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Appunti su Stanley Kubrick, Appunti di Teoria Del Cinema

Film AnalysisStanley KubrickCinema StudiesFilm History

Analisi dei film + riassunto libro

Cosa imparerai

  • Come la rappresentazione del non-tempo e non luogo differisce tra i due primi film di Stanley Kubrick?
  • Come la narrativa e la rappresentazione del mondo visibile differiscono tra i due primi film di Stanley Kubrick?

Tipologia: Appunti

2019/2020

Caricato il 17/01/2022

michela-tedesco
michela-tedesco 🇮🇹

4.4

(18)

12 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Appunti su Stanley Kubrick e più Appunti in PDF di Teoria Del Cinema solo su Docsity! STANLEY KUBRICK * Tralirismo e classicità. La geografia dell’azione negli esordi di Kubrick Mettendo da parte i cortometraggi prodotti tra il 1951 e il 1953, possiamo parlare di un doppio esordio di Kubrick: il primo lungometraggio è Paura e Desiderio del ‘53, a cui Kubrick fa seguire Il bacio dell'assassino nel ‘55, con cui sembra voler tornare indietro sui suoi passi alla ricerca di un secondo esordio/ ri-partenza, dal punto di vista estetico e produttivo. Negli anni 50 in Usa troviamo due forze opposte tra loro: da un lato lo stile classico hollywoodiano, dall'altro linee di tendenza che porteranno alla nascita della New Hollywood nel decennio a seguire. L'affermazione di un'idea di “autorialità” forte era ancora lontana dall’immaginario americano al tempo degli esordi di Kubrick, ma sono proprio questi gli anni in cui in Francia, sui Cahiers du cinéma, si apre il dibattito che intende valorizzare la figura del regista a scapito della centralità tradizionalmente attribuita al produttore e sceneggiatore. Sul piano produttivo teniamo conto che in quegli anni in America esisteva una doppia via per il cinema indipendente: se da una parte troviamo il rifiuto totale di ogni rapporto con l'industria delle major, dall'altra si cerca una forma di dialogo proprio con quel sistema: con i suoi primi due esordi Kubrick inizia a compiere il passaggio al primo al secondo modello produttivo. Dalla ripetizione al film strutturale Dopo Lolita il regista non si abbandona alla ripetizione, ma continuamente la rielabora facendone un sistema di ricerca e approfondimento per scoprire l'uguale nel diverso. La ripetizione diventa uno stile che coincide con il contenuto, uno strumento stilistico che Kubrick usa per sviluppare un'opera che sia un autentico macrotesto, che rimandi continuamente a sé stessa. La ripetizione diviene anche una poetica, poiché mette in mostra tutto il mondo, soprattutto ciò che c'è di terribile e ripetitivo negli umani. Da questo film in poi l'opera del regista ha come tema le strutture antropologiche dell'immaginario, e proprio la ripetizione gli serve per mostrare che il regno apparentemente sconfinato dell'immaginario umano è in realtà esiguo e poverissimo, ripetitivo, popolato sempre dagli stessi fantasmi: sesso, potere, denaro, violenza. La ripetizione non ha solo una funzione estetica, ma anche tematica: una sarcastica radiografia del mondo che esprime il senso di claustrofobia, prigionia per la constatazione che dietro le più diverse storie e i generi più distanti c'è sempre un grumo di desideri e immagini strutturalmente analoghe, che prendono in considerazione sempre le stesse, poche cose. Tutti i personaggi portati in scena da Kubrick hanno ambizioni napoleoniche, che però li destinano a divenire parodia di sé stessi. Tuttavia, per evitare identificazione con questi personaggi esiste sempre, in ogni film, un punto di vista estraneo e lontano, o una scena che ci distanzia: li osserviamo impazzire nel loro delirio da un punto di vista “disidentificante”, fondato sulla forma stilistica dello straniamento e portato in scena quasi sempre attraverso determinate figure retoriche, come la soggettiva di un personaggio inesistente o un (quasi) infinito zoom all'indietro (ma anche in avanti). Troviamo le soggettive senza soggetto in 2001: Odissea nello spazio e in Shining. Sono il punto di forza del Perturbante, perché se da una parte sappiamo di essere noi a guardare, dall'altra sentiamo che lo sguardo di cui siamo partecipi è superiore, mitico, oltre l'umano: siamo noi e al contempo non siamo noi a guardare. Per quanto riguarda lo zoom lentissimo in avanti o indietro ci troviamo nuovamente di fronte a un paradosso poiché con questo movimento siamo vicini e nello stesso tempo lontani, dentro e fuori. In questi momenti il Perturbante è l'enunciazione stessa, il Perturbante siamo noi. Kubrick e gli attori C'è una sorta di curva, una soglia nel numero dei ciak, entro la quale l'attore raggiunge il suo Zenit e oltre la quale comincia inevitabilmente irrigidirsi e decadere. C'è nel cinema di Kubrick una drammaturgia estetica e tecnica che se da una parte riserva un'egemonia singolare al ruolo dell'attore, dall'altra tende a farlo oggetto di una strategia che punta a ridurne il volto a una superficie inerte, priva di increspature, specchio opaco di una latenza della coscienza. Sul set da una parte c'è un soggetto-autore che prepara ogni film come un piano di battaglia, e dall'altra c'è un oggetto- attore che ha il compito di aiutare o spingere l'autore a scompigliare tale piano. Da una parte abbiamo un cinema che si impegna a ridurre l'attore ad un automa, dall'altra c'è il corpo dell'attore, che si vede consegnato la missione bellarsi ad esso e far sì che succeda qualcosa che valga la pena di essere filmato. La grandezza del cinema di Kubrick non è nella provvista formale delle sue risorse, nella monolitica essenza del suo sguardo, nella capacità unica di gestire e controllare la macchina cinema, la sua grandezza sta nella percezione nitidissima dei limiti intollerabili della fatuità di tale