte alla quale naufraga ogni pretesa idealistica di dedurre ogni situazione storica si concretizza in questo. Qui c’è un aspetto che riguarda anche i modi con cui la sua filosofia si atteggia, una filosofia che non è intellettualistica. Per l’intelletto, la impossibilità di un principio generatore rappresenta un po' uno scandalo. Kierkegaard utilizza molto spesso questa parola nella sua filosofia. La pariola “scandalo” in greco vuol dire ostacolo, insidia, impaccio; è qualcosa che, lungo il cammino che abbiamo intrapreso, rischia di farci cadere, e noi dobbiamo balzare questo ostacolo. Per ogni filosofia intellettualistica, pensare a una filosofia che non parta da un fondamento generatore è un vero e proprio scandalo. Tuttavia, se ci pensiamo, questo fa il paio con lo scandalo Kierkegaardiano di una esistenza che sia posta al di fuori della logica. Secondo Kierkegaard, Hegel voleva far questo. Razionale e reale dovevano trovare una loro coincidenza: è scandaloso, per gli altri ma non per lui, non per una esistenza che si sottragga a questo e che non sia trasparente a se stessa. In fondo, nemmeno per la Fenomenologia la coscienza è trasparente a se stessa. Cosa significa essere trasparenti a se stessi? Eliminare dal proprio campo d’azione tutte le possibilità. Tuttavia, esse non si possono, per definizione, eliminare. Questa è anche una presunzione dello stesso demoniaco nei confronti dell’uomo che dispera. L’uomo dispera, oggi lo diciamo ancora di più e per motivi non solo religiosi. In realtà, dal punto di vista della fede, non si può essere davvero disperati fino in fondo. La disperazione è pharmakon, malattia e rimedio, e ci dà il modo non solo per attenuare ma anche per fuoriuscire dalla situazione. Eliminare le diverse possibilità di cui si compone l’esistenza significherebbe porsi dalla parte di una necessità dell’essere che riguarderebbe il modo di autofondarsi. Sapere riconoscere la presenza di questa entità significa necessariamente fare a meno di queta necessità, vuole dire essere autosufficienti, bastare a se stessi. Hegel aveva presentato questo problema, ma aveva anche presentato il problema del presupposto come il fatto che il presupposto deve esser posto per poi essere tolto, anche nel senso della dialettica hegeliana. Anche se è vero che deve essere tolto, il presupposto c’è, e se è un presupposto è tale perché non può essere posto. Diamo infatti per scontato che deve essere tolto, ma sicuramente non può essere tolto. E se lo spirito deve togliere il presupposto, esso non potrà mai dirsi completamente attuato. Non siamo uno spirito perimetrato, siamo costantemente un poter essere. Lo spirito non sarà mai, senza un presupposto, da togliere; perciò, si presenterà sempre come una possibilità infinita. La possibilità, la più grave di tutte le categorie, non ha senso senza un presupposto generativo, che è poi la posizione del passato, è la situazione storica. Del resto, la situazione storica non è mai un antecedente che si configuri come un principio assoluto. Di fatto, il tempo è qualcosa che si dirige sempre di nuovo, sempre rinnovandosi, verso un senso di eternità concepito in senso modale 96 come possibilità. Questo significa che la storia è sempre costituita da una direzione temporale ed è costitutivamente rappresentata da questa direzione. Allora, la relazione è sempre caratterizzata dal tempo, è sempre di carattere temporale, così come è sempre condizionata dal passato ed è aperta al possibile, aperta a quel possibile che in senso cristiano si nutre della perfettibilità della armonia del possibile. Noi dobbiamo essere alla ricerca di una costante perfettibilità di cui lo spirito può sintetizzare. La relazione allora viene scandita su piani differenziati, su orizzontalità e verticalità. Il nodo di questa relazione viene allora ricercato in quella parola così importante per Kierkegaard. A riguardo, non si deve però mai dimenticare che l’assoluto non è una necessità; per questo, il processo storico non può mai essere qualcosa di deterministico. Il fatto di fare un collasso fra necessità ed essere apre senz’altro a una situazione deterministica. Se però tale processo contiene un richiamo a una necessità, ciò è dato dal fatto che non c’è mai un assoluto privo di relazione. Da questo deriva anche tutto il senso della provvidenza di Kierkegaard. Per questi, l’uomo non può essere semplicemente un dato storico, perché non è semplicemente qualcosa di irrelato nella sua datità, né è mai costituito dalla assenza del peccato. L’uomo è ciò che è in quanto deve riconoscersi come colpevole. Di fatto, inoltre, poiché siamo relazione di corpo e anima, siamo sempre portatori della angoscia. L’angoscia è sempre angoscia per una relazione più organica, più elevata, una relazione che non abbiamo ancora attuato. È anche il senso di colpa per un valore che non abbiamo ancora attuato ma che possiamo attuare. C’è sempre angoscia dell’uomo per una relazione più organica determinata dalla presenza, anche se latente, dello spirito. Ma lo spirito è lì, attende solo di entrare in scena. Questa è di fatto la filosofia della esistenza. Esistere significa essere condizionati e vivere allo stesso tempo. Non è una limitazione perenne, perché la condizionatezza fa sì che l’angoscia sia costitutiva dell’uomo e rappresenti la vertigine della libertà, la vertigine dell’uomo nei confronti dell’abisso. Questa metafora ci conduce poi al tema del peccato, all’angoscia come condizione predisponente. Il peccato, del resto, viene sempre compiuto attraverso un salto. L’uomo è portato a saltare attraverso questa situazione, e qui interviene quel passaggio che nessuna filosofia può spiegare. Del resto, proprio perché si tratta di una volontà, non è mai garantito il contenuto di questa volontà. La scienza e la filosofia non sono in grado di domare questo luogo problematico e complesso; del resto, l’uomo si angoscia per questa situazione di fronte a cui si trova. L’uomo non sa se ciò verso cui salta è il bene o il male, ma è spinto a essere trainato dal davanti, a trascendere se stesso nel senso della apertura. L’essere umano è sempre, in qualche modo, spinto a trascendere se stesso, ma la situazione nella quale l’uomo arriverà dopo il salto nessuno di noi sa quale sia. Dipende sempre dalla direzione che ciascuno di noi vorrà assumere per saltare. Non siamo costretti da Dio a saltare bene o condannati a saltare male. Il possibile, che è la più grave e indeterminata delle categorie, la più generalizzata, non è ancor qualificato come qualcosa di negativo o di positivo: siamo ancóra nella terra di nessuno, non siamo né carne né pesce. Siamo in una sorta di stato di sospensione, in uno stato di innocenza in cui ci troviamo fra timore e tremore. Di qui l’insistenza di Kierkegaard su quella che è l’impossibilità scientifica di cogliere l’esistenza. La scientificità non è ancorata a quel tipo di rigore scientifico proprio del metodo – così conveniva anche Husserl. Il rigore che emerge da qui non è qualcosa che sia meno scientifico di quella filosofia che viene spesso contrapposta alla filosofia come pressapochismo. Però, l’insistenza sul salto qualitativo sappiamo che non può mai tradursi in aspetti quantitativi. Il salto qualitativo può essere contemplato solo attraverso il ricorso alla fede: solo nella fede è sempre 97
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