concezione. C'è qualcosa di toccante nel cinema di Kubrick, ovvero il non detto, il non rivelato, del credo nella divinità della regia del regista. Della ricerca di quel punto, quell’inezia, che annulla ogni regia, ogni scelta stilistica, ogni movimento di macchina, e che si impadronisce dell’inquadratura contro ogni volontà autoriale. Questo qualcosa è iscritto nella stessa messa in scena, che mentre allestisce una forma inespugnabile, prepara inconfessabile la registrazione di qualcosa che a tale forma non appartenga e non sia riducibile , e di cui l'attore è il centro propagatore: qualcosa di inspiegabile, insistente e ottuso. PAURA E DESIDERIO, 1953 Se consideriamo un film indipendente al pari di Paura e desiderio, è anche vero che il secondo film inaugura un dialogo con i generi cinematografici rimasto poi costante per l'intera carriera del regista, che si differenzia stilisticamente dal modello dell'art film (modello a cui sembrava voler invece aderire nel suo primo esordio). In Paura e desiderio troviamo una radicale e programmatica volontà autoriale, esibita mediante una costante avversione nei confronti della geografia dell’azione (che secondo Bazin caratterizza invece lo stile classico, in quanto garantisce una naturale adesione dello spettatore ai punti di vista che il regista propone). Questo film può essere descritto come un correlato oggettivo visivo dello smarrimento dei personaggi, per cui lo stesso ambiente finisce per essere una metafora dello spazio mentale. | personaggi sono sopraffatti da un ambiente che non riescono a dominare, che li immobilizzo sul piano narrativo. Da questo costante ripiegare dell'azione estrinseca verso l'introspezione dei personaggi deriva l'effetto lirico e straniante che caratterizza il film. Il film è fondato sul disorientamento dei personaggi, come si vedrà successivamente anche in Shining, lo spazio in cui agiscono i personaggi è uno spazio mentale, come se essi stessero effettuando un viaggio dentro la loro mente e non in uno spazio fisico preciso in un tempo preciso, ad avvalorare questa tesi è l’incontro con il nemico che i protagonisti stanno combattendo, ovvero loro stessi sotto altre vesti, un loro doppio, a significare che la battaglia è contro loro stessi, come se appunto il conflitto fosse interno a loro e non esterno. Nel film è presente anche il tema della follia, rappresentato in modo specifico da uno dei personaggi che preso da un delirio psichico si infatuerà della prigioniera che hanno catturato, tanto da arrivare ad ucciderla per non averlo corrisposto (la scena dell'uccisione è girata come fosse parte di un film muto, precisamente di stampo sovietico, cinema a cui Kubrick deve molto soprattutto per le lezioni sulla potenza narrativa del montaggio, anche senza sonoro, grazie alle scelte estetiche adottate da K, la scena sarebbe egualmente leggibile). In Paura e desiderio ritroviamo, sul piano estetico, un processo di astrazione e di de-individuazione a caratterizzare molti elementi del film: il contesto storico-geografico che trasforma una guerra nella Guerra; la dimensione mentale dei personaggi che diviene predominante rispetto alla narrazione degli eventi, una significanza trascendente. È il montaggio, in particolare, ad assumere in questo film la funzione di trasformatore estetico, fondandosi su una logica di montaggio debitrice delle sperimentazioni di Ejzenstejn e Abel Gance. Spesso in questo film si genera una narrazione disincorporata (sequenze in cui l'azione dei personaggi non è tesa a un'interazione costruttiva con l'ambiente, al fine di raggiungere uno scopo reale e concreto, ma che ci restituisce invece le tracce di una vicenda che ha luogo in un mondo interiore e soggettivo). È questo un procedimento scelto al fine di sollecitare una rete di associazioni tese a privilegiare i procedimenti di estrazione che restituiscono una visione più profonda di alcuni aspetti del mondo, della società o della psiche umana. In questo modo viene generata una forma di piacere filmico “per pochi”, un cinema che non scende a patti con i gusti del grande pubblico. Ma un film artistico in questo senso non è necessariamente migliore di uno che aderisca agli schemi di un impianto narrativo classico: Kubrick stesso rinnegherà il suo esordio cercando vari modi per prendere le distanze da questa “artisticità debordante e troppo esplicitamente esibita”. IL BACIO DELL’ASSASSINO, 1955 La geografia dell’azione viene invece ripristinata nel secondo film, Il bacio dell'assassino: il non-tempo e non luogo del primo film lasciano qui spazio a un'ambientazione urbana tipica di un film noir anni ‘40. Anche dal punto di vista della tipizzazione dei personaggi e della caratterizzazione della loro psicologia e del loro vissuto troviamo una connessione con amiche e canoni ricondu al genere noir (il malavitoso, l'infatuazione tra i due protagonisti che porta a una trama oscura di violenze e ricatti, l'incombenza di un trauma originario che muove la narrazione). La struttura narrativa si fonda su un lungo flashback, ed appare quindi solida e saldamente strutturata. La trama risulta lineare e il film si caratterizza per uno scioglimento finale che non lascia spazio ad aperture interpretative. Sempre in questo film troviamo personaggi portatori di un’azione trasformativa ed efficace, a differenza di quei personaggi che nel primo film emergevano unicamente a livello introspettivo ed esistenziale. Se nel primo film Kubrick aderisce ad un ideale artistico di derivazione romantica, incentrato sulla restituzione di una visione di mondo originale, per evocare significati permanenti, astratti e soggettivi, nel secondo film troviamo un modello più bilanciato, una negoziazione tra una forma alta e un contenuto accessibile allo spettatore medio. Il film comincia, allo stesso modo del precedente, con una voce narrante: ma ci sono notevoli differenze tra i due tipi di narratori, in Paura e desiderio la voce narrante era una voce disincarnata, non apparteneva a nessuno dei protagonisti, nel il bacio dell'assassino la voce appartiene al primo personaggio che vediamo in scena, la voce rappresenta i suoi pensieri e ci offre le coordinate della storia che stiamo per vedere, ci fa intuire che da quel momento in poi ciò che vedremo sarà un lungo flashback che ci riporta a situazioni già accadute. Anche in questo film è presente il tema del doppio, il film inizia con il nostro protagonista di fronte ad uno specchio (simbolo per eccellenza del doppio e dello sdoppiamento). Lo stile compositivo è molto ricercato ma non più disancorato dalla narrazione o dalle traiettorie dei personaggi. Il secondo esordio può essere letto come un tentativo di saldare il nesso tra uno stile visivo riconoscibile, ricercato e non trasparente, con una struttura narrativa caratterizzata dall'azione orientata e compiuta dei personaggi. In questo film vediamo infatti “azioni compiute da umani, allo stesso tempo arcaico e consumato. Kubrick porta lo spettatore alla rottura delle sue abitudini percettive normali. AI contempo, al contrario, questa rottura della percezione sfocia nelle forme più classiche della rappresentazione occidentale. Il film a differenza del romanzo di Nabokov abbassa il livello di erotismo, fortemente presente nel romanzo, e sposta il focus non sul rapporto in se tra Humbert e Lolita, ma sull'ossessione dell’uomo nei confronti della giovane. Analizzando il prologo ci troviamo di fronte ad un ambiente perturbante (una delle tematiche del film) non riconoscibile ai nostri occhi, pieno di riferimenti alla filmografia del regista, in cui i protagonisti invece si muovono e interagiscono con l'ambiente in modo fluido, sentendosi pienamente a loro agio, questa dissonanza tra come percepiamo l'ambiente e come vediamo i personaggi interagire con esso ci provoca un forte senso di straniamento e disorientamento. Altra scena che ci provoca un senso di straniamento è quella della vasca da bagno, il protagonista Humbert si trova immerso nella vasca completamente nudo, mentre alcuni personaggi entrano ed escono dopo aver interagito con lui, anche qui i personaggi sono assolutamente a loro agio, nessun imbarazzo o meraviglia nei loro volti. Kubrick e la coazione a ripetere La ripetizione è la forza dello stile di Kubrick. da un film all'altro le stesse forme stilistiche si inseguono, ma si tratta molto più di una vertigine di ripetizioni, simmetria, autocitazioni: il regista lavora continuamente su determinate forme stilistiche, sceniche e narrative elaborandole all'infinito di film in film. Queste riprese e variazioni dello stesso motivo sono accuratamente mascherati e confuse nell’intreccio. Il suo stile appare fondato sul motivo del Perturbante, ovvero la ripetizione mascherata. Possiamo distinguere tra una ripetizione nelle forme del contenuto e una ripetizione nelle forme dell'espressione: * La ripetizione nelle forme del contenuto: riguarda le strutture dei racconti. Dal suo primo film la forma modello del suo racconto è basata sulla ricorrenza di situazioni e figure analoghe. Si tratta del motivo del doppio, massimamente esemplificato nel film Lolita, dove il personaggio di Quilty si moltiplica (o divide) in 4: in sé stesso, nel finto poliziotto dell'albergo, nel finto professore che si presenta a casa di Humbert e nel misterioso inseguitore. In questo film Kubrick acquista piena consapevolezza della propria poetica (fondata appunto sulla ripetizione) che diviene anche una forma stilistica. Quilty diventa il protagonista del film in quanto ombra di Humbert, ma è anche il suo doppio, perché è colui che realizza la vita gaudente, sensuale e priva di scrupoli che al protagonista è impossibile vivere: Quilty è Humbert, ma anche il suo nemico principale. Nella scena sul portico dell'albergo Quilty parla nascosto nella penombra al protagonista, portando avanti uno strano discorso in cui si innestano due ripetizioni una sull'altra: la prima ripetizione è la ricomparsa di Quilty, che può essere riconosciuto solo dallo spettatore (posizionato in penombra, anche la messa in scena ci suggerisce una situazione psicoanalitica: Humbert cerca di guardare in faccia il suo interlocutore ma non ci riesce, come.se stesse conversando con un fantasma); la seconda ripetizione riguarda le parole da lui pronunciate, che ricorrono ossessivamente e alludono al carattere anomalo del rapporto tra il protagonista e Lolita. Se nella sceneggiatura originale di Nabokov feroci insinuazioni sono ritirate subito da Quilty, che cambia il discorso non appena il protagonista gli chiede di chiarirsi (proprio come accade con il meccanismo del lapsus, in cui si tradisce un pensiero segreto), nel film invece questa conversazione è più lunga, insistente e tenebrosa. Quilty affoga il protagonista sconcertato in un fiume di parole, che manifestano però anche una certa sofferenza. Parte con un tono aggressivo per impigliarsi poi in contraddizioni fatte di malizie, libidine e allusioni. Un interrogatorio in cui, tra ubriachezza, disagio e scherno, Quilty si fornisce da solo le risposte che vuole. * Per quanto riguarda la ripetizione nelle forme dell'espressione notiamo che la messa in scena è molto semplice, simbolica: si tratta di un solo piano d'insieme in cui sono stati inseriti dei primi piani e delle soggettive. Lo spettatore si trova diviso: grazie alla successione delle inquadrature utilizzata, lo spettatore sa chi è Quilty, perché lo può vedere, ma dall'altro lato identifica con Humbert, che è portatore della soggettiva, ma guarda e non vede niente, se non un uomo di spalle. Il montaggio è pieno di simmetrie e rime, una sequenza costruita come si trattasse di un piccolo componimento in due strofe. Ci pone sulla soglia tra un sapere (nostro) e un non sapere (di Humbert). L'assonanza è appunto una delle forme del Perturbante: il ritorno di un suono dentro un'altra parola, o di un'immagine sotto una forma leggermente differente: una ripetizione mascherata ma paradossalmente anche sottolineata, il ritorno di una cosa che è e al tempo stesso non è. Con la sequenza di Quilty mascherato da professore Zempf vediamo come Kubrick risulti affascinato da questo gioco del ritorno e vada ben oltre il romanzo, fornendo di esso non un’interpretazione, ma un adattamento. Un mascheramento diabolica e minacciosa in una situazione psicoanalitica, che sembra alludere al gioco tra coscienza e inconscio, come se Humbert incontrasse la sua ombra. Quilty si fa trovare in casa di Humbert al buio e lo minaccia di condurre un'indagine sulla sua vita privata, promettendo di aiutarlo se lascia Lolita libera di prendere parte a una gita, anomalia di cui il protagonista neanche si accorge. Ritroviamo Quilty anche sotto forma di fantasma telefonico, dopo che ha aiutato Lolita a scappare dall'ospedale. Il mistero per il protagonista rimane fitto finché Lolita stessa dopo quattro anni gli racconta tutto. — [Quilty sembra un’assonanza del termine “guilty”, che in inglese significa “colpevole”. Colpevole dell’allontanamento di Lolita dal protagonista, colpevole di averla aiutata a scappare, colpevole di aver ingannato Humbert con i suoi giochi diabolici, colpevole di aver fatto innamorare Lolita, che a fine film confessa di aver sempre cercato Quilty in tutti gli uomini che ha incontrato, innamorata unicamente di lui.] ARANCIA MECCANICA, 1971 Anche questo film come gran parte dei film kubrickiani deriva da un'opera letteraria. In questo film come anche nel romanzo da cui deriva e dalla transposizione di Andy Wharol ci si trova davanti al problema di rappresentare l’ultraviolenza (nel film di K c'è una lettura molto complessa e stratificata della violenza, e il regista non si schiera mai né pro né contro in modo espicito; il film di W è invece più performativo, veniamo costretti alla visione esplicita e continuativa della violenza verso Alex, che se prima era lui il vettore ora è lui a subirla, non cìè un processo discorsivo, che ci permette di interpretare il film, ma figurativo). Il film mette in scena una specularità tra la violenza individuale (esercitata da Alex e i drughi) e la violenza istituzionale (esercitata dai medici che sottopongono Alex alla cura Ludovico e dallo stato distopico all’interno del quale è ambientata la storia). Nel film è possibile notare come il POV è sempre allineato a quello delle vittime (nella prima parte i personaggi presi di mira da Alex e i drughi; nella seconda parte Alex stesso) in questo modo K pur non allineandosi mai con il POV dell’ultraviolenza, non mettendo mai in scena una visione voyeuristica che la legittima, allo stesso tempo però nell’atteggiamento dei personaggi vettori della violenza, riconduce una spinta vitalistica, la violenza viene vissuta da questi personaggi come forma di liberazione e perseguimento sessuale (al quale l’ultraviolenza viene spesso collegata visivamente) e ci dichiara che tutti, allo stesso modo, siamo vittime di violenza (non solo fisica). La prima inquadratura di Arancia meccanica consiste nel dettaglio degli occhi di Alex, che vengono progressivamente contestualizzati nel volto e nel suo corpo per poi passare all'interno dello spazio del bar grazie un movimento di macchina all'indietro, rettilineo e graduale. Gli sguardi in macchina in questo film non sono solo una palese interpretazione dello spettatore, ma divengono esibizione del meccanismo comunicativo e fascinativo del cinema, un'oggettivazione del suo carattere di macchina produttiva e seduttiva. Lo sguardo di Alex è uno sguardo che non vede nulla, non percepisce e non è rivolto a un personaggio. È uno sguardo fascinativo rivolto allo spettatore con lo scopo di legare fortemente lo spettatore alla macchina enunciativa del film; è uno sguardo affermativo che attesta la presenza forte del protagonista all'interno del film. Sono occhi disomogenei perché quello destro e fortemente truccato mentre l'altro no. Questa contrapposizione tra occhi afferma le componenti anomale e iperaggressive di Alex. Inoltre, sembra evocare il contrasto natura/cultura, pulsionalità/simbolico che attraversa tutto il film. Dà l'impressione di una maschera che assume quindi i caratteri e la funzione simbolizzante. Movimento all'indietro della mdp rivela uno spazio iperqualificato dall'intervento scenografico. Una composizione dell'immagine che oltre ad esprimere un'estrema cura, vuole esprimere un'intenzione di formalizzazione radicale e assoluta di tutto il visibile, segnata dalle due opzioni fondamentali della stilizzazione di Kubrick: ricerca della geometria e della simmetria nell'immagine filmica. Nella carrellata iniziale troviamo un corridoio centrale, con ai lati due fili di manichini di donne nude, stilizzate secondo il gusto della Pop Art. Un'immagine suggestiva, un'architettura di interni formata da oggetti anomali con ingannevoli caratteri antropomorfici. La naturalità dell'immagine viene negata attraverso l'evidenza di assoluta arti ità e struttura ad effetto pittorico, grazie alla simmetria nella disposizione degli oggetti, alla delineazione rigorosa dello spazio e alla linearità del movimento della mdp. Kubrick inscrive negli spazi elementi e oggetti iconici che rinviano alla Pop Art. Le strutture visive sono costruite sui modelli dell'arte contemporanea, delineando un universo in cui tutti gli elementi sono ridisegnati in rapporto all' iconografia pop; un modo di produzione dell'immagine che è quindi segnato dalla trasformazione dello spazio del visibile da un orizzonte di rinvio al mondo dei fenomeni a un orizzonte di rielaborazione di modelli visivi e di opere dell’arte contemporanea. Arancia meccanica è un mondo che ha perduto ogni elemento di naturalità a favore di una totale riscrittura del visibile partendo da modelli artistici e di design che fanno parte di un universo già semiotizzato. La messa in scena di Kubrick consiste anche nella figurazione di un mondo fatto di segni che rinviano ad altri segni, circuito compositivo in cui tutto appare ri-semiotizzato, ripreso, citato. Nulla appare come natura, tutto è citazione ed artefatto. Questa stilizzazione artificiale è anche, al tempo stesso, stilizzazione dell’artificiale. L'artificialità diventa determinazione qualificante di tutto il visibile oggettivato nel film. Il mondo artificiale è il mondo del presente-futuro, è l'affermazione della contemporaneità come fine della natura e avvento del mondo della totalizzazione dei segni. Affermando er-semiotizzato si realizza una trasformazione radicale che investe sia il mondo figurato che quello filmicamente oggettivato. Il modo di figurare la messa in scena porta al superamento della realtà esterna, del mondo oggettivo, tanto ricercato da Nietzsche e dalla cultura del ‘900. Inoltre, Kubrick realizza una frattura potente nei confronti della tradizione cinematografica e della presunta ontologia dell'immagine filmica, per affermare al contrario il mondo come doppio di un modello inesistente. Kubrick afferma l'iper- semiotizzazione come modo di composizione nell'epoca della perdita della realtà, e la rielaborazione totale del visibile come forma della messa in scena al di là del cinema classico e del cinema moderno. La figura del movimento di macchina all'indietro da un dettaglio a un campo lungo ritorna come procedura essenziale anche nelle due sequenze successive (pestaggio del barbone e tentato stupro sul palco del teatro), un modo particolare di oggettivazione del visibile come forma di rivelazione, dato che produce lo spazio visibile come progressivo apparire delle cose. Non utilizza un tradizionale establishing shot perché pensa alle prime sequenze insieme, come una visualizzazione ossessiva di un dettaglio rilevante, come oggettivazione del mondo. In questo modo attiva due movimenti funzionali a due finalità: da un lato, soggettivare il mondo grazie a un'immagine d'apertura dalla forte connotazione feticista e figurale; dall'altro lato oggettivare il mondo come spazio specifico in cui i personaggi sono via via gettati. Presenta quindi sia un'ambiguità costruttiva che una ricchezza. La dinamica di soggettivazione e di oggettivazione che Kubrick attiva riflette le due linee immaginarie che attraversano il film: l'irrompere della narietà ossessiva del soggetto (che è soggetto narrante) e il delinearsi una varietà iper- figurata e iper-semiotizzata del mondo, che lo sguardo mostra progressivamente come segno forte di una mutazione epocale. Nella sequenza del pestaggio del barbone la figurazione dell'immagine e l’oggettivazione dei drughi sono realizzate attraverso le loro ombre, che sostituiscono i corpi dei personaggi, riprendendo espressamente il modello del cinema espressionista. La figurazione del visibile si realizzata sulla base della citazione/ripetizione del modello espressionista di strutturazione delle immagini, si presenta nuovamente come un'immagine iper-semiotizzata che rinvia a altre immagini semiotizzate, e quindi a uno stile preciso di configurazione, in quanto, come succedeva per la Pop Art nella prima sequenza, la costruzione è organizzata sulla base dei modelli di altri arti. La terza sequenza d'apertura è organizzata sotto il profilo diegetico in maniera diversa, ma presenta nella messa in scena analogie con le prime due sequenze, dato che anche essa si apre con un dettaglio (il fregio di una scenografia teatrale) per arrivare, anche qui, a un campo totale con un carrello all'indietro. La violenza che sta avvenendo sul palco è mostrata attraverso quattro inquadrature da diversa distanza che oggettivano l'evento, rendendolo un puro accadimento sottratto a qualsiasi giudizio morale. La messa in scena realizza nuovamente una forte stilizzazione dell'evento: le quattro inquadrature sono coordinate grazie ad accordi sull'asse che imprimono misura e ordine; le immagini sono delineate secondo un principio di corrispondenza e alternanze: la prima e la terza inquadratura offrono un'immagine lontana, la seconda e la quarta sono inquadrature più vicine alle figure sul palcoscenico. Queste procedure di stilizzazione segnano una messa in scena di gusto classico, in cui l'orizzonte visivo è percepito dentro una struttura estremamente ordinata. La quinta inquadratura invece introduce nell'orizzonte visivo una svolta radicale: la mdp è invertita di 180 ° rispetto alle altre inquadrature, costituendo lo spazio come una totalità che la mdp può mostrare senza limitazioni: un carattere differente dal classicismo dalle prime inquadrature che introduce nella messa in scena una variazione forte. Questa procedura realizza un’ibridazione stilistica della messa in scena, un atteggiamento compositivo simile alla mescolanza di stili. Infatti, lo sviluppo della sequenza introduce ulteriori variazioni di registro e stile, con una serie di inquadrature rapide e intensive, montate secondo un ritmo visivo dinamico sulla base di un altro modello ritmico puro, che è quello della musica. Il dinamismo accelerato delle immagini è integralmente ideato, costruito e montato sul ritmo della Gazza ladra di Rossini: seguendone il crescendo il movimento dei personaggi designa un dinamismo che trasferisce nel visibile dinamico l'invisibile del ritmo musicale. La messa in scena è costruita sul modello del ritmo musicale: ancora una volta la messa in scena di Kubrick si manifesta come citazione, ripresa, rielaborazione di un altro modello artistico. In questo modo costruisce un universo visivo che non ha rapporti con il mondo esterno, ma con gli orizzonti autonomi delle arti. L'opzione realistica è disgregata radicalmente e il cinema si afferma con Kubrick come una rete di citazioni ed i riferimenti formali. Ma è poi nella sequenza della clinica dimagrante che lo stile di Kubrick rivela definitivamente il rigore e la plurivocità strutturali. È una sequenza articolata in tre parti che riflettono logiche compositive differenti e perfettamente integrate. Il primo contatto tra i due personaggi avviene attraverso la porta, senza contatto visivo. Qui Kubrick utilizza due diverse logiche di figurazione: le inquadrature degli interni sono organizzate secondo un rigoroso ordine compositivo che privilegia componenti formali geometriche e simmetriche. Le inquadrature degli esterni, montate in montaggio alternato con quelle degli interni, presentano un'organizzazione diversa, sono inquadrature di taglio eterogeneo caratterizzate da movimenti di macchina: se l'interno è caratterizzato dall'ordine e dalla staticità, l'esterno è segnato dalla mobilità intenzionale e metodica. Inoltre, un'angolazione particolare della mdp mostra una scultura fallica: il ricorso ripetuto all'immagine fallica introduce nella violenza una dimensione sessuale che le amiche comportamentali non confermano, come si Kubrick volesse iscrivere nel visibile una componente figurale forte, correlata all' inconscio e al carattere sessuale dell'aggressività. Dopo uno scambio verbale aggressivo la donna si precipita contro Alex e la lotta viene ripresa con una macchina a mano mobile, sviluppando un movimento circolare avvolgente, instabile e dal dinamismo sporco. Dall'inizio dello scontro alle immagini da fumetto pop dell’uccisione della donna, Kubrick monta 15 brevi inquadrature dinamiche frammentando la visione e fornendo al tempo stesso angolazioni diverse e irregolari in un * Il riverbero della voce di Wendy che sottolinea la scarsa intimità dell'ambiente; * Il movimento all'indietro compiuto dalla macchina da presa nel momento in cui Jack caccia Wendy e lei è costretta ad andarsene testa bassa, un movimento che enfatizza la lunghezza del tragitto che dovrà compiere prima di sparire; ® la sequenza in cui Wendy e Danny guardano la tv, e un movimento all'indietro mostra il bambino seduto a terra e la donna sul divano, con uno spazio domestico eccessivamente grande, uno schermo che si fa sempre più piccolo, i suoni che diventano brusio di fondo e le ampie finestre sul fondo della sala che resistono alla creazione del calore domestico, mostrandoci la neve all'esterno. Tutti questi sono esempi di situazioni timità domestica sono mostrati attraverso schemi formali che generano distanziamento, e sono ricorrenti nel film. Cosa è ironico? L'ironia di cui stiamo parlando non vuole essere una categoria che spiega la complessità emotiva dell'esperienza kubrickiana. Essa deve essere spiegata, proviamo dunque a illustrare sinteticamente alcuni tratti dell'ironia basandoci sul modello che ci ha dato dagli studi su l'ironia verbale. | meccanismi a cui esso si riferisce funzionano anche per gli aspetti non verbali del racconto cinematografico. L'ironia è l'atto di affermare il contrario di ciò che si intende, simulando indifferenza ma segnalando l'intenzione ironica. L'ironia emerge cioè nell’intreccio tra ciò che si dice e ciò che non si dice, e con con l'umorismo la propensione verso l'incongruenza, il capovolgimento e la manipolazione delle cornici La messa in scena di Shining, con la sua relazione fluttuante tra esoscheletri narrativi, si presta bene alla creazione di un’ironia intesa come struttura ambivalente dell'esperienza, fatta di precisione descrittiva e segnali di incongruenza formale nella quale si afferma e si nega allo stesso tempo. Poi l'ironia porta con sé una particolare qualità del sentire, conducendo a esperienzare una realtà che è in sé contraddittoria (come risulta evidente dall'esempio già visto della scelta di mantenere alto il livello di voci e rumori mentre mostra dall'alto Wendy e Danny nel labirinto, contraddicendo sia il valore delle voci, serene, attraverso la posizione della mdp, che della dinamica musicale spaventosa. Importante è anche sottolineare che l'ironia implica sempre una specifica intenzionalità da parte di chi parla: è necessario che vi sia almeno un segnale più o meno palese a suggerirne l'intenzione nel testo. Quando esso manca ci troviamo in un regime post-ironico. Ripensiamo gli esempi citati prima di alcune situazioni in Shining che sono ironiche in maniera difficilmente constatabile, altre possono essere lette come tali pur se affiancandosi a tonalità emotive incongruenti, mentre altre ancora rimangono sulla soglia dell'indecidibilità, tra ironico letterale. L'ironia consiste infine nel mettere in prospettiva un evento, ovvero nel costruire un frame di senso che consente a chi parla di esprimere più o meno implicitamente una propria valutazione. Così facendo chi parla si pone a distanza e in posizione di superiorità, emette un giudizio di valore che può divenire sarcastico. Tanto le istanze narranti, quanto il personaggio di Jack, in Shining, suggeriscono una prospettiva “olimpica” a partire dalla quale possiamo osservare la perdita di senso o di valore degli eventi, resi così disponibili a divenire bersaglio di uno sguardo ironico. Accanto all'ironia verbale esistono anche un'ironia situazionale e un'ironia drammaturgica (questa si produce a partire da una fondamentale asimmetria tra la prospettiva di un personaggio ignaro e quella di un osservatore che ne sa più di lui). AI cinema, l'ironia si manifesta in forma situazionale, drammaturgica ma anche comunicativa, quando si determina una giustapposizione tra la posizione limitata del personaggio e quella del narratore, che pure finge di seguire quella prospettiva limitata. In Shining sembra che l'ironia comunicativa costituisca il luogo intorno al quale si sono coagulate le sperimentazioni di Kubrick per l'elaborazione di un tono emotivo ambivalente. La scansione cronologica operata dai cartelli di Shining (colloquio, chiusura, un mese dopo, martedì, sabato, lunedì, mercoledì, ore 16) costituisce un ambito temporale in cui l'ellissi diminuiscono d'intensità fino a lasciare il posto a una sorta di tempo reale. D'altra parte le visioni di Jack e Denny immettono nel presente una quantità via via maggiore di passato. L’effetto totale è che il tempo, se da un lato tende a restringersi dall'altro tende a espandersi: il personaggio del custode finisce col rivelarsi eterno. Shining si caratterizza per l'indicibilità fra soggettive reali e allucinatorie, tra flashback e flashforward. Nel finale di Shining Jack muore e contemporaneamente nasce, questo è il senso della pseudo soggettiva che entra nel nero della fotografia: la tragedia gni essere umano è quella di essere un identità qualunque tra moltep! equiprobabili, di vivere una vita qualunque fra le infinite ipotizza! i esistere per un tempo finito compresso tra due tempi infiniti (l'eterno prima e l’eterno dopo). Shining è una meditazione non verbale sulla morte: non un film dell'orrore ma un film sull’orrore, ovvero sul mistero del tempo nei suoi rapporti con l'essere. Kubrick persegue le visioni più ironiche, eroiche, allegoriche o terrificanti attraverso una scrittura filmica fatta di semplici annotazioni fotografiche, la cui complessità emerge soltanto dalla letteralità. Non selezionare secondo valori psicologici ma anzi descrivere minuziosamente significa anche rimanere indifferenti senso. rispetto agli eventi. In Shining, e in tutta l'opera di Kubrick, questa enfasi sull'’ambivalenza finisce per generare una paradossale inquietudine ironica, ovvero un gesto di allontanamento da ogni tentativo di conciliazione estetica tipica del sentire del ‘900. Un sentire che tende a lavorare sull’'esplorazione delle differenze, mentre Kubrick lavora su situazioni di vera e propria polarità, di totale opposizione (musica spaventosa + immagine serena madre/figlio + punto di vista sopraelevato di Jack). Di questa forma novecentesca del sentire, nella quale affermazione e negazione sono compresenti, Kubrick è stato uno dei principali interpreti in ambito cinematografico. L’ambiguità del senso; La dinamica per cui situazioni ed eventi vengono mostrati con precisione letterale ma il loro senso risiede altrove; La risposta emotiva contraddittoria che ne emerge: tutti questi elementi costituiscono il cuore dell'esperienza strutturalmente ironica che Kubrick ha offerto ai suoi spettatori. Questa modalità qualifica quella forma del sentire alla quale ci riferiamo quando utilizziamo l'aggettivo “kubrickiano”. FULL METAL JACKET, 1987 Uscito sette anni dopo l’ultima fatica del regista Shining il film è la trasposizione del romanzo The Short-Timers, pubblicato nel 1979 da Gustav Hasford, un reduce del Vietnam. Il romanzo, scritto con un linguaggio lapidario e gergale, raccontava della formazione - brutale, corrosiva e inutile - nel campo di addestramento di Parris Island, seguita dal confronto con la realtà della guerra in Vietnam, e in particolare con la fase corrispondente all'Offensiva del Tét, tra il gennaio e il febbraio del 1968. Il risultato è un film abbastanza fedele al libro (benché il racconto di Hasford sia più forte, grottesco e cupo), con alcune trasformazioni rilevanti. La più evidente è quella del titolo: l'espressione full metal jacket non ricorre mai nel testo di Hasford, il titolo scelto da Kubrick non immediatamente comprensibile, e non solo per un pubblico non anglofono, dato che fa riferimento a un termine tecnico relativo ai proiettili: un rivestimento di rame (una “camicia” di metallo) che permette di farli scorrere più agevolmente all'interno della canna, garantendo velocità, potenza e precisione. Nel film è il soldato Gomer Pyle (“Palla di Lardo” nella versione italiana, interpretato da Vincent D'Onofrio) a scandire quelle parole un attimo prima di uccidere il sergente Hartman (R. Lee Ermey) e rivolgere poi il fucile contro se stesso. La violenza subita e la scoperta delle potenzialità dell'arma determinano lo scoppio di una doppia violenza, contro la brutalità del contesto istituzionale e contro se stesso e la propria follia. Tutto il film mostra il tentativo del soldato Joker (Matthew Modine) di non perdere la propria sanità mentale e la propria morale, senza essere tuttavia un eroe, riprendendo il tema della dualità già indagato con Fear and desire. Il tema del doppio è presente anche in questo film, emblematizzato dal personaggio di Joker, sul cui caschetto campeggia la scritta “born to kill”, mentre sul suo petto c'è una spilla col simbolo della pace, in un'ironica, o meglio grottesca esibizione delle pulsioni umane, opposte e inconciliabili (quelle della violenza e della brutalità e quelle buone e pacifiste). Nel film, ma soprattutto nel libro è la reazione di un colonnello al simbolo della pace a fare comprendere come non ci sarà mai dialogo tra chi riflette sulla dualità e l'ambiguità dell'essere umano e la dinamica dell'obbedienza agli ordini per un assoluto, indiscutibile, fideistico amor di patria. Il film può essere diviso in due parti ben distinte, anche per via della differente location. Nella prima parte Il ci troviamo nel campo di addestramento, un luogo chiuso, di rituali ossessivi che devono forgiare i marines attraverso la pedagogia dell’umiliazione, annichilendo l’emozionalità e puntando al vuoto cerebrale. Il processo di degradazione umana inizia già sui titoli di testa, al ritmo di Hello Vietnam (un country grottesco che ci immerge già nel mood del film), avviene la rasatura rituale delle reclute: primo atto della loro standardizzazione. Da quel momento le reclute subiscono un addestramento umiliante e destabilizzante, che incide sui nervi e la psiche, per essere trasformati macchine da guerra in grado di non esitare al momento giusto, quello in cui si troveranno davanti al nemico. Tuttavia, nulla del mortificante periodo di formazione sarà loro utile in Vietnam. Il rigoroso ritmo narrativo e la condensazione dei passaggi temporali dell’addestramento si articolano attraverso la simmetria dei luoghi e la profondità di campo. Viene poi introdotto nel mondo diegetico un'alterazione: Lawrence “Palla di lardo”. Dal suo ingresso l'istanza narrante decide di modificare la normalità delle sequenze dell'addestramento aprendo l’immagine con carrellate ottiche che isolano il volto del personaggio quando smette di ripetere le parole che i compagni ripetono in coro, sottraendosi definitivamente all’assimilazione passiva del gruppo. Ma la debolezza del personaggio è eversiva. Attraverso il rituale della manutenzione del fucile la sua mente si fissa sulla finalità omicida, ovvero l’obiettivo del loro addestramento. Il tanto ripetuto “uccidere o essere ucciso”, nella mente delicata di Palla di Lardo si trasforma in realtà, nel modo più tragico possibile. Dopo 8 settimane diviene un marine, ma il suo sguardo vuoto si fissa ben oltre la mdp, verso un altrove incomunicabile, indicibile. Con rapida sequenzialià l’ultima notte prepara il suo fucile, uccide Hartman e si suicida. La prima parte termina in modo drammatico, come ad anticipare la drammaticità e la brutalità della guerra a cui dovranno andare incontro. Il cambio di scena è brutale: sulle note di These boots are made for walking, veniamo scaraventati, insieme al plotone, in Vietnam, al centro dell'azione. La camera segue i passi di una prostituta sudvietnamita nella città di Da Nang, retrovia dei combattimenti e sede della base americana. Dalle baracche ossessivamente ordinate del campo di addestramento si passa al caos della città asiatica, poi al campo dei marines e ai primi segni della guerra, che irrompe improvvisamente con l'attacco nordvietnamita durante la tregua del Tét. Il soldato Joker viene inviato al fronte insieme a Rafterman (Kevyn Major Howard), il fotografo, con il compito di seguire l'andamento della battaglia per Stars & Stripes, la rivista dell'esercito. Il passaggio alla zona di scontro è graduale: un volo in elicottero sulla pianura e le risaie (durante il quale avvengono le scene più violente del film, ovvero gli spari di mitragliatrice dall'alto sulle donne, gli uomini e i bambini che scappano e cercano invano di nascondersi), poi una marcia lungo un canale fino a una fossa comune. L'arrivo a Hué è segnato dall'apparire delle architetture tradizionali - portali e tetti a pagoda - accompagnate da Wooly Bully un brano euforico dal testo non-sense. Anche qui, come avviene in Apocalypse Now, assistiamo ad una spettacolarizzazione della guerra (come attesta la troupe di documentaristi che esorta i soldati a “essere come in un film di guerra”, cercando una rappresentazione quasi mitica dei marines) vista con gli occhi dei soldati, filtro allucinatorio, fortemente compromessi a livello mentale. In questo film è precisata la rappresentazione dell’estenuazione della tragedia, dello svuotamento dell’azione drammatica. La narrazione è destrutturante. Il Vietnam è il tempo e luogo dell’attesa. Il percorso che conduce a Huè ci porta a uno stallo di 25 minuti in cui moriranno 3 soldati. Un'alterazione del tempo notevole rispetto alle rapide sequenze dell’addestramento. Nel film va inoltre sottolineata la costruzione, molto complessa, della soggettività, sia visiva che stilistica. Da una parte abbiamo la soggettività dei soldati, dall’altra quella della MDP che segue costantemente l’azione attraverso l’uso di steadycam, camera car, carrelli, long take e obiettivi grandangolari. La soggettività della MDP sembra allineare il POV con quello dello spettatore. Altro POV molto particolare che K, mette in scena è quello dei cadaveri, la MDP posta a terra segue l’azione dei soldati ancora vivi, in questo modo il regista sembra volerci dire che non possiamo e non dobbiamo assolutamente dimenticarci di tutti coloro che hanno perso la vita, siano essi nemici o commilitoni. Nella scena del cecchino è di nuovo presente il tema del doppio, questa volta emblematizzato dalla donna vietnamita cecchino (in quanto donna donatrice di vita, qui invece portatrice di morte ), in questa scena inoltre vediamo come anche il nemico (che in molti film non era che mera presenta minacciosa per i protagonisti, vedi Ombre Rosse di John Ford) venga umanizzato e soggettivizzato, agli occhi dei militari Americani che si rendono conto che entrambi sono ormai segnati da un destino mortifero, tanto che Joker arriva a compiere un atto di estrema empatia nei suoi confronti, uccidendola invece di destinarla ad una lenta e sofferente fine. La scena finale, come molti film di K, ci destabilizza e ci presenta delle dissonanze tra ciò che vediamo (i soldati che continuano il loro cammino segnato da devastazione e morte) e ciò che sentiamo (la marcia di Topolino canticchiata dai soldati), lasciando a noi il compito di interpretare ciò che abbiamo visto e chiederci se la marcetta finale intonata dai soldati sia segno della loro umanità non del tutto rimossa o sintomo della compromissione ormai totale delle loro menti.
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